Prigionieri della Terra

di Astry_1971
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cap. 1 - Antefatto ***
Capitolo 2: *** Cap. 2 La profezia. ***
Capitolo 3: *** Cap. 3 O’ Monaciello ***
Capitolo 4: *** Cap. 4 La città sotterranea ***
Capitolo 5: *** Cap. 5 La ragazza della Cava ***
Capitolo 6: *** Cap. 6 Una storia incredibile ***
Capitolo 7: *** Cap. 7 L'importanza dei ricordi ***
Capitolo 8: *** Cap. 8 Il mago cieco ***
Capitolo 9: *** Cap. 9 Diego ***
Capitolo 10: *** Cap. 10 La casa in città ***
Capitolo 11: *** Cap. 11 Di nuovo alla cava ***
Capitolo 12: *** Cap. 12 Il bambino perduto e il bambino ritrovato ***
Capitolo 13: *** Cap. 13 In cerca di Giona ***
Capitolo 14: *** Cap. 14 Estremi rimedi ***
Capitolo 15: *** Cap. 15 Ospiti indesiderati ***
Capitolo 16: *** Cap. 16 La fuga ***
Capitolo 17: *** Cap. 17 Compagni di cella ***
Capitolo 18: *** Cap. 18 Un tragico inizio ***
Capitolo 19: *** Cap. 19 Il ponte ***
Capitolo 20: *** Cap. 20 Una visita per il prigioniero ***
Capitolo 21: *** Cap. 21 Un antico amore ***
Capitolo 22: *** Cap. 22 Una faticosa marcia ***
Capitolo 23: *** Cap. 23 Solo per amore ***
Capitolo 24: *** Cap. 24 La mappa del tradimento ***
Capitolo 25: *** Cap. 25 Nella torre di Lunet ***
Capitolo 26: *** Cap. 26 Terrore nei cunicoli ***



Capitolo 1
*** Cap. 1 - Antefatto ***


Cap. 1 (Antefatto)


Il giovane Anedjib si guardò attorno: centinaia di persone, tutte quelle che lo avevano seguito nel suo folle viaggio, erano accalcate l’una contro l’altra nello stretto passaggio. S’udivano urla di bambini, uomini che incitavano a fare in fretta, lo scalpicciare dei calzari sulla pietra, e un odore nauseabondo di muffa misto a sudore e sporcizia gli pungeva le narici.
Il cunicolo era completamente buio: la luminescenza che rischiarava il mondo sotterraneo li aveva abbandonati non appena varcato l’ingresso della galleria.
“Ci siamo, ci siamo quasi!” gridò qualcuno con la voce rotta dall’affanno.
Era così, infatti: dopo giorni di cammino in un labirinto di gole, grotte popolate da creature mostruose, sconfinate pianure coperte di crosta lavica, quando ormai erano ridotti allo stremo, finalmente la speranza si era riaccesa.
Quello era il luogo dove, secondo i suoi calcoli, la Porta si sarebbe spalancata permettendo loro di raggiungere il mondo della luce. Anedjib li aveva guidati alla ricerca del mondo descritto nelle leggende e nei racconti di chi era giunto in quel luogo di tenebra attraversando la soglia magica, i pochi ai quali la grotta del sonno non aveva cancellato la memoria, il mondo che lui aveva sognato di vedere fin da bambino.
Aveva fantasticato sulle sue città popolose, le ricche foreste e le enormi distese d’acqua, illuminate dalla gigantesca sfera di fuoco che volava nel cielo. Aveva cercato di immaginare il colore azzurro dell’immensa cupola che proteggeva quel mondo, e che diventava nera e punteggiata di piccole fiaccole quando il sole si nascondeva dietro le montagne. Aveva sognato di vedere gli animali con le ali che galleggiavano tra la terra e il cielo. Non solo lui, tutti avevano fatto quel sogno, almeno una volta, ed ora il sogno stava per realizzarsi.
In quel punto la barriera che li separava dalla superficie era più debole ed era certo che sommando la sua energia con quella di suo fratello Ay e degli altri Discendenti sarebbe riuscito a spezzare l’antico sortilegio che li teneva prigionieri da generazioni.
Anedjib appoggiò la schiena alla parete di roccia cercando di regolare il respiro reso affannoso dalla lunga marcia.
La tunica bianca che indossava come tutti gli appartenenti al suo rango era strappata in più punti e i piedi scalzi erano coperti di piaghe.
Gli dolevano tutti i muscoli. Si guardò le mani: le unghie erano spezzate e la pelle era coperta di graffi.
Non era stato certo un viaggio facile. Per fortuna, nonostante i pericoli che avevano dovuto affrontare, se l’erano cavata, pur se con qualche ferita e molto spavento.
Era stata una pazzia portare con loro donne e bambini, ma come avrebbero potuto convincerli a rinunciare a quel viaggio e alla prospettiva di tornare a vivere alla luce del sole?
Piccoli rivoli di sangue continuavano a scivolargli dalle nocche mescolandosi con la sporcizia. Si pulì la mano sulla stoffa della tunica e sospirò, osservando un gruppo di bambini che si trascinava appoggiandosi al muro come avessero cento anni. Si fece forza drizzando le spalle doloranti, mentre cercava di immaginare quanto potessero essere stremati loro.
Non avevano potuto fermarsi, neppure per poche ore: i Segugi li avevano quasi raggiunti.
Anedjib sapeva che, se avessero fallito, sarebbero andati incontro ad una morte certa.
Attraversare la soglia era proibito. Quelli che avevano tentato non erano riusciti nell’impresa, e a nessuno di loro era stato permesso di sopravvivere e quindi di raccontare ciò che avevano visto attraverso la barriera, alimentando così la leggenda di un sole distruttivo, in grado di incenerire chiunque non fosse nato sotto i suoi raggi.
Il terrore di morire arsi dall’enorme sfera di fuoco, aveva tenuto prigioniero per secoli il popolo delle città sotterranee.
Le labbra del giovane stregone si piegarono in un sorriso quando una donna cercò di farsi largo tra la folla spintonandolo. Anche lei indossava la tunica bianca e aveva un bambino in braccio. Giunse a tentoni ad attirare l’attenzione di un uomo alto che teneva una torcia in mano.
Sentendosi afferrare lui, un altro Discendente, si voltò di scatto, e la luce tremolante gli illuminò il viso pallidissimo.
“Dammi il bambino!” gridò l’uomo, cercando di superare il frastuono della folla. “Dammelo, o finirete entrambi schiacciati.”
“Dov’è Kahel?” domandò apprensiva la donna, mentre i suoi occhi passavano in rassegna centinaia di volti che apparivano e sparivano illuminati dalle torce.
“Non lo so, era davanti a noi con sua moglie e il bambino. Dobbiamo proseguire, li ritroveremo all’uscita.”
Sì, si sarebbero ritrovai tutti all’uscita, e sarebbero stati tutti vivi. Pensò Anedjib fiducioso, con l’entusiasmo tipico della sua giovane età.
Era certo che chi aveva alimentato quelle paurose leggende doveva avere ben altre ragioni per non voler risalire in superficie che non una stupida superstizione. La legge spietata, che condannava all’oblio tutti coloro che dal mondo della luce finivano laggiù attraversando accidentalmente la soglia, e alla morte quelli che tentavano di nascondere ai segugi i figli del sole nella speranza di ricondurli al loro mondo, era solo frutto della paura. Forse gli Dei avevano sigillato le porte secoli prima intrappolando il suo popolo in un limbo oscuro, per timore dei figli della luce, quegli stessi uomini che secoli, millenni prima si erano inginocchiati davanti al loro potere?

La mano di Anedjib cercò quella della donna che gli stava accanto: una graziosa ragazza il cui abbigliamento stonava decisamente rispetto a quello degli altri.
Aveva una stretta gonna blu che le arrivava fin sotto al ginocchio, stivaletti di pelle nera e una camicetta bianca con il colletto di pizzo. I capelli biondi erano acconciati in uno chignon.
Vittoria era una figlia della luce, ed era la donna di cui si era innamorato e per la quale aveva deciso di intraprendere quel viaggio.
Anche lei era arrivata nel mondo sotterraneo varcando la soglia per caso, come altre centinaia di uomini e donne inconsapevoli e senza alcun potere, che si erano ritrovati, loro malgrado, nel sottosuolo, in balìa di un mondo ostile, bloccato nel tempo.
Anedjib era rimasto folgorato dalla sua forza, dalla sua volontà di tornare a casa.
Il desiderio di lei era diventato il suo, come se lui stesso non potesse più fare a meno del calore, della luce e dei colori di un mondo che riusciva solo immaginare.
Per lei si era unito a quel gruppo di uomini che cercavano di tornare alla superficie, li aveva aiutati con le proprie facoltà a trovare la porta e, entusiasta, aveva trascinato con sé anche suo fratello Ay e altri Discendenti che, come lui, desideravano vedere finalmente il sole.
Erano partiti portando con sé sogni e speranze.
Avevano rischiato tutto, rinunciato a famigliari e amici. Abbandonando anche molti figli della luce ai quali la grotta del sonno aveva strappato i ricordi: troppo pericoloso informarli del loro tentativo, il viaggio era già abbastanza rischioso senza doversi preoccupare di eventuali traditori e spie.
Le piccole dita di Vittoria tremavano. Lei abbozzò un sorriso incerto, sforzandosi di apparire coraggiosa.
“Ce la faremo, ormai siamo arrivati.” La rassicurò il mago.
Si morse il labbro, mentre un brivido gli percorreva la schiena: e se si fosse sbagliato? Se ad attenderli non ci fosse stata nessuna porta?
Anedjib scrollò il capo e decise di ignorare quel pensiero.
Sollevò lo sguardo; suo fratello Ay era poco più avanti. Aiutava una vecchia e un bimbo che lei chiamava Diego e che non doveva avere più di quattro anni. Forse era suo nipote. Anche lei era una figlia della luce, giunta lì vent’anni prima, o quaranta. Il bambino probabilmente era nato lì.
Era facile riconoscere i figli del sole: avevano una carnagione più scura rispetto a chi, come lui e Ay, apparteneva a quel mondo da molte generazioni. I loro volti erano, infatti, di un pallore quasi spettrale per non aver mai visto il sole. Nel suo caso il candore era reso ancor più evidente dalle pupille nere come la notte che creavano un insolito contrasto.
Anche i capelli erano scuri e lunghi, raccolti dietro la nuca da un laccio.
Suo fratello Ay era più basso, lui l’aveva sempre sbeffeggiato per questo. Aveva capelli corti e ricci, e una barba ben curata ne rendeva più affilato ed elegante il mento.
Dei due fratelli, il maggiore era quello che somigliava di più al loro padre, anche come temperamento: Ay era stato sempre quello più avventato.
Fino a quel momento, fino a quella follia.
Il giovane stregone rabbrividì al pensiero che, se avessero fallito, proprio il loro genitore sarebbe stato fra quelli chiamati ad emettere la condanna, e non avrebbe esitato a pronunciarla.
La loro famiglia sedeva nel Consiglio da generazioni; loro stessi, un domani, sarebbero stati chiamati a farne parte. Erano rimasti in pochi a conoscere i segreti dell’antica magia e quei pochi avevano il diritto di dominare sugli schiavi.
Ma lui non ambiva a governare in quel mondo di eterna notte dove solo i morti avrebbero dovuto stare. Anedjib voleva andarsene.
Forse non avrebbe mai rischiato una simile impresa se non fosse stato per Vittoria. Non avrebbe tradito la volontà dei Sapienti, per salvare gli abitanti di un mondo che non aveva mai visto, se lei non fosse entrata così prepotentemente nel suo cuore.
Ormai desiderava solo trascorrere la vita con la sua compagna in un mondo illuminato dal sole.
Si era unito agli schiavi e ai rivoltosi e li aveva guidati fin lì. Ora non restava che attraversare una soglia.
Anedjib si staccò dalla parete e riprese la marcia continuando a stringere la mano della donna che amava.
Poco distante un altro uomo urlò.
“Siamo giunti al passaggio, che l’astro ci illumini!”
Ci furono grida di esultanza, molti cominciarono persino a cantare.
Anedjib aiutò Vittoria a superare un dislivello del terreno, poi afferrandosi alla parete di roccia si issò per raggiungerla.
Davanti a loro si aprì uno spiazzo, il soffitto era basso e claustrofobico, e ben presto la folla che seguiva i due uomini si riversò in quello spazio, colmandolo come un onda di marea.
“Ed ora che facciamo?” domandò Vittoria.
Lui le prese la mano e se la portò alle labbra. “Guarda.” Rispose, con un sorriso carico di dolcezza.
La folla si divise, dal gruppo si staccarono una decina di uomini, indossavano tutti una tunica bianca e tutti erano ugualmente pallidi.
I Discendenti, compresi lui e Ay, si disposero in cerchio, appoggiati alle pareti. Il resto della folla rimase nel mezzo.
I Maghi sollevarono le braccia e, spalancando la bocca, iniziarono ad emettere un suono grave e prolungato.
Un’insolita brezza prese a soffiare nella grotta e corpi delle persone al centro iniziarono a perdere consistenza.
Anedjib guardò Vittoria e sentì il cuore balzargli nel petto. Non aveva mai provato una simile gioia.
“Il passaggio si apre.” Mormorò con voce rotta dall’emozione.
“Presto, tutti verso il centro, entrate nel passaggio.” gridò Ay e, prendendo per mano Vittoria, spinse anche lei verso il punto che aveva indicato.
La folla venne come risucchiata nel nulla. Uomini e donne continuavano a camminare verso il centro della caverna, ma lo spazio non si riempiva mai, sembravano attraversare un muro invisibile.
Anche Anedjib fu trascinato dalla marea umana e si ritrovò nel mezzo. Di fronte a lui stavano Vittoria e Ay. Anedjib lo guardò mentre con il braccio cercava di proteggere la ragazza dalla calca e gli sorrise, ma qualcosa nella sua espressione gli cancellò il sorriso dal volto, come una folata di vento avrebbe cancellato un’orma sulla sabbia.
“Ay!” gridò. “Ay, che vuoi fare?”
All’udire le sue grida, Vittoria si voltò verso Anedjib. Vide l’uomo di cui era innamorata tendere il braccio verso il fratello che, invece, aveva sollevato il suo stringendo in mano una pietra luminosa.
“Ay, no! Li ucciderai tutti.” Alle sue grida ormai si erano sommate quelle di altre cento persone. Nessuno aveva capito quello che stava per succedere, ma la disperazione nella voce della loro guida li aveva gettati nel panico.
“Ay, ti prego, sei mio fratello!” lo supplicò.
“Lei è mia.” Disse gelido l’altro e gettò al suolo la pietra che si frantumò in decine di schegge lucenti, uniche stelle in quel mondo senza cielo.
Le pareti della grotta furono scosse come da un terremoto. Un boato riempì le loro orecchie precipitandoli nell’orrore.
“Vittoria!” Il più giovane tra i due fratelli tese il braccio tentando di afferrare le dita che solo un istante prima aveva baciato e che ora, lo sapeva stava per perdere per sempre.
Suo fratello stava trascinando Vittoria via da lui. Verso la luce, verso il mondo che tutti loro avevano sognato di vedere.
Avevano studiato gli antichi libri, le leggende. Per anni avevano preparato la loro fuga, mentre l’amore per quella donna venuta dalla luce si fortificava. Lei era l’ispirazione, i suoi racconti, i suoi ricordi, li avevano portati a quel giorno.
Non poteva perderla, non voleva tornare al suo mondo di oscurità.
Il corpo della ragazza, di Ay e di tutti quelli che si trovavano all’interno del passaggio si allontanavano sempre più, mentre gli altri che non erano riusciti a raggiungere la soglia furono scaraventati indietro.
Folle d’amore Anedjib si gettò contro il fratello contrastando la forza che invece lo spingeva lontano. Si aggrappò alla sua tunica sperando di essere trascinato con lui dall’altra parte.
Sollevò lo sguardo e vide Vittoria e tutti quelli che avevano raggiunto l’uscita mentre venivano investiti da una luce accecante.
“Il sole, è il sole.” S’udì gridare.
Ma fu solo un istante, poi tutto tornò buio.
Ay si voltò, Vittoria era dietro di lui, la sua mano tesa cercava di afferrare quella di Anedjib, tuttavia non tentò di fermarla, il suo sguardo era stato attirato da quel raggio di sole immediatamente scomparso, e la sua espressione divenne feroce.
“Il passaggio si chiude.” Ruggì in preda al terrore. “Torniamo indietro! Dobbiamo tornare indietro!”
Afferrò Vittoria per un braccio e la spinse di nuovo verso il proprio fratello, ma la mano di lei non raggiunse mai quella tesa dell’altro, le sue dita divennero scure e rigide come roccia. Tutte le persone che si trovavano all’interno del passaggio e si erano accalcate dietro di lei subirono la stessa sorte. La soglia chiudendosi stava tramutando lo spazio in bilico fra i due mondi in pietra imprigionando la gente al suo interno.
“Noooo!” Il grido agghiacciato di Anedjib rimasto fuori si sommò al frastuono della grotta che aveva iniziato a franare.
Era paralizzato dall’orrore, gli occhi fissi sulle dita di lei. Era come se una colata di fango le avesse ricoperte e poi si fosse seccato rendendole rigide e screpolate.
Le urla degli scampati gli riempivano le orecchie.
Una donna era caduta in ginocchio davanti alla montagna di corpi tramutati in pietra, un enorme pilastro roccioso in cui erano ancora riconoscibili volti e mani tese. Come fossero lava fuoriuscita dalla bocca di un vulcano invisibile e immediatamente solidificata.
La povera disperata aveva le braccia allargate e continuava a ripetere una litania di nomi, come una macabra cantilena.
Anedjib la riconobbe, era la stessa che poco prima parlava di rivedere suo figlio all’uscita. Ora l’aveva trovato, lui, e anche il neonato e suo padre, erano tutti lì, parte di quel macabro monumento a perenne ricordo della sua follia.
Un’altra donna le si avvicinò, era molto più giovane, il suo bambino appena nato legato alla schiena. L’afferrò per le spalle.
“Non puoi fare più niente, sono morti, dobbiamo andare o moriremo anche noi.”
La sollevò quasi di peso, trascinandola con sé, mentre dal soffitto continuavano a piovere sassi e polvere. La folla si era accalcata all’ingresso dello stretto cunicolo che li aveva condotti fin li in cerca di un nuovo mondo. Si udiva gente che urlava, bambini che piangevano, qualcuno gridava il nome di un familiare sperando che non fosse fra quelli intrappolati nella pietra.
Intere famiglie erano state separate nella confusione.
Il giovane mago si alzò, incurante dei detriti che continuavano a cadergli accanto.
Camminò intorno al pilastro di corpi. In tutto quel rumore, una voce lo attirò.
Anedjib si asciugò gli occhi con la manica della tunica. La polvere mista alle lacrime aveva formato una poltiglia scura sulle sue guance che in parte si trasferì sulla stoffa lasciandogli sul viso un insolito disegno.
Tutt’intorno dalla roccia fuoriuscivano volti con le bocche spalancate, fissate nel loro ultimo grido disperato, e mani tese verso la salvezza che non avrebbero mai raggiunto.
Un paio di braccia sporgevano più delle altre, come se qualcuno avesse tentato di gettare qualcosa al di fuori di quella trappola mortale. Abbassò lo sguardo e riconobbe Diego, il bambino che aveva visto pochi istanti prima con sua nonna. Piangeva seduto in terra proprio ai piedi della donna che gli aveva salvato la vita.
Come un automa l’uomo si chinò e lo prese in braccio, stringendolo con più forza di quanto fosse necessaria mentre il soffitto della caverna continuava a franargli addosso.
Fino a quel momento non aveva nemmeno tentato di ripararsi in qualche modo. Solo per pura casualità due grossi massi non lo avevano schiacciato, eppure lui sembrava non essersene neppure accorto.
Appena il bambino si aggrappò spaventato al suo collo, istintivamente Anedjib lo avvolse col braccio e si piegò in avanti per proteggerlo, ma non si unì al fiume di uomini che correva verso l’esterno.
Rivolse ancora uno sguardo ai volti incastonati nella roccia, osservò una ad una quelle pietre fatte di carne e intrise di sangue che non avrebbe dovuto essere versato, chiedendosi perché improvvisamente non provava più nulla, né odio per ciò che suo fratello aveva fatto, né colpa, rimorso per la sua follia e la sua presunzione.
Era come se anche il suo cuore fosse stato pietrificato nel passaggio, lasciandolo vuoto, privo del dolore, della paura e persino della pur minima volontà di reagire.
Non c’era più nulla per cui lottare, nessuna porta da raggiungere. Vittoria non c’era più. Si era fidata di lui ed ora era morta.
Se non avesse avuto in braccio il piccolo Diego che continuava a piangere, si sarebbe semplicemente lasciato colpire dai massi che continuavano a piovergli intorno rischiando di seppellirlo in quella grotta assieme alla donna che amava.
Ma la paura e la volontà di vivere della creatura innocente, che continuava ad aggrapparsi disperato al suo collo, lo indirizzò verso l’uscita, anche se sapeva che non ci sarebbe stata salvezza per loro lì fuori.
Di certo anche gli altri ne erano consapevoli, ma l’istinto, il terrore di restare sepolti nella grotta era più forte della ragione e li aveva spinti forse verso una morte peggiore.
Le pareti del cunicolo continuavano ad oscillare tanto che più volte Anedjib si ritrovò scaraventato contro la pietra.
Le grida degli uomini davanti a lui si facevano sempre più distanti ed ora il rombo del terremoto le attutiva quasi completamente. Poi la terra smise di tremare e le grida, al contrario, si fecero più acute.
Le sue braccia si strinsero ancora di più attorno al bambino che ora aveva smesso di piangere.
Era ormai all’imboccatura del cunicolo, la polvere dei crolli in un primo momento gli impedì di vedere ciò che stava succedendo all’esterno.
Poi i suoi timori divennero certezze: i segugi li avevano raggiunti e, con loro, c’era un esercito di uomini chiusi in armature simili a corazze di animali che in quel mondo potevano solo immaginare, ricoperte di scaglie e ornate con corna e teschi di metallo.
La gente terrorizzata uscendo dalla caverna era finita proprio tra le braccia dei soldati.
Fu una mattanza. I figli del sole furono i primi ad essere uccisi, gli altri, catturati, avrebbero seguito la stessa sorte dopo un ridicolo processo.
Impietrito di fronte a quella scena, Anedjib non tentò nemmeno di salvarsi. Le ginocchia si piegarono e lui cadde a terra. Il piccolo Diego sempre aggrappato al suo collo, pareva spaventato più dalla confusione che dalla consapevolezza di ciò che stava accadendo.
Anedjib chiuse gli occhi e restò in attesa che qualcuno lo colpisse. Sentiva i tonfi dei corpi che, accanto a lui, cadevano uno dopo l’altro. Molti non avevano neppure il tempo di urlare.
Poi qualcosa di caldo gli imbrattò la guancia.
Anedjib guardò in basso: occhi celesti lo fissavano, come schegge di vetro incastonate in quello che solo lontanamente ricordava un volto umano, un volto femminile. La lama aveva inciso un profondo taglio all’altezza del naso, prima che un secondo colpo più preciso recidesse dal corpo la testa intera.
Un conato di vomito risalì la gola del mago. D’istinto il suo sguardo si posò sulla forma indefinita li accanto, così somigliante ad un cumulo di panni scuri. Il corpo si era accasciato su se stesso, mentre il mantello che la donna indossava, gonfiandosi durante la caduta, si era allargato nascondendone pietoso il cadavere.
Anedjib la riconobbe: era la giovane che portava il neonato sulle spalle, ma il bambino non c’era.
Non fece in tempo a domandarsi dove fosse che una mano rude gli strappò dalle braccia il piccolo Diego e altri due uomini lo rimisero in piedi con altrettanta grossolanità.
Lui non aprì bocca, non disse una sola parola. Avrebbe voluto urlare, pregarli di non fare del male al bambino, ma sentiva che se lo avesse fatto, loro glielo avrebbero ucciso davanti agli occhi.
Seguì con lo sguardo l’uomo che l’aveva portato via, lo osservò mentre lo consegnava ad una donna. Il pensiero che l’avrebbero risparmiato gli riempì la mente e gli gonfiò il cuore. Gli sembrò di galleggiare in un sogno. Vittoria, il tradimento di suo fratello, tutti quei morti. Per un attimo furono sostituiti da un unico pensiero: Diego, chiunque fosse quel bambino, sarebbe sopravvissuto. Solo quello gli importava. Doveva aggrapparsi a qualcosa, una ragione che giustificasse il fatto che il suo corpo continuava a respirare e che il cuore continuava a martellargli nel petto quando avrebbe solo voluto strapparlo via.
Lasciò che i soldati lo incatenassero e li seguì assente. Era pronto ad affrontare la sua punizione. Era pronto a raggiungere la sua Vittoria.

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Capitolo 2
*** Cap. 2 La profezia. ***


Cap. 2 (Ottant'anni dopo)

Da più di un’ora, il mago teneva il braccio teso con il palmo della mano rivolto in basso, sopra il pozzo di pietra.
La stanza dove si trovava era fiocamente illuminata, ma la fonte emanava una strana luce verde, e il liquido all’interno si increspava come fosse accarezzato da una leggera brezza.
Eppure lì non c’erano finestre, nessuna apertura dalla quale potesse filtrare il ben che minimo alito di vento.
Il pozzo si trovava al centro di un ambiente circolare scavato nella roccia. Le pareti erano scolpite e formavano una sorta di merletto, con colonne sottili che si arrampicavano come radici di un albero secolare, fino ad incontrarsi nel mezzo del soffitto dove si intrecciavano a formare un bellissimo, ma inquietante arabesco. Tutt’intorno alle pareti c’erano teche, scaffali colmi di libri e contenitori di vetro dalle forme bizzarre.
L’uomo, che si faceva chiamare Amauròs, aveva i muscoli intorpiditi e una smorfia di dolore gli deformava i lineamenti del volto pallido.
Accanto a lui, il vecchio servitore si sporgeva dal bordo della vasca fissando lo specchio d’acqua. Era piccolo e magro, il viso rugoso di un colore olivastro era incorniciato da una ricca cascata di capelli bianchi ondulati e da una barba altrettanto folta dello stesso colore.
Era vestito con una semplice tunica grigia alla quale aveva abbinato un improbabile gilè di lana verde. Se ne stava sollevato sulla punta dei piedi e scrutava con trepidazione il riflesso della mano dell’altro, in attesa di riconoscere, nelle increspature della superficie liquida, un segno, un minimo cambiamento nella forma o nel colore, ma non c’era nulla.
Durante tutto il tempo, l’unico movimento era dato dal tremore del braccio teso dell’altro che si faceva sempre più marcato a causa della stanchezza.
“Non c’è niente qui, padrone. Devi riposarti.” gli disse, infine.
Amauròs era più giovane. Nonostante i lineamenti spigolosi e i capelli bianchi, lisci e lunghi fino alle spalle, il suo volto non dimostrava più di quarant’anni. Indossava una tunica dello stesso tono dei suoi capelli, tessuta in modo grezzo.
Nell’udire le parole dell’altro, abbassò il braccio. Ma gli occhi continuarono a fissare il vuoto davanti a lui.
“Sta per arrivare, lo so.” disse cupo.
“I tempi sono maturi, la soglia si riaprirà molto presto, questo lo sanno tutti.” ribatté il servo.
L’uomo più giovane si voltò, ma il suo sguardo scivolò al di sopra della fronte rugosa del suo interlocutore. Le iridi scurissime erano gelide e immobili, come perle nere che parevano incastonate in un volto scolpito nell’avorio.
Era cieco, ma non dalla nascita. I suoi occhi, dimentichi della loro menomazione, continuavano a rincorrere obbedienti ogni suono, come fossero in grado di individuarne l’origine, per poi tornare a perdersi nel loro universo buio.
“La fonte non parla con me da molto tempo, ormai, ma so per certo che questa volta sarà diverso: sta per succedere qualcosa.” Mormorò, poi stese il braccio, e l’altro lo afferrò guidandolo sulla propria spalla.
Amauròs rispose con un semplice cenno di approvazione.
“Voglio che tu sia là quando arriverà.” Il suo non era un ordine, ma quasi una supplica.
L’altro annuì, mentre lo accompagnava verso una piccola porta di ferro decorata.
Improvvisamente un rumore attirò l’attenzione dei due.
Il vecchio servitore si sciolse dalla presa del suo signore e, dopo averne accompagnato il braccio fino al sostegno più vicino, lo lasciò e uscì di corsa.
Solo pochi istanti dopo si udirono delle urla e un rumore di cocci rotti.
“Vieni qui brutto ladro, vieni che ti insegno io a non rubare!” Gridò il vecchio.
Immediatamente la porta si spalancò e un ragazzo smilzo infagottato in una tunica nera troppo larga per lui, si precipitò all’interno della stanza circolare, bloccandosi non appena si rese conto che non c’erano altre uscite oltre quella dalla quale era venuto.
Si voltò ansimante e solo allora notò l’altro che era nel locale appoggiato alla parete.
Sentendosi in trappola non trovò di meglio che afferrare tutto ciò che gli stava a tiro: oggetti di vetro, vasi, strani congegni di metallo, e lanciarli verso gli uomini che si trovavano tra lui e la salvezza.
Il vecchio imprecò riparandosi alla meglio dietro il pilastro che sorreggeva l’arco della piccola porticina. L’altro invece non si mosse, neppure quando un voluminoso oggetto sferico volò a pochi centimetri dalla sua testa per schiantarsi contro la parete e spaccarsi in una pioggia di schegge impazzite.
Nonostante le urla del servitore, gli insulti disperati dell’incauto ladro e il rumore degli oggetti che continuavano a volare per la stanza cozzando contro le pietre, una voce profonda rimbombò nella camera come un tuono, superando ogni altro suono.
“Basta!”
Amauròs aveva sollevato entrambe le braccia.
Seguì un grido terrorizzato e il ragazzo fu scagliato all’indietro. Incespicò e, muovendo freneticamente le braccia, tentò di non perdere l’equilibrio, ma fu inutile. Il suo piede andò ad urtare lo scalino che circondava la fonte magica e, con un tonfo, si ritrovò a sguazzare nel liquido luminoso che fino ad allora nessuno aveva mai avuto l’impudenza neppure di sfiorare.
“Sciagurato!” abbaiò l’uomo anziano, mentre si precipitava ad afferrarlo per tirarlo fuori dal pozzo sacro e da quella imbarazzante situazione.
Anche il mago si avvicinò. Si appoggiò al bordo della vasca e tese il braccio affinché il ragazzo potesse afferrarlo. Tuttavia, nonostante il bacino non fosse profondo, tirarlo fuori si rivelò più complicato del previsto. Il malcapitato continuava ad annaspare e a bere. Lo strano liquido sembrava volerlo risucchiare, e più volte si ritrovò schiacciato sul fondo, come se una strana forza lo trattenesse. Aggrappandosi disperatamente ai bordi, riuscì ad afferrare la mano tesa di Amauròs che, essendo più alto, fu il primo a raggiungerlo. Non appena quello sentì le dita gelate e gocciolanti sfiorare le sue, le strinse con forza e si gettò all’indietro trascinandolo con sé.
Entrambi si ritrovarono sul pavimento, prigionieri di un intricato miscuglio di stoffa fradicia. Il servitore che era rimasto appoggiato alla vasca, si voltò e corse verso il padrone che serviva fin da quando aveva imparato a camminare. Artigliò il ladruncolo e, con poco garbo, lo sollevò liberando l’altro da quella fastidiosa zavorra. Mentre Amauròs si rimetteva in piedi, scrollandosi di dosso ciò che sembrava una melma luminescente, il ragazzo, che invece era stato lanciato di peso e fatto rotolare nel pavimento, era rimasto immobile, con le braccia allargate come una bambola di pezza e gli occhi spalancati fissi al soffitto.
In un primo momento il vecchio non lo notò, era troppo preoccupato di rimettere in piedi il suo signore, ma poi quel corpo inerte gli gelò il sangue.
“Padrone!” gemette, mentre portava l’indice della sua mano ad indicare la scena che l’altro non avrebbe mai potuto vedere.
“Cosa c’è, che succede?” domandò il più giovane tendendo le braccia verso il servitore.
“L’ho ammazzato, l’ho ammazzato, io… oh Dei! ” farfugliò, poi si gettò a terra e prese a scuotere il ragazzo.
“Ehi tu! Rispondi! Ehi, svegliati, dimmi qualcosa!” continuò.
Amauròs lo raggiunse e si chinò a sua volta. Le mani corsero a cercare il volto del giovane a terra, ma, appena lo sfiorarono, dalla gola di quest’ultimo uscì un suono terribile, simile all’ululato del vento nelle gallerie.
Il più vecchio rabbrividì e si trascinò incespicando nei suoi stessi piedi, fino ad appoggiarsi alla parete, tentando di mettere più distanza possibile fra lui e ciò che sembrava una stregoneria.
Il mago invece, si rimise in piedi, prese un profondo respiro e allargò le braccia tenendo i palmi delle mani aperte e rivolte verso l’alto.
“Parlami, sono qui, sono pronto ad udire la tua voce o Sacra Fonte del tempo!” disse con enfasi.
Subito il ragazzo si sollevò da terra come mosso da fili invisibili e nuovamente dalla sua gola uscì l’orrendo suono, questa volta mescolato a qualcosa di più definito simile ad un susseguirsi di vocali che man mano diventarono un vero e proprio insieme di parole.
“Trema, atterrisci, uomo! I tuoi occhi ciechi vedranno i tortuosi sentieri del futuro”.
Per nulla turbato Amauròs continuò.
“Rivelati a me,” lo esortò sollevando ancora di più le braccia, “Io non ho paura!” disse con decisione.
Il giovane ladro fu scosso da un tremito. Come uno brandello di carne tra le fauci di un animale, fu scrollato violentemente e poi gettato in avanti tanto che il suo viso venne a trovarsi a meno di un palmo da quello dell’altro.
“Il terrore ti troverà.” sibilò. Le labbra si mossero in maniera innaturale, come se dita fatte di vento ne avessero afferrato i margini tendendoli fino quasi a strapparli dal volto per poi allentare di nuovo la presa.
“Non ascoltarlo, padrone!” gridò il vecchio accucciato in un angolo. “Non ascoltarlo, ti prego!”
Ma l’altro restò immobile, con le braccia sempre allargate.
“La bestia dell’odio divora la madre, guai a colui che la colpa strappò alla luce!” Soffiò ancora il ragazzo.
“Chi è la madre? Dimmelo!” Amauròs l’afferrò con entrambe le braccia e prese a scuoterlo. “Parla ancora, dimmi chi è la madre!”
“L’oscurità fugga da colei che nutrì al seno lo strumento della sua vendetta. Perché quando la figlia perduta sarà baciata dall’astro, il buio conoscerà la sua ultima alba.”
dalla bocca spalancata uscì ancora un alito sibilante.
Il ragazzo cadde a terra come una marionetta inanimata.
Dopo il primo momento d’incertezza, quello che l’aveva interrogato si chinò su di lui e di nuovo ne cercò il volto con le lunghe dita.
Trovò i suoi occhi aperti, poi le palpebre gli scivolarono sotto i polpastrelli, sbattendo più volte.
Stava tornando in sé. Il mago si ritrasse permettendogli di sollevarsi un po’ facendo leva sui gomiti.
Anche l’anziano servitore si avvicinò e aiutò il ragazzo a mettersi seduto.
“Che mi è successo?” pigolò il ladruncolo, fissando spaventato i due uomini.
“Come sarebbe, che ti è successo?” sbottò il vecchio, “Hai blaterato una marea di…” Spalancò gli occhi. “Un momento, ma io ti conosco. Ti ho visto alla cava, tu…” lo afferrò al collo con rabbia. “Tu eri con Guglielmo. E’ lui che ti ha mandato?”
“Certo che lo ha mandato Guglielmo.” intervenne Amauròs con un tono gelido. Poi rivolse al ragazzo un’espressione carica di disgusto. “Se il tuo amico ti ha mandato per scoprire dove e quando si aprirà la Soglia, potrai accontentarlo.”
“Ma padrone, pensi che sia saggio informarlo?” chiese il servitore.
“Oh, non è più un segreto, ormai. I segugi sono in giro da giorni. Stanno perlustrando il labirinto ad Est delle Tre Sorelle.”
Si chinò fissando il buio che lo divideva dal suo interlocutore come se potesse perforarlo.
“Digli di andare ad Est. Fra una settimana.” Sussurrò, mentre le labbra si piegavano in un sorriso malevolo. “Ora vattene!” ordinò.
Il ragazzo non se lo fece ripetere, saltò in piedi e si precipitò verso la porta.
Ci fu un lungo silenzio, poi la voce incerta del più anziano distolse l’altro dai pensieri cupi dai quali era stato risucchiato.
“Cosa credi che racconterà a Guglielmo? Quello non era certo un buon presagio.”
“Non credo che ricorderà ciò che gli è accaduto. In ogni caso, quelle parole risulteranno oscure per lui, come per Guglielmo.” gli rispose il padrone e, portandosi la mano alla fronte, sospirò stanco.
“E per te?” domandò il vecchio, preoccupato.
Ancora silenzio, poi l’uomo cieco fece qualche passo finché la sua mano tesa non giunse a sfiorare lo sportello di una teca, l’aprì e poggiò delicatamente il palmo su un voluminoso tomo all’interno.
Lo afferrò, era molto antico, la rilegatura quasi del tutto distrutta e le pagine fragilissime sembravano restare insieme trattenute solo dalla volontà dell’uomo.
Un forte odore di polvere e muffa gli riempì le narici, ed egli lo assaporò come fosse un pregiato profumo.
“Conosci la leggenda?” mormorò, mentre le dita continuavano ad accarezzare la copertina di pelle cesellata, seguendone i preziosi disegni.
“Qualcuno, una donna arriverà dalla soglia e riuscirà a tornare indietro.” Si voltò portandosi il libro al petto e stringendolo come una madre che culla il proprio figlio.
“Non è mai accaduto, in centinaia di anni, ma questa volta…”
“Credi che quella che la fonte ha chiamato ‘Figlia perduta’, sia la stessa di cui parlano gli antichi scritti?”
“Forse. Lo sapremo molto presto.” Tornò a riporre il prezioso volume. “Fra sette giorni.”
“Tu vuoi che Guglielmo impedisca ai segugi di prenderla, è per questo che gli hai rivelato il posto?”
“Non so chi arriverà, e non so se sarà un bene o un male che sia trovata da Guglielmo. Di sicuro non sarebbe un bene se finisse nelle mani dei segugi…” Strinse i pugni con rabbia. “… e del consiglio”.
“Andrò là come hai chiesto, padrone, e se sarà necessario aiuterò Guglielmo a fare in modo che non venga presa.” Chinò il capo in segno di rispetto. “Puoi fidarti di me.”
“Non l’ho sempre fatto, Diego?” rispose il mago uscendo dalla stanza.

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Capitolo 3
*** Cap. 3 O’ Monaciello ***


Cap 3

Quella vecchia pendola aveva un aspetto terribile. Le labbra di Kore si piegarono in una smorfia, immaginando quanto lavoro avrebbe richiesto restaurarla. Si domandò chi mai avrebbe pagato per una simile anticaglia. Il negozio ne era pieno; ferraglia arrugginita e mobili di legno che il lavorio dei tarli aveva reso simili a delicati merletti, si innalzavano fino al soffitto. Una catasta polverosa che, agli occhi della ragazza, serviva solo a dar riparo ai ragni.
Kore Johnson se ne stava seduta sopra il bancone ciondolando svogliatamente le gambe, mentre il suo sguardo vagava pigro nella stanza.
Il ciuffo di capelli biondi, risultato dell’ultima performance del suo parrucchiere preferito, continuava a caderle davanti ai grandi occhi verdi, costringendola, di tanto in tanto, a scuotere il capo per scansarlo.
Si trovava a Napoli da pochi giorni e la maggior parte del tempo l’aveva trascorso tra la polvere del negozio di antiquariato dello zio Giuseppe.
Sua madre, Luisa, aveva sposato un archeologo inglese e aveva lasciato la città sedici anni prima per trasferirsi in Inghilterra dove era nata lei e, dopo quattro anni, suo fratello Fabian.
Quell’estate, il padre dei due ragazzi era dovuto tornare in Italia per sovrintendere a degli scavi e Kore, sua madre e Fabian ne avevano approfittato per trascorrere le vacanze dai nonni materni. Due simpatici vecchietti chiacchieroni che però si rifiutavano di vedere la differenza tra una mummia egizia e la paccottiglia ammuffita stipata nel negozio del loro figlio maggiore.
Kore sbuffò rumorosamente, quando un rumore di cocci rotti la raggiunse.
Fabian sembrava condividere le opinioni dei nonni e trovava affascinante quel mucchio di immondizia polveroso. Erano più di due ore che rovistava nel magazzino del negozio lanciando un urletto entusiasta ad ogni nuova scoperta: un vecchio trenino elettrico, una lampada dalla forma bizzarra, qualche libro dalle pagine ingiallite.
La giovane si limitava ad osservarlo da lontano, mentre, incoraggiato dallo zio, perdeva il suo tempo in quell’insolita caccia al tesoro.
D’un tratto l’uomo lasciò che Fabian continuasse da solo le sue ricerche e si avvicinò al bancone. Era stempiato, sui cinquant’anni, infagottato in una giacca troppo pesante per quel clima. Aveva un sorriso sempre stampato sul volto paffuto e lineamenti tanto marcati da farlo somigliare ad una delle caricature con cui gli artisti di strada tappezzavano il marciapiede davanti al negozio.
“Ehi, ma perché non esci a comprarti una pizza? Ci penso io a Fabian.” Disse notando l’espressione annoiata della ragazza.
“No, preferisco aspettarlo. Si è fatto tardi, la nonna ci starà aspettando per la cena.”
L’appartamento della nonna si trovava proprio sopra al negozio, ma, conoscendone le abitudini, Kore sapeva che non poteva permettersi di non presentarsi a cena in perfetto orario. Per la donna era sacra, e non erano ammessi ritardi. Oltretutto se non avesse mangiato tutto, lei lo avrebbe considerato un insulto alla sua cucina. Avrebbe gridato allo scandalo, criticando le abitudini dei giovani moderni. Insomma rovinarsi l’appetito con una pizza, prima del luculliano banchetto preparato dalla regina dei fornelli, non era proprio consigliabile.
Saltò agilmente dal ripiano del bancone e si sporse dalla porta del magazzino.
Fabian era in ginocchio a ficcanasare sotto una catasta di cassetti che lo nascondevano alla sua vista.
“Spero che non avrai intenzione di portarti dietro quella robaccia in casa.” borbottò.
“Andiamo Kore, lascia che si diverta, non sta facendo niente di male, e poi mi ha aiutato a trovare cose che nemmeno ricordavo di avere.” La voce del proprietario del negozio aveva un suono dolce e amabile.
“Non dovresti tenere qui tutta quella roba inutile, zio, la gente non la comprerà mai e crea solo disordine.” lo rimproverò Kore.
“Ma piace a mio nipote. Lui ha naso per queste cose, è figlio di un archeologo, dopotutto.” gongolò, poi trattenne il fiato per abbottonarsi la giacca troppo stretta per lui, mentre sul suo volto si allargava un sorriso orgoglioso.
“Anch’io lo sono, ma un inutile ferro vecchio lo considero solo come un inutile ferro vecchio.” rispose Kore infastidita.
“Ah, queste giovani di oggi!” sospirò. “Non sapete apprezzare le piccole cose.”
La prese per mano trascinandola verso il magazzino. “Vieni, vieni che ti mostro una cosa.”
“No, ma dove mi porti? Sono allergica alla polvere, lo sai.” protestò la ragazza. “Eh, la polvere… Non siamo forse fatti di polvere?” ghignò continuando a trascinarla.
Fabian nel vedere i due che si avvicinavano, posò il carillon che aveva appena trovato sotto un mucchio di vecchie bambole di pezza, e sollevò la testa fissandoli con curiosità.
L’uomo si fermò di fronte ad un armadio. “Ecco guardate qui.” disse afferrando il pesante mobile e trascinandolo verso di sé.
Fabian saltò in piedi e si precipitò a guardare dietro l’armadio, mentre Kore incrociava le braccia con l’aria di chi si sta chiedendo chi fosse più infantile fra zio e nipote.
“Andiamo, su, avvicinati, non ci sono ragni.” Continuò. Poi, notando qualcosa muoversi tra le fessure dei mattoni, “Beh, forse qualcuno c’è, ma non ti faranno niente”.
Il volto di Kore si deformò in una maschera disgustata, mentre istintivamente si sollevava sulla punta dei piedi, come se volesse limitare il più possibile il contatto con il pavimento, temendo di trovarsi qualche insetto sgradito sulle scarpe.
Tuttavia la curiosità ebbe la meglio e non poté fare a meno di tendere il collo abbastanza per dare una sbirciatina al muro dietro l’armadio.
C’era un grosso buco, sufficiente per il passaggio di una persona alla volta.
“C’è una galleria qui dietro.” disse l’uomo entusiasta. “Napoli ne è piena. Sotto la superficie la città è un colabrodo.” sogghignò. “Tuo padre dovrebbe saperlo. Gli antichi abitanti hanno scavato qui sotto per procurarsi il materiale da costruzione, il… come si chiama?” Schioccò le dita più volte cercando di ricordare il termine esatto. “Ma sì, quello, il tufo. Se volete, potete dare un’occhiata.”
Kore arricciò le labbra scettica e l’altro, incrociando le braccia, scosse il capo sconfortato. “Ehi, ma che razza di nipote ingrata sei? Vi faccio risparmiare persino i soldi del biglietto. Sapete quanto fanno pagare la visita guidata delle gallerie? L’ingresso per i turisti è in Piazza S. Gaetano.” Kore continuava a fissarlo con aria di commiserazione, mentre lui tentava in tutti i modi di attirare il suo interesse.
“Beh, insomma, questo passaggio s’interrompe dopo pochi metri, ma tanto vista una, le gallerie son tutte uguali, e noi ce l’abbiamo sotto casa, cosa volete di più?”
“Dai Kore andiamo a vedere.” Fabian prese per mano la sorella e cercò di trascinarla verso l’apertura.
“Ma è sicuro?” mugolò lei, trattenendolo. “Non è che ci cadrà qualcosa in testa?”
“Ma no, questa sta in piedi da centinaia di anni, perché dovrebbe cadere proprio sulla tua testa?” la rassicurò suo zio. “I nonni si sono riparati qui, in tempo di guerra. Ehm… Ed io… beh, io ci tenevo il vino.” Poi si chinò e portandosi la mano davanti alla bocca, sussurrò all’orecchio della ragazza. “Ci sono un sacco di leggende su questi tunnel, dicono che della gente è sparita qua sotto e non è stata più ritrovata.”
“Wow!” Fabian non si fece pregare e saltò all’interno dell’apertura. “Kore, dai, muoviti!” gridò, gustando poi l’eco della sua voce.
Lo zio rise di gusto.
“Sì certo, adesso vedrai che uscirà fuori anche un fantasma.” brontolò la ragazza.
“No, niente fantasmi, ma potresti trovarci ‘o Munaciello.” Continuò a ridere lo zio. “Sbuca fuori all’improvviso, UUUUH!” agitò le braccia imitando degli artigli. “L’hanno visto, sai? E’ tutto vestito di nero, sembra un monaco, e…”
“Sì, sì, conosco la leggenda, la nonna me l’ha raccontata.” disse Kore, mentre, seguendo gli altri due, si infilava nello stretto cunicolo. “Ma è buio pesto qui dentro.”
“Ah, giusto! Aspettate qui che prendo una torcia.” L’uomo uscì, e si sporse verso l’armadio. Aprì lo sportello con un pugno ben assestato e prese la torcia elettrica che era sul ripiano interno. “Vediamo. Le pile dovrebbero essere ancora buone.” disse rigirandosi l’oggetto fra le mani, per cercare l’interruttore. “Oh, sì, ecco.” L’accese e raggiunse gli altri all’interno della cavità.
Le pareti erano umide e coperte di incrostazioni.
Di fronte a loro, una scaletta ripida scavata nella roccia portava ad un locale più ampio molti metri più in basso. Un forte odore di muffa li investì.
Fabian non aveva neppure atteso che suo zio gli illuminasse il percorso, si era precipitato sui ripidi scalini, e ora attendeva gli altri nella stanza sotterranea.
Kore, invece, scendeva lentamente. Permise a suo zio di oltrepassarla con la torcia per poter controllare bene la superficie della pietra prima di poggiarci sopra le mani.
Quando fu certa che non brulicasse di insetti, si afferrò ad una sporgenza e infilò anche lei la ripida scala raggiungendo gli altri due.
“E adesso?” domandò, scuotendo l’orlo della gonna per ripulirlo da alcuni fili di ragnatele che, nonostante le sue precauzioni, si erano caparbiamente incollati alla stoffa.
Sollevò lo sguardo, ma non c’era nessuno.
“Zio!” lo chiamò poi guardò di fronte a sé, nel punto in cui un istante prima aveva visto anche suo fratello. Erano entrambi scomparsi.
Continuò a cercare con lo sguardo. C’era luce, i due con la torcia non dovevano essere lontani.
“Andiamo, Fabian! Zio! Non fate stupidi scherzi! Sapete che non mi piace.” Sentì l’ansia crescere in lei. “Zio, avanti, basta!” protestò.
Fece qualche passo verso la luce, ma le sue gambe avevano cominciato a tremare. Fu costretta a fermarsi. “Zio!” mugolò. “Zio, per favore!”
Non ottenne risposta, probabilmente, anche se ci fosse stata, non l’avrebbe sentita. Il suo cuore impazzito le rimbombava nella testa, impedendole di ascoltare qualsiasi altro suono.
Poi la luce tremò, come se qualcuno ci fosse passato davanti proiettando la propria ombra nel tunnel. Spinta dalla paura prese a correre in quella direzione, ma, improvvisamente si sentì afferrare e trascinare in un angolo.
Tentò di gridare, ma chi l’aveva presa le portò una mano sulle labbra impedendole di parlare.
“Zitta!” le intimò una voce maschile.
Non era quella di suo zio, era una voce giovane, la voce di un ragazzo. Kore si sentì perduta, chi c’era in quella galleria? Un ladro, un assassino? E cosa era successo a suo fratello?
Mentre lo sconosciuto la spingeva con forza contro la parete, immobilizzandola, si sentì morire. Come se, improvvisamente, non fosse più stata padrona del suo corpo, non aveva più forza. La nausea la soffocava, mentre le lacrime presero a rigarle il volto. Scivolavano incontrollate frenate solo dalla mano sconosciuta che le premeva le labbra.
L’uomo la lasciò e, afferrandola per le spalle, la costrinse a voltarsi e a guardarlo negli occhi.
Era completamente vestito di nero e portava un cappuccio simile a quello dei monaci che lasciava intravvedere il volto pallidissimo. Le tornarono in mente le parole di suo zio ‘Potresti incontrare o’ monaciello’.
Era lui? Ma poi che cos’era? Un fantasma?
“Non gridare, o prenderanno anche te.” sussurrò.
Kore scosse il capo. Cosa voleva dire ‘prenderanno anche te’? Qualcuno aveva preso suo fratello?
“Fabian?” pigolò.
Il giovane abbassò il capo, sembrava sconfortato.
“Non posso più fare niente per lui, mi dispiace.”
Le parole dello sconosciuto le restituirono la forza di reagire. L’idea che potesse essere successo qualcosa al fratello la scosse. L’uomo se ne accorse e, prima che potesse mettersi a gridare, la sua mano corse nuovamente ad impedirglielo. Kore tentò di divincolarsi. Si sentiva soffocare. L’odore di muffa e di umidità le riempiva le narici. L’uomo, i suoi vestiti, la mano fredda sulle sue labbra, parevano esserne intrisi. Come se quello strano personaggio fosse un tutt’uno con quell’ambiente umido e insalubre.
Riuscì faticosamente a staccarsi dalla parete, il tanto per riuscire a muovere una gamba. Ne approfittò per tentare di liberarsi.
“Ahi! Ma sei matta?” Il giovane si afferrò il ginocchio sforzandosi di non urlare di dolore. “Smettila di tirare calci, non voglio farti del male.” soffiò a denti stretti.
“Lasciami, lasciami.” La ragazza iniziò a gesticolare, a colpirlo coi pugni e a graffiarlo, tanto che lui fu costretto ad afferrarla per i polsi.
“Ora basta! Finiscila di agitarti e ti spiegherò tutto.”
Appena la sentì rilassarsi, allentò di nuovo la presa.
Kore ansimò massaggiandosi il braccio, nel punto in cui lui l’aveva stretta.
“Non voglio spiegazioni, voglio uscire di qui.” ringhiò.
“Non credo di poterti accontentare.” disse secco, poi sollevò di scatto lo sguardo attirato da un rumore di passi.
Anche Kore fissò in silenzio il fondo della galleria.
Qualcosa o qualcuno si stava avvicinando a loro.
“Fabian?” mugolò, ma immediatamente il ragazzo scosse il capo. Il suo volto si era fatto teso. Era paura quella che si leggeva nei suoi lineamenti?
Kore non capiva cosa stesse succedendo, ma d’istinto si tirò indietro, appoggiandosi alla parete e il ragazzo fece lo stesso.
A proteggerli solo una lieve sporgenza nella roccia. Troppo poco per nasconderli entrambi.
Kore appoggiò il capo alla pietra, ansimando.
Sentì il rumore dei passi farsi più forte e il suo sguardo corse a cercare quello dell’altro. Non sapeva ancora se fidarsi di lui o no, ma era certa di non voler incontrare ciò che si stava avvicinando e che pareva terrorizzare il giovane al suo fianco.
Da dove si trovavano non si riusciva a vedere, ma dalle voci gracchianti che si udivano, Kore capì che doveva trattarsi di donne, piuttosto anziane almeno a giudicare dal terribile rantolo che emettevano. Anche il rumore dei passi rivelava un’andatura incerta e zoppicante.
Ma come era possibile che delle vecchie potessero essere tanto pericolose? E poi cosa ci facevano in quel sotterraneo?
Fissò il ragazzo e vide che scuoteva il capo e tremava.
“E’ finita, stavolta ci trovano.” borbottava. “E adesso che faccio? Che faccio?” Continuò quasi piagnucolando.
D’improvviso, però, i passi si allontanarono come se qualcosa avesse attirato il gruppo altrove.
Il giovane si sporse dal suo nascondiglio e guardò stupito la fine del tunnel.
Poi si rivolse a Kore.
“Non so cosa sia successo, ma puoi ringraziare la buona sorte, siamo salvi.”
La afferrò per un braccio.
“Ora vieni con me e non fare storie. Qui non possiamo restare.”
Lei lo guardò per diversi secondi senza parlare, poi lo seguì rassegnata.
 

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Capitolo 4
*** Cap. 4 La città sotterranea ***


Cap. 4 

Imboccarono un’altra galleria, diversa dalle prime. Il passaggio era stretto, ma molto alto, tanto che non si riusciva a vederne il soffitto. Solo in quel momento, Kore si rese conto che non c’era alcuna fonte di luce, non una torcia, né candele, eppure il luogo era sufficientemente illuminato da una strana luminescenza verde che permetteva loro di avanzare con facilità.
“La luce…” mormorò. “Da dove viene?”
“Come ‘da dove viene’? E’ giorno, c’è il sole.”
“Ma…” Kore stava per ricordargli che si trovavano molti metri sotto terra, ma preferì non contraddirlo. Non le interessava la luce o chi fosse quell’uomo, non le interessava nulla di quello che aveva da dire. Voleva rivedere suo fratello. Tuttavia era sola in quel luogo, e lui era l’unico che poteva dirle qualcosa di Fabian.
Scesero altri gradini, incontrando molte gallerie. Sembrava una fitta rete di vicoli così stretti da poter essere percorse solo in fila indiana. Era come passare tra le mura di case altissime, tanto alte da raggiungere il cielo, nascondendolo alla vista.
Kore camminava in silenzio, guardandosi attorno intimorita, mentre lui la precedeva.
Il rumore dei loro passi echeggiava sinistro nei cunicoli, così Kore iniziò a camminare in punta di piedi, tendendo l’orecchio e cercando di captare altri suoni che non fossero quelli prodotti dalle sue scarpe.
Dopo aver marciato per circa mezzora, si aprì davanti a loro un’immensa gola. Le pareti del cunicolo che avevano percorso si allargavano formando un imbuto. Tutt’intorno era roccia, massicci imponenti che invece di stagliarsi contro il cielo, si allargavano chiudendosi sopra le loro teste. Era come guardare le montagne capovolte, Kore immaginò una mano gigantesca mentre le conficcava nel terreno a mo di cunei.
“Quelle sono le tre sorelle.” disse la sua guida indicando tre di quei massi che chiudevano la vallata, formando quattro archi.
Impiegarono diverse ore per raggiungerli e per tutta la strada il ragazzo continuò a guardarsi le spalle preoccupato.
Attraversato l’arco più grande il ragazzo si appoggiò alla parete tirando un sospiro di sollievo.
“Ora saremo al sicuro.” disse. “Da qui in poi le rocce ci proteggeranno, sarà difficile trovarci.”
Kore si guardò attorno. In effetti la sua guida aveva ragione: avevano superato una vallata, uno spazio aperto nel quale era impossibile nascondersi, ed ora, di fronte a loro si intrecciavano miriadi di passaggi seminascosti da spuntoni di roccia dalle forme bizzarre simili a merletti inamidati o, piuttosto, a gigantesche spugne di mare.
“Bene, ora che, a quanto pare abbiamo seminato i nostri inseguitori, chiunque fossero. Vuoi dirmi, per cortesia, dove mi stai portando?” domandò Kore con una smorfia, mentre incrociava le braccia in segno di sfida. Era intenzionata a non fare un altro passo senza avere prima una spiegazione.
Ma l’altro si limitò ad un’alzata di spalle.
“Avrai tutte le spiegazioni che ti servono quando arriveremo dove ti sto portando...” schioccò la lingua. “Anzi, se arriveremo dove ti sto portando.” si corresse.
“Tu… Tu sei pazzo! Io non mi muoverò di qui.” urlò lei. “Ci stiamo allontanando sempre più dal negozio di mio zio, non ho intenzione di andare oltre.”
“Il negozio di tuo zio?” il giovane scoppiò in una risata sguaiata. “D’accordo, se non vuoi venire, resta pure qui, o torna indietro, se ti fa piacere. Non ho certo intenzione di trascinarti, né di portarti sulle spalle.”
Si incamminò infilandosi in una stretta apertura della roccia che aveva di fronte.
Kore non si mosse, restò a guardarlo per alcuni minuti, finché non lo perse di vista.
Attese ancora, sperando che sarebbe tornato indietro, ma il ragazzo non lo fece.
Cominciò a muovere i piedi spostando il peso del corpo da uno all’altro, poi iniziò a giocherellare nervosamente con le mani, torcendosi le dita, e infine iniziò a mordersi il labbro.
L’aveva lasciata sola.
Si sentì gelare. Era come se fosse precipitata in un incubo. Ma nonostante continuasse a ripetere a se stessa che tutto quello non poteva essere reale, la paura ebbe il sopravvento. Il cuore martellava nel suo petto, come impazzito, e il respiro le si bloccò in gola. Avrebbe voluto urlare, si portò le mani tra i capelli e prese a tirarli, voleva svegliarsi, doveva svegliarsi. Forse qualcuno avrebbe udito le sue grida nel sonno, forse il dolore che si stava procurando l’avrebbe riportata alla realtà. Ma non accadde nulla di tutto ciò. Prese a guardarsi intorno: il ragazzo, doveva trovare il ragazzo,
Si precipitò verso il punto in cui l’aveva visto sparire dietro uno spuntone di roccia.
“Aspettami!” gridò, mentre le lacrime le riempivano gli occhi.
“Vedo che sai anche essere ragionevole.” Il volto allegro della sua guida spuntò proprio dietro di lei. “Con un po’ di incoraggiamento, naturalmente.” ghignò.
Non si era allontanato che di pochi passi, facendole credere di averla abbandonata.
Kore si voltò di scatto, avrebbe voluto sommergerlo di imprecazioni, ma decise che non era saggio insultare l’unica persona che poteva tirarla fuori da quella situazione. Se quello era un sogno, forse doveva assecondarlo, ma se non lo era?
Riprese a seguirlo in silenzio.
Camminarono ancora per diverse ore. Kore era sfinita. Si erano dovuti fermare più volte. Le scarpe all’ultima moda della ragazza non erano adatte a quel percorso accidentato e i suoi piedi si erano coperti di dolorose vesciche. Aveva provato a rimediare fasciandoli con delle striscioline di stoffa che l’altro aveva ricavato ritagliandole dal bordo della sua tunica, ma anche questa soluzione durò poco. Con la fasciatura, infatti, le scarpe erano diventate ancora più strette ed ogni passo sempre più doloroso. Alla fine preferì toglierle, le legò alla cintura dei pantaloni con un'altra striscia di stoffa e proseguì scalza.
Giunsero sull’orlo di una voragine.
“Ecco, siamo arrivati.” annunciò il giovane al suo fianco.
Kore si sporse dal precipizio.
Le pareti erano piene di aperture, come porte e finestre. Sembravano abitazioni scavate nella pietra.
Al centro di quel burrone simile alla bocca di un vulcano, si innalzava un massiccio che aveva la forma di un cono, con la parte più stretta rivolta verso il basso.
Anche quello era pieno di aperture.
Kore concentrò meglio lo sguardo e si rese conto che somigliava ad una gigantesca cattedrale gotica a testa in giù. La pietra era stata scolpita in modo da ricavarne loggette, scale, finestre. C’era un’intera città all’interno della montagna, ed era collegata al bordo del burrone da sottili ponti fatti della stessa roccia di cui era costituito l’intero paesaggio.
Kore si mosse verso uno di quei viadotti vertiginosi, ma il giovane la trattenne.
“Dobbiamo attendere la notte, sul ponte saremo troppo esposti.”
Kore si domandò come si potessero distinguere la notte e il giorno visto che si trovavano sottoterra, ma presto ebbe la risposta: dopo circa mezz’ora, la luminescenza verdognola che li aveva accompagnati fin lì, cominciò ad affievolirsi, finché le tenebre non li avvolsero completamente.
“Andiamo!” disse lui prendendola per mano.
Kore si lasciò guidare verso la città che ora era punteggiata di piccole luci.
Attraversato il ponte, si trovarono di fronte un grande arco dalla profonda strombatura, ricco di decorazioni e simboli incisi nella pietra. La sua guida non vi entrò, ma scortò la ragazza lungo uno stretto passaggio addossato al costone. Non c’era parapetto, e, nonostante l’oscurità impedisse a Kore di vedere lo strapiombo, il terrore la bloccò dopo pochi passi e lei si appoggiò terrorizzata con la schiena alla parete.
“Non posso, non ce la faccio.” pigolò.
“Un passo alla volta, dammi la mano, il percorso è breve.” la rassicurò l’altro, ma dovette faticare non poco per trascinarla fino all’ ingresso più piccolo e seminascosto che si trovava a pochi metri di distanza. Una volta all’interno, lasciò a Kore appena il tempo di riprendere fiato e calmare i battiti del suo cuore, poi iniziò a salire un’infinità di gradini finché si fermò di fronte ad una piccola porta di ferro. Si chinò, dato che l’apertura non era più alta di un metro, e bussò diverse volte ritmicamente, come se stesse facendo un segnale.
La porta si aprì appena e il volto di una donna molto anziana fece capolino, schiacciato fra lo stipite e lo sportello.
“Freda, facci entrare!”
La vecchia esibì i suoi pochi denti in un orribile sorriso, e si fece da parte lasciandoli passare.
Di fronte a loro, altri scalini.
Istintivamente Kore si nascose dietro la sua guida. Non sapeva se fidarsi più di lui o di una donna che sembrava appena uscita da un racconto sulle streghe.
Almeno il ragazzo non le aveva fatto del male. Non ancora per lo meno. Ma quella chi era? E che ci faceva laggiù?
“Guglielmo ti sta aspettando.” gracchiò la donna. “Ne hanno preso un altro.”
“Sì lo so, è suo fratello.” rispose accennando alla ragazza acquattata alle proprie spalle.
“Fratello?” la vecchia fece una smorfia. “Questo complicherà le cose.”
Poi si avvicinò a Kore, la osservò, studiando ogni particolare dei suoi vestiti, dei capelli, annusandola perfino come avrebbe fatto un animale. Kore si scansò infastidita. Ma la donna allungò un braccio fino a sfiorarle il ciuffo biondo con la punta delle dita ossute.
“Ma che vuoi?” Kore la allontanò con una spinta.
“Perdona Freda, non siamo ancora riusciti ad insegnarle le usanze del mondo di sopra.” disse il ragazzo, poi si rivolse all’anziana donna. “Andiamo, anche Marietta ti ha sempre detto che non è educato fissare”. Lei brontolò qualcosa che Kore non riuscì a comprendere e si allontanò.
Kore la seguì con lo sguardo, mentre si domandava chi fosse Marietta. Poi osservò il ragazzo e le sue labbra si piegarono in una smorfia. “E tu invece le conosci bene le nostre usanze, vero?” gli rinfacciò.
“Oh, certo, io so tutto su di voi: la televisione, la pubblicità: comprate il dentifricio al fluoro per denti bianchissimi!” gridò. “E poi lo smog, lo stress.” Rise. “Un posto interessante quello da cui vieni tu.”
Kore li fissò entrambi con gli occhi spalancati.
Il ragazzo parlava come se venisse da un altro pianeta. Eppure non era nemmeno straniero, si esprimeva in un buon italiano, forse migliore del suo. Tuttavia aveva uno strano accento che non riuscì a collegare a nessuna regione in particolare.
Kore mosse le labbra, ma per diversi secondi non articolò una sola parola. Quella situazione era talmente assurda che poteva essere solo un sogno, o uno scherzo architettato alla perfezione.
“Ma tu di dove sei? Sei italiano? Di dove?” sussurrò infine.
“Italiano? Sono di qui, vivo qui da quando sono nato. I miei genitori vivevano qui, e i miei nonni…” poi si colpì la fronte con la mano. “Ah! Per il mio accento? Abbiamo imparato il vostro dialetto dalle persone che sono arrivate qui da… sì, dall’Italia. E’ una buona cosa che abbiate iniziato a parlare tutti allo stesso modo. Secoli fa qui regnava una gran confusione. Per fortuna tua non sei finita nel regno di sale, quella gente parla la lingua più complicata che io abbia mai sentito, credo che fatichino a capirsi anche fra di loro.” rise. “Ma suppongo ci sia un collegamento fra il mondo della luce e questo regno notturno, qualcosa che ti trasporta nella città più vicina, infatti, prima di rifugiarsi tra queste gallerie, i miei antenati calpestavano la vostra stessa terra.” Spiegò esibendo due file di denti storti. “La grande Roma e Atene, e poi le piramidi.” disse accompagnando le sue parole con ampi gesti delle braccia.
“Beh, Roma e le piramidi non si trovano esattamente nello stesso posto.” brontolò Kore. “Fra poco mi dirai che sei una specie di faraone ammuffito?” continuò acida.
“Ammuffito? No, no, i miei progenitori credo fossero di una città che si chiamava Fiorenza. Ahimè, non ho radici tanto antiche, ma alcuni Discendenti sì, i loro avi erano davvero qui all’era delle piramidi.”
Kore continuò a fissarlo inebetita cercando di trovare una logica nelle sue parole. Aveva l’impressione di ascoltare il racconto di un film, una strana favola alla quale non voleva nemmeno prestare troppa attenzione. Continuò a guardarsi intorno, convincendo se stessa che un simile ambiente poteva trovarsi solo in un sogno. Presto quel luogo e il suo strano interlocutore sarebbero svaniti e lei si sarebbe ritrovata nella sua stanza da letto nella casa dei nonni a fissare l’orribile lampadario in vetro di Murano che pendeva dal soffitto.
Poi il giovane si voltò e le fece cenno con la mano, indicando una porta di fronte a loro.
“Andiamo, Guglielmo vorrà vederti.” La spinse verso l’altra stanza.
“Ah, io mi chiamo Ranuccio.” disse, mentre continuava a spingerla. “Così saprai chi dovrai ringraziare.”
“Ringraziare di avermi rapita?” sbottò lei, puntando i piedi. Di una cosa era certa, sia che fosse in un sogno o che nella realtà, odiava già quel ragazzo.
“No, di averti salvata.” la corresse lui aprendo la porta e facendosi da parte per farla passare. Lei sbuffò e si accinse ad attraversare la soglia.
Dall’interno provenivano le grida di un uomo.
“Dunque dobbiamo restarcene con le mani in mano? Silas potrebbe parlare, rivelare il nostro rifugio, tu…”
L’uomo si zittì immediatamente, appena si rese conto della presenza della ragazza.
Kore entrò nella stanza, se si poteva definire tale un locale scavato nella roccia come un pozzo circolare senza finestre e, apparentemente, senza soffitto, o comunque così alto da non essere visibile in quella poca luce. All’interno, scaffali, tavolo e persino le sedie erano ricavate nella pietra.
Alcuni erano finemente scolpiti con decorazioni che erano uno strano miscuglio di simboli medievali, egizi e di altre civiltà che non riuscì ad identificare, altri, invece, erano semplicemente modellati su sporgenze delle pareti. Il locale, piuttosto grande, era illuminato da alcuni bracieri. Il fumo di quei fuochi si innalzava risucchiato verso l’alto come se si trovassero all’interno di un enorme camino.
Nella stanza, c’erano diverse persone: un uomo piuttosto anziano, grassoccio, calvo e con una corta barbetta grigia. Camminava nervosamente avanti e indietro torcendosi le mani, mentre due ragazzi dai capelli biondissimi che dovevano avere all’incirca la sua età se ne stavano seduti in un angolo con lo sguardo perso nel vuoto. Accanto a loro, una donnina bassa, anche lei immobile, sembrava essere stata pietrificata. Era abbastanza giovane, con i capelli rossi arruffati, come Ranuccio indossava un pesante mantello nero. Ma ad attirare l’attenzione di Kore fu la persona in fondo alla stanza: un uomo alto e massiccio. Doveva essere quel Guglielmo di cui parlava la vecchia che li aveva accolti. Era vestito come se si trovasse ad una rievocazione storica medievale. Kore si aspettò che, da un momento all’altro afferrasse una torcia iniziando il suo numero da mangiafuoco. Ma lui se ne stava ritto, le braccia muscolose incrociate sul petto. Aveva gli occhi chiari, i capelli lunghi, castani striati di grigio e la barba. Ai fianchi portava diverse cinture, dalle quali pendevano dei pugnali di varie grandezze. Il volto era solcato da profonde cicatrici. Unica nota stonata era la sua carnagione bianchissima, insolita per quello che somigliava ad una sorta di rude guerriero.
Fissò per diversi minuti Kore, senza parlare, poi scosse la testa e, con uno scatto di rabbia, si avvicinò appoggiandosi al tavolo rotondo al centro della stanza che lo divideva dagli altri due. Sul ripiano erano posate delle mappe.
“Una femmina.” ruggì. “Un'altra dannata ragazzina.”
Kore sussultò, ma il ragazzo al suo fianco le posò la mano sulla spalla come per tranquillizzarla.
Dopo lo scatto iniziale, infatti, anche l’altro uomo sembrò calmarsi e tentò di metterla a suo agio in un modo piuttosto goffo.
Le fece cenno di accomodarsi.
Lei si sedette su uno sgabello di pietra. Il giovane che l’aveva accompagnata restò in piedi.
“Come ti chiami?” chiese secco.
Kore lo sfidò con lo sguardo, ma non rispose.
Allora lui, girando attorno al tavolo si avvicinò ulteriormente.
“Non ti ho trascinata io quaggiù, ragazzina.” soffiò chinandosi su di lei. “E’ stato un caso se tu e tuo fratello avete attraversato la soglia. Avrei preferito di gran lunga qualcun altro, ma la sorte evidentemente non è dalla mia parte.” Si sollevò e il suo sguardo ne percorse l’intera figura. “Nè dalla vostra, evidentemente.” Le labbra si piegarono in una smorfia di disgusto. “Purtroppo per te, qui si può entrare, ma è quasi impossibile uscire.”
“Dove mi trovo?” mormorò Kore.
Lui incrociò di nuovo le braccia, in silenzio, come se attendesse ancora la risposta alla sua precedente domanda prima di soddisfare la curiosità della ragazza.
“Kore, mi chiamo Kore Johnson.” sbottò infine lei.
“Bene Kore, sappi che ti trovi nella città di Lapidia, in un mondo sotterraneo chiuso e isolato da secoli.” disse lui ricambiandola per l’informazione.
“Ma io sono scesa solo di qualche metro, ero sotto al negozio di mio zio, lui dov’è?”
I tre uomini si scambiarono un’occhiata interrogativa.
Quello che aveva detto di chiamarsi Ranuccio sollevò le spalle.
“Io ho visto solo lei.” si giustificò.
“Suo zio non dev’essere passato.” concluse Guglielmo.
“Sì può sapere che succede? Passato? Che significa? Passato dove?” scattò lei.
“Puoi chiamarla magia se ti fa piacere.” La sua voce era carica di disprezzo. “Sei in un mondo magico, un mondo in cui si entra passando per delle soglie segrete. Ingressi che si aprono casualmente una volta ogni vent’anni e restano aperti per pochi istanti. Tu e tuo fratello, malauguratamente, ci siete finiti in mezzo.” Si allontanò voltandole le spalle. “Vostro zio non si è trovato sulla soglia mentre il passaggio era aperto, ed è rimasto dall’altra parte.”
“Ammesso che io creda a quest’assurdità, dov’è mio fratello? Perché, se anche lui ha attraversato questa… sì, insomma, la soglia, ora non è qui con me?”
“Tuo fratello è stato preso dai segugi.” disse senza guardarla.
“Cosa?” urlò la ragazza.
Allora l’altro marciò di nuovo verso di lei.
“Vedi, non tutti in questo mondo amano i visitatori.” il suo sguardo si posò sul gruppetto di sconosciuti.
“Visitatori? Io qui non ci volevo venire. Io voglio tornarmene a casa, io…” scattò Kore, ma prima che potesse alzarsi, lui si chinò perforandole pupille coi suoi occhi di ghiaccio. “E, soprattutto, non amano che si parli del mondo della luce.”
Lei lo fissò frastornata. “Cosa? Che significa ‘Mondo della luce’? Voi… allora davvero voi vivete qui?” la voce le si spezzò in gola, non riusciva a credere a ciò che la sua mente le stava suggerendo. Veramente quella gente poteva vivere senza mai vedere il sole?
Lui sembrò indovinare i suoi pensieri.
“Noi viviamo qui da secoli,” le disse con voce atona. “tentare di attraversare la soglia è proibito. Perciò tutti quelli come te che arrivano da questa parte vengono bloccati dai segugi. Tutti, tranne quelli che hanno il piacere di incontrare uno di noi.” Esplose in una fredda risata. “Ribelli, è così che ci definiscono.” Accennò al ragazzo che l’aveva condotta in quel luogo. Poi, tornò a fissarla come se attendesse una sua reazione, che, in effetti, non tardò ad arrivare.
“Oddio!” Gridò Kore portandosi le mani nei capelli. “Cosa… Cosa gli hanno fatto? Cosa è successo a Fabian?” Kore sentì una morsa improvvisa stringerle lo stomaco. L’idea che potesse essere accaduto qualcosa di grave a suo fratello era insopportabile. Per un attimo desiderò che lui non rispondesse, che tutto si fermasse.
“Ma non vedi che la stai spaventando? gridò il tipo grasso.
Guglielmo gli lanciò un’occhiata raggelante e poi tornò a rivolgersi alla ragazza. “A tuo fratello non è successo nulla, non gli faranno del male. Dimenticherà e starà meglio di te.”
‘Nulla’, quella parola risuonò nella mente di Kore come una liberazione, l’aria tornò a riempirle i polmoni e la speranza invase il suo cuore. Ma poi la mente registrò il resto della frase.
“Dimenticare? Ma cosa stai dicendo? Lui non dimenticherà mai.” Si alzò di scatto e si gettò sull’altro con rabbia. In lei si era scatenato un istinto di protezione e una forza che non credeva di avere. Si sentì all’improvviso disposta a tutto pur di salvare Fabian.
Ranuccio la bloccò.
“No, tu non capisci. Lo porteranno alla grotta del sonno e lì i suoi ricordi verranno cancellati. Succede a tutti.” disse.
“No, no, no!” Kore si gettò in ginocchio, scuotendo il capo in preda al panico.
“E’ l’unico modo.” continuò Guglielmo imperturbabile. “Da centinaia di anni la gente finisce qui sotto per caso. Solo diventando come noi, dimenticando il loro passato, possono sperare di sopravvivere.” Poi abbassò gli occhi. “Non ci si può rassegnare a vivere nell’oscurità, non per chi ha visto il sole. La vita qua sotto per loro sarebbe un inferno.” La sua voce tradiva un’infinita tristezza.
“Vivere nell’oscurità? Ma cosa…? Fabian non si rassegnerà mai, noi vogliamo andarcene da qui, io voglio tornare a casa mia.” urlò lei, fra le lacrime.
Di nuovo il più anziano intervenne cercando di consolarla. Si chinò al suo fianco posandole la mano grassoccia sulla spalla.
“Su, su, signorina, siamo tutti nella stessa situazione, vedrà che presto si risolverà tutto.”
La donnina nell’angolo emise un flebile gemito.
“Non dipende da lui, né da te.” disse Guglielmo gelido.
“Ed io? Io perché sono qui?” strillò e, scansando bruscamente la mano gentile dell’anziano sconosciuto, si rimise in piedi. “Cancellerete anche la mia memoria? E’ questo che volete farmi?”
Guglielmo la fissò intensamente. La luce della torcia si specchiò nei suoi occhi chiari che, per un attimo, sembrarono ardere di quella stessa fiamma.
“Solo se sarai tu a chiederlo.” Rispose, poi rivolse a Ranuccio uno sguardo d’ intesa.
Il giovane annuì e, poggiando le mani sulle spalle della ragazza, la spinse verso l’uscita.
Lei cercò di opporsi, voleva saperne di più, voleva capire.
“Ranuccio ti spiegherà tutto quello che devi sapere. Io ho già visto…” Guglielmo le rivolse un’occhiata carica di disprezzo. “…quello che non avrei voluto vedere.” La congedò.
“Andiamo,” le disse Ranuccio, prendendola per mano. “Ti mostrerò chi siamo.”
Lei si sottrasse stizzita al suo tocco, lui sorrise e la sorpassò per farle di nuovo da guida.
Ad un cenno di Guglielmo anche gli altri uscirono dalla stanza.
 

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Capitolo 5
*** Cap. 5 La ragazza della Cava ***


Cap. 5


Di nuovo nell’ingresso, trovarono Freda che aveva preparato dei calici colmi di una strana bevanda.
“Bevete qualcosa, avete molta strada da fare sino alla cava.”
“Dove volete portarmi?” Chiese Kore.
“Dove vive la maggior parte di noi. Lì troverai un alloggio. La città è solo per i Discendenti.”
Rispose Ranuccio afferrando con una sola mano uno dei calici. “Bevi, non troverai questa roba alle cave, è una bevanda per privilegiati.”
Kore prese il suo calice e assaggiò incerta il liquido giallognolo. “Sembra succo di frutta.” mormorò.
“Oh sì, è frutta, non è meraviglioso?”
“Sì, sì, certo.” Mugugnò Kore con poca convinzione.
L’uomo grasso sollevò il suo calice. “Avrei preferito un buon vino, ma… Accontentiamoci.”
“Vino?” Ranuccio fece una smorfia. “Lo sai, per avere del vino dovresti varcare i cancelli della Città del Sole, ma non credo che ti permetterebbero di uscirne tanto facilmente. O forse no? Potresti cucinare per loro.” Ghignò.
Il corpulento uomo bevve con rassegnazione, e le sue labbra si piegarono in una smorfia disgustata. “Ottimo davvero.” sbuffò. Poi, guardandosi intorno: “Beh, visto che nessuno ci ha presentati, farò da solo. Mi chiamo Bertone, ehm, sì insomma, Berto, ma tutti mi chiamano Bertone, per via della mia... ehm…” Si portò le mani alla cintura dei pantaloni esibendo un girovita che avrebbe fatto invidia ad un lottatore di Sumo. “Io faccio il cuoco, sai?” e strizzò l'occhio a Kore. “Anche se qui c’è ben poco da cucinare.”
La donna dai capelli rossi lo fissò con uno sguardo triste, ma poi anche le sue labbra si piegarono in un incerto sorriso e, avvicinandosi a Kore, si presentò.
“Io… sono Lucia. Sono arrivata qui molti anni fa, sono fra quelle che qui chiamano Figlie della luce, come te”.
“Sei stata nel negozio di mio zio?” mormorò dubbiosa la ragazza.
“Oh beh, non esattamente.” intervenne Ranuccio. “Le porte si aprono a caso e ci sono ingressi al nostro mondo sparsi in diversi punti della terra.” spiegò. “A volte si trovano all’interno di grotte, altre in mezzo ai laghi. Qui una volta è finito uno che era caduto dalla barca. Stava per affogare. Quando l’hanno trovato era convinto di essere morto, e credeva che gli uomini che aveva di fronte fossero angeli.”
“Sì, sì, ero io quello.” Lo interruppe Bertone. “Ma con tutto il buon vino che avevo in corpo quella sera avrei potuto scambiare per un angelo persino Guglielmo.” Si chinò e fissò gli occhi Kore. “L’Arcangelo Michele magari…” ridacchiò.
I cinque gli dedicarono uno sguardo di commiserazione, allora lui si schiarì la voce. “Oh, beh, insomma, lasciamo stare.” Si rivolse alla donna e ai due ragazzi.
“Voi resterete qui per stanotte, sono certo che Silas si farà vivo. Probabilmente avrà ritenuto più opportuno non scendere alla cava, con tutti i segugi che sono in giro questi giorni.”
Lucia annuì.
Kore, ignorando l’ultima parte del discorso, tornò ad interrogare Bertone su l’unica cosa che le interessava davvero.
“Quando siete arrivati qui?”
“Circa vent’anni fa.” Rispose lui. “Io, Lucia, e Marietta che conoscerai, siamo arrivati qui lo stesso giorno.
“Vuol dire che avete attraversato la soglia insieme?”
“No, no, non è così.” Intervenne Ranuccio. “L’apertura è molto ampia, non è una vera e propria porta. Insomma quando si apre, tutti quelli che si trovano ad una certa profondità, anche se sono molto distanti fra loro, finiscono per essere risucchiati quaggiù.”
Kore lo fissò pensierosa.
“Infatti non eravamo insieme e non siamo arrivati qui nello stesso momento: io sono arrivato qui molte ore prima di loro.” disse Bertone.
“Oh, sì, questo è un altro aspetto affascinante della soglia.” Spiegò il ragazzo. “In realtà l’hanno attraversata quasi contemporaneamente, ma, come dire? La porta ha la brutta abitudine di restituire una alla volta le persone che cattura.” Sollevò le spalle. “Non abbiamo mai capito il perché”.
“Stupendo!” bofonchiò Kore. “Non sapete come arriviamo qui, non sapete come mandarci indietro…”
“Beh, noi non conosciamo il modo. Gli antichi sì, e hanno trasmesso il segreto ai Sapienti, ma… come dire? Non sono disponibili.”
“Che vuol dire ‘non sono disponibili’?” sbottò Kore, piuttosto stizzita.
“Beh, vuol dire esattamente quello che ho detto, ma non sono cose di cui parlare in questo momento.” Posò il suo bicchiere e si avviò verso la porta di ferro da cui erano entrati, ne afferrò la maniglia e la spalancò tirandola verso di sé. Un rumore inquietante di ferraglia rimbombò nella stanza. “Ora dobbiamo andare.”
Kore avviandosi verso l’uscita, passò di fronte ai due ragazzi. “E voi? Non l’avete un nome?” chiese sgarbata.
“Ah, loro sono Leo e Makis.” La informò Bertone. Poi si chinò parlando al suo orecchio. “Sono un po’ preoccupati, è comprensibile che non abbiano voglia di fare amicizia.”
Uno dei due ragazzi si fece avanti e tese la mano verso Kore. “Scusa! Io sono Makis.” Kore restituì il saluto sentendosi un po’ in colpa per il modo in cui si era rivolta a loro. Come un lampo le tornarono in mente le parole di Bertone, qualcosa su un uomo che non si trovava, forse i ragazzi e Lucia erano la sua famiglia. Anche il fratello più piccolo si avvicinò e le rivolse un timido saluto.
Poi Lei, Ranuccio e Bertone uscirono dalla casa.
Una volta fuori cominciarono a scendere altri scalini, e percorsero una stretta galleria che immediatamente si ramificò in un altro dedalo di cunicoli.
Ranuccio camminava sempre avanti a loro. Aveva ripreso a guardarsi intorno circospetto, come se volesse controllare di non essere seguito.
Procedevano a tentoni, visto che l’unica fonte di luce era data da piccole fiammelle posizionate qua e la in fori scavati nella pietra. Evidentemente Ranuccio non riteneva prudente portare con loro una torcia.
D’improvviso un rumore li fece voltare. Ranuccio afferrò Kore e la trascinò dietro una sporgenza. Anche Bertone si appoggiò alla parete trattenendo il respiro nel vano tentativo di far sparire la pancia.
Kore tese l’orecchio mentre cercava di capire cosa avesse messo in allarme la loro guida. In fondo al cunicolo vide un gruppo di anziane donne. Erano le stesse che avevano incontrato al suo arrivo. Avevano i capelli lunghissimi, completamente bianchi, piuttosto arruffati e stoppacciosi.
“Maledizione!” imprecò sottovoce Ranuccio. Kore ormai aveva capito che, chiunque fossero quelle vecchie, il giovane ne aveva una gran paura, e il sentimento contagiò anche lei che iniziò a tremare.
Si voltò e trovò dietro di sé una spaccatura della roccia che sembrava una nicchia. D’istinto si infilò all’interno, anche Bertone si accostò maggiormente alla parete, ma Ranuccio afferrò Kore per un braccio.“Non qui,” sussurrò. “Nascondersi non serve.” La tirò quasi a forza verso di sé, poi rivolgendosi all’altro gli fece cenno di seguirlo. “Dobbiamo scappare”. Prese a correre a perdifiato tra i cunicoli in discesa, aiutandosi con le braccia, per non scivolare a causa del pavimento reso viscido dall’umidità.
Bertone faticò a stargli dietro.
Quando furono sufficientemente lontani, Ranuccio si fermò e si piegò in avanti, cercando di riprendere fiato.
“Ma si può sapere chi sono quelle donne?” chiese ansimando Kore.
“Quelle erano segugi.” Rispose Ranuccio, la voce era affaticata, ma nel suo volto si leggeva una soddisfazione quasi infantile, come se rischiare di rompersi l’osso del collo per fuggire da un pericolo, che Kore non riusciva ancora a stabilire quanto grave, fosse un divertimento. Era come se avesse appena guadagnato cento punti ad un videogioco. “Sono streghe, più o meno.” Fece una smorfia. “Avrebbero percepito la nostra presenza se fossero arrivate abbastanza vicine.” Continuò. “Con loro, nascondersi non serve.”
“Sono loro, sono i segugi che hanno preso Fabian?” Kore trasalì. Per un attimo si chiese se avesse fatto bene a seguire il ragazzo piuttosto che farsi prendere e raggiungere così suo fratello.
Lui annuì, poi la fissò con aria comprensiva, come se avesse intuito il suo pensiero. “Se ti avessero presa, saresti stata portata immediatamente alla grotta del sonno. Non potrai salvare tuo fratello se dimenticherai di averlo.”
Ripresero a scendere, finché non giunsero ai piedi di Lapidia. Uscirono all’esterno sul fondo del cratere. Tutt’intorno si aprivano dei fori, porte e finestre scavate nella pietra, illuminate come nella città, ma il loro aspetto era molto più rozzo. Scalette ripide si arrampicavano sui costoni unendo le une alle altre le insolite abitazioni. A poca distanza da dove si trovavano si apriva un ampio portale, doveva essere l’ingresso principale della città, Ranuccio evidentemente aveva optato per una strada meno frequentata.
“Beh, qui ci separiamo.” Disse Bertone salutando il ragazzo con una manata sulla schiena che per poco non lo fece cadere a faccia in giù. Mentre si limitò a sorridere alla ragazza, prima di allontanarsi.
Kore intanto continuava a guardarsi attorno. C’era movimento, nonostante fosse notte: qualcuno si affannava entrando e uscendo dai cunicoli rischiarati da piccole lanterne. Sembrava di trovarsi in un formicaio.
“Sono minatori?” domandò alla sua guida.
“Sì, estraggono la pietra verde. Si tratta di una pietra magica che i Discendenti usano per produrre luce e calore. E’ molto preziosa, direi vitale. Io abito lassù.” disse poi indicando uno dei tanti buchi sulla parete.
Le labbra di lei si piegarono istintivamente in una smorfia disgustata.
“Sai io qui ci sono nato,” continuò Ranuccio intanto che, aggrappandosi ad una vecchia fune, iniziava a salire i ripidi gradini. “Ma mi hanno detto che nel mondo di sopra vivete tutti in case molto belle.”
“Sì, molto belle.” Rispose Kore, e, svogliatamente, lo seguì in quella pericolosa salita lungo la parete rocciosa.
Arrivati a metà strada però si fermò e protese il braccio verso l’altro, trattenendolo.
“Cosa intendeva Guglielmo, quando ha detto di aver visto quello che non voleva vedere?”
Ranuccio la guardò per qualche istante senza parlare, come se stesse valutando se fosse il caso di rispondere o meno.
“Sai,” disse infine, “Per Guglielmo tu sei l’ennesima delusione.”
“Delusione? Ma cosa diavolo c’entro io con lui?” Kore non riusciva a capacitarsene, ma aveva percepito l’astio dell’uomo e lo trovava estremamente ingiusto. Era ingiusto che, nonostante l’enormità di ciò che le era appena accaduto, qualcuno potesse addirittura prendersela con lei.
“Il suo più grande desiderio è poter varcare quella soglia,” Spiegò Ranuccio. “E spera che qualcuno dall’altra parte scopra l’ingresso e il modo di tenerlo aperto per farci fuggire da qui. Purtroppo, tutti quelli che arrivano da questa parte, non hanno la più pallida idea di come ciò è accaduto e non sanno come fare a tornare.” Le labbra assunsero una piega amara. “Proprio come te.”
Kore fissò gli occhi tristi del giovane.
“Lui sperava che io sapessi come tornare indietro?” mormorò.
Il ragazzo annuì. “E’ stato evidente fin dal primo momento che eravate finiti qui casualmente come tutti gli altri.” Le offrì il braccio aiutandola a superare dei gradini particolarmente ripidi. “Attenta a quello,” disse indicando uno spuntone di roccia, poi continuò. “La notizia che tuo fratello era stato preso dai segugi ci aveva preceduti, ma forse lui ha sperato fino all’ultimo che almeno tu…”
“Già, e quando ha visto che non sono altro che una stupida ragazzina, le sue speranze si sono miseramente infrante.” Abbassò lo sguardo, “Assieme alle mie”.
Lui sorrise appena. “Ecco, appoggiati a me.” L’aiutò a scavalcare un ultimo ostacolo.
Giunti all’ingresso di una delle abitazioni rupestri, una giovane donna andò loro incontro.
“Tu devi essere la nuova arrivata.” Esordì asciugandosi le mani nell’ampio grembiule. “Povera cara, sarai spaventatissima. Vieni, entra.” disse accennando con la mano alla grotta alle sue spalle.
Kore notò subito che era molto diversa dalle altre persone che aveva incontrato fino a quel momento. Se non fosse stato per lo strano abbigliamento avrebbe potuto definirla ‘normale’. Aveva grandi occhi blu e una folta chioma di capelli ricci e castani che fuggivano al sottile legaccio che li imprigionava dietro la nuca allargandosi attorno alla sua testa come un cespuglio ondeggiante.
“Mi chiamo Marietta.” continuò.
“Io… Io sono Kore.” Disse timidamente.
“Marietta è l’altra arrivata qui assieme a Bertone e Lucia.” La informò Ranuccio. “Lei è come te, giunta qui dalla soglia proibita, o, dovrei dire, da una delle soglie”.
Kore gli rivolse uno sguardo stupito, mentre varcava l’ingresso dell’insolita dimora.
“Quindi tu… Tu sei arrivata qui vent’anni fa?”
La donna sorrise.
“Infatti. Ero una bambina.”
Kore rabbrividì, realizzando che avrebbe potuto trascorrere in quel luogo il resto della sua vita.
“Sono finita in una degli ingressi situati in Italia. Ce ne sono in tutto il mondo, sai?” Continuò.
Ma Kore non la stava ascoltando. Vent’anni era un tempo inconcepibile, i suoi genitori, suo fratello, come avrebbe fatto senza di loro, come avrebbe potuto sopravvivere in un posto simile?
“Io voglio tornare a casa.” Tremò.
La donna l’abbracciò.
“Ci tornerai presto, vedrai.”
“Ma la porta… La porta è chiusa e qui nessuno sa come aprirla, nessuno c’è mai riuscito.” Prese a singhiozzare.
Gli occhi di Marietta corsero ad incontrare quelli del ragazzo che scosse appena la testa come se volesse impedirle di dire qualcosa.
“Già, nessuno ci è mai riuscito.” mormorò lei, facendola accomodare su un altro duro sgabello di pietra e infilandole tra le mani una ciotola piena d’acqua. “Ma, sono certa che Guglielmo riuscirà a portarci fuori di qui.”
“Il vostro amico Guglielmo, a quanto pare, spera che l’aiuto gli piova dal cielo, o almeno dal soffitto di questo maledetto posto.” rispose la giovane con rabbia.
“Non dire così. E’ vero, lui spera che qualcuno venga ad aiutarci, ma non ha rinunciato a cercare di aprire la soglia da questa parte. Io non ho smesso di crederci.”
“Già, ma forse l’avranno fatto quelli che ti hanno cercata dall’altra parte. I tuoi genitori, gli amici.” Le mani tremarono, versando un po’ dell’acqua della ciotola sul pavimento grezzo. “Mio Dio, sono passati vent’anni. Come hai resistito tanto tempo in questo posto?”
Marietta si morse il labbro voltandosi di spalle perché la ragazza non potesse vedere la lacrima che le era scivolata sulla guancia.
Ma Kore se ne accorse ugualmente.
“Io, mi… mi dispiace, non volevo,” si scusò. “Ma ho paura, io voglio tornare a casa, voglio rivedere mio fratello…” scoppiò in un pianto dirotto.
Ranuccio si avvicinò a Marietta e, prendendola per mano, la allontanò da lei.
“Laciamola sfogare, ne avrà bisogno.”
“Certo.”
Entrambi uscirono.
 

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Capitolo 6
*** Cap. 6 Una storia incredibile ***


Cap. 6

Kore si ritrovò sola nella piccola stanza. Pianse e si sfogò.
Poi quando non ebbe più lacrime si alzò e, stropicciandosi gli occhi si avvicinò alla parete. Vide che vi erano state scavate delle piccole nicchie. Rabbrividì: quei buchi ricordavano i loculi di una catacomba, anche se in realtà erano semplici ripostigli stracolmi di roba vecchia.
L’insolita abitazione sembrava uscita da un museo. Oggetti di terracotta di svariate forme erano stipati nei ripiani. Tutto intorno era umido e annerito. Si chiese se gli abitanti di quella strana città avessero problemi alle ossa.
Poi il suo sguardo fu attirato da qualcosa che sembrava un foglietto. Era nascosto da una pila di piatti. Lo sfilò un po’ timorosa e scoprì che si trattava di una fotografia. Una tipica foto ricordo del circo; di quelle che tutti i genitori, prima o poi, fanno fare ai propri figli. Un tizio con la divisa da domatore, sosteneva una bambina a cavallo di un pony. Lei aveva i capelli lunghi e ricci di un bel castano dorato, e grandi occhi blu. La sua espressione preoccupata e concentrata la faceva sembrare più grande, anche se non doveva avere più di cinque anni.
“Potrei essere arrestata per quella, sai?”
Una voce alle spalle di Kore la fece sussultare.
Si voltò. Marietta era entrata di nuovo nella stanza e le sorrideva. Teneva in mano un vassoio con una ciotola e del pane. Dietro di lei, Ranuccio se ne stava appoggiato allo stipite con le braccia incrociate sul petto.
“L’avevo con me quando sono arrivata. Una fotografia in un mondo bloccato al medioevo,” sorrise. “Non ne troverai un’altra.” Continuò Marietta avvicinandosi.
Si lasciò cadere sul sedile di pietra e l’impatto con la superficie durissima le strappò una smorfia. “Come non troverai un sedile decente.” Sbuffò, appoggiando il portavivande sul tavolo o, piuttosto, sul ripiano scolpito tutto d’un pezzo nella roccia che fungeva da tavolo.
“Sì, ho notato: qui i mobili li fanno di pietra.”
“Beh, non hanno molta scelta. Da quando la porta è stata sigillata sono rimasti isolati. Non arriva più niente dal mondo esterno.”
“Trovare una sedia di legno qui è come avere un trono completamente ricoperto d’oro. Ce ne sono di molto antiche ma sono pochi a possederne.” Aggiunse Ranuccio. Il suo viso si era illuminato come se parlasse di una delle sette meraviglie del mondo.
“Ma non possono costruirne altre?” Domandò Kore, accomodandosi di fronte a Marietta.
Marietta la guardò come se avesse detto un’eresia e in effetti, era così.
“Per costruirne serve il legno.” Le fece notare con un sorriso, mentre la invitava a servirsi.
Kore si morse il labbro.
“Ma certo, il legno. Non esistono alberi sottoterra.” Mormorò, inzuppando il pane nella ciotola piena di quello che doveva essere latte; non osò chiedere di quale animale.
“Infatti qui non ci sono alberi.” continuò Ranuccio. “Non sai cosa darei per vederne uno. Ce ne sono nella Città del Sole, è da lì che ci arrivano cibo e vestiario, ma a noi non è permesso vederla. Pare che la sua bellezza riesca ad incantare gli uomini e a farli impazzire.”
Ranuccio aveva un’aria sognante.
Kore si voltò di scatto verso di lui.
“Voglio ritrovare mio fratello.” disse decisa ignorando le parole dell’altro. “Voi sapete dov’è?”
Ranuccio e Marietta si scambiarono uno sguardo incerto.
“L’avranno portato alla Grotta del Sonno.” Mormorò la donna.
Lui scosse il capo.
“Non c’è modo di arrivarci. Se scoprissero che ti abbiamo nascosta, finiremmo tutti nei guai.”
“Ci andrò da sola. Se non volete accompagnarmi.”
“No, tu non ti rendi conto. Questo non è un gioco. So come vanno le cose nel tuo mondo. Ma qui è molto diverso. La punizione per chi aiuta quelli come te è terribile.”
“Ha ragione.” Confermò Marietta. “Ranuccio, così come Guglielmo, qui sono considerati dei ribelli. E’ proibito cercare la soglia, è proibito persino parlarne, e, per evitare che la gente si faccia strane idee, tutti quelli che vengono dall’esterno vengono presi e i loro ricordi cancellati prima che possano contaminare con le loro storie di libertà gli abitanti di questo mondo.”
Si avvicinò all’ingresso della sua casa e guardò in basso, nel burrone dove le fiammelle delle torce dei minatori si muovevano in modo frenetico creando un insolito gioco luminoso..
“Molti di loro sono qui. Sono convinti di essere nati qui, non ricordano niente del loro passato, non sanno chi sono stati. Sanno solo chi sono ora.”
“E chi sono ora?” La voce di Kore era ridotta ad un soffio. Era chiaro che non aspettava nessuna risposta alla sua domanda.
Marietta non parlò, mentre gli occhi di Kore corsero a supplicare Ranuccio.
“Vedi, questo è un mondo ostile.” Iniziò a spiegare lui. “Non è stato creato per i Figli della Luce. Nessuno di noi, parlo di me, te, o Marietta potrebbe resistere per più di una settimana quaggiù. Quelli ai quali sono stati tramandati i segreti della magia sono temuti e rispettati, perché solo grazie a loro possiamo sopravvivere. Gli altri… i Figli del Sole, o chi non ha abbastanza potere per trovare il proprio posto in questa società è… Ecco puoi vederlo tu stessa.” Disse accennando agli uomini in fondo alla scarpata impegnati nel loro duro lavoro.
Era evidente che vivevano in condizioni di estrema povertà.
“E’ questo che succede a quelli come me? Lavorano come schiavi per un popolo di stregoni?”
“In realtà fanno l’unica cosa che sono in grado di fare per dare il loro contributo. Altrimenti sarebbero solo un peso in questo mondo. Qui non esisterebbe niente, non crescono piante, non sopravvivono animali e quelli che ci sono... beh, non sono del tutto addomesticati.” Fece una smorfia. “Non ci sarebbe né cibo, né vestiario, nulla. E’ solo la potenza della magia che permette a questa gente di sopravvivere. In cambio coloro che non ne conoscono i segreti svolgono le mansioni più umili. Cose che un Discendente non farebbe mai.”
“Discendenti?” domandò Kore piuttosto spazientita. “E’ da quando sono arrivata che sento parlare di questi Discendenti, ma discendenti di chi?”
Marietta si alzò, prese un'altra ciotola per sé e si versò un po’ di latte.
“I Discendenti sono quelli che vivono qui da molte generazioni,” Disse. “Sono, ecco...” Fissò per un attimo il liquido bianco che ondeggiava nella scodella, come se potesse trovarci le parole più adatte a spiegarsi. “Sono Maghi, discendono direttamente dai primi abitanti di questo mondo.” Poi un lampo le attraversò lo sguardo. “Ranuccio mi ha detto che hai conosciuto una di loro.”
Kore la fissò stupita. Poi rivolse un’occhiata interrogativa al ragazzo: se aveva visto un Discendente, di certo non doveva avere nulla di speciale.
Ripensò alle persone che aveva incontrato al suo arrivo: Bertone aveva detto di essere giunto lì dalla soglia, così come Lucia e Marietta. Forse Guglielmo?
No, lui non poteva essere un Discendente, Marietta l’aveva definito un ribelle, e inoltre non aveva affatto l’aspetto di un mago, anche se lei non aveva idea che aspetto potesse avere un mago.
Poi le sue labbra si piegarono in una smorfia disgustata, e un brivido le percorse la schiena, mentre il volto incartapecorito della donna che li aveva accolti compariva nella sua mente.
“Freda?” disse con un fremito nella voce, intanto che il suo cervello affiancava al viso della vecchia, centinaia di altri volti che l’avevano accompagnata fin da bambina. Volti disegnati nei libri di favole, figure nere e raggrinzite di streghe, fattucchiere, accanto ai loro calderoni fumanti.
Marietta annuì e sorrise.
“Freda è una maga molto potente, le ho visto fare cose eccezionali da quando sono arrivata in questo mondo.”
Kore appoggiò con i gomiti al tavolo e si afferrò i capelli.
“E’ assurdo, insomma, lo capite che è assurdo?” Gridò. “Sono finita in un libro, no, peggio, sono finita in qualche orrendo incubo, come quelli che avevo da piccola?”
Marietta le si avvicinò. “Cara, non devi…”
“Cosa non devo? Non devo preoccuparmi? Non devo prendermela?” Urlò l’altra. “Non so dove è finito mio fratello, non so dove mi trovo. Da quando sono arrivata ho sentito solo chiacchiere. Sono finita in un mondo di maghi. Hanno cancellato la memoria a mio fratello e lo hanno portato chissà dove. Non sapete come uscire di qui. Gli schiavi… I maghi… Quali maghi? Finora ho visto un matto che sembrava appena uscito da un circo, una vecchia rattrappita e un mucchio di gente che lavora per non so chi.” Tutta la tensione accumulata scivolò fuori dalle sue labbra con una violenza che la ragazza non credeva neppure di possedere. Si ritrovò ansimante a fissare Marietta che la guardava a sua volta con le labbra serrate e un’espressione di sconfortata indulgenza stampata sul viso.
Un sospiro sfuggì dalle labbra di Kore che si alzò e fece qualche passo nervoso attorno al tavolo, come avrebbe fatto un animale in gabbia. Poi si sedette di nuovo, posò entrambe le mani sulla lastra di pietra che fungeva da ripiano e fissò Ranuccio con ritrovata determinazione.
“D’accordo,” disse decisa. “Se è un sogno, domani mi sveglierò e non sarà successo niente, ma se non lo è, voglio sapere tutto di questo posto, ogni particolare.”
Marietta le posò una mano sulla spalla.
“Forse dovresti aspettare domani, ora sei stanca.”
“No!” Kore scansò bruscamente la mano di Marietta. “Ora mi direte cos’è questo posto orrendo e per quale assurda ragione un mago o chiunque altro sceglierebbe di vivere sepolto qua sotto?
“Sepolti?” Ranuccio sospirò. “Sepolti.” ripeté con un filo di voce, poi si accomodò sul sedile di pietra, e prese ancora un profondo respiro accingendosi a raccontare una lunga storia.
“Non era così che doveva andare.” scosse il capo. “Il mondo sotterraneo doveva essere per privilegiati. I nostri antenati in un certo senso erano stati ammessi ad un Paradiso.”
Kore stava per obiettare che il luogo in cui si trovavano non somigliava affatto al Paradiso, ma Ranuccio seguitò.
“Creature eccezionali plasmarono, millenni or sono, un mondo segreto, un regno capovolto, perfetto e bellissimo.
Non erano maghi e nemmeno uomini, non come noi. Erano esseri dotati di poteri straordinari, in grado di controllare la natura e persino il tempo.”
Lo sguardo della ragazza si spostò incerto da Ranuccio a Marietta, la sua ospite annuiva. I loro occhi si incrociarono e la donna, con un cenno del capo, la invitò a seguire con attenzione Ranuccio che intanto continuava il suo racconto:
“Prima di rifugiarsi sotto terra vivevano alla luce del sole ed erano adorati e temuti dagli uomini. Dei, Demoni, in qualunque modo i popoli di ogni razza e lingua avessero deciso di chiamarli, loro ne avevano guidato l’esistenza dall’inizio dei tempi. Poi abbandonarono la superficie e del loro immenso potere non rimase che un pallido ricordo fra i figli della luce; un ricordo tramandato da generazioni di maghi, sacerdoti iniziati agli antichi misteri, studiosi, alchimisti, chiromanti, veggenti e chiunque avesse delle doti fuori dal comune.”
Ranuccio parlava con calma e sicurezza, come se avesse ripetuto quella favola centinaia di volte, o l’avesse udita raccontare da qualcun altro. Una storia tramandata da secoli, forse trasformata, intessuta di bugie e mezze verità. Ed ora lui, stava rievocando abilmente quel lontano passato, come avrebbe fatto un bravo attore di strada, di quelli che raccontano le loro fiabe seduti su un marciapiede davanti ad un pubblico incantato di bambini.
Nell’udire le sue parole le labbra della ragazza assunsero via via le pieghe più insolite, e la sua espressione passò dallo stupore, all’incredulità e persino alla rabbia.
“A loro gli Dei avevano svelato il segreto per raggiungere il loro regno.” continuò il giovane. “Molti maghi varcarono la soglia e non tornarono più in superficie. I loro figli nacquero nelle città sotterranee, e così, per generazioni, i loro poteri crebbero ed essi divennero sempre più simili gli Dei che servivano. Altri, invece decisero di vivere a cavallo dei due mondi: erano in grado di attraversare la soglia a loro piacimento e usarono il sapere acquisito per guidare, curare e istruire i figli della luce.”
“Ma ora non ne sono più capaci? Perché, se ci sono ancora Maghi qui, non possono attraversare la Soglia?” lo interruppe Kore speranzosa.
“Perché il passaggio è stato sigillato; gli Dei hanno voluto così. In realtà l’hanno fatto per proteggere i Maghi, per salvarli.”
Kore fissò il ragazzo con gli occhi spalancati.
Lui afferrò un pezzo di pane e lo inzuppò nella ciotola di latte.
“Permetti, vero?” chiese, mentre già il cibo gli riempiva la bocca e poi, senza preoccuparsi di inghiottire, prosegui il suo racconto.
“Secoli fa,” si grattò la testa pensieroso. “Sì, più di mille anni, credo, quando i Figli del Sole cominciarono a temere la magia, coloro che la praticavano, stregoni, ma anche studiosi furono costretti a nascondersi. Molti vennero uccisi, e l’antico sapere fu cancellato e dimenticato nei roghi delle biblioteche.
Il sottosuolo divenne l’unico rifugio sicuro per coloro che erano dotati di capacità magiche.
Per proteggere loro e se stessi, gli Dei proibirono ogni contatto con il popolo della superficie.
“Ma… Non capisco.” Kore si portò l’indice sulle labbra, mordicchiandolo nervosamente. Un gesto che faceva spesso quando aveva bisogno di concentrarsi. “Più di mille anni?” Ripeté quasi a se stessa. “Come è possibile? La pratica della magia non è scomparsa, la caccia alle streghe non è avvenuta mille anni fa, ma è molto più recente, persino oggi è pieno di…” fece una smorfia. “…Maghi o roba simile.”
“Già, è quella ‘roba simile’ che ci ha portato a questo punto.” sbuffò Ranuccio.
“Vedi, quando parlo di Maghi non mi riferisco ai tizi che dicono di saper leggere il futuro giocando con un paio di carte o a quelli che, mettendo strani intrugli nelle bevande, pensano di poter far innamorare la gente, o farla diventare ricca e altre stupidaggini del genere. No, io parlo di vero Potere come quello di riuscire a mantenere in piedi un mondo come questo.” Fece un amplio gesto delle braccia per indicare quel luogo.
“Quando gli ingressi furono chiusi e i Maghi decisero di restare nel mondo sotterraneo…”
“Restare qui?” Kore lo interruppe di nuovo: non capiva come si potesse scegliere di vivere in un posto simile pur di non rinunciare alla magia.
“No, non qui.” Si affrettò a precisare l’altro. “Il regno di cui parlo si trovava in regioni molto più profonde di queste. Qui abbiamo molti racconti: si dice che quel posto fosse magnifico, era davvero un Paradiso… Ed ora fammi finire!” Si lasciò sfuggire un sospiro cercando di riprendere il filo del discorso.
“Ecco, dicevo: fra coloro che vennero a vivere nel sottosuolo non c’erano solo stregoni: altri si erano uniti al popolo dei prescelti, esattamente quel tipo di Maghi o ‘roba simile’ che non avrebbero mai dovuto venire qui. In qualche modo riuscirono ad entrare, grazie allo studio di antichi testi, e nonostante le loro mediocri capacità. Alcuni spinti dalla curiosità, altri in cerca di illuminazione, riuscirono a raggiungere il Regno degli Dei, ma in molti di loro il potere era, appunto, così debole che non potevano neppure definirsi Maghi.
Contaminarono col loro sangue il popolo dei prescelti, la conoscenza andò perduta e così quella gente non venne più ritenuta degna di restare nel Paradiso.
Furono scacciati quasi tutti, ma non poterono ritornare in superficie perché gli ingressi non furono riaperti. Così rimasero intrappolati per generazioni in questo limbo oscuro fatto di grotte, cunicoli, fiumi di lava. A metà tra il Paradiso e il mondo degli uomini.
Qui, in questo luogo inospitale sopravviviamo da secoli proprio grazie ai Discendenti, uomini nel cui sangue scorre ancora l’antico potere dei primi abitanti, e che hanno la capacità di ricreare, almeno in parte, l’energia vitale del sole, far crescere il grano nell’oscurità, far germogliare fiori e maturare la frutta.
“Quasi tutti?” Ripetè Kore “Hai detto che furono cacciati ‘quasi tutti’, vuol dire che qualcuno di loro vive ancora nel…” arricciò le labbra, incerta. “… Paradiso?”
“Ecco ci sono quelli che chiamano Sapienti. Le leggende dicono che siano ancora in grado di raggiungere il regno degli Dei o almeno possano comunicare con loro. Vivono isolati in luoghi inaccessibili. Pare che siano potentissimi e che conoscano il segreto dei passaggi per il mondo della luce, ma nessuno li ha mai visti, o dovrei dire ‘quasi nessuno’, sembra, infatti, che in alcune occasioni si siano mostrati a dei membri del consiglio, influenzando certe loro decisioni.”
“Insomma non si fanno vedere, ma dettano legge in questo mondo.” Mugugnò Kore.
Ranuccio aggrottò la fronte.
“In un certo senso sono sempre gli Dei che comandano qui, ed ora lo fanno attraverso i Sapienti.” Continuò. “E poi… Sì, poi ci sono ci sono i Discendenti, nemmeno loro furono cacciati, scelsero di vivere con i loro simili. Dovremmo essere loro grati: se non lo avessero fatto, nessuno degli esclusi sarebbe sopravvissuto in questo posto. Loro li hanno salvati condannando se stessi e i loro figli all’oscurità. Una scelta terribile dalla quale non sarebbero più potuti tornare indietro.”
“Si sono sacrificati per un popolo che ora riducono in schiavitù?”
Ranuccio scosse il capo.
“Kore, io sono un ribelle, sto lottando per liberare gli schiavi,” spiegò amabile. “… Ma non incolpo i Discendenti di questa situazione. Ogni uomo o donna che arriva dalla soglia costituisce una minaccia, una possibilità in più che il sangue dei maghi possa mischiarsi al nuovo sangue. Il giorno in cui questi uomini saranno considerati loro pari, la magia sparirà dal nostro mondo e con essa la vita.
“Ranuccio ha ragione.” S’intromise Marietta. “E’ una legge dura, ma è inevitabile. Il Consiglio a volte è costretto ad essere spietato. Stiamo parlando di sopravvivenza. I Discendenti si sono divisi in base alle loro capacità: i veggenti, gli alchimisti, i guaritori, i segugi. Alcuni sono più potenti di altri, ma collaborano per restare in vita nell’oscurità. Il giorno i cui il loro potere magico sparirà del tutto, sanno che la loro civiltà è destinata ad estinguersi. Per questo motivo hanno paura di noi: finché restiamo un popolo di schiavi non costituiamo un pericolo, ma se i figli del sole dovessero ricordare da dove vengono potrebbero ribellarsi, e sarebbe la fine.”
“Già, ma senza maghi morirebbero anche loro, per questo nessuno si ribellerà finché non riusciranno a trovare la soglia segreta.” considerò Kore.
“Esatto”. Ranuccio mimò un inchino. “infatti noi siamo qui per questo.”
Marietta sorrise.
“E tu? Tu sei un mago?” domandò la ragazza.
Una nube oscurò il volto di Ranuccio.
“Mio padre lo era. Mia madre è nata qui, ma i suoi antenati erano figli della luce. Mio padre ha pagato a caro prezzo l’aver contaminato il sangue dei Discendenti.
Io non ho mai potuto conoscere i suoi segreti. Ero troppo piccolo quando è morto.”
Si alzò e si allontanò dando le spalle alle due donne.
Ci fu un lungo silenziò poi Ranuccio seguitò in un tono di voce più allegro. “Ma ho sempre sognato di vedere il sole.” rise. “Dev’essere il sangue di mia madre. Per quello mi sono unito a Guglielmo. Un giorno varcheremo insieme la soglia ed io diventerò il re del mondo della luce.” gongolò orgoglioso.
“Certo, ti faranno re della pizza.” sbuffò lei. Poi, pensierosa, si passò di nuovo un dito sulle labbra.
“Tuo padre è stato punito per essersi innamorato di tua madre?”
Lui annuì. Ci fu ancora silenzio.
“Andiamo, sarà meglio che ti riposi un po’.” Marietta si intromise e, posando una mano sulla spalla della ragazza, la guidò verso alcuni scalini.
Immettevano in un altro vano dove c’era qualcosa che somigliava ad un letto. Un ripiano coperto di una sostanza soffice che Kore non provò nemmeno ad identificare.
“Non voglio dormire, voglio sapere tutto, voglio sapere come andare a riprendermi mio fratello.”
“Dovrai riposarti, potrebbe passare molto tempo prima che tu riesca a rivedere tuo fratello.”
Kore si sedette sul letto, era comodo. Guardò Marietta.
“Credi che lo rivedrò?”
“Certo che lo rivedrai. Presto anche lui sarà portato qui nella cava.”
“A lavorare come tutti gli altri?”
Marietta si morse il labbro.
“Non si ricorderà più chi sono.” Mormorò Kore con voce incrinata.
L’altra allora si avvicinò sedendosi sul giaciglio accanto alla sua ospite.
“Una leggenda dice che coloro che vengono dal mondo della luce, ricorderanno appena il sole illuminerà di nuovo il loro viso.” L’abbracciò. “Ora dormi.”

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Capitolo 7
*** Cap. 7 L'importanza dei ricordi ***


Cap. 7 



Aprì faticosamente gli occhi. Sentiva le palpebre pesanti, era come avere la febbre, ma non ricordava di essere stato male. In effetti, non rimembrava nulla di quello che era successo negli ultimi giorni. L’unica cosa che ricordava erano occhi che lo fissavano in modo strano, occhi scuri. Uno sguardo privo di luce, eppure tanto penetrante da essere quasi doloroso. Un uomo, il suo volto pallido. Una voce che pronunciava parole senza senso, come una serie di sillabe che parevano intrecciarsi in una spirale infinita che emergeva dal nulla assoluto. Il nulla della sua mente.
Ricordava una terribile sensazione di vuoto e ricordava che all’udire quelle parole si era attenuata.
Quella voce era come acqua per un assetato. Aveva bevuto avido ogni sillaba e poi una serie di immagini erano giunte a colmare il vuoto: il viso di una donna, una casa, la sua casa, miniere, infinite gallerie immerse in un insolito chiarore.
Sì stropicciò gli occhi con i pugni e cercò di mettere a fuoco la stanza in cui si trovava. Doveva aver sognato.
Si sollevò dal giaciglio in cui era disteso, era poco più di un pagliericcio, un sacco di stoffa grezza imbottito alla meglio. Era il suo letto.
Si guardò attorno, osservò la camera, un locale scavato direttamente nella pietra. Le pareti non avevano una forma ben definita.
Ebbe la strana impressione di non appartenere a quel luogo, eppure lo conosceva, doveva conoscerlo, era la sua casa. Lì era nato, e fuori da quella stanza c’era sua madre, probabilmente intenta a preparare il pranzo.
Chinò lo sguardo e osservò con curiosità il camicione grigio che indossava. Aveva dei lacci nella parte superiore e delle grossolane cuciture in evidenza sulle maniche e sui lati. Era troppo largo per lui e, abbinato alla sua carnagione chiarissima, lo faceva sembrare magro e malaticcio, e molto più piccolo della sua età.
Si alzò e, nel momento in cui toccò il pavimento gelido, rabbrividì.
Si guardò attorno, era certo di dover mettere qualcosa ai piedi, ma non ricordava esattamente cosa. Lì, vicino al letto c’erano delle calzature fatte di stringhe intrecciate. Le infilò e le sue labbra si piegarono in una smorfia, mentre tentava senza successo di adattarne la forma al suo piede.
Rassegnato fece qualche passo poco convinto.
La pietra era decisamente fredda e umida, per nulla piacevole, e quelle strane suole erano meglio di niente.
Provò a saltellare come un bimbo ai suoi primi passi che sperimenta la sensazione del terreno sotto i piedi, ma un capogiro lo costrinse ad appoggiarsi al muro. Ormai era sempre più convinto di essere stato malato, anche se non se ne ricordava.
Si trascinò fino all’ingresso e sbirciò attraverso la tenda lacera che lo separava dal locale attiguo e, in effetti, vide una donna affaccendata attorno ad una specie di forno.
“Mamma!” quella parola gli scivolò dalle labbra come un soffio.
La donna si voltò. Aveva un aspetto duro e i lineamenti irrigiditi in una smorfia che era un misto di severità e disgusto.
“Era ora.” Grugnì. “Tuo padre ti sta aspettando, devi aiutarlo a sistemare il carretto.”
Lui la fissò inebetito, c’era qualcosa di tremendamente stonato in quella situazione che gli era familiare, ma in modo insolito, come se la donna che gli stava di fronte fosse la materializzazione del sogno che aveva appena fatto.
“Mamma!” pigolò di nuovo.
“Ma sei sordo o stupido?” gridò l’altra, “Ti ho detto di muoverti, o preferisci che venga tuo padre a prenderti per i capelli?”
Il ragazzino rabbrividì. Si precipitò verso il letto e si sporse al di sopra di quello per afferrare il mantello che pendeva da un chiodo nella parete. Lo guardò per un attimo chiedendosi se lo avesse mai indossato prima, poi scosse il capo e, gettandoselo sulle spalle, puntò dritto verso l’uscita.
Scese rapidamente una ventina di scalini.
Non era sicuro di dove l’avrebbero portato, ma sapeva che quella era la strada giusta.
La sua casa era stata costruita con grossi sassi squadrati su uno spuntone roccioso in mezzo ad una pianura. In lontananza si vedeva un grande cratere, al centro del quale la città di pietra si innalzava come un pilastro, una gigantesca colonna traforata, più stretta alla base. Pareva sostenere a stento la volta, come un cielo nero che incombeva su ogni cosa, minaccioso e soffocante.
Si fermò ad osservarla: la città era circondata da una fitta nebbia che, riflettendo il chiarore verdastro del sole, le donava un aspetto sinistro e irreale.
Alle sue spalle, dietro la piccola casa, si snodava la grande via delle carovane, costeggiata, a sinistra, dalla catena delle Dodici Dita e, a destra, dal mare dei cristalli. All’orizzonte sulla fitta distesa di stalagmiti della foresta pietrificata si levavano maestose le mura della Città del Sole. Era da lì che la luce si irradiava in tutto il mondo sotterraneo. Era costruita su un altura perciò era visibile anche da grande distanza.
Quella città era un luogo proibito per quelli della sua casta. Solo ai Discendenti era permesso abitare all’interno della fortificazione. Ma lui l’aveva visitata assieme a suo padre, almeno, doveva essere così, visto che ricordava di aver visto l’interno, ricordava di aver visto il sole.
Suo padre era un fabbro e gli artigiani in città erano molto richiesti e apprezzati, e, nonostante il suo fosse un lavoro duro, gli permetteva di offrire alla propria famiglia una vita dignitosa, lontano dalle miniere.
Giunto in fondo alla scala il ragazzo si guardò attorno, poi, lasciandosi guidare dal forte rumore metallico, raggiunse un uomo tozzo e muscoloso che si affannava per raddrizzare la ruota di un piccolo carretto di ferro a colpi di martello. Il frastuono provocato dalle martellate era davvero fastidioso, i colpi amplificati dalle pareti in quello che assomigliava ad un laboratorio artigiano gli arrivavano fin nelle ossa rimbombandogli nella testa e nel petto.
Strinse i denti e non disse nulla, mentre lo sguardo passava in rassegna gli oggetti di metallo di varie forme appesi alle pareti. Oggetti di uso quotidiano, come pentole e attrezzi, ma anche armi e armature.
Poi suo padre sollevò lo sguardo. Lo studiò come se stesse tentando di pesarlo con gli occhi, o forse di misurare la sua forza.
Le labbra dell’uomo si arricciarono in maniera inquietante e un brontolio di disapprovazione sfuggì dalla sua gola.
Era evidente che quel ragazzino smilzo non era la persona che avrebbe voluto come aiutante. Ma era suo figlio, almeno lui era certo di questo. La mente gli diceva che era così, eppure non riuscì a non provare uno strano senso di repulsione quando il massiccio individuo gli si avvicinò porgendogli un pesante martello.
“Qui, vedi come convergono le ruote?” Disse indicando i due grossi cerchi di ferro arrugginito. “Le voglio sistemate prima di pranzo.” ordinò.
Un’espressione pericolosamente in bilico fra incredulità e rabbia si disegnò sul volto del ragazzo, ma il buonsenso gli suggerì che non era il caso di discutere con quell’uomo. Afferrò l’attrezzo che l’altro gli porgeva. Era pesante, tanto che il braccio cedette sotto quel carico e lui fu costretto ad usare entrambe le mani per evitare di colpirsi il ginocchio col martello. Tuttavia senza lamentarsi si accinse ad eseguire il suo compito.

***

Amauròs richiuse con poco garbo la porta dietro di sé e si avviò con sicurezza verso l’antico sedile. Vi si lasciò cadere distrattamente, abbandonò il capo all’indietro e chiuse gli occhi.
Diego, che si trovava nella stanza della fonte in fondo alla casa, nel sentir rientrare il suo padrone, si precipitò ad accoglierlo, ma, quando lo vide rilassato sulla sedia, si bloccò e lo fissò in silenzio, incerto se fargli notare la sua presenza o lasciarlo riposare indisturbato.
Fu l’altro a scioglierlo dallo scomodo dilemma.
“L’hai vista?” domandò cupo, senza sollevare il capo o aprire gli occhi del resto completamente inutili.
“Ho visto una ragazza, e poi ho usato l’amuleto per trascinarmi dietro i Segugi, come mi hai insegnato.” rispose il vecchio servitore, mentre la mano correva a stringere il medaglione con incastonata una pietra verde che gli pendeva dal collo rugoso.
“Non era sola.” Continuò l’altro.
Diego si morse il labbro con fare colpevole.
“Mi dispiace, non sono arrivato in tempo per l’altro: gli è praticamente piombato fra le braccia. Lo hanno portato alla Grotta?”
Amauròs annuì.
“La ragazza che hai protetto è sua sorella, lui gridava il suo nome prima di…” la voce si spense in un sospiro.
Ci fu un lungo silenzio, poi il mago si alzò e fece qualche passo avvicinandosi a Diego.
“Sai, il consiglio era convinto che sarebbe stato meglio per tutti se il bambino fosse morto. Un peso inutile l’hanno definito, ed io, per una volta, concordavo con loro.”
“Ma, padrone…” Diego lo fissò con le labbra spalancate.
Amauròs scrollò il capo.
“E’ merito di Freda se ora il fabbro avrà una bocca in più da sfamare, e un ragazzino inconsapevole vivrà una vita che io ho costruito nella sua mente.” Porse il braccio al servitore che lo guidò alla propria spalla.
Non si mossero. Amauròs sembrava voler riordinare le idee. Chinò il capo e socchiuse gli occhi.
D’improvviso un soffio gli uscì dalle labbra:
“Fabian…” il nome del bambino sembrò materializzarsi nell’aria, come se un pensiero fosse sfuggito alla sua mente diventando suono. Il mago parve assaporarlo. Era un nome insolito per quel mondo. Un nome che non avrebbe mai più sentito pronunciare. Ora il ragazzino ne aveva uno più adatto. Un nome che non destasse sospetti.
Si morse il labbro e, con un gesto stizzito, si passò la mano nei capelli.
Era stato lui a suggerire il nuovo nome alla sua mente, e, assieme a quello, gli aveva dato dei nuovi ricordi.
Il consiglio gli aveva chiesto di farlo e lui aveva obbedito. Era ciò che faceva da molti, troppi anni: obbedire.
Diego preoccupato si voltò e lo fissò dal basso in alto, torcendo il capo come uno strano uccello notturno; l’età aveva curvato le sue spalle tanto da costringerlo ad assumere l’insolita posizione ogni volta che guadava in viso il suo padrone. Amauròs parve percepire la sua vicinanza e un sorriso storto gli piegò le labbra.
“Da oggi quel bambino ricorderà un passato inesistente. Chiamerà padre uno sconosciuto e madre una donna sterile. E tutto questo perché a quella vecchia donna si è rammollito il cuore.” Si passò di nuovo la mano sul volto, un gesto nervoso. “Le sue simpatie per i figli del sole ci porteranno alla rovina.” Sbuffò e accennò col capo verso la stanza accanto perché Diego lo accompagnasse. Era in grado di raggiungerla da solo, ma preferiva spesso affidarsi all’altro: la presenza del vecchio lo faceva sentire bene.
“Le tue simpatie per i figli del sole mi hanno salvato la vita, padrone.” ribatté amabile Diego, mentre s’incamminava lentamente.
Amauròs sollevò lo sguardo vuoto verso l’altro e poi scosse il capo.
“Le mie simpatie ti hanno strappato alla tua famiglia, Diego. Non dimenticarlo.” rispose freddo.
Diego non ribatté e Amauròs gliene fu grato. Non voleva parlare del suo passato, aveva cercato in tutti i modi di cancellarlo, aveva persino cambiato nome. Sì, anche lui aveva dovuto cancellare una parte di sé, eppure di alcuni di quei ricordi non avrebbe mai potuto fare a meno. Il volto dell’unica donna che avesse mai amato era sempre là, vivido nella sua memoria come nell’ultimo giorno in cui l’aveva vista. Era un’immagine luminosa che si stagliava rassicurante tra lui e il buio assoluto. Non avrebbe permesso a nessuno di portargliela via.
“Non capisco perché il Consiglio abbia chiesto a me di condizionare la sua mente. Qualunque altro Discendente avrebbe potuto farlo, Freda per prima,” continuò stizzito.
Lo avevano convocato giorni prima. Geber, un suo vecchio amico d’infanzia, ora membro stimato del consiglio, aveva bussato alla sua porta, chiedendogli di seguirlo. Non era stato difficile immaginarne la ragione, anche se l’uomo non gli aveva dato spiegazioni. “Il consiglio si è riunito.” era stato tutto quello che gli aveva detto.
Giunto alla sala della riunione, infatti, aveva trovato sedici dei diciotto membri che discutevano animatamente: il nuovo arrivato non era quello che si aspettavano.
Un ragazzino era una questione delicata. Nonostante secoli di prigionia in quel mondo oscuro, il loro cinismo non arrivava al punto di cancellare la memoria di un bambino e gettarlo fra gli schiavi senza preoccuparsi di fornirgli i mezzi per sopravvivere.
Per anni la grotta del sonno si era rivelata molto utile ai loro scopi, l’unico modo per preservare il segreto sul mondo della luce. Nessuno doveva sapere della sua esistenza, o perlomeno dovevano crederlo un luogo inaccessibile. Gli schiavi dovevano essere convinti di essere nati li, e il mito della terra luminosa doveva restare tale: una leggenda, una bugia raccontata dai ribelli, pazzi sognatori nonché uomini pericolosi che, per inseguire la loro follia, avevano causato la morte di centinaia di persone.
I Discendenti oltre ai ribelli erano gli unici a sapere la verità sulla grotta e sulle vere origini del popolo degli schiavi, ma erano convinti che il giorno in cui qualcuno fosse riuscito ad attraversare la soglia per tornare nel mondo della luce, una grande catastrofe li avrebbe travolti distruggendo il loro popolo.
La discussione aveva proseguito per diverse ore dopo che Amauros e Geber si erano uniti al consiglio.
Gourias, uno dei più anziani e potenti maghi della città, aveva quasi convinto i presenti che abbandonare il bambino nella Grotta del Sonno sarebbe stata la soluzione migliore per tutti, come se quel luogo di oblio potesse poi cancellare il ricordo del loro terribile crimine. Ma Freda non si era arresa, con l’autorità donatale dall’età, si era imposta su tutti, proponendo la sua soluzione: Fabian avrebbe avuto una famiglia, il fabbro aveva bisogno di aiuto nel suo laboratorio, inoltre, lui e sua moglie vivevano abbastanza lontano dalla cava e avrebbero potuto crescere il bambino in tutta segretezza. Nessuno avrebbe fatto domande, o si sarebbe fermato a chiacchierare con lui, notando così il suo spiccato accento straniero. Nessuno insomma avrebbe scoperto che quel ragazzino biondo non era davvero il figlio del fabbro.
La soluzione era semplice, non restava che un problema da risolvere: una volta che la Grotta del Sonno gli avesse cancellato i ricordi, bisognava dargliene di nuovi.
Amauròs, che fino a quel momento si era tenuto in disparte evitando di schierarsi, era stato chiamato in causa dalla stessa Freda. La vecchia maga non aveva esitato ad indicare lui come quello che avrebbe dovuto manipolargli la mente. Lo aveva incastrato intrappolandolo in una rete intessuta di lodi. Aveva vantato le sue capacità e la sua approfondita conoscenza delle usanze dei figli del sole e del loro mondo, il che lo rendeva, ai suoi occhi, ed, evidentemente, a quelli del consiglio, la persona più adatta all’ingrato compito.
Amauròs aveva tentato in tutti modi di trovare una scusa per rifiutare, ma alla fine non aveva potuto tirarsi indietro. La seduta del consiglio era stata sciolta e lui era stato accompagnato alla Grotta assieme ad un gruppo di guardie e al bambino.
Fabian, che non doveva avere più di dodici anni, continuava a piangere e a chiedere di sua sorella, anche quando, giunto all’ingresso della grotta, l’avevano costretto a scendere all’interno.
Amauròs non aveva mai visitato quella caverna, ma sapeva che nella parte più profonda esistevano una serie di pozzi stretti.
Non erano formazioni naturali, erano stati scavati da una pericolosa e gigantesca creatura che vi nascondeva le sue uova, fino alla schiusa.
Una volta abbandonati, all’interno dei nidi restava qualcosa, un’ energia capace di far cadere quelli che vi si trovavano in una specie di torpore.
Lui e le guardie avevano dovuto attendere tutta la notte, sufficientemente lontani dai pozzi da non subirne l’influsso, ma non abbastanza per non essere tormentati dalle urla disperate di Fabian. C’erano volute parecchie ore perché le grida del ragazzino si quietassero e il sonno avesse la meglio sulla sua paura. Un sonno che gli avrebbe strappato ogni ricordo, lasciandolo vuoto e disorientato.
“L’ho visto, sai?” disse d’improvviso Amauròs, accomodandosi sulla sua sedia preferita, di fronte alla fonte magica. Sui braccioli erano scolpite delle teste di leoni, creature che nel suo mondo consideravano leggendarie. Vi appoggiò le mani seguendone la forma con le dita sottili.
“Visto cosa?” lo interrogò Diego.
“Il sole, l’ho visto nella sua mente. La Grotta non è riuscita a cancellare del tutto quel ricordo. Era bellissimo,” le sue labbra si piegarono in un lieve sorriso che però fu subito oscurato. “Ma lui ora crederà che sia solo un frutto della sua immaginazione.”
“Padrone, non tormentarti, è stato necessario, dovevate affidarlo a qualcuno: un ragazzino così piccolo non avrebbe potuto sopravvivere da solo, e qualcuno doveva pur farlo.”
“Non è questo il punto.” sbottò. “Ho riempito di bugie la testa di quel bambino. Era indispensabile dargli dei ricordi per permettergli di adattarsi alla sua nuova vita senza traumi, ma non è piacevole entrare in una mente svuotata, non lo è affatto. A volte mi chiedo se valga la pena vivere privati dei propri ricordi.”
“Ne avrà di nuovi, si adatterà.”
“Diego, noi siamo il frutto del nostro passato. Cosa resta di un uomo quando gli strappi le sue origini?”
“Gli resta la vita.” Insisté l’altro.
Amauròs scosse il capo come se fosse stato punto da un insetto.
“I miei ricordi sono la mia vita, per quanto dolorosi, io non vorrei mai che qualcuno me li portasse via per sostituirli con una menzogna.” Era così: sarebbe morto piuttosto che rinunciare al volto di lei, all’unica luce della sua esistenza.
Poi un’improvvisa consapevolezza si fece strada nella sua mente e una ruga gli si disegnò sulla fronte. “Credo che il consiglio ancora non si fidi di me. Immagino che abbiano voluto ricordarmi che la Grotta del Sonno avrebbe dovuto essere la mia condanna se solo non avessero avuto bisogno delle mie conoscenze per i loro scopi.”
“Dopo tutto questo tempo e dopo tutto quello che hai fatto per loro?”
“I membri del consiglio conoscono la leggenda, sanno che una ragazza venuta dalla luce riuscirà a tornare indietro. Tutto lascia pensare che ciò debba avvenire quest’anno.”
“Ma loro non sanno che ad attraversare la porta sono stati in due, loro hanno visto solo il bambino.” Azzardò Diego.
Amauròs s’incupì.
“Il bambino stesso ha rivelato la presenza della sorella. Gridando il suo nome non ha fatto altro che confermare i loro sospetti. Sanno che gli uomini di Guglielmo hanno la ragazza. La cercheranno. Ma soprattutto ora temono che qualche Discendente si unisca ai ribelli come è già accaduto.”
“Sospettano di te, padrone?”
“Dubitano di chiunque abbia avuto a che fare coi ribelli in passato. Il fatto di essere un membro del consiglio non mi mette al riparo dai sospetti.”
“E Freda? Le sue simpatie sono evidenti, perché diffidare di te e non di lei?”
“Freda è una vecchia, e non ha un passato come il mio.”
“La ritengo comunque una leggerezza da parte loro.” borbottò Diego.
Amauròs non trovò argomenti per contraddirlo. In effetti Freda sembrava non preoccuparsi affatto di rendere pubbliche certe sue amicizie. Si recava spesso alla cava, portava cibo e vestiario agli schiavi e si intratteneva a lungo con alcuni di loro.
L’aveva incontrata molte volte recandosi alle miniere per controllare la qualità delle pietre magiche. Era quello il compito che gli era stato affidato dal consiglio. Grazie ai suoi poteri di Geomante poteva percepire l’energia delle pietre, indicare ai minatori dove scavare e saggiare la purezza del materiale estratto semplicemente sfiorandolo con una mano.
Le pietre erano indispensabili per la sopravvivenza di tutti, erano la materia prima che permetteva ai Maghi di creare con la loro energia l’astro artificiale che li manteneva in vita, e non solo.
Ma Freda andava lì per altre ragioni che lui non riusciva a comprendere.
“Domani andrò alla cava.” disse con decisione.
Diego gli rivolse uno sguardo triste.
“Vuoi incontrare la ragazza?” azzardò. “Per quale ragione?”
“Forse curiosità. Nient’altro che semplice curiosità, Diego.”

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Capitolo 8
*** Cap. 8 Il mago cieco ***


Cap. 8

Kore si svegliò di soprassalto, un odore pungente di muffa le riempiva le narici. Aveva appena fatto un sogno stranissimo: era intrappolata in un mondo sconosciuto e aveva perso il suo fratellino; si sollevo dal letto e si guardò attorno ancora un po’ assonnata.
Una morsa gelida le strinse lo stomaco, e qualcosa di doloroso le bloccò il respiro, mentre continuava a spostare lo sguardo da una parte all’altra della piccola stanza, sperando che ciò che vedeva potesse sparire non appena si fosse destata del tutto. Nulla di quello che aveva intorno si modificò minimamente; tutto era solido e, purtroppo, reale. No, non aveva sognato; quel mondo esisteva davvero e Fabian non era con lei.
Si trovava a casa di Marietta da diversi giorni. La sua ospite non era quasi mai in casa, ma prima di recarsi alla cava ogni mattina le lasciava cibo e raccomandazioni: “non uscire, non far entrare nessuno in casa, non attirare l’attenzione.”
Scese dal letto e corse nell’altra piccola stanza che fungeva da ingresso e cucina; si bloccò sulla soglia appena vide una figura di spalle, ingobbita, e intenta ad osservare il muro che aveva di fronte. Era paludata in un mantello scuro dal quale sfuggivano alcuni lembi sbrindellati di una tunica bianca.
La riconobbe.
“Freda?”
La vecchia donna si voltò e le sorrise mostrando una dentatura tutt’altro che invidiabile; poi tornò a concentrarsi su ciò che stava facendo: aveva in mano un pugnale e, con forza, lo conficcò nella parete dalla quale iniziò a fuoriuscire una sostanza liquida come da una ferita.
Kore si avvicinò e la osservò mentre la raccoglieva in una ciotola. Il liquido era bianco, del colore del latte. Subito un conato di vomito le salì in gola, ripensando alla curiosa cena del primo giorno.
A conferma dei suoi sospetti, Freda si girò di nuovo verso la ragazza e le porse la scodella, ora colma fino all’orlo.
“Hai fame?” Domandò con la sua voce stridente, “Prendi, prendi!”
Kore saltò indietro come se fosse stata punta da uno scorpione.
“Ma che cos’è?” domandò disgustata.
“E’ latte.” Marietta, appena rientrata, le passò davanti e afferrò la ciotola dalle mani di Freda.
“E’ buono, è vero latte.” La rassicurò versandone un po’ in un altro recipiente e offrendolo di nuovo alla sua ospite, “E’ così che Freda ci procura il cibo quando non ci arrivano i rifornimenti dalla Città del Sole. E in questi giorni sono piuttosto in ritardo, probabilmente a causa di tutti i segugi che il consiglio ha sguinzagliato in giro.”
Kore la guardò con gli occhi sgranati.
“Ma è… E’ roccia quella, come… Come fa?” balbettò.
Marietta sorrise. “Lo ruba.”
Le labbra di Kore si spalancarono seguendo l’esempio dei suoi occhi; ormai aveva assunto un’espressione così comica che l’altra non poté fare a meno di scoppiare in una fragorosa risata.
“E’ un metodo che usavano le streghe,” spiegò, “non chiedermi come, ma qualcuno… “accennò con lo sguardo verso l’alto, “al piano di sopra rimarrà senza latte.”
Kore immaginò che per ‘piano di sopra ’, Marietta dovesse intendere il suo mondo. Si augurò che la vittima del furto fosse una mucca, possibilmente sana. Non aveva mai bevuto latte che non provenisse dallo scaffale di un supermercato, ma aveva fame e perciò, pur con riluttanza, prese la ciotola dalle mani dell’altra e sorseggiò quella che doveva essere la colazione.
“Dobbiamo scendere alla cava,” proseguì Marietta, oggi inizierai il tuo lavoro, “ti ho procurato dei vestiti, e qualcosa da mettere in testa per nascondere quel pennacchio.” Indicò il ciuffo biondo che continuava a cadere sugli occhi di Kore.
“Con quelli passerai inosservata. C’è tanta gente qui, ma non particolarmente socievole. Lavorerai con me, quindi saremo vicine. Nessuno ti farà domande e se qualcuno ci proverà, evita di parlare, se non vuoi che il tuo accento ti tradisca.”
“Vedrò Fabian alla cava?” chiese speranzosa.
Marietta e Freda si scambiarono uno sguardo triste.
“Tuo fratello sta bene, ma non è qui.” gracchiò Freda.
“Sta bene? L’ha visto? Dove?”
“Sì, Freda l’ha visto, lei fa parte del consiglio. L’hanno affidato ad una famiglia, ma loro vivono lontano da qui. Per ora dovrai pazientare,” spiegò Marietta, e, avvicinandosi al un mucchio di stracci grigiastri che aveva posato sul tavolo, li afferrò con entrambe le mani.
“Mettiteli!” disse decisa consegnandoli a Kore.
La ragazza scrutò incerta la vecchia tunica, poi iniziò a spogliarsi e, dopo aver ripiegato i suoi abiti, si infilò con una smorfia nel goffo sottanone. Marietta completò l’opera sistemandole una fascia di stoffa scura intorno alla testa, come un turbante, nascondendo la bizzarra creazione del suo parrucchiere preferito. Quando fu pronta, si avviarono tutte e tre verso le miniere.

Giunte sul posto, dovettero farsi largo tra una folla di gente che andava e veniva: alcune donne portavano acqua; altre trasportavano attrezzi e uomini robusti trainavano a braccia delle slitte cariche di massi di svariate forme. L’aria era satura di polvere che, illuminata dallo strano sole di quel mondo, assumeva un colore verdastro. Il rumore dei picconi echeggiava tra le pareti rocciose sommandosi alle voci di centinaia di minatori producendo una fastidiosa cacofonia. Kore continuava a guardarsi intorno, scrutando tra la folla, chinandosi, o sollevandosi sulla punta dei piedi, a volte saltellando persino, per riuscire a vedere meglio ciò che accadeva oltre quella cortina di uomini vocianti. Marietta notò la sua curiosità e rallentò il passo per affiancarla.
“Qui fuori, nella cava, quegli uomini ricavano del semplice materiale da costruzione.” spiegò.
“Ma nella parte più profonda, dentro le gallerie, ci sono le pietre verdi che sono rocce magiche, rare e pericolose.” continuò indicando l’ingresso di alcune gallerie scavate nella parete a strapiombo. “Solo i minatori più esperti si avventurano all’interno, e lo fanno soprattutto di notte perché la luminescenza del nostro sole rende più aggressivi i Vermi delle Grotte. Ecco, vedi? Ora infatti stanno risalendo in superficie: troppo pericoloso restare all’interno.”
Kore si chiese cosa fossero i Vermi delle Gotte e abbassò lo sguardo per assicurarsi che non ci fossero strani animali striscianti vicino ai suoi piedi, quando fu spintonata da un gruppo di bambini; si voltò e vide che avevano attorniato Freda come uccellini al pasto. La vecchia aveva portato con sé dei cesti che, a giudicare dall’impazienza di quei ragazzini, dovevano essere colmi di cose buone da mangiare.
Anche alcuni adulti si erano avvicinati e attendevano il loro turno per avere una minuscola porzione di quelli che sembravano panetti di frutta secca.
“Ogni tanto Freda ci porta dei regali dalla Città del Sole,” disse Marietta, “la frutta qui vale come oro.”
Kore annuì semplicemente, seguendo l’altra sino ad un piccolo spiazzo recintato.
“Ecco, il nostro compito è selezionare le pietre verdi.” spiegò la sua guida accennando ad un gruppo di donne chine a frugare fra quelle che, ad una prima occhiata, parevano inutili macerie.
Kore aguzzò lo sguardo: il suolo era cosparso di detriti, rocce di diverse forme e colori, ma le donne stavano scegliendo alcuni sassi particolari fra tutti quelli che i minatori continuavano a scaricare in terra. Li riponevano in sacchi che avevano legati alla vita e poi, quando erano colmi, li svuotavano in delle grosse casse di metallo provviste di ruote.
Kore si avvicinò alle casse: all’interno c’erano molte pietre di colore verde smeraldo; ogni cassa ne conteneva di dimensioni diverse, le più grandi erano simili a palle da tennis, le piccole, incredibilmente lucide e levigate, avrebbero potuto essere incastonate in un anello.
Marietta nel frattempo si era cinta i fianchi con una cinghia dalla quale pendevano tre sacche rigide di pelle e ne porse una anche a Kore che la imitò. Le consegnò anche una striscia di stoffa e le mostrò come avvolgerla sulle mani come protezione; poi entrambe iniziarono il loro lavoro che proseguì per diverse ore.
D’un tratto Freda, che si era accomodata in un angolo intrattenendo alcuni bambini, si alzò fissando un punto lontano. L’espressione della vecchia maga si era fatta cupa, il volto cosparso di rughe si era irrigidito in una maschera che Kore non riuscì a capire se di collera o di paura. Seguendo lo sguardo dell’altra individuò l’oggetto del suo interesse: un uomo, vestito di bianco, proprio come Freda, si stava avvicinando accompagnato da un'altra persona, curva e malvestita, che doveva avere almeno ottant’anni.
Al loro passaggio la gente che affollava quel luogo si allontanava con la stessa rapidità di un branco di pesciolini. Gli stessi, che solo qualche ora prima avevano circondato la vecchia Freda in attesa dei suoi doni, ora parevano voler mettere più distanza possibile tra sé e i nuovi arrivati.
Tuttavia qualcuno andò incontro ai due con passo sicuro, scambiò con loro qualche parola e poi si voltò nella direzione di Kore facendo degli ampi gesti con le braccia.
Subito alcuni minatori entrarono nel recinto in cui si trovavano le donne e spinsero fuori le casse piene di pietre verdi. Un ragazzino smilzo li raggiunse, portando sulle spalle un tappeto molto vecchio che srotolò ai piedi dell’uomo vestito in bianco, e lo aiutò perché ci si sedesse sopra.
Kore si guardò attorno: tutti gli altri, compresa Marietta, dopo aver rivolto uno sguardo distratto ai visitatori, avevano ripreso il loro lavoro; era evidente che non consideravano insolito l’arrivo dei due uomini. Tutti tranne Freda che continuava a fissarli come un gatto che ha appena individuato la sua preda.
Per Kore, dopo essere stata impegnata per diverse ore in quel duro lavoro senza una pausa, quella piccola novità fu un piacevole diversivo. Si pulì le mani nella tunica e si avvicinò a Marietta sperando che lei potesse soddisfare la sua curiosità.
“Chi è quello?” chiese accennando col capo all’uomo seduto in terra, intorno al quale, nel frattempo, erano state svuotate le casse.
“Lo chiamano Amauròs, viene qui a controllare la qualità delle pietre magiche,” rispose l’altra asciugandosi il sudore con la manica del vestito, “il vecchio che sta con lui è il suo servitore.”
Lo sguardo di Kore passava alternativamente dai due a Freda.
“E’ un mago?” chiese sottovoce, poi indicò la vecchia donna, “E’come lei?”
“Sì, Amauròs è un Discendente e molto potente a quanto dicono. Ma io, fossi in te, starei alla larga da lui. Girano strane voci sul suo conto.”
“Strane?” Kore la fissò con gli occhi spalancati. Era chiaro: Marietta non sapeva che il miglior modo per destare il suo interesse era dirle di tenersi alla larga da qualcosa o qualcuno. Ed ora, Kore era più che mai intenzionata a saperne di più sullo strano visitatore.
Si voltò e, fingendo di rimettersi al lavoro, si avvicinò al recinto. Da quella posizione riusciva a vedere meglio l’uomo che, seduto sul tappeto con le gambe incrociate, teneva le braccia protese in avanti coi palmi rivolti verso le pietre sparse attorno a lui, come se fossero brace ardente e lui volesse scaldarsi.
Kore, che aveva ricominciato la raccolta senza dedicarvi però particolare attenzione, prese una pietra e se la rigirò tra le dita: non emanava calore, anzi, sembrava normalissima roccia, a parte l’insolito colore verde. La infilò nella sacca che aveva legata in vita, e aguzzò meglio lo sguardo concentrandosi sul volto dello sconosciuto.
Sembrava teso e anche affaticato, qualunque cosa stesse facendo doveva richiedere un certo sforzo. Aveva la carnagione bianchissima così come i capelli che gli ricadevano sulle spalle; gli occhi erano scuri, fissi nel vuoto, sembrava una statua di marmo.
Il mago restò in quella posizione per diversi minuti poi, quello che Marietta aveva indicato come il suo servitore, si inginocchiò accanto a lui. Era un omino pelle e ossa, dalla carnagione olivastra e il volto, ben rasato, era segnato da una ragnatela di piccole rughe. I capelli bianchi gli ricadevano sulle spalle curve avvolgendosi in piccoli riccioli. Porse all’altro un bastone e con quello Amauròs colpì alcune delle pietre, facendole rotolare lontano da sé. Le restanti furono raccolte dai minatori e riposte di nuovo nelle casse. Infine il mago si rimise in piedi.
Kore immaginò che le pietre colpite fossero quelle da scartare. Forse non erano abbastanza potenti o erano difettose, ammesso che una pietra magica potesse essere difettosa.
Era ancora persa in questi pensieri quando un boato scosse le pareti della cava. Gli occhi di tutti corsero istintivamente verso l’alto, attirati dalla fonte di quel rumore.
Una nuvola di polvere si era sollevata dalla parete rocciosa, mentre grossi massi si staccavano iniziando a precipitare al suolo.
Un grido disperato si levò dalla gente che si trovava al di sotto della frana. D’istinto tutti si portarono le mani sulla testa in un inutile tentativo di proteggersi e Kore si coprì gli occhi e trattenne il respiro preparandosi all’inevitabile tragedia. Tuttavia le grida si zittirono quasi immediatamente, e un silenzio irreale calò su quel luogo.
Le mani di Kore scivolarono sul suo viso, incerte e tremanti, lasciandola libera di guardare, ma pronte a tornare al loro pietoso compito se la vista fosse stata troppo dolorosa.
Ciò che vide la lasciò senza fiato: centinaia di uomini fissavano allibiti i massi che si erano distaccati dalla parete a molti metri al di sopra delle loro teste. Sembravano sospesi nel vuoto, come se il tempo, per la montagna, avesse preso a scorrere più lentamente. Le pietre non avevano fermato la loro caduta, ma stavano raggiungendo il terreno lasciando, ai minatori tutto il tempo di allontanarsi.
In silenzio e in punta di piedi come se temessero di rompere quell’incanto, i minatori si misero al sicuro.
In mezzo alla folla, l’uomo che Marietta aveva chiamato Amauròs, se ne stava immobile, pareva in trance, con le mani congiunte a formare una sorta di sfera. Kore capì che quello che stava accadendo era in qualche modo dovuto a lui, forse era una magia, forse un’illusione. In ogni caso era chiaro che l’uomo fosse concentrato e che distrarlo, o svegliarlo dal suo stato di trance, avrebbe significato far precipitare i massi sulla folla.
Quando le prime pietre raggiunsero il mago, erano tutti abbastanza lontani. Le pietre si posarono su di lui con la leggerezza di una piuma, scivolando sulle sue spalle per continuare la loro strada fino a terra. Ai suoi piedi si era già accumulata una quantità di rocce tale da arrivargli all’altezza della coscia, ma il peggio doveva ancora accadere: un masso più grande degli altri incombeva proprio sopra la sua testa. Kore non ebbe il tempo di formulare alcun pensiero, che udì la voce di Marietta alle sue spalle: “Lo schiaccerà.”
Marietta aveva ragione: indipendentemente dalla lentezza con cui l’avrebbe raggiunto, quel masso era troppo grande per scivolare innocuo sulla schiena del mago. Quel peso l’avrebbe svegliato, spezzando il sortilegio e Amauròs non avrebbe avuto il tempo di scansarsi.
L’anziano servitore, che si era allontanato con gli altri, resosi conto del pericolo, si precipitò verso il suo padrone, ma qualcuno lo anticipò. Kore lo riconobbe: era Guglielmo.
Il capo dei ribelli si era fatto largo tra la folla e, scansando bruscamente il vecchio, corse verso Amauròs e si gettò su di lui, spingendolo il più lontano possibile dalla traiettoria del masso. Finirono entrambi a terra, l’incantesimo si ruppe e l’enorme pietra si schiantò al suolo con un boato a pochi passi da loro, sollevando una gran quantità di polvere.
Ci volle un po’ prima che la nuvola verdastra si diradasse e, in quel tempo che sembrò interminabile, tutti restarono col fiato sospeso in attesa di conoscere la sorte dei due uomini.
Lo sguardo di Kore si posò su Freda. La strega fissava la scena con un’espressione che la fece rabbrividire. Era forse terrorizzata come gli altri per ciò che era appena accaduto? Forse era in pena per Guglielmo, il che era abbastanza normale, dato che i due dovevano conoscersi piuttosto bene. Ma allora perché il suo sguardo era così gelido?
D’un tratto la vide sussultare e non tardò a comprenderne la ragione: qualcosa si stava muovendo dietro un cumulo di pietre. Sentì la folla emettere un grido di sollievo, quando, da sotto i detriti, spuntò la mano, seguita dal resto del corpo di Guglielmo.
L’uomo si sollevò sulle braccia e si scrollò di dosso la polvere come avrebbe fatto un grosso cane. Poi afferrò per un lembo della tunica il mago che era sdraiato sotto di lui e lo sollevò di peso finché quello non si ritrovò inginocchio. Amauròs ansimava, sembrava piuttosto stordito, barcollò in avanti e Guglielmo dovette afferrarlo per le spalle per impedirgli di cadere. Non era ferito, ma era chiaro che l’incantesimo doveva avergli prosciugato tutte le energie. Tuttavia, non appena ebbe ripreso un po’ di forza, scansò con stizza la mano di Guglielmo e si alzò da terra.
Per un attimo sembrò annusare l’aria, muovendo il capo come se cercasse qualcosa, poi spalancò le braccia con il gesto ampio e repentino di chi sta aprendo una tenda, e, davanti a lui, le pietre si mossero come se una gigantesca ruspa le spingesse, accumulandole sui lati in modo tale da formare un sentiero perfettamente livellato.
Kore non ebbe il tempo di realizzare che il passaggio andava dritto verso il punto in cui si trovavano lei e Freda, che il mago le raggiunse con passo deciso.
Si bloccò a meno di un metro dalla vecchia donna.
“Non provarci mai più!” soffiò.
L’altra gli rivolse un sorriso sghembo.
“Io non ho fatto nulla. Le cave sono pericolose, gli uomini qui rischiano la vita ogni giorno.”
Amauròs sorrise a sua volta e poi voltò appena il capo nella direzione di Kore. Solo in quel momento la ragazza si accorse che non c’era luce nei suoi occhi: l’uomo era completamente cieco. Non poteva vederla, eppure avere le sue iridi nerissime puntate addosso la fece sentire a disagio, tanto da costringerla ad abbassare lo sguardo.
“Hai una nuova amica?” Disse infine il mago con una voce di seta.
Kore rabbrividì: come faceva a sapere che c’era una donna accanto a Freda?
“Ma come?” scattò.
Dimentica delle raccomandazioni di Marietta si era lasciata sfuggire le parole dalle labbra, bloccandosi immediatamente, non appena aveva sentito la mano di Freda posarsi sul suo braccio.
La donna la spinse dietro di sé, come a volerla nascondere, ma era troppo tardi.
“Giovane, ha una voce graziosa,” constatò amabile il mago. Parlava lentamente, come se assaporasse le parole.
“Ma ha un accento insolito,” aggiunse, mentre le sue labbra si piegavano sempre di più. Poi tornò a rivolgersi a Freda.
“Un accento che ho già sentito… non vuoi presentarmela?”
“I miei amici non ti riguardano, cieco!” gracchiò Freda, “E di amici ne ho molti, faresti bene a non dimenticarlo.”
“Oh, allora immagino che sarebbero in tanti a dispiacersi se dovesse accederti un … incidente.” disse portando le dita al medaglione.
Chinò il capo in segno di saluto e, porgendo il braccio al suo servo che nel frattempo si era avvicinato, fece per andarsene, ma si voltò di nuovo.
“A proposito dei tuoi amici, porta pure i miei ringraziamenti a Guglielmo e avvertilo che, se continuerà a capitarmi davanti agli occhi, potrei dimenticarmi di essere cieco ed esprimergli la mia gratitudine pubblicamente, magari in presenza del consiglio.”
Quindi si lasciò guidare verso la monumentale scala di pietra che lo avrebbe ricondotto in città.
Kore seguì i due uomini con lo sguardo finché non sparirono all’interno di un grande arco.
Sapeva che da lì avrebbero raggiunto la galleria, la stessa lungo la quale l’aveva accompagnata Ranuccio al suo arrivo: un percorso scavato nella roccia che, inerpicandosi come una spirale, arrivava, forse, a toccare la volta di quello strano mondo.
Kore non poté fare a meno di chiedersi quanto in alto si sarebbero spinti i due uomini.
La casa dove era stata portata al suo arrivo era abbastanza vicina alla cava, ma più si saliva e più la città doveva essere grande, simile ad un gigantesco formicaio, e attraversata da miriadi di cunicoli che si ramificavano a formare un intricato labirinto. Chissà se suo fratello si trovava in una di quelle case?
Il flusso dei suoi pensieri venne interrotto da Marietta che l’afferrò per le spalle e la costrinse a voltarsi senza tanti complimenti.
“Fare due chiacchiere con uno dei membri più pericolosi del consiglio è la tua idea di ‘passare inosservata’?”
“Ma io… è stato lui, lui è venuto qui.” tentò di giustificarsi Kore.
“Ti avevo detto che dovevi tenerti lontana da quell’uomo!” continuò trattenendo a stento la collera.
“Ma perché? Lui sa di Fabian, ormai è chiaro che mi ha riconosciuta. Forse potrei scoprire dove si trova.”
“Non ne hai bisogno, noi sappiamo benissimo dove si trova. Freda l’ha visto, ma, come ti abbiamo spiegato, per ora non è possibile raggiungerlo.”
Kore chinò il capo e prese a maltrattarsi le mani.
“Cosa succederà ora? Mi denuncerà? Verranno a cercarmi qui?” pigolò.
“No, finché resti alla cava sei al sicuro. I Discendenti non oserebbero mai prenderti con la forza qui. Nonostante i loro poteri, sanno che inimicarsi il popolo delle miniere non è consigliabile. Siamo troppi e siamo necessari.” spiegò.
Poi il suo sguardo fu attirato dal ragazzo che si stava avvicinando di corsa e le sue labbra si piegarono in una smorfia.
“Ehi! A quanto pare mi sono perso un po’ di movimento. Ho sentito un gran frastuono e mi sono precipitato per vedere cos’era successo.” cinguettò gioioso Ranuccio e, abbracciando Marietta, la salutò con uno schioccante bacio sulla guancia.
Marietta ricambiò con un’occhiataccia di rimprovero, che il giovane finse di non notare.
“Allora, ragazze, è vero quello che stanno dicendo?” domandò accennando ai gruppetti di minatori che, poco lontano da lì, erano intenti a parlottare fra loro, “Stavamo per perdere il nostro mago preferito?” continuò sarcastico.
Il suo viso assunse un’espressione così comica che Kore non poté fare a meno di sorridere; ma il forzato buonumore del ragazzo, che tentava di sdrammatizzare, non sortì l’effetto sperato, né su Marietta, che gli rivolse uno sguardo di commiserazione, né tanto meno su Freda che si allontanò sbuffando. Ranuccio sospirò sollevando le spalle e decise di cambiare discorso: “Bertone oggi si è superato, ci aspetta una zuppa favolosa. Andiamo!” disse prendendo per mano Kore e guidandola verso il luogo in cui si era formata una piccola fila.
La ragazza immaginò che lì distribuissero il pranzo e, dato che aveva una gran fame, non ci pensò due volte prima di seguirlo.
 
 
 

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Capitolo 9
*** Cap. 9 Diego ***


Cap. 9 



Era passato un mese, Kore non aveva avuto notizie di suo fratello e cominciava ad essere impaziente; ogni giorno, con Marietta, si recava alla cava a lavorare come tutti gli altri. Ed ogni giorno sperava di scoprire qualcosa su Fabian e sul modo di tornare a casa.
Speranza che, fino a quel momento, si era rivelata vana: le giornate alla cava trascorrevano fin troppo tranquillamente e Kore non poté fare a meno di chiedersi se i ribelli esistessero davvero.
Dopo l’incidente che l’aveva coinvolto, Guglielmo non si era più fatto vedere. Forse se ne stava rintanato nel proprio rifugio in città nel timore che Amauròs avesse riferito al consiglio circa la sua presenza tra gli schiavi. Neppure il mago si era più visto mentre il vecchio servitore, tutti i giorni, faceva visita ai minatori per controllare il carico di pietre e riferire eventuali indicazioni del suo padrone.
Kore, seguendo il consiglio di Marietta, non rivolgeva la parola a nessuno, ma ascoltava con molto interesse le chiacchiere e i pettegolezzi dei minatori. Specialmente durante i pasti, quando si radunavano intorno a Bertone e al suo pentolone fumante.
La pausa per il pranzo, infatti, sembrava essere l’unico momento di convivialità che spezzava la monotonia della vita dei minatori.
Durante il pasto tutti si abbandonavano a lunghe conversazioni e le donne, di solito espansive come api operaie indaffarate, si scioglievano in piacevoli ciarle.
Altre volte nascevano dei diverbi, anche piuttosto violenti, che potevano sfociare in una rustica scazzottata. Kore ascoltava i loro discorsi in silenzio. Si avvicinava ad un gruppetto di lavoratori, e rimaneva con l’orecchio teso sperando ogni volta di sentirli parlare di qualcosa che non fosse il menù del giorno.
Ormai conosceva tutti i piatti migliori di Bertone, anche senza averli assaggiati: il pranzo era, infatti, l’argomento più dibattuto. Fortunatamente, però, oltre ad aver scoperto che il brodo di 'carillo', uno strano animale che Kore faticava ad immaginare, era considerato da tutti una prelibatezza, tra una battuta goliardica e un litigio era riuscita ad ascoltare anche qualche discorso interessante.
Era venuta a sapere che il servo di Amauròs si chiamava Diego e che sul suo padrone e sulla sua menomazione, negli anni, erano nate molte storie.
Il mago non era nato cieco ma si raccontava che lo fosse diventato guardando il sole. Tuttavia, quando e in quale circostanza ciò fosse avvenuto restava un mistero. Alcuni narravano di come lui fosse l’unico ad essere riuscito ad attraversare una soglia, un passaggio verso un altro mondo, e che il calore insopportabile della gigantesca sfera di fuoco, sospesa nel cielo di quella strana terra luminosa, lo avesse costretto a tornare indietro. Secondo altri l’uomo era divenuto cieco nel tentativo di impedire ad alcuni schiavi di fuggire attraverso quello stesso passaggio. Altri ancora sostenevano che non esistesse nessuna alcuna soglia e che la cecità dell’uomo fosse dovuta ad un semplice incidente avvenuto nella città del sole. Qualcuno azzardava addirittura che fosse una punizione degli Dei.
Era indubbio che quella gente fosse all’oscuro di molte cose, ma la soglia esisteva, Kore lo sapeva, e Amauròs evidentemente, ne conosceva i segreti.
Il desiderio di incontrarlo si fece sempre più insistente nella sua mente.
I discorsi dei minatori l’avevano convinta che il mago potesse essere l’unico in grado di farla uscire di lì; l’unico capace di trovare la porta che l’avrebbe ricondotta a casa.
Sapeva che Marietta non le avrebbe mai permesso di parlare con lui: secondo lei avrebbe dovuto fuggire da quell’uomo piuttosto che cercare di conoscerlo, ma l’unica alternativa che le aveva offerto era un’inutile e snervante attesa.
Kore si era fidata della giovane donna che l’aveva accolta. Aveva seguito tutte le indicazioni della sua ospite: aveva accettato di restare in silenzio e di lavorare senza chiedere niente, nell’illusione di avere una notizia, di vedere agire quegli uomini che Marietta definiva ribelli, e che, invece, avevano solo imparato a nascondersi. Per giorni, aveva atteso invano un segno qualunque che potesse alimentare la sua speranza di rivedere Fabian, mentre la vita scorreva pigra e monotona nelle miniere, e nulla faceva presagire un minimo cambiamento.
Non poteva più aspettare, doveva rischiare, e lo avrebbe fatto a modo suo.
Lo sguardo della ragazza seguì Marietta mentre tentava di farsi largo tra la folla per avere la propria razione di minestra.
La donna sembrava ormai del tutto a suo agio in quel mondo e, nella mente di Kore, si era ormai insinuato il dubbio di non poter avere alcun aiuto da lei; Marietta aveva riposto le sue speranze in Guglielmo, speranze che si erano rivelate vane. Aveva trascorso lì metà della sua vita, senza essere riuscita a salvare sé stessa, e, ormai era chiaro, non sperava più di tornare a casa. Kore immaginò che non le importasse più, forse aveva persino dimenticato cosa volesse dire vivere alla luce del sole.
‘Un giorno rivedrai tuo fratello’, così aveva detto.
“Un giorno…” mormorò Kore tra sé, e le dita si strinsero con rabbia.
Marietta era ormai lì da vent’anni, e non aveva fatto altro che raccomandarle prudenza. Le aveva detto di non parlare della soglia e di non chiedere notizie del fratello.
‘Sta bene’, era tutto quello che le aveva detto; ma a Kore non bastava più.
“Un giorno…” disse ancora trattenendosi a stento dal gridare quelle parole. Forse quel giorno non sarebbe mai arrivato e lei, come Marietta, avrebbe dovuto rassegnarsi alla sua nuova vita.
Al solo pensiero rabbrividì.
No, lei non si sarebbe mai arresa senza lottare; piuttosto si sarebbe affidata al proprio istinto, rischiando fino in fondo per rivedere Fabian e accertarsi personalmente che fosse salvo.
Le avevano anche detto che il bambino non l’avrebbe riconosciuta; forse era vero, o forse si sarebbe ricordato di lei se l’avesse incontrata, ma non le importava. Doveva essere certa che fosse vivo e poi avrebbe fatto di tutto per riportarlo a casa, da sua mamma. Lei era la sorella maggiore, lei doveva salvarlo, o perdersi definitivamente con lui.
‘Amauròs’, quel nome continuava a rimbombarle nella testa. Qualcosa le diceva che ricorrere al mago poteva essere l’unica soluzione; era rimasta affascinata dalla potenza della sua magia, dalle sue parole, persino l’atteggiamento che aveva avuto nei confronti di Freda.
Forse avrebbe solo peggiorato la sua situazione: se Amauròs l’avesse consegnata al consiglio, o se l’avessero trovata i segugi, anche lei avrebbe dimenticato il suo mondo, avrebbe dimenticato di avere un fratello e avrebbe trascorso il resto della vita sotto terra, raccogliendo pietre verdi.
Era un rischio enorme, lo sapeva, e sapeva anche che, probabilmente, la sua decisione di chiedere aiuto ad Amauròs era dettata solo dalla disperazione: aveva bisogno di aggrapparsi a qualcosa, altrimenti sarebbe impazzita, e il mago rappresentava l’unica fiammella di speranza in quel mondo notturno.
Sarebbe andata da lui e gli avrebbe chiesto aiuto, l’avrebbe supplicato, forse avrebbe persino potuto dagli qualcosa in cambio. Dopotutto lei conosceva il nascondiglio di Guglielmo in città.
Il pensiero di tradire chi l’aveva accolta la nauseò, ma era certa che, se fosse stato necessario, sarebbe stata pronta a tutto pur di salvare Fabian e sé stessa.
Certa ormai della sua decisione, ora doveva trovare il modo di incontrare il mago. Non era semplice avvicinarlo: erano giorni che non si faceva vedere alla cava e lei non poteva certo avventurarsi in città da sola senza neppure sapere dove trovarlo.
Aveva bisogno di aiuto, qualcuno che potesse accompagnarla da lui, che conoscesse il segreto che nascondeva e, soprattutto, qualcuno che non avrebbe riferito il suo piano a Marietta.
Quell’uomo si trovò a passare proprio davanti a lei.
I minatori erano riuniti attorno al pentolone, colmo di una sostanza gelatinosa e giallognola che Bertone continuava a voler definire zuppa, quando Diego la superò; ricevuta la sua razione, e incurante delle proteste e dei borbottii dei minatori che attendevano in coda da almeno mezz’ora, si allontanò per andare, come sempre, a consumare il pranzo in disparte.
Kore lo seguì.
Marietta e Ranuccio erano intrappolati nella fila ad attendere il loro turno per mangiare, e non fecero caso alla ragazza che, intanto, aveva raggiunto il vecchio seduto su una sporgenza rocciosa, proprio all’ingresso di una delle gallerie.
“Mi hanno detto che il tuo nome è Diego.” esordì la ragazza, tentando di apparire sicura e determinata rivolgendosi al vecchio servitore come aveva sentito fare da altri.
L’altro sollevò lo sguardo e la scrutò stupito per un po’; finché non decise di rispondere.
“Quello è il mio nome,” disse, mentre tornava a rivolgere la sua attenzione alla ciotola che teneva tra le mani. “E tu, invece, sei quella che un nome non ce l’ha.” mugugnò con la bocca piena di minestra.
“Io mi chiamo…”
“No!” Il vecchio alzò la mano interrompendola, “Non mi riguarda. Io sono solo un servo e tu non dovresti essere qui. I tuoi amici non sarebbero d’accordo.”
“Ma il tuo padrone forse sì.” insisté Kore.
Ci fu un lungo silenzio. Una nuova ruga si formò sulla fronte del vecchio, mentre sembrava intento a studiare un avversario molto pericoloso.
“Perché il mio padrone dovrebbe essere interessato ad una ragazzina?”
“Forse glielo chiederò quando mi avrai portata da lui.”
Il vecchio posò la ciotola e si alzò.
“La Città di Pietra non è adatta a quelli come te. E il mio padrone non mi perdonerebbe se…” si interruppe e si voltò di spalle scuotendo il capo, “No, lui non approverebbe.” concluse.
Kore si fece più audace e, afferrando l’altro per un braccio, lo costrinse a voltarsi di nuovo. “Io voglio parlarci, ti prego, ho bisogno di lui.”
“E se lui sapesse chi sei e ti consegnasse ai soldati? Non hai paura?” chiese calmo, Diego.
Kore strinse con forza le dita e prese un bel respiro, tremava, ma tentò di non darlo a vedere. Doveva rischiare il tutto per tutto pur di tornare nel suo mondo, e in quel momento il “tutto” per lei era un uomo cieco che, sì, con molta probabilità, l’avrebbe consegnata alle guardie ancor prima di permetterle di varcare la soglia della propria casa. Ma che altra scelta aveva?
Avrebbe desiderato solo mettersi a piangere, ma rispose ostentando una sicurezza non aveva affatto. “Allora, almeno saprò di aver tentato.”
“Tentato?”
Il vecchio la fissò ancora in silenzio, poi un lungo sospiro sfuggì alle sue labbra. “D’accordo, vieni stanotte ai piedi della scala che porta alla città, mi troverai ad aspettarti. E tieniti lontana dall’ingresso delle gallerie, i minatori potrebbero...” L’uomo si irrigidì fissando qualcosa alle spalle della ragazza.
Kore si voltò per vedere cosa lo avesse preoccupato e notò Freda che si era avvicinata lanciando al vecchio un’occhiata infuocata, poi guardò lei con altrettanto disprezzo.
“Non ti hanno insegnato a non dare confidenza agli sconosciuti?” la rimproverò.
“Ma io…” Mentre Kore cercava inutilmente di inventare una scusa credibile, Diego fece un profondo inchino e con voce amabile si rivolse alla donna.
“Mia signora, questa giovane stava solo aiutando un povero vecchio. Le avevo chiesto di portarmi un po’ d’acqua. Non sapevo che fosse la tua serva.”
“Se alla tua età sei ancora in grado di occuparti di un uomo cieco, puoi anche prendere da solo la tua acqua,” gracchiò la maga.
“Certo, mia signora. Perdonami!” L’uomo curvò maggiormente la schiena, ma i suoi occhi vispi non persero di vista il volto raggrinzito di Freda.
La vecchia donna gli voltò le spalle, afferrò Kore per un braccio, e la trascinò incontro a Marietta che, nel frattempo accortasi di quello che stava accadendo, aveva abbandonato il proprio posto nella fila e camminava spedita verso le due donne.
Non appena le raggiunse, Freda spinse in modo brusco Kore verso di lei, tanto che la ragazza per poco non cadde.
“Ti consiglio di non perdere d’occhio la tua protetta, altrimenti ci porterà solo problemi con la sua sconsideratezza,” soffiò.
Marietta guardò Kore e poi di nuovo Freda; non capiva cosa poteva aver combinato di tanto grave nei pochi istanti in cui l’aveva persa di vista, ma se la maga si era così infuriata doveva avere delle buone ragioni; non disse nulla a Freda, mentre rivolse alla ragazza uno sguardo minaccioso.
Kore rabbrividì, ma nello stesso tempo riconobbe qualcosa di familiare nell’espressione di Marietta. D’improvviso vide negli occhi della giovane donna le stessa luce che aveva visto tante volte nelle iridi celesti di sua madre. Si rese conto di sentire la mancanza persino dei suoi rimproveri. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di riavere indietro le sue assillanti raccomandazioni, le ramanzine ogni volta che il piccolo Fabian combinava qualche marachella. Ora era un’estranea ad occuparsi di lei, a sgridarla quando disubbidiva e a preoccuparsi perché non le accadesse nulla di male, ma la sensazione di sicurezza, che provava ogni volta che sua mamma si avvicinava in silenzio e le accarezzava i capelli con dolcezza, ogni volta che il solo fatto di averla accanto la rendeva spavalda di fronte alle sue piccole sfide da adolescente, quella no, Marietta non avrebbe mai potuto dargliela.
Kore realizzò in quell’istante di essere davvero sola. Se c’erano decisioni da prendere nessuno in quel mondo ostile avrebbe potuto aiutarla, nessuno avrebbe pensato al bene di Fabian. Lei era la sorella maggiore, lei avrebbe dovuto scegliere per lui, e lei aveva scelto. Convinta più che mai di aver preso da decisione giusta, abbassò il capo cercando di mostrarsi pentita.
“Scusa...” mormorò, e, mentre, per il resto della giornata eseguì obbediente tutte le indicazioni della sua ospite, in cuor suo progettava la sua fuga notturna per incontrare il vecchio Diego.

Il sole artificiale si era spento già da diverse ore, quando Kore si alzò dal proprio giaciglio; fece qualche passo in punta di piedi e si fermò sulla soglia ad osservare Marietta che dormiva nell’ingresso. Aveva lasciato il letto, o almeno quello che si ostinava a definire tale, a lei.
Le stanze erano divise da semplici tende, e una tenda le separava dall’esterno. In quel mondo non c’era bisogno d’altro, non c’era vento, se non quello che si formava nei cunicoli, né pioggia e non c’era nulla da rubare. Del resto la porta non sarebbe servita neppure a difenderli dal freddo dato che la temperatura all’interno delle case non era diversa da quella esterna. In un mondo in cui la legna valeva quanto l’oro, non era possibile sprecarla per accendere fuochi; le uniche fiamme che Kore aveva visto da quando era arrivata erano quelle delle lampade o dei fornelli di Bertone, e lei non aveva mai osato chiedere cosa usassero per alimentarle.
Non fu difficile per la ragazza intrufolarsi nell’altro ambiente senza fare alcun rumore, passare davanti alla sua ospite addormentata e raggiungere l’esterno, sgattaiolando silenziosamente attraverso la stretta apertura.
Si afferrò alla corda che fungeva da parapetto e prese a scendere i ripidi scalini. Passò davanti ad un grosso foro nella parete rocciosa: la finestra dell’abitazione di Ranuccio. Gettò un’occhiata all’interno, era buio, ma il russare del giovane rimbombava simile al verso di un grosso animale. Sorrise.
Raggiunta la pianura, puntò dritta verso la grande scalinata che portava alla Città di Pietra, tenendosi a distanza dall’ingresso delle miniere, come le aveva suggerito Diego.
Da lontano poté vedere il movimento delle lucerne dei minatori: un andirivieni continuo, persino più frenetico di quanto non fosse durante le ore diurne. Le pietre verdi che le donne erano chiamate e selezionare venivano raccolte proprio in quelle ore e portate con rapidità all’esterno delle miniere. Il lavoro doveva essere concluso entro l’alba, prima che la luce richiamasse i Vermi delle grotte dalle loro tane.
Kore accelerò il passo, guardandosi indietro di tanto in tanto per controllare che Marietta fosse ancora in casa, profondamente addormentata. Giunta ai piedi della scalinata, si fermò e, strizzando gli occhi, si sforzò di penetrare l’oscurità alla ricerca della sua guida, ma di Diego non c’era traccia.
Kore sentì montare la rabbia. Il vecchio le aveva forse mentito? E se, invece di andarla a prendere, le avesse mandato incontro i soldati? Si appiattì contro la parete, sperando di mimetizzarsi nel buio. Se qualcun altro fosse stato lì ad aspettarla forse così non sarebbe riuscito a vederla.
Era stata una stupida. Ranuccio le aveva detto che i Discendenti non avrebbero osato farle del male davanti agli schiavi, ma di notte, senza testimoni, avrebbero potuto trascinarla via e nessuno si sarebbe accorto di nulla. Nessuno si sarebbe preoccupato di lei oltre ai ribelli.
Il suo respiro si era fatto affannoso; Kore imprecò mentalmente: non potevano vederla, ma l’avrebbero comunque sentita se non fosse riuscita a calmare i propri polmoni impazziti. Doveva fare qualcosa. Si infilò la manica del vestito in bocca, mentre gli occhi si riempivano di lacrime. Si era messa nei guai, avrebbe dovuto ascoltare Marietta. Come le era saltato in mente di avventurarsi da sola fino all’ingresso della città?
“Tieni, indossa questa.”
La voce familiare sembrò uscire dal nulla, e così la mano che stringeva un medaglione, Kore sussultò spaventata ma, non appena riconobbe il vecchio servitore, fu quasi sul punto di saltargli al collo per il sollievo. L’uomo si avvicinò porgendole la collana e anche una tunica bianca che teneva arrotolata sotto il braccio. Kore afferrò la tunica e se la infilò dalla testa. Poi prese anche la collana rivolgendo al vecchio uno sguardo interrogativo.
“Tiene lontani i curiosi,” disse lui secco.
Kore la indossò, rigirando fra le dita la grossa pietra verde che vi era incastonata: era simile alle rocce magiche che selezionava ogni giorno alla cava, ma sulla superficie vi erano incisi degli strani disegni.
Senza aggiungere altro, Diego iniziò a salire i ripidi scalini sparendo all’interno del grande arco e Kore, abbandonata la sua analisi del medaglione, si affrettò a seguirlo.
Sapeva che li aspettava una faticosa salita: i gradini sembravano arrampicarsi all’infinito. Uniformò il suo passo a quello del vecchio, mentre lo sguardo si muoveva in ogni direzione, scrutando ogni singola fessura e ogni lucerna appesa alle pareti del tunnel.
Di tanto in tanto, delle profonde nicchie si aprivano ai lati della scala; Kore si sporse all’interno di una di queste e vide che in fondo vi erano stati scavati dei fori di forma quadrata, era troppo buio per vederne l’estremità, ma immaginò che dovessero prolungarsi fino a sbucare sulle pareti esterne della grande montagna capovolta. Forse servivano per il passaggio dell’aria.
La galleria era piuttosto claustrofobica, e, per un attimo, Kore fu tentata di infilare la testa in uno di quei canali, immaginando un vento fresco che le avrebbe sfiorato piacevolmente il viso. Ma il vento in quel mondo non esisteva e i canali riuscivano solo a creare una strana corrente d’aria che sapeva di muffa e di umidità.
Quando ebbero percorso almeno un centinaio di scalini, la galleria cominciò a ramificarsi; sulle pareti dei cunicoli si aprivano delle porticine di metallo simili a quella dell’abitazione in cui si nascondeva Guglielmo. Gli stretti vicoli penetravano in profondità nella montagna, come se fossero vene all’interno di un corpo gigantesco, e ad ogni nuova rampa di scale diventavano sempre più numerosi e più ampi.
Salirono per diverse ore, fermandosi ogni tanto per riposare, Kore si stupì del fatto che il vecchio che la precedeva potesse avere ancora tanta forza. Lei era esausta.
Dovevano essere già molto in alto, era certa di aver oltrepassato da almeno un’ora l’abitazione di Guglielmo, e la scala continuava a salire come un’infinita spirale. D’improvviso Diego si fermò, si guardò intorno, poi fece cenno alla ragazza di seguirlo in uno dei vicoli. Kore in un primo momento pensò che Amauròs dovesse abitare in quella strada, ma capì immediatamente che la sua guida stava solo fingendo di entrare in una di quelle case quando, alle sue spalle, comparve il gruppo di vecchie malandate che aveva imparato a conoscere come i “segugi”.
Kore le fissò pietrificata, erano a pochi metri da lei e la stavano guardando; rabbrividì: l’avevano trovata, era troppo tardi per nascondersi; forse avrebbe dovuto mettersi a correre, ma la tranquillità con cui il vecchio Diego le osservava la spinse a restare immobile. Limitandosi a stringere con forza la striscia di stoffa che Marietta le aveva dato per camuffare la sua bizzarra pettinatura, come se temesse che le donne che aveva di fronte potessero strappargliela via con la sola forza del pensiero.
Tuttavia, dopo averle rivolto uno sguardo compiaciuto, le vecchie si allontanarono e Kore si voltò stupita verso Diego.
“Ti hanno scambiata per una di loro,” spiegò, ma non aggiunse altro e, tornando sui suoi passi, riprese a salire.

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Capitolo 10
*** Cap. 10 La casa in città ***


Cap 10


Salirono ancora per diversi metri, poi i cunicoli si fecero più ampi e le abitazioni più ricche: sottili colonnine ne ornavano gli ingressi e nelle pareti si aprivano piccole bifore finemente decorate.
Diego puntò dritto verso un grande arco di pietra, che incorniciava una porta di ferro rinforzata da grossi chiodi, e iniziò ad armeggiare con un mazzo di chiavi.
Kore si avvicinò e i suoi occhi percorsero la cornice curva: vi erano scolpiti degli strani disegni, simili ad un alfabeto, forse una formula di benvenuto, o qualche incantesimo per tener lontani gli ospiti indesiderati. Era comunque molto antica, i simboli erano in parte consumati.
Le labbra della ragazza si arricciarono in maniera impercettibile: magari quei segni indicavano semplicemente il nome del proprietario della casa. Si avvicinò ancora e ne sfiorò con l’indice i contorni.
Poi la porta si aprì. Diego entrò per primo e Kore si sporse per guardare all’interno; strizzò gli occhi tentando di abituarsi all’oscurità: nella casa non era stato acceso nemmeno un lume e la ragazza immaginò che il mago non ne avesse bisogno. Restò sulla soglia, mentre Diego la superava inoltrandosi nel buio; sentì un rumore metallico e subito dopo vide la sua guida riapparire illuminata da una piccola lampada ad olio.
Lo sguardo della giovane fu attirato da una sagoma chiara in fondo al locale: Amauròs era in piedi, di spalle, e sembrava non essersi accorto della loro presenza, eppure il loro ingresso non era stato affatto silenzioso.
Poi la sua voce profonda riempì la stanza.
“Diego, perché hai portato questa estranea in casa mia?” domandò il mago senza voltarsi.
“Padrone, perdonami, è stata lei a chiedere di vederti, io ho pensato che…”
Amauròs lo interruppe con un gesto della mano, si voltò e si avvicinò ai due.
Restò immobile per qualche momento, in silenzio, quasi stesse ascoltando qualcosa; d’istinto anche Kore tese l’orecchio, ma non udì nulla a parte il battito frenetico del proprio cuore.
Poi il mago le fece cenno di accomodarsi, indicando alcune sedie riccamente decorate alla sua destra: erano fatte di legno e molto antiche. La ragazza si avvicinò e si sedette, con cautela, facendo attenzione a non appoggiarsi sullo schienale, quasi temesse che potesse sbriciolarsi sotto il suo peso.
“Ora che sei mia ospite, vorrai essere così rispettosa da dirmi il tuo nome?” la provocò Amauròs.
“Mi chiamo Kore.” mormorò la ragazza, e il suo cuore mancò un battito nel vedere l’altro irrigidirsi di fronte a quella semplice rivelazione.
“Perché sei venuta qui?” chiese il mago.
“Ho bisogno di aiuto, io sto cercando mio fratello…” iniziò pacata, ma subito dopo prese a maltrattarsi le mani e il suo respiro si fece affannoso per l’agitazione.
“Signore, lei sa benissimo, perché mi trovo qui. Lei… lei sa dove si trova mio fratello, se è vivo. Io… Io devo vederlo, la prego!”
“Tuo fratello sta bene. Freda non te lo ha detto?” le rispose calmo.
“Io…” pigolò. “Io devo riportarlo a casa.”
“A casa?” Lo sguardo vacuo del mago la sfiorò facendola rabbrividire. “Lui si trova già a casa, e presto anche tu lo sarai.”
“Mi denuncerà? Vuole consegnarmi a quelli che mi faranno il lavaggio del cervello?”
L’insolito linguaggio di Kore strappò all’altro una smorfia di disgusto. Si chinò su di lei puntandole addosso le sue iridi spente.
“Cosa vuoi da me?” soffiò.
“Voglio andare a casa, lei sa come fare, lei ha visto il passaggio.”
“Non so chi ti ha messo in testa quest’idea, ragazzina. Ma se vuoi vivere, ti consiglio di non raccontare in giro simili fandonie.”
“Se lei sa come mandarmi a casa, se voi tutti lo sapete, perché ci trattenete qui?”
“Nessuno sa come rimandarti a casa.” disse gelido il mago. “Nessuno.”
Poi sollevò il capo e di nuovo si fermò ad ascoltare. Le sue labbra si piegarono in un sorriso cattivo. Tese il braccio e chiuse il pugno con forza come se stesse afferrando qualcosa.
Solo qualche istante dopo si udirono dei colpi di tosse provenienti dalla strada e dei versi inarticolati, come se qualcuno stesse soffocando.
“Abbiamo un altro ospite, mio caro Diego. Forse dovremmo invitarlo ad entrare.”
Il vecchio servitore si precipitò verso la porta e la spalancò di scatto; un uomo cadde all’interno dalla casa, portandosi le mani alla gola come se cercasse di liberarsi da qualcosa che gli impediva di respirare.
Sollevò il viso, era Guglielmo, aveva i lineamenti contorti in un’espressione di dolore, gli occhi e la bocca erano spalancati in modo innaturale.
“Ba…sta, ba…sta!” riuscì ad articolare a fatica l’uomo, mentre annaspava in terra.
Amauròs aprì di colpo il pugno e Guglielmo si rilassò mentre l’aria tornava a riempirgli i polmoni. Rotolò sulla schiena e le braccia caddero senza forza allargandosi sul pavimento. Restò in quella posizione per diversi secondi; il respiro rauco, spezzato, simile ad un singhiozzo.
Amauròs gli si avvicinò sovrastandolo.
“Puoi anche riuscire a sviare i Segugi, Guglielmo, ma non puoi ingannare me”.
L’altro si appoggiò sui gomiti e si mise in ginocchio.
“Non era mia intenzione farti visita. Stavo seguendo la ragazza.” disse sforzandosi di apparire acido.
“L’hai trovata!” soffiò Amauròs. “Ora ti consiglio di riportarla alla cava. Non vi voglio in casa mia.”
Si chinò su Guglielmo. “Non voglio te, e non voglio quello sciocco ragazzo che hai mandato qui un mese fa.” sibilò cattivo.
Guglielmo fece una smorfia e, aiutato da Diego, si rimise in piedi.
“Se continui a rimandarmi indietro i miei uomini con notizie tanto interessanti, come puoi pretendere che io non ne approfitti?” ribatté sarcastico.
“Potrei anche non rimandartelo la prossima volta.” sbuffò il mago.
Guglielmo serrò forzatamente le labbra. A Kore parve persino di poter udire lo scricchiolare dei suoi denti.
“Ora vattene!” disse infine Amauròs, indicando l’uscita con un lieve cenno del capo.
Guglielmo incrociò le braccia muscolose ma non si mosse.
“E’ pieno di segugi la fuori, vuoi che usciamo di qui per finire dritti tra le loro braccia?” L’uomo sembrava voler prendere tempo.
“Oh, tu non corri alcun pericolo, non è vero?” disse Amauròs, mentre un sorriso beffardo gli piegava appena le labbra.
Kore li guardava sbalordita. I due uomini sembravano belve pronte a sbranarsi a vicenda.
Guglielmo fissò l’amuleto che pendeva dal collo della ragazza.
“Forse ho anch’io il mio ciondolo portafortuna.” ghignò il capo dei ribelli.
“O forse il tuo sangue è più nobile di quanto tu voglia far credere.” lo provocò Amauròs.
L’altro non rispose.
Kore allora fece qualche passo avanti, avvicinandosi al mago. Era intenzionata a perorare la sua causa, nonostante l’umore tempestoso dei due uomini sarebbe stato sufficiente a scoraggiare chiunque.
Tuttavia qualcosa sembrò di nuovo attirare l’attenzione di Amauròs.
“Sono qui. Presto di la! Andate nell’altra stanza!” disse sottovoce, ma con urgenza, indicando la porticina che immetteva nella sala della Fonte.
Kore e Guglielmo non se lo fecero ripetere e si precipitarono attraverso il piccolo uscio sparendo nel buio, appena in tempo. L’ingresso principale si spalancò con un schianto, sulla soglia c’erano tre donne con i capelli bianchi e lunghi fino alle ginocchia. Il volto scavato da rughe così profonde da renderne quasi indefiniti i lineamenti, mentre gli occhi, arrossati e gonfi, sembravano voler saltar fuori dalle orbite.
Kore si nascose dietro un’antica teca e osservò, attraverso i ripiani, una delle donne mentre si avvicinava al mago. Amauròs se ne stava immobile, la schiena diritta e il mento sollevato come se volesse sfidarla.
“I vostri poteri non sono più come un tempo, Orbiana. E’ la terza volta in un mese che piombate in casa mia e ancora non avete capito che a trascinarvi qui è semplicemente il mio servitore?”
Diego fece un passo avanti e la donna lo scrutò, muovendosi attorno a lui come un cane da caccia intento a ritrovare la traccia della sua preda.
Infine, apparentemente soddisfatta, la vecchia strega si rivolse al padrone di casa.
“Come puoi sopportare la sua presenza?” domandò con una voce rauca e soffocata. “Il suo canto è insopportabile.”
“Forse il mio udito è meno raffinato del tuo.” rispose sarcastico Amauròs, accennando un inchino.
La strega piegò le labbra in qualcosa che somigliava vagamente ad un sorriso, e si mosse con l’intenzione di andare nella stanza accanto.
Diego s’irrigidì, mentre il suo padrone, con freddezza, si rivolse alla donna.
“Ti consiglio di non fare un altro passo.” la minacciò. “Tu e le tue sorelle non siete ospiti gradite, e non vorrei dovervi dimostrare quanto.”
“Non oseresti metterti contro il consiglio.” gracchiò la strega. “Non sarebbero altrettanto magnanimi se li sfidassi per la seconda volta...” si avvicinò al mago e fissò le sue iridi buie dal basso della sua statura. “E non hai altri occhi da barattare per la tua vita.” lo schernì esibendo il suo sorriso marcio.
Amauròs parve non accusare il colpo, rimanendo immobile, con le braccia lungo i fianchi. Ma nonostante le voltasse le spalle, Kore poté vedere le dita della sua mano sinistra stringersi in uno spasmo.
“E tu, quanto sei disposta a rischiare, per toglierti la soddisfazione di curiosare nella casa di un povero cieco?” disse con voce glaciale.
Un basso ringhio sfuggì dalla gola della donna che, dopo aver dedicato a Diego un’occhiata disgustata, uscì dalla casa, seguita dalle altre due streghe.
Kore e Guglielmo vennero fuori dal loro nascondiglio.
“Come hanno fatto a non accorgersi di me?” chiese stupita la ragazza.
“Il medaglione ti ha protetta.” s’intromise Diego.
Kore allora guardò Guglielmo e i suoi occhi si abbassarono sul petto dell’uomo a cercare un monile simile al suo. Ma lui non aveva al collo alcun medaglione, niente che potesse assomigliare ad un amuleto.
“E lui? Perché non hanno sentito la sua presenza, ma solo quella di Diego?” domandò.
Amauròs allora li superò entrando nella stanza in cui si erano nascosti, fino a pochi istanti prima, lei e Guglielmo.
Si avvicinò ad una sottile colonna finemente scolpita che fungeva da piedistallo, accanto alla fonte magica; sulla sommità era fissata una grossa pietra verde, simile a quella che Kore aveva appesa al collo, ma molto più grande.
Il mago la sfiorò appena e subito quella iniziò a vibrare emettendo un suono delicato.
Stese il braccio verso Diego invitandolo ad avvicinarsi. Lui lo fece e subito il suono mutò diventando stridulo e fastidioso; appena si allontanò di qualche metro, il suono tornò ad essere melodioso.
Amauròs allora si rivolse a Kore.
“Vieni, avvicinati pure.” disse. “Non aver paura.”
La giovane fece un passo avanti, ma non accadde nulla: il suono non cambiò.
“L’amuleto, toglilo!” le ordinò il mago.
Kore afferrò incerta la catena che aveva intorno al collo e sfilò il medaglione. Subito la pietra sulla colonna rispose con un brutto suono gracchiante accompagnato da un fischio acutissimo che la fece trasalire.
Fece un balzo indietro, e per poco non travolse Diego che l’afferrò per le spalle impedendole di cadere. Appena riacquistato l’equilibrio si rimise al collo l’amuleto, e fissò la roccia magica trattenendo il respiro: per un attimo aveva temuto che potesse esploderle in faccia. Tuttavia quella era tornata al suono originale quasi immediatamente.
“E’ questo che intendeva la vecchia quando ha detto che il suo canto era insopportabile?” domandò indicando Diego; la voce le tremava ancora per lo spavento.
Amauròs annuì, “La pietra può amplificare o nascondere il canto. Ogni cosa ha il suo canto: gli uomini, le rocce, gli animali... perfino i segugi stessi, ma, come hai potuto sentire, i figli della luce hanno perso la capacità di controllarlo. Non siete più parte dell’armonia del mondo, per questo non potete agire su di esso e quindi non sapete usare la magia.” spiegò macchinalmente, mentre la sua attenzione era già rivolta altrove.
Stese la mano verso il sasso con il palmo rivolto in alto, e quello, come se fosse legato a dei fili invisibili, si sollevò dal piedistallo rimanendo sospeso a qualche centimetro dalla sua base.
Il mago allora ruotò appena il polso e anche quello si mosse, levitando con lentezza in direzione di Guglielmo, che era rimasto in disparte appoggiato alla parete, intenzionato a mettere più distanza possibile fra sé e l’oggetto.
Vedendo la pietra che gli volava incontro si ritrasse istintivamente, ma urtò il muro alle sue spalle e non poté evitare di ritrovarsela ad un palmo dal viso.
Amauròs gli dava le spalle: non aveva bisogno della vista per sapere che il suo sasso si trovava proprio dove lui lo voleva. Tese l’orecchio assumendo un’espressione soddisfatta quando il canto della roccia verde divenne appena più acuto, ma non stridente e fastidioso come quando ad avvicinarla erano stati Kore e Diego.
“Dunque avevo ragione.” disse. “L’inafferrabile capo dei ribelli non è quello che voleva farci credere.”
Si voltò verso Guglielmo. “Astuto da parte tua nasconderti in città, proprio sotto il naso dei segugi.” Sorrise, mentre gli si avvicinava. “Ma certo, loro hanno sempre cercato un figlio del sole. Quanta magia c’è nel tuo sangue Guglielmo? Tua madre era una Discendente? O forse tuo padre lo era?” Lo raggiunse e tendendo il braccio lo spinse contro la parete. Guglielmo non tentò di sottrarsi, anche se, fisicamente, era molto più forte dell’altro. Kore immaginò che i muscoli dovessero essere inutili contro la magia o, forse, Guglielmo aveva altre ragioni per evitare uno scontro.
“La magia nel mio sangue mi ha regalato un bel suono.” disse beffardo afferrando la pietra con entrambe le mani. “Ma non mi ha dato la libertà. Se l’essere un Discendente significa strisciare come hai fatto tu, preferisco essere un Figlio del Sole.” continuò sollevando il mento orgoglioso.
Amauròs si ritrasse come se fosse stato punto da un insetto e Guglielmo sorrise: aveva colto nel segno. Le parole della strega gli avevano fatto capire molte cose e soprattutto avevano dato conferma alle voci sulla cecità del mago.
“Dunque è così, sono stati loro.” constatò soddisfatto.
Amauròs non rispose. Si voltò, distese il braccio finché non trovò la colonnina; seguì con le dita il rilievo del capitello, quasi cercasse dei punti di riferimento per orientarsi e, dopo averne individuato uno spigolo, si voltò, raggiunse con sicurezza l'antico scranno e vi si accomodò.
Guglielmo scosse il capo.
“Come puoi essere dalla loro parte dopo quello che ti hanno fatto?” fece qualche passo riposizionando la roccia sulla sua base.
“Io non sono dalla parte di nessuno.” ruggì il mago. “Quello che decide il consiglio non mi riguarda. Quello che farai tu, non mi riguarda. Vuoi trovare la soglia? Fallo. Vuoi uscire di qui? Far sprofondare questo mondo in un inferno di lava? Perché è questo che dicono le leggende: quando gli schiavi rivedranno il sole, il mondo dell’ombra sarà divorato dal fuoco.” Si alzò e si appoggiò con entrambe le mani alla spalliera. “Posso solo consigliarti di non lasciare indietro nessuno dei tuoi amici: nessuno di loro si salverebbe.”
Chinò il capo.
“Il giorno in cui troverai quella porta dovrai decidere della vita e della morte di molti. Se avrai successo, chi sarà con te si salverà, ma per tutti gli altri sarà la fine.” si morse il labbro. “Solo un folle potrebbe prendere una simile decisione.” La sua voce tremò. “O un uomo innamorato.” mormorò, quasi a se stesso. “Ora andatevene!”
Kore li fissò entrambi sgomenta, non poteva finire così, tutti quei discorsi sul sangue magico di Guglielmo, su leggende catastrofiche, su antichi rancori, tutto ciò a lei non interessava. L’unica cosa che voleva era tornarsene a casa.
“Io… No, non può dire sul serio, io non me ne vado, io voglio rivedere mio fratello, dovete portarmi da Fabian.” gridò. “Non mi interessano le vostre dannate pietre, non mi interessa lui,” indicò Guglielmo. “Se c’è un maledetto modo per aprire quella porta, io tornerò a casa, io…”
“Diego, accompagna fuori questa ragazzina!” La voce del mago era fredda, distaccata.
“Ma, mio signore, i segugi sono vicini, la strada non è ancora sicura.” Diego posò una mano sulla spalla della giovane nel tentativo di tranquillizzarla, ma Kore sembrava sul punto di avventarsi sul padrone di casa. “Sta calma!” le suggerì all’orecchio.
Lei scansò la mano del vecchio servitore e marciò infuriata verso Amauròs.
Guglielmo fissava la scena con le braccia incrociate, quasi stesse assistendo ad uno spettacolo teatrale. Forse era curioso di vedere la reazione del mago, magari aspettava solo di vedere se avrebbe risposto alle provocazioni riducendo in polvere una sciocca ragazzina.
Ma Kore non aveva paura. In quel momento si sentiva un leone, aveva solo voglia di picchiare l’uomo che aveva di fronte, di sfogare la propria rabbia senza pensare alle conseguenza, forse era solo disperazione la sua.
Quando fu ad un passo da Amauròs, sollevò le braccia, i pugni chiusi erano pronti a colpirlo, ma qualcosa le impedì di muoversi.
Udì la profonda voce del mago pronunciare strane parole in una lingua incomprensibile e, improvvisamente, si ritrovò schiacciata contro il soffitto. Iniziò a gridare e a piangere, ormai preda di un vero e proprio attacco isterico.
“Fammi scendere!” urlò agitandosi come un pesce nella rete.
“Se vuoi attirare qui i segugi con le tue grida, ti assicuro che sarò ben felice di consegnarti a loro questa volta.” minacciò il mago.
“Io voglio andare a casa.” scoppiò in un pianto dirotto.
Amauròs sollevò la mano e Kore, come aveva fatto la pietra magica poco prima, levitò fino a trovarsi ad un palmo dal suolo, lì il mago la liberò e lei finì distesa, le braccia allargate e la guancia schiacciata sul duro pavimento.
Si rimise in piedi ansimante. Si asciugò le lacrime con la manica dell’abito e fissò il mago con gli occhi erano lucidi e arrossati. “Lei deve aiutarmi, lei è la mia sola speranza, io… io credevo…” singhiozzò. Si era illusa, era certa che il mago l’avrebbe aiutata, voleva crederci e non l’aveva nemmeno sfiorata l’idea di un suo eventuale rifiuto.
Amauròs le voltò le spalle.
“Esci dalla mia casa.” ordinò secco.
“Non può finire così, non ci credo, non può essere vero.”
Invece era vero, era stato bello sognare per un po’ di poter risolvere la situazione con le sue forze, quando, disubbidendo a Marietta, era fuggita di notte, convinta di tornare alla cava con la soluzione in pugno; ma solo nelle favole il potente mago arriva a salvare la situazione. Quella purtroppo non era una favola, e la realtà non aveva mai un lieto fine.
Rassegnata, fece per togliersi la collana, ma, come se l’avesse intuito, Amauròs la bloccò con un cenno della mano.
“Puoi tenere l’amuleto, non ne esistono altri in questo mondo in grado di imitare altrettanto bene il canto di un Discendente.” Si voltò e Kore vide le sue labbra piegarsi in un ghigno beffardo. “Se vorrai permettere che questo pazzo ti trascini con lui nella sua impresa, ne avrai bisogno.”

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Capitolo 11
*** Cap. 11 Di nuovo alla cava ***


Cap. 11



Tornare alla cava fu più faticoso del previsto, ma, in un certo senso, più sicuro. Guglielmo conosceva ogni cunicolo, ogni singolo passaggio segreto di quella città e sapeva come evitare i Segugi. Lapidia era davvero molto simile ad un formicaio e, oltre ad essere percorsa in tutta la sua altezza dalla grande scalinata a spirale, era traforata da una ragnatela di vicoli più piccoli che si intrecciavano all’interno delle sue pareti rocciose.
Kore aveva già percorso i primi gradini, quando Guglielmo si infilò in una botola. La ragazza, dopo un primo momento di esitazione, lo seguì, trovandosi ad affrontare delle ripide scale praticamente al buio. Erano così strette e distanti tra loro che a tratti doveva sedersi e lasciarsi cadere sul gradino successivo. Quando finalmente riuscì a prendere il ritmo della discesa ecco che il cunicolo deviò all’improvviso trasformandosi in uno scivolo ripido. La ragazza si lasciò sfuggire un grido strozzato ritrovandosi col volto premuto contro la parete, dopo essere ruzzolata per diversi metri.
Guglielmo si limitò a brontolare sommessamente e proseguì senza aiutarla. Il percorso diventava sempre più accidentato e l’ oscurità che li avvolgeva rendeva tutto più complicato. L’unico riferimento per la giovane era il respiro affaticato della sua guida, si trascinò in avanti seguendo quel suono, con gli occhi chiusi, finché, dopo alcune ore sbucarono da uno stretto budello che immetteva nell’ultima rampa della grande scala principale. Guglielmo uscì per primo e, dopo aver controllato che non ci fosse nessuno, fece cenno alla ragazza di seguirlo. Kore si spinse fuori con le braccia, rotolando in modo goffo sul pavimento levigato dai secoli, e si rimise in piedi; colpita dall'improvvisa luminosità strizzò istintivamente gli occhi: era già mattina e i primi raggi del sole verde tagliavano obliquamente l’oscurità, come fossero lame affilate.
Si trovavano in un cunicolo laterale, appena sopra la prima parte di scala. Kore abbassò lo sguardo e fissò la tunica con una smorfia: ormai era divenuta di un colore grigiastro e aveva una macchia più scura e umida sul davanti nel punto in cui aveva strisciato infilandosi in uno dei passaggi più bassi.

Si sfilò la veste che non le serviva più, se non a dare maggiormente nell’occhio, la arrotolò, la mise sotto un braccio, e si affrettò a raggiungere la sua guida.
A quell’ora la grande scala era invasa da uomini e donne indaffarati, ma nessuno notò lei e Guglielmo che parvero comparire dal nulla. Fu facile passare inosservati: non dovettero fare altro che unirsi alla folla che andava e veniva trasportando merce di vario genere, soprattutto sacchi di farina e altri alimenti, che dalla Città del Sole giungevano a Lapidia per finire, poi, nei pentoloni di Bertone alla cava. Kore e Guglielmo seguirono la corrente di quel fiume di uomini fino al grande arco.
Appena fuori si trovarono di fronte Marietta e Freda.
La più giovane aveva un’espressione severa e preoccupata, mentre l’altra fissava Guglielmo come se attendesse da lui qualche notizia. L’uomo, appena la vide, annuì e si appartò con lei. Cosa che a Kore non piacque affatto e non tardò a mostrare il suo disappunto prendendosela con Marietta. La donna le aveva fatto cenno di seguirla: il lavoro alla miniera era già iniziato e loro avrebbero dovuto raggiungere gli altri schiavi, ma appena furono abbastanza lontani da Guglielmo e Freda, Marietta si fermò di colpo e bloccò anche Kore, afferrandola per le spalle e costringendola a guardarla in volto. Dalla sua espressione era chiaro che stava per esibirsi in un energico rimprovero, tuttavia non ebbe nemmeno il tempo di aprir bocca, che Kore la anticipò sfogando su di lei tutta la tensione accumulata: “Non dirmi che non sarei dovuta andare in città.” sputò con ira liberandosi dalla stretta della donna.
“Non è necessario che te lo dica, lo sai benissimo!” rispose Marietta soffocando l’istinto di sferrarle un sonoro ceffone: la rabbia, che si leggeva nello sguardo della sua protetta, la fece desistere.
Kore era furiosa, ma non capiva il perché. Era chiaro che il mago cieco non voleva aiutarla, si sentiva frustrata e delusa per questo, ma nello stesso tempo si sentiva usata, sfruttata da Freda. La vecchia maga doveva aver intuito le sue intenzioni. Chissà da quanto tempo era rimasta dietro di lei ad ascoltarla conversare con Diego, prima che lui se ne accorgesse; eppure si era limitata ad insultare il povero vecchio e a rimproverare la sua ospite.
Avrebbe potuto avvertire Marietta, metterla al corrente dei propri piani, invece non aveva fatto nulla di tutto ciò ma, piuttosto, l’aveva fatta seguire da Guglielmo. Perché? Perché non l’aveva semplicemente aiutata ad avvicinare Amauròs, se pensava che potesse aver ragione su di lui? Anche Guglielmo sembrava convinto che lui dovesse aiutarli. Per qualcosa che era accaduta nel passato del mago, qualcosa che le parole del Segugio sembravano avergli confermato.
“Lei… Lei sapeva, eppure non mi ha fermata.” protestò Kore, ansiosa di giustificare le sue azioni, mentre il suo dito indice correva ad indicare la vecchia maga intenta a parlottare con Guglielmo.
I due erano sufficientemente lontani da non accorgersene, eppure Marietta sussultò e sollevò le mani come se volesse impedire alla ragazza di attirare la loro attenzione, l’altra tuttavia continuò.
“Vorrei proprio sapere perché.”
Fissò la sua interlocutrice con aria di sfida e aggiunse: “Perché ha finto di non sapere? Lei era l’unica ad avermi sentita parlare con Diego. Perché, invece di avvertire te, mi ha fatta seguire da Guglielmo?”
“Freda avrà avuto le sue ragioni, ma tu non dovevi allontanarti.” sbottò Marietta sforzandosi di tenere basso il volume della voce. Poi afferrò nuovamente la più giovane per un braccio, obbligandola a riprendere il cammino verso la miniera.
“Le sue ragioni? Ma non ti rendi conto che ti ha presa in giro?” Kore si liberò ancora e, puntando i piedi, riprese a provocarla.
“Ti ha messa a fare il cane da guardia. Se la prende con te se mi allontano per parlare con qualcuno, e poi mi lascia libera di svignarmela da sotto il tuo naso. Chiediglielo! Chiedile perché lo ha fatto.”
“Tu non capisci: Freda è vecchia e saggia, ed io mi fido completamente di lei.”
“Vecchia lo è di sicuro.” commentò Kore, sarcastica. “Forse con una dentiera potrebbe migliorare il suo aspetto.” Fece una smorfia e poi tentò di imitare l’orrendo sorriso della maga, e, sollevando le braccia, piegò le dita come se fossero provviste di artigli.
In quel momento giunse ad unirsi alla conversazione anche Ranuccio.
Come sempre, appena aveva avvistato da lontano le due donne, il ragazzo le aveva raggiunte di corsa, col solito sorriso stampato sul volto pallido.
“Di chi state parlando?” chiese accennando al buffo atteggiamento di Kore. “Non di me, spero”. Ghignò.
“Si parlava di vecchie mummie.” sbuffò la più giovane.
“Si parlava di saggezza.” la corresse l’altra. “Qualcosa che a voi due sembra mancare, completamente.” lanciò un’occhiataccia a Ranuccio che continuava a sorridere e a saltellare sul posto, come una specie di mimo.
“Avremo tempo per diventare saggi e… vecchi, Marietta.” ridacchiò lui, accennando alla maga poco distante.
“Tu, è probabile, ma non a tutti è concesso di vivere per duecento anni.” ribatté Marietta. Il suo tono di voce era raggelante.
Ranuccio divenne cupo.
“Che significa?” domandò Kore, fissando l’altro con curiosità.
Ci fu un lungo silenzio, poi Ranuccio abbozzò un sorriso triste.
“I Discendenti vivono molto a lungo.” rispose, mentre gli occhi scuri corsero ad immergersi in quelli di Marietta. Lei ricambiò quello sguardo con una smorfia di disgusto e poi si voltò di scatto allontanandosi.
Ranuccio emise un sospiro e tornò a rivolgersi a Kore che continuava a guardarlo inebetita.
“Vedi…” si morse il labbro, “Freda ha quasi duecento anni. Molti Discendenti sono più vecchi di quanto sembri, e non solo i Discendenti… anche, sì, insomma, quelli come me, che sono per metà Figli del sole. Noi invecchiamo più lentamente.
“Vuoi dire che hai…” Kore fissò il suo interlocutore, studiandone l’aspetto nei minimi particolari, “Quanto? Cento anni anche tu?” domandò.
“No, io ho esattamente l’età che dimostro, ma il sangue di mio padre potrebbe assicurarmi una vita molto lunga.” rispose avvilito.
Kore non sapeva se essere più stupita per la rivelazione del giovane o per il fatto che l’aspettativa di una lunga vita lo rendesse tanto infelice. Tuttavia non osò approfondire, dato che Marietta sembrava molto infastidita dall’argomento.
Rivolse un ultimo sguardo a Freda e Guglielmo. I due continuavano a parlare e, dai loro gesti, Kore immaginò che la discussione dovesse essere abbastanza animata. Chissà cosa stavano tramando?
Persa nei propri pensieri, non si era accorta che Ranuccio aveva raggiunto Marietta. Affrettò il passo e li affiancò diretta verso le miniere.


 
***


“E’ stata una sciocchezza.” Guglielmo bisbigliava, ma la voce era colma di rancore. “Non capisco perché continui a voler coinvolgere il cieco nei nostri affari. Non ci aiuterà mai, ed è già molto se continua a tenere la bocca chiusa.”
Intanto che parlava si udì un uomo urlare rivolto ad un gruppo di minatori: “Il carico, spostate il carico!”
Guglielmo sollevò lo sguardo e vide che alcuni schiavi stavano spingendo un carro di metallo verso di lui, mentre altri si affrettavano a sgombrare l’accesso alla città da alcune casse di materiale accatastate sulla soglia dell’arco. Afferrò Freda per un braccio e la trascinò da una parte, mentre il carro, passando a pochi metri da loro, sollevò una nuvola di polvere che li investì.
“Hai deciso di farci arrestare tutti?” continuò. Era così furioso che ignorò persino la polvere che gli riempiva la bocca.
Freda sollevò un braccio proteggendosi il volto con la manica della tunica.
“A volte mi meraviglio del fatto che scorra il mio sangue nelle tue vene!” soffiò tra le fessure dei suoi denti marci, mentre la stoffa le attutiva la voce facendola apparire ancora più rauca e inquietante. “Sei davvero così sciocco, che persino una giovane donna piombata qui da un altro mondo ha capito prima di te che Amauros è l’unico in grado di trovare la Porta. Non usciremo mai da questo posto senza di lui, e prima riuscirai a ficcartelo in quella testa vuota e meglio sarà per tutti.”
“Tu non hai fiducia in me, non ne hai mai avuta!” protestò Guglielmo, ma la voce tremò come quella di un di un bambino intimorito. Immediatamente abbassò il capo in segno di rispetto. “Perdonami, madre!” mormorò.
Freda gli rivolse un’occhiata disgustata e fece per allontanarsi ma l’altro scattò in avanti e fu di nuovo di fronte a lei. “Io devo sapere,” disse con ritrovata veemenza. “C’è dell’altro, non è vero? Perché Kore ti interessa tanto?”
“Probabilmente per la stessa ragione per la quale interessa al cieco.” gracchiò la vecchia maga. Poi il tono delle sue parole si fece meno aspro. “Amauròs non parlerà: ha ragioni sufficienti per non tradire i ribelli.”
Le labbra rinsecchite di Freda si allargarono in un sorriso sghembo. “Ma dovrà essere persuaso ad aiutarci. Dovremo essere più convincenti.”
“Io… so che i suoi poteri potrebbero esserci utili, ma è troppo vicino al consiglio…” obbiettò l’altro.
“Lo sono anch’io.” evidenziò lei con fierezza, obbligandosi a drizzare la vecchia schiena dolorante.
“Tu non ci tradirai, ma di lui non possiamo fidarci. Potrebbe esserci un'altra soluzione, Amauròs non è l’unico Geomante, è possibile che qualcun altro…” azzardò di nuovo Guglielmo, intenzionato a far valere le sue ragioni, più per orgoglio che per vera convinzione ma raramente Freda prendeva in considerazioni le opinioni di qualcun altro e, infatti, lo interruppe con un cenno della mano. Fu sufficiente ad imporre la sua autorità; l’uomo chinò di nuovo il capo e annuì con un sospiro.
“Dimmi quello che hai in mente.” disse. “Vuoi che porti con me degli uomini e lo conduca qui con la forza?”
La donna sorrise.
“Non ci riusciresti. E’ cieco, ma non dimenticare che è un Discendente, uno dei più potenti.”
Guglielmo strinse i pugni con rabbia. “E come pensi di convincerlo a collaborare?”
Freda si voltò allontanandosi di qualche passo. “Stasera raggiungimi con i tuoi uomini più fidati.” disse senza guardarlo. “E trovami il bambino storpio. Come si chiama?” si portò l’indice scheletrico alle labbra, richiamando alla memoria i nomi dei ribelli. “Giona, sì lui.” disse infine soddisfatta. Nonostante l’età ricordava tutti i volti e i nomi degli schiavi ribelli, conosceva le loro famiglie e le loro origini.
Giona era un bambino di nove anni, era zoppo, ma ciò nonostante amava seguire i minatori fin nelle gallerie più pericolose, persino di giorno quando il rischio di incontrare i Vermi delle Grotte era maggiore. Ivetta, sua madre, aveva tentato in tutti i modi di dissuaderlo e perciò si era spesso rivolta a Freda, sperando che la maga, lo persuadesse a restar fuori dai guai. Dopo aver perso il padre in un incidente alle miniere, Giona, non riusciva proprio a restare lontano da quei luoghi: ogni minatore era per lui un secondo padre e nessuno di questi era mai riuscito a convincerlo a rinunciare alle sue avventure; così quegli uomini lasciavano semplicemente che il piccolo li seguisse, vegliando su di lui come tanti angeli custodi.
“Ma perché? A quale scopo?”
“Dovremo pure trovare una buona scusa per scomodare Amauròs, e portarlo dove vogliamo, non credi?” rispose lei con un sorriso cattivo.
“Credi di commuoverlo con una storiella pietosa?” scosse il capo. “Mi deludi, madre.”
La vecchia esibì i suoi denti marci in un sorriso di scherno.
“Sono poche le cose a cui tiene quell’uomo. Giona è una di queste. Quel mocciosetto impertinente gli sta sempre tra i piedi, ogni volta che viene alla cava. Credo che, dopotutto, il grande mago si sia affezionato.”
“Non vorrai fare del male al bambino?”
“Non sarà necessario, ma sarà meglio che sua madre non venga messa al corrente dei nostri piani. Ivetta dovrà essere convincente, quando parlerà con il cieco.”

Continua...

Se dovesse venirvi una voglia irrefrenabile di fare un commentino, anche negativo, non trattenetevi. U_U

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Capitolo 12
*** Cap. 12 Il bambino perduto e il bambino ritrovato ***


Cap. 12

Trascorsero altri giorni da quel momento. Alla cava tutto sembrava tranquillo come al solito. Kore non aveva più parlato con Marietta della sua fuga notturna e lei pareva voler dimenticare l’episodio.
Mentre erano in fila per il pranzo lo sguardo di Kore individuò un gruppo di uomini robusti vicino al punto dove era solito appartarsi il vecchio servitore di Amauròs. Tentò invano di sbirciare attraverso il muro di muscoli, ma non ci riuscì. Forse Diego era dietro di loro, seduto sulla roccia a mangiare la sua razione giornaliera. Si chiese cosa volessero da lui quegli strani individui, ma immediatamente un'altra scena attirò la sua attenzione: un ragazzino smilzo vestito con una corta tunichetta che una volta doveva essere stata di un colore verde acido, il volto semicoperto da un cappuccio, stava spingendo faticosamente un carrettino carico di attrezzi da lavoro e altra ferraglia. Subito fu attorniato da alcuni schiavi che presero ad esaminare il carico. Soppesavano gli attrezzi, verificando l’affilatura degli scalpelli e la maneggevolezza di mazze e martelli.
D’istinto Kore abbandonò la fila. Non sapeva perché, ma qualcosa la attirava verso il bambino, qualcosa di familiare.
Quando gli fu di fronte, il ragazzino sollevò il viso e a Kore sentì il cuore balzarle fuori dal petto.
“Fabian!” il nome del fratello le sfuggì dalle labbra ancora prima che il suo cervello potesse realizzare quello che stava facendo.
Il bambino la fissò stupito, come se la vedesse per la prima volta.
Kore si morse il labbro ricordando le parole di Marietta. Fabian non poteva riconoscerla, e lei stava rischiando di metterlo nei guai con la sua avventatezza.
Cercò di pensare in fretta, ma aveva solo una gran voglia di abbracciarlo e dare libero sfogo alle lacrime. Strinse i pugni e si obbligò a restare immobile.
Il bambino continuava a guardarla, mentre i minatori che frugavano nel suo carretto non fecero caso a lei.
Un uomo le passò vicino spintonandola. Anche lui era interessato a ciò che Fabian teneva nel carro. Forse suo fratello era lì per vendere quegli attrezzi, o magari barattarli. Gli occhi di Kore passarono in rassegna il contenuto del carretto, individuando in un angolo un bauletto. Si chiese cosa potesse contenere. Forse qualche genere di moneta che si usava per commerciare in quel mondo, ammesso che gli schiavi potessero disporne. Forse, molto più semplicemente, la moneta di scambio dei minatori erano proprio le pietre magiche.
Magari Fabian le avrebbe a sua volta scambiate con viveri e vestiti, per sé, e per chiunque stesse vendendo quella merce. Era certa, infatti, che suo fratello non fosse in grado di fabbricare qualcosa con le proprie mani, tantomeno era in grado di lavorare il metallo.
Fabian sorrise all’uomo porgendogli delle cesoie e, mentre quello le esaminava con molta attenzione, tornò a rivolgere lo sguardo verso Kore.
Gli occhi di lei divennero lucidi, non sapeva che fare, non poteva restarsene li a fissarlo senza dire niente, né poteva voltargli le spalle e rischiare così di perderlo per la seconda volta.
L’aveva chiamato per nome, ma per Fabian quell’appellativo evidentemente non aveva più alcun significato. Non aveva detto niente, non aveva neppure chiesto chi fosse lei e perché lo avesse chiamato in quel modo. Kore realizzò che non rivolgeva la parola nemmeno agli uomini che lo avevano attorniato. Alle loro richieste rispondeva con semplici cenni del capo. Per un attimo temette il peggio, immaginando qualche terribile incantesimo, forse una strana magia gli impediva di parlare. Ormai non si stupiva più di nulla. Poi però si convinse che, più semplicemente, gli era stato in qualche modo imposto di non parlare onde evitare che il suo accento lo tradisse. Sì, doveva essere di certo questa la ragione. Del resto a lei avevano fatto la stessa raccomandazione.
Fabian sembrava conoscere bene il suo lavoro. Era a suo agio in quell’ambiente sotterraneo, come se non avesse conosciuto altro nella vita. Tuttavia parve stupito e anche spaventato quando uno degli schiavi che lo avevano avvicinato sbottò in una risata sguaiata.
Era un uomo calvo sui cinquant’anni. Il volto e il petto nudo e muscoloso avevano assunto un inquietante colorito verdognolo a causa della polvere di pietra magica mista a sudore che gli copriva completamente la pelle, come una patina.
“Ehi! I Vermi delle Grotte ti hanno forse mangiato la lingua, ragazzino?” sbraitò strattonando Fabian.
Il bambino scosse violentemente il capo, ma non rispose.
Davanti a quella scena, Kore non poté fare a meno di lanciare all’uomo un’occhiata rabbiosa. Se avesse continuato a schernire il suo fratellino si sarebbe guadagnato un calcio negli stinchi. Ma i propositi violenti della ragazza furono bloccati sul nascere: Freda si era avvicinata e posò gentilmente le mani sulle spalle del piccolo Fabian.
“Il ragazzo non parla.” disse rivolgendosi all’uomo, che sembrò rimpicciolire di fronte alla vecchia maga. “Ma il fabbro non sarebbe contento di sapere che qualcuno si prende gioco di suo figlio, faresti meglio a tenere per te i tuoi commenti, Rufo.” lo avvertì, e il suo volto rugoso assunse un espressione che fece rabbrividire Kore e, di sicuro, ebbe lo stesso effetto sul minatore che chinò il capo e si allontanò in gran fretta.
Tuttavia era chiaro che, nonostante Fabian si comportasse come se fosse a casa propria, la sua presenza alla cava era una novità per tutti gli altri, infatti, subito dopo, un altro minatore si rivolse a Freda.
“E il figlio del fabbro ce l’ha un nome?” domandò. “O dovremo rivolgerci a lui chiamandolo ‘Ehi tu’?
“Guccio è il suo nome.” lo informò seccamente la strega.
Kore sentì una stretta dolorosa allo stomaco.
Senza accorgersene si morse il labbro fino a farlo sanguinare, quando gli occhi, che faticavano a trattenere le lacrime, carpirono l’impercettibile sorriso di suo fratello nel sentire pronunciare quel nome.
“Ora prendi quello di cui hai bisogno e torna al tuo lavoro.” continuò Freda indicando all’uomo la ferraglia che luccicava nel carretto e poi, afferrando Kore per un braccio, la trascinò lontano.
La giovane non osò ribellarsi, ma continuò ad osservare amareggiata dietro di sé il piccolo schiavo che distribuiva i nuovi attrezzi ai lavoratori. Immaginò che non sarebbe stato saggio tentare di parlare con lui in quel momento. Tuttavia doveva escogitare un piano, un scusa per avvicinarlo da sola. Doveva tentare di guadagnarsi la sua amicizia prima di ricordargli chi fosse in realtà. Ma come? Bisognava agire con prudenza. Ora Fabian, o Guccio come si faceva chiamare, era uno di loro o, almeno, credeva di esserlo. Avrebbe potuto tradirla e lei non poteva rischiare di scoprirsi, mettendo in pericolo anche lui.
Sospirò: finalmente aveva avuto la conferma che era sano e salvo e che, a quanto sembrava, non correva immediato pericolo, quindi aveva tutto il tempo per pensare alla cosa migliore da fare per conquistare la sua fiducia. Forse parlandogli nella sua lingua madre sarebbe riuscita persino a risvegliare in lui i ricordi, ma non doveva essere precipitosa, ci sarebbero state altre occasioni per avvicinare Fabian, almeno era quello che si augurava.
Un debole sorriso si disegnò sul suo volto, mentre fantasticava sul loro ritorno a casa.
Freda continuava a trascinarla, ma lei sembrava non accorgersene. I suoi piedi si muovevano meccanicamente, un passo dietro l’altro, e, intanto, miriadi di pensieri le vorticavano caotici nel cervello. Poi, all’improvviso, un suono basso e prolungato riempì l’aria rimbalzando da una parete all’altra come un funesto presagio di sventure.
Tutti gli uomini gettarono a terra i loro attrezzi e corsero verso la fonte del lugubre ululato che, in un primo momento, aveva ricordato a Kore il verso straziante di un animale, e solo dopo la giovane riuscì a collegarlo ad uno strumento dell’uomo, un corno o qualcosa di simile. Probabilmente una specie di allarme a giudicare dalla reazione degli schiavi.
Anche Freda ebbe un sussulto nell’udire quel richiamo, ma non affrettò il suo passo. Lei e Kore furono sorpassate da decine di donne e uomini che correvano a perdifiato.
In quella confusione la giovane perse di vista il fratello. Lo cercò inutilmente con lo sguardo per alcuni minuti, poi si voltò e i suoi occhi corsero verso il luogo in cui, poco prima di incontrare Fabian, aveva visto l’assembramento di uomini. Ora, nel punto in cui Diego era solito consumare il suo pasto, non c’era più nessuno: anche quei minatori dovevano aver raggiunto gli altri seguendo il richiamo del corno, e la roccia dove avrebbe dovuto trovarsi seduto il vecchio servitore era vuota. Si chiese se anche lui avesse seguito gli altri, o se, quel giorno, non si trovasse affatto alla cava.
 
***

Amauròs si voltò di scatto. Era appena riuscito a prendere sonno quando i colpi lo svegliarono. Qualcuno stava bussando alla sua porta con una tale violenza che si precipitò giù dal letto e si preparò a difendersi da un eventuale assalitore. Protese le mani in avanti in direzione dell’ingresso e trattenne il respiro. Poi le grida disperate di una donna gli bloccarono le parole del maleficio in gola.
“Mio signore, apri, ti prego!”
Riconobbe subito la voce di Ivetta. Si portò il palmo della mano verso il petto, e poi, con un gesto ampio e rapido simile ad uno schiaffo, colpì l’aria.
Come se fosse stata afferrata dalle sue dita, la porta si spalancò sbattendo con tanta forza sulla parete da rimbalzare per ben due volte.
Sulla soglia la donna in lacrime era accompagnata da Orbiana che la tratteneva per un braccio.
Amauròs s’irrigidì non appena percepì la presenza del Segugio. I suoi occhi spenti si spostarono su di lei, come se potesse vederla. Non parlò, ma una smorfia disgustata gli si disegnò sul viso.
“L’ho trovata all’ingresso della città che gridava il tuo nome.” esordì Orbiana. La sua voce era simile ad un rantolo gorgogliante.
Amauròs mosse il capo lentamente finché gli occhi neri giunsero a sfiorare la schiava.
“Perché sei qui?” le domandò calmo.
“Giona. Non riescono a trovarlo. Temono che si sia perso in una delle gallerie. Mio Signore, tu puoi aiutarli, ti prego…” singhiozzò la donna. “E’ giorno… i Vermi…” un grido soffocato spezzò le sue parole, mentre, artigliandosi alla tunica dell’uomo, si gettava in ginocchio ai suoi piedi.
Orbiana scoppiò in una risata stridente. Poi si rivolse al mago.
“Oh, ora ti precipiterai a salvare il moccioso, immagino.” lo derise.
“Perché no?” le rispose gelido Amauròs, piegando le labbra in un riso maligno. Poi si chinò e, afferrando Ivetta per le braccia, la costrinse, con poco garbo, a rimettersi in piedi.
“Perché Diego non è con te?”
“Io… Io non lo so, sono tutti impegnati nelle ricerche, forse anche lui. Non sono riuscita a trovarlo. Io… Io, non ho pensato… Mi sono precipitata qui.” scosse il capo. “Non sapevo cosa fare, ti prego, mio Signore, tu devi trovare il mio bambino. Ti prego!”
Amauròs poggiò la mano sulla spalla della donna e la spinse di lato, frapponendosi tra lei e Orbiana.
Sollevò il mento con aria di sfida.
“La tua presenza non è più necessaria, accompagnerò io Ivetta alla cava.”
L’altra allungò il collo, finché il suo naso non si trovò a pochi centimetri dal petto dell’altro che la superava in altezza.
“Stai attento a non inciampare, cieco!” gracchiò.
“Non accadrà, a meno di non trovare sulla mia strada le tue ossa rinsecchite.” rispose e, afferrando la porta, la sbatté sulla faccia della strega che si ritrasse appena in tempo per non essere colpita.
Amauròs si diresse con sicurezza verso una cassapanca alla sua destra. Si mise in ginocchio e sollevò il coperchio. Frugò all’interno finché coi polpastrelli riconobbe la trama grossolana e ruvida di un sacchetto.
Lo afferrò, soppesandolo. Il tintinnare delle pietre all’interno gli confermò l’esattezza della sua scelta. Se lo legò alla cintura poi, senza voltarsi, disse alla donna:
“C’è un cofanetto sul tavolo dietro di te, prendilo!”
Ivetta fece quello che l’altro le aveva chiesto e poi gli si avvicinò.
Amauròs la udì singhiozzare.
Sospirò, maledicendo mentalmente quell’infausta giornata, le grotte, quel mondo, e persino se stesso, sentendo tutto il peso della speranza che quella donna riponeva in lui. Una speranza inutile, purtroppo ne era certo.
Pur non avendo la sensibilità dei Segugi, le sue preziose pietre e i suoi poteri di Geomante l’avrebbero aiutato a ritrovare il bambino, ma solo se fosse stato ancora vivo, cosa di cui dubitava fortemente. Giona conosceva molto bene le miniere e il fatto che non fosse tornato poteva significare solo una cosa: era stato attaccato.
Sentì la rabbia e l’odio crescere. Quelle bestie maledette erano ormai diventate l’incubo degli abitanti del mondo sotterraneo, non passava mese senza che non giungesse la notizia di una nuova vittima. Ivetta era arrivata lì inutilmente, l’assenza di Diego, non faceva che confermare i suoi timori, purtroppo. Non riusciva a capacitarsi del fatto che il vecchio fosse rimasto alla cava, lasciando che la madre di Giona si avventurasse da sola in città, finendo nelle mani dei Segugi, e correndo il rischio di essere rimandata indietro senza poterlo raggiungere. L’unica spiegazione che riusciva a darsi, l’unica ragione possibile era che l’avessero allontanata volutamente dalle miniere, perché non vedesse l’epilogo della tragedia.
Al posto di quegli uomini avrebbe agito allo stesso modo.
Molti anni prima, aveva visto un Verme uccidere un uomo, scosse il capo, no, una madre non avrebbe mai dovuto trovarsi di fronte una scena simile.
Chiuse il baule e si rimise in piedi.
Era certo che, una volta giunti alle grotte, avrebbero trovato Diego e gli altri ad aspettarli, il corpo del bambino già pietosamente ricomposto, se non addirittura nascosto, perché Ivetta non potesse vederne lo scempio.
Si trovò a benedire gli Dei per la sua cecità e un sorriso amaro gli si disegnò sulle labbra: mentre l’assurdo pensiero si formava nella sua mente.
“Andiamo!” disse avviandosi verso l’uscita. Ivetta lo seguì in silenzio. Poi appena fuori, Amauròs si mise da una parte lasciando che la donna lo sorpassasse. Appoggiò la mano sulla spalla di lei e si lasciò condurre verso le scale, le dita si strinsero nervose mentre il senso di impotenza si impadroniva sempre più di lui. Impotenza, ma allo stesso tempo rabbia e voglia di vendicare quell’ennesima morte. Se, come era certo, fosse accaduto il peggio, le sue capacità sarebbero servite almeno a trovare l’assassino del piccolo Giona: i Vermi delle Grotte non erano difficili da scovare, degli animali così grossi scuotevano l’equilibrio magico di quel mondo come un terremoto. Quella orrenda bestia non aveva scampo. Un gusto acre gli riempì la bocca, mentre contava i gradini sperando che l’ultimo non giungesse mai.
 

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Capitolo 13
*** Cap. 13 In cerca di Giona ***


Cap. 13 



Appena giunti alla cava, Ivetta scansò la mano del mago dalla sua spalla e si allontanò di corsa.
Amauròs rimase immobile con l’orecchio teso e, dopo pochi istanti, sentì la donna che chiedeva notizie del figlio ma non ci fu alcuna risposta da parte del suo interlocutore o, almeno, nulla che il mago potesse udire. Immaginò che chiunque fosse lì ad attenderli avesse rivolto all’altra un cenno, uno sguardo, qualcosa che l’aveva convinta a non interrogarlo ulteriormente. Incrociò le braccia sul petto, sbuffando infastidito; era chiaro che non dovevano esserci novità particolarmente gravi, e nemmeno buone notizie visto il silenzio di lei, ma non poter sapere quello che stava succedendo lo metteva a disagio.
Poi il rumore secco delle suole di cuoio che calpestavano il pietrisco acuminato lo avvertì che Ivetta - e quello che, a giudicare dai passi, doveva essere un uomo - si stavano avvicinando.
Amauròs sollevò il mento, attento. La voce di un giovane che riconobbe immediatamente, lo invitò a seguirlo nel luogo in cui le squadre di minatori, impegnati nelle ricerche, si erano riuniti in loro attesa.
Le labbra del mago si piegarono in una smorfia. “Tu sei il ladro che è piombato in casa mia un mese fa.” lo accusò.
“Mi chiamo Ranuccio! Sono qui per farvi da guida.” si presentò l’altro. Il tono, fiero e squillante all’inizio, assunse poi un tono canzonatorio: “Mio signore, temo dovrai accontentarti, un ladro è il meglio che si possa trovare da queste parti.”
“Immagino che sia così.” sbuffò il mago.
“Abbiamo molta strada da fare.” lo informò Ranuccio e, rivolgendosi a Ivetta, “Seguimi!” disse poi, deciso.
Amauròs posò la mano sulla spalla della donna che gli si era avvicinata e i tre s’incamminarono.
Era mattina, alla cava c’era molta confusione: i minatori, che avevano terminato il loro lavoro notturno all’interno delle gallerie, si apprestavano a far ritorno alle loro abitazioni rupestri; nel frattempo altri uomini avevano appena iniziato la scalata al costone roccioso dal quale avrebbero estratto un materiale meno nobile, ma al sicuro dai pericolosi abitanti delle miniere. Amauròs poteva sentirli mentre si incitavano a vicenda.
Alle loro voci lontane si sommavano anche quelle delle donne nel recinto delle pietre magiche. Il rumore degli scalpelli riempiva la grande pianura sul fondo del cratere, cadenzando, come un macabro tamburo, una lugubre nenia funebre appena udibile in lontananza, forse era una preghiera per il piccolo Giona.
Nessuno degli uomini intenti al loro lavoro si avvicinò ai tre che raggiunsero, in fretta, l’ingresso di una delle gallerie. All’interno Ranuccio procedette spedito davanti a loro, sembrava conoscere molto bene il percorso.
L’eco dei loro passi, e il respiro affannoso, erano gli unici suoni udibili oltre alle poche parole sussurrate da Ivetta che, di tanto in tanto, segnalava al mago gli ostacoli lungo il cammino; il percorso era, infatti, cosparso di buche, dislivelli e spuntoni rocciosi. Spesso deviava all’improvviso tanto che, Amauròs, aveva l’impressione di girare in tondo. Un labirinto di cunicoli strettissimi: il tragitto ideale per evitare i Vermi delle Grotte, pensò. Quelle orrende creature non avrebbero potuto penetrarvi a causa delle loro dimensioni, ma i Vermi non erano l’unica minaccia in un posto come quello.
Ranuccio non aveva detto altro da quando si era infilato in quello stretto budello; camminava in silenzio, ma speditamente e Amauròs poteva udire i suoi passi regolari e sicuri.
Di tanto in tanto fermava, forse per aspettarli; sembrava impaziente: per il giovane doveva essere seccante adattare la sua andatura a quella di un povero cieco e un sorriso amaro si dipinse sulle labbra del mago. Teneva una mano sempre poggiata sulla spalla di Ivetta che camminava davanti a lui poiché la galleria era così stretta da permettere il passaggio di una sola persona alla volta, così erano obbligati a procedere in fila.
Protese l’altra mano fino a sfiorare con la punta delle dita le pareti del cunicolo: la superficie era friabile, il passaggio sembrava scavato in fretta, senza alcuna cura, forse era addirittura di origine naturale, e, probabilmente, piuttosto pericoloso. La sua esistenza non lo stupì: persino i Discendenti sapevano che, oltre alle gallerie mappate, all’interno delle miniere si snodavano miriadi di cunicoli che, partendo dalla cava, congiungevano una città all’altra fino ai confini più remoti di quel mondo. Alcuni erano stati scavati dai ribelli che, per secoli, avevano tentato di raggiungere le leggendarie Porte, o perlomeno di sottrarsi al loro destino di schiavitù per unirsi ai pirati al di la del mare dei cristalli. Altri, la maggior parte, erano il risultato del lento lavorio delle acque sotterranee che ancora si potevano udire mentre scrosciavano nelle profondità.
Il mago sollevò il braccio fino a toccare il soffitto e, istintivamente, si chinò in avanti appena si rese conto di quanto fosse bassa la volta. Una strana inquietudine lo pervase: si stavano allontanando sempre di più dalla zona frequentata dai minatori, lì non c’erano di certo rocce verdi da estrarre. Imprecò mentalmente, mentre la sua mano continuava a tastare la parete, questa volta nel tentativo di riconoscerne la conformazione. Non percepiva nulla di magico in quelle pietre, eppure doveva esserci sufficiente polvere verde nel cunicolo da illuminare il percorso. Ranuccio infatti non aveva acceso nessun lume e così avevano fatto quelli che erano passati prima di lui: non c’era fumo nella galleria, né odore di olio bruciato.
Amauròs continuò a camminare, la mente persa in angosciosi ragionamenti: la loro guida si ostinava a restare in silenzio, ma, visto il tono con il quale il giovane gli si era rivolto poco prima, Amauròs all’inizio ne fu quasi sollevato ricordando il loro burrascoso incontro a casa sua. L’atteggiamento di Ranuccio poteva essere dovuto alla preoccupazione per il piccolo Giona ma, più verosimilmente, doveva trattarsi di diffidenza e persino rabbia nei suoi confronti; in fondo lui era un Discendente, per gli schiavi ribelli lui era il nemico.
Un brivido gli percorse la schiena. “Un nemico.” mormorò a se stesso, realizzando ad un tratto la pericolosità della situazione.
Le sue dita strinsero la spalla di Ivetta come colte da un crampo. Le labbra si dischiusero per poi tornare a formare una linea sottile e tesa. Il mago puntò i piedi trattenendo la donna.
“Perché Diego non era là ad accoglierci?” Disse d’un fiato rompendo il silenzio.
“Il tuo servo ci aspetta in fondo a questa galleria, assieme a tutti gli altri.” rispose Ranuccio con freddezza. Le labbra di Amauròs si piegarono in un sorriso forzato.
“Immagino che debba fingere di crederti.” disse, infine, con voce atona.
“Cosa…” Ivetta s’intromise, ma di nuovo fu messa a tacere da un qualche cenno del giovane, che Amauròs poté solo intuire.
Il mago scosse il capo mordendosi il labbro, un gesto istintivo, nervoso: evidentemente Ivetta non era complice in quella farsa, ma era solo una madre preoccupata che non sospettava affatto di essere stata usata come esca per attirarlo in trappola; perché di quello si trattava, ne era sempre più convinto.
Amauròs conosceva bene il vecchio servitore, non era da lui lasciare che qualcun altro si occupasse del suo padrone. Ranuccio mentiva e il fatto che lui lo sapesse non sembrava preoccuparlo. Forse pensava di non aver nulla temere da un cieco?
Chiuse gli occhi, inutili guide, e si lasciò sfuggire un sospiro: probabilmente il ragazzo aveva ragione, pensò.
Continuò a camminare con lentezza, costringendo Ivetta a fare lo stesso, quasi volesse contare ogni passo, misurare il percorso, e si obbligò a non fare altre domande delle quali temeva di conoscere le risposte. Un senso di impotenza si era impadronito di lui; sarebbe dovuto tornare indietro immediatamente, piuttosto che lasciarsi trascinare in quel maledetto cunicolo, ma inizialmente non aveva trovato strano che il punto scelto per l'incontro fosse il meno esposto: era giorno pieno e i vermi erano sempre in agguato.
Si chiese cosa avrebbe trovato in fondo a quel cunicolo e non gli fu difficile darsi una risposta: Guglielmo e i suoi maledetti ribelli; di certo c’erano loro dietro quella recita.
Come aveva potuto essere così stupido? Un’intera vita trascorsa nell’apatia, strisciando ai piedi del consiglio, pronto ad assecondare ogni loro richiesta, l’aveva trasformato in un fantoccio privo di volontà. Era stato davvero facile ingannarlo, troppo facile.
Il buio che lo circondava ormai da troppi anni gli sembrò ancora più opprimente: la magia non poteva sostituire i suoi occhi, solo il vecchio servitore poteva farlo. Senza di lui era davvero solo. Amauròs sapeva di incutere una sorta di timore reverenziale fra i minatori; lui era un grande mago, membro del consiglio dei Discendenti. Nessuno osava contraddirlo e nessuno si sarebbe mai rivoltato contro di lui di fronte a tutti, ma in quella galleria sconosciuta, con uno degli uomini fidati di Guglielmo come unica guida, si sentiva più indifeso di un bambino.
Certo, avrebbe potuto liberarsi facilmente dei ragazzo, ucciderlo persino, ma poi? Nemmeno i suoi poteri di geomante avrebbero potuto aiutarlo a trovare la strada in quel labirinto.
Tastando la parete si era accorto che il cunicolo si apriva in una miriade di altri passaggi. Il giovane doveva aver seguito dei segnali, forse disegnati sulla roccia, che indicavano quale fosse la via giusta da percorrere.
Nulla che potesse essere riconoscibile al tatto. No, anche se fosse riuscito a sopraffare Ranuccio, non avrebbe mai potuto avventurarsi da solo in quelle gallerie per tornare a casa. Avrebbe finito per cadere in un pozzo, o magari rompersi una gamba scivolando in un crepaccio. La mano che era appoggiata alla pietra si strinse in un pugno, dopo tanti anni si trovò a maledire la sua cecità. Qualcosa che per orgoglio tendeva a dimenticare, ma ora, l’orgoglio non lo avrebbe tirato fuori da quella situazione, e lui poteva solo assecondare la sua guida e seguitare a camminare.
Era passata circa un’ora. Ranuccio aveva continuato a precederli di pochi passi, in silenzio, e il volto di Amauròs aveva assunto un’espressione sempre più tesa, mentre tentava di escogitare un piano, nel caso i suoi timori si fossero rivelati fondati. Tuttavia ogni suo progetto di fuga sembrava destinato a risolversi in un fallimento; poi i suoi dubbi divennero certezze quando, in fondo ad una ripida discesa, trovarono Guglielmo che li attendeva.
Ad Amauròs fu sufficiente udire il tintinnare dei coltelli e di tutti gli attrezzi che l’uomo portava appesi alla cintura, per riconoscerlo
La presenza del capo dei ribelli in quel luogo poteva significare solo una cosa: era davvero caduto in una trappola. Una vena prese a pulsare sulla sua fronte e un sapore acre gli riempì la bocca. Provò rabbia e disgusto e non tentò di nasconderlo. I suoi occhi già immersi nel buio parvero scomparire dietro una nuvola nera, che si fece ancora più cupa nel momento in cui Guglielmo gli si avvicinò e gli prese la mano guidandola sulla propria spalla.
“Ci rincontriamo, mago.” lo salutò e poi, con fare tronfio, si rivolse alla donna. “Lo accompagnerò io all’interno, dobbiamo scendere nella botola, non vorrei che il nostro ospite avesse un incidente.”
Le dita sottili del mago si strinsero nervose trattenendo con forza la sua nuova guida:
“Che significa questa recita?” domandò rivolgendosi a Guglielmo.
Non ottenne risposta, ma non fu necessario ripetere la domanda. Sentì la spalla dell’altro sobbalzare sotto i polpastrelli, segno che l’uomo stava ridendo sommessamente. Il piano dei ribelli ormai gli era divenuto ben chiaro: la scomparsa di Giona non aveva nulla a che fare con la presenza di Guglielmo in quella grotta. E soprattutto con il motivo per cui lui era stato trascinato in quei cunicoli. Per un attimo l’idea che Giona non si fosse mai allontanato gli fece tirare un respiro di sollievo, ma poi la frustrazione ebbe il sopravvento. Erano riusciti a prenderlo in giro, e lui si era lasciato cogliere alla sprovvista, Avrebbe voluto sputare in faccia all’altro tutta la sua rabbia ma non lo fece.
Aveva udito Ivetta singhiozzare, mentre si faceva da parte per cedere il suo posto a Guglielmo. Come pensava, avevano ingannato anche lei, ma non sapeva se esserne felice o indignato. La tentazione di afferrarla per le braccia, strattonarla perché smettesse di piangere e rivelarle poi brutalmente l’inganno di Guglielmo era davvero forte, tuttavia preferì salvare quel poco di dignità che gli restava nascondendo la sua frustrazione dietro un atteggiamento fiero e sicuro. Anche senza poterla vedere, infatti, immaginava l’espressione compiaciuta del capo dei ribelli per essere riuscito ad ingannarlo. Sfogare la sua rabbia non avrebbe fatto altro che dare al suo rivale un ulteriore soddisfazione. Decise di seguirlo in silenzio. Dopotutto Ivetta avrebbe scoperto molto presto la verità.
 

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Capitolo 14
*** Cap. 14 Estremi rimedi ***


Cap. 14

Un gruppo di uomini e donne era riunito nell’ambiente circolare, una specie di cisterna, ma con più di un apertura. Vari ingressi, più simili a crepacci che a vere e proprie porte, ne ferivano le pareti altrimenti levigate e lucide quasi la pietra fosse stata rifinita da uno scultore.
Kore continuava a guardarsi attorno, Marietta le aveva spiegato che quello era un luogo nascosto e sicuro usato spesso dai ribelli per riunirsi; era raggiungibile solo percorrendo chilometri di gallerie, e la maggior parte degli uomini che lavoravano alle cave non ne conoscevano l’esistenza. Era lontano dalle zone frequentate dai minatori e l’ingresso era ben nascosto nella parte più profonda delle miniere. Nessuno ci si avventurava, tranne, appunto, i ribelli. Kore aveva trattenuto il fiato per tutto il tempo: aveva sempre temuto i luoghi chiusi, inoltre l’aver saputo da Marietta che gli schiavi evitavano quei cunicoli proprio per la loro pericolosità, non aveva certo aiutato a farla sentire meglio.
Aveva continuato a guardarsi intorno, camminando in punta di piedi e stando ben attenta a non appoggiarsi alle pareti, come se il solo sfiorarle potesse causarne il crollo.
Per tutto il tragitto era rimasta praticamente incollata alla schiena di Marietta che, al contrario di lei, sembrava trovarsi pienamente a suo agio in quel luogo.
In certi punti le pareti delle gallerie si allargavano formando delle voragini ai lati del percorso che, al contrario, si faceva più sottile snodandosi nel centro come una lingua sospesa nel vuoto, oppure, appoggiandosi ad una delle pareti come una cornice.
Forse un terremoto, o le correnti di un antico fiume sotterraneo, avevano portato via il resto della strada, lasciando solo dei piccoli nastri rocciosi a fungere da percorso. A Kore ricordavano una sorta di monorotaia, come quelle dei Lunapark. Ripensò a quando, con suo padre, era salita su uno di quei trenini che si gettavano a tutta velocità nelle gallerie, e si sentì terribilmente sola.
Nessuno aveva portato con sé lampade o torce, non era stato necessario; la luce, che rischiarava il mondo sotterraneo, penetrava fin nei cunicoli e lì la polvere delle pietre magiche la rifletteva illuminando le gallerie. Pareva di trovarsi immersi in un liquido luminescente.
Una volta giunti nel luogo scelto per l’appuntamento, attesero per più di tre ore, in silenzio, con i volti tesi e gli occhi rivolti verso l’alto a fissare una stretta botola chiusa da un portello metallico. La luce verde li rendeva simili a spettri; i fantasmi di un incubo che Kore si augurò finisse al più presto.
Un sussulto, come un onda, li scosse quando il portello venne sollevato e il volto sorridente di Ranuccio fece capolino dall’apertura. Due degli uomini più robusti afferrarono una scala, che era appoggiata in un angolo, e l’accostarono alla botola. Ranuccio scese seguito da Guglielmo, ma l’attenzione di tutti si concentrò sull’uomo dietro di lui; decine di occhi seguirono Amauròs mentre veniva aiutato a scendere.
Il mago fu subito attorniato dagli schiavi; erano tutti in attesa di una sua parola.
Lui sollevò il mento e mosse il capo come se volesse abbracciare con lo sguardo tutti i presenti; uno sguardo vuoto e immobile che, però, costrinse molti ad abbassare gli occhi.
Iniziò a parlare e la sua voce era simile ad un basso ringhio che fece rabbrividire gli uomini che lo avevano avvicinato.
“Immagino che Giona non si sia affatto perso.” disse e poi attese, come a voler assaporare gli istanti di totale silenzio che fecero seguito alle sue parole. Lo stesso tempo che servì ad Ivetta per rendersi conto di cosa volesse dire quella frase. In quei pochi secondi tutto parve fermarsi, Kore si chiese se il cuore di Ivetta si fosse arrestato assieme ai suoi singhiozzi. Poi la giovane madre si sporse dalla botola e, finalmente, un grido d’esultanza squarciò il silenzio: quello del suo bambino che le stava andando incontro a braccia aperte. Ivetta saltò giù dalla scala con tale foga che per poco non travolse il mago e, abbracciando suo figlio, iniziò a mugolare e a piangere, mentre gli scompigliava i capelli, lo baciava e gli accarezzava il volto; sembrava volersi assicurare di non avere di fronte un fantasma.
Poi la voce di Guglielmo squillò forte e sicura. “No! Giona è sempre stato qui.” e, guardando Ivetta, “Mi dispiace, ma dovevamo far credere a tutti che fosse successo qualcosa di grave, altrimenti la sua improvvisa visita alle gallerie avrebbe destato troppe domande.” concluse accennando al mago cieco.
Amauròs era livido in volto, ma sollevò il mento sfidando l’altro con le sue iridi spente.
Guglielmo gli si avvicinò, tanto che il mago poté sentire sul viso il calore del suo alito maleodorante.
“Dovresti essere contento.” lo schernì. “Ora tutti ti crederanno il salvatore del piccolo Giona… Tutti, tranne i presenti, naturalmente.” scoppiò a ridere, “Applaudite l’eroe!” disse con enfasi, alzando le braccia.
“Sarai soddisfatto di essere riuscito a trascinarmi in questo buco, Guglielmo. Sono stato davvero uno sciocco, lo ammetto, anzi, dovrei dire che sono stato totalmente cieco a non riconoscere la tua trappola.” Sul volto pallido del mago si disegnò un sorriso cattivo.
“Già, forse il tuo affetto per Giona ti ha fatto dimenticare la prudenza ma non ti abbiamo voluto qui per farti del male. Siamo brava gente… noi!” disse enfatizzando il ‘noi’ .“Dovresti saperlo.” seguitò a provocarlo il capo dei ribelli, poi si rivolse direttamente agli uomini e le donne che aveva di fronte.
“I Discendenti vogliono impedirci di vedere il sole. Ci hanno tenuti per anni in schiavitù, hanno costretto voi,” indicò Marietta, Kore e altri che stavano vicino a loro. “Venuti dal mondo esterno, a lavorare nelle cave, e chiunque abbia tentato di aiutarvi è stato ucciso o condotto qui a lavorare. Abbiamo sognato in segreto la liberazione, per anni, per secoli; abbiamo strappato ai Segugi i figli del sole impedendogli di dimenticare le loro origini. Ma non abbiamo mai costituito un vero pericolo per i nostri padroni. Siamo stati tollerati perché continuavamo a fornir loro la pietra che gli ha permesso di sopravvivere. Il consiglio sapeva dei nostri incontri segreti, e sapeva della presenza di Figli del Sole liberi fra noi! Ma ora qualcosa è cambiato, ora ci temono, e temono soprattutto quest’uomo,” la sua mano corse ad indicare il mago, che intanto si era appoggiato alla parete, “E lo temono perché sanno che lui conosce la strada per il mondo della luce.”
Un grido d’esultanza rimbombò nella stanza.
“Ora sanno che per noi è giunto il momento della liberazione…”
Un rumore improvviso lo interruppe.
Amauròs aveva fatto rotolare alcune pietre che erano ammucchiate, su una sporgenza della parete, proprio accanto alla sua mano. L’espressione del suo viso era così eloquente che nessuno, nemmeno per un attimo, poté dubitare che non le avesse spinte volontariamente e lui, fatto qualche passo in avanti, prese la parola.
“Il vostro capo ha ragione, il consiglio teme che io possa condurvi alla porta…” di nuovo i suoi occhi individuarono uno ad uno i presenti, come se potessero vederli realmente. “Ma non è così!”
La sua ultima affermazione giunse come uno schiaffo.
Guglielmo si voltò di scatto.
“Non puoi stare dalla loro parte dopo quello che ti hanno fatto.” abbaiò.
“Io sto dalla parte di me stesso. Non ho mai detto che vi avrei aiutato. E se non fosse stato per la vostra follia, ora non sarei qui.”
“Come puoi condannarci a vivere sepolti, proprio tu che hai visto il sole.” Marietta lo fissava con gli occhi colmi di lacrime.
Amauròs scosse il capo.
“Io non ho mai visto il sole. Avete creduto a delle menzogne. E’ vero, ho tentato, ma ho fallito.” fece un passo indietro appoggiandosi alla parete. “E non ci riproverò.” scandì.
“Oh, sì, ci riproverai eccome.” Freda, che era rimasta in silenzio ed in disparte fino ad allora. Quando parlò gli uomini che erano davanti a lei si fecero da parte formando un corridoio. La vecchia maga avanzò appoggiandosi ad un bastone, fino ad arrivare ad un palmo da Amauròs; lo scrutò dal basso, muovendo il capo come uno strano uccello.
Poi si rivolse anch’essa agli astanti.
“Lui sarà la nostra guida, perché la profezia dice che lo sarà: il buio è la guida,
alla porta conduce la figlia perduta
.”
Fissò di nuovo l’altro.
“Riconosci queste parole, mago?” Le sue labbra assunsero una piega cattiva, mentre Ranuccio, che era proprio dietro di lei, soffocò un gemito e fece alcuni passi indietro. Kore lo seguì con lo sguardo incuriosita da quella reazione, poi tornò a rivolgere la sua attenzione alla vecchia maga.
“Entrambi sappiamo che la leggenda parla di un uomo cieco.” continuò Freda, poi in una risata gracchiante, “Ed io non vedo altri ciechi qui.”
“Il mondo è grande, vecchia!” rispose lui, senza scomporsi.
“Oh sì, il mondo è molto grande, ma quante possibilità ci sono che un cieco e la figlia perduta si trovino nello stesso luogo nel medesimo momento?”
Amauròs s’irrigidì, mentre gli altri fissarono la strega con curiosità, e la mano avvizzita di Freda corse ad indicare la ragazza accanto a Marietta.
“Kore” gridò, “E' lei la donna di cui parla la profezia. Colei che porta il nome di una fanciulla mitologica, la figlia di Demetra, rapita alla luce. La figlia perduta è arrivata fra noi, il tempo è giunto.”
“Non potete costringermi.” affermò deciso Amauròs, ma il braccio muscoloso di Guglielmo l’afferrò alla gola.
“Davvero?” ringhiò il capo dei ribelli.
Gli occhi neri e vuoti del mago allora si rivoltarono all’indietro, mentre le palpebre si spalancarono evidenziandone il bianco. L’uomo che lo stringeva ebbe appena il tempo di notare il cambiamento che si ritrovò catapultato contro la parete opposta.
Un crepitio sinistro risuonò nella grotta, le rocce intorno a loro sembrarono sul punto di sbriciolarsi. Kore fu costretta a portarsi le mani alle orecchie perché aveva l’impressione che un ago le avesse perforato i timpani[,] come se, per un istante, qualcosa avesse risucchiato completamente l’aria all’interno del locale per poi riempirlo di nuovo.
Guglielmo scattò in piedi furioso, ma la voce aspra di Freda frenò il suo istinto di gettarsi nuovamente contro il suo rivale.
“Ora basta!” strepitò la vecchia donna. “Il mago sarà la nostra guida o non rivedrà il suo servo.”
Marietta e Kore si scambiarono uno sguardo preoccupato.
Il volto del mago divenne, se possibile, ancora più pallido.
“Te la prendi con i vecchi, ora, Guglielmo?” soffiò Amauròs.
“Ma Freda, Guglielmo, non vorrete tenere un uomo in ostaggio?” mormorò Marietta.
“Se servirà a farci uscire da questo posto, lo farò eccome.” dichiarò Guglielmo.
“Sei solo uno sciocco. Anche se volessi, non potrei trovare la vostra preziosa porta senza il mio servitore, i suoi occhi sono i miei occhi. Io…” esitò, chinando il capo “Io non posso… Gli antichi scritti, non posso leggerli.” ammise.
“Io so leggere.” si fece avanti Ranuccio.
Decine di sguardi si rivolsero speranzosi al giovane.
“Sai leggere? Saresti in grado di leggere le parole divine, la lingua dei faraoni, il greco, persino la lingua dell’antica Babilonia?” lo provocò, Amauròs.
“Io… Sì, Freda mi ha insegnato.” rispose l’altro con una voce che mostrava più sicurezza di quanto ne apparisse dipinta sul suo volto.
Kore, che era vicino a lui, lo guardò con la bocca spalancata; Ranuccio alzò le spalle:
“Beh, mi sta insegnando, insomma…” le sussurrò all’orecchio.
“Il ragazzo è sveglio e il talento non va sprecato, non trovi, cieco?” aggiunse Freda.
Amauròs si morse il labbro: quella donna era davvero determinata ad umiliarlo.
“E’ deciso: Ranuccio sarà il tuo nuovo servitore.” sentenziò la vecchia. “Non desterà sospetti e non attirerà i segugi essendo un mezzosangue,” si avvicinò all’altro e piegò la testa di lato scrutandolo da sotto il suo naso. “E, anche se qualcuno dovesse interessarsi alla sua presenza nella tua casa, non ti sarà difficile convincerli di aver avuto bisogno di un servitore giovane e forte.” ghignò.
Amauros restò immobile, rigido, pareva aver smesso persino di respirare. Kore immaginò, per un attimo, che fosse sul punto di lanciare una magia che avrebbe incenerito Freda e tutti loro, ma non accadde nulla.
Il capo dei ribelli fece qualche passo avanti, posizionandosi tra Amauròs e la sua gente. “Dite alle vostre mogli e ai vostri figli di prepararsi,” ordinò, rivolgendosi agli schiavi. “Presto lasceremo per sempre questa cava. Il mago ci guiderà.” Le sue parole suonarono definitive e, lentamente, tutti si allontanarono infilando uno stretto passaggio che portava verso l’uscita.
Kore rivolse uno sguardo incerto all’uomo cieco che continuava a restarsene immobile come una colonna di marmo; non poté fare a meno di chiedersi cosa provasse in quel momento. Diego era uno schiavo, eppure Freda doveva aver capito che tra Amauròs e il vecchio esisteva un legame molto forte. La determinazione della maga le aveva ridato speranza: voleva tornare a casa, non importava a quale prezzo, eppure si sentiva in colpa. Forse quello era davvero un prezzo troppo alto.
Persa nei suoi pensieri non si era accorta che tutti gli altri se n’erano già andati. Tutti tranne Ranuccio che, invece, si era avvicinato ad Amauròs sussurrandogli qualcosa che Kore non riuscì a sentire. Ma, qualunque cosa gli avesse detto, non doveva essere una gentilezza: Amauròs reagì spintonandolo fin quasi a farlo cadere all’indietro. “Sta lontano da me!” ruggì. Ma Ranuccio rise e, dopo averlo fissato per un po’ senza parlare, abbozzò un goffo inchino. “Bene, tornaci da solo a Lapidia, ti raggiungerò là, Padrone!” sputò con voce aspra e si diresse verso la scala.
Lo sguardo preoccupato di Kore si spostò alternativamente da uno all’altro. Ranuccio aveva forse intenzione di lasciarlo in quella grotta finché non avesse accettato di guidarli ? O Forse Amauròs non aveva bisogno di aiuto per uscire da lì. In fondo era un mago e avrebbe dovuto diventare la loro guida, una cosa quanto mai assurda trattandosi di un cieco, ma quella gente sembrava convinta del contrario.
Ranuccio, intanto, si era arrampicato sulla scala ed era già fuori dalla botola assieme a Guglielmo, Marietta e una decina di altre persone. Alcuni invece erano usciti dalle varie aperture sulle pareti. Marietta le aveva spiegato che, oltre a quella che avevano usato loro, c’erano decine di altre gallerie per giungere in quel luogo; era molto pratico poterci arrivare percorrendo vie diverse in modo da non destare sospetti.
Kore si avvicinò ad Amauròs, e protese il braccio verso di lui.
“Si appoggi a me.” disse.
Lui sollevò appena una mano, ma poi si ritrasse nuovamente, quasi con rabbia.
“La figlia di Demetra, la donna che ci salverà tutti.” soffiò, “Porterai solo distruzione e morte nel nostro mondo.”
Kore abbassò il braccio.
“Io voglio solo tornare a casa mia.” pigolò.
“Lo so!” la voce profonda del mago pareva un vento gelido. Poi, senza aggiungere altro, portò il palmo della mano alla parete; la sfiorò appena e continuò finché la pietra non lo condusse alla scala. Vi si arrampicò trovandosi di nuovo nella galleria. Kore salì immediatamente dopo di lui e riprese a seguirlo con lo sguardo. Di fronte ad Amauròs c’era uno stretto passaggio, che si allargava all’improvviso, aprendosi in profondi crepacci. Bisognava passare molto vicini alla parete per non precipitare nel vuoto. Ma lui lo sapeva?
Poco più avanti c’era Ranuccio, anche lui in attesa di vedere cosa avrebbe fatto il mago, ma non c’era preoccupazione nei suoi occhi, quanto piuttosto l’eccitazione di chi sta per assistere ad uno spettacolo. La ragazza rabbrividì. Amauròs camminò con lentezza, sfiorando il basso soffitto con le dita, ma non era sufficientemente vicino alla parete; i suoi piedi scalpicciavano a pochi centimetri dal baratro, finché il pietrisco sotto i suoi calzari scivolò precipitando nel crepaccio. Dal rumore il mago si rese conto di trovarsi sul ciglio di un burrone e si gettò con le spalle alla parete. La risata di Ranuccio rimbombò nella galleria, mentre Kore sentì montare la rabbia. Non sapeva perché ma il mago le piaceva. Ne era rimasta affascinata dalla prima volta che l’aveva incontrato alla cava. Si avvicinò e, senza dire niente, gli prese la mano accompagnandola alla sua spalla; l’altro, questa volta, la lasciò fare rassegnato.
Insieme raggiunsero l’esterno delle gallerie. Lì furono accolti da un gran frastuono: Guglielmo, uscito per primo, doveva aver annunciato a tutti il ritrovamento di Giona.
Kore si voltò a guardare l’uomo che accompagnava; Amauròs era livido in volto. Quando alcune donne gli si avvicinarono, gettandosi ai suoi piedi e piagnucolando parole di ringraziamento, lui le scansò bruscamente; poi si rivolse alla sua guida strattonandola: “Portami all’ingresso della città, muoviti!” ordinò.
Kore lo fece. Una volta arrivati ai piedi della scalinata, lo lasciò e lì Amauròs poté proseguire da solo. Ranuccio intanto li aveva seguiti e trotterellò allegro dietro il suo involontario padrone, senza però tentare di aiutarlo in nessun modo.
Kore rimase a guardarli finché entrambi sparirono oltre la prima rampa di scale.

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Capitolo 15
*** Cap. 15 Ospiti indesiderati ***


Cap. 15




Erano giunti alla casa in città da alcune ore. Ranuccio aveva passato in rassegna più volte tutti gli oggetti sparsi sopra gli scaffali, li aveva presi in mano rigirandoseli tra le dita, persino annusandoli. C’erano alambicchi coperti di polvere, statuine dalle forme bizzarre, libri dalle rilegature appesantite da borchie e fermagli di metallo; alcuni erano così voluminosi che il giovane si augurò di non doverli mai tirar giù dai ripiani. Un odore di muffa e di legno marcio riempiva l’aria: la casa del mago era piena di cose antichissime che, data la poca cura con cui erano tenute, non avrebbero dovuto sopravvivere per tanti secoli; eppure erano ancora lì, come ossa in una tomba appena scoperchiata, pronte a sgretolarsi al primo alito di vento, persino di quel leggero soffio che ogni tanto sollevava la polvere all’ingresso delle gallerie. Le labbra di Ranuccio si piegarono in un sorrisetto malevolo, per poi arricciarsi come se il giovane stesse per baciare qualcuno. Soffiò e il suo alito caldo avvolse quegli oggetti, ma non accadde nulla. Di nuovo sorrise, forse per mandarli in frantumi sarebbe stato necessario qualcosa di più potente. Il vento, quello vero, era qualcosa di cui Ranuccio aveva solo sentito raccontare: lo chiamavano il respiro degli Dei e spirava oltre il mare dei cristalli, incuneandosi tra le montagne dette le Zanne del Drago. Per un attimo immaginò di vederlo spazzar via libri e soprammobili, poi si voltò e guardò il suo ospite: forse persino il mago si sarebbe sgretolato come quegli oggetti vecchi di secoli. Fece una smorfia constatando quanto Amauròs e la sua casa sembrassero un tutt’uno. Nonostante il mago non mostrasse alcun segno della la sua vera età nei lineamenti del volto, gli anni avevano prosciugato il suo corpo dall’interno rendendolo fragile come vetro soffiato. Osservò con curiosità la carnagione chiarissima, i capelli sottili e impalpabili. Non aveva mai notato quanto sembrasse debole durante le sue visite alla cava. L’aura di mistero che circondava Amauròs lo rendeva, agli occhi di tutti, un uomo potente e il suo aspetto incuteva timore. Al contrario, ora, persino la tunica grezza, che ricadeva pesantemente sulle sue spalle magre, dava l’impressione di potergli spezzare le ossa da un momento all’altro.
Sempre più sfrontato il giovane sgattaiolò nella camera dell’uomo e, aprendo la cassapanca vicino al letto, iniziò a curiosare dappertutto, nella convinzione che il padrone di casa non se ne accorgesse. Finché, all’improvviso, la voce fredda del mago lo raggiunse, sorprendendolo ancora chino sul pesante baule di ferro.
“Dato che ti piace mettere il naso tra le mie cose, potresti dare una pulita alla casa!” ringhiò e gli lanciò contro uno straccio bagnato che lo colpì in piena faccia.
Ranuccio si alzò di scatto stringendo i pugni con rabbia. “Non sono il tuo schiavo.” urlò.
“Ah no?” rispose calmo il mago. “Mi pareva che Freda ti avesse chiesto di sostituire il mio servitore.”
“Sono qui per leggere, non per fare le pulizie.” rispose indignato.
Le labbra del mago divennero una linea sottile; si avvicinò alla parete a lato del letto, dove erano scavati dei ripiani rettangolari colmi di libri, e tastò con l’indice le rilegature, fermandosi allorché ne individuò una d’argento. Prese il pesante volume e, sotto lo sguardo stupito di Ranuccio, lo posò sul tavolo vicino; poi ne prese un altro e fece lo stesso. Quando ebbe vuotato lo scaffale iniziò ad armeggiare con un bassorilievo che sporgeva dalla parete, una stella con una mano aperta nel centro. Amauròs vi posò la sua facendo combaciare le dita e, immediatamente, la parete cedette sotto la sua spinta. Si formò un’apertura, che immetteva in una stanza segreta, al cui interno erano accatastate centinaia di piccoli contenitori cilindrici di terracotta simili ad anfore sottili. Dalle loro bocche sporgevano altrettante pergamene, ingiallite arrotolate e accartocciate, e delicatissimi fogli di papiro. Amauròs accarezzò con la mano le anfore, soffermandosi sul piccolo segno inciso sul bordo di ognuna: un segno, che lo aiutò a riconoscere quella che stava cercando.
Ne afferrò il contenuto, sfilandolo con delicatezza, e lo srotolò mostrandolo all’altro.
“Sai leggerlo?”
Ranuccio si sporse per vedere meglio i disegni che riempivano completamente la superficie del foglio. Sagome di uomini, di uccelli e altri segni che per il giovane non avevano alcun significato.
Non disse nulla, ma non fu necessario. Le labbra di Amauròs si piegarono in un sorriso malinconico.
“Tu non hai idea di cosa ci sia scritto in questo papiro, non è vero?” sospirò. “Ho centinaia di libri, e altre migliaia sono conservati nella biblioteca della Città del Sole, ma tutte le leggende, le ballate, ogni racconto tramandato nei secoli sulle origini del nostro mondo hanno un'unica fonte, ed è questa. Questo rotolo è la cosa più preziosa che posseggo.” Spiegò, poi, sporgendosi minaccioso verso di lui, “…e non pensare di rubarlo. Per chiunque altro avrebbe lo stesso significato che ha per te: ovvero nessuno.” aggiunse asciutto.
Ranuccio continuò a non parlare. Amauròs allora ripose l’antico rotolo e si diresse verso la stanza della fonte, li si accomodò sulla sedia di legno.
“Quella che ti ho mostrato è la lingua degli Dei, la lingua dei sapienti. Le lettere sacre possono rivelare molti segreti a chi è capace di decifrare il loro vero significato. Ma è chiaro che tu non sei fra quelli.” disse con disprezzo.
“Se la mia presenza ti da tanto fastidio perché, grande mago, non ti dai da fare a trovare quella dannata Porta?” sputò con forza il giovane, provando a nascondere la sua paura dietro quella voce carica di rabbia.
Amauròs sorrise.
“Forse il luogo dove trovare la Porta è rivelato in quel rotolo, o magari in uno degli altri cento.” lo schernì. “Perché non me lo dici?”
Ranuccio tremò, ma a dispetto del nodo che gli stava chiudendo la gola, continuò ad inveire contro l’altro, come un piccolo di naeria che si dibatte nella trappola sputando acido dai numerosi orifizi del suo corpo viscido.
“Usa le tue pietre maledetto mago, non hai bisogno di una biblioteca per tirare i tuoi sassi.” mugugnò Ranuccio a denti stretti.
“Non eri così ardito l’ultima volta che sei entrato in questa casa.” osservò il mago trafiggendo il giovane con le sue iridi spente. “I miei sassi potranno riconoscere una Porta. Ma se sarà quella la più prossima all’apertura possono dircelo solo le profezie. A meno che tu non voglia aspettare vent’anni per saperlo.” sbuffò.
“Beh, comincia a cercare!” borbottò il giovane, voltandogli le spalle e fingendo di allontanarsi.
“Troverò la Porta quando la Porta vorrà essere trovata.” ringhiò l’altro poi, sporgendosi dalla sua sedia, “Potrebbe passare molto tempo prima che tu possa tornare dai tuoi amici.” disse in un soffio gelido.
Ranuccio si voltò di nuovo sostenendo lo sguardo minaccioso di Amauròs. “Io posso aspettare, ma forse il vecchio Diego potrebbe non durare tanto alle cave.” rispose continuando a fingere sicurezza.
L’altro si irrigidì. Poi si alzò dallo scranno e fece qualche passo verso Ranuccio che si ritrasse. Una reazione impercettibile che però non sfuggì al mago.
“In quel caso…” scandì Amauròs con estrema lentezza, quasi volesse assaporare la paura che sapeva di essere riuscito ad incutere nel giovane. “Tu lo seguirai.”
Ranuccio abbassò lo sguardo, capendo di essersi spinto troppo oltre.
Si chiese cosa ci facesse lì, davanti ad un uomo che avrebbe potuto ucciderlo senza nemmeno toccarlo. Forse era stato imprudente da parte sua vantarsi di saper leggere ma, giù alla cava, gli era sembrato l’unico modo per risolvere la questione in fretta e Freda, evidentemente, doveva pensarla come lui. Ora però non era più certo di quello che stava facendo: se davvero quell’uomo avesse avuto bisogno del suo servo per trovare la Porta, lui come poteva pretendere di sostituirlo? Diego era stato istruito fin da bambino a riconoscere i segni magici, le Parole Divine, oltre che saper assistere un uomo cieco in tutte le sue necessità. Il ragazzo si sentì d’improvviso inadeguato al compito: i ribelli si aspettavano molto da lui, forse troppo; lui non era un mago, non era nemmeno coraggioso come il capo dei ribelli. Oh sì, era facile giocare a fare il ribelle spalleggiato da una strega potente, ma ora che si trovava da solo in quella casa, si sentiva perso.
Per il resto del pomeriggio non parlarono più e così nei giorni che seguirono.
Ranuccio si limitò a preparare una zuppa per sé e a lasciarne una ciotola per il mago sul tavolo, poi, con lo straccio che l’altro gli aveva dato, continuò a strofinare ogni angolo della casa, ripassando più e più volte sulle stesse superfici, fin quasi a consumarle. Non voleva fare altro, non voleva trovarsi di nuovo a discutere con il suo ospite rischiando di irritarlo ancora di più con la sua stupida boccaccia.
***

Nel frattempo Kore e Marietta erano anch’esse tornate a casa.
La giovane appena rientrata aveva iniziato a scrollare dai suoi vestiti la fastidiosa polvere verde che li aveva completamente ricoperti. Tentò anche di pulirsi il viso alla meglio con la poca acqua che era rimasta nel catino, non aveva alcuna voglia di andare a riempire la brocca alla cisterna. Poi la voce di Marietta la fece trasalire.
“Perché proprio in casa mia? Io non ero d’accordo fin dall’inizio.”
Kore si avvicinò alla tenda lacera che separava la stanza da letto dall’ingresso e si mise ad ascoltare.
Riconobbe la voce gracchiante di Freda e poi anche quella di alcuni uomini.
“Preferisci lasciarlo alle loro cure?” domandò la strega, con un chiaro tono provocatorio.
“Non lo voglio qui! Te l’ho già detto, non farò la guardia ai tuoi ostaggi! Per me quest’uomo può anche tornarsene dal suo padrone, io non glielo impedirò.”
“Oh, questo non è un problema, glielo impedirò io.” rispose la vecchia.
Kore si sporse dal suo nascondiglio, scansando appena la tenda per poter vedere ciò che stava succedendo. Diego era in piedi tra due uomini robusti vicino all’ingresso, sembrava tranquillo o, forse, rassegnato. Marietta invece era furiosa, le braccia lungo i fianchi e i pugni chiusi con forza. Freda le voltò le spalle e si diresse curva verso l’ingresso. Iniziò a carezzare gli stipiti della porta come se li stesse ungendo con qualcosa, ma non aveva nulla in mano. Una voce sibilante uscì dalla sua bocca, parole senza senso, che più che una lingua ricordavano il verso di un animale.
“Che diavolo stai facendo alla mia casa?” urlò Marietta allarmata.
Incurante la strega non le rispose e continuò a cantilenare il suo sortilegio; quando si voltò un sorriso cattivo le deformava le labbra sottili.
“Impedisco a quest’uomo di andarsene a spasso.” disse e, rivolgendosi agli uomini che tenevano Diego per le braccia, fece loro segno di avvicinarsi alla porta.
Quelli obbedirono, spingendo il vecchio servitore, finché giunsero difronte all’ingresso e lì si bloccarono, guardando la strega, incerti sul da farsi. Lei non disse nulla, artigliò Diego per i capelli e, con uno strattone che lo colse alla sprovvista, lo tirò verso la porta. L’uomo fu costretto a fare un passo avanti, nel tentativo di non perdere l’equilibrio, ma nel momento in cui il suo volto oltrepassò la soglia, l’aria intorno a lui parve incendiarsi. Diego gridò di dolore e fece un balzo all’indietro andando a cozzare contro i due energumeni che ancora lo tenevano per le braccia. La risata gracchiante di Freda riempì la stanza e Kore sentì un brivido gelido percorrerle la schiena. Richiuse la tenda e si allontanò dalla porta il più silenziosamente possibile.
***
In città Ranuccio continuava ad evitare il suo padrone, e Amauròs sembrava apprezzare questo suo nuovo atteggiamento. Per circa un mese i due si limitarono ad incrociarsi durante l’ora di pranzo, quando Amauròs si dirigeva sicuro verso il tavolo, afferrava la sua ciotola e se ne tornava nella stanza della Fonte, dove passava ormai gran parte delle sue giornate. Una volta terminato di mangiare lasciava il piatto in terra fuori dalla porticina di ferro e Ranuccio lo raccoglieva.
Col tempo però, il giovane notò che Amauròs mangiava sempre meno; finché, un giorno, trovò la ciotola intatta sul tavolo. Rimase a fissare i piccoli fili di vapore che emanavano dalla minestra per quasi un’ora sperando che il mago uscisse per consumare il suo pranzo, ma quei vortici profumati si fecero sempre più deboli e, quando cessarono del tutto, la superficie del liquido si era ormai trasformata in una crosta fredda e grinzosa.
A quel punto Ranuccio decise di entrare nella stanza della Fonte.
Scostò la porta, tentando di fare meno rumore possibile e imprecò, quando il ferro del battente cigolò fastidiosamente. Ormai certo che Amauròs si fosse accorto di lui, infilò la testa nel piccolo spazio fra la porta e lo stipite di pietra e i suoi occhi lo trovarono. Era seduto in terra, gli occhi chiusi e le mani posate sulle ginocchia. Ranuccio si domandò se stesse dormendo: non aveva mosso un muscolo nonostante il suo ingresso tutt’altro che silenzioso. Gli si avvicinò e vide che le labbra gli tremavano in modo impercettibile. Stava sussurrando un incantesimo.
Fece ancora qualche passo fino a trovarsi proprio di fronte al mago, si appoggiò alla parete e, incrociando le braccia, si mise in attesa.
Per diversi minuti l’altro restò immobile continuando a recitare la strana litania. Sul pavimento di fronte a lui aveva disposto le pietre magiche a formare una sorta di disegno, usando le pietre più piccole per tracciare cerchi e linee, mentre i nodi del glifo li aveva evidenziati con pietre di dimensioni maggiori. Altre pietre le aveva semplicemente ammucchiate accanto al disegno.
Con uno scatto improvviso, che fece trasalire il giovane, le raccolse e le gettò verso l’alto. Le labbra di Ranuccio si spalancarono dallo stupore quando i sassi, dopo essere rimasti sospesi in aria per alcuni secondi, ricaddero lentamente e si posizionarono all’interno dello strano reticolo, senza toccare nessuna delle pietre che lo formavano.
Le mani del mago allora iniziarono a sfiorare il pavimento. Il giovane capì che Amauròs stava tentando di ricostruire nella sua mente la posizione dei sassi. Più volte percorse coi polpastrelli lo spazio fra una pietra e l’altra, misurandone la distanza ben attento a non spostarle.
Ranuccio allora gli si avvicinò e si chinò accanto a lui.
Il mago, che si era evidentemente accorto della sua presenza, sollevò appena il capo puntando sull’altro i suoi occhi spenti.
“L’hai trovata?” gli domandò Ranuccio eccitato.
Amauròs sospirò.
“Questa è una mappa!” rispose con voce strozzata. “Qui ci sono le Zanne del Drago” continuò indicando due delle pietre più grandi. “Questo spazio vuoto è il mare.” le sue dita spazzarono la polvere sul pavimento sottolineando come nessun sasso era caduto in quel punto. Scosse il capo. “E’ troppo lontana!” mormorò.
Ranuccio notò che molte delle pietre, che l’altro aveva lanciato in aria, ricadendo si erano allineate a formare una sorta di percorso.
“La porta si trova lì?” domandò inginocchiandosi e fissando, col cuore in gola, un punto oltre quello che il mago aveva indicato come il Mare dei Cristalli. Gli sembrava già di poter vedere l’agognata Soglia e, per un istante, gli parve persino di scorgerne il riflesso luminoso proiettato sul pavimento, come un raggio di sole.
“Non posso guardare così lontano.” mormorò Amauròs. “La porta è oltre il mare, l’energia magica si sta concentrando in qualche punto sulle Montagne Rosse . Si accumulerà per i prossimi vent’anni, e solo allora la porta sarà visibile anche a questa distanza. Se solo avessi qualche indicazione, un indizio, il nome di una città.” sospirò.
“Ma noi possiamo avvicinarci, possiamo superare le Zanne del Drago e arrivare abbastanza vicini da poterla vedere. Quando saremo là, potrai riconoscerla, non è vero?”
“Vuoi attraversare il mare, trascinare con te un intero popolo senza sapere esattamente dove stai andando e cosa troverai dall’altra parte?”
“Non abbiamo scelta. Le profezie, i tuoi libri, pensi che lì ci sia scritto qualcosa?”
Amauròs si alzò e, voltando le spalle al suo interlocutore, si avvicinò alla Fonte.
“Poche persone sono andate oltre il Mare dei Cristalli, pochissime sono tornate.” spiegò appoggiando le mani sul bordo del pozzo. “I libri narrano di massicci maestosi fatti di lastre traslucide che si affacciano su acque scure e popolate da mostri simili a grossi rettili. Si attorcigliano e serpeggiano tra le punte acuminate dei cristalli che si innalzano come gigantesche schegge di vetro. Nessuna imbarcazione può affrontare quelle acque infide. Nessuna che sia abbastanza grande da trasportare centinaia di schiavi. Le navi mercantilì si mantengono sempre vicine alla costa e, anche così, il viaggio è rischioso. L’unico passaggio che si può percorrere a piedi è la lingua rocciosa oltre le Zanne del Drago. Troppo esposto: sarete dei bersagli facili.”
Scosse il capo. “Vi uccideranno tutti, sempre che non finiate prima in mano ai pirati.” Si voltò e sollevò il mento torreggiando sull’altro ancora inginocchiato. “Non avete alcuna speranza di raggiungere la porta e se anche foste così fortunati da arrivarci abbastanza vicino, non è detto che io sia in grado di riconoscerla.”
“Noi partiremo!” fu la risposta di Ranuccio che, nel frattempo, si era rimesso in piedi.
“Sei uno sciocco ignorante. Pensi davvero che sia sufficiente raggiungere la Soglia per vederla o addirittura aprirla con uno schiocco di dita?” ruggì il mago.
“Il momento per attraversarla deve essere calcolato senza possibilità di errori, così come l’energia magica utile ad aprirla. Le Soglie non sono tutte uguali; la loro collocazione, il tempo trascorso dall’ultima apertura, persino la posizione di astri che tu non hai mai visto, persino di quello bisognerà tener conto.” Il volto di Amauròs aveva assunto un’espressione carica di disgusto. “Ma cosa ne sai tu?” sbottò.
“Credo che dovremo affidarci alla fortuna questa volta, in fondo la profezia è a nostro favore: se dice che troveremo l’uscita, noi la troveremo.” insisté il ragazzo.
Amauròs chinò il capo e si portò la mano alla fronte sospirando.
Poi le sue labbra si piegarono in un debole sorriso.
“La fortuna, certo! Forse era a questo che si riferiva la profezia. Chi è più cieco del caso?” disse beffardo e si abbandonò ad una risata priva di gioia. “Sai, forse Freda si è sbagliata: non sono io la vostra guida.”
“Freda non sbaglia mai!” disse con enfasi il giovane. “Riferirò quanto hai scoperto, ti consiglio di tenerti pronto in caso decidessero che le tue indicazioni sono sufficienti per mettersi in viaggio.”
 

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Capitolo 16
*** Cap. 16 La fuga ***


Cap. 16


Diego era seduto in un angolo della stanza, su una delle sporgenze rocciose che fungevano da sedili. Marietta era andata alla cisterna, carica di brocche da riempire, così Kore decise di avvicinarsi al vecchio servitore. Diego era in quella casa ormai da diversi giorni, ma fino a quel momento la ragazza aveva evitato di parlargli perché si sentiva in colpa; il suo desiderio di tornare a casa la faceva sentire colpevole.
Quando gli fu di fronte, Diego sollevò il capo e la scrutò con attenzione; poi le fece cenno di sedersi accanto a lui e lei si accomodò, in silenzio, e tenendo gli occhi bassi.
Dato che lei continuava a fissare le proprie mani, mentre stringevano la stoffa della gonna, Diego parlò per primo, con una voce dolce che la stupì.
“Cosa stai pensando?” domandò.
La ragazza sollevò gli occhi timidamente e provò ad incontrare quelli di lui.
“Mi dispiace per quello che è successo.” disse con sincerità. “Non volevo che si arrivasse a tanto, io…”
“Non volevi?” la interruppe l’altro e il suo sguardo corse verso l’ingresso, per poi perdersi nel vuoto. Anche Kore guardò fuori dalla porta aperta, verso il precipizio.
“Il fatto che Freda mi stia usando per convincere il mio padrone ad aiutarvi non è nulla in confronto ai rischi che questo viaggio comporterà… per tutti voi.”
Irrigidì il volto in una smorfia, come se stesse ingoiando un boccone amaro.
“Amauròs farà ciò che gli avete chiesto, vi guiderà.” chinò il capo sospirando.
Le labbra di Kore si piegarono in un sorriso incerto. “Lui ti vuole bene?” Il suo era più un pensiero formulato ad alta voce che una vera domanda , ma l’altro rispose ugualmente: “Sì, è così! Lui mi ama come se fossi suo padre…” fece una lunga pausa mentre i suoi occhi diventavano lucidi. “… e anche come se fossi suo figlio.” Concluse con voce strozzata.
Kore gli rivolse uno sguardo carico di stupore, ma subito le tornarono in mente le parole di Ranuccio: era difficile stabilire dall’aspetto la vera età di un Discendente.
“Lui… lui ti ha cresciuto?” domandò. “Sei con lui da … quando? Quanti anni avevi?”
“Quattro anni. Sì, lui mi ha cresciuto.”
Kore si rimise in piedi e prese a misurare a grandi passi la stanza. La sua testa si riempì di domande: perché Amauròs avrebbe dovuto prendersi cura di un Figlio del Sole per poi farne il suo servitore? E Freda, cos’altro sapeva di quell’uomo?
Si voltò versò Diego e lo interrogò di nuovo: “Come farà Amauròs a trovare la soglia?”
Il vecchio sorrise. “Il mio padrone è un Geomante.” rispose con un moto di orgoglio. “Può sentire l’energia magica presente nelle pietre, nelle persone e in tutto ciò che lo circonda.”
Poi si accomodò meglio sul duro sedile e incrociò le mani. “Hai mai visto una ragnatela?” domandò alla ragazza.
Kore arricciò le labbra disgustata. “Sì, certo che l’ho vista.” rispose stupita.
“Io ne ho vista una nella Città del Sole. Creazione meravigliosa, non trovi?”
Kore continuava a non capire, ma i ragni non le piacevano così come non le piacevano quelle cose appiccicose che lasciavano in giro.
“Qui non ci sono ragni, ne insetti di nessun genere.” continuò il vecchio schiavo, e si portò un dito sul mento riflettendo per un attimo sulle sue stesse parole. “Ma, sì, direi che un ragno è la cosa che più si avvicina ad un Geomante.”
Kore era sempre più disgustata, ma l’altro non ci fece caso, era rapito e pieno di ammirazione per il suo padrone; anche se, per Kore, paragonare qualcuno ad un ragno non era esattamente un complimento.
“Immagina l’energia magica come una ragnatela di fili sottilissimi: ogni volta che qualcosa o qualcuno interferisce, tutta la rete vibra.” gli occhi vispi di Diego dardeggiarono su di lei. “E il ragno sa che una preda è caduta in trappola.” Sollevò il braccio stringendo il pugno come se stesse davvero imprigionando un insetto tra le dita.
“Quando si prepara l’apertura di una Soglia, il filo si tende.” continuò sempre mimando ogni parola con movimenti delle mani. “E quando la Soglia si spalanca la ragnatela viene spazzata via violentemente.” a quel punto scattò in piedi e il suo braccio colpì l’aria davanti a lui.
Restò per un attimo immobile poi, quando si accorse che Kore lo fissava inebetita, sorrise, abbassò il braccio e tornò a sedersi.
“Beh, ecco, è così che il mio padrone può trovare la Soglia.”

Nei giorni successivi Kore trascorse molto tempo a chiacchierare con Diego. Non vedeva l’ora di tornare a casa dalla cava per incontrarlo; voleva sapere tutto su di lui e, soprattutto, sul suo padrone. E da parte sua, il vecchio servitore, sembrava trovare quelle conversazioni un piacevole diversivo alla noia della prigionia. Era diventato come un nonno per Kore; tuttavia, nonostante fosse un uomo piuttosto loquace, trovava sempre il modo di cambiare discorso, ogni volta che la ragazza insisteva nel voler conoscere particolari del passato di Amauròs.
Una mattina Marietta rientrò in casa recando con sé due anfore piene d’acqua fino all’orlo. Kore la osservò malinconica, mentre varcava l’ingresso che Freda aveva incantato per impedire a Diego di uscire. L’orribile stregoneria funzionava solo su di lui, ma la giovane tratteneva il fiato ogni volta che qualcuno entrava o usciva da quella porta.
“Sembra che il tuo soggiorno forzato in casa mia stia per finire.” esordì Marietta, poi si rivolse a Kore. “partiremo presto e, a quanto pare, Freda ha trovato il modo di trascinare con noi anche tuo fratello”.
Kore si precipitò verso di lei.
“Cosa gli ha detto? Come l’ha convinto?” la voce era rotta dall’eccitazione.
“Non ne ho idea, ma non credo che gli abbia raccontato la verità, né a lui, né alle persone che al momento se ne prendono cura. Freda è una strega potente, sa come convincere la gente, e di solito nessuno si fa domande.”
Diego si alzò.
“Dunque Amauròs ci è riuscito?” domandò.
“So solo che Freda ha detto di trovarci tutti fra due giorni all’ingresso della Grotta Grande.”
“Passeremo dalle gallerie?” chiese stupito.
Marietta si limitò a sollevare le spalle, poi indicò a Kore la nicchia che fungeva da dispensa.
“Dobbiamo procurarci cibo e tutto quello che servirà per il viaggio, non abbiamo molto tempo.”

 

***




La porticina di ferro si aprì con un rumore stridente e Freda, che la teneva ancora per la maniglia, balzò indietro come se avesse visto un fantasma. Ranuccio fece capolino con un aria colpevole: accanto a lui c’era Amauròs, paludato in un pesante mantello grigio, se ne stava con le braccia incrociate ad attendere che qualcuno lo guidasse all’interno.
“Cosa ci fa lui qui?” domandò la vecchia maga con la voce carica di disprezzo.
“Mi ha costretto ad accompagnarlo” si giustificò Ranuccio, ma, prima che l’altra potesse rispondere, Amauròs scansò il ragazzo e si infilò all’interno della casa di Freda orientandosi in base alla voce di lei.
“Ho bisogno di parlare con Guglielmo.” disse deciso.
“Cosa ti fa pensare che lui sia qui?”
“Andiamo Freda, non offendere la mia intelligenza! Sono stanco di comunicare con lui attraverso questo ragazzino.” sbottò indicando Ranuccio che parve rimpicciolire.
“Cosa vuoi, mago?”
Nell’udire la voce profonda di Guglielmo tutti si voltarono verso di lui. Anche Amauròs sollevò il mento con soddisfazione, e i suoi occhi si spostarono lentamente fino a raggiungere l’uomo che, con le braccia allargate, si era appoggiato agli stipiti di una porta. “So già che hai trovato la soglia, Ranuccio mi tiene informato su ogni cosa.”
“Non proprio ogni cosa.” lo corresse Amauròs.
Ci fu un lungo silenzio.
“Allora, parla, cosa devi dirmi?”
“Preferirei che lei non fosse presente.” Accennò alla donna al suo fianco.
“Lasciaci!” Guglielmo allontanò Freda che brontolò infastidita. Poi si avvicinò ad Amauròs così tanto da alitargli in faccia.
Le sue labbra si tesero esibendo un ghigno cattivo.
“Siamo soli.” lo informò. “A meno che tu non voglia mandar via anche Ranuccio.”
L’altro non rispose, ma sollevando i lembi del mantello, tirò fuori un involucro di stoffa da una borsa che teneva legata alla cintura, e cominciò ad aprirlo lentamente davanti allo sguardo curioso di Guglielmo.
Sotto i diversi strati di tessuto c’era un’ampolla di vetro.
“E questo cosa sarebbe?” domandò Guglielmo scrutando l’oggetto.
“Questo è il vostro lasciapassare.”
“E’ una delle tue diavolerie?” lo schernì.
“Credi davvero di riuscire a trascinare centinaia di persone con te fino alle Zanne del Drago e oltre senza che nessuno se ne accorga?”
“Passeremo dalle grotte, non ci vedranno.”
“Oh, dovrebbero essere tutti ciechi, compresi i minatori che lascerete alla cava, per non accorgersi della sparizione di così tanta gente.”
“E tu cosa suggerisci?”
Amauròs nascose di nuovo l’ampolla sotto la stoffa.
“Ucciderli.” rispose secco.
“Cosa? Aaah!” Ranuccio si morse la lingua e per poco non soffocò, ma Amauròs non si scompose.
Guglielmo invece si accomodò sulla sedia più vicina incrociando le braccia.
“Spiegati!” disse.
“Dovrai far crollare l’ingresso della galleria.”
Guglielmo sollevò un sopracciglio assumendo un aria interessata.
“Per un po’ penseranno ad un incidente, e questo vi darà… ci darà un po’ di vantaggio.”
“Mi stai dicendo che quella che hai in mano è Acqua di Nun?” domandò mentre un tremito di preoccupazione gli incrinava la voce.
L’altro annuì.
“Credevo fosse una leggenda. Se è vero quello che si racconta, lì dentro ci sarà tanta potenza da far saltare mezza cava.”
“Ne utilizzeremo quanto basta. La sostanza che vedi in questa fiala e tutta quella che sono riuscito a nascondere al Consiglio, non ne ho altra. Come puoi immaginare non sono in grado di crearne di nuova da molto tempo.”
“Già, immagino che non sia una sostanza da maneggiare al buio.” ghignò malevolo Guglielmo. Un muscolo sul volto del cieco si contrasse impercettibilmente, ma la sua voce restò ferma e pacata.
“… E preferirei che Freda non sapesse che conservo questa roba in casa mia, almeno finché non dovremo usarla.”
“E’ rischioso far crollare la miniera dall’interno,” l’uomo si passò il dito sulle labbra pensieroso. “Uno di noi dovrà restare fuori.”
“Resterò io.” annunciò Ranuccio con veemenza.
“Resteremo tutti e tre.” decretò il capo dei ribelli e si alzò avvicinandosi di nuovo al mago. “Avremo più possibilità di successo. Non sarà difficile poi infiltrarci tra i mercanti delle carovane e raggiungere gli altri al Bosco di Pietra.
Anche Freda potrà raggiungerci in un secondo momento senza attirare sospetti su di lei. Sei pronto per il lungo viaggio?”
“Non mi avete dato scelta.”
“Infatti, è così. Ci vediamo fra due giorni sul ponte nord, l’ingresso della Grotta Grande si trova proprio lì sotto, non sarà difficile farla saltare da quel punto”.
 

***



Quella che chiamavano Grotta Grande non era altro che l’ennesimo ingresso di miniera che, per qualche strana ragione, era sprofondato formando un’enorme voragine. Vi era un ponticello sottile, di ferro, sospeso a centinaia di catene che pendevano dall’alto soffitto. Kore lo fissò terrorizzata: ondeggiava, in maniera paurosa, ogni volta che qualcuno lo attraversava. Quando fu il suo turno di passare, Marietta la spinse in avanti, ma le gambe della giovane si rifiutavano di muoversi.
“Io, io non ce la faccio.” pigolò.
“Il ponte è sicuro, reggiti e andrà tutto bene.” la incoraggiò l’altra, sfilandole il grosso sacco pieno di viveri che portava sulle spalle. “Questo lo porterò io.” disse con un sorriso.
Gli occhi di Kore corsero dall’altra parte: centinaia di persone l’avevano già attraversato. Erano arrivati alla spicciolata, per non dare nell’occhio, e ora si affannavano a caricare cibo e coperte su dei carretti che, evidentemente, erano stati nascosti mesi prima, in previsione di quel viaggio.
Si afferrò al corrimano e, trascinando i piedi, iniziò ad attraversare il ponte; le gambe tremavano, parevano aver perso la loro forza, e ad ogni passo le ginocchia cedevano, ma doveva farcela: il viaggio sarebbe stato lungo e pieno di pericoli. Non poteva arrendersi al primo ostacolo.
Cercò di fissare un punto davanti a lei, ma quando fu a metà del percorso non poté fare a meno di guardare in basso: un baratro scuro si apriva sotto i suoi piedi.
Sperò con tutto il cuore che fosse meno profondo di quello che sembrava; era di certo la mancanza di luce a renderlo così spaventoso. Nonostante fosse giorno, e l’ingresso fosse solo a pochi passi da lei, la luce del sole artificiale non riusciva a penetrare all’interno. La conformazione delle rocce lì doveva essere diversa dal resto della cava. Le pietre, infatti, non riflettevano la luce solare, non come le rocce verdi. In quel luogo non c’era nemmeno un granello della polvere luminescente che solitamente copriva ogni cosa; per qualche ragione non era penetrata in quella caverna, rendendola un luogo oscuro e pauroso, anche se era proprio questa caratteristica che faceva della Grotta Grande il passaggio più sicuro per gli schiavi: con il buio non c’era pericolo di incontrare i vermi delle grotte, almeno così le avevano spiegato.
Si aggrappò con tutta la forza al corrimano, costringendosi ad andare avanti un passo dopo l’altro; quando finalmente fu dall’altra parte, una donna le andò incontro [e,] sorridendo, l’aiutò a scendere dalla passerella. Kore la riconobbe, era Lucia, l’aveva incontrata al suo arrivo in quel mondo di tenebra. Accanto a lei c’era un uomo, aveva i capelli lunghi e scuri così come gli occhi, ma la carnagione bianchissima. Era un Discendente, ormai Kore aveva imparato a riconoscerli anche quando non indossavano la loro solita tunica bianca. Forse era suo marito, quel Silas di cui aveva sentito parlare. Spostando lo sguardo notò anche i due ragazzi; sì, l’uomo doveva essere proprio il loro padre. Fu felice di trovarlo sano e salvo, e, nel gioire per la famiglia riunita, pensò al momento in cui avrebbe rivisto Fabian e questo le diede coraggio. Si voltò indietro, Marietta l’aveva raggiunta e lei la aiutò a scendere dal ponte e a posare a terra il pesante sacco. La donna le dedicò uno sguardo carico di commozione.
“Si torna a casa” disse con voce tremante e, accarezzandole il capo, le sfilò il fazzoletto che in quei mesi aveva nascosto la sua pettinatura alla moda o, almeno, ciò che ne rimaneva. Kore si passò le mani nei capelli e sorrise: erano cresciuti; solo qualche mese prima avrebbe pensato di somigliare ad un barboncino mal tosato, ma in quel momento si sentì bellissima e libera.
 

***


Da quella scomoda posizione Ranuccio poteva vedere l’ingresso della Grotta Grande, era proprio sotto di lui, almeno 800 piedi sotto di lui. Il giovane era rannicchiato su una sporgenza rocciosa, sotto ad uno dei ponti di pietra che congiungevano Lapidia al bordo del cratere; sul fondo i minatori sembravano tante formiche intente a trasportare i loro voluminosi carichi. In un tale caotico andirivieni nessuno poteva notare gli uomini e le donne che, staccandosi dal gruppo, si sparpagliavano tra i vicoli formati da baracche e cumuli di detriti; una volta giunti all’ingresso della grotta, scomparivano come inghiottiti dalla roccia.

Per tutto il giorno la Grotta Grande aveva accolto gli schiavi fuggiaschi e, ormai, mancavano solo poche persone all’appello. Quando l’ultimo dei ribelli sarebbe stato al sicuro nel fondo della caverna, qualcuno avrebbe fatto un segnale agli uomini che attendevano all’esterno per far saltare l’ingresso.
Ranuccio si lasciò sfuggire un lamento, gli dolevano tutti i muscoli, e provò a cambiare posizione; ma, quando alcune pietre ruzzolarono sotto i suoi sandali per poi finire nel vuoto, decise che, tutto sommato, avrebbe potuto resistere ancora un po’ senza muoversi.
Sopra di lui Guglielmo, seminascosto dalla balaustra finemente scolpita, controllava la porta della città. Era paludato in un vecchio mantello scuro; le spalle curve e i ciuffi di capelli grigi che spuntavano dal cappuccio, lo avevano fatto apparire agli occhi di tutti come un comune vecchio schiavo.
Nessuno gli aveva prestato attenzione nel vederlo accompagnare il mago cieco sul ponte. Accanto a lui Amauròs, che non aveva motivi per camuffare il suo aspetto, se ne stava in piedi proprio nel mezzo del camminamento, con gli occhi chiusi e le mani incrociate dietro la schiena.
Presto, dal fondo della cava, sarebbe arrivato l’atteso segnale ad avvertirli che tutti erano nella grotta, in un punto al sicuro dal crollo; in quel momento Ranuccio avrebbe dovuto lasciar cadere la boccetta con all’interno poche gocce del potentissimo liquido.
Altre piccole ampolle erano state sistemate vicino all’ingresso della galleria. L’acqua di Nun era rara e non produceva alcuna fiamma, il crollo sarebbe apparso come naturale almeno all’inizio.
Tutto era pronto ma qualcosa attirò lo sguardo di Ranuccio: un gruppo di uomini si stava avvicinando alla Grotta dove erano nascosti gli schiavi. Marciavano velocemente e un luccichio improvviso fu sufficiente per far capire al giovane che non erano normali minatori: quegli uomini indossavano delle armature.
“Ci hanno scoperti!” urlò, forse con troppa forza. Guglielmo imprecò poi il suo sguardo corse istintivamente alla porta della città: si stava spalancando mostrando altri uomini in armatura.
“I soldati, stanno venendo verso di noi. Ci hai tradito, maledetto mago!” ringhiò e scagliandosi su Amauròs lo afferrò alla gola, il suo sguardo, così carico d’odio, fu riflesso nello specchio nero negli occhi dell’altro.
“No!” Un lampo illuminò le iridi spente del mago, che si divincolò, ma fu solo un istante, il tempo di allontanare Guglielmo con una spinta e la sua espressione tornò fredda, quasi assente. Guglielmo lo fissò basito mentre quello, ignorandolo, si avvicinava alla balaustra per poi sporgersi verso Ranuccio che era ancora aggrappato allo spuntone roccioso sotto di loro,
“Getta quella dannata ampolla prima che sia tardi.” gli ordinò.
“Non posso, ci sono decine di persone ancora vicine all’ingresso, potrei ucciderli.”
“Se non lo fai, ne moriranno cento.” sibilò, “Gettala, maledizione, o vuoi che lo faccia io?” minacciò stendendo una mano verso il ragazzo che rabbrividì. Era chiaro che il mago avrebbe fatto precipitare anche lui nel cratere assieme alla fiala. Ranuccio guardò in alto, poco più in là anche Guglielmo si era sporto dal parapetto facendogli cenno di obbedire.
Le dita del giovane tremavano, e dovette fare forza su se stesso per costringersi ad aprirle per lasciar scivolare l’ampolla. Ci volle un tempo interminabile prima che il piccolo contenitore di vetro giungesse a toccare il suolo e, mentre la fiala cadeva, il ragazzo si chiese quale dei suoi amici avesse appena condannato. Sentì la forza abbandonare le sue gambe e mancò poco che anche lui scivolasse assieme al liquido mortale che aveva appena gettato. Poi ci fu un rumore sordo, come un tuono, e l’intera parete del cratere fu scossa e parve sul punto di frantumarsi.
I tre uomini sul ponte trattennero il fiato. Per un attimo l’aria intorno a loro divenne pesante, sembrava stesse per schiacciarli.
Ranuccio si portò istintivamente le mani alle orecchie. Il ponte vibrò; massi iniziarono a staccarsi dal costone roccioso e, con un frastuono assordante, andarono a chiudere l’ingresso della grotta.
Una nuvola di polvere li investì nascondendoli agli occhi degli inseguitori. Guglielmo ne approfittò e prese a correre più veloce che poté, mentre Ranuccio si accucciò nel suo nascondiglio sotto il ponte coprendosi il volto per non soffocare nel pulviscolo.
Amauròs chiuse gli occhi e rimase in attesa, come in trance.
Man mano che la nuvola di detriti si diradava gli uomini in armatura apparivano sempre più nitidi e il loro passo accelerava. Si riparavano gli occhi con le mani, finché la visuale fu di nuovo libera e una voce diede l’ordine di catturare i ribelli, immediatamente come mossi da un'unica volontà si lanciarono all’inseguimento.
Il mago allora si voltò e andò loro incontro. Ranuccio, riemergendo dalla stoffa della sua tunica, nel vederlo camminare speditamente verso i soldati, sentì montare la rabbia. Lo seguì con lo sguardo e quando quello sparì nascosto dal parapetto, lui si puntellò sui piedi sollevandosi abbastanza per poterlo vedere mentre si fermava a pochi passi da loro. Tuttavia quello che accadde dopo lo lasciò senza fiato: gli uomini che continuavano ad avanzare verso di lui cominciarono a barcollare, qualcuno si appoggiò alla balaustra, come colto da vertigini, altri caddero in ginocchio davanti al mago o, addirittura, si stesero in terra privi di forze. Nonostante non ci fossero figli del sole tra le guardie della città di Lapidia, la magia nel loro sangue era così debole che non avevano nessuna possibilità di contrastare un mago come Amauròs. Per molti di loro l’esercito era l’unica alternativa all’unirsi agli schiavi nelle miniere.
Le labbra di Ranuccio si allargarono in un sorriso soddisfatto quanto liberatorio. Amauròs era dalla loro parte e questo era sufficiente a tranquillizzarlo, se non addirittura a renderlo spavaldo. Per un istante fu sul punto di uscire dal suo riparo e godersi quella scena da più vicino, ma il riso gli morì in gola quando, con un rumore simile allo schiocco di una frusta, il mago fu scaraventato all’indietro e ricadde malamente sulla pietra.
Ranuccio, d’istinto, si accucciò di nuovo per poi allungare il collo, fin quasi a strangolarsi, nel tentativo di capire cosa fosse accaduto.
Un uomo anziano con i capelli completamente bianchi, ricci e folti, avanzava tra due ali di soldati. Ranuccio lo riconobbe pur non avendolo mai incontrato personalmente: era Gourias, il capo del consiglio dei Discendenti, un mago potente, forse il più potente dell’intera città di Lapidia.
Si avvicinò all’uomo a terra.
“Non volevo credere che ti fossi lasciato trascinare di nuovo in questa follia.” disse con una smorfia di disgusto.”
Amauròs si mosse appena brontolando qualcosa che Ranuccio non riuscì a sentire, poi perse i sensi.
L’altro gli rivolse un sorriso sbilenco.
“Portatelo via.” ordinò ai soldati. “E trovatemi il suo complice.” continuò indicando la fine del ponte nel punto in cui Guglielmo era sparito alla loro vista.
 

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Capitolo 17
*** Cap. 17 Compagni di cella ***


Cap.17

“Ehi, mago… ehi, svegliati!”
La voce di un uomo risuonava nella sua mente. “Svegliati!”
Amauròs si portò le mani alle tempie, aveva l’impressione che il suo cranio stesse per spaccarsi in due. Si accorse di essere sdraiato su un pavimento, appoggiò i gomiti, e riuscì goffamente a mettersi in ginocchio.
Gli ci vollero alcuni istanti per rendersi conto che la voce che sentiva non era un sogno, ma qualcuno lo stava realmente chiamando.
“Per un attimo ho creduto che fossi morto.” continuò la voce.
“Morto? Io non… ma cosa?” biascicò a fatica cercando di identificare il suo interlocutore e, soprattutto, di ricordare come fosse finito su quel pavimento.
Poi lo riconobbe.
“Guglielmo!” la consapevolezza improvvisa gli fece pronunciare il nome del capo dei ribelli con eccessiva meraviglia, tanto che l’altro scoppiò a ridere.
“Chi ti aspettavi di trovare dentro questa cella?” domandò beffardo.
“Mi aspettavo di risvegliarmi nel mio letto.” sbuffò lo stregone che, ormai, aveva ritrovato la lucidità. “A quanto pare non ci hanno messo molto a trovarti, non sei così bravo a nasconderti senza l’aiuto di Freda.”
L’altro rispose con un grugnito. “Ranuccio non è qui, e questo è un buon segno.” Prese a camminare avanti e indietro facendo risuonare le catene che evidentemente aveva alle caviglie. Gli occhi di Amauros si mossero seguendo il rumore.
“Il tuo degno compare è rimasto nascosto sotto il ponte mentre ti davi alla fuga.” lo provocò il mago tastandosi la gamba: un anello di ferro cingeva anche le sue caviglie. “Sono comunque tutti condannati, ormai non possono più tornare indietro, e non troveranno mai la Soglia da soli.” continuò meditabondo.
“Freda li raggiungerà nel luogo dell'appuntamento. Troverà il modo di aiutarli, ne sono certo.” disse Guglielmo, con così poca convinzione che Amauròs preferì non infierire, fissò il vuoto in silenzio per diversi secondi finché l’altro prese a strattonare nuovamente la catena. “Maledizione!” sbottò il capo dei ribelli. “Non c’è qualcosa che tu possa fare per tirarci fuori di qui?”
Amauròs sorrise. “Qualcosa come buttar giù la porta e rendere inoffensive le guardie?”
“Sì, è esattamente quello che intendevo.”
“Potrei farlo se questa non fosse una prigione costruita per quelli come me. Fuori dalla porta ci saranno decine di amuleti che inibiscono la magia. I miei poteri qui sono deboli, sono inutili almeno quanto i tuoi muscoli per farci uscire.”
“Sai, mi dispiace.” Guglielmo decise di cambiare argomento. “Tu non dovresti esser qui.”
“Su questo ti do ragione!” Confermò sarcastico il mago, mentre cercava una posizione comoda sul duro pavimento di pietra. “E’ la consapevolezza di stare per morire che risveglia i tuoi sensi di colpa?”
“Volevo solo scusarmi per averti coinvolto, io…”
“Tu non mi avresti coinvolto se io non te lo avessi permesso.” Il suo volto divenne duro come la roccia sulla quale era seduto. “Ho un conto in sospeso con quella maledetta soglia, da molti anni. Non sono stati certo i vostri sciocchi ricatti a convincermi.”
“Pensavo ci tenessi al tuo servo.”
“Sapevo esattamente dove si trovava Diego in questi giorni. Credi che, se avessi voluto liberarlo, mi sarei lasciato fermare da un paio di minatori?”
“Minatori? Hai dimenticato Freda?”
Il mago arricciò le labbra. “Ho un conto in sospeso anche con lei.” rispose con un tono raggelante che però non scoraggiò l’altro.
Era chiaro che Guglielmo aveva una gran voglia di fare conversazione infatti, dopo pochi minuti di silenzio, tornò a rivolgersi al suo compagno di cella.
“Cos’è successo fra te e Freda?” domandò con semplicità.
Amauròs chinò il capo e non rispose, ma Guglielmo continuò: “Dev’essere qualcosa accaduto prima che io nascessi, non mi sembra che Freda ti abbia mai ostacolato in alcun modo da che io riesca a ricordare. Lei ha sempre voluto solo il bene degli schiavi.
“Cosa ne sai tu di quella strega?” sputò il mago con disgusto.
Guglielmo si lasciò cadere seduto.
“Già, cosa ne so io?” sospirò.
Restò in silenzio per una buona mezzora, poi si alzò con uno scatto nervoso, camminò finché i ferri che gli imprigionavano le caviglie lo bloccarono e li strattonò con rabbia; tornò indietro ripercorrendo più volte il tratto di pavimento che la catena gli consentiva.
Amauròs tese l’orecchio: Guglielmo ringhiava e sbuffava come un carillo in gabbia, e lui non aveva bisogno di vederlo per sapere quanti passi avrebbe fatto prima di sbottare in una nuova imprecazione.
Arricciò le labbra e si accinse a regalargli uno dei suoi commenti più velenosi, ma si bloccò: dato che Guglielmo non sarebbe uscito vivo da quella prigione, probabilmente la rabbia era preferibile alla disperazione. Cosa avrebbe dovuto fare? Prendere a calci una porta e strattonare una catena era tutto ciò che restava a quell’uomo. La sua gente era dispersa in oscure gallerie senza possibilità di tornare indietro e lui, che aveva dedicato la vita a pianificare quel viaggio, ora sarebbe morto senza neppure aver avuto la possibilità di cominciarlo.
“Cosa pensi sia successo?” chiese, infine, con un tono più amabile, interrompendo l’andirivieni furioso dell’altro.
“Che razza di domanda è questa?” sbottò quello, stizzito. “C’eri anche tu, i soldati sono arrivati e i nostri piani sono andati in malora.”
Lo stregone gli dedicò un sorriso di commiserazione.
“Questo lo so, ma non ti sei chiesto come hanno fatto i soldati a sapere esattamente dove trovarci e quando?”
Per tutta risposta Guglielmo scaricò un pugno contro il muro. Il rumore secco delle nocche sulla pietra fece sussultare il mago; le sue labbra si tesero e gli occhi si strinsero con forza, quasi provasse dolore egli stesso.
“Romperti una mano non ti servirà a scoprire la verità.” continuo sarcastico.
Ma l’ira di Guglielmo non sembrava placarsi, si stava preparando a scaricare di nuovo la sua frustrazione contro la dura roccia della parete, quando Amauròs protese una mano verso di lui e, con uno sforzo che gli strappò un flebile lamento, riuscì a bloccarlo con la magia, prima che potesse ferirsi di nuovo.
“Smettila di prendertela con il muro, e cerca piuttosto di capire cosa è andato storto.” gli urlò con rabbia.
“Cosa c’è da capire? Ci hanno scoperti, ed ora ci ammazzeranno.” L’uomo era furente, tanto che le parole uscirono dalla sua gola gorgoglianti di saliva. Se Amauròs avesse potuto, lo avrebbe visto schiumare di bile.
Appoggiò una mano alla parete e si mise in piedi. “E’ probabile, sì. Ci ammazzeranno, ma, se fossi in te, mi chiederei chi dovremmo ringraziare per questo.”
Ci fu un lungo silenzio, poi Amauròs continuò: “Sei stato tradito, Guglielmo, fra i tuoi uomini c’è una spia.”
“Nessuno mi ha tradito. Conosco i miei uomini, mi fido di loro come di me stesso.” ribatté con veemenza il capo dei ribelli.
“Allora, forse non dovresti fidarti neppure di te stesso.” lo provocò Amauròs.
Ma Guglielmo si lanciò con ira verso di lui, tendendo la catena fin quasi a slogarsi la caviglia. Il fracasso dei ferri fece sussultare l’altro.
“Forse sei stato tu a richiamare le guardie, forse ti hanno messo qui per un motivo.” sputò la sua accusa con ferocia afferrando il mago per la stoffa della tunica.
“Non sai quello che dici.” la voce di Amauròs, al contrario, restò calma e misurata. Tenne le braccia lungo i fianchi e non tentò di sottrarsi, ma fu Guglielmo che, sbuffando, allentò di colpo la presa. “Nessuno dei miei uomini mi ha tradito.” insisté e poi, di nuovo, sfogò la sua ira contro il muro, stavolta con un calcio.
Amauròs scosse il capo. “D’accordo! Prenditela con il muro, se questo ti fa sentire meglio. Forse riuscirai a sfondarlo con la tua testa dura.”
La testardaggine di Guglielmo era pari al suo coraggio: non avrebbe mai ammesso di aver mal giudicato qualcuno dei suoi. Ma Amauròs immaginò che fosse inutile insistere, a che sarebbe servito se non ad avere qualcun altro da odiare?
Il mago indietreggiò verso la parete e, appoggiandovi la schiena, si lasciò scivolare a terra. Incrociò le braccia e chiuse gli occhi deciso a non proseguire la loro conversazione; Guglielmo invece, riacquistata la calma, gli si avvicinò di nuovo trascinando i ferri che sbatacchiarono sulla pietra.
Si chinò su di lui e riprese ad interrogarlo.
“Sei proprio certo di non poter far niente con i tuoi poteri, oltre che impedirmi di sfondare la parete a forza di pugni?” sibilò.
Amauròs sollevò la testa gettando sull’altro l’ombra dei suoi occhi spenti.
“E’ quello che ho detto.” rispose asciutto.
“Provaci!” insisté.
Amauròs si morse il labbro e prese un profondo respiro. Sì, poteva provare: non aveva nulla da perdere a parte, forse, la vita.
D’improvviso le sue iridi, simili a cristalli neri, si dilatarono nascondendo quasi del tutto il bianco. Nello stesso istante s’udì un rumore cupo, che pareva provenire dal sottosuolo, e la cella tremò; alcune delle pietre squadrate del pavimento si sollevarono, schizzando fuori dalla loro sede. Guglielmo fece un balzo indietro e barcollò fino ad addossarsi alla parete opposta, quasi temesse che il soffitto potesse crollargli addosso, ma l’incantesimo s’interruppe e Amauròs si ritrovò steso sul pavimento, boccheggiante e in un bagno di sudore.
Dopo pochi istanti, o forse di più, non seppe dirlo, sentì la voce di Guglielmo che si era chinato su di lui. Udì le sue parole, ma aveva la mente troppo annebbiata per riuscire a comprenderne il significato. Respirare era, in quel momento, l’unico pensiero che riempiva il suo cervello: perché non c’era più aria in quella cella? Spalancò la bocca, ma i muscoli che sollevavano il suo petto parevano bloccati come il resto del corpo.
“Non re…spiro.” riuscì a mormorare. Sentì il proprio compagno di cella afferrarlo per le braccia e scuoterlo, e udì ancora la sua voce: stava gridando, forse gli stava dicendo qualcosa.
Senza nemmeno rendersene conto, il mago protese il braccio e si aggrappò alla camicia di Guglielmo; le dita si chiusero sulla stoffa, simili ad artigli, torcendola come se volessero estrarne l’ossigeno di cui il mago aveva bisogno. Poi, finalmente, la sua gabbia toracica si allargò e i polmoni succhiarono aria con tanta avidità che l’uomo singhiozzò e tossì. Guglielmo gli passò il braccio dietro la schiena, aiutandolo a mettersi seduto. Tremava e il corpo fradicio sussultava ancora in modo incontrollato, ma il respiro si faceva sempre più regolare.
“Immagino che questa sia una risposta.” mormorò Guglielmo rassegnato.
Amauròs fece una smorfia: purtroppo era così, non sarebbe mai riuscito a contrastare il potere degli amuleti abbastanza a lungo da tentare una fuga.
“Spero che sia stata esauriente, perché non ci riproverò.” sbottò acido.
Eppure per un istante aveva sperato, si era illuso di potercela fare. Aveva provato solo per convincere Guglielmo, ma quando il potere era scaturito da lui come un fiume in piena si era sentito di nuovo forte. Gli amuleti che inibivano la magia davano una sensazione di debolezza ai prigionieri, ma il loro influsso si faceva sentire veramente solo nel momento in cui i maghi tentavano di lanciare un incantesimo; allora la loro reazione era tanto potente quanto lo era la magia evocata. Pur essendone consapevole, aveva voluto tentare. Era riuscito a contrastare gli effetti dei talismani all’inizio, nonostante la spossatezza, il suo potere era ancora grande; poi era arrivato il dolore, improvviso, come se centinaia di spilli gli fossero stati conficcati nella carne. Aveva sentito i muscoli contrarsi e, più si sforzava di mantenere attivo l’incantesimo, più sentiva la sua stessa magia rivoltarsi contro di lui.
Sospirò e si trascinò di nuovo vicino alla parete e vi si appoggiò, quando uno stridio fastidioso l’avvertì che la porticina della loro cella si stava aprendo.
Qualcuno entrò, a giudicare dai passi erano almeno quattro persone, Guglielmo saltò in piedi. Amauròs non si mosse, ma restò in ascolto.
“Avete finito di fare tanto baccano?” domandò una voce rauca.
Le dita del mago si strinsero nervose, ma continuò a restare immobile, mentre il tonfo che seguì gli fece capire che il suo compagno di cella era stato appena sbattuto contro la parete.
“Sta fermo, lurido schiavo!” grugnì ancora la guardia.
Sulle labbra di Amauròs si disegnò un pietoso sorriso, mentre si figurava la scena che i rumori gli suggerivano: Guglielmo continuava a scalciare e a divincolarsi, ritardando solo l’inevitabile. Colpì uno degli uomini che stavano cercando di liberarlo dalla catena, e quello biascicò un paio di imprecazioni incomprensibili. Aveva la voce di un ragazzo ma, dai suoi versi inarticolati, il mago capì che gli avevano tagliato la lingua; un’usanza fin troppo praticata a Lapidia. Questo non gli impedì di ripagare abbondantemente lo schiavo per il colpo appena ricevuto. Guglielmo, ormai fiaccato, si lasciò sfuggire un flebile lamento. Tossì e masticò una maledizione che l’altro gli fece ingoiare con un ennesimo pugno in pieno volto.
Amauròs che, nel frattempo, si era alzato da terra, serrò con forza le palpebre, sforzandosi di rimanere impassibile, mentre il suo compagno di cella, ora libero dalla catena, veniva trascinato via. Il mago aveva sentito l’odio crescere e ribollire come lava dentro di sè, e sapeva che se gli avesse dato libero sfogo, sarebbe sgorgato dai suoi occhi, assieme a una magia tanto potente da opporsi agli amuleti e spazzare via ogni uomo in quella cella compreso lui stesso.
“Lasciatemi! Dove mi state portando?” ringhiò Guglielmo, continuando a puntare i piedi. “No! Lasciatemi!” ma la sua voce si fece sempre più lontana così come lo scalpiccio dei sandali sul lastricato.
Una delle quattro guardie, rimasta ancora nella cella scoppiò in una risata sguaiata,
“Questa non ti servirà.” disse.
Stavolta era rivolto a lui, e dal rumore stridente che seguì quelle parole, Amauròs capì che stava sfilando qualcosa, di certo una torcia, dal sostegno di ferro fissato alla parete.
Poi la porta cigolò di nuovo per chiudersi con un frastuono stridente, lasciandolo solo nell’oscurità.
 

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Capitolo 18
*** Cap. 18 Un tragico inizio ***


Cap. 18
Ci volle un po’ perché la polvere del crollo cominciasse a diradarsi; l’aria dentro la grotta ne era satura. Kore era sdraiata su un fianco con il naso affogato nel sacco dei viveri per riuscire a respirare. Nel momento in cui la boccetta di vetro, lasciata cadere da Ranuccio, aveva toccato il suolo, tutta la cava era stata scossa come da uno strano terremoto. Non c’era stata un’esplosione, bensì, per un attimo, le pareti di pietra erano sembrate vive: le rocce si erano dilatate, formando un’onda che aveva percorso l’intera volta penetrando fin nei più profondi cunicoli; poi giganteschi massi si erano staccati dalla parete esterna accumulandosi davanti all’ingresso. Kore, e come lei tutte le persone all’interno della caverna, per un istante erano rimaste immobili, pietrificate dal terrore, con gli occhi sgranati a fissare l’incredibile prodigio.
Qualcuno aveva gridato: “No, no, troppo presto!” e poi ancora, “Via, scappate!”
Una nuvola di polvere si era levata dal punto in cui i massi si stavano accumulando, gonfiandosi e vorticando, li aveva raggiunti gettandoli a terra violentemente e avvolgendoli nella sua ombra.
Quando il rombo assordante dei massi che continuavano a piovere dal soffitto cessò, Kore sollevò il capo e provò ad aprire gli occhi; li sentiva pesanti a causa della sabbia sul viso. Intorno a lei ora c’era solo silenzio e oscurità. Gli schiavi, nel momento in cui lo spostamento d’aria li aveva travolti, avevano lasciato cadere le proprie lucerne; non tutte si erano spente, ma il debole chiarore delle poche rimaste intatte non riusciva a penetrare il velo opaco e soffocante del pulviscolo. Tutto ciò che quella fioca luce permetteva di vedere erano delle sagome più scure sul suolo roccioso. La ragazza si sentì gelare: erano forse tutti morti? Per un istante, che durò un’eternità, l’idea di trovarsi sepolta in compagnia di centinaia di cadaveri le fece maledire il fatto di non essere morta con loro, ma poi un debole brusio risvegliò nel suo cuore la speranza.
Le ombre nere presero a sollevarsi, l’oscurità e la polvere le rendevano simili a spettri, e Kore strizzò le palpebre sforzandosi di distinguerle.
Si voltò. Alla sua destra riconobbe Marietta. Anche lei si era riparata alla meglio dai sassi, che erano schizzati in ogni direzione come schegge impazzite, usando i sacchi di viveri come scudi. Si mise in ginocchio e posò una mano sulla spalla di Kore.
“Stai bene?” le domandò.
Kore riuscì solo ad annuire: le parole erano bloccate in gola dallo spavento.
Poi Marietta si alzò come avevano fatto anche gli altri. Barcollanti e incerti tutti si guardarono attorno cercando parenti e amici.
Kore fece lo stesso, guardò attraverso il pulviscolo che si stava diradando, e sul quale il riflesso delle lucerne che gli uomini avevano cominciato a raccogliere formavano bizzarri disegni: sottili raggi luminosi e altrettanti fasci d’ombra, come lance di un esercito di spiriti, si intrecciavano in una danza frenetica.

La giovane tentò di individuare almeno quelli che conosceva. Riconobbe Lucia a poca distanza da lei e poi anche Silas e i ragazzi: erano illesi e si scambiavano carezze e abbracci. Le labbra di Kore si piegarono in un sorriso malinconico, che sparì, nel momento in cui notò Marietta avvicinarsi ad un gruppetto di persone piuttosto agitate.
Continuavano a voltarsi cercando qualcuno; Kore percepì un’ansia crescente nei gesti e nelle voci, anche se non riusciva a capire cosa stessero dicendo; poi il braccio di uno di loro si levò ad indicare quello che, fino a pochi istanti prima, era l’ingresso della caverna. Lo sguardo di Kore lo seguì e un brivido le percorse la schiena: il ponte che avevano appena superato non esisteva più. Un dubbio si insinuò nella sua mente e lo stomaco fu stretto da una morsa dolorosa: c’era ancora qualcuno lì sopra nel momento in cui si era scatenato l’inferno? Era così felice di aver superato quell’orrendo passaggio che non si era guardata alla spalle; ricordava solo che dietro Marietta c’erano altri ad attendere il loro turno di attraversare, ma se avessero avuto il tempo di passare, non seppe dirlo. Di certo non aveva superato il ponte il ragazzo che avrebbe dovuto fare il segnale a Ranuccio; lui sarebbe dovuto entrare per ultimo e, probabilmente, era rimasto addirittura all’esterno della caverna. Chi altri sarebbe mancato all'appello?
Guardò il gruppetto che ora si era affacciato sul burrone e decise di fare altrettanto; si sporse, ma era troppo buio per riuscire a vedere qualcosa. Un uomo si fece passare una delle lucerne e la gettò nello strapiombo. La sua scia luminosa riverberò tra le pareti solo per pochi istanti, prima che la lampada andasse a spegnersi contro la roccia del fondo con un rumore di vetri infranti, ma furono sufficienti per individuare una persona impigliata alle catene che sostenevano il ponte sospeso. Era proprio al centro della voragine ad almeno una decina di metri sotto di loro. Quando vide la luce scendere nella grotta, prese a dimenarsi come un pesce nella rete, e il tintinnare delle catene attirò anche gli altri che fino a quel momento non si erano accorti di ciò che era successo. Si accalcarono tutti sul ciglio del baratro, qualcuno urlò, altri piangevano, poi si sentì invocare un nome: Silas.

Il giovane mago si fece largo tra la folla e, rendendosi conto dell’accaduto, iniziò a dare istruzioni a coloro che lo attorniavano “Presto, procuratevi una corda…” Poi il suo sguardo individuò altri uomini che stavano tentando di avvicinarsi scansando, in maniera un po’ brusca, tutti quelli che intralciavano loro il passaggio.
Silas fece loro cenno di affrettarsi. “Voi, datemi una mano, dobbiamo spezzare quella catena.”
Anche Kore fu costretta ad arretrare di qualche passo: un ragazzo robusto, con un’intera collezione di amuleti appesi al collo, la spinse con una manata sul petto. Aveva i capelli biondi e, come Silas, aveva la carnagione del colore del latte.
Erano tutti Discendenti, una decina. Probabilmente giovani idealisti che, sfidando le leggi del loro mondo, avevano deciso di unirsi ai ribelli in quel viaggio. Tra loro c’era anche una ragazza, piccola di statura, i capelli lunghissimi e neri, che a differenza degli altri non aveva rinunciato ad indossare la tunica bianca simbolo della sua casta.
Si posizionarono tutti sul ciglio del burrone con le braccia tese in avanti. Il mormorio che aveva accompagnato quei momenti di concitazione cessò di colpo. Un uomo calvo si avvicinò al ciglio del burrone e, con gesti rapidi, calò una lampada nell'oscurità per aiutare i Discendenti. Kore riconobbe quell'uomo come Rufo, il minatore che aveva importunato Fabian sono qualche giorno prima. Seguì la lampada scendere ed illuminare il malcapitato appeso a testa in giù; Kore sgranò gli occhi e si portò istintivamente le mani alla bocca: era Bertone.
Un altro uomo, alto e con i capelli lunghi raccolti in una coda si avvicinò con una fune in mano.
“Afferra questa e legati!” gridò a Bertone mentre dondolava il braccio per prendere lo slancio.
Tentò più volte, alla fine, l’altro riuscì ad afferrare un capo della corda e difficoltosamente riuscì a legarsela intorno alla vita.
Fu allora che uno strano sibilo si levò dal gruppo di maghi schierati sul bordo del precipizio, mentre, tutti insieme, sussurravano il loro sortilegio. Kore li fissò con curiosità, e poi guardò Bertone, ma sembrava che non stesse accadendo niente. Il corpulento uomo continuava a dimenarsi e a lamentarsi. Era ferito, le catene lo avvolgevano impedendogli di cadere, ma ad ogni movimento si legavano con più forza su di lui. Gli stringevano le gambe fino a fermargli la circolazione e si attorcigliavano sul ventre grasso che pareva ancora più gonfio nelle parti che fuoriuscivano dall’intreccio di metallo che lo imprigionava.
Poi d’improvviso uno degli anelli della catena cedette e, con un urlo, Bertone precipitò ancora più in basso.
“No, no, che diavolo state facendo?” continuò a gridare con tutto i fiato che aveva.
Ma un altro anello cedette e lui cadde ancora, dando un doloroso strattone alle catene che lo sostenevano.
Urlò e urlò, tanto che Kore si portò le mani alle orecchie per non sentire, ma le fu chiaro che quello era l’unico modo per liberarlo. I maghi stavano facendo qualcosa al metallo che diventava sempre più fragile. Le catene si stavano spezzando sotto il peso di Bertone e, presto, l’unico suo sostegno sarebbe stata la corda che aveva legato alla vita.
Quando rimase una sola catena da rompere, gli uomini che reggevano l’altro capo della corda tirarono con forza e Bertone si ritrovò ad un palmo dalla parete a strapiombo ma molto sotto di loro. L’ultimo anello della catena, che ancora lo trascinava verso il centro opponendosi agli sforzi dei minatori, cedette accompagnato da grida di terrore; Bertone colpì violentemente la roccia e lo strattone fece fare un balzo in avanti agli uomini che trattenevano la fune. Anche Kore sussultò, il cuore le saltò in gola, e lei riprese a respirare solo quando quelli cominciarono ad issare Bertone incitandosi a vicenda.
Appena l’uomo fu abbastanza vicino al ciglio del burrone, altri si precipitarono ad afferrarlo per le braccia traendolo finalmente in salvo.
Il mastodontico cuoco tremava come un bambino e continuava a lamentarsi. Kore si sollevo sulla punta dei piedi per riuscire a vederlo da dietro il muro umano che lo circondava. Era steso in terra, la catena gli aveva lacerato la carne dei polpacci che sanguinavano copiosamente, ma le ferite non sembravano gravi.
Marietta gli si avvicinò e lui prese a borbottare parole senza senso intercalate da singhiozzi.
“Chi altro c’era sul ponte? Chi c’era dietro di te?” gli domandò. La sua voce tremava, forse temeva una risposta. Bertone aggiunse ai singhiozzi anche dei movimenti rapidi del capo, come se volesse scuotere via un brutto pensiero, o magari un ricordo.
Alla fine un nome uscì dalle sue labbra, un nome appena sussurrato, che però percorse l’intera grotta come una ventata gelida: Ivetta.
Un brusio si levò dal gruppo di minatori che si fissarono l’un l’altro sbigottiti, poi un unico pensiero si impadronì delle loro menti e gli sguardi di tutti furono richiamati verso il bambino che fino a quel momento nessuno aveva notato: Giona era in piedi, con le labbra serrate, le braccia lungo i fianchi e i pugni chiusi. Era stato li per tutto il tempo in silenzio, mentre i minatori si affaccendavano a salvare Bertone, forse chiedendosi perché tra loro non ci fosse anche la sua mamma sempre in prima fila quando c’era bisogno di aiuto, ma ora quel nome pronunciato con un filo di voce aveva risposto nel modo peggiore alla sua domanda.
Ora che gli occhi di tutti erano puntati su di lui, il piccolo Giona appariva come un gigante al centro della grotta. L’espressione assente, il respiro affannoso, i capelli scuri appiccicati al visino sudato e sporco. Sembrava impossibile che, solo pochi istanti prima, nessuno l’avesse visto.
Per un tempo interminabile rimasero a fissarlo, e i loro sguardi erano colmi di pietà, di incertezza, di dolore. I grandi occhi verdi del bambino erano resi lucidi e brillanti dalle lacrime che li facevano risaltare ancora di più sulla pelle coperta di polvere. In quegli occhi gli schiavi fuggiaschi riconobbero il loro stesso sgomento. La loro gioia si era spenta nel baratro che aveva risucchiato Ivetta, ed ora restava solo l’amara consapevolezza dei nuovi e terribili pericoli che avrebbero dovuto affrontare in quel viaggio cominciato nel peggiore dei modi.
 

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Capitolo 19
*** Cap. 19 Il ponte ***


Cap. 19

Ormai era aggrappato a quel maledetto ponte da ore, sospeso a 800 piedi d’altezza.
Dopo che l’acqua di Nun aveva fatto crollare la grotta, il cavalcavia si era riempito di guardie e curiosi. Dalla sua posizione Ranuccio non riusciva a vedere niente, poteva solo sentire il chiacchiericcio agitato dei soldati e lo scalpiccìo dei loro sandali sulla strada sopra di lui. Per vedere qualcosa avrebbe dovuto sporgersi dal parapetto, ma era rischioso. Aveva già visto a sufficienza: aveva visto Amauròs cadere a terra colpito dalla magia di Gounias, l’aveva visto mentre veniva trascinato via, ma non era riuscito a capire se fosse vivo o morto.
Poco dopo altre guardie avevano attraversato il ponte conducendo Guglielmo in catene, le aveva seguite con lo sguardo, spiando da una fessura della balaustra.
Per un attimo aveva creduto che il suo amico lo avesse abbandonato, ma il suo tentativo di fuga non aveva possibilità di successo, era solo un modo per allontanare i soldati dal ponte e indurli a credere che non ci fosse nessun altro. Dopotutto il capo dei ribelli doveva aver capito che Amauròs non li avrebbe traditi, e infatti nessuno si era ancora accorto del ragazzo nascosto sotto il ponte e ora lui non poteva far altro che attendere, immobile e silenzioso.
All’inizio era stato persino facile restare attaccato alla parete come la più insolita delle cariatidi: una minuscola statua di marmo nero incastonata nella gigantesca arcata del ponte, e completamente invisibile in quella superficie frastagliata. Tuttavia, se in quel primo momento era stata la paura ad immobilizzarlo, ora restare in quella posizione cominciava a pesargli. Aveva i muscoli così intorpiditi che non riusciva più a rendersi conto se, a tenerlo inchiodato alla roccia, fosse la forza delle sue braccia o se fosse davvero diventato un tutt’uno con la pietra. Le dita erano infilate in una fessura tanto stretta da bloccargli la circolazione, mentre con le gambe si puntellava spingendosi verso l’alto o, almeno, credeva di farlo: avendo ormai perso la sensibilità non poteva dirlo con certezza. Più volte fu tentato di mollare la presa, non ce la faceva più: voleva solo poter rilassare i muscoli, riuscire a piegare le ginocchia; gli sembrava, in quel momento, la cosa più desiderabile del mondo. Persino cadere nel vuoto, gli parve un’alternativa accettabile a quel supplizio.
Perché il sole ci metteva così tanto a spegnersi? Solo col buio avrebbe potuto arrischiarsi a scavalcare il parapetto, sempre che le guardie avessero smesso il loro andirivieni. La città del sole sembrava risplendere come non mai, irrorando della sua luce verde il paesaggio sotterraneo fino dove si riusciva a vedere. Fu il giorno più lungo della sua vita.
Quando finalmente l’astro artificiale venne occultato, Ranuccio decise che poteva arrischiarsi a tornare in città. Provò a muovere una gamba e il formicolio che sentì lo rincuorò: era ancora in grado di comandare i propri muscoli. Sollevò una mano e si issò fino a raggiungere la cornice della balaustra. Ciò che vide, però, non fu affatto confortante: il ponte era ancora troppo affollato, le guardie di Lapidia avevano smesso di camminare e fare rumore, ma erano ancora lì; alcuni, addossati al parapetto con il capo chino, sonnecchiavano appoggiati a delle lunghe lance. Appoggiate in terra c’erano delle piccole lucerne che illuminavano la strada e i loro volti dal basso, facendoli somigliare a degli spettri. Altri soldati, invece, se ne stavano impettiti nel centro del ponte, con le gambe allargate e le lance incrociate a chiudere il passaggio. Non sarebbe mai potuto passare da lì: attraversare il ponte confondendosi con le centinaia di persone che lo percorrevano con carri e merci era stato facile, ma ora, con decine di guardie a caccia di ribelli, era impossibile tornare in città senza essere visto. L’unica alternativa che gli venne in mente lo fece rabbrividire: attraversare il ponte passando dal fianco esterno.
Ranuccio si morse il labbro e tornò ad infilarsi nella sua nicchia; le mani cercarono la sottile fessura alla quale si era aggrappato per ore, e le gambe ripresero la loro spinta. La sua mente iniziò a valutare ogni possibile conseguenza di quella folle idea, riuscendo però ad enumerare solo una serie di modi diversi di scivolare, perdere la presa e cadere nel vuoto.
Arrivare dall’altra parte usando gli appigli naturali della roccia in realtà non era impossibile, lui lo sapeva perché l’aveva già fatto.
Su entrambi i lati il ponte era costellato di fessure, nicchie, e fori di varie dimensioni; alcuni sufficienti a contenere una persona in piedi, altri piccoli e profondi, potevano essere usati come appoggio. L’immenso cavalcavia non era stato costruito in mattoni o blocchi di pietra bensì la lingua rocciosa che collegava Lapidia al ciglio della voragine era ciò che rimaneva di un antica pianura. La magia dei primi abitanti aveva fatto sprofondare il resto, creando l’enorme cratere dove vivevano gli schiavi, e lasciando intatta la parte centrale e pochi passaggi simili ad arcate gigantesche.
Abbarbicato nella sua nicchia, il ragazzo ripensò a quante volte aveva sfidato gli amici ad attraversare il ponte aggrappati alla sua sponda. Conosceva così bene ogni appiglio, e si era sempre vantato di essere in grado di superarlo ad occhi chiusi, tuttavia non avrebbe mai pensato di dover fare davvero quella traversata senza l’ausilio della vista. Ora che il sole era sparito, davanti a lui c’era solo una indefinita sagoma nera stagliata contro l’alone verde creato dalle lampade sulla strada. Al buio avrebbe dovuto affidarsi unicamente alla propria memoria per trovare gli appigli giusti, sempre che ci fossero ancora! Dall’ultima volta che aveva fatto quello stupido gioco diversi terremoti avevano scosso la città, era possibile che alcune parti del ponte si fossero sgretolate. Non avrebbe potuto saperlo finché non avesse tentato di arrivarci, ma di una cosa era certo: non sarebbe potuto rimanere per sempre in quella posizione, presto la forza lo avrebbe abbandonato e lui sarebbe caduto comunque.
Prese un profondo respiro e riportò alla mente il suo gioco; vide sé stesso, cinque anni prima, mentre, incitato dai suoi compagni, affrontava quella sfida.
Ricordò ogni fessura, ogni insidia di quel percorso, poi allungò la mano e cercò l’appiglio nel punto dove ricordava che fosse. Lo trovò: uno stretto buco, profondo e sdruccioloso. Spazzò via i detriti con le dita finché non sentì, sotto i polpastrelli, che l’incavo era sufficientemente sgombro per una presa sicura. Si abbandonò a quel sostegno, e intanto spostò anche il piede a cercare un appoggio. Doveva esserci uno spuntone in direzione del suo ginocchio, ne era certo, infatti trovò anche quello. Poi spostò la mano verso la rientranza successiva. Toccò la parete, sembrava completamente liscia, ma lui sapeva che doveva esserci un appiglio. Lo cercò poco più in alto, e infatti lo trovò e trovò anche il successivo. Poi individuò “l’orecchio”; anni prima aveva soprannominato così quella piccola protuberanza rocciosa a causa della sua forma insolita. Era così poco sporgente che per riconoscerla aveva dovuto carezzare la parete più volte col palmo aperto. In quel punto sapeva di doversi sostenere solo con la punta delle dita, non c’era spazio per afferrarsi con l’intera mano, ma lo superò senza difficoltà. Superò anche la “Ciotola” e “Dente di drago”, tutti nomi che lui e i suoi amici di arrampicate avevano dato a quelle rocce. Una mano, poi l’altra, poi un piede, finché non giunse dove sapeva che la parete si inclinava pericolosamente.
Fece per andare avanti ma si bloccò. Per superare quel tratto avrebbe dovuto abbandonare il sostegno sotto i propri piedi per procedere solo affidandosi alla forza delle braccia, ma quando fu sul punto di sollevarsi per poi lasciarsi dondolare nel vuoto, non ci riuscì.
Gli doleva ogni singolo muscolo, le braccia gli parevano pesantissime e le dita erano indolenzite; all’idea che la sua vita dovesse dipendere da arti che non sarebbero riusciti nemmeno a sollevare un libro, ebbe paura. E se nel momento in cui si fosse trovato sospeso, le mani avessero ceduto?
Fu colto da un improvviso senso di vertigine. Si accostò maggiormente alla parete, quasi abbracciandola, mentre le lacrime cominciarono a rigargli il volto. Prese a tremare, e fu quasi sul punto di mettersi a gridare perché qualcuno lo tirasse su. Era stanco; tentò ancora di sollevare la mano, ma una sensazione di freddo gli impedì di arrivare all’appiglio sopra la sua testa. Il terrore era simile ad un fiume che prese a scorrergli nelle vene, gli paralizzò il braccio per poi giungere al petto. Sentì artigli di ghiaccio comprimergli il cuore rendendolo pesante come un macigno gelato. Lo sentì schiacciargli lo stomaco e spingerlo in basso, verso il baratro. Non poteva andare avanti, era certo che sarebbe caduto! Poteva vedere se stesso precipitare: uno straccio scuro, sbrindellato, che diventava sempre più piccolo fino a perdersi nello sfondo dell’immensa pianura polverosa.
Poi sentì un urlo agghiacciante, lo riconobbe e capì: non era la sua voce, ma quella di Leones, era lui a cadere nella sua mente, nei suoi ricordi.
Aveva tentato per cinque anni di cancellare quell’immagine, fino ad illudersi di non averla mai vista realmente, ma ora gli sembrava quanto mai vivida e reale come se quegli anni non fossero mai passati.
Lui era lì, più giovane, più avventato. Era con i suoi amici, ragazzi altrettanto incoscienti, e quella era la “roccia maledetta”, così l’aveva soprannominata coi compagni di arrampicate. Era il tratto più difficile di tutta la traversata, una sfida, la ragione stessa del loro gioco; finché non era diventato il punto in cui Leones era caduto. Era sempre stato il migliore, era così veloce nel saltare da una fessura all’altra che sembrava non avere peso; finché perse la presa, sparendo inghiottito dalla polvere che aleggiava sempre sulla cava. Non ne avevano più parlato, nessuno sapeva di quel gioco, nessuno aveva mai saputo quanto fossero stati sconsiderati e nessuno aveva mai capito cosa fosse successo realmente a Leones. Non avevano più fatto quel gioco, dimenticandolo. Fino a quel momento.
Ranuccio sollevò lo sguardo: sopra di lui solo oscurità, come sotto, da entrambe le parti la morte era sicura. Sia che fosse precipitato, sia che lo avessero preso i soldati, per lui non ci sarebbe stato scampo. L’unica scelta che aveva era affrontare quel passaggio. Forse, dopotutto, doveva ringraziare la sua stupidità giovanile. Ora che la posta in gioco era molto più alta, l'aver già fatto quel percorso gli dava almeno una piccola speranza, e una ‘speranza’ era meglio di niente.
Tese di nuovo il braccio, le grida di Leones tornarono a rimbombargli nelle orecchie, impose a se stesso di non ascoltare. Un sottile filo di sudore freddo ruscellò dalla sua fronte scivolando fin sotto al mento. Nel momento in cui le dita toccarono la roccia sopra la sua testa, le urla cessarono. Chiuse gli occhi, comunque inutili, e si abbandonò a quel sostegno lasciandosi dondolare nel baratro. Lui non era Leones, lui non sarebbe caduto, prese a ripetere nella propria mente.
L’amico aveva sbagliato: aveva affrontato quel tratto con troppa superficialità; lui lo sapeva, l’aveva sempre saputo. Ora doveva solo convincersi di poter far meglio. Ci voleva concentrazione, forza e prudenza. Leones non si aspettava di morire, lui sì e non avrebbe commesso l’errore di sottovalutare la pericolosità di quel percorso. Si sollevò per riuscire a tastare la parete con la mano libera, lasciando l’altro braccio a sorreggere tutto il suo peso. Trovò l’appiglio e, di nuovo, poté distribuire lo sforzo su entrambe le braccia. Poi cercò l’appoggio successivo, strinse i denti, e un flebile lamento sfuggì alle sue labbra quando, per l’ennesima volta, dovette sollevarsi con una sola mano. Andò avanti; ancora un braccio, poi l’altro, fin quando la parete tornò perpendicolare, e i piedi trovarono facilmente l’ampia cornice che correva lungo il resto dell’ultimo tratto.
Era fatta. Ranuccio si voltò e percorse quella parte del ponte con la schiena appoggiata alla roccia, fino ad arrivare sotto allo spiazzo che conduceva alle porte della città. Ansimava e i battiti del suo cuore erano diventati un frastuono assordante, ma lui era lì, ben saldo sull’ampia sporgenza, al sicuro. Ora non restava che scavalcare il parapetto e scivolare silenziosamente all’interno delle mura di Lapidia passando dietro gli uomini di guardia. Sgattaiolò davanti il gigantesco portale e sparì attraverso un’apertura laterale.
Una volta all’interno delle mura, si precipitò sui gradini scivolosi; una corsa forsennata, con ancora addosso il terrore che aveva provato sul ponte. Sentiva il bisogno di scendere, voleva arrivare prima possibile in fondo a quelle scale, in basso. Solo l’idea dell’altezza gli faceva girare la testa e sapeva che alla cava si sarebbe sentito meglio. L’immensa pianura, protetta su tutti i lati dal costone roccioso, riempì completamente i suoi pensieri dandogli sicurezza. Tuttavia, quando finalmente la raggiunse, si trovò di fronte una processione di uomini e donne che portavano lampade e picconi: si recavano alla grotta grande per aiutare nei soccorsi. Come un lampo gli tornò in mente ciò che era accaduto: l’ampolla, il crollo. D’improvviso le sue peripezie sul ponte gli sembrarono lontane mentre un nuovo terrore si impossessava di lui. Riprese a correre, superando tutti gli altri, e fermandosi solo davanti alla calca che si era formata all’ingresso della caverna. Minatori, soldati, persino alcuni Discendenti erano li a spostare massi, nel tentativo di trovare qualche superstite. Erano state accese diverse torce e lampade fatte di pietre magiche che diffondevano in tutta la zona l’inquietante luce verde. Il ragazzo fissò l’immensa montagna di detriti. Sapeva di essere stato lui a causarla e, nello stesso tempo, gli sembrava di trovarsi in un incubo. Avrebbe voluto che qualcuno lo svegliasse, ma quelle persone continuavano il loro frenetico andirivieni senza far troppo caso a lui.
Poi una voce superò tutte le altre. Una donna era salita su un carro, gesticolando e urlando, cercava di richiamare l’attenzione di tutti in un punto della grotta; era appena stato individuato qualcuno sepolto sotto i massi. Come un’onda i minatori si spostarono verso quel luogo per prestare aiuto. In quell’istante Ranuccio sentì le proprie gambe perdere ogni forza, come se gli avessero strappato le ossa lasciando solo l’involucro di carne. Si erano afflosciate e lui si era ritrovato seduto in terra. Rimase così, incapace di muoversi per diverso tempo. Le labbra spalancate erano diventate più rigide del cuoio secco, e non aveva più una goccia di saliva in bocca, nemmeno per riuscire ad articolare qualche parola. Avrebbe voluto gridare, unire la sua voce a quella degli uomini intorno a lui, incitare i soccorritori a far presto, ma la sua rimase una richiesta muta. Non riusciva ad urlare, non poteva nemmeno sussurrare, e quando dalla sua gola finalmente uscì un suono debole e raschiante, nessuno lo udì. I minatori si affannavano a scavare con le mani, qualcuno riuscì ad infilarsi nel varco che avevano creato. Ranuccio poteva sentirli mentre si incitavano a vicenda. C’era un corpo, così dicevano le voci che continuavano ad inseguirsi, ma era difficile da recuperare in fondo alla voragine. Un baratro che il ragazzo conosceva bene. Qualcuno poi si calò aggrappato a delle funi, riuscì a liberarlo dai detriti e a legarlo affinché gli altri potessero tirarlo su.
Ranuccio era ancora seduto, come paralizzato, quando il gruppo di minatori gli passò davanti sorreggendo una lettiga. Il corpo era coperto, chiunque fosse sdraiato in quella barella era morto.
Il giovane trovò la forza di aggrapparsi ai calzoni dell’uomo più vicino a lui. Non ricordava nemmeno se lo conoscesse.
“Chi è?” fu tutto quello che riuscì ad articolare.
“Ivetta.” fu la risposta secca dell'uomo; poi questi si allontanò con gli altri, lasciandolo accovacciato sui ciottoli, singhiozzante, e con le mani aggrappate ai capelli.
Una donna giovane poco dopo fu l’unica a notare la sua disperazione, gli posò una mano sulla spalla e si chinò su di lui. L’aveva riconosciuto e lui conosceva lei. Per un certo tempo si era invaghito di quella ragazza. Lucilla, così si chiamava, lo aiutò ad alzarsi.
“Eravate amici.” Disse. “So come ti senti.”
Lui si limitò ad annuire. No. Lei non poteva sapere cosa provava in quel momento, non poteva nemmeno lontanamente immaginare che era stato lui a provocare il crollo. Certo era stato Amauròs ad ordinargli di gettare l’ampolla, ma erano state le sue dita ad aprirsi lasciando scivolare l’acqua mortale su quella gente.
Si appoggiò a lei, ma quando si accorse che la ragazza lo stava accompagnando lontano dalla grotta, si sciolse dal suo abbraccio. Non poteva andar via finché non avesse saputo cosa veramente era accaduto all’interno, se ci fossero stati altri morti.
“No, voglio restare!” disse e lei, dopo avergli dedicato uno sguardo triste, si allontanò.
Rimase lì per il resto della notte e tutto il giorno successivo ma quello di Ivetta fu l’unico corpo recuperato. La voce di una possibile fuga degli schiavi stava cominciando a diffondersi fra i minatori. Qualcosa che i Discendenti e le guardie sapevano già, ma che avrebbero voluto tenere nascosto il più a lungo possibile. In effetti avrebbe fatto loro comodo trovare altri cadaveri per avvalorare la tesi dell’incidente mentre una sola vittima, e così tanti dispersi, alimentavano troppe chiacchiere.
Quando finalmente le ricerche furono interrotte, Ranuccio tornò alla sua casa sulla rupe come tutti gli altri. Aveva bisogno di riposo poiché, il mattino dopo, sarebbe andato a cercare Freda. Lei avrebbe potuto dargli notizie di Guglielmo e Amauròs e, come previsto nel piano iniziale, lo avrebbe aiutato a raggiungere gli altri nel luogo stabilito per l’appuntamento. Si trascinò fino al letto e vi crollò sopra ancora vestito, il volto affondato sul cuscino, il braccio destro ricadeva abbandonato fuori dal materasso.
Si addormentò così, in quella scomoda posizione, finché un rumore lo svegliò di soprassalto. Era così indolenzito che non riusciva a muoversi; rotolò giù dal letto, trascinando con sé il drappo lacero che fungeva da coperta, e lottò per divincolarsi dalla prigione di stoffa. Finalmente riuscì a mettersi in piedi. Strizzò più volte le palpebre, si portò le mani al volto e poi sui capelli, stava persino per prendersi a schiaffi nel tentativo di tornare lucido, ma non fu necessario: una voce lo riportò bruscamente alla realtà.
“Cos’hai fatto?” ruggì.
“Eliano?” farfugliò Ranuccio rivolgendosi al ragazzo in piedi davanti a lui, prima di vedere il pugno dell’altro puntare dritto verso il suo naso; e poi tutto divenne buio.


Mi scuso per i ritardi nell'aggiornare, ammetto che la mancanza di recensioni mi ha un po' smontato l'entusiasmo. Vanno bene anche critiche, ma fatemi sapere se è il caso di andare avanti con la pubblicazione o magari impiegare il mio tempo in altro modo. Ciauuu!

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Capitolo 20
*** Cap. 20 Una visita per il prigioniero ***


Cap. 20
 
Amauròs era seduto in un angolo, per terra, con la schiena appoggiata alla parete; aveva gli occhi chiusi e il capo reclinato.
La cella era immersa nell’oscurità ma, per lui, questo non faceva alcuna differenza. L’odore, quello sì, gli ricordava in ogni momento il luogo in cui si trovava: un olezzo misto di muffa, urina e chissà cos’altro. Ringraziò di non poter vedere cosa c’era su quel pavimento.
Conosceva le prigioni della città di pietra, vi era già stato rinchiuso molti anni prima, ed era stata fra le ultime immagini che i suoi occhi avevano visto. Non avrebbe mai potuto dimenticarle.
Questa volta, però, c’era qualcosa di diverso: c’era silenzio, non si udiva nessun rumore oltre a quello del suo respiro. Ora che anche il suo compagno di cella era stato portato via, quel silenzio assordante cominciava ad essere insopportabile, doloroso.
Tese l’orecchio nella speranza di udire un minimo suono, un rumore di catene, il cigolare di una porta, forse anche le voci dei suoi carcerieri.
Aveva perso la cognizione del tempo, gli sembrava di trovarsi in quella cella da un’eternità,  ma dovevano essere passati al massimo due giorni. Sentiva i morsi della fame, nessuno gli aveva portato del cibo da quando Guglielmo era stato trascinato via. Solo una guardia, poco dopo, era entrata con una ciotola d’acqua, l’aveva posata in terra accanto a lui e, guidandogli  la mano, gliel’aveva fatta toccare perché potesse ritrovarla.
Il mago tese il braccio e la sfiorò con un dito, ben attento a non rovesciarla; l’afferrò e se la portò alle labbra bagnandole appena: chissà per quanto quel goccio d’acqua avrebbe dovuto sostenerlo.
Nel posare la ciotola sul pavimento il rumore del coccio sulle pietre rimbombò nel locale; Amauròs arricciò le labbra compiaciuto mentre ascoltava il suono cupo delle pareti. Intorno a lui c’era qualcosa: un muro, un alto soffitto. 
Precipitato in quel nulla, fatto di tenebra e silenzio, gli sembrava di trovarsi sull’orlo di un abisso e sapere di avere delle mura intorno era quasi consolante. Cercò di figurarsi la cella, basandosi su ciò che ricordava, perché sentiva  il bisogno di aggrapparsi a qualcosa; persino il ricordo di quel luogo era meglio del vuoto assoluto. 
Si rannicchiò maggiormente contro la parete incrociando le braccia sul petto, non per scaldarsi, piuttosto per proteggersi dall’oscurità che non gli era mai sembrata così opprimente.
Si trovò a rimpiangere le grida che avevano accompagnato, nel passato, i suoi mesi di prigionia; la mente tornò a quei giorni lontani, ricostruendo in una realtà immaginaria ma quasi tangibile, suoni e colori di un ambiente angusto. La cella era simile ad  un pozzo con una piccola apertura sul soffitto, chiusa da una grata, e una porticina in ferro su un lato.
Una pietra alla volta la cella prese forma fino ad avvolgerlo nel suo freddo abbraccio fatto di ricordi ed ecco che, improvvise come uccelli rapaci che si gettano sulla preda, giunsero anche le urla. Amauròs sussultò come se potesse udirle davvero, nella cella accanto, o forse in quella più lontana di quella prigione così simile ad un alveare. Grida di donne, uomini, persino alcuni bambini, tutti quelli in età da comprendere e ricordare ciò che non doveva essere ricordato.
Molti erano stati arrestati con lui quel maledetto giorno. I figli del sole erano stati uccisi entro le prime settimane; agli altri, ai privilegiati, era stata riservata una sorte diversa. Era la legge del mondo sotterraneo: nessun Discendente poteva ucciderne un altro, un fratello, ma nessuna legge vietava loro di lasciarlo morire; perciò i prigionieri erano stati semplicemente abbandonati e dimenticati nelle loro celle. Tutti, tranne lui. Il suo potere era troppo prezioso perché andasse sprecato, così come il suo sangue puro.
Nelle sue vene scorreva la magia degli antichi sacerdoti egizi e la sua sete di sapere lo aveva portato, nonostante la giovane età, ad avere conoscenze che persino i più anziani gli invidiavano.
A lui era stato concesso di vivere o, piuttosto, la vita gli era stata imposta: una vita fatta di tenebre e rimorsi.
Gli tornò alla mente il giorno in cui vennero a prelevarlo dalla sua cella, ricordò le grida di quelli che erano rimasti, grida disperate di uomini che sapevano di essere condannati. Urlavano contro il consiglio e contro di lui: l’uomo che li aveva trascinati in quella folle impresa.
Anche lui aveva gridato, li aveva supplicati di lasciarlo morire perché voleva raggiungere la donna che amava; voleva pagare il suo errore, ma fu trascinato di peso fino alla sala del consiglio.
Due uomini avevano spalancato le pesanti porte di bronzo e lo avevano  spinto fino al centro della grande stanza circolare.
Un brivido gli percorse la schiena ricordando la voce di suo padre. Dopo tutti quegli anni le sue parole cariche di rabbia, di delusione e di dolore continuavano a ferirlo come lame affilate. Nella voce di suo padre albergava tutta la straziante pena di chi ha perso il suo bene più prezioso: il figlio primogenito.
Il padre aveva pronunciato la condanna per il proprio figlio: il traditore della sua gente. Sarebbe stato il sole, che tanto agognava, la punizione più adatta a lui; ma non l’astro che illuminava il mondo della luce bensì il loro sole artificiale: una sfera di fuoco freddo così potente da alimentare la vita nel mondo sotterraneo, e tanto luminosa da accecare chiunque fosse stato così sciocco da avvicinarsi troppo.
Suo padre l’aveva guardato negli occhi mentre, gelido, gli comunicava la decisione del consiglio, pronunciando i nomi dei suoi giudici, uno ad uno: Freda, Gounias, Sofar, Meilos, Leila…
Giudici che non avevano avuto il coraggio di presenziare alla lettura della loro sentenza. Amauròs avrebbe avuto nessun volto da odiare, solo nomi che, ogni volta, nei ricordi, prendevano una diversa fisionomia: Chilari, Rhazes… per lui erano solo un freddo elenco di nomi.
In quegli anni non conosceva nessuno dei membri del consiglio, tranne suo padre, ed era solo il viso dell’anziano genitore che vedeva ogni volta che la mente ritornava a quel giorno, le sue iridi scure simili a dardi acuminati che trafiggevano le sue erano tutto ciò che ricordava.
Aveva provato quasi un dolore fisico, mentre il padre lo fissava come se volesse strappare ai suoi occhi quell’ultimo sguardo, incidendolo per sempre nella memoria.
Poi gli aveva semplicemente voltato le spalle uscendo dalla sala.
Amauròs non lo vide mai più.
 
Un improvviso suono, lungo e stridente, lo distolse dai suoi pensieri: qualcuno stava aprendo la porticina in ferro della cella. Il mago non si voltò, ma restò ad ascoltare: erano passi leggeri, forse di una donna, ma chiunque fosse si stava avvicinando.
Attese che lo sconosciuto visitatore, che ora si trovava proprio di fronte a lui, parlasse per primo.
“Ecco, il grande Anedjib.” disse con un tono beffardo una voce decisamente femminile, che l’altro non tardò a riconoscere.
 “Anedjib è morto in questa cella ottant’anni fa.” disse cupo. “Tu lo conoscevi. Dovresti saperlo, Leda.”
“Un nome diverso non farà di te un uomo diverso, ma se preferisci ti chiamerò Amauròs. In ogni caso non sono venuta qui per dissertare su un nome, ma perché tu mi dica ciò che sai.”
Si avvicinò e si chinò su di lui.
“Dove sono gli schiavi, Amauròs?”
Le labbra del mago si piegarono in un sorriso storto.
“Sepolti sotto una montagna.” rispose sferzante.
Leda allora allungò il braccio sino a sfiorare  le guance di lui.
“Questo e quello che volevate farci credere tu e il tuo amico Guglielmo.” disse con voce di seta.
Amauròs scrollò il capo sottraendolo alle carezze di lei.
“Guglielmo non è amico mio.” affermò con disprezzo.
Leda allora si allontanò di qualche passo volgendogli le spalle.
“Se Guglielmo non è un tuo amico allora non ti dispiacerà sapere che è morto.” fece una pausa quasi a voler assaporare la reazione dell’altro; tuttavia Amauròs non si mosse, pareva non aver udito affatto le sue parole.
Leda, delusa dall’atteggiamento disinteressato del mago, continuò: “E’ stato giustiziato tre ore fa.” Pronunciò quelle parole come se volesse sputargli in faccia la notizia, ma non ottenne alcun risultato: l’altro sembrava una statua di marmo, sordo e immobile, lo sguardo perso nell’oscurità, lontano. Amauròs sapeva che la donna lo stava mettendo alla prova, e si obbligò a non reagire, anche se non gli fu difficile estraniarsi; d’improvviso la sua mente si era riempita di domande. Le parole che aveva appena pronunciato gli risuonarono nella testa, martellanti e dolorose. ‘Guglielmo non è amico mio’.
Cos’era Guglielmo per lui? Gli erano davvero indifferenti gli schiavi? Il loro sogno una volta era stato il suo, ma quel tempo ora sembrava così lontano. Forse nel profondo del suo cuore si era augurato che Guglielmo riuscisse là dove lui aveva fallito? Sì, era così. Guglielmo avrebbe dovuto riscattarlo, il nuovo Anedjib non avrebbe sbagliato, ma la speranza di trovare la Soglia si era infranta miseramente per la seconda volta, ed ora lui non sapeva cosa provare.
Era deluso, no, peggio, non era delusione quella che sentiva! Era rabbia: odio verso l’uomo che aveva risvegliato il suo desiderio di ribellione, che lo aveva costretto e sperare, a lottare per qualcosa in cui una volta aveva creduto e per la quale avrebbe dato la vita. Guglielmo lo aveva trascinato nella sua folle ricerca, solo per precipitarlo di nuovo in una cella come ottant’anni prima. Odiava il capo dei ribelli perché aveva fallito proprio come Anedjib. Odiava  Guglielmo perché era morto. Per un attimo le sue labbra si tesero, ma Amauròs frenò quel riso insensato prima che potesse manifestarsi.
Leda intanto aveva iniziato a camminare nervosamente avanti e indietro.
“Guglielmo era uno sciocco, ma si è portato il suo segreto nella tomba. Nemmeno i poteri di Freda sono serviti a fargli rivelare la verità.”
Un muscolo sulla fronte dello stregone fremette in modo impercettibile: nessuno era mai stato capace di opporsi ai poteri di Freda, nessuno che non fosse un Discendente. Era chiaro che la vecchia aveva mentito per proteggere gli schiavi. Forse non tutto era perduto.
“Se Freda non ha scoperto nulla, forse è perché non c’era nulla da scoprire.” disse mentre le labbra si increspavano leggermente in un sorriso cattivo. Sorriso che, però, fu bloccato sul nascere da un colpo improvviso sul volto che gli fece sbattere la nuca contro la parete;  e il sapore ferroso del sangue gli riempì la bocca.
Leda era di nuovo di fronte a lui.
“Hanno trovato un solo cadavere scavando nelle gallerie. Io lo trovo strano, tu no?” soffiò con rabbia. Uno solo? Un senso di sollievo lo pervase, dovevano essere tutti abbastanza lontani dall’ingresso nel momento del crollo, ma, solo un istante dopo, il sollievo mutò in senso di colpa.
Uno solo era morto, ma uno era più di quanto potesse ancora sopportare. Sapeva che sarebbe potuto accadere nel momento in cui aveva ordinato a Ranuccio di gettare la fiala; lo sapeva e aveva scelto di correre il rischio. Si chiese se mai avrebbe potuto dare un nome alla sua ennesima vittima. Un sospiro sfuggì incontrollato, poi il suo volto tornò duro e la voce ferma.
“Sono morti, Leda.” ribadì. “Ci sono un’infinità di cunicoli in quelle miniere, non li troverete mai.” chinò il capo aspettandosi di ricevere un altro schiaffo che però non arrivò.
Seguì un lungo silenzio. Infine la donna parlò di nuovo, la voce insolitamente calma.
“Bene, chiunque tu stia difendendo, presto lo dimenticherai.”
L’uomo s’irrigidì.
“Sì, Anedjib,” continuò cattiva. “Non morirai nemmeno questa volta, ma il consiglio ha deciso che farà a meno dei tuoi servigi. Hanno constatato che i tuoi poteri sono più pericolosi di quanto siano utili.” continuò con durezza. “Domattina sarai condotto alla grotta del sonno. Dimenticherai chi sei, dimenticherai i tuoi poteri e trascorrerai il resto della tua vita come un comune schiavo.”
L’uomo poggiò la mano contro la parete e si alzò da terra. Fissò il vuoto davanti a sé e sorrise.
“Dunque il consiglio non è affatto interessato agli schiavi.” fece qualche passo verso l’altra, finché la catena che gli imprigionava la caviglia lo fermò.
“Io domani dimenticherò ogni cosa.” gli angoli delle sue labbra si piegarono maggiormente.  “Quindi, ammesso che esista una verità, domani sarà cancellata.”
Nel silenzio dell’altra, il mago poté percepire una rabbia crescente.
“Ma forse sei tu che non vuoi credere all’incidente delle cave.” proseguì in tono sarcastico. “Perché non vuoi rassegnarti? Sono morti, Leda, morti e sepolti.” la provocò.
“No!” l’urlo rabbioso di lei rimbombò nella cella. Lo stregone sollevò d’istinto le braccia, quando Leda, gettandosi su di lui, lo colpì più volte con qualcosa di pesante; Amauròs si accasciò alla parete e udì, distintamente il rumore di un sasso colpire il pavimento. Subito dopo Leda gridò:
“Maledetto!” e la sua voce si caricò di disperazione.
Amauròs cadde in ginocchio, un rivolo di sangue gli rigò uno zigomo. Cercò di ripararsi alla meglio finché la donna smise di colpirlo. Allora si alzò gettandosi su di lei e, afferrandola per la tunica, la spinse contro la parete e le bloccò le mani affinché non potesse ferirlo di nuovo.
“Perché? Perché ci tieni tanto a conoscere la sorte di quelle persone, Leda? Cosa hai a che fare tu con loro?” ruggì.
La donna tentò di divincolarsi, ma alla fine tutto il suo autocontrollo venne meno e lei esplose in un pianto dirotto.
“Mio figlio, Silas era con loro. Amauròs, ti prego, devo sapere cosa gli è accaduto. Non li tradirò te lo giuro, ma devo sapere se mio figlio è ancora vivo.”
Lo stregone si bloccò e fece un passo indietro tenendo sempre l’altra per i polsi; sul suo viso comparve un’espressione mista di stupore e pietà.
Cosa doveva fare? Se solo avesse potuto fidarsi! Lui non conosceva i ribelli personalmente. Forse davvero il figlio di Leda era fra loro, ma se lei avesse mentito solo per costringerlo a parlare? Se fosse stata solo una trappola ben architettata?
“Sono morti.” disse infine con un tono raggelante.
“No, no, non è vero. Tu menti, maledetto!” gridò tentando invano di liberare i polsi dalla stretta di lui.
“Rassegnati, non…”
Una mano rude lo afferrò per le spalle e, allontanatolo dalla donna, lo gettò al suolo.
“Stai bene, mia signora?” chiese con voce rauca il carceriere che era appena entrato nella cella attirato dalle urla di lei.
Amauròs, che non si era accorto della presenza della guardia fino a quel momento, sollevò il capo e si mise in ascolto. Leda non parlò, poteva udire solo i suoi singhiozzi soffocati, tuttavia l’altro non tardò a farsi sentire: con un calcio ben assestato alle sue costole lo scaraventò nell’angolo della cella.
Lo stregone tossì rannicchiandosi contro il muro, ma udendo i passi pesanti della guardia che si avvicinava, si voltò con la velocità di un rettile, le braccia tese in avanti coi palmi delle mani rivolti verso l’uomo che stava per colpirlo.
“Non toccarmi!” tuonò.
Un tonfo gli fece capire che era riuscito nel suo intento di bloccarlo; l’uomo infatti era crollato a terra come se, d’improvviso, non avesse più forza nelle gambe.
Amauròs si alzò ansimante e si avvicinò fino a sovrastare l’altro, le braccia sempre sollevate e il volto teso nello sforzo di mantenere attivo il sortilegio per immobilizzarlo.
“Ti consiglio di non riprovarci.” lo minacciò obbligando la sua voce a  non mostrare quanta fatica gli costava contrastare il potere degli amuleti. Poi abbassò le mani e lo liberò.
“Vattene, va via!” aggiunse con freddezza Leda.
“Ma, mia signora…” balbettò l’uomo disorientato dall’atteggiamento di lei.
“Esci, io verrò fra qualche minuto.” gli ordinò.
La guardia si rimise in piedi e si avviò verso la porta della cella; la aprì, ma prima di uscire si rivolse nuovamente allo stregone: “Domani i tuoi poteri non esisteranno più, allora ti insegnerò a portarmi rispetto, mago.” ringhiò.
Amauròs non gli rispose, ma appena quello li lasciò soli, barcollò all’indietro appoggiandosi al muro. Un senso di nausea lo assalì; se Leda non fosse stata lì a guardare, probabilmente, si sarebbe lasciato cadere in terra dando libero sfogo al suo stomaco. Provò a regolare il respiro e strinse le labbra tentando di non rigettare quel poco d’acqua che aveva ingoiato negli ultimi giorni.  Alla fine si voltò verso la donna.
“Se hai davvero un figlio fra i ribelli, non cercarlo.” mormorò in un sospiro.
“E’ vivo? Mio figlio è vivo?” pigolò lei con un filo di voce.
Lui chinò il capo e non disse altro, augurandosi di non aver condannato quella gente, di nuovo.
Lei restò alcuni istanti in silenzio, poi gli voltò le spalle, si avviò verso la porta e bussò.
Subito il carceriere aprì e la fece uscire.
 



 
 

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Capitolo 21
*** Cap. 21 Un antico amore ***


Cap. 21

 
Leda camminava a passo svelto, il respiro era affannoso per i troppi scalini; una salita interminabile fino alla sala del consiglio che si trovava nel punto più alto della città di Lapidia. Aveva percorso la scala monumentale e poi un corridoio infinito, scandito da Cariatidi marmoree;  ogni statua ritraeva, in modo grottesco, i componenti del consiglio dei Discendenti fin dalla sua istituzione. Il corridoio si concludeva con un colossale portone di bronzo le cui. Anche le ante erano completamente adornate di volti. Erano modellati nel metallo, a centinaia sporgevano dalla superficie, fissando l’intrusa coi loro sguardi indagatori. Per nulla intimorita Leda si sedette sul gradino che ne costituiva la soglia, e attese per diverse ore. Il consiglio era riunito: dopo l’incidente alla cava c’era stato un gran fermento, le voci sulla fuga degli schiavi si erano diffuse in tutta la città, ed era di vitale importanza per la sopravvivenza del mondo sotterraneo mettere a tacere certe notizie scomode. Si era addirittura avanzata la proposta di inscenare il ritrovamento di cadaveri sotto la frana per chiudere quella vicenda una volta per tutte. Ma Leda sapeva la verità, sapeva che gli schiavi non erano stati sepolti da quelle pietre e che le voci sulla loro fuga erano fondate.
Quando il portale si aprì, Leda scattò in piedi. Due guardie robuste tennero spalancate le ante mentre un nutrito gruppetto di uomini e donne, dalle età più disparate, sfilò davanti a Leda senza dar troppo peso alla sua presenza. Qualcuno le rivolse uno sguardo distratto, solo per accertarsi di non essere l’oggetto della sua attesa. Non era raro, infatti, trovare qualcuno fuori dalla porta di quella stanza, gli abitanti della città vi si recavano allo scopo di perorare le proprie cause, o a chiedere favori o, semplicemente, per incontrare un conoscente, magari un proprio famigliare che era stato eletto a far parte di quella ristretta cerchia.
Qualsiasi Discendente era libero di chiedere udienza. Agli schiavi, invece, non era permesso accedere al corridoio delle Cariatidi; solo i pochi costretti a lavorare per il consiglio potevano transitarvi, ma, attraversato il maestoso corridoio, erano costretti a trascorrere lì il resto della vita senza più avere contatti con l’esterno. Erano anche obbligati al silenzio, per quanto, fortunatamente, era stata abolita l’antica usanza di tagliare loro la lingua; usanza che, per secoli e millenni, aveva permesso al Consiglio dei Discendenti di proteggere i propri segreti.
Leda tenne il capo chino in segno di rispetto di fronte all’insigne processione, finché un uomo si voltò verso di lei. Era alto, un ricco turbante bianco e una barba grigia appuntita e ben curata gli incorniciavano il volto affilato. Leda sollevò appena gli occhi, per poi tornare a fissare il pavimento. Quello si fermò, lasciando che gli altri lo superassero, e  Gounias, il membro più anziano del Consiglio che era accanto a lui, gli lanciò un’occhiata di fuoco; l’uomo col turbante non reagì, restò rigido e immobile come se fosse diventato improvvisamente di marmo. Gounias allora si allontanò, ma non prima di aver dedicato a Leda uno sguardo altrettanto duro. Il mago col turbante continuò a rimanere saldo  finché i suoi compagni furono tutti abbastanza lontani, quindi tese il braccio verso il portale; i due schiavi che lo stavano chiudendo si bloccarono e lui, con un impercettibile cenno, invitò la donna ad entrare.
Il portale fu chiuso dietro di loro.
All'interno l’ambiente era molto grande e le pesanti ante di bronzo, chiudendosi, rimbombarono fastidiosamente C’era pochissima luce, proveniente da alcuni bracieri, la cui fiamma si stava estinguendo; erano posizionati sui lati lunghi della sala, dove si trovavano le gradinate coi sedili. Nel mezzo un corridoio pavimentato a mosaico, sul quale i secoli avevano formato una serie di avvallamenti. Leda sollevò il capo, non parlò, ma per un tempo che parve infinito i suoi occhi percorsero l’intera figura dell’uomo che aveva di fronte studiandone ogni dettaglio. Fissò la stoffa grezza della tunica, che ricadeva abbondante sul pavimento nascondendo i piedi dell'uomo; Leda non aveva bisogno di vederli per sapere che erano scalzi. Scrutò poi  le mani, abbandonate lungo i fianchi; mani dalle dita forti, ma anche gentili.
Alzò lentamente lo sguardo con timore, fino ad incontrare i suoi occhi; erano d’un verde scuro con striature marroni che si irradiavano dalla pupilla. Le ciglia lunghe li facevano risaltare sul volto alabastrino, e a suo modo delicato, ma i lineamenti erano induriti in una espressione irritata.
Ma immediatamente, come chi si rende conto di aver osato troppo, Leda abbassò lo sguardo e prese a fissare un punto imprecisato del petto di lui trattenendo  il respiro. Si sentiva in colpa per averlo cercato lì, di fronte a tutti, ma non aveva paura dei suoi rimproveri; Geber era stato sempre molto indulgente con lei e con la sua follia, nonostante tutto.
“Perché sei qui?” domandò infine il mago.
Leda si voltò e fu come se la catena invisibile che imprigionava i suoi occhi si fosse spezzata improvvisamente. Strizzò con forza le palpebre obbligandosi a non tornare a posare di nuovo lo sguardo sul suo interlocutore.
“Sono stata alla prigione,” disse poi, in un soffio. “L’ho visto.”
“Bene, era quello che volevi. Spero che tu abbia saputo quello che ti interessava.”
La sua voce era fredda, si girò dandole le spalle, e si allontanò di qualche passo.
“Non ha voluto dirmi dove sono. Lui non…” singhiozzò  “Geber…” Tornò a guardarlo e le ciglia erano imperlate di lacrime. Si portò le mani alla bocca cercando, inutilmente, di soffocare i gemiti.
“Non posso farti avere ulteriori permessi. Amauròs è stato condannato, nessuno potrà più incontrarlo, finché non sarà liberato alla cava.” Continuò lui con voce atona, restando di spalle.
“Dimenticherà, Geber.” La voce di Leda era ormai un lamento strozzato.
Lui si limitò a scuotere il capo.
“Geber, ti prego, lui è vivo! Mio figlio è vivo! Lo so, ne sono certa.” Si gettò su di lui e lo afferrò per le braccia costringendolo a guardarla. Il mago provò ad allontanarsi, ma lei gli si aggrappò con la forza e la disperazione di chi sta per precipitare nel vuoto.
“Se Amauròs dimenticherà, io non rivedrò più mio figlio.”
“Ho fatto tutto quanto era in mio potere per farti entrare alla prigione.  Io… io non posso far niente per Silas.” continuò e l’afferrò per i polsi tentando inutilmente di scostarla. “Ovunque sia, devi rassegnarti.”
Un grido angosciato risuonò nella sala del consiglio. Leda aveva ormai perso del tutto il suo autocontrollo; era scivolata in ginocchio, con le dita aggrappate alla stoffa della tunica di lui, e il volto, bagnato dalle lacrime, affondato nelle pieghe candide.
Geber respirò a fondo, non poteva vederla così. Strinse i pugni; le lacrime di Leda su di lui erano come fuoco, si sentì bruciare, e le fiamme salirono fino ad ardergli la gola. Chiuse le palpebre con forza, ma non fu sufficiente a liberarlo da quel fuoco.
Fece un passo indietro, tentando ancora di sciogliersi da disperato abbraccio della donna, ma lei non allentò la sua presa.
“Leda, ti prego, no!” Geber ansimava.
Il pesante panneggio della tunica di lui le stava scompigliando i capelli;  erano lunghi e raccolti in una treccia che si avvolgeva più volte intorno alla testa. Gli anni vi avevano disegnato una miriade di piccoli fili argentei che ne sottolineavano l’intricato motivo.
La mano di Geber si mosse incerta verso la donna inginocchiata, finché le dita le sfiorarono l’elaborata acconciatura. Il cuore del mago sembrava impazzito; i battiti, come il rombo di mille tamburi, gli risuonavano nella testa. Geber le carezzò la guancia col dorso della mano che, seguendo la traccia delle lacrime, scese fino al mento. Con dolcezza la costrinse a sollevare il viso, delicato e duro insieme, i cui lineamenti marcati erano ingentiliti dalle labbra a cuore e dai grandi occhi azzurri.
Erano passati più di sessant'anni dall'ultima volta che si erano trovati così vicini, eppure la trovava ancora bella, forse più bella che mai. Era inutile fingere di non provare più nulla per lei, era inutile fingere con sé stesso; aveva indossato la maschera dell'indifferenza, da quando lei aveva incontrato Afelis, l'uomo che sarebbe diventato suo marito, e tutti avevano creduto alla sua menzogna.
All’epoca lui era stato appena eletto ad essere uno dei membri più giovani del Consiglio, e lei era una donna cadoiniana, un’emarginata come tutti quelli della sua città.
Gli abitanti di Cadoinia, infatti, non erano ben visti dalla maggior parte dei Discendenti, erano considerati dei maghi minori, forse la causa stessa dell’esilio di tutti i Discendenti in quel mondo di tenebra. Erano tollerati a Lapidia, in quanto molti di loro entravano a far parte delle guardie della città, dell’esercito e delle guardie del carcere. Erano persino richiesti per questi compiti che nessun altro voleva svolgere. Un cadoniano era buono come carne da macello, ma mai avrebbe potuto ambire a cariche di comando.
Leda aveva lasciato la città dei reietti e si era trasferita a Lapidia in giovane età, dimostrandosi da subito una donna forte; Geber l'aveva ammirata per questo fin dal primo momento.
Negli anni, poi aveva cercato di conquistare la stima di tutti senza nascondere le proprie origini, ma, nonostante la sua tenacia, aveva dovuto accettare di sposare Afelis; un brav’uomo che le aveva dato tutto ciò che lui non avrebbe potuto darle: una casa decorosa, una vita agiata e, soprattutto, il rispetto della gente di Lapidia che avrebbe presto dimenticato la sua provenienza, accogliendola come una di loro. Afelis era anziano, ricco e potente, ma non così in vista come poteva esserlo un membro del consiglio, per questo non furono ostacolati in nessun modo.
Geber sapeva che quella fra Afelis e Leda non era mai stata un’unione d’amore. Lei aveva offerto ad Afelis la sua bellezza e lui le aveva dato una nuova vita e un figlio con straordinari poteri.
Leda non l’amava, ma provava un grande affetto per l’anziano mago e gli era stata sempre fedele anche dopo la sua morte; Geber aveva rispettato questa sua scelta e non aveva più cercato di incontrarla. Questo finché non l’aveva trovata in lacrime davanti alla sua porta, qualche giorno prima.
Da quel momento il pensiero di lei aveva ripreso a perseguitarlo come molti anni addietro: vedeva il suo viso ad ogni angolo di strada. Lo vedeva in casa, lo vedeva in ogni volto, e la sua voce e i singhiozzi gli risuonavano martellanti nella mente. Si rese conto che in tutti quegli anni l’amore per lei non si era affatto estinto, ed ora che Leda era lì, avvinghiata alle sue gambe, gli sembrò di impazzire. Sentì nella carne le unghie di lei e desiderò che le affondasse ancora di più, fino a sentire dolore; voleva sentire il corpo di lei contro il suo, persino i suoi graffi.
Fiamme di piacere, come ondate incandescenti, lo assalirono. Cadde in ginocchio, le strinse il viso fra le mani e, con la foga di chi si getta disperatamente nell’acqua per non bruciare vivo, cercò le sue labbra e si lasciò annegare.
Lei ricambiò con lo stesso ardore e si baciarono finché entrambi non ebbero più fiato. Le loro bocche si allontanarono solo per pochi istanti, in quel tempo il nome di Leda risuonò nella stanza come un sussurro, una litania ossessiva, finché le labbra di lei non la soffocarono di nuovo.
Fu Geber che alla fine, come se si fosse risvegliato improvvisamente, afferrò Leda per le spalle e la allontanò da sé, quasi con rabbia. Si alzò di scatto e scosse il capo nel tentativo di scrollar via dalla mente il pensiero di ciò che era appena accaduto, assieme al desiderio implacabile di lei. Si allontanò percorrendo la sala in tutta la sua lunghezza.
Leda era ancora inginocchiata, la bocca aperta e ansimante, finché una smorfia nauseata cancellò  la sua espressione rapita. Cosa aveva fatto? Provò disgusto di sé stessa, vergogna per ciò che provava. Il terrore di perdere il proprio figlio le aveva annebbiato la mente. Non sapeva cosa provare: amore, rimpianto, bisogno di aggrapparsi a qualcosa, a qualcuno. Aveva bisogno di Geber, un disperato bisogno del suo sostegno, del suo aiuto, ma anche del suo amore. Sollevò il viso stravolto dalle lacrime, ciuffi di capelli vi si erano incollati, e gli occhi arrossati trovarono il mago e gli rivolsero ancora la loro muta supplica.
Poi la voce di Geber risuonò nella stanza come un lamento soffocato.
“Perdonami!”
Lei lo guardò incredula, scuotendo il capo. Cosa c’era da perdonare? Quel bacio l’avevano desiderato entrambi.
Geber sembrò indovinare la sua domanda, le si avvicinò di nuovo, s’inginocchiò davanti a lei prendendole con dolcezza le mani fra le sue.
“Perdonami per quello che ho appena fatto, non avrei dovuto. Sei sconvolta per ciò che può essere accaduto ed io non dovevo dimenticare che hai un marito.”
“Mio marito è morto.” mormorò lei, fissandolo sempre con un espressione stupita.
“Ma hai un figlio, suo figlio, ed io non ho il diritto di sconvolgere la tua vita. Come non ho voluto fare sessant’anni fa.” scosse il capo. “Non è cambiato nulla da allora, io sono sempre un membro del consiglio e tu…”
“Una reietta.” lo anticipò lei.
Geber le baciò la fronte.
“Sei una donna rispettata, e voglio che tu rimanga tale.”
“Vuoi?” la voce di Leda era un sussurro strozzato.
Lui annuì, ma Leda si alzò di scatto sollevando il mento orgogliosa.
“Mio figlio è fuggito con i figli del sole, cosa vuoi che m’importi del rispetto? Silas ha preferito gli schiavi e forse ora è più libero di quanto io sia mai stata. Lui mi somiglia molto: è orgoglioso, ed è un grande mago. Il potere dei Discendenti scorre nelle sue vene.” si morse il labbro e prese un profondo respiro. “Il tuo potere.”
Geber si alzò da terra e la sua espressione passò dallo stupore, alla delusione, fino alla rabbia.
“Non hai bisogno di mentirmi per ottenere il mio aiuto.” disse stizzito.
“Ma io… io non sto mentendo, Geber.” Tentò di afferrare le sue mani, ma Geber si sottrasse al suo tocco. 
“Con la tua ostinazione rischierai di attirare l’attenzione del Consiglio. Non capisci? Per ora si sono limitati a nascondere la loro fuga, ma se dovessero decidere di cercarli… se dovessero trovarli,” la afferrò per le spalle scuotendola. “Leda, tuo figlio morirà, come tutti gli altri.”
Gli occhi di lei lo trafissero. Leda aveva le braccia abbandonate lungo i fianchi e il volto indurito.
“Silas è tuo figlio e lui lo sa. Può leggere nelle menti degli uomini, proprio come te. Non ho potuto nasconderglielo, così come non potrei mentire ora a te. Guardami, guarda nella mia mente e vedrai che sto dicendo la verità.”
Geber la fissò ma, immediatamente, distolse lo sguardo. “No!” disse cupo. “Non lo farò.”
Si allontanò e andò a sedersi sulla gradinata, prendendosi la testa fra le mani.
Lei lo osservò in silenzio.
“D’accordo, andrò alla prigione.” Mormorò Geber sospirando. “Parlerò con Amauròs. Se non vorrà dirmi la verità userò il mio potere su di lui e, forse, moriremo entrambi.”
 
 
 
 

 

 

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Capitolo 22
*** Cap. 22 Una faticosa marcia ***


 
Cap. 22
 
Il fiume umano si snodava lungo le gallerie. Kore teneva per mano il piccolo Giona; entrambi indossavano il pesante mantello di pelle conciata grezzamente, che Marietta aveva dato loro subito dopo il crollo. Ne erano stati distribuiti a tutti, dato che la temperatura all’interno di quei cunicoli era molto più bassa di quanto lo fosse alla cava.
Era stata una fortuna che i carri e le casse piene di viveri, le coperte e quant’altro potesse servire, fossero stati sistemati vicino alle pareti; così non furono distrutti dai massi che precipitavano dal soffitto.
La ragazza si guardò attorno: Marietta li distanziava solo di qualche metro, ma la maggior parte degli schiavi ribelli li aveva superati di molto, e lei  poteva sentire i loro passi allontanarsi sempre di più.
Con loro trascinavano anche il vecchio Diego; due uomini erano andati a prelevarlo dalla casa di Marietta  diverse ore prima della partenza, erano stati accompagnati da Freda che aveva tolto la maledizione dalla porta per permettere al vecchio di passare. Quando gli schiavi presero a posizionarsi per il lungo viaggio che li attendeva, Diego aveva rivolto a Kore uno sguardo triste poi, chinato il capo, si era messo in cammino, seguendo mansueto i suoi carcerieri.
Accanto alla ragazza, ora, era rimasto solo uno sparuto gruppetto di minatori oltre, naturalmente, a Marietta. Alcuni di questi spingevano un carretto di viveri sul quale era stato adagiato Bertone ferito; l’uomo non aveva smesso di mugugnare e lamentarsi da quando era stato salvato, tuttavia Kore capì che non era il dolore alla gamba a tormentarlo, quanto piuttosto una sorta di irrazionale rimorso per essere sopravvissuto. Continuava a mormorare il nome di Ivetta, persino durante i rari momenti di sonno. Le sue labbra si muovevano automaticamente nel pronunciare quelle poche sillabe, a volte sussurrandole, altre volte urlandole con rabbia e dolore. Incolpava se stesso di non essere riuscito ad afferrarla, mentre il ponte crollava; l’aveva vista sparire nel buio, inghiottita in un turbinio di polvere e rocce, ma lui era rimasto miracolosamente sospeso nel vuoto; vivo grazie ad una catena di ferro che, per qualche strano gioco del destino, si era impigliata attorno alle sue gambe. Era stata solo una casualità, ma Bertone si sentiva come se avesse rubato quell’appiglio alla sua amica. 
La ragazza si voltò e guardò alle proprie spalle. Erano davvero rimasti gli ultimi della fila: a chiudere la marcia solo altri quattro uomini che trascinavano lunghi bastoni ai quali erano stati legati stracci e coperte. Con quelli spazzavano il sentiero per cancellare ogni traccia del loro passaggio. I ribelli, nonostante la galleria fosse piuttosto ampia, procedevano in fila indiana per rendere più semplice il loro lavoro. Marciavano ormai da quattro giorni, ma ancora continuavano a nascondere le loro orme e ogni traccia di bivacco: era chiaro che non si ritenevano ancora al sicuro.
Kore si domandò fino a dove si sarebbero potuti spingere gli inseguitori, perché dovevano esserci degli inseguitori, dal momento che qualcosa nel piano iniziale non aveva funzionato: Ranuccio aveva lasciato cadere la fiala con il liquido esplosivo troppo presto, ma se fosse stato per errore o per altri motivi loro non potevano saperlo. Marietta non si dava pace, e continuava ad inveire contro di lui; lo incolpava di ciò che era accaduto, dandogli dello sciocco, goffo e maldestro, e sostenendo che non avrebbero dovuto affidargli un compito così delicato. Malediceva Guglielmo per la sua scelta scellerata, e persino Amauròs; ma, celata dietro le sue dure parole, non era difficile riconoscere una grande preoccupazione. Davvero Ranuccio aveva sbagliato in modo così grossolano? Oppure era successo qualcosa di grave sul ponte,  da spingerlo a gettare l’ampolla prima del tempo? Non c’era modo di sapere dove fosse il ragazzo in quel momento, se fosse riuscito a nascondersi e se li avrebbe raggiunti. Forse era morto e, con lui, erano morti anche il mago e il capo dei ribelli, condannando tutti loro a vagare senza meta finendo probabilmente col morire di stenti o catturati e uccisi.
Potevano solo proseguire, allontanandosi il più velocemente possibile dalla cava, dai segugi e dai soldati, e raggiungere la fine di quel maledetto tunnel; sperando di ritrovare all’uscita la loro guida e i loro amici o, perlomeno, Freda, l’unica che potesse portare loro delle notizie.
Mangiavano camminando e si erano fermati solo per dormire, poche ore ogni notte: di giorno era preferibile restare svegli e in movimento, per non rischiare di essere sorpresi dai vermi delle grotte. Marietta le aveva spiegato che, nonostante la luminosità del sole non potesse raggiungerli nei cunicoli, i vermi sentivano ugualmente il cambiamento quando l’astro artificiale veniva acceso; una capacità che Kore avrebbe voluto avere: in quella infinita notte, era facile perdere la nozione del tempo. La giovane immaginò che qualcuno dovesse essersi portato una clessidra, o qualche altro congegno per calcolare il momento più adatto per dormire e soprattutto per mangiare; era certa infatti che lo avessero fatto ad orari precisi, o almeno in coincidenza con i borbottii del suo stomaco, ma forse per i Discendenti che si erano uniti a loro calcolare il tempo senza il sole o senza orologi non doveva essere un problema.
Da quando avevano lasciato l’ingresso della Grotta Grande il percorso aveva deviato più volte in modo brusco, le gallerie si ramificavano, spesso salivano così ripidamente che gli schiavi dovevano aiutarsi a vicenda per superare il dislivello con i carretti. Ne spingevano uno fino al punto in cui la strada si faceva di nuovo piana e poi tornavano a recuperare gli altri.
Tra un carro e l’altro c’erano le donne che, a coppie, portavano ceste piene di pane e carne di Naeria salata; Kore conservava ancora in una tasca del mantello metà della porzione che le avevano dato a pranzo. La carne era dura e stoppacciosa. Non le era mai piaciuta la Naeria, ma arrostita sulla brace aveva un sapore passabile, mentre quella conservata sotto sale assomigliava ad un pezzo di corteccia.
Con tutta la sua buona volontà, e soprattutto incentivata dalla fame, era riuscita appena a fare un paio di bocconi, e anche quelli avevano richiesto diverso tempo per essere inghiottiti, con l’aiuto di abbondanti sorsate d’acqua.
Almeno quella non scarseggiava: quasi tutte le donne ne portavano anfore piene sulla testa, e anche lungo il percorso non era raro vederla ruscellare dalle pareti o colare dal soffitto.
Cinque o sei bambini attorniavano ciascuna delle portatrici d’acqua e, incuranti delle raccomandazioni delle loro mamme, continuavano a rincorrersi e a fare scherzi. Kore si chiese come si potesse tenere un’anfora in equilibrio sul capo  e nello stesso tempo badare a quelle piccole pesti. A volte saltavano sui carri mandando su tutte le furie gli uomini che li spingevano. A loro quel viaggio doveva sembrare un divertente gioco.
Un minatore alto e massiccio, esasperato, ne afferrò uno per la cintura. Il ragazzino, che non doveva avere più di sei anni, era saltato su un carro carico di sacchi di farina: l’oro della Città del Sole. L’uomo lo sollevò con una mano e lo scaraventò senza tanti riguardi tra le braccia di sua madre che, intenta a recuperare gli atri due figli, non si accorse del più piccolo che si abbatteva urlante su di lei; per poco non cadde rovesciando l’acqua che trasportava. Quando il monello ebbe la sua razione di sculacciate, le labbra di Kore si piegarono in un sorrisetto soddisfatto: perlomeno certe usanze erano uguali dappertutto.
Si sgranchì la schiena, sentiva la sua spina dorsale scricchiolare come quella di una vecchia, e aveva l’impressione che stesse per spezzarsi in due. Quattro giorni di cammino quasi ininterrotto cominciavano a far sentire i loro effetti, ma il momento più duro era stato rimettersi in piedi dopo il breve sonno: le sue gambe non volevano saperne di muoversi. Gli altri erano decisamente più abituati a certi ritmi, ma nessuna palestra al mondo avrebbe potuto prepararla ad una simile sfacchinata.  Anche il braccio destro le faceva male, come se fosse slogato, e la mano era umida di sudore e indolenzita a forza di  trattenere Giona quasi sollevandolo da terra. Kore, per tutto il tragitto, si era sforzata di rendergli più agevole il cammino, ma il passo ondeggiante del bambino trascinava anche lei nel suo zigzagare, rendendoli simili ad una coppia male assortita di pinguini. Certo Giona faceva del suo meglio per non far pesare la sua menomazione, non si era mai lamentato, non le aveva mai chiesto di riposare. Era un bambino davvero eccezionale, pensò Kore, un bambino che non meritava tanta sfortuna.
Più volte dovette far forza su se stessa per impedirsi di fissargli il piede storto. Le tornarono in mente le parole che sua madre le aveva ripetuto tante volte: ‘Non è educato fissare.’ Ma, forse, in quel mondo nessuno si sarebbe sentito offeso per uno sguardo, le abitudini lì erano molto diverse.
Fece una smorfia ripensando alla vecchia maga che la scrutava con curiosità, come se fosse stata uno strano animale dietro la gabbia di uno zoo.
“Non è educato fissare.” le aveva ripetuto Ranuccio, scusandosi poi con lei per non essere riuscito ad istruire Freda sui costumi del ‘mondo di sopra’. Allora non aveva ancora compreso a fondo il triste significato di quelle parole, ma più passava il tempo e più il ‘mondo di sopra’ diventava qualcosa di lontano e irraggiungibile. Ciò che per lei era sempre stato normale, ora era un sogno, una speranza; persino quelle piccole regole di comportamento, che sua madre le aveva insegnato, e che sembravano dover essere comuni a tutti gli uomini, ora erano un ricordo.
Eppure gli uomini, i bambini, i loro sentimenti, non erano diversi. Quella gente sapeva amare, piangere e soffrire esattamente come lei. Forse la schiavitù li aveva resi più forti, forse erano anche più coraggiosi, ma, guardando il piccolo Giona, provò una gran pena. Il bambino zoppo delle grotte, il bambino che conosceva tutti i cunicoli della cava come se fossero le sue stanze da gioco, che chiamava per nome almeno la metà dei minatori, aveva centinaia di papà, e trattava Amauròs, il mago che tutti temevano, come se fosse un suo zio, non era diverso da un qualsiasi altro bambino, e aver perso la madre in quel modo avrebbe certamente segnato per sempre la sua vita.
Provò ad immaginare come dovesse sentirsi, ma non ci riuscì. Non riusciva ad concepire cosa volesse dire perdere la speranza. Fabian era lontano, e sua madre e suo padre ancora di più, ma l’idea di poterli rivedere un giorno le aveva dato la forza di andare avanti. Il solo pensiero che la loro ricerca potesse fallire, facendole perdere ogni possibilità di tornare a casa, la fece rabbrividire. Cosa avrebbe fatto? Avrebbe pianto fino a non avere più lacrime? O forse avrebbe reagito proprio come Giona? Si chinò su di lui tentando di incontrare i suoi occhi,  ma non trovò altro che il riflesso dei propri in uno specchio color smeraldo che sembrava non avere nulla di vivo. Giona non aveva più parlato dopo l’incidente: da quando la sua mamma era stata risucchiata in quell’orrendo baratro scuro sparendo per sempre, aveva iniziato a fissare il nulla, senza manifestare alcuna emozione.
Kore si era offerta di fargli compagnia durante il tragitto e, come lei, ogni donna presente; tutte si erano dimostrate affettuose e disposte a prendersi cura del piccolo, rimasto ormai solo al mondo. Alla fine, però, Giona si era avvicinato a Kore e, senza dire niente, l’aveva presa per mano, nascondendosi timidamente dietro di lei. Forse un così appassionato slancio solidale lo aveva spaventato o, forse, Giona aveva voglia di restarsene da solo; e la silenziosa, educata e timida Kore, costituiva ai suoi occhi una compagnia più discreta rispetto a quell’esercito di chiocce premurose.
Probabilmente si sbagliava: lei non era intenzionata a fare il muto bastone, utile solo a sostenere i passi di un bambino zoppo, aveva un fratellino poco più grande di Giona, doveva sapere come comportarsi con lui. Lo avrebbe consolato e rassicurato, è ciò che fanno le sorelle maggiori, si disse, e questo pensiero la trascinò lontano. Il tunnel, le avevano detto, sfociava in una vasta pianura; la chiamavano il Bosco di Pietra e si trovava ora a circa dieci giorni di cammino. Li Freda aveva dato loro appuntamento, dicendo che li avrebbe raggiunti assieme a Ranuccio, Guglielmo e Amauròs, e recando con sé anche il piccolo Fabian. Kore contava ogni passo, ogni metro che la portava più vicina al fratello, ma, allo stesso tempo, tremava all’idea di trovarsi di fronte il bambino del carretto di ferraglia che aveva visto alla cava. Un ragazzino che non la conosceva e che, probabilmente, sarebbe stato anche terrorizzato per essere stato trascinato via da quella che considerava, a tutti gli effetti, la sua famiglia.
Provò ad immaginare con quale scusa Freda sarebbe riuscita a portarlo fin lì, ma non le venne in mente nulla. Cosa avrebbe potuto convincerlo a lasciare i propri genitori per seguire una vecchia, orrenda strega, in un luogo completamente sconosciuto? Forse, al suo arrivo al Bosco di Pietra avrebbe trovato Fabian urlante e disperato, o magari muto e assente come Giona.  Chinò lo sguardo verso il bambino che le stringeva con forza la mano, cercò quel visino che aveva pulito alla meglio dalla polvere con la manica del proprio vestito, ma ancora una volta gli occhi furono attirati dalla sua menomazione: la gamba più corta dell’altra e il piede storto che, cadendo pesantemente dalla sua diversa altezza, faceva schizzare in aria il pietrisco ad ogni passo.
Kore strinse le palpebre con forza. Non doveva guardare i suoi piedi, non si deve fissare. Questo lo avrebbe imparato anche Giona, il giorno in cui sarebbero tornati in superficie. Avrebbe imparato e, forse, avrebbe sofferto per quegli sguardi che ora lo lasciavano indifferente.
Kore accarezzò l’idea di poter essere lei ad insegnargli le usanze del suo mondo. Fabian sarebbe stato felicissimo di avere un fratellino, un compagno di giochi, invece di una sorella brontolona preoccupata solo del suo nuovo taglio di capelli.
Si portò la mano libera ad afferrarsi il ciuffo, ormai diventato una lunga ciocca ribelle, e sorrise. Avrebbe avuto due fratelli: Giona non aveva nessuno, lo avrebbe tenuto con sé, sarebbe stato di nuovo felice con Fabian e i suoi nuovi genitori, e lei gli avrebbe insegnato tutto.
Già vedeva la luce dello stupore illuminare i suoi grandi occhi verdi nel momento in cui avrebbe visto il sole per la prima volta.
Lo sguardo della ragazza corse verso il fondo della galleria. La soglia era molto lontana, ma per lei era come se quel tunnel potesse sbucare direttamente all’esterno, alla luce, finalmente lontano da quell’incubo. Per un attimo le parve di vedere persino un riflesso luminoso in lontananza: la sua casa era ad ogni passo più vicina; nel frattempo, avrebbe dovuto conquistare la fiducia di Giona, e presto, molto presto anche quella di Fabian. Un sorriso dolce piegò le sue labbra.
“Fabian.” sussurrò, e l’idea di poter chiamare il fratello di nuovo per nome le scaldò il cuore.

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Capitolo 23
*** Cap. 23 Solo per amore ***


Cap. 23

  
Le prigioni di Lapidia erano scavate all’interno di pozzi che penetravano fin sotto il livello della pianura della cava. Vi si accedeva attraverso una stretta scala a chiocciola che immetteva in un corridoio altrettanto angusto. Geber procedeva lentamente lungo i gradini, scendendo sempre più in profondità nella roccia. Giunto al corridoio, il mago fu costretto a camminare tenendo il capo chino. Non c’erano feritoie, nulla che potesse collegarlo con l’esterno a parte dei piccoli canali, la cui apertura non era più larga di un pugno chiuso, che fungevano da prese d’aria.
Geber stringeva in mano un bastone di metallo, simile ad una lancia corta, si guardò attorno finché il suo sguardo individuò una pietra di colore verde incastonata nel muro. Puntò il suo bastone dritto al centro della pietra e, facendo un passo indietro, prese lo slancio e la colpì con forza. La pietra si spaccò in due con un rumore secco. Il mago la fissò per qualche istante, poi, proseguì lungo il corridoio fino a raggiungere una seconda pietra, poi una terza. Spaccò anche le altre finché trovò, lungo il budello roccioso, decine di piccole porte di ferro; dietro di queste si trovavano le celle: una serie di pozzi che s’innalzavano, fino a raggiungere la base del grande cratere nel quale vivevano gli schiavi. Il cunicolo che aveva appena percorso si snodava collegando un pozzo all’altro alla base, tuttavia, a causa di errori di calcolo dei costruttori, tra il piano di alcune celle e il cunicolo c’era un dislivello di diversi piedi.
I prigionieri erano letteralmente lasciati cadere all’interno, spesso riportando fratture e gravi ferite, che ne accorciavano la permanenza e risparmiavano al consiglio imbarazzanti sentenze di morte.
“Nessun Discendente può ucciderne un altro.” queste parole risuonarono nella mente di Geber come una beffa: trovandosi di fronte ad una simile realtà, comprese come fosse stato semplice nei secoli aggirare quella legge. 
Giunto quasi alla fine del corridoio, abbandonò il bastone nascondendolo dietro una sporgenza del muro. Poco più avanti  trovò l’uomo  di guardia seduto in un angolo che sonnecchiava. Appena si accorse della sua presenza scattò in piedi, esibendosi in un goffo inchino, e tentò di articolare qualche parola, ma inutilmente. Le sue labbra carnose provarono a sostituire la lingua, evidentemente recisa, agitandosi come una grottesca appendice rossa e umida; si protesero verso l’altro, tendendo i muscoli del volto fino allo spasimo, per poi assottigliarsi nuovamente in uno strano riso forzato che metteva in evidenza la fila irregolare di denti neri e scheggiati. Geber suppose che un suo superiore gli avesse fatto mozzare la lingua per punizione. Era chiaro che certe usanze erano difficili da sradicare. Non si trattava però di uno schiavo, un figlio del sole, ma  solo un cadoniano che non aveva trovato un lavoro migliore.
Nonostante l’uomo si sforzasse, il mago non riuscì a capire se  lo stesse semplicemente salutando o gli stesse chiedendo il motivo della sua visita. Nel dubbio, gli ordinò di aprire la cella del cieco; aveva il sospetto che la guardia ignorasse persino il nome dei suoi prigionieri.
Quello si diresse con sicurezza verso la porticina più vicina a lui, armeggiò con un mazzo di grosse chiavi e, dopo averla aperta, si fece da parte per lasciarlo passare.
Geber si avvicinò circospetto. Il locale era buio, non c’erano torce, ne lumi di alcun genere, di certo Amauròs non ne aveva bisogno, tuttavia la cella avrebbe dovuto essere illuminata, visto che era giorno pieno e tutti i pozzi ricevevano luce ed aria da una grata posta molto in alto; evidentemente, nella cella di Amauròs, la grata era ostruita.
A Geber occorsero alcuni istanti per abituare gli occhi all’oscurità e, assicurarsi che il pavimento della cella si trovasse al livello della soglia, prima di azzardare il primo passo oltre l’entrata.
Una volta dentro, guardò verso l’alto, effettivamente la grata era completamente chiusa. Era tradizione, in giornate di festa come matrimoni o nascite, gettare del cibo nei pozzi: sfamare i prigionieri era considerato una sorta di rito propiziatorio. Sia gli schiavi che i Discendenti si recavano nel piazzale recintato ai piedi della città, con ceste colme di pane e carne. Le guardie non mancavano mai di aprire i cancelli di fronte al festoso pellegrinaggio. L’intero contenuto dei canestri veniva riversato nelle celle sottostanti, accolto dalle grida festose dei prigionieri.
Purtroppo, però, solo una piccola parte di quella manna finiva sul fondo, il resto del cibo rimaneva intrappolato nelle grate ostruendo sempre di più i condotti, fino a privare addirittura dell’aria i malcapitati.
L’uomo di guardia prese il lume, che era appeso accanto alla porta, e lo porse a Geber. Il mago sollevò il braccio illuminando la cella. L’orrendo odore che gli aveva riempito le narici nel momento in cui la porta era stata spalancata non era nulla rispetto alla scena che si presentò ai suoi occhi: i muri anneriti lacrimavano di umidità e urina; il pavimento, pieno di avvallamenti, era un pantano viscido nel quale galleggiavano resti di cibo andato a male, escrementi, ossa e persino brandelli di vestiti appartenuti ai precedenti ospiti di quell’inferno.   
Lo sguardo di Geber individuò, alla propria sinistra, Amauròs, seduto con la schiena appoggiata alla parete. Era rimasto immobile, impossibile che non si fosse accorto della sua presenza, ma, evidentemente, attendeva che il nuovo venuto si facesse riconoscere...
Geber decise di non soddisfare la sua curiosità. Mandò via la guardia con un cenno del capo e, una volta chiuso all’interno, si avvicinò alla parete assicurando il lume alla catena che pendeva dal muro. Una smorfia disgustata gli si disegnò sul viso, quando i piedi scalzi affondarono in quel liquame.
Fece qualche passo in direzione di Amauròs, che ora si era voltato e lo fissava con le sue iridi spente.
Geber attese ancora, finché l’altro decise di averne abbastanza del suo silenzio.
“Se vuoi che scopra da solo chi sei dovrai avvicinarti di più e permettermi di toccarti.” sorrise. “Ma, fossi in te, lo eviterei: ho le mani sudice.” concluse sarcastico, mentre sollevava i palmi per mostrarli all’altro.
“Deve piacerti questo posto, visto che continui a tornarci.” la risposta di Geber aveva lo stesso tono beffardo.
Nel riconoscere la voce del vecchio amico, il volto del prigioniero si fece livido.
“Cosa sei venuto a fare?” domandò irritato. Poi un lampo di comprensione gli illuminò lo sguardo. I suoi occhi ciechi si spalancarono e, per un attimo, le labbra parvero non riuscire ad articolare le parole.
“Leda?” chiese in un soffio. “Sei qui per lei, non è vero?”
“Forse sono qui per me stesso. Dove sono gli schiavi, Amauròs?” tagliò corto.
Amauròs chinò di nuovo il capo. Un angolo della sua bocca si piegò leggermente, indeciso tra l’amarezza e il riso.
“Se speri di saperlo da me, stai sguazzando in questa fogna inutilmente.” lo schernì, accennando col capo ai suoi piedi nudi. Amauròs non aveva bisogno di vederli, conosceva bene l’abitudine dell’amico di non indossare calzari: il contatto diretto con la terra potenziava la sua magia.
“Sai che posso ottenere quello che voglio con i miei mezzi.” lo avvertì Geber.
“Qui dentro? Non credo.”
Geber si chinò su di lui. “Come ti senti, Amauròs?” sussurrò ad un palmo dal volto dell’altro.
Le labbra dell’uomo in terra si serrarono all’improvviso e s’irrigidì.
“Che significa?”
Geber drizzò la schiena e lo guardò dall’alto della sua statura, sul suo volto comparve un sorriso cattivo che l’altro non poté vedere.
“Ho distrutto alcuni degli amuleti qui fuori. Dovresti sentire qualche miglioramento.” lo schernì, ma subito si pentì del suo cinismo rendendosi conto delle condizioni del prigioniero: il viso pallido di Amauròs era segnato da profonde occhiaie violacee, e la pelle si tendeva fin quasi a lacerarsi sugli zigomi spigolosi, mentre le guance incavate erano nascoste appena da una corta barba bianca che pareva voler gridare sfacciatamente la sua vera età.
Amauròs era rinchiuso in quella cella da più di una settimana, ormai, e, a giudicare dalla ciotola vuota e asciutta accanto a lui, non doveva aver toccato cibo e acqua da diverso tempo.
Per quanto la distruzione degli amuleti potesse avergli dato un po’ di vigore, l’uomo che aveva di fronte non avrebbe avuto certo abbastanza forza per contrastare i suoi poteri.
Se da una parte questo pensiero lo rassicurò, dall’altra lo fece sentire un vigliacco: avrebbe strappato alla sua mente le informazioni che voleva con facilità poichè Amauròs sarebbe stato troppo debole per difendersi. Si chiese se il suo amico, l’uomo col quale aveva condiviso i più bei momenti della sua giovinezza, si sarebbe arreso senza opporre resistenza, o avrebbe comunque lottato, sapendo di rischiare la vita?
E lui, fino a che punto avrebbe potuto spingersi pur di estorcergli quelle informazioni?
Si costrinse a mettere a tacere la propria coscienza: non poteva più aspettare, in ogni caso sarebbe stata una scelta di Amauròs. Tese il braccio col palmo della mano aperta rivolto verso l’uomo rannicchiato sul pavimento. Trattenne il respiro e ascoltò il potere fluire nelle sue vene, ne assaporò la sensazione piacevole di calore, finché non divenne un fiume rovente come lava fusa.
“Dove sono gli schiavi?” domandò ancora. La sua bocca non si mosse, Amauròs tuttavia lo sentì gridare nella propria mente, un urlo che non aveva nulla di umano.
Protese le braccia in avanti in un inutile tentativo di proteggersi.
“Gli schiavi…. Dove sono?” insisté Geber.
Amauròs si portò le mani alle orecchie, ma non servì: quelle parole continuavano a martellargli nella testa. Presto Geber avrebbe visto i ribelli, avrebbe visto nella sua memoria quello che cercava.
“Gli schiavi, Amauròs, dove sono gli schiavi?” Geber continuava a gridare pur tenendo le labbra serrate.
Amauròs si accostò maggiormente al muro, spingendosi con i piedi; le labbra riarse si tesero lacerandosi e un filo sottile di sangue gli colò sul mento.
Geber strinse i pugni come se volesse afferrare i ricordi dell’altro, e lo fece con tanta forza da ferirsi i palmi con le unghie. “Dimmi dove sono gli schiavi! Mostramelo!” urlarono ancora i suoi pensieri, ma improvvisamente un muro impenetrabile si levò tra le menti dei due maghi. Amauròs aveva chinato il capo e allargato le braccia artigliando la roccia dietro di sé. Un flebile lamento sfuggì alla sua gola, mentre con le gambe continuava a scalciare nel tentativo di spingersi contro il muro, verso un’illusoria via di fuga.
Geber si concentrò, provò ad incanalare ogni energia nel tentativo di leggere i pensieri di Amauròs, ma non vi riuscì, iniziò, invece, a sentire su di sé la sofferenza che gli stava infliggendo, la sentì diventare sempre più intensa, aveva la sensazione che qualcuno gli avesse infilato una lama nella testa. Era un dolore insopportabile ed era lui stesso a provocarlo.
Amauròs gli stava resistendo, gli stava rivoltando contro i suoi poteri, ma stava morendo.
“No!” la magia s’interruppe di colpo. “Non voglio ucciderti!” disse in un singhiozzo, mentre riprendeva il controllo della sua voce e del suo corpo.
Scosse il capo e lasciò cadere la braccia sui fianchi, facendo un passo indietro, ansimante.
Amauròs si rilassò e sollevò il volto stanco verso di lui.
“Non resistermi!” Geber lo supplicò. “In nome della nostra vecchia amicizia, lascia che io veda.”
“Non posso.” la voce dell’uomo cieco era debole, ma fredda e determinata.
“Perché? A che scopo?” Geber iniziò a gridare realmente. Era disperato, avrebbe voluto poter afferrare l’altro e scuoterlo fino a convincerlo a parlare, ma sapeva che sarebbe stato inutile. Poi, davanti al suo ostinato silenzio, respirò a fondo e provò a ritrovare la calma.
“Ti ho sempre battuto, anche da ragazzi.” rise, una risata senza gioia. “Sono sempre stato io il più forte.” si vantò.
“Sì… eri bravo a leggere nei miei pensieri… ma allora avevo solo piccoli segreti da adolescente da difendere.” confermò Amauròs in un soffio.
Geber si voltò e fece qualche passo allontanandosi dal suo amico.
“Hai ragione, erano piccoli segreti e, ogni volta che provavo a scoprirli, mi regalavi dei gran mal di testa.” tornò a fissare l’altro. “Fino a quel giorno. Anche lei era parte di quei piccoli segreti?”
Amauròs divenne, se possibile, ancora più pallido. Appoggiò una mano al muro e con uno sforzo si mise in piedi. Ora erano alla stessa altezza, e i suoi occhi neri trafissero quelli di Geber come se potessero vederlo realmente.
“Tu lo sapevi.” ruggì.
Non era una domanda la sua, ma fino a quel momento sembrava aver voluto ignorare la risposta. “Tu l’hai detto a mio padre, è così che ci hanno trovati.” sputò la sua accusa con tutto il fiato che gli rimaneva.
“Eri il figlio di un membro stimato del consiglio, come hai potuto rinunciare a tutto per quella donna?”
“Io ho fatto una scelta… Forse una pazzia per amore.” il viso di Amauròs divenne di marmo. “Qualcosa che tu non sei stato capace di fare per Leda.” gli rinfacciò. “Hai preferito la tua posizione ad una donna che ti amava. Ora ti illudi di poterla riavere trovando suo figlio?”
Geber strinse i pugni con rabbia. “Come te, anch’io ho fatto la mia scelta, Leda ora è una donna rispettata e, soprattutto, è viva.” sottolineò. “Se tornassi indietro prenderei la stessa decisione, tu puoi dire lo stesso?” chiese velenoso, i suoi sensi di colpa lo resero crudele.
Ci furono alcuni istanti di silenzio, poi Amauròs sollevò il mento con orgoglio.
“Sì!” rispose deciso. “Se io potessi tornare indietro agirei nello stesso modo…” poi chinò il capo e i muscoli del suo viso si contorsero colti da una fitta dolorosa.
“… ma, questa volta, entrerei nel passaggio con lei.” mormorò.
Geber serrò le palpebre, improvvisamente fu sopraffatto dai ricordi. Ripensò agli anni della giovinezza, ad Anedjib, il suo amico, alle confidenze che si scambiavano, alle loro sfide di magia; finché un giorno, quell’amico, divenne sempre più misterioso. Ricordò le sue frequenti visite alla cava e tutte le volte che l’aveva seguito o aveva cercato di vedere nei suoi pensieri, per curiosità, certo, ma anche per la sua stupida gelosia. Invidiava la posizione che quel ragazzo avrebbe ricoperto in futuro, grazie a suo padre, ma soprattutto grazie alle sue straordinarie doti di mago. Voleva anche lui diventare un membro del Consiglio dei Discendenti, e quando la notizia della fuga degli schiavi aveva sconvolto l’intera città, lui non aveva esitato a rivelare al consiglio ciò che era riuscito a scoprire. Solo anni dopo, quando anche lui era entrato a far parte della ristretta cerchia di Discendenti che guidavano la città, solo allora aveva saputo della strage e aveva ritrovato il suo amico che già ricopriva quella carica con un diverso nome e dopo aver pagato duramente la sua ribellione.
Scosse il capo lasciandosi sfuggire un lungo sospiro, ma subito la sua espressione si fece dura.
“Mi dispiace!” disse gelido e, con un gesto rapido e inaspettato, protese di nuovo le mani. La forza della sua mente colpì l’altro come uno schiaffo.
Amauròs fu schiacciato contro la parete, gli occhi sbarrati e la bocca spalancata. Anche gli occhi di Geber si aprirono in modo innaturale, nel momento in cui centinaia di immagini comparvero nel suo cervello; si sovrapposero una sull’altra per poi svanire, confondendosi risucchiate in un baratro fatto di oscurità, suoni, odori. Sentì le proprie mani stringere le rocce magiche, udì le piccole pietre cadere e rotolare sul pavimento, percepì la loro energia e il calore proveniente dalla terra, e poi divenne egli stesso parte del mondo. Fu roccia, fu un fiume impetuoso; in un istante attraversò valli e montagne, e, infine, divenne di nuovo acqua: un immenso specchio scuro irto di guglie traslucide, taglienti come spade affilate. Lo riconobbe: era il mare dei cristalli. Ora sapeva, non aveva bisogno di guardare oltre, gli schiavi erano diretti verso l’unico punto in cui quel mare poteva essere attraversato a piedi: il passaggio chiamato le Zanne del Drago.
Fece un balzo indietro liberando l’altro dal suo potere.
Amauròs si accasciò sul pavimento, respirava appena. Geber si chinò e, passandogli la mano dietro la schiena, lo sollevò da terra; lo circondò con le braccia sostenendolo in posizione seduta, ma il capo dell’amico ricadde abbandonato sul petto, in parte nascosto dal groviglio di capelli bianchi.
“Dovevo farlo,” disse Geber con voce roca. “Io dovevo farlo, perdonami!” ripeté, e poggiandogli la mano sulla fronte gli sollevò il viso. La vita del suo migliore amico stava scivolando via ed era stato lui a prendergliela, come ottant’anni prima, con la sua denuncia gli aveva rubato gli occhi. Era stato stupido allora, stupido ed egoista. Voleva farsi notare, voleva il potere e aveva venduto la sua amicizia.  Ma ora? Come avrebbe potuto perdonarsi di ciò che aveva appena fatto?
Lo strinse e lo cullò, con la mano gli sosteneva il capo stringendolo contro la propria spalla, finché lo udì sussurrare.
Si chinò avvicinando l’orecchio alle labbra tremanti dell’amico.
“Hai vi…sto?” gli domandò quello, la voce era ridotta ad un soffio.
Lui annuì.
“Die...go…Diego, lui non… c’entra.” continuò il mago cieco.
Geber scosse il capo, non aveva intenzione di far del male agli schiavi, voleva solo riportare Silas a casa, ma era chiaro che Amauròs temeva per la vita di qualcuno.
“Chi è Diego?” gli domandò, poi, d’un tratto, si ricordò del vecchio servitore, l’uomo che era stato con Amauròs fin da bambino.
“Il tuo servo? E’ per lui che ti preoccupi?” 
Amauròs si aggrappò alla tunica dell’altro. “L’hanno rapito, Diego non… lui non è coi ribelli… se li prendono, dillo al consiglio… salvalo… ti prego!”
“Non li prenderanno.” tentò di rassicurarlo Geber, ma l’altro allentò di colpo la presa e posò lo sguardo vuoto su di lui.
“Ti seguiranno… e uccideranno tutti… anche Si…las.” quelle parole suonarono come una maledizione. Geber rabbrividì. Fece per rispondere, per rassicurarlo sulle sue intenzioni: nessuno avrebbe saputo ciò che aveva appena scoperto, non sarebbe andata come l’ultima volta. Lui e Leda avrebbero raggiunto gli schiavi in segreto; Silas sarebbe tornato indietro dalla propria madre, al sicuro, e i ribelli sarebbero stati liberi di proseguire, non glielo avrebbe impedito. Anche Diego sarebbe potuto tornare a Lapidia se lo avesse voluto, e nessuno lo avrebbe mai sospettato. Era questo che voleva dirgli, glielo avrebbe giurato, ma quando le sue labbra si schiusero per pronunciare la solenne promessa, un lungo e debole respiro risuonò lugubre nella cella, Geber vide il petto dell’amico abbassarsi fino a restare immobile.
“No!” fu un gemito strozzato quello che uscì dalla sua gola.
Prese a scuoterlo, ma l’altro non reagì.
Era morto, Amauròs era morto.
Geber restò a fissarlo per diversi minuti, in silenzio. Tremava, aveva l’impressione che qualcosa di freddo gli stringesse lo stomaco, forse l’orrore e il rimorso avevano artigli fatti di ghiaccio. Si afferrò il ventre con la mano libera, trattenendo a stento un conato di vomito.
Quando riuscì finalmente a regolare il respiro e a riprendere il controllo del suo stomaco, lasciò scivolare in terra il corpo di Amauròs, con delicatezza, cercando di adagiarlo nel punto meno sudicio del pavimento.
L’uomo aveva una gamba piegata, mentre l’altra era tesa trattenuta dalla catena che portava alla caviglia, Geber l’afferrò tirandola verso di sé e liberando anche la tunica di Amauròs che si era attorcigliata all’anello di ferro.
Gli distese le gambe e prese a sistemare le pieghe dell’abito in modo maniacale.
Poi gli passò la mano sul viso scansando le ciocche di capelli che si intrecciavano fino a nasconderne quasi del tutto i lineamenti.
Gli rivolse ancora un ultimo sguardo e si alzò.
“Ho fatto la mia scelta, ho dovuto farlo.” mormorò.
Si avvicinò alla porta e bussò con violenza.
L’uomo senza lingua aprì e richiuse immediatamente non appena Geber ebbe varcato la soglia. Non controllò, non chiese spiegazioni delle urla che sicuramente doveva aver sentito, e Geber preferì non informarlo della morte del suo prigioniero. L’avrebbero scoperto nel momento in cui sarebbero entrati per scortarlo alla Grotta del Sonno, ma allora lui sarebbe stato lontano.
S’incamminò, ripercorrendo a ritroso la via che aveva fatto per scendere, una salita che gli parve ancora più ripida. Un macigno gli schiacciava il petto e più volte dovette appoggiarsi alla parete per non cadere. Le ginocchia si piegavano sotto quel peso e ogni gradino gli sembrava un ostacolo insormontabile.
Strinse i denti con forza.
“Leda!” pronunciò ad alta voce il nome della donna che amava come se quel suono potesse dargli vigore.
“L’ho fatto per Leda.” continuò la sua litania per tutta la scala. La voce sempre più roca e carica di rabbia ad ogni passo, finché non fu fuori dalla prigione.
 
 
 

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Capitolo 24
*** Cap. 24 La mappa del tradimento ***


Cap. 24
 
Geber si trovava in uno studiolo angusto, senza finestre. Sulle pareti si aprivano una serie di nicchie vuote e, ai lati delle nicchie, erano appese delle lucerne di metallo dalla forma insolita: la luce filtrava dagli occhi e dal becco spalancato di quella che doveva rappresentare la testa di un’aquila, una creatura mitologica che si diceva avesse la capacità di volare. Geber era sempre stato affascinato dalle leggende e, nel mondo sotterraneo, ce n’erano tante. Storie che venivano raccontate o cantate nelle piazze, storie alle quali nessuno credeva più, tranne quei pochi, come lui, che sapevano con certezza dell’esistenza di una terra luminosa popolata di animali volanti. Per tutti gli altri erano solo miti, esseri fantastici inventati per stupire i bambini e arricchire le mura dei palazzi di sculture e bassorilievi. Molto spesso gli artisti davano sfogo al loro estro, mescolando le varie specie, così non era raro trovare uccelli con quattro zampe e anche di più. Chi poteva dire quale fosse il vero aspetto di un aquila? Ad ogni generazione il ricordo di questi esseri si faceva più offuscato; solo i figli della luce ne conservavano memoria, almeno quei pochi che non erano passati per la Grotta del Sonno.
Quando era entrato nella stanza, Geber aveva posato lo sguardo sulla lampada più vicina all’ingresso, lo faceva ogni volta, domandandosi se le aquile fossero davvero così. Si era poi diretto alla scrivania di legno antichissima che stava al centro dello studiolo e, dopo avervi srotolato una grande pergamena e usato delle pietre verdi per fermarne gli angoli, si era seduto poggiando la fronte sui pugni chiusi, e aveva preso a fissarla.
Vi era disegnata una mappa con un inchiostro che un tempo doveva essere nero, ma ora era quasi completamente sbiadito.
Il mago era rimasto in quella posizione per diverse ore, i gomiti sul tavolo, gli occhi spalancati, persi nella ragnatela di cunicoli che riempivano l’intera pagina ingiallita, e non si mosse nemmeno nel momento in cui qualcuno entrò nella stanza: era Leda. Geber non aveva bisogno di guardarla per sapere che fosse lei a fargli visita.
“Preparati, partiamo stanotte.” le disse continuando a guardare la mappa.
“Hai scoperto dove sono andati? Amauròs te l’ha detto?” lo interrogò la donna. La sua voce tremava per l’agitazione.
Lui annuì, ma continuò a tenere lo sguardo fisso sul foglio, mentre Leda si avvicinava lentamente e con aria sospettosa. La donna aggirò la scrivania e si sporse da dietro le spalle del mago per osservare il rotolo sul tavolo. Non disse nulla, ma Geber sapeva che, evitare i suoi occhi era il modo più stupido per cercare di nasconderle la verità. Di certo Leda aveva capito che qualcosa era andato storto.
Forse avrebbe dovuto raccontarle tutto, dirle come, per cercare le informazioni che voleva, aveva ucciso il suo amico, forse avrebbe dovuto rinfacciarle di averlo fatto solo per lei, perché l’amava ancora, o, forse, avrebbe dovuto solo tranquillizzarla, obbligare i muscoli del proprio viso ad assumere un’espressione serena e rilassata, magari persino sorridente nonostante, in quel momento, avesse solo il desiderio di gridare.
Alla fine non fece ne l’una ne l’altra cosa: Leda continuò a non fare domande e lui gliene fu grato.   
“Sono in marcia da una settimana ormai, ma possiamo raggiungerli passando dal labirinto,” iniziò a spiegare con voce atona. “dovremmo anticiparli, se saremo fortunati potremmo arrivare un giorno prima di loro.”
Leda si voltò e, sollevandosi in punta di piedi, si mise seduta sul bordo della scrivania. Sembrava una bambina. Geber dovette resistere alla tentazione di cingerle le braccia intorno alla vita, ingoiò il suo desiderio e proseguì:
“La galleria che stanno percorrendo li costringerà a fare un lungo giro intorno alle montagne rosse, ma noi possiamo attraversare velocemente la valle oltre le Tre Sorelle e, grazie a questa mappa, trovare la via giusta nel labirinto, vedi…” Indicò un punto sulla pergamena. “Le gallerie si ricongiungono qui.”
La voce del mago appariva ferma e sicura nello spiegare all’altra il piano, ma Geber non lo era affatto. Non sapeva cosa sarebbe accaduto di li a poche ore, non era certo che sarebbero riusciti a raggiungere gli schiavi. La città pullulava di Segugi che avrebbero trovato quantomeno insolito il fatto che un membro del Consiglio si allontanasse da Lapidia in piena notte.
Il mago aveva pianificato di unirsi ai mercanti che tornavano a Città del Sole. Con loro avrebbero potuto attraversare facilmente il ponte che collegava la gigantesca colonna rocciosa alla pianura, senza destare sospetti. I mercanti partivano sempre col buio e, dopo due giorni di cammino, raggiungevano il porto di Lunet. Da li salpavano per tornare a rifornirsi di cibo, rarissimo legname e ogni sorta di delizia che cresceva all’interno delle serre della stupenda città. Per giungere alla Città che illuminava come un faro il mondo sotterraneo o, almeno, una parte di esso, i mercanti affrontavano un viaggio pieno di insidie, una navigazione sotto costa, per evitare che le navi si schiantassero contro i cristalli che affioravano dall’acqua o potessero imbattersi nelle piccole ma letali imbarcazioni dei pirati.
Tuttavia il percorso che Geber aveva scelto era, forse, ancor più pericoloso. Non era il mare la sua meta: una volta lasciata la città, il mago era intenzionato ad abbandonare i mercanti per dirigersi ad est. Con Leda avrebbe attraversato la valle oltre le Tre Sorelle, una lunga camminata in uno spazio aperto nel quale era difficile nascondersi. Era un rischio che dovevano correre prima di inoltrarsi nel labirinto seguendo le indicazioni della mappa. L’ultimo tratto era veloce e avrebbe portato i due ad incontrare gli schiavi in un luogo nascosto e segreto. Quel punto delle gallerie, non poteva essere raggiunto da nessuno che non possedesse il disegno dettagliato dei cunicoli, li, Geber sapeva che l’esercito non avrebbe potuto seguirli. Neppure i Segugi potevano inoltrarsi così tanto nelle gallerie senza smarrirsi all’interno. Era l’unico modo per non rischiare di attirare cacciatori verso gli schiavi, mettendo in pericolo anche la vita del ragazzo che aveva giurato a Leda di salvare.
 
La donna protese il braccio sino a sfiorare la mappa con la punta delle dita.
“Come l’hai avuta?”
Il rumore secco avvertì il mago di aver serrato con troppa forza la mascella.
“Ho questa mappa da molti anni.” rispose costringendosi finalmente a sollevare lo sguardo.
“Mi è stata consegnata da uno schiavo, ottant’anni fa.”
Ora gli occhi erano immersi in quelli di lei in attesa delle sue conclusioni, e quelle non tardarono ad arrivare: “E’ con questa che hai saputo dove trovare il tuo amico, l’hai usata per far sapere al consiglio dov’erano gli schiavi fuggiaschi?”
Dirette e spietate, le parole della donna parvero provenire dalla stessa coscienza del mago. Per anni Geber l’aveva imbavagliata nel timore che il dolore sordo che lo accompagnava da quel giorno potesse diventare più pungente una volta che la sua colpa fosse stata enunciata ad alta voce.
Sì, era quella stupida pergamena che, nelle sue mani, aveva condannato centinaia di persone. Un foglio che non aveva più aperto da allora, come se non guardarlo o, semplicemente, non parlarne potesse rendere meno reale il passato.
“Già, non li avrebbero mai trovati altrimenti.” si obbligò a proseguire anche se avrebbe voluto troncare quel discorso sul nascere. “Le gallerie sono immense e i ribelli sono gli unici a conoscere certi passaggi. Anche quella volta centinaia di persone erano fuggite sparendo nei cunicoli sotto il naso delle guardie, proprio come è accaduto pochi giorni fa, ma io sapevo dov’erano diretti, l’avevo letto nella mente del mio amico, e conoscevo, grazie a questa mappa, il percorso che avrebbero scelto. Gli schiavi potevano orientarsi con facilità nei  passaggi sotterranei, ma per rimanere nascosti sarebbero stati costretti a camminare per giorni, mesi, mentre i soldati potevano scegliere semplicemente la via più breve. Li hanno raggiunti in poco più di una settimana.
“Amauròs ha mai saputo che sei stato tu?”
“L’ha saputo ora.” rispose asciutto.
Un silenzio assordante riempì la stanza.
Leda si lasciò scivolare giù dal tavolo e si diresse verso il muro. Sollevò il braccio e, con la punta delle dita, andò a sfiorare la lampada a forma di aquila. Percorse con l’indice il becco e ne accarezzò il piumaggio di lamine di ferro; il calore che emanava non era eccessivo ed era piacevole sui polpastrelli.
“Perché non l’hai consegnata al Consiglio? Perché ce l’hai ancora tu?” chiese quasi distrattamente, mentre l’aquila di metallo pareva assorbire tutta la sua attenzione.
Geber sospirò.
“E’ un vantaggio sapere qualcosa che gli altri ignorano.”
Fece una lunga pausa e poi proseguì: “Allora mi è servita per farmi apprezzare dalle persone che contano in questo mondo. Era ciò che più desideravo, ma loro hanno mentito, nessuno ha mai saputo la verità sugli schiavi fuggiaschi, nessuno ha mai saputo della loro sorte,  nemmeno di quella dei Discendenti che erano con loro. Correvano solo voci, leggende, mentre per anni quegli uomini hanno continuato a morire nelle prigioni di Lapidia. Non ho saputo più nulla del mio amico, finché non l’ho visto seduto nella stanza del consiglio. Sapevo di un uomo cieco, un mago molto potente che ne era entrato a farne parte, ma non sapevo che Anedjib e Amauròs fossero la stessa persona.”
Leda si girò di scatto.
“Ma la mappa l’hai tenuta, hai pensato che potesse servirti ancora?”
Il mago chinò il capo e, come aveva appena fatto Leda con la lampada, anche lui si trovò ad accarezzare, con estrema delicatezza ed eccessiva attenzione, il foglio che aveva davanti, provando a distendere ogni più piccola piega, quasi fosse la cosa più importante da fare in quel momento. 
“Potrai biasimarmi più tardi, ora ringraziamo gli Dei di poter conoscere la via.” disse con un filo di voce continuando il suo meticoloso lavoro.
Leda annuì e, voltandogli le spalle, si diresse verso l’uscita.
“Aspetta!” la bloccò il mago.
Lei si girò di nuovo e vide Geber in piedi appoggiato al ripiano di legno. Entrambe le sue mani artigliavano con forza il foglio al quale solo un istante prima avevano dedicato tante attenzioni. Tanto che quello fu quasi sul punto di strapparsi.
“Aspetta, non andartene!” continuò.
La donna restò immobile, chinò il capo e attese che fosse lui a raggiungerla.
Geber ansimava, girò attorno alla scrivania e in pochi passi le fu di fronte, si fermò e gli occhi ne percorsero l’intera figura. Il cuore del mago era colmo di desiderio, si sentiva disperato, divorato dai rimorsi, ma era felice al tempo stesso, in modo irrazionale.
Forse tutto sarebbe finito quella notte: se li avessero scoperti, per loro non ci sarebbe stato scampo. A Leda non sarebbe stata concessa nessuna pietà e, senza di lei, nulla avrebbe avuto più alcun significato: sarebbe morto anche lui con la donna che amava in un modo o nell’altro, ma non in quel momento, non ancora. All’interno di quelle spesse mura tutto sembrava essersi fermato, il passato non c’era più, la sua colpa non c’era più,  congelata, bloccata in un tempo mai esistito. Ora c’erano solo loro due, il loro respiro era l’unico suono udibile nel piccolo studiolo, ma Geber aveva l’impressione che anche il resto del mondo si fosse zittito nell’attesa.
Leda continuava a tenere il capo chino, alcune ciocche di capelli erano sfuggite all’acconciatura, come spesso le accadeva, ed erano scivolate sulla fronte. Geber le scansò delicatamente e poi le sollevò il viso chinandosi su di lei.
Le loro labbra erano così vicine da sfiorarsi, ma lui non la toccò. Chiuse gli occhi e rimase immobile, assaporando il calore del respiro di lei sulla sua pelle.
“Resta qui oggi, resta  con me.” l’implorò in un sussurro.
“Geber… no!” Leda tremò e fece un passo indietro. “Devo andare… stanotte…”
L’uomo la interruppe sfiorandole le labbra con un dito.
“Manderò la mia serva a casa tua, prenderà tutto il necessario per il viaggio…”
“Geber… io…”
“Resta, ti prego!” supplicò ancora il mago, con un filo di voce. “Resta!”
 

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Capitolo 25
*** Cap. 25 Nella torre di Lunet ***


Cap. 25
 
L’uomo aprì gli occhi, sopra di lui incombeva un soffitto a cupola costruito con pietre squadrate disposte a cerchi concentrici. Lo fissò a lungo, era quasi ipnotico, e sbatté le palpebre ripetutamente, cercando di capire come fosse finito lì sotto. Sollevò il capo e, per un attimo, la vista gli si annebbiò, poi la macchia grigiastra che aveva davanti divenne più nitida mostrando altre file di pietre e mattoni disposti tutt’intorno a lui. Capì di trovarsi in una piccola stanza circolare, ma era diversa dalle celle di Lapidia: i muri erano puliti, non c’era traccia di umidità e una debole luce filtrava da una feritoia posta in altro. Il locale era completamente vuoto, non c’erano sedie, né un giaciglio, né oggetti di alcun genere. Solo una piccola porticina di metallo, dall’aspetto piuttosto solido, interrompeva la teoria infinita di mattoni, mentre una feritoia si apriva appena sotto la cupola.  Guglielmo si rese conto di trovarsi sdraiato sul pavimento proprio al centro della stanza, si alzò e, con un andatura incerta e barcollante, raggiunse l’apertura: era poco al di sopra della sua testa, ma abbastanza da impedirgli di vedere fuori. Si aggrappò con entrambe le mani allo stretto davanzale, tentò di sollevarsi, non vi riuscì. Allora puntò i piedi sul muro e si spinse verso l’alto, faticando non poco perché le pietre della parete erano lisce e i suoi calzari continuavano a scivolare, ma la sua determinazione alla fine ebbe successo: si trovava in alto, di certo in una torre. In lontananza riconobbe il golfo di Lunet, dove erano attraccate decine di navi lunghe e slanciate, le uniche in grado di navigare nel mare dei cristalli,
Guglielmo conosceva quel luogo e riconobbe la torre in cui si trovava. Ai piedi della costruzione si apriva un piazzale nel quale tutti i giorni si esercitavano i soldati di Lapidia. Le labbra dello schiavo si piegarono in una smorfia, mentre un’immagine si formava nella sua mente: centinaia di  uomini rinchiusi in possenti armature la cui foggia evocava animali fantastici, con corna e squame fatte di metallo. Pochi di loro possedevano poteri magici, ma, in ogni caso, era meglio non averci nulla a che fare.
Il capo dei ribelli si lasciò scivolare lungo il muro e si mise a sedere incrociando le gambe: non aveva bisogno di vedere altro. Ora sapeva abbastanza per capire di essere passato semplicemente da una prigione all’altra. Quello che non riusciva a capire era il perché, e come fosse arrivato in quella torre.
Ricordava le guardie e ricordava di essere stato prelevato dalla cella che divideva con il mago cieco. Era sicuro che lo avrebbero condotto fuori per giustiziarlo, ma prima ancora di uscire dai corridoi della prigione sotterranea era stato colto da vertigini, poi il buio; di ciò che doveva essere accaduto dopo non rammentava nulla.
Forse qualcuno lo aveva colpito? Si passo la mano tra i capelli, non sentiva dolore, quindi scartò questa ipotesi. Scosse il capo, non poteva essere svenuto così, senza una ragione. Qualche intruglio soporifero? No, non era possibile, non aveva toccato cibo, né bevande dal momento in cui lo avevano catturato.
Dopo aver riportato alla mente ogni singolo istante, da quando era stato rinchiuso in cella fino al suo risveglio nella stanza rotonda, dedusse che solo un Discendente poteva averlo addormentato senza  nemmeno toccarlo.
In un primo momento gli venne in mente Freda, lei era in grado di far perdere i sensi ad un uomo con i suoi poteri, ma per quale ragione lo avrebbe fatto? Sua madre poteva corrompere le guardie, manipolare le menti delle sentinelle di Lapidia così che, invece di giustiziarlo, lo avrebbero aiutato a fuggire, ma perché farlo trasportare privo di sensi fino al porto?
Guglielmo si rimise in piedi e prese a camminare in circolo rasentando le pareti.  Si sforzò di riempire il vuoto temporale nella sua testa, ma del viaggio fino a Lunet non aveva il minimo ricordo; eppure era lì, a due giorni di cammino dalla Città di Pietra, ed era chiaro che doveva esservi stato trasportato in segreto. Di certo non era stato il Consiglio a decidere di spostarlo dai pozzi di Lapidia a quella stanza indubbiamente più comoda. Non riusciva a capacitarsi del fatto che sua madre lo avesse strappato al boia solo per rinchiuderlo in una diversa prigione.
Si bloccò solo per voltarsi con uno scatto e ricominciare a camminare nella direzione inversa, sempre più nervosamente. E se non fosse stata Freda a salvarlo?
Poteva immaginare ogni singolo dettaglio del piano di fuga, come se lo avesse ideato egli stesso. Inscenare la morte di un prigioniero a Lapidia non era poi così complicato. L’esecuzione di quelli come lui non avveniva in pubblico: ci si sbarazzava degli schiavi ribelli senza troppo clamore, appena fuori dall’ingresso delle prigioni, nessuno si faceva domande, nessuno alzava lo sguardo su di loro.
Forse un altro cadavere era finito nella fossa comune al posto del suo. Lapidia brulicava di prigionieri dimenticati, uomini senza nome. Spesso erano pirati delle coste al di là del Mare dei Cristalli, predoni che assaltavano le navi coi rifornimenti provenienti dalla Città del Sole.
Guglielmo si morse il labbro colpendo l’aria con un calcio: avrebbe potuto ragionarci sopra per un’intera giornata, non sarebbe comunque riuscito a spiegarsi il fatto di trovarsi in quella maledetta stanza. C’era qualcosa che non riusciva ad afferrare.
Si passò una mano sulla fronte sudata.
Se qualcuno avesse voluto salvarlo, non avrebbe avuto ragione di portarlo lì. Freda lo avrebbe aiutato a raggiungere gli schiavi, mentre chiunque altro avrebbe solo voluto vederlo decapitato.
Si guardò intorno, sollevò gli occhi verso la cupola, seguendo con lo sguardo la linea continua delle pietre, e si lasciò sfuggire un lungo sospiro: quella situazione non aveva nessun senso e i suoi ragionamenti sembravano correre all’infinito senza trovare una soluzione, esattamente come i cerchi del soffitto.
Poi un rumore attirò la sua attenzione verso la porticina. Guglielmo si voltò speranzoso: qualcuno stava entrando e, forse, gli avrebbe dato le spiegazioni che cercava.
L’anta si aprì cigolando, un uomo robusto entrò nel locale; era calvo e aveva pelle molto chiara cosparsa di cicatrici di varie dimensioni e di un colore più scuro che risaltavano come orridi tatuaggi.
Le orecchie erano traforate da anelli metallici, e i suoi vestiti erano cuciti in modo rozzo assemblando pelli grinzose di animali delle specie più disparate. A giudicare dai molti fori sulla casacca, uno di questi doveva essere una Naeria, e forse le sue brache testimoniavano la fine ingloriosa di un pericolosissimo verme delle grotte.
Alla cintura portava diverse armi, una spada e un lungo pugnale, mentre un'altra spada era infilata in un fodero legato di traverso sulla schiena.
Guglielmo lo scrutò con curiosità, decisamente il suo carceriere non era un soldato; forse era un mercenario. Non sembrava un mago, ma non si poteva dire con certezza che non possedesse dei poteri: data la sua carnagione non poteva essere un figlio del sole e portava al collo un voluminoso amuleto che di certo qualche potere doveva averlo. Poi un lampo di speranza illuminò lo sguardo del prigioniero e un involontario sorriso gli increspò appena le labbra: Probabilmente il suo carceriere era un Cadoniano una condizione che Guglielmo poteva sfruttare a suo vantaggio. I Cadoniani erano considerati, dai Discendenti, di poco al di sopra degli schiavi: gente indegna che per sopravvivere era disposta a vendersi al maggior offerente. Gli uomini che non avevano la fortuna di entrare nell’esercito, o di diventare guardiani del carcere, mettevano le loro abilità con le armi, le uniche abilità che possedevano,  al servizio di chiunque potesse pagarle.
Per le donne non era diverso, erano differenti solo i servigi offerti. Si diceva che le ragazze di Cadonia fossero delle ottime amanti, tanto speciali quanto costose, anche se Guglielmo non aveva mai avuto una borsa abbastanza piena per accertarsi personalmente della verità di certe voci.
I suoi occhi seguirono l’uomo calvo che fece qualche passo avanti e posò una ciotola piena di brodaglia lattiginosa sul pavimento.
Guglielmo decise di interrogarlo: “Chi sei? Perché mi trovo qui?” domandò.
L’altro gli rivolse uno sguardo carico di disgusto, alzò le spalle e fece per andarsene. Guglielmo allora insisté: “Parla, chi è che servi? Un Discendente?”
“Io non so chi sei e perché ti trovi qui.” Rispose con voce arrochita.  “Sono stato ben pagato e mi sono impegnato a far si che il tuo soggiorno in questa torre sia lungo…” fece una pausa e protese il collo tozzo verso l’altro, ghignando. “…e piacevole.”  Concluse, scoppiando in una risata sguaiata.
Guglielmo diede un calcio alla ciotola, rovesciandola, e marciò verso il suo carceriere che sfoderò con rapidità la spada.
“Non avvicinarti o dovrò venir meno al mio dovere di tenerti in vita.” ringhiò.
Guglielmo si bloccò.
“Sei già venuto meno al tuo dovere.” disse, mentre il suo piede andava a calpestare ciò che restava della minestra sul pavimento. “Potrei lasciarmi morire di fame. Pensi che ti ricompenseranno se dovessi riconsegnare loro un cadavere?” lo provocò.
L’uomo calvo divenne più pallido e Guglielmo capì che temeva abbastanza colui o colei che serviva da non voler rischiare in alcun modo la vita del suo prigioniero.
Le labbra del capo dei ribelli si piegarono in un sorriso cattivo.
“Dimmi chi ti ha pagato. Cosa ti hanno dato? Pietre? Quell’amuleto che hai al collo?” urlò indicando il monile che gli pendeva sul petto muscoloso.
Il carceriere gli puntò la lama allo stomaco.
 “Non risponderò alle tue domande. Se vuoi morire di fame, sei libero di farlo.” affermò mostrandosi risoluto, e arretrò verso l’uscita.
La porta si chiuse con un frastuono che rimbalzò sui muri curvi della stanza.
Guglielmo restò a fissarla per un po’, il respiro spezzato e i pugni chiusi, poi la rabbia e la frustrazione esplosero dentro di lui; ne fece di nuovo le spese la ciotola sul pavimento che, dopo l’ennesimo calcio, finì per spaccarsi contro la parete.
Sfogata la sua rabbia, si sedette con la schiena appoggiata al muro e riprese i suoi ragionamenti: se fosse riuscito a comprendere quello che era veramente accaduto, avrebbe trovato più facilmente un modo per fuggire.
Provò a mettere insieme tutte le informazioni che aveva, anche se avrebbe preferito affrontare un esercito a mani nude piuttosto che procurarsi un gran mal di testa ripercorrendo con la memoria ogni singola azione, sua e degli altri.
In un primo momento aveva pensato che fosse stato Amauròs a tradirli, poi vedendolo nella sua stessa cella si era ricreduto. Ora, però, il dubbio era tornato a perseguitarlo: forse la presenza del mago nella prigione era solo una messinscena; forse era davvero lui il traditore.
Si passò la mano sul mento riportando alla mente la loro conversazione a casa di Freda.
Era stato Amauròs ad avere l’idea del crollo. Ranuccio, aveva gettato l’ampolla con l’Acqua di Nun secondo i piani, ma l’arrivo delle guardie sul ponte l’aveva costretto a lasciar cadere il potentissimo liquido prima di ricevere il segnale concordato, prima di sapere con certezza che tutti gli schiavi avevano attraversato il ponte di ferro, mettendosi al riparo dalla frana.
Solo qualche momento di differenza che però poteva aver significato la vita o la morte per molti di loro.
“Qualche momento…” ripeté meccanicamente. Era certo che il segnale sarebbe arrivato di lì a poco, ma in quegli attimi concitati aveva dovuto prendere una decisione della quale, ora, non era più così sicuro.
Solo pochi istanti, il tempo di un respiro.
Guglielmo si chiese quanta strada potesse percorrere un uomo in fuga nel tempo di un respiro.
Se Ranuccio non avesse esitato prima di gettare l’ampolla, se avesse  obbedito ad Amauròs, in quanti sarebbero stati travolti? Forse ucciderli era nelle intenzioni del mago cieco, del resto non aveva mai mostrato simpatia per la loro causa.
“No, no, maledizione!”  mugugnò fra i denti, constatando quanto i suoi ragionamenti fossero privi di fondamento. Aveva dato troppe cose per scontate, soprattutto la fedeltà dei suoi uomini, ed ora voleva addossare ad Amauròs la colpa di ciò che era accaduto.
Scosse il capo e si afferrò la testa con entrambe le mani.
No, il traditore non poteva essere lui, Amauròs non avrebbe mai rischiato volontariamente la vita del suo servitore, inoltre i soldati che erano arrivati alla cava dovevano essersi preparati da tempo ad intervenire; mentre il drappello di guardie che li aveva arrestati sembrava essere stato allertato all’ultimo momento. Gounias in persona era dovuto intervenire per bloccare il mago cieco che, altrimenti, avrebbe potuto sopraffare facilmente gli uomini privi di potere magico che gli erano stati mandati contro, forse gli unici rimasti in città dopo che il grosso delle guardie era stato inviato a catturare i fuggitivi. Chiunque fosse il traditore conosceva solo una parte del piano.
Un sapore amaro gli riempì la bocca quando il castello di sospetti, che continuava a voler costruire su Amauròs, si sgretolò definitivamente di fronte all’evidenza: era stata tutta colpa sua.
Il mago l’aveva avvertito di mettere al corrente del loro progetto solo una persona fidata, perché si occupasse di fare il segnale una volta che gli schiavi fossero stati al sicuro, ma nessun altro avrebbe dovuto sapere dell’Acqua di Nun. Amauròs aveva preteso che persino Freda uscisse dalla stanza quando ne avevano discusso, ma lui, ingenuamente, aveva riunito alcuni dei suoi uomini informandoli delle loro intenzioni; inoltre, seguendo il consiglio di Freda, aveva chiesto loro di spargere la voce fra i ribelli, immaginando che sarebbero stati più prudenti se resi consapevoli del pericolo. Non era facile mantenere l’ordine avendo a che fare con centinaia di persone, comprese donne e bambini. Qualcuno avrebbe potuto attardarsi vicino all’ingresso e rischiare la vita.
Era stato stupido e la sua imprudenza poteva condannarli tutti. Fortunatamente li aveva informati del piano solo un’ora prima di recarsi sul ponte. Ecco perché le guardie avevano raggiunto con facilità la grotta, ma non erano arrivati in tempo per impedire a Ranuccio di lasciar cadere l’Acqua davanti all’entrata.
Guglielmo picchiò il pugno sul pavimento di pietra. “Chi sei?” mugugnò a denti stretti.
Per colpa della sua sconsideratezza in centinaia avevano saputo del piano di Amauròs, cento possibili colpevoli fra cui scegliere.
Si alzò e riprese a camminare in cerchio. Doveva escogitare un modo per fuggire: non potendo essere certo dell’identità del traditore, non poteva escludere che fosse fra quelli che conoscevano la direzione che avrebbero dovuto prendere gli schiavi e poteva averla riferita al consiglio. Era difficile trovare i ribelli lungo il dedalo infinito di cunicoli, persino per i segugi, ma i soldati avrebbero potuto raggiungerli una volta usciti allo scoperto. Sarebbero passati per mare, avrebbero preso il largo per bloccare gli schiavi alle Zanne del Drago.
Corse di nuovo verso la feritoia e, con un balzo si aggrappò al davanzale, le navi non sembravano pronte a partire, ma forse attendevano il momento giusto per salpare; forse stavano solo lasciando agli schiavi il tempo di raggiungere il passaggio per poi tagliare loro la strada.
Doveva assolutamente uscire da quella torre: quando le imbarcazioni avrebbero lasciato il porto, lui doveva essere a bordo.
Cominciò a considerare l’idea folle di infiltrarsi fra i soldati, per guadagnare un passaggio per mare, e raggiungere anche lui le Zanne del Drago. Avrebbe approfittato di Livio, un amico che si era fatto fra quegli uomini e che gli doveva un grande favore. Lui l’avrebbe aiutato a salire su una delle navi. Non aveva altra scelta, del resto non poteva certo provare a bloccare un esercito da solo, si sarebbe fatto uccidere inutilmente.
Provò di nuovo a guardare fuori, dall’alto la piccola città portuale di Lunet sembrava un labirinto. Le case, come piccoli cubi, erano disposte secondo una scacchiera. Le porte delle abitazioni si affacciavano su un reticolo ordinato di stradine strette, tutte uguali. Affollate e chiassose di giorno, buie e pericolose di notte. Livio abitava in una di quelle piccole case.
Guglielmo tornò a sedersi sul pavimento, sbuffando rumorosamente.
Aveva deciso cosa fare una volta raggiunto il porto, ma mancava un tassello fondamentale al suo piano di fuga: uscire da quella torre.
Sollevò lo sguardo verso la feritoia, era troppo stretta, e lui era stato spogliato di ogni suo attrezzo: i suoi pugnali, e persino alcune pietre magiche che portava sempre con sé per ogni evenienza, pur non avendo il potere di usarle.
La mente tornò al carceriere e alla sua espressione quando aveva minacciato di lasciarsi morire di fame. Era certo che quell’uomo avrebbe fatto di tutto per tenerlo in vita, persino commettere qualche imprudenza. Per un attimo lo immaginò tentare di fargli ingoiare a forza l’orrenda brodaglia. Sorrise, mentre i suoi occhi contemplavano la macchia scura sul pavimento; rovesciare il pranzo non era stato molto saggio: i morsi della fame, e le proteste rumorose del suo stomaco, si facevano sempre più insistenti. Ben presto avrebbero assorbito ogni suo pensiero; già ora non riusciva a togliersi dalla mente il celebre brodo di Carillo preparato da Bertone, gli sembrava persino di sentirne il profumo provenire dai frammenti della ciotola disseminati per tutta la stanza. Si passò la lingua ad inumidire le labbra riarse. Doveva escogitare un buon piano, e ricattare la guardia minacciando di lasciarsi morire di fame non lo era. Per convincere il suo carceriere della serietà delle sue intenzioni, avrebbe dovuto rinunciare a ben più di un pasto, ed era certo che davanti alla prossima scodella piena di cibo, la sua forza di volontà sarebbe venuta meno.
La sua lingua schioccò nervosamente contro il palato, nel momento in cui si vide costretto ad ammettere che, persino quella stupida minestra sparsa sul pavimento, stava diventando una tentazione irresistibile. Non era mai stato bravo a resistere alle tentazioni e, anche se ci fosse riuscito per un po’, cosa  avrebbe ottenuto? Si sarebbe solo indebolito troppo prima di cedere con disonore davanti ad una tazza di brodo.
Nonostante ciò era sempre più convinto che, per uscire da quella prigione, doveva spaventare il suo carceriere abbastanza da distrarlo, coglierlo impreparato, e poi essere più veloce di lui. E per farlo, forse, non sarebbe stato necessario arrivare a debilitarsi.
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 26
*** Cap. 26 Terrore nei cunicoli ***


Cap 26 Terrore nei cunicoli

Erano giunti da circa mezzora nel Labirinto, gli schiavi chiamavano così quei tunnel; Kore si guardò attorno, sapeva di esserci già stata: infatti era lì che aveva incontrato Ranuccio per la prima volta, ma i cunicoli non le erano familiari, quello che aveva percorso mesi prima era un passaggio stretto e alto, simile al corridoio di una catacomba. Ora invece si trovava di fronte a delle vere e proprie gallerie, dei tortuosi budelli di roccia scura che si ramificavano in tutte le direzioni, persino in altezza come quelli di un gigantesco formicaio, inerpicandosi a spirale o sprofondando fino a perdersi nelle viscere della terra in pozzi che sembravano non avere fondo. Kore aveva l’impressione di continuare a girare in tondo. La fila si era allungata; in alcuni punti riuscivano a passare al massimo due persone alla volta, e i carretti dovevano essere sollevati e trascinati verticalmente, mentre il loro contenuto veniva trasportato a braccia. Lei aveva sempre detestato i luoghi stretti e soffocanti, così, dopo circa un’ora di cammino, quando le gallerie tornarono ad allargarsi, tirò un sospiro di sollievo.
«Bene, siamo arrivati all’autostrada!» esultò.
Marietta si voltò di scatto, aveva le labbra serrate e l’espressione di rimprovero dipinta sul suo volto bastò a smorzare l’entusiasmo della ragazza. Kore non capiva cosa avesse detto di così terribile e istintivamente iniziò a cercare l’approvazione delle persone che camminavano accanto a loro. Nessuno però le prestò attenzione. Osservò i loro visi: erano tutti tesi, addirittura più di Marietta, e alcuni uomini tastavano la roccia con il palmo delle mani scuotendo il capo.
«Sono lisce, non è un buon segno. Questo non è affatto un buon segno.»  sentenziò, alla fine, uno di loro.
Anche Kore, trascinando con sé il piccolo Giona, si avvicinò alla parete e sfiorò la superficie. L’uomo aveva ragione: la pietra era levigata, sembrava consumata da secoli di sfregamento e le volte erano regolari come se fossero state scavate dalla mano dell’uomo.
C’erano poi delle striature orizzontali che Kore seguì con lo sguardo fin dove la luce le permise di vedere: percorrevano la galleria in tutta la sua lunghezza come impronte di sci sulla neve.
«Qualcosa è passata di qui.»
La voce di Marietta la raggiunse alle spalle.
«Qualcosa?» Kore guardò la sua amica. La giovane donna era pallida e tremava leggermente. Dischiuse le labbra, ma dalla sua gola non uscirono altri suoni, era come se non trovasse il coraggio di dare un nome a ciò che aveva lasciato quella traccia nel cunicolo.
Fu qualcun altro a dare voce al suo terrore: «I vermi.» Urlò un uomo sulla sessantina e, come un eco, quella parola si moltiplicò all’infinito.
Kore s’irrigidì, mentre nelle gallerie calava il silenzio; le ruote dei carretti smisero di cigolare e i bambini cessarono improvvisamente il loro allegro vociare. L’inevitabile tragedia stava per abbattersi su di loro e, per alcuni istanti, tutti rimasero sospesi, in silenziosa attesa, come nei secondi che separano il lampo dal tuono. Il gelo si impossessò di Kore, la giovane lo sentì penetrare attraverso la pelle, nei muscoli, sentì il respiro spezzarsi e il freddo artiglio del terrore ghermire le sue ossa.  
I ‘vermi’, quel grido era suonato come un epitaffio, il punto di non ritorno, forse la fine del loro viaggio.
«Scappate!» s’udì ancora e, stavolta, era una donna ad urlare all’inizio della colonna, poi alla sua voce se ne aggiunse un'altra, quella di un uomo: «Nei cunicoli più piccoli, entrate nei cunicoli stretti!»
Kore si sollevò sulla punta dei piedi, ma riuscì a vedere solo delle braccia che si agitavano convulsamente, indicando il tratto di tunnel che avevano appena percorso.
Tentò di voltarsi, ma non ci riuscì: non poteva distogliere lo sguardo dal fondo del tunnel, l’idea di dare le spalle a ciò che stava arrivando era semplicemente inconcepibile.
Non aveva mai visto i vermi delle grotte, ma li conosceva attraverso i racconti.
Dalla prima volta che li aveva sentiti nominare, quando si era guardata le scarpe cercando qualche fastidioso essere strisciante, era passato molto tempo; da allora aveva imparato molto, sapeva che che i vermi erano dei mostri, animali enormi con una bocca tanto grande da contenere dieci uomini e il corpo viscido coperto di una sostanza corrosiva che permetteva loro di muoversi con facilità attraverso la roccia. Aveva imparato a temerli e, qualche giorno prima, aveva persino sognato di essere attaccata da uno di loro; un incubo dal quale si era risvegliata urlando.
 
Indubbiamente era stata contagiata dall’ansia che percepiva nei suoi compagni di viaggio, i quali, anche se non  avevano mai nominato quegli esseri da quando avevano lasciato la cava, continuavano a sussultare ogni volta che udivano un rumore o vedevano qualche impronta sospetta nella pietra.
Tuttavia lo spavento che Kore aveva provato nel suo sogno era nulla al confronto di ciò che sentiva in quel momento. Ora che l’incubo si stava materializzando davanti ai suoi occhi, non provava affatto paura, non come aveva immaginato, quello che sentiva era qualcosa di peggio. Era una sensazione che non aveva mai sperimentato, neppure quando si era ritrovata sola in quel mondo ostile.
 
Fissò la fila di centinaia di schiavi che la precedevano, erano quasi immobili in un ambiente ovattato e silenzioso. Si rese conto che ciò non poteva essere reale; di certo il suo cervello aveva smesso di funzionare normalmente, era l’unica spiegazione a quello che i suoi occhi stavano vedendo.
Sentì la propria fronte inumidirsi. Perle di sudore gelato miste a lacrime iniziarono a rigarle il volto mentre i battiti del cuore impazzito pulsavano dolorosamente nella sua testa.
Il verme si avvicinava strisciando; in un primo momento per Kore fu difficile distinguerne la forma, ciò che vide fu solo un’ombra nera in fondo alla galleria che avanzava risucchiando tutta la luce. Il tunnel diventava sempre più buio, ma non era la luce a spegnersi, bensì gli schiavi che portavano le lucerne ad essere travolti da quell’essere gigantesco: tutti gli uomini che non avevano avuto il tempo di entrare nei condotti laterali finivano schiacciati contro le pareti del tunnel assieme a carretti e vettovaglie.
La bestia era grande quasi quanto il cunicolo. Kore fissò inebetita l’ombra che si avvicinava sempre più; poi i suoni tornarono a riempire le sue orecchie, grida terrorizzate echeggiarono nella galleria e, accavallandosi le une alle altre, si sommarono al frastuono provocato dagli schianti di tutto ciò che il verme travolgeva lungo il suo percorso, in una spaventosa cacofonia. Durante quegli infiniti istanti decine di schiavi stavano morendo straziati sotto il suo peso, trascinati contro le rocce o consumati dall’acido che il verme lasciava sulla sua strada, e, tuttavia, di fronte a quello scempio l’unica cosa che Kore riusciva a pensare, era a quanto quel muro fatto di persone sarebbe riuscito a rallentare la creatura che stava per raggiungerla.
Il terrore l’aveva resa egoista, guardò uomini, donne e bambini, e vide solo cento ostacoli tra lei e la fine, finché si rese conto che la barriera di corpi stava per diventare pericolosa quasi quanto il verme stesso: centinaia di schiavi avevano iniziato a correre verso di lei, urlando e spintonandosi a vicenda; come un’onda tornarono a riversarsi nel tratto di galleria che avevano appena percorso.
«Via! Togliamoci da qui!» Marietta la strattonò. «Andiamo, andiamo!» urlò ancora, mentre si allontanava.
Fuggirono tutti: gli uomini che poco prima si erano avvicinati alla parete della galleria studiandone la conformazione e persino quelli che trasportavano il ferito sulla barella. Sfrecciarono davanti agli occhi di Kore come se Bertone fosse diventato improvvisamente leggero. Anche le donne presero a correre e, nel farlo, lasciarono cadere a terra le loro anfore di terracotta che si ruppero in mille pezzi. L’acqua si rovesciò sul selciato formando una ragnatela di rivoli scuri che arrivarono a lambire i piedi della ragazza.
Lei abbassò lo sguardo, vide Giona che era ancora aggrappato alla stoffa della sua gonna e si chinò per prenderlo in braccio. Non poteva certo trascinarselo dietro zoppicante, tuttavia la sua mente, confusa dal terrore, continuava a mostrarle una realtà deformata: il tempo era come dilatato e i suoi movimenti sembravano rallentati così come le persone che le correvano incontro. Guardò la propria mano tendersi verso il bambino che la fissava con gli occhi spalancati e lucidi. Vide le sue pupille dilatate dal terrore e riuscì a notare persino alcuni strappi nel suo vestito, registrando i particolari più insignificanti come se stesse assistendo alla proiezione di un film a rallentatore.
Non potendo credere ai propri sensi si affidò all’istinto e, col piccolo Giona in braccio, prese a correre all’impazzata: doveva allontanarsi, doveva essere più veloce della marea umana che la stava per travolgere.
«Il passaggio stretto, il passaggio stretto!» farfugliò fra il ticchettio dei suoi denti che non smettevano di battere. Superò la prima apertura, ma non riuscì a fermarsi in tempo e continuò a correre, ormai senza una meta. La vista era annebbiata dalle lacrime, mentre intorno a lei le grida e il tumulto della folla terrorizzata si facevano sempre più vicini.
La sua corsa forsennata si arrestò in modo brusco quando, dopo aver urtato col piede un fagotto raggomitolato in terra, cadde malamente in avanti.
Nel tentativo di proteggere Giona, che era sempre aggrappato al suo collo, Kore si appoggiò con tutto il peso su un braccio, il polso scricchiolò procurandole una dolorosa fitta, ma riuscì comunque a sostenerla abbastanza perché lei potesse gettarsi su un fianco ed evitare di finire proprio sopra al bambino.
Fu rapidissima a rialzarsi e a rimettere in piedi anche Giona, tuttavia, nell’attimo in cui stava per riprendere la corsa, riconobbe Marietta nel fagotto che aveva appena calpestato.
La sua amica era sdraiata a faccia in giù, si proteggeva la testa con le mani, ma era svenuta. Kore, però, non seppe dire se avesse perso i sensi durante la caduta, o, una volta in terra, fosse stata ferita dalla folla impazzita, ma sapeva per certo che, se l’avesse lasciata li, non sarebbe sopravvissuta: gli schiavi, continuavano a passarle accanto senza nemmeno vederla, scavalcandola o inciampando su di lei. Doveva fare qualcosa per aiutarla, lasciò scivolare a terra il bambino e, dopo averlo spinto al riparo, nascondendolo alle sue spalle, Allargò le braccia e si parò tra i suoi amici e la folla spaventata, gesticolando e urlando nel tentativo di segnalare la loro presenza nel mezzo della galleria.
 «Attenti, no, fermi, così la ucciderete!» ma, nonostante gridasse con tutto il fiato che aveva, Kore non riuscì a farsi sentire, quindi si voltò e, inginocchiandosi accanto a Marietta, prese a scuoterla con forza.
«Marietta, Marietta, svegliati, ti prego!» continuò a chiamarla, ma l’altra non si mosse. «Andiamo, svegliati! Ci ammazzeranno, svegliati, per favore.»
Accanto a loro decine di sandali colpivano il terreno facendo schizzare in aria il pietrisco, e le stoffe colorate delle lunghe gonne delle donne schiaffeggiavano il volto della ragazza. Da quella posizione Kore non poteva vedere altro, non vide neppure il piede che, urtandola, le provocò una dolorosa fitta alle costole.
 
La giovane si portò le mani nei capelli, sarebbe morta schiacciata dalla folla ancor prima di essere raggiunta dalla bestia, pensò, e le sue grida si tramutarono in un pianto disperato. Afferrò il braccio di Giona che era in piedi di fronte a lei e lo costrinse a chinarsi, facendogli scudo col suo corpo. Sentì ancora un colpo sulla schiena, poi un altro: una donna le era caduta addosso, ma si era immediatamente rialzata per riprendere la sua corsa.
Dopo alcuni minuti che le parvero un’eternità le grida iniziarono a farsi sempre più deboli e lontane, Kore sollevò lo sguardo e vide gli ultimi schiavi sparire verso il fondo della galleria.
Il nodo alla gola si strinse fino a soffocarla e, quando Kore provò a deglutire, si accorse di non avere più saliva. L’idea di essere rimasta sola si fece strada nella sua mente, tentò di cacciarla, di immaginare che tutto ciò non fosse vero: non voleva credere di trovarsi in quella grotta nel cuore della terra. Non poteva accettare il fatto di avere alle spalle un mostro che nemmeno nei suoi incubi peggiori avrebbe mai potuto immaginare. Esplose in una risata isterica.
«Io non sono qui. Tutto questo non è vero. Io sono a casa mia.» strillò con rabbia. Come se qualcuno potesse udirla e riportarla nel suo mondo. Forse sua mamma l’avrebbe sentita urlare nel sonno e sarebbe corsa a svegliarla. La giovane immaginò di ritrovarsi nel proprio letto, come era accaduto tante volte, quando, dopo aver avuto un incubo, si risvegliava fradicia di sudore, con accanto Fabian. Il suo fratellino, seduto con le gambe incrociate sopra la coperta di lana,  la fissava con gli occhi spalancati, mentre sua madre la stringeva e le accarezzava le guance per tranquillizzarla.
 
Ogni volta che Kore o Fabian si lamentavano nel sonno, Luisa Johnson si precipitava nella loro stanza e li coccolava, restando lì anche per ore, abbandonandosi a lunghe chiacchierate fino a dimenticare che la mattina successiva avrebbe dovuto alzarsi presto per andare a lavoro.
Le lacrime ormai scivolavano inarrestabili sulle guance della ragazza.
«Dio, perché non riesco a svegliarmi? Io non sono qui! Non voglio.» urlò ancora. «Mamma, mamma!»
La mamma c’era sempre quando era spaventata, doveva esserci, Kore si era illusa che sarebbe stato così per sempre, anche se, negli ultimi anni, lei stessa aveva iniziato a sciogliersi stizzita dagli abbracci della donna: non era più una bambina, non  le piacevano certi gesti d’affetto, non di fronte a Fabian. Si detestò per questo: ora avrebbe dato tutto per quelle carezze, ma davanti a lei non c’era sua madre, c’era solo  Giona, un bambino indifeso che la guardava senza parlare, mentre i suoi grandi occhi spaventati imploravano un aiuto che Kore non poteva dargli.
 
«Cosa vuoi da me?» strillò con stizza, pentendosi immediatamente di quella reazione. Serrò le labbra per pochi istanti, ma subito dopo riprese a ridere, una risata isterica mista singhiozzi che scossero il suo petto fino a farle male. Quello che stava accadendo non poteva essere altro che un incubo, se ne convinse, doveva essere uno di quei sogni in cui si è certi di cadere nel vuoto, e sembra non esserci via d’uscita finché non ci si sveglia e ci si rende conto di quanto fosse infondata la paura provata.
Rise ancora, scuotendo il capo, era tutto così assurdo, o, forse, era lei che voleva credere che lo fosse perché era l’unico modo per non impazzire.
Cosa doveva fare? Non riusciva nemmeno a muoversi, le gambe sembravano essersi incollate alla roccia.
«Aiuto!» quella parola uscì dalle sue labbra come un soffio.
 
Lei era una ragazzina che sapeva solo preoccuparsi della propria acconciatura e che aveva paura dei ragni; erano quelli i mostri che una ragazza poteva immaginare di affrontare alla sua età.
Guardò Marietta: era stata il suo unico punto di riferimento in quel mondo ostile, ne aveva bisogno, si era aggrappata a lei come alla sorella maggiore che non aveva mai avuto e, anche se le aveva più volte disubbidito, la sua presenza le aveva dato la forza di non arrendersi. Ora però, vedendola stesa in terra priva di sensi, la giovane si sentì davvero sola.
«No, non può essere, non moriremo. Non può finire così!» pigolò rivolgendosi ancora a Giona, e poi di nuovo ruggì con rabbia colpendo l’aria con i pugni. «No! Tutto questo è solo un sogno, un maledettissimo incubo, ora mi sveglierò a casa mia, nel mio letto e tutto questo non ci sarà, nemmeno tu ci sarai.» Continuò scuotendo il piccolo per le braccia.
Urlò per diversi minuti, singhiozzò e poi gridò di nuovo, sempre più forte, finché un lamento la zittì: era il pianto di una donna e proveniva da dietro di lei.
Kore era certa che alle sue spalle ormai dovesse esserci solo il verme. Si voltò lentamente, domandandosi il perché di quei gemiti, ma quando fu sul punto di scoprirlo le sue palpebre si serrarono con forza: non riusciva a guardare. Continuò a stringere gli occhi nell’assurda illusione che, se non l’avesse visto, il verme non avrebbe potuto nuocerle, poi però si accorse che al pianto si accompagnavano una serie di colpi e voci concitate e capì che c’era ancora qualcuno li vicino, c’erano uomini. Forse non tutto era finito.
 
S’impose con non poca fatica di aprire gli occhi e istintivamente guardò verso l’alto: il mostro era lì, ad una decina di metri da lei. Kore rabbrividì: era addirittura più spaventoso di quanto si aspettasse.
Alcune torce erano state abbandonate al suolo dagli schiavi in fuga e la loro debole luce tremolante si rifletteva sul corpo della bestia. La sua carne era scura e la sostanza acida che lo ricopriva rendendolo lucido lo faceva somigliare ad una vena gonfia e pulsante, mentre contraendo e rilassando il corpo si spostava in avanti.
Kore strinse con più forza il bambino, e, pur rendendosi conto di fargli male, non allentò la presa. Giona da parte sua non si sottrasse a quell’abbraccio: stringersi l’un l’altra li faceva sentire meglio.
«Ce la faremo.» mormorò la ragazza. «Vedrai, Giona, ora se ne andrà.»
Le parole le scivolarono dalle labbra, le pronunciò inconsciamente e continuò a ripeterle come una cantilena: «Ora se ne andrà. Ci salveremo, se ne andrà, vedrai.» 
Kore aveva gli occhi spalancati in modo innaturale, rapiti dalla raccapricciante immagine che aveva di fronte. Il verme aveva una bocca enorme, una cavità ad imbuto piena di sottili filamenti biancastri, che, muovendosi, ricordavano il placido ondeggiare di alghe in una palude.
Avanzava lento e pesante a causa della sua mole e scuoteva la testa come se qualcosa lo tormentasse, come se provasse dolore.
La scena riempì per qualche istante la vista della ragazza, poi il pianto attirò di nuovo la sua attenzione e lei si costrinse a distogliere lo sguardo dalla bestia.
Vide una donna in piedi davanti al mostro,  era lei che piangeva afferrandosi i capelli lunghi e lisci che ricadevano disordinati sulle spalle. Era giovane e minuta, e non era sola: di fronte a lei, schierati uno accanto all’altro, c’erano una quindicina di uomini, alcuni dei quali, armati di lunghi bastoni appuntiti, cercavano di tenere a bada il mostro.
Continuavano ad infilzarlo, ma la pelle spessa lo proteggeva dai loro attacchi. Kore si rese conto di quanto fossero inutili quelle semplici armi per fermare una creatura così grande, ma capì che qualcos’altro infastidiva l’orrenda bestia, e non erano i bastoni: tra quegli uomini, nonostante fossero di spalle, Kore riconobbe Silas e alcuni dei giovani Discendenti che avevano contribuito a salvare Bertone. Questa volta erano solo in quattro e tenevano le braccia sollevate con il palmo delle mani rivolto verso il verme.
Di nuovo, Kore li sentì produrre un suono acuto e prolungato simile ad un fastidioso fischio. I quattro giovani stavano usando la loro voce per combattere la creatura, come avevano fatto all’inizio del loro viaggio, quando, attraverso un suono simile, avevano liberato lo sfortunato cuoco dalle catene.  La magia sgorgava dalle loro bocche spalancate e il loro canto si sommava al lamento della donna che, nel frattempo, si era fatto sempre più disperato.
Kore li osservò stupita: qualsiasi cosa stessero facendo quei ragazzi, doveva essere piuttosto dolorosa per la creatura, che infatti iniziò ad agitarsi e a contorcersi, pur non arrestando la sua avanzata, anzi, infastidita da quel tono vibrante, divenne, se possibile, ancora più aggressiva, come può esserlo un animale ferito.
Incastrato tra le pareti del cunicolo coi suoi spasmodici movimenti iniziò a colpire la roccia causando il crollo di parti della volta.
Grossi massi piombarono al suolo, Kore, che era ancora come paralizzata proprio al centro della galleria, si scosse, e cercò di ripararsi trascinandosi verso la parete. Si spostò solo di pochi metri, gattonando, dato che le gambe non volevano saperne di sostenere il suo peso.
Riuscì a portare con sé Giona, ma fu costretta ad abbandonare Marietta distesa a terra proprio sotto la pioggia di detriti. Non poteva far nulla per salvarla, e, quando un grosso masso si staccò dal soffitto proprio sopra alla donna, sentì che era finita. La roccia precipitò con un rumore assordante sollevando attorno a Marietta una nuvola di polvere che per qualche istante la nascose alla vista.
Kore gridò e protese un braccio verso l’amica, mentre con l’altro braccio continuava a stringere il bambino che teneva il viso affondato tra le pieghe della sua veste. Il cuore della ragazza picchiò dolorosamente fra le costole e lei ebbe la sensazione che stesse per saltar fuori dal suo corpo assieme a tutto il resto. Era come se una mano le avesse afferrato i polmoni e le viscere strappandole via con violenza. Si sentì svuotata, priva di forza, null’altro che un inutile involucro, finché la polvere si diradò abbastanza da permetterle di vedere che Marietta non era stata colpita dal masso, i cui frammenti ora giacevano sparpagliati a pochi centimetri dalla sua testa.
Solo allora Kore tornò finalmente a respirare e, voltandosi, vide attraverso il velo delle lacrime uno dei ragazzi che si separava dagli altri  per avvicinarsi alla donna che piangeva e che ora era scivolata in ginocchio.
Posandole le mani sulle spalle quello prese a scuoterla chiamandola per nome:
«Elisia, vieni via, ti prego, vieni con me!» cercò di convincerla a mettersi in salvo, e dopo il suo ennesimo rifiuto l’afferrò per un braccio e, sollevandola di peso, la trascinò lontano dal verme verso il punto in cui Marietta era riversa sul terreno. Kore strinse le dita sulla stoffa della tunica del bambino e trattenne il fiato in attesa che il ragazzo, fino a quel momento troppo preso dal suo incantesimo, si accorgesse di loro.
Quando raggiunse Marietta, il giovane si bloccò, la fissò stupito per qualche istante e, immediatamente dopo, individuò anche Kore e il bambino accucciati vicino alla parete. Come la ragazza sospettava, fra le urla di Elisia, il frastuono dei massi che precipitavano e il canto dei Discendenti, la loro presenza nella galleria non era stata notata, nonostante Kore avesse gridato a squarciagola per tutto il tempo.
Gli altri schiavi si erano ormai allontanati o nascosti nelle fessure della roccia, mentre il piccolo gruppo di maghi e gli uomini coi bastoni  si erano attardati per dare agli altri il tempo di mettersi in salvo. 
Il giovane Discendente, del quale Kore non conosceva il nome, si chinò sulla donna a terra trattenendo l’altra per un braccio. Resosi conto che Marietta era solo svenuta, provò a sollevarla passandole  la mano libera dietro la schiena.
Kore si tranquillizzò e sorrise. Sentì che ora le sue gambe le avrebbero di nuovo obbedito, e lei avrebbe potuto finalmente fuggire come gli altri. L’idea di abbandonare Marietta lì in terra l’aveva bloccata, non aveva la forza portarla in salvo da sola, ma era come se il senso di colpa alimentato dalla paura le avesse impedito di andare più lontano di qualche passo.
Il mago strinse Marietta appoggiandole la testa sulla propria spalla però, dovendo trattenere Elisia con una mano, faticò a sollevarla. Kore se ne rese conto e, lasciando Giona accucciato vicino alla parete, sfidò le pietre che ancora cadevano dalla volta per avvicinarsi all’uomo con l’intento di aiutarlo.
Fu in quei pochi istanti che avvenne l’irreparabile: Elisia si divincolò e riuscì a sciogliersi dalla presa del giovane che si voltò di scatto con lo sguardo atterrito e il braccio teso allo spasimo nel vano  tentativo di afferrarla di nuovo. Saltò in piedi e provò a inseguirla, ma lei fu troppo rapida, e, prima che qualcuno riuscisse a fermarla, si precipitò verso l’orrenda creatura. Il verme parve comprendere le sue intenzioni, la sua enorme bocca si spalancò ulteriormente, mentre lei gli correva incontro.  Il mostro non dovette fare altro che accoglierla all’interno delle sue fauci quando quella vi si gettò dentro con un balzo.
Kore urlò colma di orrore per quel gesto che rivelava tutta la disperazione di una donna che di certo aveva appena perso una persona cara, forse un figlio, o il marito e, nonostante la determinazione del giovane Discendente a salvarle la vita, aveva ormai deciso di riunirsi ai suoi morti.
A Kore non rimase che guardarla con gli occhi pieni di lacrime mentre si abbandonava volontariamente al suo destino e si lasciava avviluppare dai sottili tentacoli, come da un abbraccio. Poi le centinaia di lingue spinsero il corpo inerte fino all’interno della cavità.
Gli uomini con i bastoni, dopo alcuni istanti di smarrimento, ripresero ad attaccare con rabbia e disperazione, colpendo il verme alla cieca e gridando tutta la loro frustrazione. Fu tutto inutile: il mostro  reagì ai colpi gettandosi in avanti. La sua testa spazzò il cunicolo e picchiò violentemente contro le pareti e la volta costringendo gli uomini coi bastoni a sparpagliarsi.
Anche Kore dovette gettarsi a terra e coprirsi il capo con le mani, quando l’enorme bocca passò sopra di lei. Si accucciò accanto a Marietta, pregando, supplicando il suo Dio, il cielo e persino gli Dei venerati da quella gente di non restare colpita dai massi che iniziarono a precipitare dal soffitto martellato dai colpi del verme.
Poi udì un tonfo e, con la coda dell’occhio, vide il ragazzo che aveva cercato di aiutare Elisia, mentre preso in pieno dalla testa della creatura veniva scaraventato contro la parete. Il suo corpo sussultò appena prima di restare immobile.
«No!»
Gli uomini continuavano ad indietreggiare, ormai erano a pochissimi passi da Kore, stavano soccombendo.
La ragazza prese a scuotere Marietta, piagnucolando.
«Svegliati, ti prego, svegliati.»
Giona che era rimasto fino a quel momento inginocchiato accanto alla parete, si alzò e saltellò come meglio poté e si avvicinò a Kore. Non aveva emesso alcun suono per tutto il tempo, nessun lamento, ma ora dalla sua bocca aperta usciva uno strano sibilo, come se il bambino stesse tentando di gridare, di dire qualcosa, senza riuscirci. Kore l’afferrò per un braccio e lo spinse lontano. «Vattene, va via da qui, salvati!» gli ordinò.
Il bambino però si aggrappò con più forza alla stoffa del vestito di lei che fu costretta ad aprire le piccole dita una ad una per liberarsi dalla sua presa. Alla fine Giona cedette e, trascinando il piede, si allontanò. Camminava all’indietro, con le braccia tese verso Kore, mentre con lo sguardo le chiedeva di fuggire con lui.
«Vattene!» gridò ancora la giovane, poi si voltò verso il verme.
Fino a quel momento era stato distratto dai Discendenti, e non aveva notato la loro presenza, ora, però, la donna sdraiata e la ragazza al suo fianco sembravano aver attirato la sua attenzione e, nonostante gli uomini coi bastoni e i Discendenti con il loro canto continuassero ad ostacolarlo, il verme era ormai proprio sopra le due ragazze. Kore poteva sentirne l’alito maleodorante e umido, mentre faceva ondeggiare il muso ricoperto di una sostanza viscida e biancastra, nel tentativo di captare il loro odore.
Lo fissò terrorizzata: non sapeva cosa fare. Doveva alzarsi e fuggire di corsa, abbandonando anche lei Marietta, o attendere immobile, nell’improbabile eventualità che il verme non fosse in grado di distinguere un essere vivente dai vari massi sparsi al suolo?
Afferrò il braccio dell’amica e cercò ancora di svegliarla.
«Marietta… ti… ti prego…» Il suo richiamo era diventato un lamento, appena udibile, era certa ormai che la donna non si sarebbe svegliata e comunque, anche se lo avesse fatto, sarebbe stato troppo tardi. Si portò le ginocchia al petto come se ciò potesse servire a nasconderla.
Gridò quando la bestia si scagliò improvvisamente su di loro con la bocca spalancata.
Tuttavia i tentacoli che ondeggiavano all’interno non raggiunsero le due donne a terra. Qualcosa bloccò il verme prima che potesse sferrare il suo morso. Un uomo si era interposto fra il mostro e le sue vittime. Un uomo che Kore non aveva mai visto prima.
Ancora aggrappata al corpo Marietta, la giovane fissò sbigottita lo sconosciuto che, dopo averla superata di corsa, si era gettato al suolo con le braccia aperte, proprio davanti al verme.
Nella confusione nessuno dei presenti lo aveva visto arrivare e, per qualche istante, rimasero a fissarlo sconcertati.
La sua tunica bianca rivelava la sua appartenenza alla cerchia dei Discendenti, ma non aveva viaggiato con loro, Kore ne era certa: portava un vistoso turbante che la ragazza non avrebbe potuto non notare anche in mezzo a centinaia di uomini.
Il nuovo arrivato sollevò appena il capo, diversamente dagli altri Discendenti che avevano seguito gli schiavi, tutti giovani idealisti, l’ultimo arrivato era un uomo maturo, con una folta barba grigia, che gli conferiva una certa autorità, si rivolse agli altri e maghi che sembravano indecisi sul da farsi. 
«Mettetevi a terra, sdraiatevi, la pietra accrescerà il vostro potere!» ordinò loro. La sua voce era ferma e chiara.
Silas e i due maghi ancora in piedi fecero come aveva suggerito. Si sdraiarono con le braccia allargate e i palmi delle mani poggiate sulla roccia.
Kore sentì immediatamente uno strano formicolio sulla gambe, che divenne sempre più fastidioso spargendosi per tutto il corpo, il terreno aveva preso a vibrare sotto i suoi piedi provocandole la sensazione di essere attraversata da una scossa elettrica.
Il verme si contorse emettendo un sibilo acuto, barcollò in avanti rischiando di travolgere gli uomini con i bastoni che gettarono le loro armi, ormai inutili, e si allontanarono lasciando ai maghi il compito di combattere la creatura.
Uno di loro afferrò  Kore per un braccio trascinandola con sé, mentre gli altri si occuparono di Marietta.
Kore ansimava, si guardò attorno mentre veniva portata via  quasi di peso, dato che le sue ginocchia continuavano a non obbedirle.
Si ritrovò in una stretta fessura senza nemmeno rendersi conto di come ci fosse entrata.
Era un cunicolo senza via d’uscita, simile ad una piccola stanza, all’interno riconobbe il gruppo di minatori che per tutto il tragitto si erano occupati di trasportare la barella di Bertone. C’era anche lui nel cunicolo, sdraiato su un fianco; nella confusione li aveva persi di vista. Marietta, invece, era stata adagiata più in fondo, nell’oscurità, Kore riusciva appena ad intravvedere i suoi piedi. Anche Giona si trovava li, proprio di fronte a lei, evidentemente, in quei pochi secondi concitati, gli uomini coi bastoni si erano occupati anche di lui.
Appena la vide, il bambino le saltò addosso stringendosi alle sue gambe fin quasi a farla cadere.
Kore, sentendolo singhiozzare, gli passò la mano tra i capelli. «Siamo al sicuro, qui il verme non può entrare.» Lo tranquillizzò e, inginocchiandosi di fronte a lui, gli sollevò gentilmente il viso e gli asciugò le lacrime.
Giona rispose tendendo la manina verso di lei fino a sfiorarle la guancia: anche il viso della ragazza era bagnato e lei sorrise, poi guardò verso l’uscita del cunicolo e la sua espressione tornò seria: non era ancora finita, non tutti erano in salvo.
Si avvicinò all’apertura e vide la lettiga di Bertone abbandonata davanti all’ingresso, poi, sporgendosi maggiormente, lasciò correre lo sguardo verso il fondo della galleria dove ancora i maghi erano sdraiati uno accanto all’altro. La roccia vibrava sempre di più  e sulla superficie della galleria avevano iniziato a formarsi delle sottili crepe che divennero sempre più evidenti e ramificate, finché gli strati più esterni presero a sfaldarsi  scivolando a terra come le pareti di un castello di sabbia sotto il sole.
L’urlo del verme era diventato insopportabile, Kore si portò le mani alle orecchie, ma provò un senso di liberazione nel vedere l’orrendo mostro soffrire e dimenarsi. Sembrava un’esca attaccata all’amo, mentre le voci dei Discendenti ora scuotevano l’intera galleria.
Avevano vinto, oramai era questione di pochi minuti, quella viscida creatura contorcendosi stava scivolando all’indietro, si stava allontanando.
Kore tirò un sospiro di sollievo, quando sparì alla loro vista.
Pochi secondi dopo gli schiavi presero ad uscire dai loro nascondigli, alcuni si avvicinarono ai ragazzi che avevano sconfitto il mostro. Altri si diressero mestamente verso le vittime che quello aveva lasciato lungo tutta la galleria. Una giovane donna si avvicinò al corpo del ragazzo che aveva tentato di portare in salvo Marietta. Non piangeva, ne si lamentava,  si sedette semplicemente al suo fianco e prese a carezzargli il volto.
Altri infine si fermarono di fronte al nuovo arrivato. I loro visi era tesi e avevano espressioni cupe. Kore capì immediatamente che non era solo il fatto di aver perso degli amici a turbarli, quanto piuttosto la persona stessa che li aveva salvati e che ora li fissava con aria di disapprovazione. Un brivido gelato percorse la schiena della ragazza quando lo sguardo torvo del mago la raggiunse. L’uomo indugiò per qualche istante su di lei e poi guardò verso uno dei cunicoli laterali, forse lo stesso da cui era venuto, in cerca di qualcosa o qualcuno e attese, rigido e imponente come una statua.
 

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