The stray ones di Kind_of_Magic (/viewuser.php?uid=864193)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sapore di miele ***
Capitolo 2: *** Primo intermezzo ***
Capitolo 3: *** L'uomo pallido ***
Capitolo 4: *** Ti sento ***
Capitolo 5: *** Da solo ***
Capitolo 6: *** Fiabe da un'altra vita ***
Capitolo 7: *** Noi e voi ***
Capitolo 8: *** K ***
Capitolo 9: *** Gelo d'Inverno ***
Capitolo 10: *** La vita ***
Capitolo 11: *** Ritornare ***
Capitolo 12: *** Secondo intermezzo ***
Capitolo 13: *** Non berrò ***
Capitolo 14: *** Adesso ***
Capitolo 15: *** Gli uomini incuranti ***
Capitolo 16: *** La testa piena di menzogne ***
Capitolo 17: *** Sommesse e senza senso ***
Capitolo 18: *** Terzo intermezzo ***
Capitolo 19: *** Nel nostro minaccioso sotterraneo ***
Capitolo 20: *** Nella tua mente ***
Capitolo 1 *** Sapore di miele ***
Sapore di miele
Parte
I –
Gli uomini incuranti
Sapore
di miele
Una luce mi
tormenta.
Il suo ostinato
spirito mi consuma
come lo stoppino
di una candela,
ma non sono io la
candela,
io sono solo una
clessidra capovolta
senza più sabbia
da offrire
al tempo tiranno,
senza più sabbia
come tributo
al dio tempo
per un sorriso,
un’ultima parola.
Me li hanno concessi,
ho pagato l’ultima moneta,
mi sono votato al
sonno
e desidero dormire.
Ma allora come può
essere
questa luce che mi
acceca?
Forse che non
dormo?
Il tempo mi ha
disdegnato la pena capitale
e ora giaccio qui
in ergastolo
nel limbo degli
insolventi debitori di sabbia
che se la
contendono
come bambini al
parco giochi.
Questa luce è la vita,
una nuova
possibilità,
qualcuno ha
garantito per me a quello strozzino,
oppure è la morte
che accorre,
con la lentezza di
colui che sa cosa accade,
con la fretta di
chi vorrebbe essere
altrove?
Sia respiro o apnea,
stasi o velocità
qualunque cosa mi si stia accostando,
giunga presto a liberarmi
da questa impietosa luce
che mi tormenta mentre qui giaccio
in prigionia,
con in bocca soltanto
il sapore
di miele della vita.
Aprì gli
occhi. Li richiuse immediatamente perché la luce
era troppo forte. Le sue orecchie erano tormentate da un rombo simile a
quello delle
cascate. Pietro ricordava quel suono: avevano fatto una piccola
escursione per
vedere delle cascate una volta, quando ancora andava tutto bene. Quando
ancora
non c’era la guerra. Quando erano loro quattro e non loro due. Non
ricordava
molto di quei tempi, ma ogni volta che ci ripensava gli tornava in
bocca un
sapore di miele. Sua madre adorava il miele, lo metteva in qualunque
dolce
facesse. Poteva ancora sentire i denti appiccicati come quando
addentava il
croccante di sesamo che la mamma faceva ogni anno per il loro
compleanno. La
sensazione era terribile, ma il gusto ne valeva davvero la pena.
Tentò
di nuovo di aprire gli occhi, ma la luce era ancora
insopportabile. Era così bianca. Una luce di un altro colore forse non
gli
avrebbe dato così fastidio, ma così bianca era l’essenza stessa della
luce. I
suoi occhi non erano decisamente pronti a tutto ciò. Nel frattempo, il
rombo
nelle sue orecchie si era attenuato al livello di un ronzio che non
portava con
sé nessun dolce ricordo ma era in compenso assai meno fastidioso.
L’attutirsi
di quel rumore di fondo gli permise di sentire un altro suono: il
bip-bip di un
macchinario. Si assopì per qualche minuto, cullato dal suo ritmo.
Quando
si risvegliò, non era cambiato nulla: la luce non
era meno bianca, il ronzio non era tornato un rombo, il macchinario non
aveva
cambiato ritmo. Il ricordo del suo sogno lo colpì più accecante della
luce che
stava appostata dietro alle sue palpebre. Vedeva un jet che sparava,
Occhio di
Falco con un bambino in braccio e la sua mente che come al solito
pensava più
veloce delle sue gambe. Spostare la macchina, coprire i due, salvare
delle
vite. Ma come al solito per pensare in fretta aveva dimenticato
qualcosa: non
aveva pensato che tra quelle vite non c’era la sua. L’ultimo saluto a
Barton,
Wanda che urlava nella sua testa e poi solo il buio.
E
ora questa insopportabile luce bianca e questo bip-bip
che da soporifero si stava lentamente trasformando in fastidioso.
Pietro non
dubitava che sarebbe poi diventato irritante e così via, fino a farlo
impazzire
completamente. Ma d’altra parte, forse era già pazzo, se era lì,
convinto di
essere morto. O magari era morto. Non che si sentisse morto, ma c’era
da dire
che, dato che non era mai morto, non poteva esserne certo. Quello di
cui era
sicuro era che non riusciva a muoversi. Poteva battere le palpebre,
respirare e
inumidirsi le labbra –cosa che fece più volte– ma i suoi muscoli del
corpo,
quelli che aveva imparato a usare alla massima velocità, erano
completamente
separati dalla sua volontà. Poteva ordinarsi di correre, di strofinarsi
le
palpebre, anche solo di piegare leggermente il ginocchio, ma non poteva
fare
fisicamente nessuna di queste cose. In effetti era una cosa che
avvalorava
l’ipotesi della morte.
Ma
se era davvero morto, allora dov’era? In un qualche
tipo di aldilà? E se era vivo, che gli era successo? E perché quella
maledetta
luce bianca?
Prima
di cadere di nuovo in uno stato di incoscienza più
profonda del sonno, pensò che aveva voglia di miele. E più precisamente
di
croccante al sesamo.
Dall'altra
parte dell'oceano Atlantico, Wanda spalancò
gli occhi nell'oscurità e si mise a sedere sul letto. Si voltò verso il
proprio
comodino: erano le tre e dodici. Era ormai abituata a svegliarsi per
gli incubi
che la tormentavano, ma era certa che non fosse colpa dell'incubo,
quella
volta. Sentiva l'assurdo bisogno di sorridere, cosa che non le era più
successa
da dopo la battaglia in Sokovia, da dopo la morte di Pietro. Le era
capitato di
sorridere, questo è vero. Tutti si erano impegnati moltissimo per
riuscire a
farle fare anche un mezzo sorriso, Visione per primo, ma quel bisogno
impellente di sorridere senza motivo non era mai più tornato. E ora
eccola lì,
seduta nel proprio letto, perfettamente sveglia alle tre e dodici del
mattino,
sorridente come nessuno dei Vendicatori l'aveva mai vista.
Si
alzò, uscì dalla propria camera e andò in cucina,
ignorando il pavimento freddo a contatto con i propri piedi scalzi.
Aveva
chiesto a Stark di farle vedere dove fosse il miele solo qualche giorno
prima,
perciò lo ricordava bene. Quello che non aveva calcolato era che Stark
era
salito su una sedia per arrivare all'altezza della mensola dove si
trovava il
barattolo, e perciò lei la sfiorava solo con le unghie. Fissò per
qualche
secondo il miele, poi decise che se avesse seguito l'esempio del
padrone di
casa avrebbe fatto troppo rumore e perciò i suoi poteri erano la scelta
migliore. Cominciò a spostare con la telecinesi il barattolo sempre più
vicino
al bordo della mensola, poi si fermò un attimo, temendo di star
disturbando gli
altri. Non sentendo nulla, continuò: aveva appena cominciato a far
fluttuare il
barattolo e stava per farlo scendere verso di sé, quando una mano lo
afferrò.
Wanda
si spaventò terribilmente, perché non aveva sentito
Clint entrare. «Così è più facile, no?» sorrise l'uomo porgendole il
barattolo.
La ragazza non riusciva proprio ad arrabbiarsi, a causa della felicità
immotivata che continuava a sentire dentro di sé. Prese il miele e
ricambiò il
sorriso di Clint, in silenzio. Poi gli indicò il tavolo e si sedette,
rigirandosi il barattolo tra le mani.
«Hai
fatto di nuovo un incubo?» le domandò Barton con un
sospiro.
«Al
contrario» rispose criptica Wanda, non smettendo di
sorridere.
«Un
bel sogno, allora?»
«Diciamo
di sì, uno di quelli che a raccontarli si
rovinano»
Clint
aveva proprio intenzione di chiederle cosa avesse
sognato e fece un lieve cenno con la testa per farle capire che il
messaggio
era arrivato.
«Ma
perché il miele?» domandò invece
«Mi
piace, mi fa tornare alla mente dei bei ricordi. E
poi il sogno mi ha fatta svegliare con una voglia incredibile di
prenderne
almeno un cucchiaino» glielo offrì, ma l'uomo rifiutò e restò a
guardarla
mentre assaporava lentamente il miele, un cucchiaino per volta. Solo
dopo un
po' capì: «Si tratta di tuo fratello, vero?»
«Avevo
detto che era uno di quelli che si rovinano a
parlarne»
«No,
se non è davvero un sogno. Wanda, è uno di quei
vostri sogni?»
«Non
lo so» confessò «lo spero, questo è ovvio, ma non ne
sono certa. È la prima volta che lo sogno così, così... Come quando
eravamo
piccoli e facevamo i sogni insieme e poi ce li ricordavamo tutti e due.
Ho
sognato quello che sogno ogni notte, ma stavolta era diverso. Io credo
che
forse...»
«Wanda,
io credo che forse tu stia cominciando ad
accettare quello che è successo. Devi lasciarlo andare, ormai è passato
abbastanza tempo perché tu lo capisca»
«No»
sembrava una bambina impaurita, ma aveva la
determinazione di un'adulta «No, non capisci. Pietro è vivo, io lo so e
basta.
Se lo lasciassi andare, lo abbandonerei proprio ora che forse ha
bisogno di me»
«Non
avrà più bisogno di te, Wanda, perché non mi
ascolti?»
«Perché
non mi ascolti tu? Tu lo sai cosa sento dentro?
No, ed è per questo che non capisci. Tu credi di sapere cos'è la vita,
l'amore,
la morte, ma non sai e non saprai mai cosa c'è tra due fratelli come
noi. Non
puoi giudicare» richiuse il barattolo del miele e lo lasciò sul tavolo.
Se ne
andò, dopo avergli chiesto di rimetterlo a posto, augurando sottovoce
una
buonanotte, per quel che rimaneva della notte. Neanche quella breve
discussione
era comunque riuscita a spegnere la sua serenità e fu solo quando tornò
nel
letto che si accorse di non avere la minima idea del perché Clint fosse
sveglio.
La
dottoressa Helena Mazur entrò nella stanza senza preoccuparsi
di non fare rumore, come invece faceva per altri pazienti: tanto il
ragazzo non
si accorgeva di nulla. Appena lo vide, però, si pentì dei propri
pensieri, come
faceva sempre. Il ragazzo dormiva, se si poteva chiamare dormire quello
stato
che era appena sopra quello comatoso. Il suo volto, incorniciato dai
capelli biondi
spettinati sempre allo stesso modo, aveva la solita espressione
angelica di un
bambino che sogna. Per la prima volta, però, la donna notò che sulle
sue labbra
era dipinto, incorniciato dai baffi e dal pizzetto, un lieve sorriso.
Non se
n’era mai accorta prima, eppure erano mesi che andava da lui ogni
giorno per
controllare la situazione. Si avvicinò al computer che era sul tavolo
di fronte
al letto e premette un tasto, con la sicurezza di chi ripete un gesto
ormai
abitudinario: sul video comparve il rapporto dei parametri vitali del
ragazzo,
insieme a tutto ciò che era successo durante l’assenza della
dottoressa. Diede
dapprima un’occhiata veloce: quella pagina era la stessa da mesi,
ormai. Poi
però qualcosa attrasse la sua attenzione e riprese a leggere
dall'inizio. Si
strofinò gli occhi e controllò ancora: era proprio così, non se l’era
immaginato. Con pochi, rapidi comandi stampò cosa stava leggendo
tramite la
stampante di una sala non distante.
Pietro
Maximoff si era svegliato alle nove in punto del
mattino, appena qualche ora prima del suo arrivo. Aveva aperto gli
occhi solo
due volte e per brevissimo tempo, ma non c’era dubbio che fosse
sveglio. Si era
addormentato per qualche minuto e poi si era svegliato di nuovo. Circa
dieci
minuti dopo, alle nove e dodici, era piombato di nuovo in quello stato
semi-comatoso in cui l’aveva trovato quel giorno, come tutti quelli
prima.
Helena non riusciva a crederci.
Il
colonnello Fury non aveva mai ricevuto molte mail
neanche quando era direttore dello S.H.I.E.L.D., perché c’erano un
migliaio di
controlli e uffici che si occupavano di tutte le faccende che non
avevano
bisogno di lui in persona. Ora ne riceveva meno che mai, in fondo per
il mondo
era morto. Fu perciò sorpreso quando vide arrivare una mail. Fu molto
sorpreso
quando vide il mittente. Fu estremamente sorpreso quando lesse
l’oggetto.
Inoltrò immediatamente alla signorina Mazur tutto il dossier che
richiedeva e
rimase a fissare lo schermo anche dopo averlo spento. Pietro Maximoff
vivo? Era
possibile? Era vero, lo aveva fatto portare in quella clinica in
Polonia perché
era d’accordo con Scarlet Witch che ci fosse una possibilità di
sopravvivenza,
ma non aveva mai davvero creduto che il ragazzo potesse uscire dal coma.
Non
era veramente uscito dal coma, lo sapeva bene, Wanda
lo aveva avvertito che le istruzioni che aveva lasciato prevedevano che
venisse
avvertito ben prima che si sapesse con certezza come stesse il ragazzo.
Non
doveva però trascurare il fatto che se già si erano verificate le
condizioni
perché la dottoressa lo contattasse voleva dire che le possibilità di
un
risveglio completo erano aumentate drasticamente. Come avrebbe gestito
la
situazione se fosse successo davvero? Per fortuna, pensò, Scarlet Witch
si era
preoccupata di lasciare quelle istruzioni. Inizialmente l’aveva
lasciata fare
perché la cosa la aiutasse a superare la perdita, ma poi leggendola si
era reso
conto che la lista era stata stilata con cognizione di causa e che
sarebbe
stata davvero applicabile nella possibilità che Quick Silver si
svegliasse. E
ora mancava pochissimo che succedesse davvero.
La
dottoressa Helena Mazur leggeva la lista con gli occhi
spalancati e le sopracciglia inarcate in uno sguardo scettico: la
signorina
Maximoff aveva indicato di chiamarla molto tempo dopo l’inizio dei
miglioramenti di suo fratello e dava una serie di istruzioni che non
avevano
nulla di medico. Perché del miele spalmato regolarmente sulle labbra
avrebbe
dovuto aiutare il paziente a guarire? Che cosa pensava quella
ragazzina, di
essere un medico? Helena si irritò parecchio e stava per smettere di
leggere,
ma poi pensò che in fondo gli ordini del colonnello erano quelli e
cambiò idea.
Al fondo, dopo ringraziamenti e firma, c’era una nota:
“Per
il medico che leggerà questo: lo so che non si
tratta di indicazioni per trattamento medico e non pretendo di essere
in grado
di dirle cosa deve fare. D’altra parte, se Fury ha dato a lei
l’incarico di
occuparsi di mio fratello vuol dire che si fida delle sue capacità e
così
faccio anch’io. Non se ne abbia a male, quindi, se mi sono permessa di
scrivere
questa lista. Si occupi pure di tutti i trattamenti medici del caso,
questo
sarà qualcosa in più. Non ha bisogno di informazioni su Pietro perché
ha già la
sua scheda, che ho contribuito personalmente a compilare. Questo è
qualcosa che
le consiglierei io se fossi lì adesso che si è svegliato, ma per alcuni
motivi
è meglio che io non sia lì finché, come ho scritto, le sue condizioni
non saranno
migliori. La prego di fidarsi e fare ciò che ho scritto anche se
dovesse
sembrarle stupido o inutile. Ancora grazie perché si sta occupando di
mio
fratello.”
La
donna sorrise leggendo le parole di quella ragazza e
l’affetto viscerale che traspariva da quelle parole in apparenza così
formali.
Decise che, senza averla mai conosciuta (Wanda non aveva voluto), la
signorina
Maximoff le piaceva. Cercò quello che le serviva e poi rientrò nella
camera di
Pietro con più attenzione di quanta ne avesse mai fatta. Il paziente
non si era
mosso di un millimetro, il sorriso sul suo volto non aveva subìto il
minimo
cambiamento. La dottoressa si avvicinò e gli tolse i capelli da davanti
al
viso, poi gli spalmò le labbra di miele come indicato dalla signorina
Maximoff
e se ne andò.
Quella
notte, alle tre e dodici Wanda Maximoff non si
svegliò, ma sorrise inconsapevolmente nel sonno quando il suo incubo si
tranquillizzò e tutto assunse una tinta argentea. Al mattino non
ricordava
nulla, ma era sempre più certa della sua sensazione: suo fratello era
vivo,
ormai era solo questione di aspettare che stesse abbastanza bene da
richiedere
la sua presenza. Spalmò il miele di acacia sulla sua fetta di pane e
sorrise
mentre faceva colazione: Visione la guardava di sottecchi.
«Vuoi
finirlo in fretta quel barattolo!» scherzò
l’androide.
«Mi
piace» fu la semplice e serena risposta che
ricevette. Visione le fece l’occhiolino, allegro. Wanda evitava sempre
di
pensarci, ma lo sapeva che qualcosa stava succedendo.
Il
giorno dopo, la dottoressa Helena Mazur controllò i
rapporti: il ragazzo si era svegliato alle nove e si era addormentato
alle nove
e dodici, di nuovo.
E il miele era
sparito.
The
Magic Corner:
Ehilà! Grazie per aver
dedicato un po’ di tempo a questa fic
che sinceramente non so proprio come mi sia venuta in mente. Lo so, in
questo capitolo non si vedono gli Avengers e non si nota l’AU, ma date
tempo al tempo! Vorrei dedicare questo capitolo alle mie sorelle,
perché non so cosa farei io al posto di Wanda. L’intera fic, invece è dedicata a GreekComedy, perché è un po’
anche colpa sua se l’ho scritta (ma lei non lo sa) e perché finalmente
può leggere qualche fic
tra le mie sul Marvel Cinematic
Universe senza spoilerarsi tutto. Un grazie
infinito al mio consulente di fiducia sulla Marvel, che come al solito
si dimostra fondamentale.
Inoltre, visto che mi
piacerebbe mettere qualche altra ship
oltre alla ScarletVision,
vorrei sapere qual è quella che preferireste (se non avete tempo per
una recensione, mandatemi anche solo un messaggio privato con il nome
della/e ship). Metto
solo qualche limite: le ship
non possono coinvolgere Wanda o Visione (evidentemente), gli Avengers
del primo film (Hulk,
Capitan America, Iron
Man, Thor, Vedova Nera, Occhio di Falco) si possono shippare
solo tra di loro, tutti gli altri personaggi come vi pare. Se vi
chiedete se un personaggio ci sarà oppure no, date per scontato che ci
sarà. Potete scegliere anche una ship
tra gli Avengers del primo film e una tra gli altri personaggi. Tenete
presente che c’è anche un OC (Kim
è il cognome, non ho ancora deciso se sarà un uomo o una donna) libero
per le ship con tutti
tranne gli Avengers. Non vorrei esagerare, quindi ne sceglierò due, al
massimo tre.
Vi
invito a farmi sapere cosa pensate di questo primo capitolo, anche
perché (come tendiamo tutti a dimenticarci) le recensioni sono un
sorriso regalato all’autore e non costano nulla!
Che gli dèi siano con voi!
-Magic
|
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Capitolo 2 *** Primo intermezzo ***
Primo intermezzo
Primo intermezzo
Alla sua sinistra, una donna leggeva una serie di fogli e di tanto in
tanto alzava lo sguardo per rivolgergli un'espressione tristemente
rassegnata.
Indossava
un camice da ospedale che le dava un'aria da medico.
L'uomo era perfettamente cosciente del fatto che non l'aveva mai vista,
ma aveva la sensazione di sapere esattamente chi fosse.
Qualcosa che si prova solo nei sogni.
All'improvviso la donna gli voltò le spalle.
L'uomo si sentiva in pericolo e pensò di attaccarla, ma non poteva
muovere un muscolo e il solo provarci gli procurava dolori terribili e
fitte acute alla testa.
Quando la donna scomparve dal suo campo visivo, l'uomo smise di tentare.
Poi, però, ricomparve alla sua destra e poco dopo di lei giunse il
dolore.
Fin dall'inizio era particolarmente acuto e si mantenne costantemente
forte.
I muscoli gli si contrassero e cercò di nuovo di muoversi, ma l'unico
risultato fu l'aumentare a dismisura il proprio dolore.
Poteva solo gridare con tutto il fiato che aveva in corpo.
Clint
si svegliò madido di sudore, trattenendo a stento un urlo. Sperava che
la chiacchierata notturna con Wanda lo avesse aiutato a rilassarsi e
distrarsi un minimo, abbastanza da riuscire a dormire almeno qualche
ora, ma purtroppo si sbagliava. Si passò una mano sul braccio destro,
poteva ancora sentire distintamente gli aghi che lo pungevano nel
sogno, il dolore che lo torturava, le proprie urla che gli rimbombavano
nelle orecchie.
Maledizione,
perché non riusciva a dormire?
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Capitolo 3 *** L'uomo pallido ***
L'uomo pallido
L’uomo
pallido
L'uomo
pallido batte le palpebre,
l'immagine
non cambia.
L'uomo
pallido distoglie lo sguardo,
la
realtà si accartoccia,
si
scioglie come cera
e si raccoglie si
suoi piedi.
L'uomo
pallido sa
cosa
sta succedendo,
l'uomo
pallido vorrebbe
non
saperlo.
L'uomo
pallido riesce
a
distinguere il reale
dall'immaginario,
ma non
sa più tra questi
quale sia il vero e
quale il falso.
L'uomo
pallido è speciale
perché
capisce cosa sta succedendo,
ma da
solo è inutile,
perché
da solo non può fermarlo.
L'uomo
pallido sa
cosa
fare,
non ha
dubbi, come
nessun altro ne
avrebbe al suo posto.
L'uomo
pallido sa
che
quando la realtà trema
e il
mondo gli volta le spalle
può
chiedere aiuto soltanto
a chi
trema davanti alla realtà
e ha voltato le
spalle al mondo.
Due
settimane dopo
L’uomo una volta
noto come il Soldato d’Inverno trovò un
biglietto infilato sotto la porta. Abitava oltre la periferia nord di
Los
Angeles, in quella zona magica in cui la città improvvisamente sparisce
e se
non vedessi all’orizzonte potresti pensare che non sia mai esistita. Il
Soldato
d’Inverno non trovava molto magica la sua abitazione, sapeva che quelli
che lo
cercavano sarebbero potuti arrivare in ogni momento. Fino a quel
momento non
l’aveva trovato nessuno. D’altra parte, con il crollo dello
S.H.I.E.L.D. e
quello che era successo a Sokovia, ci sarebbe stato da stupirsi se
qualcuno ci
fosse riuscito, a meno che non si trattasse di chi pensava lui. Quando
vide il
biglietto, capì subito che l’avevano trovato: in fondo, stava solo
aspettando
che succedesse. Non aveva idea di come fosse arrivato lì, ma era sempre
stato
convinto che non sarebbe andata così. Si era immaginato un gruppo di
uomini
pesantemente armati e, chissà, magari anche Capitan America o la Vedova
Nera.
Di certo l’ultima cosa alla quale avrebbe pensato era un foglietto
infilato
sotto la porta. Forse era qualcuno che gli era amico e voleva
avvertirlo di
scappare. Ma lui, pensò amaramente, non aveva più nessuno così: Steve,
l’unico
che potesse fare una cosa simile, con ogni probabilità sarebbe stato
nella
squadra in arrivo, non in chi lo aiutava a evitarla. Forse qualcuno
dell’Hydra?
Magari pensavano che stesse ancora con loro e lo volevano per qualche
altra
missione. Non sarebbe stato più il loro burattino, voleva dirglielo
chiaro e
tondo. Piuttosto si sarebbe fatto arrestare.
Raccolse il
foglietto da
terra: era scritto in una grafia ordinata, sembrava femminile perché
era tondeggiante
e lo fece pensare subito a Natasha, poteva essere stata lei a cercare
di
avvertirlo. Non era opera della russa, però: il testo non lasciava
dubbi.
Diceva "Al Passato alle Spalle, tra una settimana, alle nove
in punto.
Mi riconoscerai. Fai in modo di esserci, a meno che tu non voglia
rendere
pubblica la tua residenza. Loki". Non poté fare altro che
accettare,
ovviamente: era preparato all’evenienza che lo trovassero, ma non
avrebbe certo
aiutato le loro ricerche. Avrebbe incontrato il dio degli inganni,
qualunque
cosa volesse.
Erano
le nove di sera, era passata una settimana. Quello
che una volta era il sergente James Barnes era seduto al bancone di un
pub
della bassa periferia di Los Angeles. Il locale si chiamava “Il Passato
alle
Spalle”, cosa che Barnes trovava molto ironica, visto ciò che stava
passando e
la persona che gli aveva dato appuntamento lì. Ci era già stato un paio
di volte e il posto non gli dispiaceva, in fondo: Daniel "The Roi" Mammen,
proprietario e barman, era uno che aveva sempre una storia da
raccontarti se avevi bisogno di non pensare a niente prima di aver
bevuto abbastanza e, soprattutto, si accorgeva molto in fretta di
quando qualcuno non aveva voglia di rispondere a domande diverse da "ne
vuoi un altro?".
Per
gli amici, l’uomo seduto nel pub sarebbe stato Bucky,
ma ormai non aveva più amici. Indossava
un lungo cappotto le
cui maniche coprivano anche il braccio sinistro, che l’avrebbe reso un
po’
troppo riconoscibile. Si scostò una ciocca dei capelli bruni da davanti
agli occhi, fissando il proprio bicchiere quasi vuoto. Avrebbe proprio
dovuto
tagliare i capelli, si disse, era troppo appariscente così. Il dio
degli
inganni l'aveva trovato senza la minima difficoltà, o così sembrava, e
l'uomo
temeva che altri potessero farlo. O forse si chiedeva perché altri non
l’avessero ancora fatto.
Non
diede il minimo segno di aver notato l'uomo ben
vestito che era appena entrato nel locale. Aspettò che si sedesse lì
accanto
per lanciargli una veloce occhiata ben mascherata: non aveva dubbi che
si
trattasse della persona che stava aspettando, perché nessun altro
sarebbe mai
entrato in un posto simile vestito in quel modo, ma c'era qualcosa che
gli
pareva diverso. Il rapido sguardo confermò la prima impressione. L'uomo
aveva,
è vero, la pelle tanto chiara da parere bianca che James ricordava dai
telegiornali, ma i lunghi capelli corvini pettinati all'indietro con
l'aiuto di
moltissimo gel erano stati tagliati molto corti ed erano castano
chiaro, quasi
biondo. Gli occhi risaltavano come sempre a causa dei lineamenti
affilati del
volto pallido e asciutto, ma erano azzurri e non verdi. Senza degnare
Barnes
della minima attenzione, il nuovo arrivato ordinò un whisky e prese a
sorseggiarlo con noncuranza.
«Soldato
d'Inverno» lo salutò in un bisbiglio portando il
bicchiere alle labbra esangui. James pensò di correggerlo, dicendo che
non lo
era più, ma considerò amaramente che ormai per il mondo lui era solo
quello. Si
guardò intorno: alcuni clienti si erano voltati, incuriositi dall'abito
elegante che l'altro portava, ma nessuno aveva notato che questi gli
aveva
rivolto la parola. Decise di imitarlo e tornò a fissare il proprio
bicchiere,
parlando a voce quasi inudibile anche per se stesso. «Signore degli
Inganni»
disse, rispondendo al saluto «Hai cambiato aspetto ma il tuo abito è
comunque
appariscente in questo locale»
«Non
darò nell'occhio»
«Sarà
meglio»
Tacquero
entrambi. Barnes lasciò trascorrere qualche
minuto, riflettendo, poi decise di risolvere il proprio dubbio: «Mi hai
trovato
con facilità» osservò.
«Ti
ho cercato con attenzione»
«Non
mi ha trovato nessun altro»
«Perché
le persone giuste non ti stanno cercando» James
sentì la bocca dello stomaco contrarsi violentemente. Se Steve l'avesse
cercato, sarebbe senza dubbio riuscito a trovarlo: Loki era molto,
troppo,
diretto, ma diceva la verità. Il suo migliore amico di un tempo non
l'aveva
trovato, quindi non lo stava cercando. Annuì lentamente, tentando
invano di
accettare il fatto. Attese qualche minuto ancora, poi domandò: «Che
cosa vuoi
da me, asgardiano?»
«Mi
serve il tuo aiuto, umano» fu la risposta «Mi devo
rivolgere a te, perché siamo due esseri rimasti da soli. Altri
avrebbero
qualcuno con cui mantenere segreti, tu puoi agire liberamente»
James
accusò il colpo: Loki diceva di nuovo il vero, ormai
era rimasto da solo. Steve lo aveva probabilmente dato per morto e
nessun altro
sarebbe stato contento di vederlo vivo, dopo ciò che aveva fatto. Stava
ancora
raccogliendo informazioni su cosa avesse effettivamente fatto per tutti
quegli
anni, su tutti quei crimini di cui non ricordava nulla. Un pensiero lo
colpì:
se il Signore degli Inganni gli stava chiedendo aiuto, non poteva
trattarsi di
nulla di buono.
«Non
sono più quel Soldato d’Inverno»
«Lo
so»
«Allora
di che si tratta?»
Il
dio finì il proprio whisky in un sorso: «Non qui»
«Allora
perché mi hai fatto venire fin qui, Signore degli
Inganni?»
«Volevo
sapere cosa fossi disposto a fare»
Barnes
sorrise amaramente: «Avevo scelta?» Pagò e uscì,
poi attraversò la strada si mise ad aspettare l’altro. Circa dieci
minuti dopo
lo vide uscire dal locale e guardarsi intorno. Aveva qualcosa di
diverso: gli
occhi erano tornati verdi. Appena notò la sua presenza, Loki cominciò a
camminare, rimanendo dall’altro lato della strada. James lo imitò e
proseguirono camminando paralleli per qualche tempo, poi il Signore
degli
Inganni attraversò e cominciò a camminare al suo fianco. Dopo qualche
minuto,
cominciò a raccontare, tenendo lo sguardo fisso a terra:
«Ero
tranquillo e mi facevo i fatti miei, non stavo
neppure manipolando la magia o niente di simile, quando all’improvviso
mi sono
girato e mio fratello era lì. Mi aveva creduto morto, ma non sembrava
arrabbiato che avessi finto o stupito di vedermi. Ha cominciato a
parlare: mi
ha chiesto aiuto, ma non mi ha spiegato il problema. Diceva che se
qualcuno poteva
sentirlo o aiutarlo ero io»
Si
interruppe vedendo che una donna stava arrivando sul
marciapiede nella direzione opposta alla loro. I due si allontanarono
quel
tanto che bastava a lasciarla passare.
Loki
contò sessanta secondi da quando lei li aveva
superati e poi riprese il discorso: «Continuava a ripetere che aveva
bisogno di
me, che dovevo trovare il buono che c’era in me e risolvere la
situazione. Gli
ho chiesto cosa stesse succedendo, di spiegarmi, ma è stato come se non
avessi
detto nulla. Come se Thor non fosse stato davvero lì, non mi guardava
neppure.
Ho provato a girargli intorno e lui non se n’è accorto.
A
un certo punto mi sono reso conto che non mi stava
parlando con la sicurezza che l’avrei ascoltato. Ha detto “Se tu sei
morto, il
mondo è spacciato”, vuol dire che non sapeva se fossi vivo, capisci? Mi
stava
parlando, ma probabilmente la sua intenzione era di parlare da solo.
Poi si è
zittito ed è rimasto immobile, fissava un punto. Mi sono convinto che
ci fosse
qualcosa e ho guardato anch’io, non c’era niente, ma quando mi sono
girato
verso di lui, cercando di capire, era scomparso»
Il
Soldato d’Inverno si fermò a un incrocio e si guardò
intorno. Dopo alcuni secondi passati a scrutare il buio, fece segno
all’altro
di svoltare a destra. Loki annuì e rimase in silenzio per qualche tempo.
«Allora?»
chiese Barnes a bassa voce.
L’asgardiano
ricominciò a raccontare: «Non so che magia
fosse quella, ma ho controllato e non c’erano manipolatori vicino a me.
Ho
iniziato a informarmi, sia sulla terra sia su Asgard, per capire chi
potesse
essere stato. È stato allora che sono venuto a sapere della ragazza.
Si
è unita da poco ai Vendicatori, adesso gira con loro,
ha partecipato alla battaglia di Sokovia, non so se hai presente. I
suoi poteri
sono principalmente di alterazione della realtà. Può essere che non li
controlli ancora bene e potrebbe avermi mandato una qualche immagine
per
errore. Oppure potrebbe trattarsi di una trappola. Qualcuno che sa che
sono
vivo e vuole spingermi a confessarlo a Thor. Comunque lui mi crede
ancora
morto: non posso permettere che mi veda»
Si
fermò e si girò verso il Soldato d’Inverno: «Perciò
chiedo a te, devi fare in modo che io possa parlare con la ragazza,
trovala da
sola e portala via, o qualunque altra cosa, come preferisci. Devo
sapere se è
stata lei»
«Ma
non sarà certo l'unica manipolatrice di magia della
terra, Signore degli Inganni, come puoi essere certo che sia lei?»
«Non
lo sono, ma la strega è l'unica che conosca.
Comincerò con lei»
«E
io come dovrei fare a sapere che non ti sei inventato
tutto e userai la ragazza per chissà quale altro piano? Non voglio più
fare
niente di male»
«Ti
tocca fidarti. Non hai scelta, come hai detto tu
stesso. Il mio biglietto era chiaro»
Più
chiaro di così, pensò James. Non avrebbe potuto fare
altro che accettare anche l'incarico, dopo essere già andato
all’appuntamento
dove il dio gli aveva chiesto. Loki considerò a bassa voce che in fondo
gli
stava facendo un favore. Barnes si bloccò e si voltò a guardarlo.
«Che
cosa vuoi dire?»
«Ora
hai un'occasione per farti vedere vivo dal tuo
adorato Capitano. Senza il mio intervento non ti saresti mai deciso a
farlo»
James
stava per rispondergli male, ma poi cambiò idea. Si
fissarono per attimi che parvero interminabili, occhi azzurri negli
occhi
verdi, rabbia repressa e disperazione mascherata che si specchiavano in
quell'incomprensibile ingenua indifferenza. Alla fine quello che
qualcuno avrebbe
forse chiamato Bucky cedette: abbassò lo sguardo e se ne andò senza più
voltarsi indietro. Loki rimase a fissarlo finché la sua figura non fu
scomparsa
dietro un angolo.
Doveva
essere la ragazza,
si disse il dio tornando sui propri passi verso l'alloggio, non poteva
essere
nessun altro, era lei di certo! Barnes gli aveva ripetuto dei dubbi che
si era
già posto, ma non poteva rischiare di compromettere tutto tralasciando
una
singola opzione. La realtà tremava e apparivano immagini che non
avrebbero
dovuto. Loki sapeva, e forse era l'unico, che questo avrebbe portato
solo a un
grande tonfo una volta che la realtà fosse caduta in pezzi. Ad ogni
attimo che
passava erano più vicini, doveva trovare il responsabile il prima
possibile o
sarebbero morti tutti.
All'improvviso si sentì un eroe.
La
dottoressa Mazur si
sentiva una sacerdotessa di un qualche culto pagano ogni volta che
entrava
nella stanza di Pietro Maximoff: compiva gesti quasi rituali e leggeva
a mezza
voce i parametri vitali come una preghiera. Da quando aveva notato il
risveglio
del ragazzo alle nove di mattina, i parametri non erano mai cambiati.
Erano
passate ormai tre settimane e le istruzioni di Wanda richiedevano che
oscurasse
la stanza quasi completamente e cercasse di essere presente quando
Pietro si
svegliava, parlando per tutto il tempo che lui rimaneva sveglio. Prima
di
andare via, la ragazza aveva lasciato una piccola pila di libri sul
comodino:
Helena avrebbe dovuto prenderne uno e leggerlo, affinché il paziente si
abituasse alla sua voce, come fanno le madri con i figli quando ancora
non sono
nati. Erano le nove meno qualche minuto, ora di iniziare per la prima
volta una
nuova parte del rituale: con un indicatore vicino alla porta regolò la
luminosità e accese, abbastanza distante perché non disturbasse il
ragazzo, un
lampada per leggere. Prese il primo libro della pila: si trattava di
fiabe. Lo
aprì e scoprì che non era stampato: vergate in ordinata calligrafia,
erano
riportate decine di fiabe per bambini. Cominciò dalla prima: “Hansel e
Gretel”.
Ehilà!
Grazie per aver dedicato un po' del vostro tempo a questi due nuovi
capitoli. Li ho pubblicati uno dopo l'altro perchè so bene che un
intermezzo non sarebbe stato abbastanza per saziare la vostra
curiosità, vero? Vero? *silenzio. L'autrice se ne va piangendo, poi
torna*
No,
dai, io voglio sperarci che mi stia leggendo qualcuno oltre a quella
psicopatica di GreekComedy e quindi continuerò a scrivere.
Per
le ship, ho tre proposte attuali (solo mie e di GreekComedy perché il
resto del fandom mi ignora): WinterFrost (2 voti), Stony (1 voto),
Clintasha (1 voto). Ora, premesso che tanto la WinterFrost ho
già
deciso che la metterò (evviva gli anacoluti!), per quanto voi possiate
opporvi (no, in realtà se siete abbstanza a non volerla faccio
fan-service e non la metto, ma dovete essere proprio tanti, perché me
la vedo troppo bene), si tratta di decidere tra Stony e Clintasha (o di
proporne altre se volete, trovate i limiti alle ship alla fine del
primo capitolo).
Sento
già GreekComedy lamentarsi che lei non ha proposto Clintasha:
ovviamente, come ben sai, l'ho proposta io. Altrettanto ovviamente, non
puoi rivotare la Stony, visto che l'hai proposta tu :D
Questa è l'ultima possibilità per decidere,
perché poi ho bisogno di
sapere cosa scrivere e devo scegliere. Siate l'ago della bilancia e
ditemi cosa devo fare!
Ah,
piccola postilla: le recensioni sono gratis... Io ve la butto lì, poi
fate voi. Mi piacerebbe in particolare sapere se vi piace l'idea degli
intermezzi messi così (o come li vorreste altrimenti, visto che in un
modo o nell'altro li devo mettere) e delle code che parlano di altro
come quella che ho messo qui. Volevo dare un po' l'idea delle scene
dopo i titoli di coda dei film Marvel, ma se non vi convince farò in un
altro modo (anche se non so ancora come).
Un grazie enorme a GreekComedy perché sì e a
Marvelwiki perché mi aiuta e mi guida sempre.
Che gli dèi siano con voi!
-Magic
Edit: grazie tantissimo a dany the writer per i suoi consigli, una
revisione ci sta sempre, mi dicono :)
|
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Capitolo 4 *** Ti sento ***
Ti
sento
Ti sento,
la notte,
quando la casa tace,
la città ronza,
solo i nostri respiri
nel buio
Ti sento
Dovresti dormire,
perché non dormi?
Immobile,
non vuoi che lo sappia,
fingi,
ma io so che non dormi
Il tuo respiro,
appena affannato,
nel buio
Ti sento
Cosa affligge la tua mente?
Tante immagini nei miei sogni,
ma tu
mi aiutavi a venirne fuori
come un’ancora di salvezza,
una lanterna luminosa
nel buio
Ti sento,
le palpebre serrate,
la paura nel fiato,
i pensieri un po’ troppo irreali,
o forse un po’ troppo veri
Io lo so,
stai serrando i denti
nel buio
«Clint»
chiamò sottovoce Natasha, senza voltarsi verso il
proprio compagno, sdraiato a qualche centimetro da lei. Nessuna
risposta le
giunse.
«Lo
so che sei sveglio» disse ancora Natasha.
Clint
fece un respiro appena più profondo degli altri,
come muta e rassegnata conferma. Natasha era stata via per diverse
settimane:
era stato in quei giorni che aveva cominciato a fare dei terribili
incubi.
Sperava che la presenza di lei l’avrebbe aiutato a dormire meglio, ma
la sua
paura di addormentarsi rimaneva. La sua mente semplicemente gli
impediva di prendere
sonno, per il terrore di dover rivivere ancora e ancora quelle scene,
quel
dolore. Erano giorni che non dormiva. Ogni volta che provava a prendere
sonno,
il ricordo delle orribili visioni lo riscuoteva e gli impediva di
dormire. Se
capitava che la stanchezza prendesse il sopravvento, cadeva di nuovo
preda di
quei terribili sogni: dopo qualche ora si risvegliava, le lenzuola
bagnate del proprio
stesso sudore, i denti stretti per impedirsi di urlare, le mani che
stringevano
il cuscino fino quasi a strapparlo.
Sperava
che Natasha non se ne sarebbe accorta: aveva
finto di addormentarsi, aveva gli occhi chiusi e le mani rilassate e
cercava di
respirare normalmente, ma la paura gli provocava comunque un minuscolo
affanno.
Avrebbe dovuto immaginarlo, nessuno poteva tenere nascosto qualcosa a
Natasha,
tantomeno se dormiva al suo fianco.
«Cosa
succede? Perché non stai dormendo?»
Nella
mente di Clint si accese una disputa. Una metà di
lui voleva raccontarle tutto, cercare di trovare in lei un aiuto,
qualcuno che
potesse anche solo provare a capirlo. Sapeva che Natasha aveva avuto
grossi
problemi con incubi e brutti ricordi più volte nella sua vita. Di
norma,
nessuno vorrebbe che le persone a cui tiene siano esperte in questo
genere di
cose e così era anche per Clint, ma non poteva cambiare lo stato delle
cose ed
era un fatto che Natasha fosse probabilmente la persona più adatta ad
aiutarlo
di tutta l’Avengers Facility, forse di tutta New York. D’altra parte,
però, Nat
aveva già la sua buona dose di problemi cui fare fronte, senza contare
le
missioni quotidiane e la convivenza con gli altri Avengers. Clint
sapeva quanto
fosse stressante tutto ciò e vedeva che Natasha era stanca, anche se
faceva
finta di essere sempre al top delle forze, perciò non voleva caricare
con un
altro problema le sue spalle. Scelse una soluzione abbastanza
diplomatica:
«Non
ho sonno»
«Sì,
certo» la voce di Natasha esprimeva tutta la
convinzione della sua proprietaria, cioè assolutamente nulla. La donna
si voltò
verso di lui: sentendola muoversi, Clint dischiuse lentamente le
palpebre.
Appena il suo sguardo poté penetrare un po’ meglio l’oscurità, distinse
chiaramente gli occhi verdi di lei che lo fissavano, o, avrebbe detto
Clint, lo
trafiggevano.
«Clint,
hai sbadigliato fino a cinque minuti prima che ci
sdraiassimo a letto e spegnessimo la luce» disse Natasha, senza
staccargli gli
occhi di dosso «quindi non dirmi che non hai sonno. Cosa c’è che non
va?»
Quello
sguardo lo metteva quasi in soggezione, eppure si
trattava solo di Natasha: conosceva quegli occhi e il loro potere
magnetico,
sapeva quanto potessero essere micidiali. E ora era lui il loro
bersaglio.
Doveva prendere una decisione.
«Non
voglio dormire» rispose
«Non
vuoi?» ripeté Natasha, perplessa.
«Già»
«E
perché?»
Clint
sospirò: «È un po’ lungo da spiegare»
«Io
ho tempo» Natasha rotolò nel letto fino ad azzerare
lo spazio che li separava e appoggiò la testa sul suo petto, coperto
solo da
una sottile canottiera bianca. Clint adeguò il proprio respiro a quello
di lei
per non farla sobbalzare mentre parlava e le circondò le spalle con un
braccio.
Era strano, pensò, come in quella posizione sembrasse così protettivo
nei suoi
confronti, quando invece era lui ad avere bisogno di aiuto e conforto.
Fece un
altro sospiro e cominciò:
«È
iniziato tutto qualche giorno dopo che sei partita.
Penso che sia dovuto anche al dormire da solo in questo letto che mi fa
pensare
a te. Quello che ti dirò ti sembrerà assurdo detto da un uomo adulto,
che ne ha
viste tante nella sua vita, ma ti assicuro che è la cosa più seria che
ti abbia
mai detto» fece una pausa «Ho paura di addormentarmi»
A
Natasha piaceva sentirlo parlare tenendo la testa
appoggiata al suo petto, poteva sentire la sua voce rimbombare nella
cassa
toracica: diventava più profonda. Se non avesse avuto la ferma e
determinata
intenzione di ascoltare ogni singola parola, avrebbe potuto lasciarsi
cullare
dal suono della voce di Clint fino ad addormentarsi. Ma in quel momento
la
priorità era un'altra, aiutarlo, il che comportava capire quale fosse
il problema.
Non aveva molta esperienza di persone con la paura di dormire e quella
che
aveva era quasi tutta in prima persona. Ciò che sapeva per certo era
che
nessuno, neppure i bambini, ha paura di dormire senza un motivo. Lasciò
trascorrere qualche minuto di silenzio, attendendo che Clint
riprendesse a
parlare.
«Ci
sarà un motivo» disse infine, per incoraggiarlo a
continuare.
«Certo
che c'è e puoi anche immaginarlo abbastanza
facilmente» Natasha sentì il cuore di Clint accelerare leggermente e
gli posò
una mano sul petto, davanti al proprio naso, per cercare di calmarlo.
Clint
coprì la sua mano con la propria e riprese a parlare «Incubi. Un incubo
ricorrente, anzi»
Natasha
sapeva che Clint faceva fatica a parlargliene e
trovava che fosse un grande gesto di fiducia nei suoi confronti il
fatto che si
stesse aprendo con lei. Ed era per questo, e per il suo perenne
autocontrollo,
che tollerava con pazienza tutte le pause e le esitazioni di Clint,
lasciandogli il tempo per cercare le parole migliori. Trascorsero
diversi
minuti, che la donna sfruttò per fare qualche respiro profondo e
riempirsi così
le narici del profumo della pelle di Clint. Trovava che desse
leggermente
dipendenza, quell'odore unico e perfetto che contraddistingueva il suo
compagno.
«Mi
trovo in una specie di ospedale. Non vedo mai molto,
ma l'odore è quello. Le pareti sono tutte bianche. Sono legato a una
sedia, di
quelle morbide, proprio come quelle degli ospedali, però non con delle
corde.
Non so con cosa, in realtà, so solo che ogni volta che provo a muovermi
non ci
riesco e sento un dolore fortissimo. C'è una donna nella stanza con me,
sembra
un medico da come è vestita. Non mi ricordo mai molto di lei, ha i
capelli neri
e credo di non averla mai vista nella vita reale, ma non mi viene in
mente altro.
Fa cose diverse nei sogni, a volte scrive, a volte mi guarda, a volte
mi parla,
anche se io non sento cosa dice, ci sono volte che all'inizio non c'è
neanche
ed entra dopo, ma tutte le volte presto o tardi mi infila un ago nella
pelle e
mi inietta qualcosa. E fa male, un dolore che tu non… non puoi
neanche…» gli si
spezzò la voce.
Il
suo respiro era ormai pieno di affanno. Contrasse i
muscoli del braccio destro, stringendo forte la mano di Natasha. Le
faceva
quasi male, ma non disse nulla, perché sentiva che non era il momento
di
lamentarsi. Dopo qualche minuto, Clint riprese a respirare normalmente
e
allentò la stretta, chiedendole scusa a mezza voce. Natasha disse che
non c’era
alcun problema, poi spostò la mano da sotto quella di Clint e la
avvicinò al
suo viso. Clint sussultò leggermente quando si sentì toccare dalle sue
mani
fresche. Natasha accarezzò la linea del suo mento, poi gli sfiorò le
labbra con
la punta delle dita. Infine cercò con delicatezza al buio i suoi occhi
con le
dita e gli sfiorò le palpebre. Clint aveva chiuso gli occhi quando
aveva
cominciato a raccontare, per ricordare meglio, ma poi il ricordo del
dolore
glieli aveva fatti strizzare talmente forte che quasi lacrimavano.
Natasha
accarezzò piano le sue sopracciglia e gli zigomi, cercando di aiutarlo
a
rilassarsi. Clint si abbandonò al dolce contatto che la sua compagna
gli
offriva e sentì la tensione lasciare piano piano il suo corpo.
Dischiuse
leggermente le labbra per fare un respiro più profondo dei precedenti.
Natasha accarezzò
la sua guancia con il dorso delle dita, poi posò di nuovo la mano sul
suo
petto, mentre sentiva Clint farsi più calmo. Decise che doveva
spingerlo a
finire il racconto per permettergli di sfogarsi e magari di riuscire a
superare
la paura che aveva.
«E
poi ti svegli?»
«Sì.
Fa troppo male per poter continuare a dormire. È
come sentire mille aghi che ti perforano la pelle e non poter fare
nulla per
fermarli. Posso solo gridare, ma non sento la mia voce, e cercare di
contorcermi, ma non posso muovermi e provarci mi fa ancora più male.
Sono
abituato a resistere al dolore, ma nessuno sarebbe capace di continuare
a
dormire dopo aver provato… quello»
Il
corpo di Clint ebbe un sussulto quando egli disse
“quello”: Natasha si disse che doveva aver avuto un brivido e si
strinse ancor
di più a lui. Il contatto con il corpo della sua compagna lo rincuorò e
lo
riscaldò un po’.
«Sono
giorni che non faccio una dormita come si deve. Ho
provato a calmarmi prima di dormire in tutti i modi, cercando un minimo
di
riposo, ma ormai le poche ore di sonno che riesco a ottenere sono dei
sonnellini pomeridiani. Speravo che con il tuo ritorno avrei trovato un
po’ di
tranquillità, di distrazione, ma è stato tutto inutile: anche con te al
mio
fianco non riesco a levarmi quelle immagini dalla mente. Speravo anche
di
riuscire a non disturbarti, pur rimanendo sveglio, ma con te non è mica
possibile. Non basta chiudere gli occhi e cercare di mantenere il
respiro
calmo, tu te ne accorgi comunque. Altro che Occhio di Falco» Natasha
sorrise a
quella considerazione. Si alzò dal suo petto e gli accostò la bocca
all’
orecchio.
«Vediamo
di procurarti un po’ di distrazione, allora» gli
bisbigliò
«Guarda,
Nat, io ci ho provato a pensare ad altro, ma ti
giuro che…» fu interrotto dalle labbra di Natasha premute contro le sue.
Rispose
avidamente al suo bacio, stringendola forte tra
le proprie braccia e svuotando la mente. Scomparvero gli aghi e tutto
ciò che
poteva aver sognato in quelle lunghissime settimane senza di lei.
Importavano
solo il qui e l’ora: il qui era il loro letto; l’ora era quell’istante
che
stavano condividendo. Aprì gli occhi: anche al buio, i capelli rossi di
lei
risaltavano sul cuscino chiaro su cui erano sparsi. Natasha lo fissava
negli
occhi, il terribile potere magnetico che aveva visto pochi minuti prima
in
quello sguardo era scomparso, sostituito da una dolcezza che lo lasciò
quasi
confuso. Le accarezzò dolcemente il viso con una mano, senza
distogliere lo
sguardo dai suoi occhi verdi: voleva fissare nella memoria quel
sentimento che
vi vedeva riflesso. Non che Natasha non fosse mai dolce con lui o non
gli
dimostrasse il suo amore in tanti modi diversi –come ascoltarlo a notte
fonda
parlare di incubi ricorrenti, mentre probabilmente era stanca morta– ma
non le
aveva mai visto quell’espressione.
Natasha
gli si avvicinò, baciandolo sul collo, sulle
guance, sulle labbra, sugli occhi e su tutto il viso, mentre seppelliva
le mani
tra i suoi capelli. Clint le accarezzò le braccia e la schiena e le
slacciò il
reggiseno. Natasha accostò la bocca al suo orecchio e bisbigliò, con
una
piccola risata, «Sembra che sia riuscita a distrarti». Clint sorrise e
la baciò
di nuovo. Natasha gli tolse la canottiera e prese a esplorare con le
dita ogni
centimetro della sua pelle, inebriandosi ancora una volta del suo
profumo.
Erano settimane che non si vedevano e avevano molto tempo perso da
recuperare,
anche se erano entrambi molto stanchi. Mentre la stringeva tra le
braccia,
condividendo il suo respiro, Clint si disse che nessun dolore e nessun
incubo
gli avrebbero mai fatto dimenticare Natasha e che per quella notte
aveva
parlato anche troppo di fantasmi dell’oscurità. Doveva lasciarsi andare
e
scacciarli definitivamente dalla sua mente.
Quando
infine si
addormentarono, ancora abbracciati, nel letto disfatto, il loro respiri
erano regolari
come sempre. Clint dormì un lungo sonno senza sogni e il mattino dopo
si
svegliò al suono della sveglia, ringraziando in cuor proprio Natasha
per l’aiuto che aveva
saputo dargli.
Tre
mesi fa
«Lena?»
«Sono
qui, K, dimmi»
«Devo
chiederti un favore. È molto importante e non fido
di nessun altro oltre che di te. Siediti, ti devo spiegare per bene»
Helena
era un po’ preoccupata per l’atteggiamento
misterioso della sua collega coreana: non aveva ancora fatto
l’abitudine a quel
modo di fare e pensava che non l’avrebbe mai fatta. Si sedette di
fronte a lei,
e la fissò, in silenziosa attesa, con una guancia poggiata sulla mano.
«Sai
chi sono gli Avengers, immagino» cominciò Ji-eun, che lei chiamava K come facevano più o meno tutti, e
Helena annuì «e anche che cosa è successo in Sokovia qualche giorno fa»
Helena
annuì ancora «Uno di loro è stato colpito. È in coma»
Ji-eun
sapeva sempre come attirare la sua attenzione.
«La
sorella si è data un sacco da fare, ma da sola non
può farci nulla. Solo io e te possiamo»
«K,
ne abbiamo già parlato: non ci prenderemo cura di
una persona sola. È sbagliato fare preferenze»
«Ma
è un Avenger, Lena, chissà quante vite potrebbe
salvare se fosse attivo. Forse più di quante potremmo noi con le nostre
scoperte. Ti prego»
La
dottoressa Mazur sospirò: «Di chi si tratta?»
«Uno
dei gemelli: il ragazzo superveloce»
«È
giovanissimo!»
«Lo
so, è anche per quello che...»
«D'accordo»
sospirò «Cosa vuoi che faccia? È praticamente
impossibile che si riprenda, qualunque cosa io faccia»
Ji-eun
si strinse nelle spalle: «Fai quello che puoi, il
destino farà il resto»
«Sì,
come no, il destino» rise Helena «questa storia ti
darà alla testa!»
Ji-eun non
rispose, ma
sentiva che quel ragazzo sarebbe guarito. Doveva guarire.
In un certo
senso, sentiva che da qualche parte, in una realtà parallela o forse
solo nei
suoi sogni, il velocista era già
guarito. E se non era destino quello,
non sapeva cosa lo fosse.
The Magic Corner:
Ciao a tutt*! Grazie per
aver dedicato un po' di tempo a leggere questo mio nuovo capitolo, che
spero sia valso l'attesa :) Due paroline veloci e poi vi lascio in pace
perché sto consumando il vostro prezioso tempo e ne ho già abusato a
sufficienza...
Le ship (le cose serie, come dice la mia amica GreekComedy): ebbene sì,
Clintasha... Non so se si fosse notato, ma comunque Clintasha. Ormai
avevo bisogno di fare una scelta definitiva, la Stony mi tentava
moltissimo, è vero, ma ho rinunciato, perché mi sarebbe parsa
un'esagerazione mettere quattro ship in una sola storia e volevo
assolutamente tenere le altre tre. Dopotutto, la trama non è solo un
pretesto per inserire ship! (non stavolta, almeno...)
MA (e sottolineo MA) ho una buona notizia per tutti quelli che shippano
tutte le coppie non presenti in questa storia: siccome sono sadica, ho
già in mente un seguito per questa storia (ebbene sì, vi dovrete
sciroppare pure quello) e... *rullo di tamburi* conterrà delle ship che
qui non sono presenti! Il che significa che potrei lasciarmi convincere
da persone sufficientemente persuasive e inserire la ship più
richiesta. Ma questo succederà quando io finirò questa, quindi tra
qualche migliaio di anni, perciò non c'è fretta.
Sto sperimentando questo nuovo formato: inserirò sempre, d'ora in poi,
alla fine di ogni capitolo una scena come quella che ho messo qui, che
segua la stessa trama. Fidatevi che poi avrà senso... Che ve ne pare
come idea?
Ok, smetto di rompere: se vi fossero rimasti anche solo cinque minuti,
vi sarei estremamente grata se li dedicaste a lasciarmi una recensione,
che -come non mi stanco mai di ripetere- è completamente gratuita e
migliora immediatamente il mio umore! :D
Che gli dèi siano con voi!
-Magic
|
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Capitolo 5 *** Da solo ***
Avvertenze,
leggere e conservare:
Questo capitolo contiene la distruzione di tre ship (non presenti
nell'introduzione), due delle quali molto malamente.
Potrebbero esserci quantità di Angst superiori a quelle consentite a
norma di legge.
Maneggiare con cura. Tenere lontano dalla portata e dalla vista dei
bambini e delle fangirl troppo irritabili.
Da
solo
Di nuovo da solo
Aveva trovato un suo equilibrio,
un modo per tirare avanti,
aveva trovato lei
Lei che si occupava di tutto,
che sorrideva
quando lui dimenticava il suo compleanno
Lei che lo obbligava a portarla al cinema,
ma gli lasciava scegliere il film
Lei che era quella giusta,
perché con lei si sentiva normale
Di nuovo da solo
Dopo ciò che aveva passato,
aveva trovato un nuovo amore,
aveva trovato lei
Lei che aveva fatto il primo passo,
che non lasciava
che lui si dedicasse troppo al lavoro
Lei che si lasciava corteggiare come una volta,
ma lo portava in discoteca il venerdì
Lei che era quella giusta,
perché con lei si sentiva un
ragazzino
Di nuovo solo
in un mondo sconosciuto
come unico appiglio
aveva trovato lei
Lei che lo aveva aspettato,
che si impegnava
per non farlo mai sentire fuori posto
Lei che sapeva scegliere un abito elegante,
ma era bellissima anche in pigiama
Lei che era quella giusta,
perché con lei si sentiva a casa
Tony non
riusciva
a stare fermo: si sedeva su una delle poltroncine della sala d’aspetto
per poi
rialzarsi immediatamente dopo, camminava nervosamente su e giù per la
stanza,
cercava di dare un’occhiata oltre la porta dalla quale erano spariti i
medici,
si sedeva di nuovo e prendeva a torcersi le mani con un’ansia
incredibile che
sarebbe sembrata esagerata a quanti non conoscessero ciò che stava
passando;
era una pena da vedere, impossibile non dispiacersi per lui.
Non
riusciva a
smettere di darsi la colpa di quanto era successo. Si diceva che era
stato lui
a metterla in pericolo tante di quelle volte che era impossibile che
prima o
poi le succedesse qualcosa. Era stato il solito narcisista a pensare di
poterla
proteggere per sempre. Avrebbe dovuto accorgersi del proprio errore fin
da
quando Killian aveva mandato quegli elicotteri a casa sua, fin da
quando era
stata rapita e aveva rischiato la morte, invece no, aveva voluto fare
di testa
propria, come al solito. Solo che di solito quando faceva di testa
propria in
un modo o nell’altro le cose si risolvevano. Quella volta non era così.
La
porta si aprì e
a Tony si fermò il respiro. Due medici, un uomo biondo e una donna
bassa dai
capelli scuri, entrarono nella sala d’aspetto guardandosi intorno: era
una
giornata abbastanza tranquilla. O almeno, lo stavano pensando tutti e
due.
Avevano fatto entrambi dei turni nei giorni successivi alle grandi
catastrofi
che avevano travolto la città e quelle quattro persone che li fissavano
con
trepidazione erano nulla al confronto del loro ricordo di quelle ore
infernali.
L’uomo controllò la cartellina che aveva in mano e poi chiamò un nome,
che Tony
non sentì. Sapeva solo che non aveva chiamato lui. Il suo sguardo si
annebbiò
leggermente, mentre la donna bruna che era seduta accanto a lui si
alzava per
seguire i due medici oltre la porta. Si strofinò gli occhi per vedere
meglio.
Si
costrinse a
rimanere seduto, ma doveva assolutamente fare qualcosa: sentiva che
altrimenti
sarebbe sicuramente impazzito. Infilò una mano in tasca e trovò una
carta di
caramella. Chissà come c’era finita lì. Dopo qualche minuto perso a
guardarla
fisso, si ricordò. L’aveva offerta a lei qualche giorno prima, ma lei
era di
fretta e l’aveva dovuta rifiutare, così l’aveva mangiata al posto suo.
Cominciò
a lisciare la carta finché non fu perfettamente liscia, poi cominciò a
piegarla
in triangoli sempre più piccoli.
Era
sicuramente
colpa sua. Non sapeva perché quegli uomini avessero fatto quello che
avevano
fatto, ma era certo che fosse colpa sua. Lei era sempre così impegnata
perché
aveva preso sulle proprie spalle tutte le incombenze che Tony
trascurava e
l’attività di lui era estremamente pericolosa per coloro che gli
stavano
intorno. Chissà se avevano voluto colpire le Stark Industries o Tony
Stark
personalmente. Li avrebbe trovati. Voleva interrogarli, tirare fuori da
loro
ogni particolare di quello che avevano fatto, scoprire il mandante, se
ce n’era
uno, e fargliela pagare.
La
porta si aprì
di nuovo proprio mentre finiva una piega alla carta di caramella. Lo
stesso medico di prima
accompagnò dentro un collega minuto, dai capelli neri. Si
comportavano in
modo diverso da prima: i loro
sguardi erano rivolti per terra,
evitando quelli di tutti i presenti. Le tre persone che erano sedute in
attesa
si alzarono in piedi nello stesso momento, trattenendo il fiato per la
paura.
«Virginia
Potts»
mormorò il biondo a un volume di voce troppo basso perché qualcuno di
loro
potesse sentire. I tre chiesero all’unisono di ripetere. L’uomo scosse
la
testa, come se non avesse potuto, e guardò il collega.
«Virginia
Potts» ripeté
il moro.
Tony
fece un passo
avanti come in un sogno. La carta di caramella che aveva in mano gli
cadde per
terra. Nella sua testa fece un rumore fortissimo, come quello di un
palazzo di
quindici piani che collassa sulle proprie fondamenta. Nella realtà
nessuno la
sentì. Le altre due persone si sedettero. Sapeva che erano sollevate,
da
qualche parte dentro di lui c’era una parte minuscola della sua
coscienza che
li capiva, ma non poteva impedirsi di odiarli con tutto il cuore,
perché non
erano loro che stavano seguendo i medici oltre quella porta. Fece
qualche passo
nel corridoio, poi sentì il mondo girare e si fermò. Cercò di
deglutire, ma la
sua gola era secca. Si appoggiò al muro e guardò i due medici.
I
due uomini
conoscevano quello sguardo, l’avevano visto tante volte nel loro
lavoro. Era la
disperazione più nera, trattenuta appena da un filo sottilissimo di
speranza, alla
quale Tony si stava aggrappando con tutte le forze. “Contraddite i miei
pensieri” imploravano quegli occhi scuri “Contradditemi. Per favore.
Voglio
avere torto. Non succede mai. Fatemi avere torto”. Promise a se stesso
che non
avrebbe mai più permesso che succedesse una cosa simile. Se
gliel’avessero
ridata indietro, avrebbe rinunciato a quella vita, alle armature, a
tutto
quanto, pur di tenerla al sicuro. Le avrebbe dedicato ogni singolo
istante
della propria vita. Ora lo sapeva, sentiva in ogni cellula del suo
corpo, che
gridava di dolore per ciò che stava accadendo, che Pepper era la cosa
più
importante della sua vita.
Lei
che gli era
stata accanto in tutti i momenti più difficili, che l’aveva sopportato,
che lo
aveva aiutato a risollevarsi dai periodi più neri, dallo stress più
opprimente.
Lei che gli aveva finalmente ridato una sorta di equilibrio, di pace.
Lei, alla
quale era certo di aver detto troppe poche volte che l’amava. Lei che
ormai se
l’aspettava che Tony si dimenticasse del suo compleanno, ma poi
pretendeva che
lui la portasse al cinema per farsi perdonare. Con lei si sentiva così giusto, come se non ci fosse nulla di
più normale che essere come lui. Aveva sognato per tutta la vita di
trovare
qualcuno così. Non potevano portargliela via, doveva dirle che l’amava,
almeno
altre dodici volte. Guardò prima l’uno, poi l’altro medico.
«Mi
dispiace» disse
il moro «Non ho potuto fare nulla. Lei…» non aggiunse altro, lasciando
in
sospeso la frase, ma sapevano tutti che cosa voleva dire. Tony lo
guardò fisso
negli occhi, come se non avesse capito quello che aveva detto. Come se
avesse
parlato un’altra lingua. Ma poi fu certo di aver capito anche troppo
bene. Vide
l’ospedale ruotare intorno alla sua testa. Si sentì cadere e chiuse gli
occhi.
Il biondo lo sostenne con un braccio.
«No»
mormorò Tony.
La sua voce era così fioca che i due medici non si sarebbero nemmeno
accorti
che stava parlando, se non l’avessero visto muovere le labbra.
«No»
il biondo
lanciò uno sguardo al moro. “Che cosa possiamo fare per lui?” chiese
con gli
occhi. “Nulla. Lo sai” fu la rassegnata quanto silenziosa risposta del
collega.
«No»
ripeté ancora
Tony.
«No»
«Se
è questo che
pensi, puoi anche andartene. Conosci la strada per casa, la porta è di
là»
Sharon lo fissava con i suoi occhi azzurri. La rabbia era quasi
palpabile
nell’aria. Steve si pentì immediatamente di ciò che aveva detto:
«Scusa,
Sharon, io non intendevo…»
«Invece
intendevi»
lo interruppe Sharon «E avevi ragione»
«No,
Sharon,
scusa, è che sono molto stanco in questo periodo e le cose tra noi non
stanno
andando benissimo, ma non ne parliamo mai e quindi…»
«Sì,
è vero, non
ne parliamo mai» cominciò Sharon, che evidentemente aveva ragionato a
lungo
sull’argomento e sapeva cosa dire «Ma cosa vorresti dire? Vorresti dire
che non
andiamo d’accordo su molte cose? Perché è vero. Vorresti dire che non
siamo
capaci di ascoltare l’altro e le sue necessità? È verissimo anche
questo.
Litighiamo, Steve, gridando per il piacere di gridare. Non ci interessa
neanche
che l’altro senta quello che abbiamo da dire. È sufficiente stare
gridando, te
ne sei accorto? Quante volte sono, ormai, che ci urliamo addosso per
poi
accorgerci che eravamo d’accordo? Non siamo capaci di stare attenti
all’altra
persona, non dico ai suoi bisogni, a quello che potrebbe volere, ma a
quello
che dice in quel preciso istante. Ci interessiamo così poco che stiamo
anche
smettendo di faticare per trovare un momento per vederci. E d’altronde,
perché
dovremmo cercarlo, se poi ogni volta che ci vediamo il risultato è
questo?»
Sharon
fece una
pausa, cercando con gli occhi quelli di Steve per cercare di capire se
il suo
discorso stesse sortendo un minimo effetto. L’uomo pareva davvero
impressionato, così lei riprese: «Non siamo fidanzati perché abbiamo
deciso
così liberamente, Steve, ma non siamo neanche una coppia. Non siamo
niente,
solo due persone che si sentono sole e cercano maldestramente di
alleviare
questo sentimento. Due egoisti che non sanno se stiano cercando
qualcuno da
ignorare o qualcuno di cui gli importi abbastanza da sforzarsi un
minimo. Io ho
il nuovo lavoro e non sarei disposta a sacrificare un’ora di lavoro per
uscire
con te. Tu lo sai e non me l’hai mai chiesto. Ma anche tu non
rinunceresti ad
alcun incontro con i Vendicatori o missione, se te lo chiedessi» Steve
fece per
dire qualcosa, forse per protestare, ma cambiò idea, scuotendo la testa.
«Certo»
continuò
Sharon «abbiamo del tempo per vederci lo stesso, ma è la certezza che
ci sia
qualcosa che per l’altro conta più di noi che non fa funzionare il
tutto. Non
ci siamo mai promessi una relazione di dedizione completa, è vero,
nessuno di
noi voleva annullarsi per l’altro, ma c’è una bella differenza tra il
non
volersi annullare per l’altro e l’ignorarlo palesemente»
«Io
non ti ignoro
palesemente, Sharon!» esclamò Steve contrariato «E nemmeno tu e lo sai
benissimo»
«D’accordo,
d’accordo, ma dimmi sinceramente –sinceramente, ok?» Steve annuì
«Davvero non
hai mai avuto anche tu la sensazione che ci sia qualcosa che non va tra
di noi
oltre ai litigi? Davvero non ti è mai sembrato che ci importasse troppo
poco
l’uno dell’altra?»
«Io…»
Steve fece
una pausa e respirò profondamente un paio di volte «In effetti, sì. Ma
sono
sensazioni passeggere, Sharon. Quello che resta è altro. Sono i bei
momenti
passati insieme, le volte che ci cerchiamo senza aver bisogno di
qualcosa, quei
pensieri che dedichiamo all’altro durante la nostra giornata perché
qualcosa ci
fa ricordare un battuta che abbiamo fatto. Le canzoni che ascoltiamo
insieme
cantando a squarciagola, tu che setacci i locali alla ricerca
dell’hamburger
più grande del mondo e io che ti vengo dietro come un idiota. Questo è
quello
che conta. Quando andiamo in moto insieme e sembra che il tempo si
fermi,
questo è quello che conta!»
Sharon
sorrise
sentendolo parlare così, ma scosse comunque la testa: «No, Steve, per
me non è
una sensazione passeggera. E anche se posso sorridere anch’io dei bei
momenti
che hai descritto adesso, non credo di poter continuare così. Non sento
più lo
stesso legame tra noi. Da qualche parte, tra i tuoi civili morti e le
mie
missioni segrete, si è rotto il filo che ci univa più strettamente e io
mi
sento fluttuare. Non ce la faccio, Steve, mi dispiace. Dai pure tutta
la colpa
a me, non credo ci sia cosa più giusta»
La
donna raccolse
la propria borsetta dal divano e la giacca dall’appendiabiti. Si
avvicinò a
Steve, esitò per un attimo, poi gli diede un bacio all’angolo della
bocca.
Steve cercò con poca convinzione di trattenerla tra le proprie braccia,
ma
Sharon scivolò con grazia lontano dalla sua presa: «Ti prego, non
cercarmi più.
Mi mancherai»
Steve
rimase come inebetito a fissare la porta anche molto tempo dopo che
lei era andata via, chiudendola alle proprie spalle e seppe senza ombra
di
dubbio che si trovava un’altra volta da solo. Sentì fortissima la
mancanza di
Bucky, di Peggy e di tutti gli altri amici che aveva perso. Aveva il
presentimento che presto avrebbe sentito anche la mancanza di Sharon.
Era
l'una e mezza del pomeriggio. Il cielo grigio sembrava voler
schiacciare la
terra con la propria incombenza. Il
cellulare di Thor continuava a squillare. Dopo
averlo cercato, invano, per tutta la camera da letto, il dio lo trovò
sul
tavolo della cucina.
«Pronto?»
“Thor, sono Darcy” «Ciao, Darcy, dimmi pure» “Dovresti venire qui.
Subito” «È
proprio così urgente?» “Si tratta di Jane” «Arrivo, dove siete?» “Sai
dov'è il
laboratorio?” «Sì. Ma cosa è successo?» “È meglio che tu lo veda di
persona.
Non voglio che guidi preoccupato” «Perché, credi che non lo sia
adesso?»
“Fidati, è meglio così.”
Thor
avrebbe voluto chiederle altro, ma Darcy riattaccò. Al dio non restò
altro da
fare che cambiarsi in tutta fretta, uscire di casa e guidare
agitatissimo fino
al laboratorio di Jane. Fuori piovigginava: stando in casa non se n'era
accorto. Non aveva preso alcun ombrello, ma era abituato alla pioggia.
Parcheggiò
poco distante e percorse a piedi le poche centinaia di metri che
rimanevano.
La
prima
cosa che sentì fu il rumore: voci di gente che discuteva, raccontava,
faceva
telefonate, commentava e gridava. Di solito con la pioggia e il freddo
la gente
non si fermava mai, aveva sempre fretta di andare da qualche parte.
Invece lì
c'era un numero inspiegabilmente alto di persone. Poi vide l’ambulanza.
E
realizzò che doveva essere successo qualcosa di brutto. Darcy gli corse
incontro, sembrava sconvolta: «Thor! Eccoti, finalmente!»
«Cosa
è successo, si può sapere?»
«Non
lo so esattamente neanche io. Io, noi... Ero con Jane e lo stagista e
stavamo
andando a pranzo nella tavola calda qui vicino. A un certo punto mi
sono girata
e… Oddio, quanto mi dispiace… Jane non c'era più. Ho sentito delle urla
là
fuori… Non sai che spavento… e sono uscita di corsa. E ho visto, lei
era...
L'autista stava scendendo in quel momento dalla macchina. Quando ha
visto che...
quello che era successo, ha cominciato a gridare come un ossesso e poi
noi, io...»
Thor
smise di ascoltarla. "Quello che era successo" aveva detto Darcy. Ma
cosa era successo? Fece qualche passo avanti, verso l'ambulanza, e si
trovò
vicino a quella folla incredibile. C'era davvero troppa gente.
Vedendolo, le
persone si spostavano: alcuni riconoscevano il dio del tuono, altri
erano
semplicemente messi in soggezione da quell'uomo biondo imponente che
aveva
l'aria di chi arriverà dove vuole, senza nessun problema a camminarti
sopra, se
necessario. Gli infermieri, due donne e un uomo, erano già risaliti a
bordo
dell'ambulanza e stavano per chiudere le porte per poter partire. Thor
intravide una donna distesa, coperta con un telo: «Jane?» disse
I
tre
si voltarono a guardarlo. Una delle due donne si scese dal veicolo e
fece segno
agli altri di andare, poi si avvicinò al biondo che fissava confuso le
porte
ormai chiuse. «È qui per la signorina Foster?» gli chiese. Ricevette
come unica
risposta un lieve cenno del capo.
«Mi
dispiace molto»
Partita
l'ambulanza, la folla cominciò a disperdersi, scoraggiata dalla pioggia
che si
faceva sempre più battente. Darcy contribuì con la sua consueta
cordialità a
farli andare via: «Su, andate! Razza di avvoltoi, non c'è nulla da
vedere!» poi
si rifugiò dalla pioggia sotto un balcone. In mezzo alla strada
rimaneva
soltanto il dio, che continuava a fissare davanti a sé con occhi
vitrei, come
se ci fosse stata ancora l'ambulanza.
«Jane!»
cominciò a gridare Thor, dopo aver realizzato il significato di ciò che
aveva
visto. L'infermiera, una donna bionda, robusta e dai grandi occhi
scuri, gli si
avvicinò. Fece un sospiro: le era già capitato molte volte di trovarsi
in
quella situazione, ma era quel genere di cose al quale non si sarebbe
mai
abituata, ogni volta era come la prima. Posò una mano sulla spalla
dell'uomo,
che continuava a gridare.
«Jane,
Jane, Jane, Jane...» ripeteva Thor. Quella parola, il cui suono stesso
era
diventato sinonimo di serenità per lui, cominciava a sembrargli
terribilmente
odiosa. Jane. Quattro lettere, come casa. Perché era quello che era lei
per
lui. Casa. Quelle quattro lettere un bel giorno erano passate da non
significare nulla a voler dire “casa”. E tutto grazie a lei.
Cadde in ginocchio sul marciapiede, mentre la pioggia gli
infradiciava i capelli biondi facendoli appiccicare alla sua fronte. La
donna
di fianco a lui non dava segno di volersi muovere. Thor fu colto dal
desiderio
di spingerla in terra con tutta la forza che aveva. Quella donna non
poteva capire
la lacerazione che sentiva dentro di sé. Eppure rimaneva lì, a
prendersi la
pioggia come lui, per stragli accanto. Per lui. Trattenne il proprio
primo
impulso e la guardò.
L’uomo
alzò lo sguardo verso di lei e la donna ci vide la disperazione più
nera e
totale. Riconobbe se stessa anni prima. Non sapeva cosa dire. Anzi,
sapeva che
non c’era nulla da dire che potesse combattere l’abisso scuro che, ne
era
certa, si stava aprendo dentro di lui. Con un gesto delicato, quasi
materno,
gli spostò le ciocche appiccicate sulla fronte da davanti agli occhi.
Thor si
sedette sui talloni e tornò a guardare i segni di pneumatici della
frenata che
segnalavano il luogo dell’incidente. La donna si sedette di fianco a
lui
sull’asfalto bagnato per portarsi alla sua altezza, come si fa con i
bambini,
incurante dei vestiti sempre più inzuppati d’acqua e del freddo che
sentiva
correrle lungo la schiena. Thor si voltò di nuovo verso di lei,
facendole
provare il desiderio di distogliere lo sguardo. La donna resistette a
quel vuoto
negli occhi azzurri di lui che sembrava voler risucchiare qualunque
cosa lo
circondasse.
«Mi
chiamo Natalie» disse
«Thor,
figlio di Odino» rispose il dio, senza cambiare espressione,
distogliendo lo
sguardo per tornare a guardare il luogo dell’incidente «Mentre lei è,
era,
Jane» pronunciare quel nome gli diede un brivido imprevisto lungo la
schiena.
«Fa
male» disse Natalie. Non era una domanda. Thor capì. Non era vero che
non
capiva la sua lacerazione. Doveva averla sentita anche lei, un tempo.
Ce n’era
ancora una dolorosa sfumatura, nella sua voce.
«Con
il tempo migliora. Leggermente. Ma continua sempre a fare male. Sempre.
Dopo
tanto tempo, a volte puoi distrarti e dimenticare. Ma non potrai mai
cancellarlo del tutto. È una parte di te anche questo. Puoi conviverci,
ma non
puoi cacciarla»
«Perché
mi dici questo?»
«Perché
quando a me dissero che il tempo avrebbe lenito le ferite, che sarebbe
passata,
io sentii un terribile istinto omicida. Era una bugia, lo sapevo io e
lo
sapevano tutti quelli che continuavano a dirmelo, come se ripeterlo
avesse
potuto renderlo vero. Le bugie non aiutano a sopravvivere a questo
genere di
cose. E io voglio aiutarti»
«E
perché vuoi aiutarmi?» In quegli attimi assurdi, Thor non riusciva a
impedirsi
di fare domande, come se l’unica cosa importante in quel momento fosse
ascoltare Natalie che gli spiegava cosa stesse succedendo. L’unico modo
per non
sentire l’urlo assordante che c’era nella sua testa e ripeteva “Jane,
Jane”.
Casa.
«Perché
è questo che faccio io nella vita. Sono un’infermiera, aiuto le
persone. Lo so
cosa stai passando, ok? Lo so come so perfettamente che non ci si passa
sopra.
Mai. Ma si può sopravvivere comunque. Non da soli. Da soli è quasi
impossibile.
Per questo ci sono io»
«Tu
credi si possa sopravvivere?»
«Lo
so. Guardami, sono ancora qui» ci fu una pausa di silenzio, in cui Thor
la
fissò a lungo, come se avesse voluto davvero sincerarsi che lei fosse
viva, che
si potesse in qualche modo sopravvivere al buco nero che aveva preso il
posto
del suo stomaco e lo stava risucchiando da dentro. Natalie si sentì,
forse, un
po’ in soggezione per quello sguardo così intenso, ma se era così non
lo diede
a vedere.
«Cos’era
lei per te?» domandò dopo qualche minuto. Aveva freddo, ma non era il
caso di
muoversi da lì. Sapeva che doveva farlo parlare, se si fosse tenuto
tutto
dentro avrebbe potuto esserne soffocato.
Thor
esplorò la propria mente alla ricerca di una risposta adatta, ma poi si
disse
che era una ricerca inutile, perché c’era una cosa sola che potesse
dire:
«Casa»
«Casa?»
ripeté Natalie
«Casa.
Un porto asciutto, un luogo dove mi sentivo sicuro, dove non dovevo
combattere.
Questo era lei. La persona che mi ha accolto, senza farmi sentire fuori
posto.
Si impegnava ogni singolo giorno della nostra vita insieme per
dimostrarmi che
se il mondo mi vedeva diverso allora era il mondo ad avere qualcosa che
non
andava. Lo sai, sono stato via tanto tempo. Mi ha aspettato. Ha cercato
di
dimenticarmi, l’ho fatto anche io. Ma in realtà ci stavamo aspettando
tutti e
due. E tornare da lei è stato come tornare a casa»
La
pioggia stava diminuendo. Natalie si scostò i capelli fradici da
davanti al
viso, asciugandosi gli occhi per riuscire a vedere: «E com’era lei?»
«Bella,
bella come il sole. Quei capelli scuri, ogni tanto cominciava ad
arrotolarsi una
ciocca tra le dita e sembrava ancora più bella. Decisa, anche. Quando
mi ha
rivisto dopo tutto quel tempo che ero stato via, sai qual è stata la
prima cosa
che ha fatto?»
«Cosa?»
Thor
sorrise ricordandolo: «Mi ha dato uno schiaffo. Anzi, due. Il primo
perché
aveva avuto delle specie di allucinazioni e voleva sapere se fossi
reale. Il
secondo perché ero stato via per un’eternità senza dirle niente e lei
mi aveva
visto in televisione a New York con i Vendicatori»
«Un’eternità?»
«Sì,
beh, per gli umani era tanto tempo. Per gli innamorati il tempo non
passato insieme
è sempre troppo lungo. E per una umana innamorata… Non ne parliamo»
«Puoi
dirmi qualcos’altro su di lei?»
«Piaceva
a mia madre» Natalie si disse che voleva dire molto, per gli dèi come
per gli
umani «Sarebbe dovuta rimanere ad Asgard tutta la vita. Mia madre era
felice di
averla lì, con i nostri abiti era ancora più bella e poi…» si rabbuiò e
tacque
«Cosa?»
«Non
ci sono automobili ad Asgard»
Aveva
smesso di piovere, anche se il cielo era ancora ingombro di nuvole
alquanto
minacciose. Natalie si alzò in piedi e porse a Thor una mano. Il dio si
alzò a
propria volta, senza prenderla e la guardò, come aspettando qualcosa.
«Vieni,
andiamo»
«Dove?»
«Ti
accompagno a casa»
«Sono
venuto in macchina»
«Allora
ti accompagno in macchina. Non sei in condizioni di guidare» gli tese
una mano.
Thor frugò un po’ nelle tasche, estrasse le chiavi della macchina e le
diede
alla donna.
«Grazie»
Due
mesi e due settimane prima, altrove
Helena
era partita da appena una settimana e già Ji-eun
ne sentiva la mancanza. La clinica dove veniva accudito il ragazzo
doveva
rimanere il più segreta possibile e lo stesso valeva per lo studio dove
la
coreana continuava a portare avanti i suoi studi, così i contatti tra
le due
sedi erano ridotti al minimo. Ji si trovava praticamente isolata dal
mondo,
fatta eccezione per Diego, l’universitario che arrotondava facendo le
compere
al posto suo. Le mancavano le cene silenziose e di fretta a base di
panini,
quando erano entrambe così concentrate sul loro lavoro da continuare a
pensarci
anche mentre mangiavano. Le mancavano anche le cene più rilassate,
quando una
di loro decideva di cucinare, aprivano una bottiglia di vino e si
lasciavano andare
a chiacchiere e battute. Le mancavano quei momenti speciali in cui
sentiva
davvero il legame che le univa. Lena era l’amica migliore che avesse.
Si
conoscevano da poco tempo, ma si intendevano come se avessero sempre
vissuto
insieme. Eppure erano così diverse: Helena amava parlare, Ji-eun
preferiva
passare ore ad ascoltarla. La coreana era una sognatrice, un’idealista,
mentre
la sua collega sapeva riportarla con i piedi per terra ogni volta che
Ji si
lanciava in dissertazioni su qualche strano concetto astratto. Erano le
uniche
occasioni in cui Ji-eun parlava e Lena la ascoltava, invece del
contrario.
Ji sentiva la mancanza anche di quelle: Helena era la sua
interlocutrice
preferita.
Ma
più del contatto umano a Ji-eun mancava il confronto,
il dibattito scientifico cui Lena sottoponeva qualunque embrione di
idea
provasse a proporre. Sul momento lo trovava sempre molto fastidioso, ma
doveva
riconoscere che la sua utilità era assolutamente non trascurabile.
Helena aveva
una mente estremamente acuta ed era pragmatica, molto più di Ji. Se la
coreana le
avesse raccontato del sogno che aveva fatto e delle decisioni che aveva
preso
in base a quello, avrebbe sicuramente smontato il suo ragionamento in
pochi
minuti. Avrebbe scacciato quei fantasmi che Ji-eun cominciava a
ritrovarsi
intorno sempre più spesso. Ma Lena lì non c’era e Ji, benché sapesse
che si
trattava solo di un sogno, non riusciva a scollarselo dalla testa.
Era ora di
cominciare.
The Magic Corner:
Ciao
a tutt*! Grazie per aver dedicato un po' del vostro tempo a leggere
questa fic e grazie soprattutto alle 5 persone che hanno messo questa
storia tra le seguite e alle 2 che l'hanno messa tra le preferite. Non
mi aspettavo così tante persone, grazie davvero, gente, siete
fantastici <3
Ebbene sì, per una volta sono riuscita ad aggiornare in tempi decenti!
(benedette vacanze di Pasqua, ahimè domani è l'ultimo giorno...)
Oltretutto, questo è ufficialmente il capitolo più lungo che abbia
scritto finora, con 8 pagine Word e oltre 4000 parole. Così, per darvi
un po' di numeri casuali :D
Altre cose da dire: non odiatemi. Per favore, seriamente. Lo so, ho
appena strappato in mille pezzettini tre ship. Sento già sostenitori
della Pepperony, della Staron e della Thor/Jane (come si chiama?
Fosterson?) che mi vengono a picchiare sotto casa. Mi piange il cuore.
Mi sento molto male per quello che ho fatto. Li shippo anch'io,
credetemi. Ma le necessità di trama sono più forti. Non sono le ultime
ship che andranno in pezzi in questa storia, ve lo dico da ora. Il tag
Angst non è messo a caso.
A proposito di Sharon Carter... Mi preme sottolineare che non avevo
progettato di inserirla nella trama. E allora che ci fa qui? Ci fa un
bel casino psicologico per Cap. Ci fa che avevo bisogno che anche lui
avesse problemi di cuore (nella prima stesura moriva anche lei, questo
è già un miglioramento). Ci fa, soprattutto, un tributo alla povera
agente Carter. Ho scoperto qualche giorno fa che ci troviamo nel mese
di apprezzamento per Sharon Carter. Ho letto dei post su tumblr e
affini e mi sono detta che volevo partecipare anch'io. Lo devo
ammettere, non la adoro come fa certa gente, ma -che diamine!-
l'abbiamo vista a malapena in due scene di The Winter Soldier! Come
fate a odiarla così visceralmente? Non distrugge le ship con Cap... Non
erano Canon prima e non lo sono ora, cosa cambia? Quindi ecco spiegato
il cammeo di Sharon.
Natalie si chiama così in onore della vera Jane Foster (aka Natalie
Portman) e *fun fact* la Sharon Carter dei fumetti è davvero
ossessionata con la ricerca dell'hamburger più grande del mondo (ah,
cosa non si impara da marvel.wiki!)
Mi sembra non ci sia altro da aggiungere, perciò faccio che smettere di
scrivere e pubblicare questo capitolo così una commedia greca a
caso è contenta.
Come al solito, vi ricordo che lasciare recensioni è completamente
gratuito (e mi rende tanto felice) e vi ringrazio di starmi sopportando.
Che gli dèi siano con voi!
-Magic
|
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Capitolo 6 *** Fiabe da un'altra vita ***
Campagna
di Promozione Sociale -
Messaggio No Profit:
Non essere
indifferente!
Salva anche tu
una tastiera da
pazzoidi che la massacrano scrivendo come
disperate!
Scrivi una
recensione!
Non chiudere gli
occhi, puoi
salvare milioni di vite elettroniche!
Fiabe
da un’altra vita
Sono dunque ancora vivo.
Quest’aria che
entra nei miei polmoni
è soffio di vita,
il mio spirito
ancora risiede in me
e un giorno forse
potrò finalmente
tornare alla luce
del giorno,
alla vera luce del
sole,
e non a questa
luce impietosa,
che non ha smesso
un attimo di
tormentarmi.
Le memorie che
permangono
nella mia mente
pur annebbiata,
che si
ripresentano non invitate,
giorno e notte, in
sonno e in veglia,
sono dunque
immagini di passato,
non di una vita
ormai lontana,
irraggiungibile.
La voce che sento
accanto a me
appartiene dunque
a qualcuno di vivo,
di reale quanto me,
quanto il mio
respiro,
quanto le persone
di cui mi ricordo,
ascoltando quella
voce.
Le parole che
pronuncia
creano in me
inquietudine e memoria
di vita vera
e di fiabe di
tanto tempo fa,
così lontano che
pare fosse
un’altra vita.
Il suo primo pensiero appena si svegliò fu Mamma.
C’era qualcuno con lui. Una
donna. Stava parlando, ma, nell’incoscienza di chi dormiva fino a un
attimo
prima, non riusciva a distinguere le parole che stava pronunciando.
Però sulla
voce non poteva sbagliarsi: era simile, anzi, era identica a quella di
sua
madre. Non poteva essere altri che lei. Cercò di chiamarla, ma i suoi
muscoli
continuavano a non rispondere alla sua volontà. Avrebbe tanto voluto
riuscire a
capire che cosa stava dicendo. Mentre si sforzava di distinguere i
suoni e
suddividerli in parole di senso compiuto, un pensiero lo colpì con la
forza di
un terremoto: non poteva essere sua madre. O meglio, sarebbe potuta
essere sua
madre solo in caso lui fosse stato effettivamente morto, ma in
quell’ultimo
periodo si era quasi convinto di avercela fatta, di essere vivo o
almeno
sopravvissuto. Quindi quella non era sua madre, o così voleva sperare.
Ma
allora chi era? In tutto il tempo che era stato lì era sempre rimasto
da solo,
e invece ora eccola lì. Chissà, forse era sempre stata lì, ma non si
era mai
messa a parlare.
Sempre. Ma
quanto era sempre?
Era curioso: la
gente di solito calcola la durata di
tutto basandosi sul tempo che trascorre non dormendo. Lui, invece,
rimaneva
sveglio per così poco tempo che doveva cercare di misurare il tempo in
base ai
propri sogni. E pertanto la misurazione risultava estremamente
imprecisa. Non
era sicuro di quanto tempo fosse passato da quando si era risvegliato
la prima
volta, non sapeva nemmeno se non fosse successo tutto lo stesso giorno
e la sua
mente annebbiata dal sonno e indebolita non avesse dilatato i suoi
risvegli,
facendo sembrare tutto più lento. Anche quando si svegliava non
riusciva ad
avere una minima idea di che ore fossero o almeno se fosse buio o no.
C’era
sempre quella letale luce bianca che lo aggrediva come una lama.
Fu allora,
pensando a quell’abbagliante biancore, che si
rese conto che era sparito. La luce era tornata normale. Poteva di
nuovo aprire
gli occhi. Li spalancò e vide. Era vero, forse era successo tutto nello
stesso
giorno, ma a lui sembrava che fossero passati mesi, in cui non aveva
visto
nulla se non le immagini spaventose dei propri sogni. E perciò si prese
tutto
il tempo per guardarsi intorno. Si trovava al chiuso, non c'erano
dubbi, e la
stanza era abbastanza buia da non infastidire i suoi occhi ma non
completamente
avvolta nell'oscurità. Non riusciva a muoversi come voleva, perciò era
costretto a fissare quello che sembrava essere il soffitto. Per quanto
poteva
vedere, era di un bel colore, lo trovava rilassante. Non riusciva a
identificare perfettamente se fosse più grigio o più azzurro, ma era
senza
dubbio una tinta da posto rassicurante, con le tendine ricamate alle
finestre e
un mazzo di fiori freschi sul comodino. Era un colore da ospedale.
Logico, si
disse. In fondo, se non era morto era probabilmente in coma. Un
ospedale
sembrava il luogo giusto dove portare qualcuno di incosciente che in un
futuro
non si sa quanto prossimo si sarebbe potuto svegliare.
Quel
colore però era davvero rilassante, e poi la
scoperta del mondo attorno a lui lo aveva stancato moltissimo. Stava
cominciando a perdere il controllo della propria mente, il che voleva
dire sonno
e perciò cattivi ricordi in agguato. Per la prima volta dopo tanto
tempo, però,
quella che vide non fu Sokovia. Niente città volanti, niente arcieri,
niente
corse a perdifiato in mezzo alle macerie. Vide una casa. Piccola ma
accogliente, illuminata da un piccolo lampadario al centro della
cucina. Come
l’aveva sempre ricordata. Casa. Prima
che succedessero tutte quelle brutte cose. Prima che i compleanni
smettessero
di sapere di croccante di sesamo. Prima che smettessero di fare le gite
la
domenica pomeriggio. Casa. E chissà
che da qualche parte non ci fosse la mamma. La cercò verso la camera da
letto
di quando erano piccoli. Era seduta vicino ai due lettini gemelli,
proprio in
mezzo tra l’uno e l’altro. Solo che non c’era nessuno sdraiato sopra.
La mamma
sembrava non essersene accorta e leggeva per loro come aveva fatto
tante volte.
Aveva un grande libro di fiabe, che aveva scritto riportando quelle che
erano
state raccontate a lei e a suo marito quando erano piccoli, e ogni sera
ne
leggeva una per conciliare loro il sonno. Aveva continuato anche quando
erano
diventati grandi, un piccolo rito che non volevano venisse raccontato
in giro
perché se ne vergognavano, ma a cui non avrebbero mai rinunciato. E di
tutte la
loro preferita era sempre stata Hänsel e Gretel, probabilmente perché
si
identificavano con i protagonisti. Ricordava ancora come cominciava.
Davanti
a un gran bosco abitava un povero taglialegna che non aveva di che
sfamarsi;
riusciva a stento a procurare il pane per sua moglie e i suoi due
bambini:
Hänsel e Gretel.
Mentre
pronunciava nella propria mente i nomi dei due
bambini, si risvegliò. Riusciva finalmente a distinguere le parole
pronunciate
dalla donna che si trovava con lui. Stava leggendo una fiaba anche lei,
ma non
una fiaba qualunque. Stava leggendo Hänsel e Gretel. Si mise ad
ascoltarla,
mentre le parole che leggeva gli facevano tornare in mente tanti
ricordi che
quasi gli girava la testa.
La luna
splendeva chiara e i ciottoli bianchi rilucevano come monete nuove di
zecca.
Quante
volte se n’era uscito la
notte sul balcone a guardare le stelle. Era sempre stato un’anima
inquieta e
gli capitava molto spesso di svegliarsi mentre nella casa tutto era
buio e
silenzio. Non volendo disturbare nessuno e tantomeno sua sorella,
usciva sul
piccolo terrazzo che avevano, che aveva spazio a malapena per due
persone, ma a
lui andava benissimo. Rimaneva lì anche per ore se la notte non era
troppo
fredda. Aveva tanta di quell’energia che non gli bastava il giorno per
sfogarla:
doveva rimanere fuori anche di notte, cercando di calmare un po’ l’argento vivo che a detta di tutti gli
scorreva nelle vene.
Ah,
babbo, guardo il mio gattino bianco che è sul tetto e vuole dirmi addio.
Se l’era
dimenticato. Erano passati tanti
anni, certo, ma non
riusciva a capire come avesse fatto a
dimenticarselo. Quando erano piccoli, avevano una gatta. Si chiamava
Polvere,
perché quando la mamma l’aveva trovata per la prima volta l’aveva
scambiata
proprio per quello. Si era nascosta in un cassetto e mentre stava
spolverando
la mamma se l’era trovata davanti. Era completamente grigia, fatta
eccezione
per la punta delle zampe e della coda, che erano nere. Era una gatta
molto
indipendente, era sempre stato difficile tenerla a bada. Non voleva
stare
rinchiusa da nessuna parte e se si sentiva costretta scappava sui
tetti, ma era
affezionata alla famiglia e alla fine tornava sempre. Un giorno non era
più
tornata: lui e sua sorella avevano pianto molto.
E
quando la luna sorse, prese Gretel per mano.
Una
volta, poco prima che
scoppiasse la guerra, lui e sua sorella avevano deciso di fuggire di
casa. Non
era stata una scelta molto ponderata: avevano litigato tutti e due con
mamma e
papà ed erano arrabbiati con il mondo. Avevano preparato uno zaino a
testa ed
erano andati via. Erano stati per un giorno intero nella campagna che
circondava il loro villaggio, senza sapere esattamente cosa fare, poi
avevano
ceduto. Sentivano già la mancanza di casa e dei loro genitori e nessuno
dei due
aveva davvero voglia di passare una notte in mezzo alla campagna
deserta. Così
erano tornati a casa con la coda tra le gambe, un po’ impauriti, in
parte
ancora arrabbiati e in crisi come erano partiti, ma in parte anche
molto più
rilassati.
Ma
siccome aveva già ceduto una volta, non poté dire di no.
Papà
era costretto a viaggiare
molto per lavoro. C’erano stati lunghi periodi della loro vita in cui
l’avevano
visto così raramente che quasi si erano dimenticati che aspetto avesse.
Non che
stare con la mamma fosse nulla di male, avrebbero semplicemente
preferito stare
con tutti e due. Ma, come ripeteva sempre papà, dopo che aveva detto di
sì una
volta, non poteva più tirarsi indietro. Quella logica non lo aveva mai
convinto molto.
Poi si
addormentarono per la gran stanchezza.
E così
fece anche il ragazzo, non riuscendo a
sentire il finale della sua fiaba preferita.
E
i tre vissero per
sempre felici e contenti.
Helena finì di
leggere la fiaba e chiuse il libro. Nelle
sue annotazioni, Wanda le aveva scritto che Hänsel
e Gretel era la fiaba preferita del fratello. Helena leggeva
per circa
mezz'ora tutte le mattine e ogni volta arrivava a quella fiaba proprio
nel momento
in cui il ragazzo era –o sembrava– sveglio. Ancora qualche giorno e
l'avrebbe
imparata a memoria.
Le
ispirava una certa
tenerezza il modo in cui il ragazzo aveva spalancato gli occhi sul
mondo quella
mattina: sembrava un cucciolo appena nato che scopre i colori. Gli
spalmò un
cucchiaio di miele sulle labbra, che ormai sorridevano sempre in un
modo appena
accennato, e depose con delicatezza un bacio sulla sua fronte, poi
lasciò la
stanza facendo meno rumore possibile.
Circa un
mese prima, altrove
Ji-eun si svegliò di soprassalto. Era così stanca
che si era addormentata sui propri appunti: forse avrebbe fatto meglio
ad
andare a letto. Si voltò verso la sveglia digitale che teneva sulla
scrivania:
erano le quattro del mattino. L’ultima volta che aveva guardato
l’orologio
prima di addormentarsi erano le due e mezza, perciò aveva dormito un po’ più di
un’ora, contando che non era la prima volta che si svegliava.
Per forza che non riusciva a dormire bene: nessuno
ce l’avrebbe fatta, se il sonno avesse riservato a tutti quello che
vedeva lei
in sogno. L’orrore di quelle immagini era fissato nella sua mente e la
spronava
a continuare a lavorare. Era quello che la spingeva a continuare fino a
notte
fonda a fare calcoli su calcoli, elaborare teorie e mescolare composti
che ogni
volta rischiavano di esplodere. Una volta si era spinta al massimo, era
così
stanca che aveva inserito un Ph diverso per l’acqua nei propri calcoli.
Non
l’avrebbero neanche ammessa all’università in quelle condizioni,
figuriamoci
proporle di insegnare, come era già successo più volte.
Non poteva
proprio
continuare così. Si alzò e si strofinò gli occhi. Spense il computer e
decise
di concedersi una buona dormita, una volta tanto, nella speranza che i
sogni le
permettessero comunque di dormire. Sembravano ritornare per ricordarle
che il
lavoro non era stato finito e che non poteva concedersi una pausa. Ma
quella
notte avrebbe fatto come voleva lei. Si svestì e andò a fare una
doccia. Mentre
l’acqua calda le scorreva sul corpo, immaginò di lavare via insieme
alla
polvere anche tutte le responsabilità che sentiva addosso per quel
compito.
Forse non avrebbe aiutato più di tanto, ma certamente l’aveva rilassata
un
minimo. Si asciugò velocemente i capelli con il phon –
non
sarebbe mai andata a dormire con i capelli bagnati, retaggio delle
raccomandazioni di sua madre– e tornò in camera. Indosso il pigiama e
si
coricò. Il suo respiro si fece dapprima più lento, poi sempre più
veloce. Di
nuovo. Non riusciva proprio a tenerli fuori dalla propria testa.
Se solo Tony
Stark non avesse urlato così forte.
The Magic
Corner:
Salve a
tutt*!
Grazie di aver trovato un po' di tempo per leggere questa fic :) Un
grazie speciale alle 6 persone che seguono questa storia e alle 3 che
l'hanno messa tra le preferite. Siete sempre più, cosa totalmente
inaspettata, vi adoro <3
Lo so, lo so... è circa un mese che non mi faccio sentire... Ma siate
allegri! Ci sono storie che aggiorno ogni tre mesi, con questa vado
molto più veloce! Ok, lo so, non è un ottimo argomento, ma sto facendo
davvero del mio meglio, siate comprensivi. Dopotutto, non è una
coincidenza che io pubblichi sempre in coincidenza con ponti o vacanze
da scuola... Il che significa che potreste dover aspettare fino al 2
giugno per il prossimo capitolo e mi sento già in colpa. Ma *buona
notizia* mentre ho dovuto scrivere questo capitolo totalmente da zero,
ho già scritto parti dei prossimi due capitoli e questo dovrebbe (e
sottolineo dovrebbe) permettermi di andare un po' più spedita. Ma
stiamo per cominciare quell'inferno per gli studenti che è maggio,
perciò non posso garantirvi nulla :(
Volevo dire qualcos'altro... Ah, sì: vorrei sottolineare che tutta la
parte sull'infanzia-prima adolescenza dei Maximoff è assolutamente
priva di fonte e me la sono totalmente inventata. Fatemi sapere se vi
sembra plausibile!
Dovrei aver finito, perciò vi saluto e vado a pubblicare per la
felicità del pubblico :D
Essendo un'abitudinaria, vi esorto a seguire l'esempio di GreekComedy e
di wild_spirit che hanno recensito lo scorso capitolo (che amori *.*),
perché come sempre non vi costa un centesimo! Grazie di starmi ancora
sopportando :)
Che gli dèi siano con voi!
-Magic
|
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Capitolo 7 *** Noi e voi ***
Pubblicità
Progresso - Campagna No Profit
Ogni
giorno una tastiera si sveglia e sa che sarà maltrattata da uno
scrittore incapace.
Mentre
tu stai comodamente seduto davanti al tuo computer a leggere
fan-fiction, c'è una tastiera che soffre.
Ognuno di noi può fare qualcosa per aiutarla.
Puoi dire a quello scrittore che è incapace, o incoraggiarne un altro
perchè non lo è.
Scrivi una recensione!
Non restare indifferente, il destino delle tastiere dipende anche da te!
Noi e voi
Ci siamo noi
e ci siete voi.
Noi che veniamo pugnalati,
noi bersagliati dalla sorte,
noi guardati di sbieco,
noi distrutti dal dolore,
noi ossessionati,
deliranti e tormentati,
noi che ci guardiamo l’un l’altro
come fossimo folli.
Ci siamo noi e ci siete voi.
Voi che ci vedete piangere,
che cercate di sostenerci,
che vorreste proteggerci,
che ci guardate come dei pazzi
ma non ci scacciate per questo,
che vi date pena per noi,
che desiderate di capire
che cosa
ci sta succedendo.
Voi
Qualche
giorno dopo il suo incontro con il dio, James si
mise al lavoro. Con se stesso non voleva ammetterlo, perché era ancora
nero di
rabbia verso Loki e il modo in cui l’aveva trattato, ma avere
finalmente
qualcosa da fare gli faceva bene. Era più difficile perdersi nel
vortice nero
di alcol e ricordi, se la sua mente era concentrata a esaminare i
documenti che
gli sarebbero serviti nella sua ricerca. Loki gli aveva fatto arrivare
tutte le
informazioni raccolte fino a quel momento: spostamenti degli Avengers,
appunti
biografici sulla ragazza e rapporti di missioni trafugati non si sa
bene come.
James non avrebbe mai detto che un dio nordico potesse essere un tale
esperto
di computer, ma ormai stava imparando molto in fretta ad abituarsi a
queste
incongruenze.
Loki
gli aveva anche scritto che avrebbe viaggiato per i
mondi in cerca di altri manipolatori di magia che avrebbero potuto
mandargli
quell’immagine. Diceva che avrebbe seguito una traccia lasciato
dall’utilizzo
della magia. In quel caso, si era detto James, avrebbe potuto farlo
anche con
la strega ed evitargli quella faticaccia. Forse, però, era troppo
pericoloso. O
forse Loki non ne aveva voglia e aveva deciso di scaricare quel lavoro
a lui.
Entrambe le ipotesi erano altrettanto plausibili. Comunque James non
aveva
detto nulla per evitare che al dio venisse in testa qualche bella idea
come
rivelare a tutti dove fosse il suo nascondiglio. Prese qualcosa da bere
e si
sedette. Non era ancora in grado di affrontare la propria giornata
senza un po’
di whisky che gli annebbiasse la mente.
Cominciò a
leggere i
rapporti e si accorse quasi subito che qualcosa non andava. O Steve non
era più
nella squadra oppure non era più se stesso: il Capitan America che
James
conosceva non avrebbe mai permesso un numero così alto di morti e
feriti tra i
civili. Se si fosse trattato di una volta sola, avrebbe capito che
potesse
essere stato di un imprevisto, ma lì ogni missione era così. Il numero
di
vittime, anzi, cresceva invece che diminuire. I rapporti erano spesso
incompleti e in molti punti non completamente decrittati, ma sembrava
che non
ci fosse nessuna motivazione valida per tutte quelle morti. Cosa stava
succedendo?
Noi
Steve era lontano da “casa” da quasi una
settimana. Il problema era fondamentalmente la definizione di casa. Non
voleva
tornare nel suo vecchio appartamento, dopo quello che era successo. Non
aveva
nessuna voglia di dover passare ogni volta davanti a quel campanello
con la
scritta “Carter” senza poter suonare.
Erano giorni che non dormiva in un letto
decente.
Aveva preso la motocicletta ed era partito su chissà quale autostrada.
Quando
era stanco, a notte fonda, si fermava a dormire in qualche motel.
All’alba si
svegliava e tornava in sella. Normalmente dopo qualche giorno trascorso
così si
sarebbe stufato, si sarebbe detto per l’ennesima volta che non era
quella la
vita che faceva per lui e sarebbe tornato a casa. Ma nella sua testa
lui non ce
l’aveva più una casa, non una dove potesse desiderare di tornare,
almeno. La
base restava la sua unica possibilità e in fondo era un suo dovere
verso la
squadra andare ad aiutarli: chissà, magari avevano bisogno di lui. Si
disse che
il giorno dopo sarebbe ripartito verso l’Avengers Facility.
Si fermò presso un motel, parcheggiò la
moto ed
entrò. Dopo essere entrato in camera, si sedette sul bordo del letto.
Si
sentiva sporco per come aveva vissuto in quegli ultimi giorni, ma
sapeva che
fare una doccia non lo avrebbe aiutato. Si sentiva solo, abbandonato da
tutti
gli amici ed era certo che tornare tra i Vendicatori, tornare alla vita
normale, non sarebbe stato facile: non era quella la compagnia che gli
mancava.
Si sentiva lontano dalle sole persone che avrebbe voluto vicino:
Sharon, Peggy.
Bucky. Chissà dov’era in quel momento, chissà se stava ancora fuggendo
da lui.
Forse avrebbe fatto meglio ad andare a cercarlo, ma se Bucky non si
fidava di
lui e non voleva farsi trovare, Steve avrebbe rispettato la sua
decisione. Per
una volta si chiese a che cosa servisse tutto quello che faceva e che
era. A
che cosa servisse Capitan America. Si disse che se lui rappresentava la
sua
“grande nazione”, allora doveva trattarsi di un posto vuoto e confuso,
perché
era quello che sentiva dentro di sé. Vuoto. Confusione. Un sospiro sul
punto di
spezzarsi arrivato all’altezza della bocca dello stomaco.
Si prese la testa tra le mani e chiuse gli
occhi.
Dietro le palpebre, continuò a vedere le persone che gli mancavano,
insieme
alle tante, forse troppe, battaglie che aveva combattuto negli ultimi
tempi.
Ripensò alla lotta con Bucky. Ricordò le vite che aveva salvato a
Sokovia. E
quelle che non era riuscito a salvare. Si sentiva così inutile.
Che cosa gli stava
succedendo?
Voi
Il
colonnello Nick Fury ne aveva viste tante nella sua carriera. Era stato
lui a
occuparsi di formare quella squadra. In un certo senso era nata come
misura di
sicurezza: ogni suo componente, a suo modo, aveva creato dei grossi
problemi.
Averli tutti insieme significava problemi più grossi, questo sì, ma per
lo meno
anche doverne affrontare uno solo per volta. Di solito. Poi c’era stata
quella
faccenda di Ultron e se anche il problema era uno solo si era
ramificato al
punto che sarebbe stato meglio averne tanti ma più semplici. Stark
l’aveva fatta
proprio grossa quella volta.
Non
che fosse l’unico: Banner aveva già fatto abbastanza danni, Thor non
poteva
completamente essere incolpato del casino creato da suo fratello, ma in
effetti
tutta quella storia degli Asgardiani che usavano la Terra come centro
vacanze a
Fury non piaceva per nulla. Rogers mostrava una certa fastidiosa
attitudine a
non fidarsi di niente di ciò che il colonnello gli diceva e Scarlet
Witch,
anche se non era anagraficamente una ragazzina, era comunque molto
inesperta e
Nick Fury temeva sempre che prima o poi questo venisse fuori. Wilson e
Rhodes
erano ottimi soldati, anche se il primo sembrava seguire le orme di
Rogers
quanto a sfiducia e disubbidienza, e non aveva di che lamentarsi degli
altri
due, certo: Vedova Nera era così efficiente che a volte spaventava
persino il
colonnello e Barton era ineccepibile, se non si contava la questione
con Loki,
che però davvero non era dipesa da lui. Poi c’era Visione. Fury non
aveva
pregiudizi nei confronti degli androidi, ma era comunque sempre molto
difficile
rapportarsi con qualcuno che vedeva il mondo in modo completamente
diverso da
tutti gli altri, ma aveva il senso dell’umorismo di Stark.
Pensava
a quello e a centinaia di altre cose, il colonnello Fury, mentre
guardava
attraverso gli occhiali scuri la campagna tedesca scorrere di fianco al
suo
finestrino. Si trovava sul primo dei tre treni che l’avrebbero portato
nella
clinica polacca dove aveva fatto ricoverare Pietro Maximoff. La
dottoressa
Mazur gli aveva scritto di nuovo: il ragazzo aveva aperto gli occhi,
come Wanda
aveva previsto, e sarebbe stato meglio se il colonnello si fosse fatto
vedere.
Si assopì per qualche ora, quando riaprì gli occhi il treno stava
arrivando
nella stazione dove lui doveva scendere. Per una volta un po’ di
fortuna.
Sul
secondo treno non aveva voglia di dormire e per passare il tempo si
mise a
leggere i rapporti delle missioni dei Vendicatori, faccenda che
rimandava ormai
da qualche mese. La cosa era abbastanza noiosa e Fury stava per
addormentarsi
di nuovo, quando arrivò al rapporto della terzultima missione.
Accidenti, se
erano morti tanti civili. Chissà che cosa era successo per ostacolare i
Vendicatori: cercò in tutto il resoconto che cosa potesse essere stato,
ma non
trovò nulla che facesse al caso suo. Era mai possibile che Rhodes si
fosse
dimenticato di riportarlo? Eppure solitamente era molto preciso. Fury
sospirò,
ripromettendosi di chiedere chiarimenti il prima possibile, e passò al
rapporto
successivo.
La
prima cosa che vi notò fu che il numero
delle perdite civili era altissimo anche lì. La seconda cosa fu che di
nuovo
sembrava non esserci stato alcun impedimento alla salvezza di quelle
persone.
Si ricordava quanta pena si fossero dati gli Avengers a Sokovia per
mettere in
salvo il numero più alto possibile di civili innocenti e era
assolutamente
certo che ci dovevano essere almeno tre buoni motivi per cui quella
strage
-perché di quello si trattava- non era stata evitata. War Machine
doveva avere
proprio la testa da un'altra parte per averli tralasciati per due
volte.
Avrebbe dovuto farglielo presente: se ci si assume la responsabilità di
stilare
dei rapporti bisogna farlo bene. La cosa strana era che non era per
nulla
tipica di Rhodey una simile dimenticanza e ciò faceva sorgere nel
colonnello
Fury il dubbio che la realtà fosse un'altra. Era possibile che non ci
fossero
valide motivazioni per quelle tante, troppe morti? E in quel caso come
avrebbero potuto essere spiegate? I sospetti di Fury furono rafforzati
dalla
lettura dell'ultimo rapporto che gli era stato mandato. Erano a
organico
ridotto, è vero, perché Tony e Thor non se l'erano sentita di andare in
missione dopo quello che era successo, ma ce l'avrebbero benissimo
potuta fare
a salvare quelle vite. Questo a meno di eventi particolari, ovviamente,
ma nel
resoconto non ne veniva menzionato nessuno. No, si disse il colonnello
scuotendo la testa come per scacciare i dubbi che lo tormentavano come
insetti,
doveva essersi trattato di un errore. Non c'era altra possibilità. A
meno
che... No, non era possibile. Eppure il dubbio rimaneva. Fury odiava
avere
brutti presentimenti.
Noi
Era
da
giorni che gli frullavano in testa pensieri e progetti che non
riuscivano a
riunirsi tutti insieme, ma quella mattina Bruce si era finalmente
svegliato con
un'idea precisa in mente. Per tutto il giorno non aveva potuto pensare
ad
altro. Aveva mangiato pochissimo, anzi praticamente nulla, a colazione
e aveva
subito chiesto a Tony se poteva parlargli in privato. Voleva chiedergli
di
poter utilizzare l'intero laboratorio senza che nessun altro ci
lavorasse e non
sapeva per quanto tempo gli sarebbe servito, ma era certo che all'altro
l'idea
non sarebbe andata molto a genio. Da dopo il funerale di Pepper,
infatti, Tony
passava praticamente tutto il giorno chiuso là dentro. Ne usciva solo
per i
pasti e a volte neppure per quelli, ma non aveva ancora concluso
niente. Bruce
sospettava che stesse lavorando senza sapere esattamente cosa volesse
ottenere
e finisse per montare e smontare vari congegni in modo casuale. In ogni
caso,
Tony non fu per nulla contento sentendo la richiesta dell’amico, anzi,
cominciò
ad accampare una scusa dopo l’altra. Bruce ci rifletté per un attimo,
estraniandosi dai discorsi di Stark. Era una cosa che si imparava a
fare
abbastanza in fretta, convivendo e lavorando gomito a gomito con il
miliardario. Si disse che forse un accordo si poteva trovare.
«A
te
andrebbe di aiutarmi?» propose, forse interrompendolo, ma non ci fece
troppo
caso «In questo modo potresti continuare a passare il tempo in
laboratorio e
non dovresti lasciarlo tutto a me. Anzi, avresti anche un obiettivo,
invece di
lavorare del tutto alla rinfusa»
Contrariamente
a quanto Bruce si aspettava, Tony non parve minimamente scosso dalla
frecciata.
Stava quasi per chiedergli scusa: si era già pentito di ciò che aveva
detto,
ma, visto che quello si comportava come se non l’avesse neanche
sentito, lasciò
perdere.
«Non
so neppure di che si tratti» disse infine Tony, dopo qualche attimo di
silenzio.
Stava continuando, forse per inerzia, a sollevare obiezioni, ma in
realtà
sembrava già convinto. Bruce decise quindi di spiegargli nel dettaglio
di cosa
si trattasse.
Sapeva
perfettamente che quel progetto poteva sembrare a prima vista ben più
strampalato
della maggior parte delle idee di Stark e quindi si aspettava da lui
una
reazione totalmente diversa. Era preparato a strabuzzamenti di occhi, a
sentirsi dire che era completamente pazzo e a categorici rifiuti di
collaborazione, ma non ricevette niente di tutto ciò. Si aspettava come
minimo
una richiesta di spiegazioni più approfondite che convincessero della
buona
fede dell’idea e della possibilità di tenere sotto controllo un simile
potenziale o che fornissero assicurazioni che non sarebbe finita come
con
Ultron. Invece vide negli occhi di Tony risvegliarsi la curiosità e
l’inventiva
che Bruce aveva ormai dato per perse dopo la perdita che il miliardario
aveva
subìto, quelle che mancavano quando in laboratorio perdeva tempo
collegando e
scollegando circuiti. Tutto ciò che il suo amico disse fu: «Secondo me
si può
fare»
Bruce
rimase immobile a fissarlo, esterrefatto.
«Che
c’è?» gli domandò Tony con noncuranza.
Bruce
scosse la testa, ancora più incredulo: «Niente»
Aveva già
visto Tony comportarsi in modo
diverso dal solito e sapeva che il metro della stranezza delle cose per
lui
funzionava in modo un po’ diverso che per tutti gli altri, ma era
certissimo
che nessuna persona al mondo avrebbe risposto così a quell’idea. Che
cosa stava
succedendo?
Voi
Visione
vide qualcosa che non capiva: Wanda stava parlando con qualcuno che era
identico a lui, ma certamente non era lui. Era seduta sul divano e lo
guardava
dal basso verso l’alto, Visione era alle sue spalle e non poteva
vederla in
viso, ma dal tono della sua voce sembrava parecchio perplessa.
«Non
so di cosa tu stia parlando, Visione» disse Wanda.
«In
fondo, loro si sono fidati di noi e noi che cosa abbiamo fatto?»
domandò la
Visione che era vicina a Wanda «Li abbiamo traditi, consegnati a una
persona
che non sappiamo neanche quanto sia affidabile. Abbiamo solo la parola
di Fury
e i miei calcoli dicono che questo non garantisce un’altissima
percentuale di
sicurezza»
«Non
dire così, io mi fido di Fury» rispose Wanda. Evidentemente non si era
accorta
che non stava davvero parlando con Visione «Gli affiderei la vita di…
la mia
vita. Ma poi di chi parli? Chi si è fidato di noi? A chi li abbiamo
consegnati?»
«Lo
so» disse l’altra Visione, come se non l’avesse sentita «Ma non posso
impedirmi
di chiedermi quanto fosse reale quel pericolo. Forse così facendo
stiamo
esponendo il mondo a pericoli ancora più vasti di prima. Ormai è
praticamente
indifeso, lo sai bene»
Wanda
non sapeva più cosa dire e continuò a fissare in silenzio l’altro,
forse
sperando che lui continuasse. Dopo qualche minuto di silenzio, infatti,
egli
riprese, come rispondendo a un’obiezione: «Ma lo sai che per quanti
sforzi
possiamo fare non saremo mai al loro livello. Chissà cosa potrebbe
succedere se
ci si presentasse un pericolo troppo grande per noi. Le probabilità non
sono
poi così basse. E allora cosa faremmo, andremmo a richiederli indietro?»
A
quel
punto la Visione originale si disse che quella farsa era durata
abbastanza.
Chiamò Wanda per nome e la giovane donna si voltò a guardarlo,
spaventata.
Quando riportarono lo sguardo al punto dove prima c’era la copia di
Visione,
era sparito.
«Lo
hai visto? Eri tu?» domandò Wanda «Di cosa stavi parlando?»
«L’ho
visto, ma non ero io» rispose Visione «Non so chi fosse né di cosa
stesse
parlando, ma mi ha dato una sensazione strana, come…»
«Come
se non fosse completamente parte del nostro mondo» completò la donna.
Visione
annuì e si sedette vicino a Wanda.
«Tu
credi che possa essere stata una proiezione della mia mente o qualcosa
del
genere?» domandò lei «Magari è qualche mio potere che non conosco e
quindi non
riesco a controllare. Forse è la stanchezza che mi fa fare queste cose»
«Nella
tua mente ci sono cose come queste?»
«No,
solo un po’ di malinconia al momento»
«Malinconia?»
Visione la guardò negli occhi, cercando di capire.
«Mi
manca Pietro»
«Già.
Ma mi avevi detto che stava meglio»
«Non
ne sono certa, è solo una sensazione. Clint dice che devo mettermi il
cuore in
pace. Dice che lui non tornerà più e devo accettarlo»
«Ci
sono tanti modi per affrontare le perdite. Guarda Thor e il signor
Stark:
reagiscono in modo completamente diverso. Io dico che non bisognerebbe
darsi
per vinti finché c’è una speranza. E per quanto ne so io questa
speranza c’è. O
no?»
«Sì,
c’è, è solo che a volte mi sembra che stia passando troppo tempo.
Chissà se
tornerà e come sarà. Io rivorrei solo mio fratello» Wanda poggiò la
testa sulla
spalla di Visione e si abbandonò a un sospiro. L’androide le circondò
le spalle
con un braccio. Sarebbero potuti rimanere in quella posizione in eterno.
All’improvviso
davanti a loro si materializzò Nick Fury. Wanda chiese sottovoce a
Visione se
lo vedesse anche lui e quello rispose di sì, poi rimasero zitti e
immobili,
aspettando che quella figura parlasse.
«Visione»
disse il colonnello «Io lo so che tu desideri salvaguardare il mondo e,
credimi, è quello che voglio fare anch’io. Ma ti posso assicurare che
se non
avessimo agito in questo modo ora la salvaguardia del mondo sarebbe
l’ultima
cosa che potremmo sperare di ottenere. So che pensi che io agisca in
modo
sconsiderato. Non ti fidi di quella donna e il fatto che io ti abbia
assicurato
che le affiderei la mia vita non ha per nulla migliorato la situazione.
Anzi,
oserei dire il contrario. Lo capisco. Non ci conosciamo bene e dire che
vediamo
il mondo in modi diversi è un eufemismo. Ma ti chiedo di fidarti almeno
quando
ti dico che il destino del nostro pianeta è una delle cose che più mi
sta a
cuore in tutta la mia vita. Sono morto ufficialmente almeno tre volte
perché
così avrei potuto aiutare ancora a tenere in piedi la baracca. Ora, per
una
volta, ho dovuto fare un sacrificio più grande che vivere nascosto. È
vero:
questa situazione è instabile ed estremamente pericolosa, ma era la
migliore
possibile. Ho visto a cosa stavamo andando incontro con questo mio
occhio e
posso assicurarti che al confronto ci troviamo nel mondo dei balocchi»
Visione
guardò Wanda. Wanda guardò Visione. Come era successo prima, quando lo
cercarono di nuovo con gli occhi il colonnello Fury era scomparso. I
due si
accordarono di non parlarne con nessuno, per il momento, in attesa di
capire un
po’ meglio che cosa stesse succedendo.
Noi
Tony seguì
Bruce nel laboratorio e si fece
rispiegare tutto una seconda volta. Poi una terza. Infine chiese al suo
amico
un attimo di silenzio. Sapeva che fatta da lui si trattava di una
richiesta
alquanto inusuale, ma aveva bisogno di pensare, di riuscire a
concentrarsi. Da
quando era rimasto solo, gli riusciva sempre più difficile mantenere il
pensiero
fisso su qualcosa, anche quando stava lavorando. Era per quello che
finiva per
fare le cose “alla rinfusa”, come aveva detto Bruce.
Gli
serviva del tempo per pensare perché stava
cercando di capire come diavolo fosse venuto in mente a Bruce di
sviluppare
qualcosa che avesse un simile potenziale energetico. Si trattava di
qualcosa di
tecnicamente impossibile da imbrigliare, oltretutto, anche nel caso in
cui
fossero riusciti a crearlo, cosa di cui Tony dubitava seriamente. Non
espose,
però, i propri dubbi all’amico. Prima di tutto, voleva mettersi a
lavorare il
prima possibile: aveva bisogno di distrarsi e non gli importava di
riuscire a
realizzare quello che si stavano prefiggendo, bastava non starsene con
le mani
in mano. In secondo luogo, quelle questioni passavano rapidissime in
secondo
piano, se si considerava che per la prima volta da anni, forse da
quando si
erano conosciuti, Bruce andava a cercare Tony per chiedergli un aiuto a
sviluppare un progetto, invece che viceversa.
Il
comportamento dell’amico
era molto strano, Tony se l’era detto fin da quando il fisico gli aveva
chiesto
di poter avere il laboratorio completamente a disposizione: a Bruce non
aveva
mai dato fastidio dover lavorare anche in spazi molto piccoli e insieme
a tante
altre persone, anche quando si trattava di questioni di sicurezza o
potenzialmente distruttive. Aveva pensato che l’amico stesse cercando
di
distrarlo e di tirargli su il morale, ma quando aveva sentito la sua
spiegazione si era reso conto che c’era molto altro. Chissà da quanto
tempo ci
stava pensando, senza avvertirlo di nulla: questa era un’altra cosa
strana. Ma
che diamine stava succedendo?
Circa
due settimane prima, altrove
Kim
mordicchiò il retro della penna, nervosa. Non c’era niente che la
facesse irritare
di più che non riuscire a risolvere problemi di natura scientifica e
non c’era
dubbio che quello fosse un grosso
problema e che si trattasse unicamente di scienza e scienziati. Si alzò
di
scatto e mise sul fuoco un bollitore per il tè. Magari l’avrebbe
aiutata a
riflettere meglio sulla questione. O almeno le avrebbe permesso di
staccare per
qualche minuto la spina e farsi passare un po’ di nervosismo.
Sapeva
di star prendendo la cosa troppo sul serio. Sentiva nella propria mente
la
saggia voce di Helena che le ripeteva con il suo accento polacco che
quella era
una follia e avrebbe dovuto lasciar perdere. Non solo era improbabile
che ce la
facesse, ma anche in caso ci fosse riuscita il risultato sarebbe
comunque stato
di un livello di pericolosità così alto che probabilmente alla fine
avrebbe
dovuto distruggerlo. No, rispose
Kim
alla voce nella propria testa, reprimendo un brivido alla prospettiva
di dover
buttare via tutto, non si distruggerà
nulla di tutto questo. Non lo permetterò. La saggia voce
dell’amica nella
sua testa le ricordò che in fondo neanche lei voleva che qualcuno
dovesse mai
servirsi di quegli studi. Era vero: Kim sperava con tutte le sue forze
che quei
fogli ammuffissero e finissero dimenticati perché nessuno li usava. Ma
sapeva
con certezza che c’era un bisogno terribile che qualcuno li scrivesse e
continuassero ad esistere.
Versata
l’acqua bollente nella tazza, la coreana mise la
bustina in infusione e aspettò che il tè fosse pronto. Forse furono
proprio le
volute verdi che la miscela nella bustina creava disperdendosi
nell’acqua a
farle venire quell’idea. Certo, come aveva potuto non pensarci prima?
Quella
era probabilmente l’unica cosa al mondo che avrebbe potuto funzionare.
Chissà
se esisteva qualcosa di simile, però.
The
Magic Corner:
Ciao
a tutt*! Per chi non mi conoscesse, sono la svitata che ha scritto la
storia, la quale ha un paio di cosette da dirvi:
Numero uno, grazie a tutti. Grazie a chi ha trovato la voglia di
leggere questa fic. Grazie a GreekComedy che è un tesoro e mi
recensisce tutti i capitoli anche se potrebbe commentarmeli a voce,
grazie alle 11 persone che hanno inserito la storia tra le preferite o
tra le seguite (tanto amore <3) e a tutti coloro che mi hanno
mandato un messaggio privato di complimenti *.*
Numero due, sto riducendo i tempi! Ci ho messo esattamente tre
settimane a pubblicare questo nuovo capitolo, contrariamente al solito
mese che mi ci vuole. Ok, è solo una settimana in meno, ma è già un
buon miglioramento. E oltretutto non ho neanche aspettato una vacanza
scolastica!
Numero tre, qualche programma per il futuro: se ho fatto bene i conti,
tra due-tre capitoli finirò la prima parte di questa storia. Vi sento
già dire "Ah, perchè era divisa in parti?" Ebbene sì. Questo significa
che... la fic potrebbe avere un periodo di pausa più lungo del solito, MA non
prendetelo come dato certo, perchè ci stiamo avvicinando all'estate e
questo potrebbe aiutare non poco.
Numero quattro, questa è in particolare per wild_spirit (se riemerge
dalle profondità dello studio e trova il tempo di leggere), ma un po'
per tutti: piccola anticipazione, il prossimo capitolo sarà tutto
dedicato a Loki! Non ci sarà solo lui, ma... beh, ci sarà molto.
Numero cinque (per gli dèi quanto sono prolissa!), è in arrivo un nuovo
personaggio! Arriva fresco fresco dall'universo dei fumetti, ma a breve
entrerà anche nel MCU :) non vi anticipo oltre...
Numero sei, *Trivia*: il capitolo doveva intitolarsi "Che cosa sta
succedendo?" ma questo titolo mi piaceva di più! XD
Numero sette, nonché ultimo, vi esorto a lasciarmi una recensione
perché è un gesto tanto carino... e poi non vi costa nulla, su,
coraggio!
Grazie per la pazienza che mostrate nel sopportarmi, ora la finisco e
pubblico questo capitolo, così posso tornare a studiare (maledetto maggio!).
Che gli dèi siano con voi!
-Magic
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Capitolo 8 *** K ***
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Progresso - Campagna No Profit
Ogni
giorno uno scrittore incapace si sveglia e sa che dovrà
inseguire una tastiera che fugge.
Ogni giorno una tastiera si sveglia e sa che dovrà correre più
veloce di uno scrittore incapace.
Che tu sia scrittore o
tastiera, comincia a correre.
Ma se sei un lettore no! Puoi fermare questo scempio!
Scrivi
una recensione!
Non
restare indifferente, il destino delle tastiere dipende anche da te!
K
K non è storia
K non è una persona
K è soltanto una lettera
Ormai è stato dappertutto
in cerca di risposte,
di una frase rassicurante.
Vorrebbe tornare a dormire
sonni senza sogni,
vorrebbe dimenticare ciò che ha visto.
Vorrebbe fidarsi,
ma K è soltanto una lettera
K non è storia
K è anche una persona
Ha sacrificato la vita
all’altare della salvezza
per sé e per tutti.
Non vede lo stesso mondo degli altri,
non si stupisce per le stesse cose,
non ha gli stessi segreti.
Forse le costerà molto,
ma K è anche una persona
K è soprattutto storia
Dopo un’attesa lunga anni,
può finalmente tornare ad aspirare
a ciò che è stato negato tante volte.
Non teme il pericolo,
vuole dimostrare al mondo
che cosa può fare.
Ancora nessuno lo può sapere,
ma K è soprattutto storia
K è soltanto una lettera,
K è anche una persona,
ma K è soprattutto storia.
Il
tempo trascorreva in modo molto diverso dagli altri per Hela, regina di
Hel e
Niflheim. Figlia di Loki, Hela era stata resa da Odino dea della morte.
Il
mondo di Hel, situato all'interno di quello di Niflheim, era l'ultimo
dei Nove
Mondi ed era destinato ad accogliere gli spiriti di tutti i morti cui
non era
stato concesso di accedere al Valhalla. Da tempo immemorabile, Hela si
recava
personalmente da ogni asgardiano in punto di morte per liberarne lo
spirito, a
meno che questi fosse morto in battaglia, ed era perciò comprensibile
che ella
vedesse il passare dei giorni in un modo tutto suo. Nonostante ciò, era
sicura
che fosse passato molto tempo dall'ultima volta che aveva visto suo
padre.
Eppure, era ancora in grado di percepire la sua presenza con assoluta
certezza.
Hela
scrutava il proprio regno desolato da una delle rocche fortificate che
lo
proteggevano ed era quasi orgogliosa di ciò che vedeva. Nessun piacere,
nessun
vano abbellimento era visibile all’orizzonte: la distesa brulla che si
stendeva
davanti ai suoi occhi aveva fine soltanto al confine con Niflheim, dove
tutto
diveniva ghiacciato. Gli asgardiani che non morivano in battaglia non
avevano
diritto a nient’altro che quello. La dea sperava che un giorno sarebbe
riuscita
anche a conquistare l’anima di Thor o di suo padre, ma sapeva che
avrebbe
dovuto lottare molto per ottenerla. Per il momento, si sarebbe
accontentata di
coloro che non avevano meritato il Valhalla. E di accogliere il padre,
che era
venuto a farle visita. Sapeva che lui era lì, anche se non l’aveva
ancora visto
perché si trovava alle sue spalle.
«In
molti hanno pianto la tua morte,
padre»
disse, senza voltarsi verso il suo ospite.
«Nessuno
meglio di te sa che si sono sbagliati, Hela» rispose Loki, con un mezzo
sorriso
«Si racconta che tu conosca di persona ogni tuo suddito»
«Talvolta
le voci sono esagerate, ma certamente non mi sarebbe sfuggito se tra di
loro ci
fossi stato tu»
«Sono
felice di saperlo, o almeno così credo. Mi fiderò della tua parola al
riguardo,
comunque. È passato molto tempo dall'ultima volta che ci siamo
incontrati»
«Secondo
molti sistemi di misura, è così» Hela fece una pausa e si voltò verso
il padre.
La sua bellezza e la gioventù non erano minimamente mutate, ma questo
non stupì
Loki, che ne conosceva il motivo. Il manto che sua figlia indossava
non le
dava solo poteri straordinari, ma modificava anche il suo aspetto,
nascondendo
a tutti che metà del suo corpo era in stato di putrefazione, quasi un
cadavere.
«Non
hai portato con te il tuo amico? Credo che avrebbe gradito il clima
gelido di
Niflheim, visto che è un Uomo d'Inverno»
«Soldato
d'Inverno» la corresse Loki a mezza voce. Non sarebbe stato corretto
dire che
era arrossito, piuttosto il suo volto aveva assunto una tinta
leggermente meno
pallida. Si chiese, come succedeva sempre, come accidenti facesse sua
figlia a
sapere sempre tutto.
«Sì,
è
lo stesso» disse la dea, rendendo il padre leggermente infastidito.
«È
meglio tenere gli umani mortali lontani da questi mondi» rispose questi.
«Come
preferisci» concesse Hela, chinando appena la testa «Perché sei qui,
padre?»
«Ho
avuto una visione. Mio fratello, il figlio di Odino, che mi parlava, ma
sembrava quasi parlasse da solo. Poi, quando ho distolto lo sguardo è
sparito.
Ho pensato che, visto che tu sei tra i pochi che sanno che io sono
ancora in
vita, potrebbe essere stata opera tua. Non sarebbe la prima volta che
dimostri
di saper fare cose simili»
«E
perché avrei dovuto farlo?»
«È
ciò
che sono venuto a chiederti»
«Non
è
opera mia. Ma so chi potrebbe essere stato. Immagino tu abbia già
seguito molte
tracce di magia»
«È
così»
«Anche
sulla Terra?»
«No,
ho tenuto quella nuova strega per ultima. Speravo di non dover arrivare
a
chiedere a lei. È molto vicina ai Vendicatori, dopotutto»
«È
vero, ma non c'è solo lei» Hela parve sorridere quando vide
l'espressione di
suo padre farsi più attenta e incuriosita.
«Un'altra
traccia?» domandò Loki «Non l'ho percepita»
«È
molto debole, quasi inesistente, ma credo che valga la pena fare un
tentativo»
«Ne
conosci la fonte?»
«Ti
posso indicare il luogo, ma non so nulla della donna che vi risiede. So
solo
che si fa chiamare K, per il resto dovrai chiedere a lei di persona. E
decidere
se fidarti o meno»
«E
di
te devo fidarmi?»
«Perché
sei venuto, se non intendevi fidarti?» Loki non rispose «Sei il Signore
degli
Inganni, dopotutto, potrei mentirti?»
«Tu
sei mia figlia e la dea della morte. Non dubito che tu ne sia capace»
«Non
stavolta. Consideralo come uno dei favori che ti devo, padre»
Loki
non sembrava del tutto convinto, ma fece un cenno con la testa che
somigliava a
un assenso e poi se ne andò. Se anche c'era qualcuno di cui si fidava
in questo
universo, non era certamente Hela, nonostante fosse sua figlia. Anzi,
proprio
perché era sua figlia.
Qualche giorno dopo, Terra
Il
Signore degli Inganni non voleva decidersi a entrare in quella casa.
Aveva
tenuto la pista sulla Terra per ultima: non era mai molto contento di
girare su
quel pianetucolo presuntuoso e in quel momento lo era ancora meno visto
che
stava correndo il rischio di incontrare suo fratello. Purtroppo, però,
non gli
restavano più altre possibilità e doveva per forza entrare là dentro.
Guardò
ancora una volta la finestra illuminata e si disse che in fondo non era
necessario che entrasse fisicamente. Oltretutto, sarebbe stato ottimo
per
impressionare la donna, in caso non fosse stata del tutto disposta a
collaborare.
La
dottoressa Kim stava finendo di battere al computer i risultati di
alcuni
esperimenti che aveva condotto la settimana precedente. C'era quasi,
sentiva
che stava per farcela. Il composto che stava cercando era lì, a portata
di
mano. Le mancava solo l'ultimo ingrediente, lo stabilizzante che
impedisse al
tutto di esplodere non appena la temperatura avesse superato i dieci
gradi.
Accidenti, erano mesi che lo cercava, ma le sembrava di star giocando a
nascondino. Sapeva che era lì da qualche parte, stava solo guardando
nel posto
sbagliato. Mise un punto alla frase che aveva appena finito e
sbadigliò. Era
l'una e mezza e lei era stanca morta. Forse avrebbe fatto meglio ad
andare a
dormire. Salvò il documento e lo chiuse, poi spense il computer. Si
alzò dalla
scrivania per spegnere la luce e si trovò faccia a faccia con un uomo.
Sobbalzò
per lo spavento e pensò subito di mettersi a urlare, ma poi si disse
che viveva
così isolata che nessuno l'avrebbe sentita. E forse l'intruso avrebbe
potuto
arrabbiarsi e farle del male. L'uomo si portò un dito davanti alle
labbra
esangui per chiedere il suo silenzio e la dottoressa annuì. Si sedette di
nuovo sulla sedia della scrivania e gli indicò il letto, ma l'intruso
non volle
muoversi. Kim si sentiva quasi tranquilla, cosa assurda, visto che un
uomo si
era introdotto in casa sua e lei non poteva in nessun modo chiedere
aiuto. Nei
minuti di silenzio che seguirono, i due si fissarono, come se ognuno di
loro
avesse voluto capire se l'altro rappresentasse una minaccia. L'uomo non
era
molto alto e pareva assai magro. Kim non sapeva se i suoi occhi scuri
risaltassero per la pelle color del latte o per i lineamenti affilati
del
volto, ma era certa che se avesse continuato a guardarla in quel modo
non
sarebbe mai più riuscita a muoversi. Quello sguardo pareva inchiodarla
alla
sedia.
«Chi
sei?» le domandò l'uomo, con voce acuta.
Kim
accennò un sorriso, scoprendo così di essere ancora in grado di
muoversi:
«Questo dovrei dirlo io»
«E
perché?»
«Oh,
beh, non sono stata io a introdurmi in casa tua all'una e mezza di
notte»
«Questo
è vero. Sono Loki, Signore degli Inganni»
«Ehm,
direi di no»
«Scusa?»
«Ho
visto dei telegiornali: Loki ha i capelli neri lunghi, non biondi, e
gli occhi
verdi. È vero, hai qualche tratto che gli somiglia, ma non si può
certo dire
che tu sia lui»
L'uomo
fece un sorrisetto di superiorità. Davanti ai propri occhi, la
dottoressa vide
gli abiti comuni dell'uomo trasformarsi in una regale veste verde e
oro, mentre
i capelli gli si allungavano e diventavano neri. Quando riportò lo
sguardo sul
suo viso, l'uomo la fissava con i suoi occhi verdi.
«Sono
Loki, Signore degli Inganni» ripeté «E in quanto tale sono
perfettamente capace
di alterare il mio aspetto. Sembri sorpresa»
Kim
si
riscosse dal proprio stupore: «Non è qualcosa che mi capiti di vedere
ogni
giorno»
«Eppure
dovresti avere una certa dimestichezza con la magia»
«Io?»
«Dalle
mie informazioni, pare che tu sia esperta nell’utilizzarla»
«Ti
sembro una strega? Volo su una scopa, sono vestita con un lungo abito
scuro e
un cappello a punta?»
«Ti
assicuro che la vostra immagine umana delle maghe non rende affatto
giustizia
alle incantatrici di mia conoscenza»
«Ok,
forse era un po' stereotipata. Ma il fatto è che io non so
assolutamente nulla
di magia. Sono una scienziata. Se intendi scienza con magia, allora la
conosco»
Loki
parve irritato: «Ma certo che no, conosco la differenza! E no, non mi
sembri
un'incantatrice»
«E
allora perché dici che dovrei avere dimestichezza con la magia?»
«Ho
seguito una traccia. L'utilizzo di magia lascia sempre qualche traccia
per chi
sa come cercarla. Quest’ultima era piuttosto debole, ma portava proprio
qui e
visto che tu sei parecchio isolata non vedo chi altro potrebbe averla
lasciata»
La
dottoressa lo guardò con un po' di scetticismo, stringendosi nelle
spalle:
«Guarda, io non so che dirti. Non ho la minima idea di come si faccia
un
incantesimo o qualunque altra cosa tu creda che io abbia fatto. Se vuoi
posso
farti un tè e sistemarti il divano per dormire stanotte. Non posso fare
nient’altro
per aiutarti»
Loki
non sembrava convinto e continuava a fissarla. Sembrava che non
respirasse,
tanto era immobile. Kim non sapeva più come dirgli che non era la
persona che
stava cercando. Le venne un dubbio: «Ma perché stai cercando qualcuno
che sappia
usare la magia?»
«Qualcuno
ha cercato di mandarmi un messaggio proiettando un'immagine che non era
reale.
Sto cercando chi possa essere stato seguendo le tracce di magia, ma
niente. In
tutti i Nove Mondi ogni incantatore mi ha detto di non saperne nulla e
nessuno
mentiva!»
«E
tu
come fai a saperlo?»
Di
nuovo quel sorrisetto di superiorità, Kim non sapeva se trovarlo
divertente o
snervante: «Sono il Signore degli Inganni. Bisogna proprio essere degli
ottimi
bugiardi per convincermi. Conosco ciascuno di loro, nessuno ne sarebbe
capace.
Ma non conosco te, chissà cosa sai fare»
«Sei
testardo, eh? Non so niente di magia, te l'ho detto, no?»
«Magari
è qualcosa di inconscio. Ti è successo qualcosa di particolare di
recente?»
«Particolare
in che senso?»
«Un'emozione
molto forte, come uno spavento o qualcosa di simile, oppure dei sogni
che non
sapevi spiegarti o dei giramenti di testa e mancamenti, ad esempio»
La
dottoressa aggrottò le sopracciglia, ricordando: «No, non mi sembra. A
meno
che...»
Loki
la sollecitò a parlare: «A meno che cosa?»
«Probabilmente
non c'entra nulla, ma qualche mese fa ho fatto un sogno che... Beh,
diciamo che
era strano»
Loki
rifletté, ormai il fatto risaliva a qualche mese prima, poteva
trattarsi di
quello: «Cos'hai sognato?»
La
dottoressa glielo raccontò. Il Signore degli Inganni pareva molto
interessato.
Alla fine la rassicurò dicendole che non era quello che stava cercando,
ma
aggiunse che quel sogno era comunque significativo. Chissà, avrebbe
potuto
influenzare il futuro. La dottoressa disse ridendo che di certo stava
influenzando il suo, ma non volle rivelare altro.
«Bene,
non so ancora se crederci del tutto, ma in mancanza d'altro temo di
dover
riconoscere che mi ero sbagliato. Mi rincresce di averti disturbata»
«Tranquillo,
tanto non stavo dormendo. Ah, a proposito, guarda che non scherzavo per
il
divano, se vuoi fermarti te lo sistemo. È abbastanza tardi, dopotutto»
«No,
no, io... Devo andare»
«D'accordo»
«Solo
un'ultima cosa» doveva togliersi almeno quel dubbio, chissà se Hela era
stata
sincera su quello.
«Sì?»
«Come
ti chiami?»
«Puoi
chiamarmi K, lo fanno in molti»
«Un
nome inusuale per una persona altrettanto inusuale» Loki pensò che
almeno
riguardo a quello sua figlia era stata sincera.
La
dottoressa non rispose al suo ultimo commento. Dopo qualche minuto di
silenzio,
si riscosse: «Beh, addio»
Gli
tese la mano, ma Loki la ignorò: «Addio» "Spero" aggiunse mentalmente
il dio. Dal cortile, dissolse l'ologramma di sé che aveva fatto entrare
in casa
della donna e se ne andò. Era stata la donna a mentirgli oppure Hela?
Loki
sperava che una delle due l’avesse fatto, perché altrimenti avrebbe
dovuto
rivolgersi alla strega. Ed era l’ultima cosa che avrebbe voluto.
Nello stesso tempo, altrove
Il soldato
si chiamava Émile. Non era mai
stato al cospetto del leader, ma le informazioni che aveva raccolto
erano così
importanti che era stato ammesso alla sua presenza. La guardia accanto
a lui
continuava a lanciargli occhiate di sottecchi per vedere se fosse
intimorito
all’idea di incontrare K, così il soldato si sforzava di mantenere un
passo
deciso e di guardare fisso davanti a sé, mentre riaffioravano alla sua
mente
tutte le storie che aveva sentito raccontare riguardo al loro capo.
Quando
infine arrivarono, la guardia rimase fuori dalla porta e lo lasciò
entrare da
solo. Émile
sentiva le gambe che si facevano sempre più molli. Fece un passo
avanti, poi un
altro e un altro ancora. Il leader era di schiena: era possibile vedere
soltanto il mantello rosa scuro che gli copriva le spalle e l’elmo
dello stesso
colore che aveva in testa. Non si riusciva a distinguere nulla della
figura che
si stagliava nella vuota stanza bianca come il marmo: né la sua
corporatura, né
il suo sesso, né tantomeno il suo umore.
Dopo
averlo fatto attendere per diversi minuti, in
cui la sua ansia raggiunse livelli incredibili, K si voltò verso di
lui. Indossava
una casacca verde bordata di rosa con le maniche lunghe, stretta in
vita da una
cintura dello stesso colore del mantello e dei guanti che gli coprivano
le mani
quasi fino al gomito. Il suo elmo terminava sul petto con una piastra
che
teneva fermo sulle spalle il mantello, mentre dei pantaloni dello
stesso colore
della casacca sparivano in altissimi stivali, anch’essi rosa scuro. Il
suo
volto era coperto da una maschera azzurra che permetteva di distinguere
la sua
espressione, ma non i lineamenti. Non si poteva dire che fosse un
abbigliamento
comune. Émile
si sentiva ancora più a disagio, davanti agli occhi penetranti di
quell’uomo. O
di quella donna, era impossibile distinguere: lo aveva sentito dire, ma
aveva
sempre pensato che si trattasse di una voce messa in giro per aumentare
il mistero,
invece era proprio così.
«Sembra
che tu abbia qualcosa di importante da
riferire» disse K. Anche la sua voce era artificiale, come tutto ciò
che il
soldato poteva vedere, probabilmente veniva modificata dall’elmo o
dalla
maschera.
«Sì,
signore» rispose Émile.
«Ti
ascolto»
«Stark
è riuscito a tracciarci. I nostri non sono
stati abbastanza scaltri. Non conosce ancora la posizione di questa
base, ma ha
localizzato la piattaforma operativa e probabilmente non ci vorrà molto
prima
che i Vendicatori si dirigano lì. Tutti insieme troveranno di sicuro
traccia
della nostra presenza qui. Sarebbe prudente trasferirci il prima
possibile»
«È
tutto? Chi è operativo nella squadra?»
«Tutti,
signore»
«Stark?»
«Anche.
Non siamo riusciti a colpirlo abbastanza nel
profondo, pare»
«Oppure
lo abbiamo colpito anche troppo. Thor?»
«Non
abbiamo notizie certe, ma sembra che si trovi
anche lui con gli altri. Sembra improbabile che non parteciperà alla
missione»
«Rogers?»
«È
ancora in viaggio, ma i nostri dati dicono che
si sta dirigendo verso la base dei Vendicatori. Nessuno sarà assente a
questa
missione, o così sembra. Per questo bisognerebbe accelerare il
trasferimento»
«Non
ce ne andremo»
«Signore?»
«Restiamo
qui, soldato»
«Ma
i Vendicatori saranno qui a breve, è questione
di settimane, ormai»
«Lascia
che vengano. Sperimenteranno chi è K e se
ha o no il potere di batterli e conquistare finalmente la Terra. Starò
qui ad
aspettare che arrivino» La maschera sorrise.
«Sì,
signore»
«Hai
fatto un buon lavoro di intelligence, soldato»
«Grazie,
signore»
«Puoi
andare»
Émile
chinò
leggermente la testa e se ne andò camminando all’indietro, perché non
osava
voltare le spalle a K. Quando uscì, trovò la guardia che lo stava
aspettando. Fece
un cenno per dire che potevano andare e quello lo guardò come per
chiedergli che
cosa fosse successo. Émile si strinse nelle spalle e cominciò a
camminare.
«Ma
è un uomo o una donna?» domandò, quando furono
abbastanza distanti dalla stanza da aver fatto diminuire il suo tremito
alle
gambe.
«Non
ho mai conosciuto nessuno che lo sapesse» fu
la risposta che ricevette.
The Magic
Corner:
Ciao
a tutt* e
bentornati nelle grinfie di questa sclerata!
Qualcuno
mi
impedisca di continuare ad aggiungere personaggi e complicare la trama,
vi
prego!
E a
proposito, diamo
il benvenuto a Hela, la nostra graziosa dea infernale! Si tratta del
personaggio che avevo anticipato la scorsa volta, farà il suo ingresso
nel MCU
con Thor 3 e sarà interpretata da Dama Galadriel, AKA Cate Blanchett,
ma io ho
voluto farle fare capolino qui perché... Sarò sincera: mi serviva
qualcuno che
desse quell'informazione a Loki e chi meglio di lei?
Un
applauso per Kim,
invece, che per la prima volta riesce a comparire in un capitolo invece
che
solo nei paragrafi di chiusura! Ah e cento punti a chi individua chi è
K basandosi su come l'ho descritto/a (spero che la descrizione
sia
decente :D)
Passiamo
ai soliti
ringraziamenti! Tanto amore per GreekComedy, che mi ha fatto notare
come lo
scorso capitolo fosse un casino e non si capisse molto, per BishamonYG,
che ha
finalmente recensito!, per wild_spirit, che si è fatta attendere come
una diva,
per MC119, che ha recensito nonostante le cause di forza maggiore, per
le
dodici persone che hanno messo la storia tra le preferite/seguite (io
ancora
non ci credo) e, last
but not least, per
tutti voi che avete trovato voglia e tempo di leggere!
Già,
ecco, lo scorso
capitolo. Mi è stato detto da diverse persone che era molto confuso.
Era mia
intenzione che lo fosse, ma forse la cosa mi è un po' sfuggita di
mano...
Quindi credo che aggiungerò un paio di capitoli per ristabilire
l'ordine e
ritarderò la fine della parte prima, anche se non di molto.
Dovrei
aver finito
con le comunicazioni di servizio, quindi mi rimane solo un piccolo
sondaggio da
proporvi: preferite che pubblichi un capitolo bello spesso tutto in una
volta,
ma magari tra un mese o più, oppure le singole scene (anche se poi sono
tutte
legate) diciamo... una volta alla settimana? Io sarei più propensa a
pubblicare
tutto insieme e piuttosto nel frattempo inserisco scene su altri
personaggi,
per non farvi aspettare troppo senza avere nulla da leggere, ma se mi
dite che
preferite le scene una per volta io lo faccio anche!
Ok,
ora ho davvero
finito. Vi chiedo ancora, come sempre, di recensire la storia (è un
gesto così
carino, anche solo qualche riga, mi fa bene al cuore!) o di mandarmi un
messaggio privato per dirmi che ve ne pare, se non vi va di recensire :)
Che
gli dèi siano
con voi!
-Magic
|
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Capitolo 9 *** Gelo d'Inverno ***
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Progresso - Campagna No Profit
Io sono una tastiera.
Il mio proprietario è uno scrittore incapace. Da anni cerca di scrivere
qualcosa di decente, ma non ne ha il talento.
Scrivo questo messaggio di aiuto e lo rivolgo a voi lettori.
Potete fare qualcosa, potete incoraggiare scrittori diversi, scrittori
capaci.
Potete dire al mio proprietario che non ha un briciolo di talento.
Potete scrivere una recensione.
Voi potete, dovete fare qualcosa. Aiutatemi.
Gelo d’Inverno
Ha ferito,
ha ucciso,
ha creato dolore,
ha imparato una vita
che non è la sua,
che non lo dovrebbe essere,
ha attaccato il mondo.
Ma questo non è lui.
Non più
Ha pianto,
ha vomitato
ha sanguinato,
ha attaccato il proprio volto
come la tela di Dorian Gray.
Eppure è ancora qui
È stato ferito,
è stato riprogrammato,
ha provato dolore,
ha vissuto una vita
che non è la sua,
che non lo sarà mai,
sa difendersi da un mondo
che non lo attacca.
Non più
Ha pianto,
ha vomitato,
ha sanguinato,
ogni notte nel proprio incubo
ha desiderato che fosse finita.
Eppure
è ancora qui
L’ex-sergente
Barnes arrivò davanti all’hotel
Montage Beverly Hills e si fermò, senza trovare il coraggio di entrare.
Era un
posto elegante, di quelli dove si trovano le star di Hollywood, ma non
era
quello il problema: si era vestito in modo da sembrare un cliente.
Guardando
attraverso il fumo della sigaretta che stava fumando, si disse che non
sapeva
se sarebbe stato in grado di agire con la segretezza che il Signore
degli
Inganni gli aveva chiesto. Era per così dire tornato alla civiltà ed
era ancora
confuso, anche se dentro di sé sentiva di avere ancora la prontezza e
l’addestramento di un Soldato d’Inverno. Scosse la testa come per
scacciare
quelle insicurezze e ritrovare la lucidità che gli avrebbe permesso di
portare
a termine il compito, spense la sigaretta sul posacenere di un cestino
dell’immondizia ed entrò.
Per
prima cosa dovette evitare di farsi confondere
dalle luci dell’atrio, che gli facevano quasi male agli occhi dopo la
luce
debole e grigia del cielo piovoso di Los Angeles, là fuori. Poi
individuò
l’ascensore e vi si diresse con passo deciso, studiato per non destare
il
minimo sospetto. Arrivò al secondo piano e non appena il corridoio fu
libero si
introdusse nello stanzino di servizio accanto alle scale. Dopo aver
tolto
quegli scomodissimi abiti da persona ricca ed essersi vestito da
inserviente
con tanto di guanti a nascondere il braccio bionico, caricò di
asciugamani un
carrello. Prima di uscire, inserì tra due di essi un quadrato di carta
bianca,
su cui aveva scritto “Stras errag etrti amroc iirlp asrsa toral lersp
alrle”.
Aveva appena chiuso la porta dello stanzino, quando una cameriera gli
finì
quasi addosso.
«Scusami,
non ti avevo vista» le disse con un sorriso
incredibilmente finto, anche se credibile.
«Figurati!»
rispose lei con una piccola risata,
che James classificò subito come quella tipica di una ragazza stupida e
insopportabile
«Dove vai?»
«Alla
237, ha chiesto degli altri asciugamani»
accennò con la testa al carrello.
La
ragazza alzò gli occhi al cielo con aria
teatrale: «Ce ne ha sempre una quello lì! Beh, ti lascio allora, se non
si fa
presto, fa sempre storie»
«Sì,
davvero» convenne Barnes senza smettere di
sorridere, poi si avviò lungo il corridoio, voltandosi a lanciarle
ancora uno
sguardo. Lei lo salutò con la mano. Quando poté finalmente smettere di
sorridere come un idiota, il Soldato d’Inverno si disse che quanto al
passare
inosservati evidentemente non aveva perso colpi.
Raggiunse
la camera di Loki senza altri intoppi,
poggiò per terra davanti alla porta la pila di asciugamani e bussò.
Cominciò ad
allontanarsi non appena sentì i passi dell’asgardiano nella stanza.
Sentì la
porta aprirsi alle proprie spalle, ma non si voltò. La leggerissima
risatina
del dio, probabilmente dovuta all’averlo visto vestito in quel modo, lo
raggiunse e gli fece nascere un brivido lungo la spina dorsale, che
trattenne a
stento. Era fastidioso trattare con quella persona in quel modo.
Sentiva gli
occhi di Loki puntati sulla sua nuca, ma resistette all’istinto di
voltarsi e
continuò fino all’angolo del corridoio.
Il
dio degli inganni richiuse la porta con un
sospiro dopo che James ebbe voltato l’angolo ignorandolo. Trovò il
bigliettino
tra gli asciugamani e prese da scrivere. Per prima cosa rimosse la
lettera “r”
che si trovava sempre in terza posizione in ogni gruppo di cinque
lettere e
riscrisse quello che aveva ottenuto: “Stas erag etti amoc iilp assa
toal lesp
alle”. Quindi lesse tutto di seguito
(“Staseragettiamociilpassatoallespalle”) e
inserì gli spazi dove servivano perché le parole avessero un
significato:
“Stasera gettiamoci il passato alle spalle”. Sorrise tra sé, pensando
che per
fortuna Barnes aveva voluto rispettare in tutto e per tutto la
segretezza che
Loki gli aveva imposto. Non potevano rischiare di essere rintracciati.
Uscì,
portando con sé i due fogli scarabocchiati e appena riuscì a non avere
nessuno
intorno li fece a pezzetti e poi li bruciò. Qualunque prova doveva
essere
cancellata. Loki sapeva di trovarsi a un passo dal diventare
ossessionato, ma
aveva sempre più paura di essere trovato da suo fratello e forse, si
disse,
anche di scoprire cosa ci fosse sotto ciò che aveva visto.
Il
Soldato d’Inverno ordinò un altro whisky per
ingannare l’attesa. Sentiva crescere dentro di sé l’irritazione per il
modo in
cui Loki lo trattava. L’asgardiano si comportava come se il mondo
girasse
intorno a lui: James doveva fare questo, trovare quello, non farsi
notare,
seguire le sue stupide richieste da agente segreto e aspettarlo nei pub
come se
non avesse nient’altro da fare. D’altra parte, si disse, non aveva
davvero
altro da fare. A parte i lavoretti che aveva trovato con un nome falso,
il
compito che Loki gli aveva imposto gli assorbiva completamente le
giornate, ma
Bucky non sentiva il bisogno di più tempo libero: non avrebbe saputo
come
impiegarlo.
Finalmente
lo vide entrare. Aveva assunto di nuovo
il proprio aspetto originario: i capelli neri pettinati con incredibile
cura
arrivavano fino alle spalle e gli occhi verdi squadravano il mondo con
malcelato disprezzo. Non appena si posarono su James, però, ebbero un
guizzo e
il loro proprietario parve quasi accennare un sorriso. Si avvicinò al
bancone
con passi che avrebbero voluto essere molto più rapidi, ma riuscì a
trattenere
le proprie gambe. Ordinò un grasshopper e attese che il barman lo
preparasse e
poi si allontanasse.
«Ho
ricevuto il tuo messaggio» disse infine.
«Evidentemente»
rispose tagliente James.
Loki
detestava che la gente gli parlasse in quel
modo: era esattamente come lui si comportava con tutti. «L’hai
trovata?»
domandò
Barnes
sospirò e bevve un sorso di whisky: «Sì, ma
è complicato»
«Quanto?»
chiese il dio degli inganni, alzando gli
occhi al soffitto per il fastidio. James non rispose, ma fece un lieve
cenno
verso la porta, come per dire che la spiegazione avrebbe richiesto meno
gente
intorno e sarebbe stato meglio uscire. Loki annuì e distolse lo sguardo
dal
Soldato d’Inverno per riportarlo sul proprio cocktail. Qualche minuto
dopo
sentì James alzarsi, lasciando i soldi sul bancone: si voltò appena,
come chi
resta sorpreso da un movimento inaspettato, poi tornò a concentrarsi
sul drink.
Ammirò a lungo il liquido verde acceso che aveva nel bicchiere, lo
fissava
tanto che pareva desiderasse di trovarsi al suo posto. Il barista
guardandolo
si disse che non doveva essere il primo che beveva, per essere così
alienato.
Loki
si prese tutto il tempo che gli serviva per
finire di bere, poi pagò e uscì. Trovò Barnes nella stessa identica
posizione
dell’ultima volta, pareva che non si fosse mosso di un centimetro lungo
il muro
e non avesse tolto le mani dalle tasche o spostato il ciuffo ribelle di
capelli
bruni da davanti al viso neanche una volta. Loki cominciò di nuovo a
camminare
parallelamente a lui, lasciando però che quella volta fosse James a
fare
strada. Quando ritenne che fossero sufficientemente lontani dal locale,
il
Soldato d’Inverno si fermò ad aspettare che attraversasse la strada e
nel
frattempo si accese una sigaretta.
Loki
pareva leggermente infastidito dal fumo che
James gli soffiava davanti non molto involontariamente, ma non disse
nulla,
perciò l’altro fece finta di non essersene accorto. Il dio si chiese se
fosse
solo lui e trovare ridicolo il modo in cui entrambi si comportavano
l’uno con l’altro
o se fosse un sentimento condiviso.
Tacquero
ancora per qualche tempo mentre camminavano,
poi James, rivolgendosi quasi più alle volute di fumo nell’aria davanti
a lui
che all’uomo che gli camminava di fianco, disse: «Avengers Facility,
stato di
New York. Si trova lì, con gli altri Vendicatori»
«Questo
avrei potuto immaginarlo da solo» commentò
Loki, leggermente più acido di quanto avrebbe voluto.
«Prelevarla
o parlarle mentre si trova lì è
impossibile» continuò il Soldato d’Inverno, ignorando palesemente
l’interruzione «Di certo qualcuno ti vedrebbe o cercherebbe di
fermarti. I Vendicatori
sono al completo, anche Steve e tuo fratello sono tornati alla base»
Loki
notò con un certo fastidio la familiarità con
cui James aveva pronunciato il nome di Capitan America, ma provò e
riuscì a non
farlo trasparire dal tono con cui parlò: «Quindi?»
«Sembra
che non resteranno lì per molto. Stark si
sta dedicando contemporaneamente a uno di quei suoi progetti e a quella
che ha
tutta l’aria di essere una missione abbastanza impegnativa. Ormai
mancherà poco
alla partenza»
«Cosa
sai di questo progetto?»
James
ripose con tutta calma, prendendo prima una
boccata di fumo e soffiandola con indolenza nell’aria. Loki era teso
come una
corda di violino e sapeva perfettamente che l’altro lo stava facendo
apposta,
ma in fondo non poteva biasimarlo: era una piccola vendetta che poteva
ben
prendersi, visto che il dio lo stava usando per fare gran parte del
lavoro. Si
disse che probabilmente il Soldato d’Inverno non trovava ridicolo tutto
ciò,
anzi sembrava che lo divertisse.
«Quasi
nulla» disse infine «Negli archivi è tutto
cancellato o crittato in un modo che non ho ancora decifrato. Potrei
non
riuscirci mai, con un solo server a disposizione e quel livello di
segretezza. Dev’essere
roba pericolosa. Ci sta lavorando anche Banner, anzi, sembra che l’idea
sia
sua. Stark ha scritto diverse volte nei suoi appunti che pensa che la
realizzazione sia impossibile, ma non ho potuto leggere una sola parola
su di
cosa si tratti»
«La
missione, invece?»
«Come
dicevo, dubito che ci vorrà molto. Nessuno
ferma Stark in queste condizioni»
«È
per la sua ragazza?» Barnes annuì «Allora ho
un’idea di quanto deve aver lavorato. Cosa consigli?»
«Mentre
sono alla base sono praticamente
irraggiungibili, lo sai meglio di me» rispose James «ma durante gli
spostamenti
potrebbe essere più facile e sembra che questa missione ne richiederà
almeno un
paio»
«E
come li rintraccio?»
James
gli porse in silenzio una cartellina nera,
che Loki prese mormorando un ringraziamento.
«Non
ringraziarmi» disse quello. Il dio annuì
appena, senza aggiungere altro e continuarono a camminare in silenzio.
Bucky
finì la sigaretta che stava fumando e ne accese un’altra. Arrivati
davanti al
rifugio del Soldato d’Inverno, i due si fermarono.
James
rivolse a Loki uno sguardo così penetrante
che il Signore degli Inganni sentì il bisogno di voltare la testa da
un’altra
parte, forse anche di andarsene, ma si trattenne e riuscì a fissarlo di
rimando.
Quegli occhi azzurri sembravano stargli scavando dentro e allo stesso
tempo mandargli
un chiaro messaggio: questa è casa mia. Loki poteva aver trovato il suo
rifugio, ma farlo entrare in casa era un altro paio di maniche. Si
trattava
sostanzialmente di una violazione della sua intimità, della sua vita.
Lo stava
costringendo a farlo entrare nel suo universo, a mostrargli il luogo
dove
viveva e dove aveva lavorato. Dove si era ubriacato tante volte per
dimenticare. Dove aveva pianto, vomitato, sanguinato. Dove si era
straziato la
pelle con le unghie per il desidero di uscirne e diventare qualcun
altro. Dove
tante volte aveva tirato fuori la pistola dal cassetto in cui la teneva
in caso
servisse, si era chiesto che cosa lo trattenesse dall’usarla e si era
risposto
che non c’era nulla, forse soltanto un po’ di paura di che cosa sarebbe
venuto
dopo, del giudizio supremo a cui sarebbe stato sottoposto.
Quel
posto era la cosa più intima, più vera, che
gli fosse rimasta in quel mondo schifoso che non lo riconosceva più e a
cui lui
non sentiva di appartenere. Era sempre pronto ad andarsene al minimo
segnale
che qualcuno lo aveva trovato, ma finché non fosse successo quel posto
era
parte di lui. Era lui.
Loki
lesse nei suoi occhi quello che gli stava
dicendo e se non capì proprio tutto ne intuì una buona parte. Far
entrare
chiunque in quella casa sarebbe stato difficile, ma far entrare lui…
beh,
quello era quasi impossibile. In fondo, chi vorrebbe il proprio
ricattatore in
casa? Il dio all’improvviso si sentì in colpa: era piombato dal nulla
nella
vita del Soldato d’Inverno per chiedergli di fare quel lavoro per lui,
oltretutto minacciandolo di rivelare a tutti dove si trovasse. James
avrebbe
potuto semplicemente fingere di accettare e poi sparire. A Loki
sarebbero stati
necessari almeno altri tre mesi per rintracciarlo, vista l’abilità
dell’ex-sergente,
e lui nel frattempo si sarebbe potuto spostare ancora. Invece aveva
deciso di
portare a termine quella storia, di aiutarlo. Forse costringere James a
farlo
entrare in casa sarebbe stato troppo anche per Loki: gli aveva già
rovinato
abbastanza la vita.
«Senti»
disse, esitante, mettendogli una mano sul
braccio «Non c’è bisogno che entri anch’io, se non vuoi. Posso
aspettare fuori
che tu trovi quello che ci serve»
«Non
hai bussato prima di entrare nella mia vita e
ora ti fai tanti problemi per un alloggio?» domandò sarcastico, ma
senza
sorridere, James socchiudendo gli occhi, forse per il fastidio del fumo
o forse
per l’irritazione, poi si scrollò di dosso la sua mano «Tieni le mani a
posto e
fatti gli affari tuoi e non ci saranno problemi»
«Chiaro»
annuì Loki. James gettò la sigaretta per
terra e la calpestò per spegnerla, poi aprì la porta e lo invitò a
entrare con
un gesto teatrale quanto derisorio. Il dio fece qualche passo al buio,
poi
Barnes entrò dietro di lui e accese la luce.
«Мой дом -
твой дом»
(la mia casa è la tua) disse,
con un tono ironico. Loki aveva sicuramente sentito e capito, grazie
all’Omnilingua
asgardiana, ma non rispose, perché era troppo occupato a guardarsi
intorno. Non
c’era molto, perché in caso l’avessero trovato sarebbe stato più facile
fare le
valigie con un mobilio scarno, ma il dio stava comunque cercando di
capire
meglio l’uomo che aveva davanti basandosi sulla sua casa.
James
lo superò con una leggera
spallata che non aveva nulla di accidentale e si avvicinò alla
scrivania. Tirò
fuori da un paio di cassetti il loro contenuto di fogli e lo poggiò sul
piano,
poi estrasse da ogni pila quello che gli serviva e mise via il resto.
Solo
allora alzò lo sguardo alla ricerca di Loki e non lo vide. Controllò la
stanza
con gli occhi e intravide una sagoma dietro uno scaffale. Sospirò e
andò a
vedere: il Signore degli Inganni stava guardando alcune fotografie che
erano
rimaste lì dall’ultima volta che Bucky le aveva riguardate. In mano ne
aveva
una in cui lui e Steve ridevano, abbracciati. Era stata scattata prima
del
Siero, prima che Steve si facesse coinvolgere in quella stupida guerra,
prima del
treno nella neve.
Per
un attimo i ricordi
tornarono ad assillarlo come qualche sera prima, poi James fu preso
dall’ira:
come si permetteva di intromettersi così nella sua vita? Strappò la
fotografia
di mano a Loki e la rimise insieme alle altre sullo scaffale. Il dio
sollevò su
di lui uno sguardo triste e colpevole: «Scusa, io non intendevo…»
«Quale
parte di “tieni le mani
a posto e fatti gli affari tuoi” non è arrivata alla tua elevata mente
asgardiana?» domandò tagliente in risposta James. Loki chinò la testa
in segno
di scusa e lo seguì alla scrivania.
Il
Soldato d’Inverno si
sedette, finì di spiegare la situazione e gli diede le ultime
informazioni, poi
rimase a guardarlo, come aspettando che se ne andasse. Loki continuava
a
rileggere i fogli cercando di capire quale fosse la destinazione giusta
tra le
tre o quattro che venivano prospettate lì: «Come faremo ad arrivare in
tempo
sul luogo se non sappiamo neanche quale sia?»
«Come
farai, vuoi dire» lo
corresse James.
«Oh,
andiamo, non dirmi che
questa storia non ti incuriosisce neanche un po’!» il dio sembrava
quasi
divertirsi.
«È
la tua storia, Signore degli
Inganni, non la mia» considerò cupamente Barnes.
«Posso
chiederti una cosa?»
chiese allora Loki. Non ottenne risposta, quindi decise di proseguire
«Perché
mi stai aiutando, se non te ne importa nulla?»
«Ti
è sfuggita la parte in cui
tu mi ricatti minacciando di rivelare il mio nascondiglio al mondo
intero nel
caso in cui non ti aiuti?»
«A
quanto pare mi è sfuggita
anche quella in cui tu te ne vai appena sei lontano da me perché il tuo
rifugio
è stato compromesso. Nessuno ti tratteneva qui, Soldato d’Inverno,
nemmeno io
avrei potuto obbligarti a restare contro la tua volontà e aiutarmi. Ma
tu l’hai
fatto. Ci dev’essere un motivo»
«Forse
avevo solo bisogno di
distrazione» in fondo era la risposta più comoda e non era neanche del
tutto
falso «Di certo è stato utile in quel senso, visto che mi ha riempito
le
giornate»
«La
gente non rintraccia
supereroi per distrarsi, normalmente» il dio sapeva che c’era
qualcos’altro
sotto, ma non riusciva a capire di cosa si trattasse.
«La
gente non incontra asgardiani
che le chiedono di farlo, normalmente»
«Stai
eludendo la mia domanda»
osservò Loki
«Magari
non mi va di
risponderti» James riprese il tono tagliente di poco prima «O vuoi
ricattarmi
anche per questo?»
Loki
sembrava interdetto: «Io…
Mi dispiace, ero solo curioso» tornò a guardare i fogli in silenzio,
dicendosi
che stava davvero esagerando.
L’umano
lo fissò a lungo, poi
con un sospiro decise di spiegare: «Avevi ragione»
«Cosa?»
«Quello
che mi hai detto l’altra
volta. Che mi stavi facendo un favore. Avevi ragione, si tratta di
Steve. Ho
bisogno di vederlo, ho bisogno di capire. Non c’è nessun altro a cui mi
possa
rivolgere tra quelli che non mi vogliono morto e non cercherebbero di
prendere
il controllo della mia mente. Verrò con te perché devo fargli avere un
messaggio»
«Ma
tu e Steve…?» aveva quasi
paura a completare quella frase.
«Sono
passati tanti anni.
Eravamo giovani, ci conoscevamo da una vita, ma i tempi erano diversi,
non si
poteva come si può oggi, era tutto più difficile. Però noi ci sentivamo
invincibili, saremmo stati io e lui contro il mondo, se necessario. I
ragazzi
sono sempre immortali»
Loki
annuì, conosceva quella
galvanizzante sensazione di potere. Sapeva come tutto poteva venir
smontato da
un singolo avvenimento, da una frase o una parola non detta che
qualcuno stava
aspettando. Ci voleva così poco.
«E
poi c’è stata la guerra e il
progetto con il Siero del Super Soldato. Ci siamo persi di vista. Ci
siamo
ritrovati. Mi ha ritrovato. E mi ha
salvato la vita. Abbiamo scoperto che eravamo di nuovo noi, anzi, lo
eravamo
sempre stati, non eravamo cambiati per nulla. Poi, beh… È successo
quello che è
successo e la volta dopo che l’ho visto ero il Soldato d’Inverno. E lui
era la
mia missione. Se penso che l’ho colpito, l’ho quasi ucciso, io che
avevo
giurato di proteggerlo sempre…» Bucky si prese la testa tra le mani «A
volte,
ripensandoci, mi ucciderei se ne avessi il coraggio. Grazie a Dio ho
ritrovato
la memoria in tempo, prima dell’irreparabile. Ora sarebbe giusto che
parlassimo,
almeno una volta, ma non lo biasimerei di certo se non ne avesse la
minima
intenzione, dopo ciò che ho fatto»
«James…»
disse Loki avvicinandoglisi.
Era la prima volta che lo chiamava per nome: Bucky sentì qualcosa che
assomigliava moltissimo a un brivido lungo la schiena, qualcosa di
antico, di
noto, ma allo stesso tempo di terribilmente insolito. Qualcosa che non
ricordava di aver sentito da molto tempo. Ne ebbe paura.
Alzò
la testa di colpo e Loki
si ritrasse come davanti allo scatto di un felino: «Tu sì che sai come
far
parlare le persone, asgardiano. Per oggi basta così. Ti avvertirò al
solito
modo, se dovessi trovare altre informazioni»
Era
un congedo e il dio lo
sapeva. Senza essere del tutto cosciente di cosa stava facendo, Loki si
avvicinò a James e gli sfiorò appena la fronte con le dita. Mormorò un
saluto.
Bucky allontanò il viso dalla sua mano, chiudendo gli occhi per quello
che a
Loki parve fastidio, e non rispose al suo saluto.
Il
dio se ne andò chiudendo in
silenzio la porta alle proprie spalle e tornò al pub in cui si erano
incontrati: aveva bisogno di bere qualcos’altro, dopo ciò che era
successo.
Dietro
quella porta, nella
periferia nord di Los Angeles, qualcun altro stava bevendo whisky e non
si
sarebbe fermato prima di avere la testa completamente separata dal
resto del
corpo. Quella sera James aveva pensato anche troppo.
The
Magic Corner:
Ciao
a tutt* e grazie di aver letto anche questo capitolo!
Sto male. Io sto veramente male. Tutto per colpa vostra, che mi
costringete a continuare a scrivere questa storia! Ok, no, scherzo, la
colpa è tutta mia, anche perchè questa terribile scena
one-sided!WinterFrost non l'aveva chiesta nessuno. Neanche io. Solo che
è venuta fuori e... vabbè tanto sono ingiustificabile. Non solo sono
riuscita a far soffrire e rimanere sulla corda tutte le nostre (vostre)
aspettative WinterFrost, ma ho anche colpito la Stucky. Sono davvero
una brutta persona. Se dovete sfogarvi vi lascio il mio indirizzo.
Ma un piccolo applauso me lo merito, dai, ho aggiornato dopo neanche
una settimana e il capitolo non è neanche striminzito per i miei canoni
(dovremmo essere sulle 3500 parole...)
Arrivo ai ringraziamenti e cerco di sbrigarmi. Un grazie a tutti coloro
che leggono la storia e in particolare alle tredici persone che l'hanno
messa tra le preferite/seguite (continuate ad aumentare, io vi amo
<3)! Un grazie speciale a GreekComedy che continua imperterrita
a recensire perché lo sa che mi rende tanto tanto felice *.* imparate
da lei, gente!
Che dire di questo capitolo, lo so, sto di nuovo parlando di Loki e ad
alcuni di voi potrei avere un po' rotto le *ehm* scatole con lui, ma ho
bisogno di arrivare a un certo punto con questa ship prima della fine
della parte 1, quindi ci sarà almeno un altro capitolo con loro due.
C'è una discreta probabilità che non sia il prossimo, però, quindi se
vi state annoiando con Loki & Co. la volta prossima potrebbe
tirarvi su il morale! :D
Quanto ai prossimi capitoli, ho deciso che pubblicherò il capitolo
conclusivo (che dovrebbe venire abbastanza lungo) tutto insieme, ma nel
frattempo farò avanzare altre cose che mi servono così non vi faccio
aspettare troppo.
Giuro che ho finito davvero. Ribadisco che recensire è gratis nonché
molto bello da parte vostra, ma anche un messaggio privato mi
basterebbe :)
Che
gli dèi siano
con voi!
-Magic
|
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Capitolo 10 *** La vita ***
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Progresso - Campagna No Profit
Ogni
giorno una tastiera si sveglia e sa che sarà maltrattata da uno
scrittore incapace.
Mentre
tu stai comodamente seduto davanti al tuo computer a leggere
fan-fiction, c'è una tastiera che soffre.
Ognuno
di noi può fare qualcosa per aiutarla.
Puoi
dire a quello scrittore che è incapace, o incoraggiarne un altro perchè
non lo è.
Scrivi
una recensione!
Non
restare indifferente, il destino delle tastiere dipende anche da te!
La vita
Ti guarda,
sorride, ti scompiglia i capelli,
le prendi la mano,
senti il sangue che pulsa nelle sue vene.
Stringi il suo polso sottile
per non lasciarla più andare
La vita non prende nulla,
la vita non dà nulla.
Sei tu che cedi,
sei tu che guadagni,
perché la vita gioca dalla tua parte,
se desideri vivere
Ha paura dei tuoi dubbi,
ti guarda incerta.
Avrebbe voluto una risposta,
non cento altre domande.
Nei suoi occhi,
il riflesso della tua confusione
La vita non ti giudica,
alla vita non importa.
È a te che deve importare.
Sei tu che devi giudicare
se desideri vivere
e allora
la vita giocherà dalla tua parte
Era stata
una buona serata. La cena non era stata delle migliori, visto che metà
della
squadra aveva detto che non aveva fame oppure era troppo occupata per
mangiare
e si erano ritrovati in quattro seduti a un immenso tavolo, ma poco per
volta
le cose erano andate migliorando. Sam aveva infatti proposto di vedere
un film
tutti insieme e quando Rhodey aveva scoperto che Wanda non aveva visto
Star
Wars non c’era stato neanche bisogno di molto tempo per decidere. Due
ore dopo,
una volta finito il film, Falcon e War Machine avevano salutato gli
altri due
ed erano andati a dormire, dicendo di essere molto stanchi.
Visione e
Wanda erano invece rimasti a sedere sul divano, in silenzio, la donna
con la
testa poggiata sulla spalla dell’androide. Quando Visione credeva che
ormai
Wanda dormisse, aveva sentito la sua voce srotolarsi lentamente, come
quella di
chi fa fatica a parlare perché ha la bocca impastata.
«Facciamo
due passi in giardino?» aveva chiesto.
«Perché
no?» aveva risposto Visione «La serata è abbastanza tiepida»
Con una
lentezza che molti avrebbero trovato esasperante, Wanda aveva
raddrizzato la
schiena, come se avesse dovuto riprendere il controllo delle sue
vertebre una
alla volta. Quando infine si era alzata, aveva voltato il viso verso
Visione,
come per invitarlo a imitarla, con un sorriso in cui lui si era perso
per qualche
secondo.
E quindi
eccoli lì, a passeggiare nel giardino. Visione avrebbe voluto avere il
coraggio
di prendere la mano di Wanda, ma sentiva un imbarazzo incredibile a
compiere un
gesto così semplice. Forse è questo l’amore, si disse, facile e
difficile che
diventano una cosa sola e si scambiano come meglio credono. Infine, con
un sospiro,
raccolse tutta la propria determinazione e intrecciò le proprie dite
con quelle
di lei. Ora che l’aveva fatto, non sembrava così complicato, ma gli
dava
comunque una sensazione di sicurezza sapere che la mano di Wanda aveva
accolto
la sua come se non aspettasse altro.
«Visione»
disse a un certo punto Wanda, quando la loro conversazione su argomenti
quotidiani si era ormai interrotta da diversi minuti e regnava il
silenzio «Ho
un dubbio che mi tormenta»
«Mi
domando
se posso aiutarti a scioglierlo» fu la risposta. La voce dell’androide
suonava
stranamente neutra, come se avesse voluto dire qualcosa di diverso, ma
la sua
lingua non gli avesse obbedito.
«Se non
puoi tu, non potrà nessun altro» continuò la donna, senza voltarsi a
guardarlo.
Sembrava a entrambi di star girando intorno alla questione, quasi
stessero
conducendo una seconda conversazione fatta di silenzi, respiri
leggermente più
pesanti e tono della voce. In questo altro dialogo Wanda aveva già
posto la
propria domanda e sapevano entrambi quale sarebbe stata la risposta, ma
continuarono in ogni caso a parlare.
«Coraggio»
Visione strinse la mano di Wanda leggermente più forte e si voltò verso
di lei
mentre parlava, cercando i suoi occhi con i propri.
«Quello
che
sento è reale?» disse infine Wanda, parlando un po’ più veloce del
normale,
come se quella domanda avesse potuto scottarle la lingua.
Visione
fu
preso in contropiede dalla domanda, come se ne avesse aspettata una
diversa, ma
pensò comunque alla risposta e parlò solo dopo averci riflettuto: «Se
non me lo
sai dire tu, io non posso rispondere»
«Io lo
credo reale, ma non so se sia giusto che io senta queste cose. A volte
ti
guardo e mi dico che forse ho sbagliato qualcosa, anzi, che ho
sicuramente
sbagliato tutto. Però non riesco proprio a combattere quello che provo»
Visione
capì.
Quando
parlò di nuovo, la sua voce era piegata dall’amarezza: «È perché sono
un
androide, non è vero?»
«No!»
esclamò Wanda «Non è quello che intendevo, io non volevo…»
«Invece è
proprio così. Non devi sentirti in difetto, so che non è un pensiero
volontario, ma almeno non mentirmi, perché è quello che senti. È
l’istinto,
credo. Non ti sembro umano. Non ti sembro vivo»
«No, non
è
come dici, il fatto è che...» cominciò Wanda, ma poi le mancarono le
parole e
si arrese: «Sì, è vero. Mi dispiace tantissimo, ma non posso farci
nulla, è che
non so se fidarmi di quello che provo per te perché non so se puoi
ricambiarlo,
capisci?»
Visione
capiva perfettamente, fece un cenno di assenso come risposta e tacque.
Wanda
sapeva di averlo ferito, ma quando lui aveva espresso così chiaramente
ciò che
lei provava non aveva saputo negarlo. Non pretendeva alcuna
dimostrazione che
lui potesse provare un sentimento. Visione avrebbe solo dovuto
aspettare che
lei si convincesse. Si sentiva terribilmente in colpa per ciò che aveva
detto e
si disse che avrebbe sopportato qualunque cosa lui le avesse risposto.
L’androide
sapeva che lei l’aveva osservato negli ultimi giorni. Più volte aveva
sentito i
suoi occhi verdi perforargli la nuca mentre se ne andava
tranquillamente in
giro per il giardino. A Wanda non poteva essere sfuggito che Visione
trascorreva molto tempo in mezzo a quelle piante, più di chiunque
altro.
Sicuramente si era domandata perché lo facesse. L’aveva anche vista
guardarsi
intorno come se cercasse qualcosa lì, forse voleva trovare che cosa lo
interessasse tanto. Forse se le avesse spiegato il motivo di tutte
quelle ore
passate in giardino si sarebbe potuta fidare. Almeno un po’ di più.
«Mi hai
visto passare molto tempo in giardino, non è così?» cominciò, dopo un
sospiro,
e poi proseguì senza attendere la risposta «E scommetto che ti sei
chiesta che
cosa ci trovassi di così speciale da passarci praticamente tutto il mio
tempo
libero. Ebbene, nel giardino c’è la vita ed è quella che io cerco»
«In che
senso?» la voce di Wanda sembrava esitante, come se avesse temuto di
offenderlo
anche solo ponendo una domanda, aveva già detto anche troppo e le
sembrava che
ogni parola in più non facesse che peggiorare la situazione.
L’androide
fece un gesto che comprendeva tutto ciò che li circondava: alberi e
arbusti,
piante e insetti, semi che stavano per germogliare e foglie ormai
ingiallite
pronte a cadere: «Tutto questo! Tutto è così vivo e vibra per l’ansia
di
dimostrare a tutti che lo è, come una gara a chi esprime più vitalità.
Lo senti
che cresce, l’instancabile respiro della vita che realizza tutto
quanto, che lo
rende vero, tangibile. Questo posto è la perfetta sintesi di un mondo
che vive,
cambia e diventa di continuo qualcosa di più meraviglioso e incredibile
dell’attimo precedente! E io…» fece un respiro profondo, mentre la sua
voce
perdeva il tono estatico che aveva avuto fino a un secondo prima per
ritornare
alla propria sfumatura di amarezza «Io non ne faccio parte»
Wanda si
sentì spaesata dopo quella dichiarazione così netta. Si sarebbe
aspettata che
lui cercasse di convincerla che i suoi sentimenti erano sinceri e che
poteva
fidarsi, invece probabilmente aveva risvegliato in lui dei dubbi che
non erano
mai stati del tutto tacitati. Si rese conto che lui stesso non era
certo della
risposta alla domanda che lei gli aveva posto. Anzi, era meno sicuro di
lei.
«Quindi
tu
credi che solo perché non sei nato allo stesso nostro modo» cominciò
Wanda, ma
fu interrotta.
«Io non
credo niente. Lo sento e basta. Chi
sono io, Wanda? Anzi, che cosa sono? Se tu lo sai, dimmelo, perché io
non lo so
più. Sono vivo? Sono reale? Merito di poter parlare alle persone come
se fossi
uno di loro? Provo dei sentimenti o quello che mi agita il cuore e la
mente è
solo la pallida imitazione artificiale di quello può veramente sentire
una
persona? Cosa vogliono dire quei sogni che faccio la notte? Sono veri o
sono
anche quelli creati in fabbrica, come il mio corpo?»
Il volto
di
Wanda era sconvolto. Non credeva che la confusione che provava potesse
essere
tanto grande. Probabilmente era da mesi che si tormentava cercando
invano una
risposta a quegli interrogativi. Chissà perché non ne aveva parlato
prima.
Cercò di chiamarlo: «Visione…»
«Ecco,
vedi?» continuò Visione, ormai deciso a non tenersi più niente dentro
«Non ho
neanche un nome normale che sia mio, che mi identifichi. Cosa sono io?
Se
guardi solo la realtà dei fatti, vedrai che alla fine sono soltanto la
visione
di un genio miliardario con i sensi di colpa che è stata fulminata da
una
pseudo-divinità aliena. Visione. È questo l’unico nome con cui ha senso
che io
venga chiamato e devo già ringraziare che siamo arrivati a metterci una
maiuscola quando lo scriviamo»
La donna
strinse più forte la sua mano, cercando di tirarlo fuori dal suo
scoramento, ma
egli sembrava sprofondarci sempre di più. Travolta da quel fiume di
domande,
dubbi e indecisioni, Wanda non trovava le parole che potessero aiutarlo
e si
sentiva inutile. Si ripeteva, da qualche parte nel fondo della propria
coscienza,
che alla fine era stata soprattutto colpa sua se quella confusione era
tornata
a galla tutta insieme, ma non poteva fare altro che cercare di comporre
frasi
che potessero scuoterlo. Visione sollevò su di lei uno sguardo che le
prosciugò
la bocca e le fece volare via dalla mente come degli uccelli quei pochi
e
sparuti gruppi di parole che ancora la popolavano. Sentiva
che non
sarebbe mai riuscita a rincuorarlo in quelle condizioni. Distolse lo
sguardo,
incapace di sostenere ancora quegli occhi di un azzurro troppo finto
che le
scavavano dentro come per sottrarle quella vita che le invidiava tanto.
Allentò senza accorgersene la stretta sulla mano di lui fino a lasciarla e l’androide andò via, senza aggiungere una
parola.
Erano
trascorse alcune ore. Ormai era notte, ma nessuno dei due era riuscito
a
dormire, non dopo ciò che si erano detti. L’androide era tornato in
casa e
aveva continuato a vagarci, avendo cura di non svegliare gli altri,
mentre lei
era rimasta in giardino fino a quel momento, a interrogare le stelle su
quale
risposta avrebbe potuto dare a quei dubbi. Visione avrebbe potuto e
voluto
andarsene passando attraverso uno dei muri, come faceva sempre, dopo
aver
sentito Wanda entrare nella stanza, ma lei aveva evidentemente qualcosa
da dire
e non ebbe il coraggio di lasciarla senza averla ascoltata.
«La vita
non sono le tue cellule. La vita non è essere nati o avere dei
genitori. La
vita non è essere andati a scuola a imparare la matematica. La vita non
è
semplice riproduzione cellulare» la donna fece una pausa e prese un
gran
respiro «La vita è vivere. La vita non ti viene data, te la prendi
quando e
quanto vuoi, perché devi desiderarlo. Non cade dall’alto, non ti svegli
un
giorno e all’improvviso stai vivendo. Te la costruisci giorno dopo
giorno, con
i tuoi errori e i tuoi piccoli momenti di rivincita. Quando esci a cena
con gli
amici, quando aiuti una persona in difficoltà, quando ti prendi un po’
di tempo
per pensare a te stesso, fissando il soffitto mentre sei sdraiato sul
letto,
allora quella è vita»
L’androide
si voltò a guardarla e lei capì che stava dicendo le parole giuste,
perciò
continuò: «Quando prendi la mano di qualcuno e senti il calore della
sua pelle
sulla tua, quella è vita. Nei momenti di tristezza, di rabbia, di
felicità,
quella è la vita. Provare dei sentimenti è vita, ma nessuno ti ci può
obbligare. Non possono costringerti a vivere, se tu non vuoi, ma tu lo
vuoi e
lo stai già facendo. Lo si vede nelle piccole cose, nelle battute per
tirare su
il morale di qualcuno, nella tua voglia irrefrenabile di migliorare, di
controllare quella gemma che hai in fronte e farla tua, nel tuo
desiderio di
imparare a cucinare. Non ho mai sentito per nessuna delle ortensie che
abbiamo
in giardino un miliardesimo di quello che sento quando sono con te. Non
è
quella la vita. Le passioni sono vita e tu ne sei preda quanto ciascuno
di noi.
Non permettere che uno stupido nome ti faccia dimenticare chi sei e
perché lo
sei»
Wanda
aveva
il fiatone come se avesse corso una maratona. Aveva sputato fuori
quelle frasi
così velocemente che le si era spezzato il respiro, ma aveva paura che
se
avesse atteso troppo le sarebbero di nuovo fuggite di mente. Visione
avanzò a
passi lenti verso di lei fino a che non ci furono che pochi centimetri
a
separarli. Il silenzio era quasi tangibile nella stanza e solo il
respiro
pesante della donna poteva increspare quella calma cristallina.
«Quello
che
senti è reale?» domandò infine Visione facendo eco alla domanda che
Wanda gli
aveva posto in giardino, sul volto un'espressione quasi addolorata di
dover spezzare
il silenzio «Come fai a fidarti dei miei sentimenti? Non ho mai amato
nessuno
prima. Forse mi sbaglio, forse non so davvero cosa provo per te. Io non
voglio
che tu soffra per questo. Tu sei sicura di essere disposta a quello che
potrebbe succedere? Come…»
Wanda non
sopportò oltre quella pioggia di dubbi e domande che lui le stava
rovesciando
addosso. Chiuse gli occhi e premette le proprie labbra sulle sue. Sentì
Visione
rispondere al bacio e seppe di aver fatto la cosa giusta, poi smise di
pensare.
Nell’elaborato
sistema al carbonio che componeva la mente di Visione sparì la
concezione dello
spazio e del tempo, ma soprattutto quando li cercò non trovò più
traccia dei
dubbi. Aveva capito. Con quel gesto Wanda gli aveva detto che lei era
disposta
ad affrontare qualunque cosa fosse successa.
«Scusami,
ma già prima ho visto quanti problemi abbia creato l’essere a corto di
parole»
disse infine lei, con un sorriso «Non volevo che tu capissi qualcosa di
sbagliato. Mi dispiace di averci messo tanto a trovare cosa dire»
«Questo
era
reale?» nella mente di Visione stavano tornando a presentarsi quei
dubbi che il
gesto di Wanda aveva dissolto «Possiamo fidarci l’uno dell’altro?»
«Beh,
spero
che tu ti fidi di me» l’androide annuì, convinto «E se tu ti fidi di te
stesso,
non vedo perché io non dovrei farlo»
«Ma io
non
so se mi fido di me stesso»
«Qual è
la
cosa a cui tieni di più al mondo?»
«Te»
Wanda
aveva
già la domanda successiva pronta, ma quell’affermazione così diretta la
lasciò
a bocca aperta. Visione aveva già manifestato in molti modi di esserle
profondamente affezionato, ma lei fu colpita da quella singola parola
più di
quanto lo sarebbe stata da chilometri di lettere d’amore.
«Cosa
c’è?»
le domandò lui allarmato, temendo di aver detto qualcosa di sbagliato.
«Io… non
pensavo» chiese a se stessa che cosa avesse voluto dire con quel "non pensavo", ma non seppe
rispondersi, perciò decise di continuare come se non fosse successo
nulla.
Avrebbe custodito quella risposta nella propria mente, per tirarla
fuori una
volta che fosse stata sola e riesaminarla con calma «Comunque,
affideresti la
mia custodia a te stesso?»
«Sì, ma…»
«Per me è
sufficiente» concluse Wanda interrompendolo «Come ho detto, se tu ti
fidi di te
stesso, lo faccio anch’io. Quindi mi fido di te»
Visione
sorrise per quella specie di test di fiducia che lei aveva creato.
Allungò la
mano verso il suo viso e ne accarezzò delicatamente il contorno. Wanda
chiuse
gli occhi e accompagnò la sua carezza con un lieve e sinuoso movimento
del
collo. Sembrava una gatta che faceva le fusa. Visione sentì la mano di
lei che
prendeva la sua e si chiese se fosse per fermarlo, ma vide i suoi occhi
aprirsi
e fissarlo come invitandolo, perciò non interruppe il movimento. Quando
le sue
dita raggiunsero le labbra di Wanda, ebbe un attimo di esitazione.
Sentiva il
respiro caldo di lei sulla pelle, ma quasi non osava toccare la sua
bocca.
Sembrava che temesse di far scomparire tutto come in un sogno.
Infine si
fece coraggio e, senza staccare gli occhi da quell’abisso verde che
erano
quelli di Wanda, avvicinò lentamente il proprio viso al suo. Era preda
di un
miscuglio di emozioni che avrebbero potuto strapparlo in due. C’erano
dubbi, ma
anche certezze, una felicità con una punta di paura del futuro. Fu
quello che
trasmise a Wanda in quel bacio. I loro respiri erano una cosa sola e ci
fu un
momento preciso, che Visione avrebbe ricordato per sempre, in cui capì
davvero
cosa aveva voluto dire Wanda e si sentì vivo,
come mai prima di allora.
«Wanda»
le
sue labbra si muovevano a qualche millimetro di distanza da quelle di
lei, che
si mossero a cercare un altro bacio.
«Credi
che
amare faccia parte di quello che è la vita?» domandò quando i respiri
tornarono
di nuovo a essere due cose separate.
Wanda
sorrise: «Ma certo. Amare è tutta la vita»
The
Magic Corner:
Salve
a tutt* e
grazie di aver dedicato un po' del vostro tempo alla lettura di questo
nuovo
capitolo.
Sto
scrivendo questa
nota dell'autrice a un'ora molto poco decente della notte sul mio
cellulare,
quindi non so cosa verrà fuori, ma tanto robe normali non ne scrivo
comunque.
Vengo
subito al
dunque perché ho sonno, così domani pubblico il capitolo e voi siete
contenti
(spero! :D)
ScarletVision
is
love. Io li amo. Ma visto che non sono capace di scrivere una storia
d'amore
perfetta, ho dovuto far penare un po' anche loro. Almeno non sono messi
male
quanto Loki e Bucky! Lo so, la trama è praticamente ferma, ma sto
preparando il
capitolo finale dove la trama farà un bel salto in avanti.
Ci
ho messo un po'
di più dell'ultima volta ad aggiornare, ma capitemi... Questa è la
terza
stesura dello stesso capitolo!
Grazie
a tutti voi
che leggete, grazie ai dodici che hanno messo tra le preferite/seguite
questa
storia, grazie a GreekComedy perché recensisce ostinatamente sempre e
comunque
(e perché gli occhi di Bucky sono azzurri).
Volevo
dedicare
questo capitolo a MC1119, che a suo tempo mi disse che avrei dovuto
analizzare
di più la figura di Visione, senza immaginare cosa mi avrebbe spinta a
fare.
Lasciatemi
una
recensione o mandatemi un messaggio se vi va, altrimenti ci vediamo al
prossimo
capitolo!
Che
gli dèi siano
con voi!
-Magic
|
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Capitolo 11 *** Ritornare ***
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Progresso - Campagna No Profit
Ogni
giorno uno scrittore incapace si sveglia e sa che dovrà inseguire una
tastiera che fugge.
Ogni giorno una tastiera si sveglia e sa che dovrà correre più
veloce di uno scrittore incapace.
Che tu sia
scrittore o tastiera, comincia a correre.
Ma se sei un lettore no! Puoi fermare questo scempio!
Scrivi
una recensione!
Non
restare indifferente, il destino delle tastiere dipende anche da te!
Ritornare
Ritornare,
come
riemergere
dalle
profondità del mare:
prima
di schianto,
l’aria
spinge nei polmoni,
la
luce ti acceca,
il
vento freddo sulla pelle,
poi
con calma,
l’acqua
salata non brucia più in gola,
il
sole asciuga la pelle,
il
respiro torna regolare.
Ritornare,
come
accorgersi
che
non si sta sognando:
prima
lo sconcerto,
il
rifiuto,
quasi
la rabbia,
poi
l’accettazione,
la
riflessione,
quasi
una felicità,
perché
era tutto reale,
perché
siamo vivi
io
e te.
Pietro spalancò gli occhi non appena si fu
svegliato completamente. Non vista dal suo paziente, Helena si concesse
un
sorriso e una piccola pausa nella lettura, poi riprese da dove si era
interrotta come se nulla fosse successo. Appena concluse il paragrafo,
chiuse
il libro e lo ripose insieme agli altri.
«Ciao, Pietro» disse con dolcezza «Mi
chiamo
Helena Mazur. Sono il medico che si sta prendendo cura di te. So che
non ti
puoi muovere e non riesci a parlare, ma possiamo comunque comunicare.
Se vuoi
dire di sì puoi chiudere gli occhi e poi riaprirli. Se vuoi farmi una
domanda
batti due volte le palpebre. Se vuoi dire di no oppure non mi riesci a
capire,
resta fermo. D’accordo?»
Helena trattenne il respiro mentre fissava
il
ragazzo immobile. Poi, con una lentezza esasperante, Pietro chiuse gli
occhi.
Dapprima la dottoressa pensò che stesse semplicemente battendo le
palpebre, ma
mentre passavano i secondi si disse che nessuno poteva farlo in modo
così
lento. Proprio mentre le stava per sorgere il dubbio che si fosse
addormentato,
il ragazzo spalancò di nuovo gli occhi. Helena sorrise ancora, annuendo.
«Bene. Oggi arriverà una persona per farti
visita.
Non è tua sorella. Vuoi vederlo appena arriva?»
Nessun movimento: -No-
«Immaginavo. Lo farò aspettare finché non
vorrai
vederlo. Ti va bene?»
Pietro chiuse e riaprì gli occhi: -Sì-
«Perfetto. Vuoi che continui a leggere?»
Lui le rispose di nuovo di sì.
«Ti va bene questo libro?»
Nessun movimento: -No-
«Preferisci le fiabe?»
Pietro chiuse e riaprì gli occhi: -Sì-
«D’accordo»
Dopo aver trovato il libro di fiabe nella
pila,
Helena si schiarì la voce e cominciò a leggere. Smise solo quando fu
certa che
il suo paziente si fosse addormentato e prima di uscire
si voltò
a guardarlo. Non era mai stata né madre né sorella maggiore, ma le era
già
capitato di dover prendersi cura di pazienti molto giovani. In un certo
senso
quella situazione ci somigliava: Pietro era inerme come un bambino e,
si disse
con un sorriso, probabilmente altrettanto capriccioso. Tuttavia,
considerando
il tutto da un altro punto di vista, era completamente diverso da ciò
che
conosceva.
Innanzitutto
c’era quella guarigione, che non sarebbe mai e poi mai dovuta avvenire.
Per
carità, Helena era felicissima che Ji avesse avuto ragione e il ragazzo
fosse
vivo e poteva a malapena immaginare con quale gioia avrebbe reagito la
sorella
una volta che lo fosse venuta a sapere, ma sentiva qualcosa di
sbagliato in
tutto quello. La gente di solito non si risveglia dal coma mezz'ora al
giorno
per poi ripiombarci all'improvviso come se fosse suonata una sveglia,
tanto per
fare un esempio. Le persone paralizzate sono completamente paralizzate,
non
battono le palpebre né sorridono quando sentono la loro fiaba
preferita. Se
spalmi del miele sulle loro labbra non sparisce. Era tutto anormale.
E poi
c'era il ragazzo. Helena provava nei suoi confronti qualcosa che era
sicura di
non aver mai sentito per nessun altro. Quando lo guardava si sentiva
cogliere
da una tenerezza che la disorientava perché era per lei completamente
nuova.
Alle volte, mentre leggeva e lo sorprendeva a sorridere, le saliva un
groppo in
gola e aveva quasi voglia di piangere, senza alcuna ragione. Si sentiva
confusa
perché non capiva cosa volesse dire tutto quello. Forse era così che si
sentiva
una madre, si disse mentre chiudeva la porta con un sospiro.
La dottoressa Mazur non aveva mai visto il
colonnello Fury di persona né in fotografia, ma la sua collega Ji le
aveva
accennato una breve descrizione. In casi normali quelle poche frasi non
sarebbero state sufficienti a riconoscere qualcuno, ma le persone scese
in
quella sconosciuta stazioncina di campagna si riducevano a due e la
difficoltà era minima. Esclusa
la
vecchietta con l’abito a fiori che le rivolse un amabile sorriso
passando,
Helena concluse che doveva trattarsi dell’uomo di colore che indossava
un paio
di occhiali da sole, nonostante il cielo minacciasse pioggia, e un
lungo cappotto
che aveva decisamente visto tempi migliori.
Fece qualche passo verso di lui e quando
furono
uno di fronte all’altra rimasero in silenzio per qualche minuto, come
indecisi
su chi dovesse essere il primo a presentarsi.
«Vogliamo andare o aspettiamo che si metta
a
piovere?» domandò infine il colonnello.
Helena sorrise appena e si diresse verso
l’uscita
della stazione. Fury la seguì senza aggiungere altro finché non furono
saliti
in auto. Si trattava di una piccola utilitaria, non un granché, la
dottoressa lo
riconosceva, ma ottima per non dare nell’occhio. Il colonnello non fece
commenti al riguardo ed Helena gliene fu grata. Mentre la donna guidava
tranquilla verso la clinica, Fury avviò il discorso:
«Allora si è svegliato?»
«Non solo, ha anche aperto gli occhi. Non
riesce
ancora a muoversi, a quanto pare, può soltanto battere le palpebre e di
tanto
in tanto sorride o lecca il miele
che gli spalmo sulle labbra.
Ha già fatto diversi tentativi di muovere altri
muscoli, i macchinari hanno registrato i suoi impulsi nervosi, ma
sembra che
sia praticamente impossibile. Forse il farmaco che gli è stato
somministrato ha
inibito qualche comunicazione nervosa, non ne sono ancora certa»
«Potrebbe
essere rimasto
paralizzato per sempre?» domandò il colonnello, pensando a che reazione
avrebbe
avuto Wanda Maximoff se fosse venuta a sapere una cosa simile. Quella
ragazza
era molto emotiva, anche troppo. Forse era meglio che essere un pezzo
di
ghiaccio come alcuni che Fury aveva conosciuto, ma aveva pensato che le
esperienze di guerra, l’addestramento e la vita separata dal fratello
avrebbero
aiutato a rafforzare il suo carattere. Invece sembrava che non fosse
cambiato
assolutamente nulla.
«E chi lo può dire?»
sospirò Helena in risposta, riscuotendo Fury dai suoi
pensieri «Sa bene che questa è una delle cure meno testate che siano
mai state
usate su una persona»
Dire “una
delle cure meno testate” era in
realtà un eufemismo bello e buono. Il farmaco, anzi, i farmaci che
erano stati
usati su Pietro non erano mai stati testati, se si escludevano due o
tre prove
effettuate da Ji in laboratorio, ma il tempo stringeva e Wanda aveva
acconsentito all’utilizzo essendo a conoscenza dei rischi. Aveva detto
qualcosa
del genere che era meglio essere sicuri che fosse morto in caso non
avesse funzionato
che non poter mai essere certi che fosse vivo.
«E riesce a
sentire se qualcuno gli parla?»
domandò ancora Fury, cercando di ricostruire una scheda mentale delle
condizioni del ragazzo.
«Sembra di
sì. Oggi sono riuscita a stabilire
una specie di metodo di comunicazione con lui. Sto seguendo un
programma molto
rigoroso per aiutare il paziente anche a livello psicologico a
riprendere
coscienza di sé»
«E come è
possibile che lui le risponda?» la
voce del colonnello esprimeva una mescolanza di incredula curiosità e
scetticismo «Come può comunicare con lei se non si
muove?»
«Può aprire
e chiudere gli occhi. Se lo fa
vuol dire sì, se rimane immobile è perché vuole dire di no oppure non
ha capito
ciò che ho detto. Per esempio oggi gli ho chiesto se volesse vedere lei
non
appena fosse arrivato e mi ha detto di no, poi se gli piacesse il libro
che
stavo leggendo»
«Legge per
lui?» Fury sembrava interessato.
La dottoressa rimase per qualche momento in silenzio, chiedendosi
quante di
quelle domande fossero di pura educazione, quante di curiosità e quante
di
effettiva necessità.
«La sorella
mi aveva chiesto così nella
lettera che lei mi ha inoltrato» rispose infine «Mi ha
lasciato una pila di libri tra gli effetti personali e io leggo da
quelli»
«E il libro
che stava leggendo oggi gli
andava bene?» neanche il colonnello sapeva esattamente perché stesse
facendo
quelle domande, se fosse per evitare il silenzio, che d’altra parte non
gli
aveva mai dato troppo fastidio, o soltanto perché era curioso.
«Ha detto
di no, allora gliene ho proposto un
altro e mi ha detto che quello invece gli piaceva»
«E qual era
il libro che gli piaceva?»
La
dottoressa scosse la testa: «Non ci
crederà»
Fury
provava una certa irritazione ogni volta
che qualcuno gli diceva una cosa simile: era come se non avessero
fiducia nella
sua apertura di mente. Eppure sapevano tutti che in quegli anni ne
aveva viste
davvero di tutti i colori, tra alieni, manipolatori di quella che
sembrava
magia e supereroi di ogni genere «Le dirò, ne ho
viste tante nella mia carriera. Non so quante cose
potrebbero
ancora
lasciarmi incredulo. Faccia un tentativo,
comunque»
«Una
raccolta di fiabe» Helena gli lanciò un’occhiata senza distrarsi troppo
dalla
strada: era curiosa di sapere quale sarebbe stata la sua reazione.
Rimase però
delusa: Fury mantenne un'espressione imperscrutabile, fatta eccezione
per un
lieve aggrottare di sopracciglia
«Una
raccolta di fiabe?» ripeté Fury «Ma come le è saltato in mente di
leggergli una
cosa simile? Non è un bambino, se n’è accorta?»
«Non è
stata una mia idea» si difese la dottoressa, anche se le erano tornati
in mente
i dubbi che aveva avuto quella mattina su quanto differisse Pietro da
un
bambino «Era scritto nella lista stilata da Wanda Maximoff che mi ha
mandato
qualche settimana fa. Io non faccio altro che seguire le sue istruzioni»
«Lascio
l’ultima parola all’esperta» concesse Fury e tacque, lasciando che
Helena si
interrogasse per il resto del viaggio se si stesse riferendo a lei
oppure a
Wanda.
Pietro
fu svegliato da un tocco fresco sul viso, come una leggera e timida
carezza di
un alito di vento. Aprì gli occhi piano, come quando al mattino presto
non ci
si vorrebbe alzare per andare a scuola. Avrebbe voluto potersi
strofinare le
palpebre con le dita per risvegliarsi più facilmente, ma non aveva
ancora il
controllo del proprio corpo. Quel mattino era più luminoso degli altri,
notò
guardando il soffitto, oppure semplicemente la luce era meno oscurata
del
solito. Gli fece un’impressione positiva, come fosse stato un augurio
di buona giornata.
C’era
qualcun altro nella stanza con lui: doveva essere la persona che lo
aveva
svegliato sfiorandogli il viso.
Per
un attimo, Pietro fu preso dal panico. Chi era e cosa voleva da lui?
Perché era
stato portato lì? Ma poi dove si trovava davvero e che cosa gli era
successo?
«Ciao, Pietro» disse una voce di donna «Mi
chiamo
Helena Mazur. Sono il medico che si sta prendendo cura di te. So che
non ti
puoi muovere e non riesci a parlare, ma possiamo comunque comunicare.
Se vuoi
dire di sì puoi chiudere gli occhi e poi riaprirli. Se vuoi farmi una
domanda
batti due volte le palpebre. Se vuoi dire di no oppure non mi riesci a
capire,
resta fermo. D’accordo?»
Mentre sentiva quelle frasi, tutto gli
tornò alla
mente. Era la stessa dottoressa del giorno prima, era quella che lui
aveva
scambiato per la propria madre, era quella che leggeva per lui. Si
rilassò, poi
si ricordò che stava aspettando da lui una risposta, perciò chiuse gli
occhi e
li riaprì.
«Molto bene. Come ti avevo detto ieri, è
arrivata
una persona che vuole vederti»
Pietro si ricordava chiaramente di aver
detto che
non desiderava incontrare quel visitatore, chiunque fosse, ma avrebbe
tanto
voluto sapere di chi si trattasse. Prima che Helena continuasse a
parlare,
batté due volte le palpebre.
«Vuoi farmi una domanda?»
-Sì-
«Sulla persona che vuole vederti?»
-Sì-
«Vuoi sapere chi è?»
-Sì-
«Si chiama Nick Fury. Probabilmente hai già
sentito parlare di lui. È,
anzi, era il direttore
dello S.H.I.E.L.D. Sai cos’è?»
-Sì-
«Bene. Il colonnello Fury, da quello che
so, è colui che
ha fatto partire l’iniziativa Avengers. In un certo senso, è merito suo
ogni
volta che i Vendicatori fanno qualcosa di buono. Se non fosse stato per
lui,
Loki avrebbe conquistato la Terra senza trovare praticamente alcuna
resistenza.
Però l’Hydra lo voleva morto e ha mandato dei sicari per ucciderlo.
Così Nick
Fury ha finto di essere morto e ha dovuto lasciare la propria carica di
direttore dello S.H.I.E.L.D. Questo non gli impedisce di continuare ad
aiutare
gli Avengers nelle missioni oppure dando loro dritte su quale debba
essere
l’obiettivo. A Sokovia, ad esempio, è stato lui a mandarvi i mezzi che
vi hanno
permesso di mettere in salvo i civili»
-Domanda-
«Su Nick Fury?»
-Sì-
«Vuoi sapere qualcos’altro su quello che ha
fatto? Ti avverto
che non so molto»
-No-
«Vuoi sapere perché so queste cose?»
-No-
«Accidenti, così potrebbe diventare
lunghissimo, però.
Perché è qui?»
-Sì-
«Per vederti, non appena tu acconsentirai,
naturalmente»
-Domanda-
«Perché gli interessa di
vederti?»
-Sì-
«Tua sorella Wanda adesso fa parte degli
Avengers. Si
fida moltissimo di Nick Fury e quando si è trattato di affidarti a
qualcuno ha
chiesto aiuto a lui. Il colonnello ha contattato una persona che mi
conosce e
io ho acconsentito a prendermi cura di te. Wanda ha lasciato un'annotazione su
cosa fare in caso tu ti fossi risvegliato dal coma, dove mi chiedeva di
contattare Fury e farlo venire qui non appena avessi aperto gli occhi.
Così ho
fatto. Prima che tu me lo chieda, Wanda non è qui. Ha lasciato
istruzioni precise
su quando chiamarla, ma mi ha vietato di dirti di che si tratta. Vuoi
vedere
Nick Fury oggi?»
-No-
Pietro rimase immobile per qualche minuto,
mentre Helena
fissava il suo viso cercando di capire se avrebbe fatto un’altra
domanda o se
stesse per addormentarsi.
«Vuoi dormire?» chiese infine la dottoressa.
-No-
«Leggo qualcosa?»
-Sì-
«Le fiabe?»
-No-
«Il libro di ieri?»
-Sì-
«Bene» Helena cercò il libro che Pietro
aveva rifiutato
il giorno prima e ritrovò il segno. Si schiarì la voce e riprese a
leggere.
Dopo poco il suo paziente si addormentò, forse tutte quelle
informazioni lo
avevano stancato.
Si
trovava a casa sua. Era notte e il lampadario della cucina era acceso,
illuminando un tavolo apparecchiato per quattro. La stanza però era
vuota e
sembrava che qui piatti fossero lì da parecchio tempo. La tinta alle
pareti era
invecchiata rispetto a come la ricordava e si staccava in piccole
scaglie di
colore. Il fornello e il lavandino erano ricoperti di polvere e quando
spinse
la porta la sentì gemere sui cardini. Cercò la camera da letto, forse
sua madre
era là come la volta scorsa. La porta della stanza sua e di sua sorella
era
socchiusa: si fermò un attimo prima di entrare e sentì che sicuramente
c’era
qualcuno dentro e sembrava proprio che stesse leggendo. Fece un
profondo
respiro ed entrò. La porta cigolò quasi quanto quella della cucina.
C’era
davvero una persona che leggeva, seduta in mezzo ai due lettini gemelli
come
era solita fare la loro madre. Ma non si trattava di lei.
«Wanda?»
bisbigliò Pietro con la voce rotta dall’emozione. Erano mesi che non
vedeva la
sorella, escludendo quegli incubi che avevano continuato a tormentare
il suo
sonno. Ma quelli erano ricordi, invece Wanda poteva essere entrata nel
suo
sogno tramite la sua mente. Forse avrebbero potuto comunicare come
fossero
stati vicini. Sua sorella si voltò verso di lui. Non era cambiata di
una
virgola: lo stesso colorito pallido, gli stessi lunghi capelli scuri,
lo stesso
modo di vestire, lo stesso rossetto.
Wanda
sorrise, sembrava incapace di dire una parola. Chiuse il libro e lo
posò sul
letto, poi si alzò. Pietro fece qualche passo verso di lei, incerto,
finché non
si trovarono l’uno di fronte all’altro.
«Sei
reale?» domandò il ragazzo. Sua sorella annuì e i due si abbracciarono.
Stringendo Wanda tra le proprie braccia, Pietro sentì la sua schiena
sobbalzare
come per un singhiozzo: stava piangendo.
«Shh…»
le disse «Perché piangi?»
«Pensavo
di non rivederti mai più» rispose Wanda «Mi sei mancato tanto»
Pietro
era vivo. Wanda ricordava ancora lo strappo che aveva sentito nel
proprio cuore
quando lui era stato colpito, la lacerazione dentro di lei mentre
faceva a
pezzi tutto ciò che trovava per scaricare tutta quell’energia che il
dolore le
dava. Pietro era vivo. Poteva parlargli in sogno, poteva toccarlo,
poteva
sentire di nuovo il suo odore e forse un giorno sarebbe potuta andare
di
persona a vederlo e lui sarebbe guarito del tutto. Pietro era vivo.
Wanda
avrebbe ricominciato a sorridere anche senza motivo, soltanto perché
era
felice, e a fare bei sogni ogni notte e non una volta ogni tanto,
avrebbe
smesso di sentire continuamente quella nota di malinconia in fondo a
ogni
proprio pensiero e di trovare sempre un modo per ricordare a se stessa
che lui
non c’era più. Pietro era vivo. E finalmente era di nuovo viva anche
Wanda.
The Magic
Corner:
Ciao a tutt*!
Innanzitutto,
grazie di aver letto questo nuovo capitolo e mi dispiace un
sacco perché ci ho messo un po' ad aggiornare, ma ero bloccatissima con
l'ispirazione.
Ho poco da dire, quindi mi limiterò a ringraziare tutti voi che leggete
la
storia, voi tredici che l'avete messa tra le preferite/seguite e
chiunque mi
stia dedicando un po' del suo tempo. Grazie a GreekComedy che ogni
tanto si
ricorda che le het sono pucciose, grazie a Kyem che è uscita dal suo
silenzio,
grazie a MC1119 che ha riletto tutta la storia da capo.
Lasciatemi una recensione o mandatemi un MP se avete tempo e voglia,
sennò a
presto con il prossimo capitolo!
Che gli dèi siano con voi!
-Magic
|
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Capitolo 12 *** Secondo intermezzo ***
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Progresso - Campagna No Profit
Io sono una tastiera.
Il mio proprietario è uno scrittore incapace. Da anni cerca
di scrivere
qualcosa di decente, ma non ne ha il talento.
Scrivo questo messaggio di aiuto e lo rivolgo a voi lettori.
Potete fare qualcosa, potete incoraggiare scrittori diversi,
scrittori
capaci.
Potete dire al mio proprietario che non ha un briciolo di
talento.
Potete scrivere una recensione.
Voi potete, dovete fare qualcosa. Aiutatemi.
Secondo
intermezzo
«Stiamo
facendo la cosa giusta?»
«Perché
me lo chiedi, K?»
«Perché
non ne sono certa. E mi
fido del tuo giudizio. Vorrei sapere cosa ne pensi»
«Lo
sai cosa ne penso, ne abbiamo
già discusso moltissime volte. Ci sono occasioni in cui bisogna
prendere
decisioni disperate, ci sono soluzioni che sembrano peggiori dei
problemi. E ci
sarà sempre qualcuno pronto a dirti che avresti fatto meglio in un
altro modo.
Ma loro non sanno. Gli altri non hanno visto. Solo tu puoi sapere
dentro di te
quanto è necessario quello che stiamo facendo. Se penso che sia stata
una
decisione disperata? Assolutamente sì, ma sai quanto me che non c'era
tempo per
nient'altro. Abbiamo commesso degli errori? Moltissimi! Avremmo potuto
agire in
modo cento volte più organizzato, ma non l'abbiamo fatto. La nostra
condotta ha
creato problemi? Sì, un'infinità, ma io sono fermamente convinta che se
non
avessimo fatto nulla le cose sarebbero andate molto peggio. È vero,
come ho
detto, che esistono soluzioni che sono più catastrofiche del problema
che
risolvono, ma è anche vero che in questo caso non è così»
«Ma
se mi fossi sbagliata?»
«Non
è mai successo prima d'ora,
si tratterebbe di una terribile coincidenza e allora... Beh, contro il
destino
non possiamo davvero fare nulla, lo sai meglio di me»
«E
se quello che stiamo cercando
di evitare fosse il destino? Se non si può davvero fare nulla, tutto
questo è
inutile»
«Lo
so, ma dobbiamo provare. Non
voglio arrivare un giorno a dire a me stessa che avremmo potuto fare di
più»
«Hai
ragione, però...»
«Lui
si fida di te, no? Ti ha
dato carta bianca e ti ha lasciato fare tutto quello che ti serviva»
«Lui
non è infallibile»
«Allora
speriamo che non si sia
sbagliato proprio stavolta!»
«Già...»
The Magic
Corner:
Ciao a tutt*!
Avrei
dovuto pubblicare questo capitolo l'altro ieri, ma stavo scrivendo
one-shot come una disperata quindi non ho potuto farlo. Non questa
domenica, ma quella dopo, parto per due settimane di vacanza e non
potrò pubblicare nulla. Cercherei di pubblicare ancora sicuramente un
capitolo prima di partire, magari anche due, vediamo quanto riesco a
essere rapida :)
Grazie a tutti voi che leggete, seguite, preferite, recensite ecc...
Piccola anticipazione, il prossimo capitolo sarà su Loki e Bucky :D
Lasciatemi
una recensione o mandatemi un MP se avete tempo e voglia,
sennò a
presto con il prossimo capitolo!
Che gli dèi siano con voi!
-Magic
|
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Capitolo 13 *** Non berrò ***
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Progresso - Campagna No Profit
Ogni
giorno una tastiera si sveglia e sa che sarà maltrattata da uno
scrittore incapace.
Mentre
tu stai comodamente seduto davanti al tuo computer a leggere
fan-fiction, c'è una tastiera che soffre.
Ognuno
di noi può fare qualcosa per aiutarla.
Puoi
dire a quello scrittore che è incapace, o incoraggiarne un altro perchè
non lo è.
Scrivi
una recensione!
Non
restare indifferente, il destino delle tastiere dipende anche da te!
Non berrò
Non posso bere questa sera,
la mia mente è già offuscata,
il mio pensiero non è lucido
e non ho una goccia di alcol in corpo.
Perché questa sera sto pensando a te
e sto cercando una risposta.
Non ho dubbi, troppe certezze
che non posso cambiare.
E non posso bere questa sera
e questa sera non berrò
Non posso bere questa sera,
sto cercando di ragionare.
provo a pensare a qualcos’altro,
ma è tutto inutile.
Perché questa sera sto pensando a te,
anche se cerco di impedirmelo.
Dovrei parlarti, dovrei evitarti,
dovrei ubriacarmi e dimenticare,
ma non posso bere questa sera
e questa sera non berrò.
Il Signore
degli Inganni non poteva bere quella
sera. Avrebbe tanto voluto farlo, concedersi un bicchiere, poi un altro
e un
altro ancora, finché il mondo là fuori non fosse stato altro che nebbia
e un
volto dai contorni sfumati da qualche parte nella sua memoria. Eppure
sentiva
di non potere, come se qualcuno gliel’avesse vietato categoricamente.
Perché
doveva concludere una cosa, come continuava a ripetere a se stesso da
tempo,
anche se non aveva ancora trovato il coraggio di farlo. Erano stati
lunghi
giorni, senza nulla da fare se non aspettare e pensare a ciò che era
successo,
ciò che aveva detto. A nessuno dovrebbe essere concesso tanto tempo per
riflettere
sulle proprie azioni quanto ne aveva avuto lui, si disse. Doveva farla
finita
con quella storia. Aveva altro a cui pensare, non poteva lasciarsi
distrarre da
una sola persona. Neanche se quella persona era James.
Discese
dal Bifrost poco distante dalla porta
della casa del Soldato d’Inverno e sentì le gambe cedere appena, mentre
il suo
corpo scaricava il peso su di loro. Era quasi certo che non si
trattasse di
alcuna forza esterna, come la gravità, a meno che non si considerasse
James come
una forza esterna. Loki preferiva considerarla più come una cosa
interna,
intima.
Mentre
cercava di raccogliere il coraggio necessario
a percorrere quei pochi metri e bussare alla porta, si ritrovò ancora a
pensare
a che cosa gli stava succedendo, come se non avesse già sviscerato
l’argomento
a sufficienza durante i giorni passati. C’era qualcosa in James che lo
aveva
colpito fin dalla prima volta che gli aveva parlato in quel locale con
un nome
davvero fuori luogo. Aveva visto in lui una parte di sé, quella che
nessuno
aveva mai conosciuto. La Terra aveva visto il Signore degli Inganni
spietato,
invasore e vendicativo, Asgard nei tempi andati poteva raccontare del
principe
Loki, che lottava assieme a Thor, Sif e i Tre Guerrieri per mantenere
l’ordine
nei Nove Mondi, ma nessuno aveva mai compreso veramente la sua essenza.
Quella
stessa essenza che aveva vista riflessa
negli occhi azzurri di quel soldato caduto. Lo aveva colpito fin da
subito,
perché era la prima volta che vedeva una natura simile trasparire senza
maschere. Nella propria vita, aveva sempre cercato di nascondersi allo
sguardo
degli altri, di dare una qualunque impressione purché fosse diversa da
quella
reale. A James non importava. Aveva lo sguardo di chi ha perso gli
altri e,
soprattutto, se stesso a un livello tale che non gli interessa che cosa
pensi
di lui il mondo circostante.
Loki
aveva provato quasi paura, all’inizio. Quando
aveva fatto quella battuta su Steve Rogers, che gli era sembrata così
innocente, aveva visto negli occhi dell’uomo che aveva di fronte una
mescolanza
di sentimenti negativi eccessiva perfino per il Signore degli Inganni.
Rabbia.
Paura. Dolore. Nostalgia. Odio. Aveva temuto che James potesse
colpirlo, per un
attimo si era detto che l’avrebbe sicuramente ucciso e lasciato lì per
strada
come una delle
tante rapine finite male,
invece se n’era semplicemente andato. Era
stato in quel momento che si era reso conto che sentiva qualcosa di
strano
verso di lui. L’aveva capito quando aveva realizzato che nell’istante
in cui
era certo che il Soldato d’Inverno stesse per ucciderlo non aveva
provato
paura. No, non era paura quella, era compassione per un uomo spezzato.
Compassione e un po’ di fastidio perché era bastato nominare Capitan
America
per far sprofondare James in quello scuro cocktail di emozioni.
Solo
qualche ora dopo si era detto che non avrebbe
dovuto provare compassione, non era da lui, eppure in qualche modo gli
sembrava
l’unica cosa possibile. Quell’uomo era troppo simile alla parte di
sé che il Signore degli Inganni
continuava a cercare di nascondere anche a se stesso, per non lasciare
un segno
nella sua memoria. James
aveva un
disperato bisogno di aiuto, ma si era aggrappato troppe volte a
ramoscelli instabili per poter ancora credere che ci fosse qualcuno in
grado di
tirarlo fuori dal baratro.
Allo
stesso modo, anche Loki aveva bisogno di
qualcuno. Qualcuno che non fosse perfetto, che non lo facesse sentire
diverso,
che non lo guardasse come un mostro, che capisse tutto ciò che aveva
passato.
Aveva bisogno di James. Ma non poteva averlo. James gliel’aveva fatto
capire
con i gesti più ancora che con le parole. Aveva scostato il viso,
fuggendo il suo
tocco, aveva chiuso gli occhi come per estraniarsi da quella
situazione. Loki
voleva comunque parlargli, fargli sapere come si sentiva. Per una volta
nella
sua vita, voleva essere completamente sincero con qualcuno.
Bucky
non aveva mai saputo disegnare, non bene
quanto Steve, comunque. Guardare Steve disegnare lo aveva sempre fatto
pensare
a qualcosa di rilassante, quasi di inconscio, come se l’altro non
stesse
neanche prestando attenzione a ciò che stava facendo. Invece
evidentemente ne prestava
eccome, visto che poi venivano fuori delle immagini spettacolari. Bucky
si era
sempre sentito goffo nel disegnare, come se la matita tenuta in mano da
lui
avesse espresso fermamente la propria
disapprovazione nei
confronti di ciò che
lui aveva intenzione di fare.
In
quel momento, l’uomo che ormai non era più
Bucky per nessuno avrebbe disperatamente voluto saper disegnare, perché
aveva
bisogno di qualcosa che potesse comunicare direttamente con la parte
non
cosciente di lui e dargli un po’ di tregua da quei pensieri che avevano
la
chiara intenzione di fargli esplodere la testa. Certo, disegnare non era
l’unica possibilità, ma era stata la
prima cosa che gli era venuta in mente, insieme al ricordo di Steve con
la
matita in mano, il
sorriso appena
accennato sulle labbra, come quando si dorme e si sta facendo un bel
sogno, gli
occhi bassi sul disegno ma con un frammento di azzurro ancora visibile.
Sicuramente
non aveva pensato al disegno o a Steve
per puro caso, si era trattata di una catena di immagini nella sua
testa su cui
James non aveva neanche tanta voglia di indagare. Avrebbe voluto bere,
maledizione quanto avrebbe voluto bere, ma non poteva. Doveva pensare.
Si
chiese se non fosse arrivato all’autolesionismo, perché quella catena
folle di
ricordi e immagini che non sapeva bene da dove venissero era quasi al
livello
della tortura psicologica. Non c’era niente che gli impedisse di
alzarsi da
quel tavolo, prendere la bottiglia di whisky e versarsi un bicchiere
dopo
l’altro fino a dimenticarsi di Steve, dei suoi disegni e di tutto il resto, ma non l’avrebbe fatto.
Tutto
il resto. Tutto il resto aveva un volto e un
nome. Aveva dei capelli neri, il colorito pallido che lo faceva
sembrare sul
punto di morte per assideramento e un paio di occhi verdi con dentro
tutta la
solitudine che James avrebbe mai potuto immaginare, forse anche
qualcosa di
più. Ecco, stava di nuovo pensando a Loki, accidenti a lui. Non c’era
niente
che si potesse fare per bloccare i propri pensieri? Con tutte le
tecnologie che
avevano inventato, non avevano trovato nulla di più efficiente
dell’alcol per
impedire a se stessi di pensare?
Perché
James non aveva nessuna intenzione di
pensare a Loki, assolutamente. Aveva deciso di tenerlo fuori dalla propria mente,
insieme a quei suoi occhi verdi che continuavano
a urlare nella sua testa che avevano bisogno di aiuto. Come se non ci
fosse
stata già abbastanza gente che gridava, nella testa del Soldato
d’Inverno.
Aveva stabilito che avrebbe fatto finta di non aver mai sentito quel
brivido
quando l’asgardiano aveva pronunciato il suo nome, di non aver mai
avuto quella
sensazione di un sentimento che era rimasto congelato per decine di
anni, di
non aver mai pensato che forse tutto ciò avrebbe potuto essere reale,
avrebbe
potuto aiutarlo a ricominciare.
Da
un lato, continuava a ripresentarsi nella sua
mente l’immagine di Steve. Steve che disegnava, Steve che rideva, Steve
che gli
diceva di non avere intenzione di combattere contro di lui, Steve anni
prima
che gli diceva che lo amava. Steve che forse avrebbe potuto amarlo
ancora,
forse lo stava soltanto aspettando. Dall’altro lato vedeva gli occhi
verdi di
Loki che lo pregavano ardentemente di non andarsene. Loki che lo aveva
ricattato, Loki che ficcava sempre il naso, Loki che lo guardava come
si
potrebbe guardare uno specchio, quasi James fosse
soltanto la sua immagine riflessa. Loki che,
però, sembrava capire sempre tutto quanto, forse più di quanto avesse
mai fatto
nessun altro.
James
non voleva pensare a Loki perché non voleva
fidarsi di lui. Non aveva nessuna intenzione di concedere ancora una
volta la
propria più intima fiducia a qualcuno, non voleva commettere ancora
quell’errore. Non si trattava di qualcuno che aveva tradito la sua
fiducia, ma
piuttosto di una persona che aveva perso. Fidarsi di una persona è
donargli un
pezzo di sé da custodire nel cuore. Può finire tutto male perché
l’altro getta
via il frammento di te, oppure perché perdi quella persona, insieme
alla parte
che gli avevi regalato. E rimani lì, senza più un pezzo di te e senza
neanche una
persona di fiducia ad aiutarti.
Ma
anche dopo aver
deciso di cancellarlo
dalla propria mente, Loki tornava a presentarsi ogni volta che James
pensava a
Steve e lo stesso succedeva anche al contrario. La Sentinella della
Libertà e
il Signore degli Inganni. Erano come il giorno e la notte. Tutti i bei
ricordi
di James, ciò che lo
aveva salvato dall’abisso in cui era precipitato, appartenevano a
Steve, al giorno, eppure egli si sentiva ormai un uomo della notte,
oltre che
dell’inverno. Era come se Loki esercitasse un’attrazione su di lui che
andava oltre
alla logica, oltre al buon senso e a tutto ciò che James aveva
conosciuto fino
a quel momento. Doveva togliersi quei problemi dalla testa, ma l’alcol
rimaneva
l’unica soluzione che gli venisse in mente. Infine si decise e si alzò
per
prendere la bottiglia. Proprio nell’istante in cui qualcuno bussava
alla porta.
James
guardò dallo spioncino e fece un sospiro.
Aprì la porta mantenendo la catenella di sicurezza: «Che cosa ci fai
qui? Che
cosa vuoi?»
«James»
lo chiamò Loki, facendogli
tornare alla memoria come si
era
sentito la prima volta che gli aveva sentito pronunciare il proprio
nome «Posso
entrare?»
«Perché?»
«Capisco
che tu possa essere arrabbiato con me e
mi dispiace molto per quello che è successo» Loki si fermò un attimo:
era lui
che stava parlando? Che cosa gli aveva fatto James, quale parte di lui
stava
facendo emergere per spingerlo a scusarsi in quel modo? In ogni caso,
ormai
l’aveva detto «Ma ho bisogno di parlarti prima che partiamo per questa
missione»
«C’entra
con quello che mi hai obbligato a
fare?» James aveva
sottolineato quella parola per sé, non per lui. Doveva ricordare a se
stesso
che Loki lo stava usando, ricattando e sfruttando per i propri scopi
che
probabilmente non erano per nulla puliti. Tendeva a dimenticarlo.
Loki
strinse le labbra: «No»
«Allora
non è importante»
«Perché,
per te c’è qualcosa di importante che
potrei dirti?» Loki non avrebbe voluto dirlo, gli era sfuggito perché
era
nervoso e James non faceva altro che confonderlo e complicargli il
compito che
si era scelto.
«Hai
ragione, non c’è» James richiuse la porta di
scatto. Doveva bere. Doveva piangere. Doveva cacciare quell’asgardiano
dalla sua
vita. Invece non fece nulla. Si sedette per terra con la schiena
poggiata
contro la porta, cercando di respirare a fondo per scacciare
l’agitazione.
Loki
non disse nulla. Rimase paralizzato davanti a
quella porta chiusa che dava un’idea di definitivo, di un “a mai più
rivederci”
che lo faceva sentire vuoto. Non riusciva a pensare a niente che
potesse fare
per reagire a ciò che era successo.
Avrebbe potuto gridare o
prendere a pugni la porta, ma sembrava tutto esternamente inutile. Nella sua
testa, si diceva che aveva rovinato
tutto, come suo solito. Era mai possibile che riuscisse a distruggere
tutto ciò
che toccava? Sentì le gambe cedergli e si sedette sul ruvido asfalto
che
ricopriva la strada. Si lasciò andare all’indietro e sentì la propria
testa
poggiarsi contro la porta. Quella maledetta porta. Voleva piangere, ma
aveva
finito le proprie lacrime tanti anni prima e ora gli rimaneva soltanto
l’amara
certezza che niente sarebbe mai andato come sperava.
Aveva
voluto provare a salvare la realtà, aveva
voluto provare a salvare se stesso. Guardando
indietro a quei
sogni che appena pochi minuti prima
sembravano vivi e pieni di speranze, si disse che, per quanti anni
passassero,
continuava a essere ingenuo come sempre. Ingenuo come un bambino che da
grande
vuole fare il supereroe.
«James»
disse, senza sapere neanche perché lo
stesse facendo. Era certo che lui non fosse lì ad ascoltarlo e forse
non
sarebbe stato a sentirlo neanche se fosse stato a pochi centimetri da
lui. Ma,
in fondo, ormai aveva rovinato tutto, quindi cosa sarebbe potuto
succedere di
peggio se avesse finalmente detto ciò per cui era venuto?
E
cosa importava se non c'era nessuno ad ascoltarlo?
«James»
riprese «Mi dispiace. Mi dispiace davvero,
per tutto quanto. Per quello che ti è successo, per quello che ti ho
fatto, per
tutte le battute stupide che non avrei dovuto fare, perché ficco sempre
il naso
dappertutto, perché dico sempre la cosa sbagliata e distruggo tutto ciò
che
tocco, mi dispiace. E anche se lo so che non ti interessano le mie
scuse o la
mia compassione o qualunque cosa questo sia, volevo semplicemente che
lo
sapessi.
Quello
che sono venuto a dirti è che voglio essere
sincero con te. Avrai tutta la sincerità che ho conservato e mai usato
in tutti
questi anni. Ti assicuro che mi servirà tutta per il discorso che sto
per
farti, perché, dopo una vita trascorsa a nascondere ciò che ero e che
sentivo
perfino a me stesso, dovrò costringermi a tirare tutto fuori. Giuro che
mi
potrai sempre chiedere la verità e sempre l’avrai.
Non
lo so cosa mi hai fatto. Dalla prima volta che
ti ho parlato ho sentito che avevamo tante cose in comune. Mi hai
colpito
perché ho visto in te alcuni dei sentimenti che io tenevo sempre
nascosti,
mentre tu li mostravi al mondo come se non ti fosse importato nulla.
Probabilmente è davvero così, non lo so, non ti ho ancora capito a
fondo, però
credo di essere in grado di farlo e non so quante altre persone lo
siano.
Volevo
soltanto che sapessi che mi hai fatto provare qualcosa di cui avevo
sempre riso, dicendo a me stesso che riguardava
gli altri, non sarebbe mai stata affar mio. E sì, sto dicendo che mi
sono
innamorato di te. Ora puoi essere tu a ridere, se vuoi, puoi darmi
dell’idiota,
puoi dirmi che sono completamente pazzo, mandarmi al diavolo e dirmi di
uscire
dalla tua vita. Non ho nessun motivo per darti torto se lo farai.
Dovevo solo
togliermi questo peso che mi stava uccidendo, perché ho dato a me
stesso una
missione e anche senza il tuo aiuto la porterò a termine, ma ho bisogno
di
avere la mente lucida e non posso avercela se ho te continuamente in
mente»
James
ascoltava. Non si perdeva una singola parola
dall’altra parte della porta ed era incredulo. Si era accorto che Loki
si
comportava in modo particolare con lui, ma non avrebbe mai pensato di
spingerlo
a tanto. Descrivere a cuore aperto i propri sentimenti era difficile
per tutti,
dire “sono innamorato di te” a qualcuno che si è convinti non ricambi
poi,
praticamente impossibile, ma essere sincero per il Signore degli
Inganni doveva
essere la più grande sfida che avesse mai affrontato.
Domandò
a se stesso come si sentisse e non seppe
rispondere. Non poteva nascondersi che aveva pensato a Loki molto
spesso. Aveva
riconosciuto
di provare quella strana attrazione
irrazionale nei suoi confronti. Non poteva
semplicemente lasciarlo andare via. Non dopo che Loki aveva fatto quel
sacrificio per riuscire a dichiararsi.
D’altra
parte, però, sapeva che ciò che sentiva
non poteva essere intenso quanto quello che traspariva dalle parole
dell’asgardiano. Non riusciva comunque a mettere da parte Steve nel
proprio
cuore e Loki doveva saperlo, lo aveva certamente immaginato quando gli
aveva
chiesto di loro due. Non poteva promettergli ciò che cercava, ma
qualcosa gli
impediva di lasciarlo andare via. Si alzò in piedi e guardò di nuovo
dallo
spioncino: Loki era in piedi di fronte alla porta. Teneva gli occhi
bassi,
probabilmente non pensava che James l’avesse sentito.
Agendo
d’istinto James sganciò la catenella e aprì
la porta. Loki alzò su di lui uno sguardo che gli fece sentire una
stretta al
cuore. Non poteva proprio scacciarlo, ora lo sapeva.
«Ho
sentito tutto» disse, la voce arrochita dal
lungo silenzio «Entra»
«Tu?»
Loki non sembrava crederci «Come hai…?»
«Ero
seduto dietro la porta. Non è tanto spessa
quanto sembra»
Loki
lo fissava scuotendo la testa. James sentì
nascere dentro di sé una specie di felicità, forse era contento di
averlo
stupito o forse era semplicemente certo di star facendo la cosa giusta.
Sorrise
e si spostò di lato per permettere all’asgardiano di entrare.
«Accomodati»
disse James, indicandogli una delle
sedie sparse per la stanza. Loki obbedì come in trance e si sedette,
senza
staccargli gli occhi di dosso.
James
prese fiato e spiegò. Disse che nella sua
mente c’era ancora Steve e che per quanto potesse dispiacergli non
poteva
promettere a Loki la dedizione completa che lui stava dimostrando nei
suoi
confronti. Disse anche che però non sentiva solo quello. Raccontò dei
propri
dubbi, di quanto volesse accettare ciò che Loki gli stava offrendo.
Spiegò la
propria voglia di ricominciare e quella timida speranza di poterlo fare
con
Loki.
«Non
posso dirti che non provo niente per te né
che le tue parole sono state vane» concluse «Ma ora mentirei se ti
dicessi che
ricambio tutto ciò che hai detto. Forse il tempo potrà cambiare le cose»
«Sono
disposto ad aspettare» disse Loki, i suoi
occhi sembravano più verdi che mai in quel momento «Per quanto tempo ci
vorrà»
«Grazie»
James sentì il sollievo pervaderlo. Aveva
temuto di perdere quell’unica possibilità di salvezza che la sorte gli
aveva
offerto.
«No»
rispose Loki con un sorriso «Grazie a te»
I
due si guardarono a lungo in silenzio. Gli occhi
azzurri di James rilevarono piano piano tutti i segni della stanchezza
e del
brutto periodo che Loki aveva attraversato: non aveva modificato il
proprio
aspetto per incontrarlo e le pieghe degli abiti erano nulla al
confronto di
quanto sembrava distrutto il suo viso. Chissà quanto sonno arretrato
aveva, si
chiese James.
«Da
quant’è che non dormi?» domandò avvicinandosi
e sfiorandogli il viso con le dita. Loki chiuse gli occhi e nella mente
di
James si ripresentò lo stesso momento vissuto al contrario l’ultima
volta che
si erano visti, tranne per il fatto che Loki non aveva allontanato il
volto
dalla sua mano. Sentì di avere, in un certo senso, riequilibrato la
bilancia.
«Dall’ultima
volta che ci siamo visti» rispose
l’asgardiano, tenendo gli occhi chiusi «Il poco sonno che ho avuto è
stato
molto agitato. Ma adesso dormirò meglio»
«Bene»
disse James. Sentì la mano di Loki prendere
la sua e stringerla. Era fredda. Lo notò ad alta voce.
«Sì,
beh, sono un Gigante di Ghiaccio, cosa ti
aspettavi?» domandò Loki aprendo gli occhi. A James sembrò di vedere un
riflesso rosso nel verde delle sue iridi, mentre la sua pelle diventava
quasi
azzurra. Allontanò la mano, confuso.
«Avevo
promesso di essere sincero con te» disse
Loki, mentre sul suo volto iniziavano a disegnarsi dei segni che
sembravano
lunghe cicatrici «Ebbene, questa è la mia vera forma. Non sono un
asgardiano,
sono un Jötunn,
un gigante di ghiaccio. Odino mi prese con sé quando non ero che un
bambino e
fui cresciuto come un asgardiano, ma questo è ciò che sono veramente ed
è
giusto che tu lo sappia»
«Perché
mantieni l’altro aspetto, allora?» domandò
James.
«Ho
vissuto la mia vita come una menzogna e mi ci
sono abituato tanto che mi sembra strano tornare alla mia vera forma.
Non sono
certo di poterlo sopportare» la carnagione cominciò a schiarirsi,
mentre i
segni sulla pelle sparivano e gli occhi tornavano verdi «Scusami, non
ce la
faccio»
«A
me vai bene anche così» sorrise James «Anche se
sono felice che tu abbia voluto farmi sapere qual è il tuo vero
aspetto. Ora
più che mai sono certo che sarai davvero sincero con me»
«Anche
se sono il Signore degli Inganni?»
«Anche
se sei il Signore degli Inganni»
Nello stesso tempo, altrove
Finalmente aveva
finito. Aveva dedicato gli ultimi tre
mesi di lavoro praticamente solo a quel progetto, anche se in realtà
era da più
tempo che ci pensava e studiava il tutto. L'idea le ronzava nella testa
da
un'eternità, ma era stato solo dopo la partenza di Helena che aveva
preso la
decisione di darsi davvero da fare. Dopo la notte in cui i terribili
incubi
avevano incominciato a farle visita, non aveva più potuto dedicarsi ad
altro
senza sentire i sensi di colpa dello star trascurando quella faccenda.
Scrisse
le ultime annotazioni al fondo della trattazione:
non sapeva se, quando o chi avrebbe mai usato quei risultati, perciò
aveva
spiegato a fondo l'argomento. Avrebbe potuto vincere molti premi
scientifici
con un saggio di quella portata così approfondito, ma il mondo non
sapeva e non
avrebbe mai dovuto sapere che quegli studi erano stati fatti e
soprattutto i risultati
ottenuti. Mise l'ultimo foglio nella cartellina del progetto, che aveva
chiamato Quis custodiet ipsos custodes? e
poi lo ripose in cassaforte.
The Magic Corner:
Buonasera
mondo e
grazie a tutt* voi per essere qui!
Dopo
aver riletto
per l'ennesima volta questo capitolo, mi sono finalmente convinta a
pubblicarlo
(no, non mi convince per nulla, se ve lo steste chiedendo) e quindi
eccomi qui!
Prima
di lanciarmi
nei ringraziamenti e nelle comunicazioni di servizio, volevo solo
rendervi partecipi di un fatti riguardanti la storia:
Numero
uno, permettetemi di bearmi di
Loki che si autocita in questo capitolo con quel suo "No, grazie a
te" direttamente da Thor: The Dark World. *momento di autocelebrazione
off*
Numero
due, la scena con due persone dai due lati di una porta non credo abbia
bisogno di essere segnalata come citazione, visto il numero di volte
che è stata usata. Nello specifico, la mia è stata ispirata da
un'immagine trovata su Internet (in realtà era Stucky, ma questi sono
dettagli).
Numero
tre, Quis custodiet
ipsos custodes? (Chi custodirà i custodi?) è una frase che
è stata scritta originariamente dal buon Giovenale nelle sue Satire.
Nel mondo dei fumetti è particolarmente famosa in quanto ricorrente
nella mini-serie della DC "Watchmen" (che, guarda caso, è la traduzione
di custodes), che da anni mi propongo di leggere. In molti hanno
riconosciuto lo stesso concetto anche alla base dell'Atto di
registrazione che fa scatenare tutto il casino di Civil War. Tenetela a
mente, gente, ci servirà più avanti :)
Numero
quattro, ho questa head-canon di Bucky che guarda Steve disegnare,
prima o poi ci scriverò una one-shot. Così, per dirvelo.
Passiamo
ai
ringraziamenti… Ovviamente ringrazio GreekComedy e wild_spirit per le
loro
fantastiche recensioni e anche Pouring_Rain11 per la sua opera di
stalking nei
confronti miei e della storia :D
Grazie
a quelle 10
persone che hanno messo la storia tra le seguite e 5 che l'hanno messa
tra le
preferite. Vi voglio bene <3
Comunicazioni
di
servizio: ci siamo quasi. La prima parte ha le settimane contate.
Rimangono due
capitoli e poi arriveremo dritti dritti nella seconda parte. Il primo
di questi
due sarà dedicato a Thor e Bruce, che hanno avuto pochissimo spazio
ultimamente,
poverini. In quello dopo ancora si parlerà di Tony, ma ci sarà un attimo
dedicato a tutti, in quanto capitolo conclusivo della prima parte.
Quando
vedranno la
luce questi capitoli? Ecco, questo è il problema. Tra una settimana
esatta
parto per le vacanze e non potrò pubblicare, quindi spero con tutte le
mie
forze di riuscire a terminare il capitolo su Thor e Bruce prima di
quella data.
Per l'altro capitolo, invece, non ci sono speranze. Se ne parla dopo la
prima
settimana di agosto.
Una
volta conclusa
la prima parte, penso che prenderò una pausa. So già cosa voglio fare
nei primi
capitoli della seconda parte, ma voglio scriverne almeno un paio prima
di
riprendere a pubblicare perché non voglio che succeda come
prima, con mesi e mesi senza aggiornare. Inoltre ho
un'altra long in sospeso che mi distrae da questa e vorrei concluderla
per
potermi dedicare solamente a questa.
Diciamo
che, tra
vacanze e tutto, dovrei ricominciare a pubblicare verso metà settembre.
So che
è molto e cercherò di abbreviare i tempi, ma preferisco farvi aspettare
una
volta conclusa una parte e poi andare spedita per vari mesi, piuttosto
che il contrario.
Che
altro dire?
Lasciatemi una recensione o mandatemi un MP per dirmi che ve ne pare
del
capitolo, se vi avanza ancora un po' di tempo dopo i miei sproloqui.
Credo di
avervi annoiati anche abbastanza, quindi mi dissolverò in aria fine
come un
personaggio di Shakespeare e ci sentiamo il prima possibile.
Che
gli dèi siano
con voi!
-Magic
|
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Capitolo 14 *** Adesso ***
Pubblicità
Progresso - Campagna No Profit
Ogni
giorno uno scrittore incapace si sveglia e sa che dovrà inseguire una
tastiera che fugge.
Ogni giorno una tastiera si sveglia e sa che dovrà correre più
veloce di uno scrittore incapace.
Che tu sia scrittore
o tastiera, comincia a correre.
Ma se sei un lettore
no! Puoi fermare questo scempio!
Scrivi
una recensione!
Non
restare indifferente, il destino delle tastiere dipende anche da te!
Adesso
Torna alla realtà,
dove il mondo ti sta guardando,
dove ci sono io per te.
Smetti di vivere nei ricordi
in quei momenti una volta felici,
che ora ti fanno soltanto male.
È qui che abbiamo bisogno di te,
per affrontare le minacce
di ogni maledetto giorno.
Torna alla realtà,
smetti di vivere nei ricordi,
è qui che abbiamo bisogno di te
adesso.
Torniamo alla realtà,
dove io non sono nessuno,
nessuno di buono.
Smettiamo di sognare ad occhi aperti,
guardiamoci attorno,
accorgiamoci del mondo.
È qui che hanno bisogno di noi,
per salvare un mondo
che cerchiamo di cambiare.
Torniamo alla realtà,
smettiamo di sognare ad occhi aperti,
è qui che hanno bisogno di noi,
adesso.
«Thor»
disse Natalie chiudendo lo sportello del
frigorifero «dovresti mangiare qualcosa»
«Ho
mangiato» rispose il dio senza alzare lo
sguardo dal tavolo.
«No
che non hai mangiato. Il frigo è esattamente
identico a quando sono venuta qui l’ultima volta e la spazzatura è
vuota»
«Sono
stato al ristorante»
«Non
è vero»
Thor
alzò lo sguardo su di lei. Sembrava stupito
che lei lo avesse contraddetto con quella tranquillità, o forse ne era
infastidito, Natalie non riusciva a definirlo con precisione.
«Come
lo sai?» non era la prima volta che Natalie
si accorgeva quando Thor mentiva e l’asgardiano non poteva fare a meno
di
chiedersi come facesse.
«Lo
so e basta» rispose Natalie sorridendo «Che ne
dici se invece ci andiamo veramente? È un po’ troppo che non mangi
nulla»
«Non
ho fame»
«Trovo
questo fatto irrilevante. Ti sto invitando
a cena, Thor. Se vuoi rifiutare l’invito, dovrai farlo esplicitamente e
affrontarne le conseguenze»
Thor
era perplesso: «Conseguenze?»
«Potrei
offendermi e non parlarti mai più» Natalie
era terribilmente seria. Thor si spaventò: ormai contava su di lei, era
l’unica
cosa che gli impedisse di andare completamente a fondo e non poteva
pensare che
lei se ne andasse.
Si
alzò in piedi e le fece cenno verso la porta: «Dopo
di te»
«Due
menù cheeseburger completi» ordinò Natalie,
poi notò che Thor la guardava contrariato «Che cosa c’è? Non ti
piacciono i
cheeseburger? Sono ancora in tempo a cambiare l’ordinazione»
Thor
scosse la testa: «No, va bene così»
Ricevettero
ciò che avevano ordinato in poco
tempo: il locale era quasi vuoto. Natalie scelse velocemente un tavolo
e ci
portò Thor, che sembrava disorientato.
Natalie
stava per cominciare a mangiare, poi notò
che il dio fissava il proprio vassoio con indifferenza: «Guarda che se
aspetti
ancora un po’ si raffredda. Se non lo mangi caldo, non è un granché»
Thor
spostò di lato il vassoio con un’espressione
nauseata: «Io non ce la faccio, Natalie»
«Non
puoi continuare questo digiuno in eterno,
Thor» disse l’infermiera posando il proprio panino sul piatto e
fissandolo
negli occhi «Morire di fame non la riporterà indietro»
«E
mangiare, invece? Aiuterà in qualche modo?»
scattò l’asgardiano.
«Ascolta,
tu ti sei fidato di quello che ho detto
dalla prima volta che mi hai vista. Perché lo hai fatto?»
«Perché
avevi uno sguardo che… Ho pensato che
potessi capirmi. Ma ora non ne sono più tanto sicuro»
«Thor,
soltanto perché sto cercando di convincerti
a mangiare non vuol dire che non io capisca cosa ti è successo e cosa
stai
passando, d’accordo? È solo che non riesco a sopportare di vederti in
questo
modo»
«Allora
non guardare»
Natalie
lo fissò per qualche attimo, ferita da
quella risposta, poi abbassò lo sguardo. Thor si alzò in piedi e fece
per andarsene.
Non sapeva dove volesse andare. Sapeva soltanto che voleva non rivedere
più
quella donna che si comportava come se capisse qualcosa che era anni
luce fuori
dalla sua portata. Fece qualche passo verso la porta, ma fu fermato
dalla voce
di Natalie. Non sembrava neanche che parlasse con lui, ma non c’era
nessun
altro a cui potesse rivolgersi.
«Si
chiamava Colin. Sono passati cinque anni, ma
ogni volta che ci penso le ferite sanguinano come se fossi appena
tornata a
casa dall’ospedale. Sono rimasta incinta a diciassette anni. Non è
stato
esattamente volontario. Quello stronzo di suo padre mi ha lasciata non
appena
ha saputo del bambino, ma la mia famiglia mi è rimasta vicina e io ho
deciso di
tenerlo.
Quando
compì diciotto anni, facemmo tutti una
colletta e gli regalammo una motocicletta per il suo compleanno. Ne era
entusiasta. Lui e la sua ragazza ci facevano dei giri incredibili, ma
non mi
sono mai preoccupata troppo. Era un ragazzo responsabile e sapevo che
non
avrebbe fatto follie. Non beveva mai quando doveva guidare, neanche una
birra,
nulla. Certo, restavo sveglia finché non lo sentivo rientrare, per
quanto tardi
facesse, ma quale madre non lo fa?
Passarono
alcuni mesi, fu un bel periodo. Finché
non arrivò la telefonata. Ovviamente ero sveglia, aspettavo che lui
tornasse a
casa dopo una serata con gli amici. Un pazzo ubriaco in macchina aveva
praticamente schiacciato la sua moto tra la propria carrozzeria e il
guard
rail. La sua ragazza è morta sul colpo, lui qualche ora dopo in
ospedale, con
il nome di lei sulle labbra.
Hai
mai perso un figlio? Hai mai avuto un figlio?
Hai mai stretto tra le braccia qualcosa che era stato una parte di te,
giurando
a te stesso che saresti andato contro tutto il mondo pur di
proteggerlo? E
quando te lo portano via senza chiederti nulla, senza darti una
spiegazione,
senza qualcuno da accusare, tu lo conosci quel dolore? Se ti
strappassero tutte
le membra una per volta ti farebbe meno male.
E
una volta tornata a casa, entrare in camera sua
per ritrovare il suo zaino, le sue cose, la vostra foto insieme che
tieni sul
comodino, come credi che sia stato? Io vivevo per lui, avevo studiato
per
diventare infermiera mentre lui era piccolo perché volevo aiutare gli
altri, ma
la cosa più bella della giornata era tornare a casa, dal mio bambino.
Sono
passati cinque anni, ma non potrò mai
dimenticare. Ho pensato di mollare tutto, di smettere di mangiare o di
prendere
abbastanza pasticche da non svegliarmi più e poterlo ritrovare. Ma io
sono un’infermiera,
Thor, il mio lavoro è aiutare la gente. Non potevo e non posso andare
via in
questo modo. Forse non capirò che cosa senti tu ora, sei libero di
crederlo, ma
posso dirti che non puoi semplicemente andartene da questo locale e
credere di
esserti liberato di tutte le responsabilità. Torna alla realtà e smetti
di
vivere nei ricordi, perché è qui che abbiamo bisogno di te adesso. Ho
finito il
mio sermone. Fai come credi, adesso, ma almeno io saprò di aver detto
quello
che potevo per farti restare»
Natalie
alzò gli occhi su di lui. Thor vide dipinte
in quegli occhi la sofferenza, la nostalgia, la disperazione. Tutti
quei
sentimenti che aveva creduto lei non potesse comprendere. Tornò verso
il tavolo
a passi lenti, quasi avesse paura, muovendosi troppo velocemente, di
rompere
una qualche magia. Si sedette e vide un timido sorriso nascere sul
volto della
donna che aveva di fronte, sconfiggendo tutti quei sentimenti negativi.
Si
sentì orgoglioso di aver ottenuto quel risultato.
«Hai
fame?» domandò Natalie in un sussurro. Thor interrogò
se stesso e si accorse che in effetti aveva davvero fame. Annuì.
«I
cheeseburger saranno freddi» disse ancora
Natalie, mentre il suo sorriso diveniva sempre più ampio «Ne ordino
altri»
Thor
mise una mano sulla sua mentre lei si alzava:
«Andiamo insieme»
«D’accordo»
Mangiarono
in silenzio e poi Natalie portò Thor al
supermercato. Fece per lui un po’ di spesa e lo riaccompagnò a casa. Fu
solo
sulla strada verso casa che l’asgardiano si azzardò a rompere il
silenzio.
Parlarono di argomenti di tutti i giorni, di cui non importava nulla a
nessuno
dei due, ma fece loro bene. Sapeva di normalità.
«Dovresti
tornare dai tuoi colleghi» buttò lì
Natalie, appena finito di riporre in frigo la spesa «Ti farebbe bene»
«Probabile»
concordò Thor.
«Bene»
disse Natalie, mostrando un briciolo di imbarazzo
«Allora io… Magari vado. Buona serata e chiamami se hai bisogno»
«Certo»
sorrise lui. Natalie annuì e si voltò per
andar via, ma poi Thor la chiamò ancora una volta.
«Cosa?»
«Grazie»
Natalie
non disse nulla, sorrise e andò via.
«Non
è possibile!» sbottò Bruce. Si fermò e fece
un respiro profondo cercando di calmarsi, ma l’irritazione di fondo
rimase. Rilesse
per la cinquantesima volta i calcoli che aveva fatto, tentando
disperatamente
di trovare un errore, ma gli sembrò tutto corretto.
«Tony»
disse allora «Puoi ricontrollare tu? Ci dev’essere
per forza che non va, altrimenti funzionerebbe tutto»
Tony
prese il quaderno dalle sue mani e controllò
le cinque pagine di calcoli. Prese una calcolatrice e rifece alcuni
calcoli,
seguì con la punta di una matita tutti passaggi e infine disse
sospirando che
gli sembrava tutto a posto.
«Hai
considerato il teorema di Ehrenfest? È l’unica
cosa che mi venga in mente» aggiunse.
Bruce
sfogliò il quaderno fino a trovare il punto
che gli serviva: «Sì, vedi, l’ho incluso qui»
«Allora
non lo so»
A
Tony costava moltissimo quell’ammissione, Bruce
ne era consapevole. Si lasciò cadere pesantemente su una delle sedie
del
laboratorio. Erano settimane che lavoravano a quel progetto. All’inizio
sembrava che tutto andasse per il meglio: il materiale rispondeva ai
test
esattamente come previsto dai loro calcoli e avevano ottime aspettative
per gli
sviluppi futuri. Poi, all’improvviso, qualcosa era andato storto. Le
reazioni
avevano smesso di assecondare le previsioni e tutti i loro calcoli
sembravano
completamente sbagliati.
«Non
lo so, Tony, forse dovremmo lasciar perdere»
disse Bruce «Forse questo progetto è troppo ambizioso. Forse ci sono
troppe
cose che ancora non sappiamo per poter semplicemente calcolare che cosa
succederà. E oltretutto non ho mai neanche pensato a come controllare
questa
energia una volta che l’avremo creata. Potrebbe diventare incontenibile»
Tony
aveva temuto fin da subito che sarebbe finita
così, ma da un certo punto di vista gli dava fastidio desistere proprio
quando
aveva pensato che avrebbero potuto farcela. Il suo orgoglio ne usciva
un po’
ferito.
«Prendiamoci
un attimo di pausa» propose «Magari
abbiamo solo bisogno di smettere di pensarci per un po’»
Bruce
annuì e uscì a prendere una boccata d’aria.
Tony decise di lasciarlo in pace e rimase nel laboratorio a discutere
con
F.R.I.D.A.Y. di affari della Stark Industries.
Bruce
cominciò a camminare e lasciò che i suoi
piedi lo portassero dove volevano, vagando senza meta. Nonostante il
consiglio
dato da Tony, non riusciva a smettere di pensare a quei calcoli e a
cosa aveva
sbagliato.
Sapeva
che diversi scienziati avevano già provato
a inventare qualcosa di simile, senza risultati soddisfacenti, ma
pensava che
con l’aiuto di Tony avrebbe potuto farcela. Aveva fatto i propri
calcoli,
cercato i materiali migliori per costruire un prototipo, considerato
tutte le possibili
implicazioni della meccanica quantistica e classica, ma non era
riuscito a
costruire nemmeno l’ombra di ciò che cercava: il teletrasporto.
Non
era un progetto da niente, lo sapeva
perfettamente, ma era altrettanto cosciente che se fosse riuscito nel
proprio
intento avrebbe finalmente lasciato la propria impronta nel mondo senza
dover
diventare un mostro verde. Erano anni che lo sognava. Tutti avrebbero
detto di
lui “il dottor Banner, colui che cambiò completamente il nostro modo di
vivere”.
Avrebbe smesso di essere soltanto “Hulk spacca”.
Sarebbe
stata la svolta del secolo, se l’era già
immaginato: il Novecento aveva visto la nascita del computer, il
Duemila
avrebbe visto quella del teletrasporto. Era letteralmente l’idea del
secolo e
nella sua mente poteva riuscirci. Sapeva che un congegno del genere
avrebbe
avuto bisogno di moduli di contenimento, perché l’energia utilizzata
avrebbe
potuto facilmente sfuggire al macchinario. Il potenziale necessario era
talmente alto che avrebbe potuto radere al suolo delle intere nazioni
se non
fosse stato imbrigliato correttamente, ma pensava che con l’aiuto di
Tony
avrebbe potuto farcela.
Invece
si erano rivelate speranze totalmente
campate in aria. Il sogno di un folle, di un fallito. Come con il siero
del
supersoldato. Come sempre. Come aveva potuto pensare di poter
realizzare
qualcosa di buono? Come aveva potuto sognare di poter diventare
qualcosa di
diverso da un mostro verde buono solo a distruggere? Come aveva potuto
credere
a quei sogni ad occhi aperti? Li vide dissolversi davanti ai suoi occhi
come
neve al sole. Fece un sospiro. Era ora di finirla con quelle
farneticazioni.
Tornò
verso l’Avengers Facility a passi
lenti,
appesantito dalla decisione che aveva preso. Cominciò a vagare per le
stanze
della struttura pensando che prima o poi avrebbe incontrato Tony. Così
fu:
quasi si scontrarono perché erano entrambi distratti.
«Allora,
ti è venuto in mente qualcosa?» domandò
il miliardario in tono incoraggiante vedendo lo sguardo determinato che
aveva
Bruce.
«No.
Cioè sì, finiamola con questa storia, Tony»
odiava se stesso per ciò che stava dicendo, ma non c’era altro da fare
«Mettiamo
via tutto, quaderni, progetti e calcoli sbagliati. Tu hai sicuramente
di meglio
da fare e io troverò qualcosa»
«Ma
Bruce» Tony non voleva crederci «Siamo così
vicini. Possiamo farcela. Pensa a cosa succederebbe se ci riuscissimo:
tutto il
mondo che cambia per una singola invenzione, per il lavoro di due
persone. Non
possiamo mollare ora»
«Ci
ho pensato. Se avessimo potuto farcela ce l’avremmo
già fatta. So che ti stai dedicando ad altre ricerche. Certamente avrai
più
successo di noi. Torniamo alla realtà e smettiamo di sognare ad occhi
aperti,
perché è qui che hanno bisogno di noi adesso»
«Io
non credo che…»
«Ti
prego, Tony» la voce di Bruce tremò appena «Non
rendere le cose più complicate di quanto già non siano. Ti assicuro che
non ce
n’è assolutamente bisogno»
Tony
sospirò, scosse la testa e fece per andar via,
ma si fermò dopo pochi passi e si voltò verso l’amico.
«Bruce?»
«Sì?»
«Un
giorno ce la faremo. E quel giorno
riconoscerai che avevo avuto ragione a crederci»
«Se
ci riuscissimo davvero, lo farei volentieri»
sorrise Bruce.
The Magic Corner:
Buonaseeeera
a tutt*!
Eccomi qui con un capitolo scritto tutto di getto oggi pomeriggio e
ricontrollato pochissimo (segnalate eventuali typos e scusate -.-''),
che però avevo bisogno di pubblicare as soon as possible
perché, come già detto, tra pochissimo parto.
Ed ecco la parte prima che si avvia alla sua devastante fine! Sì, ho
detto devastante, avete capito bene. Preparatevi perché avrò molto
tempo per scrivere questo capitolo e questo potrebbe rivelarsi molto
pericoloso per la mia (e la vostra) stabilità mentale.
Parliamo di
questo capitolo... Thor depresso ha quasi ucciso me mentre lo scrivevo
e meno male che c'è Natalie. Tra l'altro, volevo informarvi che la
nostra infermiera è nata come comparsa che diceva un paio di battute e
poi si è trasformata in questa specie di psicologa. Questo perché io ho
molto controllo sui miei personaggi e non mi affeziono per nulla ai
secondari, per
nulla. Ah, avvertimento generale. Non ho intenzione di
shippare Thor e Natalie. No. Liberissimi di pensare che starebbero bene
insieme (se lo pensate), ma io non sono d'accordo, quindi rimarranno
bros. Punto. (*e fu così che si scoprì che nessuno li voleva shippare
ed era solo lei che si faceva tanti problemi per nulla*)
Veniamo a Bruce, che -piccolo- mi fa sempre un sacco di tristezza
perché è uno sfigato totale. Era l'ultimo che mi mancava da deprimere
malamente di tutti gli Avengers del primo film e ho dovuto farlo, ma
non volevo. Il poverino ha perso tutto (compresa la fidanzata) senza il
mio intervento, non potevo proprio accanirmi! Ho cercato di andarci
leggera, infatti, ma temo di aver fallito. Beh, meglio di quello che è
successo a Tony!
Il teletrasporto è un'idea che secondo me frulla nella testa degli
ScienceBros da un po' e mi sembra che il Bruce Banner dei fumetti abbia
un teletrasporto come dotazione, perciò ho unito le due cose! L'idea
qui non è andata a buon fine, ma non dimenticatela totalmente perché ho
in mente un seguito che... vabbè facciamo che prima finisco questo!
Giusto per farvelo sapere, il teorema di Ehrenfest esiste veramente e
fa parte della meccanica quantistica-classica, ma non so esattamente di
cosa tratti perché non ho ancora mai studiato fisica.
Ringrazierei prima di tutto Pouring_Rain11 per la sua recensione allo
scorso capitolo, le dieci persone che hanno messo la storia tra le
seguite e le cinque che l'hanno messa tra le preferite, tutti voi che
mi leggete con santa pazienza per seguire le mie trame incasinate,
marvel.wiki perché senza quel sito sarei morta, il mitico hargil (AKA
il mio consulente Marvel) e mia sorella, che sopportano i miei dubbi
esistenziali e infine GreekComedy perché piange dalla gioia quando
aggiorno :D
Del prossimo capitolo ho già detto qualcosina. Potrebbe capirsi
qualcosa di più su K, ma non ne sono sicura perché ho scritto solo
l'inizio. Sicuramente vedremo tutti gli Avengers all'opera in una
missione di vendetta (beh, dopotutto sono Vendicatori), ma... no, non
vi anticipo troppo! Vi do appuntamento ad agosto (anche se continuerò a
recensire e rispondere alle recensioni) e vi invito a farmi sapere che
cosa ve ne pare del capitolo con una recensione o un MP :)
Che gli dèi siano con voi!
-Magic
|
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Capitolo 15 *** Gli uomini incuranti ***
Gli uomini incuranti
Avvertenze,
leggere e conservare:
Questo capitolo contiene distruzione di broship, un alto numero di
morti e i Vendicatori che tendono pericolosamente all'OOC.
Si
avverte il lettore che leggendo il testo afferma di aver preso visione
dell'avvertenza e di accettare le possibili conseguenze.
Maneggiare con cura. Tenere lontano dalla portata dei bambini.
Gli
uomini incuranti
Noi siamo gli uomini incuranti
Noi siamo i randagi
Che si appoggiano l'uno all'altro,
La testa piena di menzogne. Ahimè!
Le nostre voci fredde, quando
Elaboriamo piani distorti
Sono sommesse e senza senso
Come scossa elettrica nell’acqua
O come zampe di ragno sopra pelle straziata
Nel nostro minaccioso sotterraneo
Potere senza ideali, vittoria senza vincitori,
Bandiera priva di colore, forza priva di scopo;
Coloro che non sono partiti
Con occhi serrati, verso l'altro Regno della morte
Ci ricordano - se pure lo fanno - non come anime
Coraggiose e altruiste, ma solo
Come gli uomini incuranti
I randagi.
«Clint?»
la voce di Natasha era impastata dal
sonno e la sua proprietaria non capiva perché lui le avesse
improvvisamente
afferrato la spalla. Voltandosi verso il suo compagno, si accorse che
stava
ancora dormendo. Aveva gli occhi serrati così forte che la pelle delle
sue
guance era tirata sulle ossa. Vedendolo così, Natasha si svegliò
completamente.
Clint stava avendo un incubo e doveva svegliarlo il prima possibile.
Chissà
cosa gli stava succedendo in sogno, chissà quanto dolore stava provando.
«Clint!»
cominciò a chiamarlo, scuotendolo per un
braccio, mentre la sua voce assumeva sempre più una sfumatura di
urgenza
«Clint, svegliati. Ti prego, svegliati»
La
stretta sulla sua spalla si faceva sempre più forte,
mentre il respiro del suo compagno continuava ad accelerare, ma Natasha
non se
ne accorse neanche. L’unica cosa che le importasse in quel momento era
di
liberare Clint dalla sua sofferenza. Gli passò le mani sul volto,
cercando di
dargli un po’ di sollievo, ma sapeva che non sarebbe servito a nulla
fintanto
che non fosse riuscita a svegliarlo.
«Clint!»
Clint
spalancò gli occhi nel buio della stanza, il
fiato grosso come se avesse appena fatto la corsa più lunga della sua
vita. All’inizio
non capiva nulla, poi si accorse di essere sdraiato nel proprio letto e
di star
fissando il soffitto. Iniziò a rilassarsi mentre ricordava quanto tutto
ciò che
lo circondava fosse familiare e significasse casa e sicurezza. Solo
dopo
qualche minuto si accorse che Natasha, accanto a lui, era sveglia e
aveva una
mano posata sul suo viso. Fu allora che realizzò di star stringendo
qualcosa.
Allentò poco per volta la presa, mentre capiva che era la spalla di
Natasha.
«Grazie»
disse sottovoce la sua compagna.
«Scusami»
«Non
scusarti, stai bene?»
Prima
di risponderle, Clint pose quella stessa
domanda a se stesso. Stava bene? Sentiva dolore da qualche parte?
Esaminò
attentamente il proprio corpo, poi la propria mente. Natasha attese con
pazienza la sua risposta.
«Sì,
credo… credo proprio di sì»
«Vuoi
parlarne?»
Voleva
parlarne? Parlare di cosa, poi? Di ciò che
aveva sognato?
Scosse
la testa: «Non mi ricordo nulla»
«No?»
«No»
non sapeva se rallegrarsene. In fondo, forse
era meglio non sapere cosa avesse sognato «anche se ho la sensazione
che stia
per succedere qualcosa di importante. A tutti noi»
«A
causa del sogno?»
«No.
O forse sì. Non ne sono certo, ho soltanto
questa sensazione. È diversi giorni che va avanti, ma ora ne sono
proprio
certo. Tu non senti niente? Come una tensione nell’aria che deve
risolversi
prima o poi»
Natasha
ci pensò per un po’: «In effetti, ora che
mi ci fai pensare credo di sì. È come se stessimo tutti aspettando
qualcosa
senza sapere veramente di cosa si tratti. Speriamo che si affretti a
succedere,
allora»
«Non
lo so, potrebbe non essere del tutto
positivo»
«Allora
prima succederà e prima ci saremo tolti il
problema» Natasha si sforzava di essere ottimista perché si era accorta
che
l’umore di Clint era nerissimo.
«Sempre
che sia un problema che possiamo toglierci»
considerò cupamente lui.
«Cosa
c’è?» Natasha non poté trattenersi dal
chiederlo «Perché ti comporti così?»
«Non
lo so, scusami» anche Clint si rendeva conto
di star ragionando con estremo pessimismo «Quest’incubo mi ha lasciato
l’amaro
in bocca. Vorrei proprio sapere di cosa si trattava»
«Forse
è meglio di no»
Clint
sfiorò con la punta delle dita il punto
della spalla di Natasha che aveva stretto con più forza: «No, hai
ragione»
«Proviamo
a riaddormentarci?» propose lei.
«D’accordo»
Natasha
si voltò sul fianco sinistro, dando le
spalle a Clint. Lui la abbracciò da dietro e chiuse gli occhi. Al
contrario di quanto
aveva pensato, si addormentò immediatamente. Era stato davvero un bene
non
ricordarsi cosa aveva sognato.
Furono
invece gli occhi verdi di Natasha a
rimanere aperti ancora per molto. La donna era preoccupata. Preoccupata
per
quei sogni di Clint che ormai si presentavano nei momenti più
inaspettati. Non
poteva trattarsi di stress: erano più di due settimane che non facevano
nulla.
Forse era l’inattività. No, non poteva essere neanche quello, perché
era
cominciato ben prima che le missioni si fermassero.
Ma
non era solo il suo compagno a dare pensieri a
Natasha. Era preoccupata per Tony. Dalla morte di Pepper era cambiato
moltissimo. Aveva qualcosa di più feroce, meno controllato, che si
manifestava
in tutto, ma raggiungeva il proprio apice quando entrava in
laboratorio. Quando
lavorava a un progetto, che fosse quello di Bruce o un altro, sembrava
che non
ci fosse nient’altro di importante al mondo. Non mangiava. Non parlava
con
nessuno. Diverse volte l’avevano trovato addormentato sui propri
calcoli,
mentre F.R.I.D.A.Y. cercava invano di svegliarlo. Sam e Rhodey avevano
dovuto
portarlo a braccia in camera sua in almeno tre occasioni. Natasha non
voleva
neanche immaginare come sarebbe diventato in missione.
Poi
c’era Steve. Nat sentiva che il suo migliore
amico aveva bisogno di parlare con qualcuno di ciò che era successo con
Sharon.
Non aveva voluto chiedergli nulla perché si era detta che sarebbe
andato lui da
lei una volta che fosse stato dell’umore giusto. Forse quel momento non
era
ancora arrivato. Il fatto era che passavano i giorni e Steve non era
ancora
andato da lei per sfogarsi. Né da nessun altro. A Natasha dava sempre
più
l’impressione che si stesse trattenendo con il mondo, come se non
avesse voluto
lasciarsi andare con nessuno.
Anche
Thor era diverso. Non era solo il suo
umorismo che era scomparso proprio come quello di Tony, sembrava che
l’asgardiano fosse sempre da un’altra parte anche le poche volte che si
trovava
davvero all’Avengers Facility. Forse pensava a Jane, forse aveva perso
il suo
riferimento sulla Terra e desiderava tornare ad Asgard, Natasha non lo
conosceva abbastanza bene da poterlo dire. Tutto ciò che sapeva era che
il
gigante biondo non rideva più e da quando Jane era morta non gli aveva
sentito
dire più di dieci parole di fila.
Clint
aveva ragione: c’era nell’aria una forte
tensione, ma forse non si trattava di qualcosa che stava per succedere,
bensì
di tutto ciò che era già successo. Se esisteva un Dio, doveva essere
davvero
adirato con gli Avengers, si disse Natasha. Sperava che ci fosse
veramente
qualcosa che stava per capitare, perché la squadra ne aveva un bisogno
matto.
Il
dio del tuono percorse con lo sguardo la
costruzione che si stagliava davanti a lui. La nuova base degli
Avengers era
certamente meno imponente di quella vecchia, principalmente perché non
si
sviluppava in altezza, ma si estendeva in larghezza. La nuova Avengers
Facility
era di certo più attrezzata ad accogliere la squadra, ma Thor avrebbe
preferito
mille volte l’Avengers Tower, dove aveva vissuto e si era allenato con
i suoi
compagni tanto da riuscire a sentirsi a casa.
Era
già stato là dopo la morte di Jane, ma era
stato come non andarci proprio: non riusciva a interessarsi delle
vicende
quotidiane, quando il pensiero di lei occupava tutta la sua mente. In
un certo
senso, gli sembrava di mancare alla sua squadra da parecchio tempo.
Pensando
di tornare da loro dopo quella lunga
assenza, gli nacque un sorriso sulle labbra: i suoi compagni gli erano
mancati
molto in quei giorni. Si ricordò, però, che l’atmosfera che avrebbe
trovato non
era la stessa che persisteva nei suoi ricordi. Tony aveva sicuramente
sofferto la
perdita di Pepper quanto lui aveva sofferto quella di Jane. Ricordava
anche che
qualcuno, forse Visione, gli aveva comunicato che buona parte del team
aveva il
morale a terra.
Non
che Thor potesse dire di essere di ottimo
umore, a dire il vero, ma Natalie aveva ragione. Tornare dai suoi
compagni lo
avrebbe di certo aiutato a distrarsi e chissà che non riuscisse a
essere anche
lui un sostegno per loro.
«Benvenuto,
signor Odinson» lo salutò la voce di
F.R.I.D.A.Y. aprendogli la porta «Le apro la camera?»
«Sì»
rispose Thor, ricordando che aveva una camera
anche là, e si sentì rilassato per qualche attimo. Fu come se fosse
stato
tutto pronto per lui, come se il destino l’avesse voluto lì. Che
impressioni dà
il tornare in un posto dopo qualche tempo, si disse poi, scuotendo la
testa. Si
incamminò verso la propria stanza, lasciando che le sue gambe gli
insegnassero
di nuovo la strada e ringraziò l’intelligenza artificiale appena prima
di
entrare.
Era
ora. Il momento era arrivato. Dopo oltre due settimane di inattività,
gli
Avengers sarebbero dovuti tornare sul campo. Il Tony di qualche tempo
prima
avrebbe trovato degno di nota che la prima missione dei Vendicatori
dopo quella
pausa fosse una vendetta. Avrebbe detto ai propri compagni che avevano
l’occasione di rendere onore al proprio nome una volta per tutte. Ma
ormai non
gli importava più, era tutto uguale. Niente poteva veramente
interessarlo.
Una
parte di lui ancora rideva per qualche sagace battuta che gli veniva in
mente, la
stessa parte che avrebbe voluto far notare ai suoi compagni quel
divertente
gioco di parole sul nome. Ma ormai quella parte di lui se ne stava per
lo più
in silenzio sepolta sotto una coltre di indifferenza. Forse una volta
che
avesse ottenuto giustizia e vendicato la morte di Pepper avrebbe potuto
cominciare a ritrovare quel vecchio Tony, ma per il momento non ne era
in
grado. E non lo voleva neppure.
Chiese
a F.R.I.D.A.Y. di convocare tutti nella sala centrale per il briefing,
poi si
avvicinò al piccolo frigo-bar che era integrato nella sua camera. Aprì
l’anta e
passò in rassegna ciò che conteneva con lo sguardo, poi la richiuse con
un
sospiro. Proprio non gli andava di bere nulla.
A
Wanda piaceva allenarsi con Sam. Normalmente non
adorava le persone che facevano battute in continuazione, come Tony
prima che
succedesse tutto quanto, e alla lunga le davano fastidio. Con Sam,
però, si
trovava estremamente a proprio agio. Forse la differenza era che lui
non aveva
la pretesa di essere divertente, non cercava in tutti i modi di farla
ridere
ogni due secondi.
In
quel momento erano nel bel mezzo di uno degli
allenamenti che praticavano più spesso, sia perché era utile a entrambi
e sia
perché ancora non lo padroneggiavano benissimo. Wanda sollevava Sam con
i propri poteri il più in
alto possibile, mentre lui se ne stava raggomitolato su se stesso in
posizione
fetale. Al segnale, Wanda interrompeva il controllo telecinetico e Sam
cominciava a precipitare verso terra. L’allenamento
dell’ex-paracadutista
consisteva nel distendere le proprie ali in tempo per non schiantarsi
al suolo
e poi riprendere quota. Alcune volte Falcon non era abbastanza pronto e
allora
toccava a Scarlet impedire con uno scudo di energia che si facesse male
seriamente.
Sam
stava proprio planando con il torace a pochi
centimetri da terra quando nel suo ricevitore arrivò la convocazione di
F.R.I.D.A.Y. nella sala centrale.
«A
quanto pare Tony ha qualcosa da dirci» comunicò
a Wanda mentre atterrava al suo fianco «Ci troviamo nella sala centrale
appena
possibile. Vado a chiamare Steve»
La
giovane donna annuì e rispose che lei avrebbe
cercato Visione per avvertirlo. Da vero cavaliere, Sam le tenne la
porta:
«Signorina Maximoff»
«A
dopo, signor Wilson»
rise lei.
Era
bello vedere Wanda allegra, pensò Sam. Da
quello che aveva capito, tra lei e Visione era finalmente sbocciato ciò
che Sam
aveva sperato da parecchio tempo. E d’altronde, non vedeva proprio come
si
potesse non sperarlo, dopo averli visti insieme.
Forse
lei non se n’era accorta, ma da qualche
tempo era più solare. Non capitava più che si rabbuiasse
improvvisamente come
quando si ripensa a qualcosa di brutto. Succedeva piuttosto il
contrario:
rideva per le battute, ogni tanto ne azzardava timidamente qualcuna e a
volte
Sam la sorprendeva a sorridere senza un vero motivo. Ripensandoci,
però, gli
venne in mente che tutto ciò era cominciato dopo che lei e Visione
avevano
cominciato a frequentarsi di più. Chissà, forse si era trattato di
qualcos’altro.
Bruce
si trovava già nella sala centrale, quando
gli arrivò la convocazione. Gli piaceva la quiete che riempiva quella
stanza
così grande quando era vuota, quando le voci degli Avengers sembravano
distanti
anni luce.
A
volte si chiedeva che cosa ci facesse insieme a
quegli altri. Loro erano dei supereroi, facevano del bene, salvavano la
gente,
potevano comparire nei telegiornali senza spaventare i bambini. Lui non
era un
supereroe, era soltanto un superpericolo. Certo, gli faceva piacere
sapere che i
suoi amici si fidavano di lui tanto da includerlo nella squadra, ma a
volte
avrebbe tanto voluto liberarsi dell’Altro. Si trattava soltanto della
curiosità
di come si sarebbero comportati gli altri con lui se fosse stato
soltanto Bruce
Banner e non anche l’alter ego di Hulk.
Ormai,
però, se n’era fatto una ragione: non
sarebbe mai riuscito a separarsi dall’Altro se non uccidendo entrambi.
Sarebbe
stata comunque una valida alternativa, ma aveva ormai provato in tutti
i modi,
fallendo. L’Altro sembrava immortale e lui non poteva morire finché
Hulk
sopravviveva. Uccidersi era impossibile quanto inventare il
teletrasporto.
Voltò
la pagina del proprio quaderno su cui aveva
rifatto per la centesima volta i calcoli per quell’invenzione. Aveva
detto a
Tony che avrebbe lasciato perdere, ma non ce l’aveva fatta. Aveva
continuato a
tentare, con l’ostinazione di un bambino. Con l’ostinazione di Hulk, si
disse.
Doveva finirla con quella storia. Aveva bisogno di trovare un altro
fine per se
stesso. Chissà, forse Tony avrebbe potuto avere la risposta a quei suoi
problemi. Avrebbe potuto procurargli uno scopo.
Steve
si sentiva incredibilmente bene quando si
allenava da solo con il sacco. Ogni colpo che tirava gli faceva tornare
in
mente quel giorno in cui Fury gli aveva proposto di entrare a far parte
degli
Avengers. Mille volte si era detto che era stata la scelta peggiore
della sua
vita. Milleuno volte si era contraddetto. Era quello il suo scopo, si
diceva,
essere l’eroe di cui l’America aveva bisogno, essere il sogno che
l’America
aveva bisogno di sognare.
Era
anche per quello che aveva rifiutato l’offerta
di Wanda e Sam di allenarsi con loro. Ma soprattutto perché aveva
bisogno di
pensare. Ma non doveva pensare a Sharon. Non doveva ricordarsi di
quello
sguardo triste con cui l’aveva lasciato. Non doveva ripensare alle
parole che
aveva pronunciato quella sera, cercando di trovarne di migliori per
convincerla
che… Non doveva pensare a Sharon, maledizione!
Si
fermò per un attimo, annaspando come qualcuno
sul punto di annegare. Doveva parlare con qualcuno di tutto ciò che gli
stava
succedendo. Gli tornarono in mente tutte le occhiate che Natasha gli
aveva
lanciato in quei giorni. Sapeva che lei si stava trattenendo dal
chiedergli di
aprirsi. Sapeva che avrebbe dovuto chiederle di andare a bere qualcosa
insieme
e raccontarle tutto ciò che sentiva. Aveva bisogno di condividere quei
pesi con
qualcuno e sapeva che Natasha era la persona giusta, eppure esitava.
A
se stesso diceva che non voleva caricare la sua
migliore amica con più problemi di quanti già ne avesse. Aveva visto le
sue
occhiaie. Aveva visto che Clint aveva qualcosa che non andava e lei
naturalmente se ne preoccupava. Era normale. A se stesso ripeteva che
non aveva
il diritto di scaricare tutto su di lei.
Ma
in realtà sapeva che semplicemente non aveva
voglia di parlarne con nessuno, neanche con Natasha. Non gli andava
proprio di
scavare dentro di sé abbastanza a fondo da trovare parole con cui
spiegare cosa
gli stava succedendo. Eppure avrebbe dovuto farlo prima o poi, si
disse, e
meglio prima che poi. Meglio con Natasha che con chiunque altro.
Fu
quasi grato a Sam, che comparve alla porta per
distoglierlo dai suoi turbinosi pensieri e comunicargli che Tony li
aveva
convocati nella sala centrale. Finalmente un po’ di distrazione. No,
non
avrebbe dovuto considerare le missioni come distrazioni, non era da
lui. Era
una cosa seria, c’erano sicuramente delle persone in pericolo. Ma non
poteva
impedirsi di ringraziare per quella possibilità di staccare.
«Mi
cercavi?» domandò Visione, passando attraverso
uno dei muri e comparendo di fronte a Wanda.
«Più
che altro ti aspettavo» rispose lei con un
sorriso «Immaginavo che non ci avresti messo molto a trovarmi. Suppongo
che tu
abbia sentito la convocazione di Stark»
«Ecco
perché sono qui. Ma tu vuoi dirmi qualcosa,
sbaglio?»
«No»
Wanda aveva smesso di chiedersi come facesse
Visione a sapere sempre in anticipo quando lei doveva parlargli di
qualcosa.
Aveva semplicemente accettato il fatto così com’era «Non sbagli»
«Puoi
parlarmene mentre andiamo?»
«Certo.
Non è che ci sia molto da dire. Volevo
solo farti sapere che Pietro è vivo»
«Davvero?»
la gioia manifestata da Visione era
incredibile, ma Wanda era certa che fosse spontanea. Sorrise davanti
alla sua
reazione e annuì.
«Ne
sei certa? Come lo sai?»
«L’ho
visto con i miei occhi. Un pomeriggio ero lì
che leggevo e pensavo a lui. Mi sono concentrata moltissimo, volevo
sapere se
fossi capace di vederlo. Invece ho avuto una visione di un sogno.
Eravamo nella
casa di quando eravamo piccoli. Io leggevo quello stesso libro e a un
certo
punto è entrato nella stanza. Ci siamo parlati, ci siamo abbracciati.
Credo che
lui stesse sognando. È stato così bello vederlo vivo. Mi ha detto che
ancora
non è guarito e non riesce praticamente a muoversi, ma è vivo. Vivo!»
Visione
non disse nulla e continuò a sorridere,
mentre pensava a quanto era felice di vedere il volto di Wanda
illuminato da
quella letizia.
«Ancora!»
chiese Clint ansimante, rimettendosi in
posizione di attesa.
«Non
hai già preso abbastanza scosse, Samurai?» lo
prese in giro Natasha.
«E
tu non sei già sufficientemente tagliuzzata?» rispose
con un sorriso il suo partner.
Natasha
gli lanciò uno sguardo che voleva dire “E
così vuoi la guerra?” e si lanciò contro di lui. Il ritmo della lotta
era
serratissimo, nonostante i due combattessero con
stili
completamente diversi. La russa aveva in mano due
bastoni, che imitavano i suoi Pungiglioni. Ogni volta che riusciva a
trovare
una falla nella difesa di Clint, lo colpiva come avrebbe fatto con le
armi
reali e l’arciere imitava la reazione che avrebbe avuto se avesse
ricevuto una
vera scossa.
Da
parte sua, Clint impugnava una lama lunga e
sottile, ispirata nella progettazione a diverse armi orientali. La
maneggiava
con estrema disinvoltura, ma all’occorrenza la lasciava cadere per
estrarre un
corto pugnale o combattere a mani nude. Nessuna delle due lame era
affilata, ma
Natasha simulava di aver ricevuto i tagli ogni volta che lui riusciva a
colpirla.
Dopo
diversi minuti di combattimento, Natasha
riuscì ad afferrare il braccio di Clint che impugnava la spada e a
torcerglielo
finché lui non la lasciò cadere. Clint utilizzò la forza dell’altro
braccio per
spingerla indietro. Natasha atterrò con una capriola all’indietro per
diminuire
l’urto sulla schiena e poi si rialzò mentre lui sfoderava il pugnale.
La russa
si lanciò contro di lui, ma Clint si abbassò all’ultimo momento e la
sbilanciò afferrandole
le ginocchia. Dopo averla fatta cadere, si mise a cavalcioni del suo
stomaco e
le puntò il pugnale alla gola, ma Natasha gli diede una scossa con i
due
Pungiglioni. Clint abbandonò per un attimo il controllo sui propri
muscoli e
lei ne approfittò per spingerlo lontano da sé. Stava per lanciarsi su
di lui
per cercare di togliergli anche il pugnale, quando arrivò la
convocazione nella
sala centrale.
Gettò
a terra i finti Pungiglioni e vide Clint
fare lo stesso con il pugnale, poi gli porse la mano per aiutarlo a
rialzarsi.
«Io
mi faccio una doccia, prima di andare di là»
gli annunciò «Temo che questa sessione di allenamento mi abbia fatto
sudare
giusto un po’»
«Penso
che seguirò il tuo saggio esempio» rispose
Clint «Ci troviamo in camera?»
«Perfetto»
Natasha
gli diede un veloce bacio sulle labbra e
poi sparì verso lo spogliatoio delle donne per la palestra di
allenamento.
Clint la guardò andare via e poi si avviò nella direzione opposta,
pensando a
quanto era stato maledettamente fortunato.
«Senti,
Steve…» cominciò Sam, cercando le parole
giuste, mentre si recavano nella sala centrale «Io lo so che stai
passando un
brutto periodo e magari non ti va di parlare con nessuno…»
«Esattamente»
rispose Steve, un po’ più tagliente
di quanto non avrebbe voluto «Con nessuno. Visto che lo sai, Sam, forse
sarebbe
meglio se lasciassi perdere subito l’argomento»
«No,
in realtà, non è di questo che volevo
parlarti»
Steve
si voltò a guardarlo, sorpreso: «No?»
«No,
ecco, si tratta di Tony»
«Tony?»
«Sì,
lui… Non so, forse te ne sei accorto anche tu
o forse hai avuto altro a cui pensare, ma non è più lo stesso. Prima
Pepper,
poi tu e Thor che siete andati via di colpo, insomma, non è stato
facile
neanche per lui. Rhodey ha provato a parlarci, ma non ne ha ricavato
molto e
pensavo che magari, visto che tu sei uno dei suoi migliori amici, con
te sarebbe
riuscito ad aprirsi un po’ di più, che ne dici?»
Ascoltando
Sam, Steve si accorse che aveva
ragione. Tony non parlava più con nessuno. Tony stava sempre attaccato
ai suoi
computer o in laboratorio. Tony quasi non mangiava più. Tony… da quanto
tempo
non ci faceva una bella chiacchierata come si deve? Era stato così
preso dai
propri problemi che si era dimenticato di cosa stesse passando Tony.
Si
sentì tremendamente in colpa. Sapeva per certo
che se la situazione fosse stata invertita Tony non avrebbe esitato a
offrirgli
il proprio appoggio. Lui, invece, non aveva saputo fare altro che
piangersi
addosso e andarsene proprio nel momento in cui il suo amico avrebbe
avuto più
bisogno di lui. Stava succedendo tutto troppo in fretta. Stavano
succedendo
troppe cose insieme.
«Hai
ragione, Sam, devo proprio parlargli»
concluse con un sospiro «Magari ora che arriviamo, se non ci sono
ancora tutti,
provo a dirgli due parole, ti sembra una buona idea?»
«Certo»
Sam sembrava soddisfatto della sua
risposta «Tanto nessuno vi disturberà, se vedranno che Tony sta
parlando con
qualcuno»
Erano
davvero arrivati a quel punto? Steve si chiese
cosa avesse avuto davanti agli occhi fino a quel momento che gli
impedisse di
vedere come stavano le cose.
Rhodey
aveva accettato il compito di scrivere i
rapporti delle missioni assegnatogli da Fury di buon grado. Non gli era
mai
pesato stilare quel tipo di resoconti e in quel modo aveva la
possibilità di
rifornirsi di aneddoti da raccontare alle feste. Non gli era sembrato
niente di
complicato e pareva destinato a rimanere semplice e lineare. Cosa
poteva
esserci di strano in una missione dei Vendicatori?
E
invece ora era là, a cercare le parole per spiegare a Nick Fury che
cosa era
successo. Ma come poteva trovarle, se neanche lui sapeva esattamente
che cosa
aveva causato quelle morti? Rimaneva lì, a fissare quei numeri che lo
incolpavano silenziosamente di una negligenza che non capiva. Era
sempre andato
tutto bene: seguivano il piano, minimizzando le perdite civili, e
portavano a
termine la missione.
Il
fatto era, anche se Rhodey non lo avrebbe mai voluto ammettere con se
stesso,
figurarsi con Nick Fury, che il piano non comprendeva più il numero più
basso
possibile di perdite civili. Era una cosa accessoria e irrilevante, di
cui
potevano occuparsi se volevano finché questo non danneggiava la
missione.
Rhodey, Sam, Wanda e Visione -gli unici a cui importava ancora
qualcosa, a quanto
pareva- avevano cercato di organizzarsi per fare il possibile, ma in
quattro
non potevano certo sostituire l'intera squadra. E i numeri salivano.
Aveva
cercato di parlarne con Steve, visto che lui e Natasha si occupavano
dell’organizzazione tattica delle missioni, ma senza risultato. L’altro
a
malapena lo ascoltava, gli diceva che aveva ragione e ci avrebbe fatto
più
attenzione e poi la missione successiva non cambiava nulla. Lo stesso
era
successo con Natasha, con la lieve differenza che la russa non aveva
neanche
finto di dargli ragione, lo aveva semplicemente ignorato.
E
cosa
poteva dire ora a Nick Fury, che chiedeva spiegazioni per quei civili
morti?
Avrebbe dovuto scrivergli la verità, ma non se la sentiva. Nessuno,
neppure
Fury, avrebbe lasciato operare gli Avengers in quelle condizioni.
Rhodey aveva
paura che quel team venisse sciolto. Tony aveva bisogno dei
Vendicatori, così
come Thor, Steve, Natasha, Clint e Bruce. I lutti che avevano colpito
la
squadra e tutte le difficoltà che i suoi componenti avevano affrontato
avevano
messo a dura prova l’unità del team, ma ora sembrava che tutti loro si
aggrappassero gli uni agli altri per tirare avanti. Non potevano
sciogliere gli
Avengers. Rhodey, Sam e Wanda ce l’avrebbero fatta senza, Visione
avrebbe
trovato un modo, ma gli altri no. Forse era per quello che i piani
d’azione
delle missioni erano cambiati. I Vendicatori avevano bisogno di
sentirsi forti,
di portare a termine tutti i compiti con facilità. Salvare i civili era
un
rischio, un pericolo per la riuscita della missione.
Non
aveva ancora preso una decisione, quando gli arrivò la convocazione da
F.R.I.D.A.Y. in sala centrale. Chiuse il portatile di scatto e andò
via.
Finalmente una scusa per non scrivere quella dannata mail.
Tony
si incamminò lentamente lungo il corridoio. F.R.I.D.A.Y lo avvertì che
Scarlet,
Visione e Banner erano già nella stanza, mentre War Machine era quasi
arrivato.
Gli altri si stavano già dirigendo verso la sala centrale e sarebbero
stati lì
nel giro di un quarto d'ora. Aprendo la porta, il miliardario si disse
che
quella sarebbe stata la riunione più lunga della sua vita.
Nell’attesa,
Tony
ricontrollò con il proprio tablet di avere tutte le informazioni
necessarie e
rilesse ancora una volta i dettagli. Sapeva che gli altri stavano
facendo
un grosso
sforzo per
non fissarlo: Wanda e Visione chiacchieravano e Bruce scarabocchiava
sul
proprio quaderno -chissà se stava ancora cercando l’errore nella sua
formula
per il teletrasporto-, ma ciascuno di loro gli lanciava di tanto in
tanto delle
occhiate furtive. Rhodey entrò in silenzio, salutò a bassa voce tutti e
si
sedette a una sedia di distanza da Tony, in modo che, se avesse avuto
voglia di
parlare con lui, Stark non avrebbe avuto alcuna difficoltà. L’amico,
invece,
gli rivolse a malapena un saluto e tornò al proprio tablet.
La
porta si aprì di
nuovo ed entrarono Capitan America e Falcon. Wilson annuì
leggermente
all’indirizzo di Rogers,
come finendo una
conversazione cominciata prima di entrare, e si
sedette al tavolo delle riunioni, dal lato
opposto di Tony. Steve, invece, prese la sedia proprio accanto alla
sua. I due
si fissarono per qualche attimo: entrambi avevano bisogno di parlare e
nessuno
ne aveva voglia.
«Come
stai?» chiese infine Tony. Steve parve quasi sorpreso da
quella domanda,
che avrebbe dovuto forse porre lui. Rimase un attimo in silenzio, forse
cercando una risposta che evidentemente non trovò, perché si strinse
soltanto
nelle spalle e domandò: «E tu?»
Tony
sospirò e scosse la testa: «Cosa vuoi che ti dica?» Steve abbassò lo
sguardo:
gli altri potevano pensare che Tony stesse piano piano riprendendosi,
ma quegli
occhi scuri raccontavano un'altra storia e lui non era in grado di
sopportare
tutto il loro dolore.
«Mi
dispiace di non essere venuto al funerale. Io ero... confuso»
A
quelle parole, la mente del genio fece un salto all’indietro, al giorno
del
funerale di Pepper.
Era un pomeriggio piovoso e freddo, sembrava che anche il
cielo fosse in lutto. Le prime gocce avevano cominciato a cadere quando
la bara
stava per essere calata nella terra. Era stato come se tante lacrime
avessero
bagnato il coperchio di legno scuro. Era stata una cerimonia breve e
raccolta,
proprio come l’avrebbe voluta Pepper secondo Tony. Non era una cosa da
lui, ma
quel giorno niente era così, neanche Tony stesso. Era vestito con il
solito
completo elegante, ma per una volta aveva rinunciato agli occhiali da
sole.
Spesso li portava perché non voleva che gli altri vedessero i suoi
occhi o ciò
che stavano guardando, ma quel giorno non gli importava.
Non era venuta molta
gente: qualche collega, alcuni dei parenti, qualcuno dei Vendicatori.
La
squadra aveva proposto a Tony di fare una specie di addio militare a
Pepper, ma
lui non aveva voluto. Sentiva ancora come colpa sua tutto ciò che le
era
accaduto e gli sarebbe sembrato terribilmente irrispettoso comportarsi
così al
suo funerale.
«Tony?»
lo chiamò Steve, risvegliandolo dal suo viaggio nei ricordi.
«Scusami.
Non ti
sei perso granché, comunque, è stato piuttosto penoso. Pioveva, non
c'era tanta
gente e... Insomma, non ero proprio al mio top, come puoi immaginare»
Steve
non disse
nulla per un po', pensando che rivoleva il vecchio Tony.
Se gliel'avessero
chiesto un mese prima, avrebbe detto che non avrebbe mai sentito la
mancanza
delle battutine idiote di Stark, qualora lui avesse miracolosamente
smesso di
farle. E invece la sentiva eccome: Tony era l'ombra di se stesso, senza
quella
sua fastidiosa ironia.
Sentì crescere dentro di sé una rabbia furibonda verso
quegli uomini, quella crudeltà volta solo a cercare la sofferenza del
suo
amico. Dovevano fare qualcosa, dovevano far capire loro che gli
Avengers non si
sarebbero piegati così facilmente.
«Hai
delle informazioni,
allora?» domandò, con una nuova forza nella voce.
Tony
parve
emergere da un altro mondo per rispondere: «Sì, o almeno spero. Sarebbe
la
quinta falsa pista in caso mi sbagliassi»
«Allora
speriamo
che non sia così. Mi dispiace che tu abbia dovuto fare tutto da solo»
Tony
lo guardò
negli occhi e vide che Steve si sentiva davvero in colpa per essersene
andato
in quel modo nel momento in cui avevano tutti bisogno di lui. Per non
esserci
stato al funerale di Pepper. Per non aver aiutato Thor a superare la
morte di
Jane. Per aver lasciato che lui raccogliesse tutto da solo le
informazioni per
quella missione.
Perciò gli mise una mano sulla spalla: «Non ti preoccupare,
non ho lasciato comunque avvicinare nessuno. Non avrei condiviso quella
ricerca
neanche con te»
«Avrei
potuto
provarci» Steve sembrava davvero abbattuto e Tony si sentì quasi in
colpa.
«Beh,
basta il
pensiero, dai» gli disse, accennando un sorriso. Quando vide che
l'amico gli
aveva sorriso in risposta, si strinse mentalmente la mano da solo per
complimentarsi del risultato ottenuto. Si chiese chi dei due si stesse
appoggiando all’altro in quel momento.
Entrando,
Natasha
li vide sorridere e si disse che quei due erano incredibili: entrambi
erano
stati colpiti duramente, erano confusi e avevano bisogno di un
sostegno, ma
tutto quello che facevano era cercare di aiutare un amico.
Sentì Clint di
fianco a lei fare una battuta rivolta a tutti e si accorse che
l'atmosfera si
stava pian piano alleggerendo. Sorrise e pensò che non ci sarebbe mai
stato superpotere
migliore di quello di saper far ridere un amico.
Circa
un quarto d'ora dopo, i Vendicatori al completo fissavano l'immagine
che Tony
aveva proiettato con un ologramma. Rappresentava la casa di Pepper in
fiamme.
Tutti quanti avevano già visto quelle fotografie, ma guardarle in tre
dimensioni e con Tony vicino faceva tutto un altro effetto. La stanza
si caricò
di quel silenzio rammaricato interrotto solo da schiarimenti di voce e
sospiri
tipico di chi si sente in dovere di dire qualcosa, ma non riesce a
trovare le
parole.
«Non
dovete scusarvi» disse Tony, la voce un po' tremante «Non è mica colpa
vostra»
fece una breve pausa che nessuno si sarebbe mai sognato di
interrompere, poi
spostò quell’immagine olografica e la sostituì con quella di due uomini
vestiti
con abiti scuri e pratici «Per la precisione, è colpa loro»
«Sono
stati mandati da qualcuno» disse Natasha a bassa voce «Due tizi così
non
attaccano IronMan con tutte quelle informazioni a disposizione»
«Esattamente
quello che ho pensato anch'io» rispose Tony «Infatti sono riuscito a
risalire a
questa base di operazioni, che è evidentemente per un team più ampio di
due
persone»
La
costruzione su vari piani che comparve davanti ai loro occhi era
effettivamente
sufficiente per ospitare almeno un centinaio di persone. Era uno di
quei tanti
uffici prefabbricati che si trovano un po' ovunque, con una struttura
di
cemento a malapena mascherata dall'intonaco.
«Dobbiamo
andarci?» domandò Thor, sollevando per la prima volta lo sguardo dalle
immagini
e rivolgendosi a Tony,
«In
realtà, per quanto mi riguarda possiamo anche farla saltare in aria
sulla
fiducia» fu la risposta. Sam e Rhodey risero a quell'affermazione e
pensarono
che forse non era tutto perduto, se Tony aveva ancora quel senso
dell'umorismo
«Guardate che non era una battuta» li gelò lui.
«Tony?»
disse Rhodey con un po’ di incertezza nella voce, cercando di fendere
quel
silenzio che stava schiacciando tutti «Quindi cosa dobbiamo fare?»
«Purtroppo
non possiamo farla davvero saltare» sospirò Tony «O almeno, potremo
farlo solo
dopo che avremo raccolto tutte le informazioni che ci servono. Sono
quasi
sicuro che quella non sia la loro sede principale»
«Non
lo faremo comunque, vero?» domandò Scarlet.
«Perché
no?» le rispose Steve con la voce più dura che lei gli avesse mai
sentito. Al
confronto, il suo scudo sembrava fatto di burro «Hai visto cos’hanno
fatto a
Pepper. Meritano clemenza?»
«Sono
persone, Steve» gli ricordò Falcon «Se anche non meritano clemenza,
meritano
giustizia. Non decidiamo noi della loro sorte, c’è la legge per quello»
«Possiamo
decidere che cosa fare di loro dopo che avremo stabilito un piano di
azione» li
interruppe Banner «Per ora l’importante è arrivare alle informazioni
che
servono a Tony, no?»
«Ben
detto» convenne con lui Thor «Che cosa cerchiamo?»
«Questo
è il problema» rispose Tony.
La mente di Visione registrò quella risposta come
sbagliata. Il genio di una volta avrebbe detto qualcosa come "qui sta
il
bello" oppure "ecco la parte divertente", invece di parlare di
problemi con quel tono afflitto. Il genio di una volta faceva
attenzione a non
colpire il morale dei suoi compagni, cercava di trovare sempre il lato
positivo
di tutto come forma di difesa, non trasmetteva agli altri il proprio
sconforto.
Il genio di una volta guardava le persone negli occhi mentre parlava
cercando
di coinvolgerle nei propri pazzi discorsi, non teneva lo sguardo
incollato alle
immagini come se avesse parlato al nulla.
Il genio di una volta non c'era più.
«Non
sappiamo cosa stiamo cercando?» chiese Natasha.
«Sì
e
no» rispose Tony «Una cosa la sappiamo: come ho detto, non è l’unica
base ed è
probabile che non sia neanche la principale. Dobbiamo trovare le altre
e
sicuramente ci saranno dei file da hackerare, un archivio o qualcosa di
simile.
Poi potrebbe essere interessante avere qualcuno da interrogare. Per il
resto non
lo so. Potrebbero avere attrezzatura pericolosa o utile o entrambe, e
in quel
caso potremmo portarla in laboratorio. Potremmo scoprire che hanno
contatti con
altre organizzazioni e allora dovremmo capire quali sono. Oppure nulla
di tutto
questo, la base potrebbe essere completamente deserta perché qualcuno
li ha
avvertiti del nostro arrivo»
«E
quindi, in sostanza, dobbiamo scoprire il più possibile su questi tizi
e tutti
quelli con cui hanno contatti, prendere i giocattolini da laboratorio
che
troviamo e se possibile fare qualche “prigioniero”» riassunse Clint.
«Com’è
la zona?» si informò Visione «Ci sono abitazioni o potrebbero esserci
dei
civili?»
«Si
sono scelti un posto abbastanza isolato» rispose Tony «Ma comunque se
ci
fossero delle altre persone si troverebbero nel posto sbagliato al
momento
sbagliato»
«E
noi
le porteremmo in salvo» concluse Sam con voce determinata.
«Ne
abbiamo già parlato, Sam» disse Steve «Non possiamo mettere a rischio
la
missione solo per qualche civile»
«No,
voi ne avete parlato» ribatté Wanda «Ma questo non significa che noi
siamo
d’accordo. La nostra missione è anche salvare i civili»
«Fate
come vi pare» troncò Natasha «Ma quando abbiamo bisogno di voi dovete
esserci»
«E
noi
ci saremo» concluse Rhodey «Non dubitate»
Natasha
e Steve elaborarono velocemente un piano, cui nessuno fece obiezioni.
Prevedeva
la “pulizia” completa dell’edificio, come l’avevano chiamata, prima di
dedicarsi alla ricerca di informazioni. Dovevano avere il campo libero
in quel
momento.
«Partiamo
tra un’ora» decise infine Tony, dopo qualche minuto di silenzio teso
«Se
qualcuno non se la sente o non è d’accordo, può benissimo non venire»
Nessuno
disse nulla e uno a uno i Vendicatori lasciarono la stanza per andare a
prepararsi. L’atmosfera, però, non era stata alleggerita di un grammo.
«Ti
do
il cambio?» si offrì Clint dopo diverse ore che Tony guidava «Non è
bene che ti
stanchi tanto, come combatterai se hai i nervi così tesi?»
«Ho
comunque i nervi tesi» ribatté Tony, ma accettò il cambio e andò a
raggiungere
gli altri. Per qualche decina di minuti nella cabina di pilotaggio
regnò il
silenzio, poi Clint vide qualcosa con la coda dell’occhio.
Si
voltò di scatto e si trovò davanti Wanda che lo guardava come temendo
che
potesse attaccarla: «Posso?»
«Non
vedo perché no» rispose l’arciere rilassandosi sul sedile.
La
giovane strega si sedette di fianco a lui: «Beh, diciamo che la
discussione di
prima è stata un po’ concitata e magari avevi voglia di stare da solo o
comunque di non parlare o magari di non parlare con me»
Clint
sorrise: «Wanda, le squadre discutono da che mondo è mondo e le cose
non
cambieranno soltanto perché i componenti sono dei supereroi, ma questo
non vuol
dire che dopo non si possa parlare e cercare di chiarire la situazione»
«Mi
era sembrato che questa volta fosse diversa»
«Lo
era» confermò lui «Siamo tutti tesi, molti di noi hanno altro per la
testa, ma
allo stesso tempo non vogliamo far pensare a Tony che non ci importi
della
missione perché non è così. Cerchiamo di rimanere presenti perché
sappiamo che
la squadra ha bisogno di noi, ma non è facile»
«Sì»
rispose Wanda «Ma non è questo che intendevo. Non c’è mai stato bisogno
di
discutere riguardo ai civili. Siamo sempre stati d’accordo su quello,
ti
ricordi? A Sokovia, tutto quello che abbiamo fatto è stato proteggere
delle
persone che non c’entravano nulla»
«Le
cose cambiano» disse Clint.
«Alcune
cose no. Ti ricordi che cosa mi hai detto quella volta? Mi hai fatto un
gran
bel discorso, mi hai detto che sarei stata un Avenger se fossi uscita
da quella
porta. Io pensavo che essere un Avenger volesse dire questo»
«Le
cose cambiano» ripeté l’uomo «Non devi giudicarci in questo modo. Non
sai molte
delle cose che stiamo passando»
«"Stiamo"?
Anche tu…?» Wanda sembrava sconvolta «Perché non mi hai detto nulla?»
«Non
volevo caricarti di un altro peso» mentì Clint.
Se
Wanda se n’era accorta, non lo diede a vedere: «Ma siamo amici. Per
darti una
mano posso sopportare qualunque peso»
«Lascia
stare, sono solo degli incubi» minimizzò Clint «Non è nulla di grave, è
solo
che non riesco a dormire bene e allora mi sembra sempre tutto più
difficile»
«Posso
provare ad aiutarti, se vuoi» propose Wanda. Clint ricordò a se stesso
che i
poteri della strega potevano agire anche sul subconscio. Fu tentato di
accettare, dicendosi che poteva fidarsi di lei e che sicuramente non
gli
avrebbe fatto nulla di male, ma poi senza sapere il motivo ebbe paura e
decise
di rifiutare.
«No,
lascia stare, non importa» sorrise allora, decidendo di mentire ancora
«Sta
migliorando poco per volta»
«Come
vuoi»
Per
un
po’ tacquero entrambi, poi Wanda decise di togliersi un dubbio: «Sarai
dei
nostri per mettere in salvo i civili?»
Clint
rimase per qualche secondo in silenzio, come esitando a rispondere.
Sapeva che
ciò che avrebbe detto non le avrebbe fatto piacere. Infine si decise,
decretando mentalmente che in quella conversazione aveva mentito già
troppe
volte: «No»
«Scusa?»
Wanda non aveva capito. O meglio, la mente di Wanda si rifiutava di
capire.
Clint aveva parlato a voce bassa e c’era una parte di lei che si
aggrappava
alla speranza di aver sentito male, ma sapeva benissimo che quella
possibilità
in realtà non esisteva. Semplicemente, non riusciva a crederci.
«Ho
detto di no» rispose l’arciere «La missione è più importante. Non
sappiamo che
pericoli potrebbero esserci là dentro e io non me la sento di non
essere al
fianco degli altri»
Era
proprio vero. Clint aveva detto di no, senza alcuna possibilità di
errore.
Wanda prese velocemente in considerazione varie opzioni, che variavano
dal
gettarsi dal portellone del Quinjet all’entrare nella mente di Clint e
tirare
fuori i ricordi di tutto ciò che aveva fatto di male e tutto il dolore
che
aveva sofferto. Le scartò tutte.
Si
sarebbe aspettata quella risposta da Visione. Dopotutto, era possibile
che secondo
i calcoli dell’androide la partecipazione al salvataggio dei civili
fosse
troppo rischiosa. Se lo sarebbe aspettata da Sam, se Steve lo avesse
convinto
che il piano poteva risultare più vantaggioso in un altro modo.
Se lo sarebbe
aspettata da chiunque altro, ma non da Clint. Non dall’arciere che
l’aveva
persuasa a entrare nella squadra. Non dall’arciere cui suo fratello
aveva
salvato la vita. Dove era finito quell’uomo?
«Quando
ce n’è stato bisogno» gli ricordò, con la voce tremante di rabbia
«Pietro è
stato al tuo fianco e ha salvato la vita a te e altre centinaia di
persone. Io
continuerò a rispettare la nostra missione. Io e gli altri salveremo
delle vite
come ha fatto Pietro»
Si
alzò e raggiunse gli altri, sfregando via dal proprio volto una lacrima
con il
dorso della mano. Perché stava piangendo? Per Pietro, per Clint o per
se
stessa? Non seppe rispondere.
Clint
rimase seduto al proprio posto, lo sguardo fisso davanti a sé. Non
aveva
pronunciato una parola dopo l’accusa di Wanda. Non sapeva e non poteva
rispondere.
Non potevano perdere tempo, perché non capiva? Quella ragazzina
credeva di avere la risposta a tutto, non voleva mai ascoltare.
L’arciere
sentiva che prima o poi quella storia sarebbe finita male.
«Nat»
chiamò Steve, con la voce resa roca dal lungo tempo trascorso in
silenzio «Una
parola»
La
russa annuì e si spostò di qualche sedile in modo da essere proprio di
fianco a
lui: «Dimmi»
«D’accordo
che questo forse non è il momento migliore» cominciò Steve «Con la
missione che
sta per cominciare e tutti i casini che ne deriveranno. E poi ho saputo
che
Clint ultimamente non sta molto bene e non vorrei crearti altri
problemi…»
«Steve»
lo interruppe Natasha prendendogli la mano «Non ti preoccupare dei miei
problemi e dimmi»
«No,
è
che pensavo che forse mi avrebbe fatto bene parlare con qualcuno di
quello che
è successo con Sharon. Ho aspettato perché non me la sentivo e a dire
il vero
non me la sento molto neanche ora, ma non ce la faccio davvero a
tenermi tutto
dentro, sento come se mi stesse consumando»
Natasha
sorrise. Ormai aveva rinunciato a credere che Steve si sarebbe rivolto
a lei e
invece proprio quando aveva perso le speranze il suo migliore amico la
coglieva
di sorpresa: «Non finisci mai di stupirmi»
«Perché?»
«Avevo
perso le speranze che me lo chiedessi» rispose lei «Ci andiamo a bere
qualcosa
una volta finita la missione? Credo che non sia il caso di parlarne
qui»
sottintese un “davanti a tutti” che Steve colse benissimo.
«Sì,
in effetti forse non è proprio l’atmosfera giusta» ammise «Vada per
dopo la
missione, allora»
«A
tutta la squadra, siamo in vista dell’obiettivo» comunicò Clint
«Comincio la
discesa verticale. Prepararsi a lasciare il Quinjet»
Come
previsto dal piano, metà dei Vendicatori sarebbe scesa da un lato
dell’edificio
e l’altra metà dall’altro. Bruce sarebbe rimasto alla guida del Quinjet
e lo
avrebbe fatto atterrare non troppo distante. Sarebbe intervenuto solo
in caso
di necessità, come sempre.
«Natasha,
ci serve tempo» disse Sam, come preso da un’ispirazione improvvisa.
«Tempo
per cosa?»
«Non
volete mettere in salvo i civili, bene, ci penseremo noi, ma abbiamo
bisogno di
tempo» spiegò Sam.
«Si
era detto che ci sareste dovuti essere in caso di bisogno e non avreste
dovuto
compromettere la missione per fare questa cosa» ricordò Steve
«Ed
è
per questo che vi sto chiedendo del tempo. Se usciremo insieme dal
Quinjet, non
potremo mai essere disponibili per voi mentre vi infiltrate. Dateci
modo di
mettere in sicurezza l’area prima di disporvi per entrare»
«Non
dovrete farvi notare» disse Thor «La missione dipende anche da quello»
«Opereremo
dall’esterno verso l’interno» rispose Rhodey «E quando saremo
abbastanza vicini
prenderemo le posizioni stabilite e seguiremo il piano»
«Per
favore, Nat» disse Sam «la missione andrà avanti come progettato.
Dovete solo
concederci un po’ di tempo»
Natasha
fissò a lungo Sam, Rhodey, Visione e Wanda, che sembravano protesi
verso di lei
in attesa del suo verdetto. Interrogò Steve con lo sguardo. Gli occhi
del
Capitano sembravano esprimere una stanchezza e una rassegnazione che la
russa
non avrebbe mai pensato di vederci. Rabbrividì appena dentro la tuta
aderente,
ma mascherò il proprio movimento sistemando i Pungiglioni alla cintura.
Infine,
con una lentezza esasperante, Steve distolse gli occhi dai suoi e li
fissò per
terra, annuendo impercettibilmente.
«Un
quarto d’ora» concesse infine Natasha «Non un minuto di più. Potete
tutti
volare, no?»
Il
gruppo annuì in silenzio. «Bene, non fatevi notare e non tardate»
Ricevuto
il suo segnale, Clint aprì il portellone di dietro per permettere
l’uscita dei
quattro. Visione prese Wanda tra le braccia e la portò fuori con sé:
«Sarà
meglio che conservi la magia per cose più importanti»
«Io
e
Rhodey ci occupiamo del lato nord-est» stabilì Sam nei loro
comunicatori «Voi
prendete l’angolo sud-ovest. Cominciate da cinquecento metri di
distanza e
fermatevi a cinquanta metri dall’obiettivo. Per favore, ragazzi, non
fate
casini e non deviate dal piano. Ne va del rapporto con il resto del
team»
Gli
altri tre mormorarono delle rassicurazioni e poi le due coppie si
separarono.
Sam
operava proprio come un falco, notò Rhodey mentre il suo compagno
spariva
ancora una volta dal suo fianco, provocando uno spostamento d’aria. Era
quasi
affascinante: individuava una persona, si gettava in picchiata, la
afferrava
senza neanche fermarsi e poi riprendeva quota. Mentre planava verso il
punto di
raccolta, spiegava brevemente la situazione, poi scendeva di nuovo
vertiginosamente e lasciava il civile in compagnia degli altri.
«Come
hai imparato a planare così vicino a terra e a riprendere quota così in
fretta?» domandò, sinceramente incuriosito, mentre i loro occhi
scrutavano i
campi alla ricerca di qualcuno che non sarebbe dovuto essere lì.
«Io
e
Wanda abbiamo fatto degli allenamenti appositi» rispose Sam «Ore due,
Un uomo e
una bambina, tu prendi lui» poi si lanciò in picchiata continuando a
parlare
come se nulla fosse «Ma comunque avere delle ali invece che dei
propulsori
aiuta. Certo, non ho la vostra potenza, ma in alcuni casi riesco a
essere molto
più agile»
«Si
è
verificata un’emergenza» disse Rhodey all’uomo che aveva afferrato
«Stiamo
evacuando la zona. Lei e la bambina dovrete restare insieme agli altri.
Verremo
poi a comunicarvi quando sarà sicuro rientrare»
Depositarono
i due sulla piazzetta che avevano scelto come luogo di ritrovo e poi si
sollevarono di nuovo in aria.
“Visione,
Wanda, come siete messi?” domandò Sam nel comunicatore “Credo che qui
sia
pulito”
Visione
rispose per entrambi dicendo che loro avevano finito e stavano per
riprendere
le posizioni del piano, Wanda stava controllando ancora una volta i
dintorni.
Era da qualche minuto che l’aveva persa di vista, ma questo a Sam non
lo disse.
La
giovane strega non disse nulla, perché era completamente presa da
qualcosa che
aveva trovato. Si trattava di un foglio fissato a un albero con un
pugnale.
Molto teatrale, si disse Wanda. Staccò la punta del coltello dalla
corteccia e
lesse il biglietto: “Ciò che leggi non è ciò che è scritto”. Sentiva
che c’era
qualcosa che non andava in quel foglio, era come… Come se fosse stato
finto!
Ecco cos’era. Si concentrò sulle parole del biglietto, accorgendosi che
erano
come alterate, non del tutto reali.
Strinse
gli occhi, mentre passava un dito sul foglio, come cercando di
cancellare la
scritta. Con suo enorme stupore, vide le lettere cambiare davanti al
suo
sguardo: “Dopo la missione, qui. La realtà trema”. In qualunque altra
occasione
avrebbe gettato via il foglio senza badarci, ma quella frase, La realtà trema, la colpì. Si ricordò
delle immagini di Visione e Nick Fury che aveva visto. Non sapeva chi
le avesse
lasciato il messaggio, ma quella persona doveva sapere qualcosa di ciò
che
stava succedendo. Decise che si sarebbe presentata all’appuntamento,
poi mise
via il biglietto e tornò da Visione.
Ricevuta
da Sam la conferma che avevano assunto le posizioni prestabilite, gli
altri
Vendicatori scesero dal Quinjet e raggiunsero i propri posti. Occhio di
Falco
si appostò sul tetto, a ridosso di uno dei lucernari. Thor raggiunse
Visione al
lato sud della costruzione e i due mantennero una posizione di attesa
difensiva, pronti a entrare al segnale, sfondando la finestra in volo.
Sam e
Wanda si incontrarono all’ala nord e si prepararono a spiccare il volo
per un
assalto dall’alto oppure entrare attraverso il varco che i loro
compagni
avrebbero aperto per loro. Steve e Natasha, invece, sarebbero dovuti
entrare
attraverso la porta di sicurezza, sul lato est, dopo aver neutralizzato
chiunque avesse cercato di scappare da quella parte. Dopo aver ricevuto
conferma che tutti avevano assunto la propria posizione, Iron Man e War
Machine
distrussero la porta di ingresso, annunciando rumorosamente la propria
presenza.
Per
qualche minuto nella costruzione regnò il silenzio più totale, era come
se
nessuno avesse osato muoversi o parlare. La polvere sollevata dal
crollo della
porta si depositava per terra e su tutti quanti. Era come neve,
soltanto meno
rilassante da guardare e più grigia.
La
stasi durò poco, però, perché all’improvviso, come se qualcuno avesse
premuto
il pulsante di accensione, tutti quanti si rianimarono. Alcuni
cercarono di
attaccare le due armature, mentre altri fuggirono verso l’uscita di
sicurezza,
dove però trovarono Capitan America e la Vedova Nera pronti ad
accoglierli.
Steve perse il conto di quanti fossero dopo la prima decina, poi
finalmente lui
e Natasha riuscirono a entrare.
“Salite
al primo piano” disse Vedova Nera a Tony e Rhodey “Qua sotto ce ne
occupiamo
noi”
Nel
frattempo, Clint aveva incominciato la propria opera da cecchino al
secondo
piano. Prima di tutto aveva spaccato il lucernario, creando una caduta
di cocci
di vetro che doveva aver ferito almeno una dozzina di persone, poi
aveva
cominciato a eliminarli uno ad uno. Purtroppo non poteva utilizzare
frecce
esplosive o incendiarie perché avrebbe potuto distruggere i dati che
stavano
cercando, ma riusciva comunque a provocare parecchi danni.
Natasha
piazzò una piccola carica esplosiva nel muro nord e lo fece saltare in
aria,
aprendo la strada all’ingresso di Scarlet Witch e Falcon, che si
precipitarono
dentro e furono subito presi nella lotta.
“Mjöllnir
al piano di sopra” comunicò Capitan America. Obbedendo alle sue
direttive,
Visione e Thor spiccarono il volo quasi nello stesso istante e
piombarono al
secondo piano sfondando due finestre. Metà dei presenti era già stato
trafitto
da una o più frecce, ma molti resistevano, armati, e sparavano verso il
lucernario, impedendo a Occhio di Falco di prendere la mira. Thor si
scagliò
contro uno di loro, lanciando il martello a Visione, che lo prese al
volo e lo
adoperò per colpire alla testa una donna armata di fucile d’assalto che
stava
per sparare a Clint.
Al
primo piano, Iron Man e War Machine stavano eliminando le minacce più
gravi
cercando di non danneggiare l’attrezzatura, il che era un grave
problema visto
il tipo di armi di cui erano dotate le loro armature.
“Cercano
di fuggire” comunicò Clint “Dall’ala nord, un jet o qualcosa di simile.
Riuscite a fermarlo?”
“Andiamo
noi” disse Tony “Romanoff, manda qualcuno al primo piano”
La
Vedova
Nera rispose che l’avrebbe fatto e a un suo cenno Scarlet Witch e
Falcon si
spostarono di sopra. Sam fu attaccato da due uomini. Wanda ne spostò
uno con i
propri poteri, mandandolo a sbattere contro un muro. Non si curò di
cosa gli
stesse succedendo dopo e si voltò a guardare il suo partner, che si era
già
liberato del secondo avversario e lo stava stringendo per la gola.
«Sam,
cosa fai?»
«Lo
rendo innocuo senza ucciderlo» rispose quello, mentre l’uomo si
abbandonava tra
le sue braccia «Ecco, è svenuto. Attenta!»
Il
suo
avvertimento giunse appena in tempo: Scarlet si voltò e fece volare via
alla
donna che aveva di fronte la pistola, scaraventando l’arma fuori dalla
finestra. Muovendo una scrivania, poi, la bloccò contro il muro, ma
quella
estrasse un coltello e si preparò a lanciarlo. Wanda rimase
perfettamente
immobile finché la lama non fu a un metro da lei, poi fece comparire
uno scudo
di energia che la fermò a mezz’aria e la fece cadere in terra.
Probabilmente
produsse un rumore metallico, ma nessuno riuscì a sentirlo a causa
della
confusione e del fracasso.
“Stark,
come va laggiù?” chiese Capitan America, recuperando lo scudo con cui
aveva
appena atterrato due uomini.
“Ci
sono solo due persone vive, su quel jet” rispose Iron Man “Ma ormai
sono troppo
lontane”
“Almeno
sapremo dove vanno” disse Occhio di Falco, mentre atterrava al secondo
piano
dopo aver saltato attraverso quello che era stato il lucernario “C’è
una freccia con
il tracciatore sul loro mezzo”
“Bene”
rispose Vedova Nera “Wilson?”
“Ce
la
caviamo” disse Sam, portando Wanda qualche metro più a sinistra con la
spinta
delle ali per evitare che venisse colpita da un calcinaccio che si era
staccato a causa della lotta al piano di sopra “Abbiamo praticamente
finito”
“Visione?”
“Barton
ha completato la pulizia del piano” comunicò l’androide. L’arciere
aveva messo
via la propria arma preferita ed estratto due lame di foggia orientale,
simili
a quelle che aveva usato in allenamento con Natasha, ma affilate. In
pochi
attimi Clint, Thor e Visione avevano concluso il lavoro su quel piano.
La
Vedova Nera sparò in fronte all’ultimo uomo rimasto al piano terra,
mentre
Rogers saliva le scale per aiutare Wanda e Sam. Non trovò, però, alcun
avversario ancora in piedi e così tornò di sotto, giusto in tempo per
scagliare
il proprio scudo contro un uomo che, da terra, aveva estratto la
pistola e stava
per sparare alla schiena di Natasha.
La
squadra si radunò tutta al primo piano e finalmente poterono tirare il
fiato.
Clint e Natasha si lanciarono a vicenda una veloce occhiata per
controllare che
l’altro non avesse nulla di rotto. Visione si avvicinò a Wanda e le
mise una
mano sulla spalla.
«Sto
bene» disse la strega, rispondendo alla tacita domanda dell’androide.
Sam
prese la mano che Rhodey gli tendeva e si rialzò. Approfittando dello
slancio,
avvicinò la bocca all’orecchio dell'amico: «Tony come sta?»
Rhodey
non rispose, ma fece un lieve cenno con la testa che doveva
presumibilmente
significare “bene” e gli rivolse un’occhiata come per chiedergli la
stessa cosa
di Steve. Sam non rispose, ma guardò il proprio amico. Sembrava tutto
intero,
almeno esternamente. Sapere che cosa gli frullasse in testa, però, era
un altro
paio di maniche.
Thor
non
disse nulla, ma portò la mano all’orecchio per accendere il
comunicatore e
riferì a Banner il risultato della missione: “Niente codice verde. Puoi
venire”
Bruce
rispose che stava arrivando. Nel frattempo, Tony inserì una chiavetta
nel
server centrale e cominciò a copiare tutto ciò che conteneva, mentre le
sue
dita correvano veloci sulla tastiera per inserire i codici di crack.
Clint fece
segno a Natasha e Steve di seguirlo di sopra e mostrò loro una scatola
che
aveva trovato.
«Credo
si tratti di un prototipo di lama doppia alleggerita» disse,
scoperchiandola «So
che forse non è il tipo di giocattolino che Tony avrebbe voluto, ma è
l’unica
cosa degna di nota che abbia trovato»
«Sì»
Steve prese la lama e la soppesò con un braccio «Ma chi di noi è capace
di
usare una lama simile?»
«Io»
rispose Clint.
«D’accordo,
la porto giù, allora» concesse il Capitano e la sollevò senza sforzo.
«Così
ora sarai un vero Samurai, no?» commentò Natasha seguendo Steve al
piano di sotto.
Clint sorrise e non rispose.
«Siete
riusciti a fare prigionieri?» chiese Tony, mentre continuava il
trasferimento
dati. Era evidente che, se anche l’attacco era stato tatticamente
organizzato
da Capitan America e Vedova Nera, era Iron Man che comandava le
operazioni.
«Non
è
il mio forte» rispose Natasha.
«Io
ne
ho tramortito uno, prima» ricordò Sam «È svenuto per mancanza di
ossigeno, ma
dovrebbe essere ancora in grado di parlare, se vuole»
«E
c’è
una donna bloccata lì nell’angolo» indicò Wanda «Dietro la scrivania»
«È
tutto ciò che abbiamo?» chiese Tony, incredulo «Davvero?»
«Non
ci avevi chiesto un ospedale da campo. Ci sono altre persone vive, ma
molti sono
ridotti parecchio male. Forse, ma dico forse, se chiamassimo adesso
l’ambulanza
si potrebbe fare qualcosa» rispose Steve «Ti servivano dei prigionieri.
Ce li hai»
«Mi
serviva anche qualcosa per capire su cosa stessero lavorando qui!
Perché costruire questa
fabbrica in mezzo al nulla? Non è una caserma, è uno stabilimento con
tanto di
uffici e computer con poteri di calcolo incredibili per calcolare Dio
sa cosa!»
«Una
cosa ci sarebbe» disse Bruce, che era arrivato in quel momento «Sotto
una
scrivania ho trovato questa»
A
prima vista sembrava una banale scatola di cartone, ma uno secondo
sguardo
rivelava che si trattava di metallo estremamente rinforzato e
resistente –forse
vibranio– accuratamente dipinto in modo da sembrare cartone. Insieme al
contenitore, Bruce porse a Tony una cartellina, dicendo che l’aveva
trovata
poggiata sopra la scatola.
Il
titolo del dossier era Progetto
Terminator.
«Bene»
disse Tony «È già qualcosa. Portiamo tutto sul Quinjet, lo studieremo
poi con
calma quando saremo tornati alla base»
«Ora
dobbiamo ripulire tutto qui intorno» disse Capitan America
«Perché?»
chiese Sam
«Vuoi
che il governo veda questo e sappia che è stata colpa degli Avengers?»
rispose Steve.
«Lascia
che lo sappiano» disse Tony «Che cosa vuoi che ci dicano? Che cosa vuoi
che
possano fare? In fondo, siamo noi quelli che chiamano sempre in questi
casi»
«Hai
ragione» concesse Steve «Ma una volta che lo verranno a sapere
l’Avengers Facility
non sarà più sicura. Dovremo spostarci da qualche altra parte»
«Ci
sposteremo se e quando ce ne sarà bisogno, Steve, è inutile fasciarsi
la testa
prima di essersela rotta»
In
quell’affermazione, Rhodey vide un lampo, una scheggia del vecchio Tony
tornare
alla luce per un attimo, ma il secondo dopo era già di nuovo scomparsa.
«D’accordo,
andiamo, allora?» propose Thor marciando risoluto verso la soglia. Gli
altri
Vendicatori lo seguirono dopo un attimo di disorientamento.
Sam, Wanda e Rhodey andarono nei punti di raccolta dei civili e
comunicarono loro che sarebbero potuti tornare a casa, il pericolo era
passato.
Fu
solo dopo, una volta che il Quinjet era decollato e stavano tornando
all’Avengers
Facility, che Visione alzò lo sguardo su Sam, preoccupato come non mai.
«Dov’è
Wanda?» chiese, con un filo di voce.
Tutti
si voltarono da una parte all’altra, come aspettandosi di vederla
accanto a sé,
ma invano. La strega era sparita.
Fine
prima parte
The
Magic Corner:
Salve
a tutt*!
Lo
so, lo so… State
aspettando da un sacco di tempo questo capitolo e oltretutto vi ho
creato tanto
di quell'hype che probabilmente sarete rimasti delusi. Vorrei però
farvi sapere
che scriverlo è stato ben più che difficile. Non soltanto perché sono
stata in
vacanza e poi ho avuto dei casini a casa e simili, ma anche perché la
mia mente
si rifiutava di scrivere per troppo tempo di seguito cose che facevano
così
male alla mia indole di fangirl e ho dovuto andare avanti un po' per
volta. Uno
stillicidio.
Nel
mio piccolo,
però, spero comunque che questa cosa eterna (sono quasi 9800 parole di
capitolo, nel mio documento Word occupano 20 pagine, più del doppio di
qualunque cosa abbia mai scritto) vi sia piaciuta almeno un po' e
auspico che
vorrete farmi sapere cosa ve ne è parso con una recensione, un MP o un
pacco
bomba (per una presa di posizione molto drastica).
Vorrei
avere la
possibilità di spiegare a chi avrà voglia di leggere alcune cose di
questo
capitolo:
1)
Come le chiama
una mia fedelissima lettrice, la Introducing
poem (cioè, la poesia di inizio capitolo).
T.S.
Eliot mi
perdoni. Per chi non lo sapesse/non l'avesse riconosciuta, si tratta di
una mia
personale rivisitazione della traduzione italiana della prima parte di
The
Hollow Men. Quella poesia è un'opera d'arte. Ho cercato, in un certo
senso, di
farle il mio omaggio, perché mi è stata di ispirazione fin dal primo
capitolo
della mia fanfiction e credo che continuerà a esserlo. Probabilmente
molti
capitoli della seconda parte avranno titoli tratti proprio da questa
mia
rivisitazione.
2)
"L’Altro
sembrava immortale e lui non poteva morire finché Hulk sopravviveva."
Fa
molto Harry
Potter, lo so. A mia discolpa posso dire che me ne sono accorta dopo
averlo
scritto e si tratta di una citazione involontaria, anche se zia Jo si
merita
sempre un omaggio.
3)
La scena di Steve
con il sacco da allenamento.
Non
potevo non
metterla. Io amo
la scena in cui sfonda
il punching ball e poi arriva Fury. Non chiedetemi perché, è
semplicemente
così.
4)
Clint che si
appassiona di lame.
Altrimenti
detto,
facciamo un omaggio all'Occhio di Falco dei fumetti, che è anche un
abile
spadaccino. Piccola anticipazione, le lame diventano la sua arma
preferita
quando Clint si trasforma in Ronin, il Samurai senza padrone. Ho voluto
fare
qualche riferimento già in questo capitolo, ma chissà cosa riserva il
futuro…
5)
Le scene di
combattimento.
Ovvero,
io che mi
faccio tanti problemi. In caso non ve ne foste accorti, prediligo le
scene
introspettive in cui l'azione non si sposta di mezzo millimetro, ma
ogni tanto
devo proprio metterla una scena che fa proseguire la trama. E ogni
tantissimo
devo mettere una scena di combattimento, per forza, è una storia di
supereroi.
Solo che non sono proprio la mia specialità. Che sia l'allenamento di
Clint e
Natasha o le scene di battaglia, ho sempre il dubbio che non siano
accurate o
in ogni caso non vadano bene.
6)
I momenti Stony.
No,
non porterà a
una ship prima della fine della storia. Ci sono già troppe relazioni in
ballo e
quei due sono abbastanza sentimentalmente confusi. Ma comunque sì, li
ho messi
apposta, in caso ve lo steste chiedendo.
7)
"Ne abbiamo già
parlato, no, voi avete parlato."
Semicitazione
da
Supernatural, sesta stagione. L'argomento è tutto diverso, ma quello
scambio di
battute sortisce sempre il suo effetto, secondo me.
8)
"Se esci da
quella porta sei un Avenger"
La
distruzione della
broship tra Clint e Wanda. Sappiate che è una delle broship più forti
che ho e
se ho voluto demolirla in questo modo, tirando in ballo anche quella
ben nota
citazione da Age of Ultron e Pietro, è stato solo perché dovevo farlo.
Necessità di trama. Piango.
9)
*si asciuga le
lacrime* Il biglietto in "realtà modificata".
Anche
questa una
semicitazione, stavolta da Shadowhunters. Mi sono ispirata al modo che
usa
Clary, la protagonista, per rendersi conto di quando qualcuno ha
modificato
l'aspetto di qualcosa con la magia.
10)
Il Progetto
Terminator.
*sospira
di
soddisfazione* non vi dirò di cosa si tratta, ma posso anticiparvi che,
come
non è il primo progetto che incontrate in questa storia (vi ricordo il Quis custodiet di
qualche capitolo fa), non
sarà neanche l'ultimo ^^
Sì,
l'ho tirata un
po' per le lunghe, perché questo angolo
magico
vuole essere un commiato. Non è un addio, ovvio, è un arrivederci, ma
potrei
stare via molto, forse anche oltre la metà di settembre che vi avevo
detto. Ho
le idee abbastanza confuse sulla seconda parte (che s'intitolerà I
randagi, per
informazione), a essere sincera, e mi serve un po' di tempo per
chiarirmele e
buttare giù qualcosa. Non vorrei dover modificare i capitoli in corso
d'opera.
Ciò
che posso
lasciarvi, come saluto e a tenervi compagnia mentre non ci sono, è
proprio The
Hollow Men, di T.S. Eliot. Un'opera d'arte, come ho già detto, che
secondo me
merita di essere conosciuta.
Per
la prima volta, poi, voglio menzionare
Awakening_Games. La mia storia nacque il giorno che lessi il prologo di
quella
fic. Mentre la leggevo l'idea ha cominciato a prendere forma nella mia
mente.
Vorrei quindi tributarle (è proprio il caso di dirlo) i suoi meriti.
Infine
un grazie
sentito a tutti voi che mi avete seguito e mi seguite (e spero
continuerete a
farlo) nell'affrontare questa storia. Grazie a GreekComedy lei sa
perché e a
Pouring_Rain11 perché sì e a entrambe perché hanno recensito, grazie a
dany the
writer per lo sforzo che fa per seguire la storia nonostante non
conosca il
fandom. Grazie alle 6 persone che hanno messo la storia tra le
preferite e alle
10 che l'hanno messa tra le seguite e a tutti quelli che hanno
recensito o
anche solo letto almeno un capitolo da quando ho iniziato la fic. Spero
di
ritrovarvi tutti quando tornerò dalla pausa. Nel frattempo continuate a
seguirmi, scriverò su altri fandom senza dubbio!
Vi
saluto come
sempre invocando la protezione degli dèi su voi tutti,
-Magic
P.S:
Oddio quanta
malinconia, ora mi suicido -.-''
|
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Capitolo 16 *** La testa piena di menzogne ***
La testa piena di menzogne
Pubblicità Progresso - Campagna
No Profit
Mi chiamo Board. Key Board.
Ogni giorno rischio la mia sanità mentale, sopportando gli abusi dello
scrittore cui appartengo.
Ogni giorno dedico il mio pensiero a chi prima o poi verrà a salvarmi.
Potresti essere quella persona. Sì, proprio tu.
Con una recensione puoi fare molto per aiutare tutte noi.
Recensisci. Fallo per noi.
Parte
II - I randagi
La
testa piena di menzogne
Un luogo familiare
dove non sei mai stata,
uno spazio vuoto,
ma ti sembra troppo affollato,
tutto questo niente che ti circonda
e tu non sai metterci ordine.
Forse ci sono troppe storie nella tua testa
Vero e falso orbitano
intorno ai tuoi pensieri.
Se la verità fa male,
perché senti dolore quando lui mente?
Non sai se fidarti o fingere:
e se non fosse reale
quell’uomo che hai davanti?
Chiudi gli occhi e li riapri,
magari l’incubo scompare.
Decidi di accettare
un’inaccettabile irrealtà.
Pensi che ti aiuterà a capire
il mondo che sta dall’altra parte.
Ma forse ci sono troppe menzogne nella tua testa.
Aprì
gli occhi. Li richiuse immediatamente perché la luce era troppo forte.
Con le
palpebre serrate, cominciò a ragionare su quello stralcio di mondo che
aveva
potuto vedere. C’era qualcosa che non andava. La sua mente continuava a
ripeterglielo come se fosse stata l’unica cosa degna di nota. C’era
qualcosa
che non andava, ma l’immagine le era sfuggita dalla memoria perché
aveva tenuto
gli occhi aperti per troppo poco tempo e non riusciva a capire di cosa
si
trattasse. Aprì di nuovo gli occhi e riuscì a resistere alla luce
abbastanza da
cercare dove fosse il problema, poi li chiuse ancora.
Decisamente
c’era qualcosa di sbagliato. O meglio, non c’era niente. Ecco cos’era.
Era
circondata dal nulla più totale. Era difficile descrivere il nulla,
bisognava
procedere per negazioni: non aveva un colore, non aveva un odore, non
faceva
freddo né caldo. Era come essere avvolti nel cellofan, ma senza
sentirsi imprigionati.
In quel momento si rese conto che poteva muoversi liberamente. Portò le
mani a
proteggere gli occhi e riuscì finalmente a guardarsi intorno.
Non
era propriamente nulla, stabilì, perché aveva una consistenza: le
sembrava di
essere seduta su una nuvola, o meglio, come aveva sempre immaginato
dovesse
essere sedersi su una nuvola. Però continuava a non avere colore. Ci
mise
qualche minuto a rendersi conto di non essere sola. Si voltò lentamente
verso
l’uomo che stava in piedi alle sue spalle. Le sembrava di riconoscerlo,
ma non
avrebbe saputo dire chi fosse.
«Ti
sei svegliata, signorina Maximoff» disse l’uomo. Fu allora che Wanda
notò la
stella rossa sul suo braccio sinistro, completamente fatto di metallo.
«Il
Soldato d’Inverno» mormorò, con un misto di paura e riverenza nella
voce «Ho
sentito tanto parlare di te. Steve mi ha raccontato»
James
si concesse un lieve sorriso pensando che almeno Steve si era dato la
pena di
parlare ai suoi compagni di lui, anche se probabilmente non aveva
parlato di loro, poi riprese:
«Prima di tutto posso
assicurarti che non sono qui per farti del male e non ho nessuna
intenzione di
attaccarti. Voglio soltanto parlare»
«Sei
tu che mi hai portata qui?» chiese Wanda «Dove siamo?»
«Non
ne sono certo» rispose James «Ci troviamo nella tua mente in questo
momento, o
almeno così pare. Non ti so dire come ci siamo arrivati»
«Stai
mentendo» affermò Wanda, stupendosi di esserne così certa, e in quello
stesso
istante sentì una fitta alle tempie e si afferrò la testa tra le mani.
Il
dolore era così forte che dovette soffocare un gemito.
«Cosa?
E tu che ne sai?»
«Io…
Non lo so» la sua fronte pulsava veloce quasi quanto il suo cuore «Ho
solo
questa sensazione che… ci sia qualcosa di sbagliato»
James
si sorprese a preoccuparsi della sua salute: «Stai bene?»
Il
dolore diminuì in modo lento, ma costante: «Sì, credo. Sei stato tu a
mandarmi
quel messaggio?»
«Quale
messaggio?»
Wanda
ebbe di nuovo la sensazione che il Soldato d’Inverno stesse mentendo,
accompagnata da un altro dolore alla testa. Quella volta se
l’aspettava, però:
non lo fece notare a Barnes e poi lo mise alla prova: «Lo sai quale».
James
seppe immediatamente cosa fare: chinò appena la testa, fissando lo
sguardo sui
propri piedi, e mormorò un assenso che la strega sentì a malapena.
«Perché
hai voluto vedermi, parlarmi? Che cosa vuoi da me, Soldato d’Inverno?»
«Ecco…
Diversi mesi fa ho avuto una visione» più l’uomo parlava, più lei ne
vedeva i
contorni sfumati, come se fossero stati finti «Era qualcosa, anzi
qualcuno, che
non avrebbe dovuto essere lì, ma c’era e mi parlava» di nuovo quella
fitta alla
testa «Solo che non ascoltava le mie risposte, capisci?» forse il
dolore era in
qualche modo collegato con ciò che il Soldato d’Inverno stava dicendo?
«Era
come se non stesse parlando con me, ma con un altro me che non gli
rispondeva»
Forse
stava di nuovo mentendo e quel dolore era il modo che la sua mente
aveva di
dirglielo? In fondo, se Barnes non aveva mentito anche su quello, si
trovavano
nella sua mente, aveva un senso che lei riuscisse ad accorgersi se lui
stesse
dicendo il vero oppure no. Eppure, ciò che stava dicendo le sembrava
familiare.
Quando lei e Visione avevano visto quelle immagini che sembravano
proiezioni
olografiche, era andata esattamente così.
Decise
di interromperlo: «Mi nascondi qualcosa, non mi stai dicendo tutto» il
Soldato
d’Inverno la fissò, impassibile, ma lei era certa che stesse fingendo
anche
quello «Se vuoi che mi fidi di te, non puoi raccontarmi le cose solo a
metà. Ho
bisogno almeno di sapere di chi si trattava»
«No»
anche James si stupì di quanto secca fosse la risposta che aveva dato.
«Non
vuoi?» Wanda cercava di capire «Perché non vuoi? È qualcuno di
particolare? O
forse non ti fidi di me. Però mi hai portata qui, volevi parlare con
me, un
briciolo di fiducia devi averla»
«Non
lo so se mi fido di te» James scosse la testa, pensando che era troppo
tempo
che non si fidava davvero di nessuno «È che non sono certo che non sia
stata tu
a mandarmi quella visione»
Lo
stupore di Wanda era tanto genuino che James pensò che avrebbero potuto
finirla
lì. Era evidente che qualunque cosa fosse stata non era opera di quella
ragazzina che probabilmente non sarebbe neanche riuscita a uscire dalla
propria
mente, in quel momento.
«Io
avrei…?» la strega non riusciva a crederci «Perché avrei fatto una cosa
del
genere? E chi avrei fatto apparire poi? Ma perché a te? Ero a malapena
a
conoscenza della tua esistenza, di certo non avrei potuto trovarti
così»
schioccò le dita «dal nulla»
«Sei
l’unica che avrebbe potuto farlo» le rispose il Soldato d’Inverno «Era
lecito
che lo pensassi»
«Dammi
un secondo» disse lei «Ho bisogno di pensare»
James
non disse nulla e annuì, dicendosi che non poteva essere troppo
pericoloso
lasciarle qualche attimo per riflette. Dopotutto, aveva già detto ciò
che volevano
sapere. Si chiese perché Loki non l’avesse già lasciata andare.
Wanda
si sedette, prendendo la testa tra le mani. Per essere il nulla, pensò
distrattamente, era piuttosto comodo. Qualcosa non tornava. La testa
aveva
smesso di dolerle, che significava –a quanto aveva capito– che le
affermazioni
di Barnes corrispondevano al vero. Eppure, c’era qualcosa che non la
convinceva
a tutto ciò.
Decise
di fare mentalmente il punto della situazione, per ragionare
freddamente come
le avevano insegnato a fare in combattimento. Si trovava nella propria
mente.
Aveva modo di verificarlo? No, anche se in effetti aveva sempre pensato
che se
mai fosse entrata nella propria testa sarebbe stato molto più affollato
di quel
vuoto cosmico con l’eccezione di una persona che aveva ignorato per
tutta la
vita. Era plausibile che fosse vero? In un certo senso sì, quel luogo
le dava
alcuni poteri, come quello di scoprire se il Soldato d’Inverno
mentisse, che
potevano essere spiegati dicendo che nella propria mente accedeva a
delle capacità
che altrimenti le erano precluse.
Quindi,
concluse, il problema non si trovava lì. Di cos’altro poteva trattarsi?
Stabilì
di andare a ritroso. Partendo dal presente e andando all’indietro
avrebbe
dovuto per forza incontrare l’intoppo. Ripercorse la conversazione con
il
Soldato d’Inverno. Era vero, c’era qualcosa che stonava nelle frasi che
l’uomo
aveva pronunciato e la sensazione che avesse mentito rimaneva, ma non
era
quello che stava cercando.
Tornò
a quando si era risvegliata, ma una volta preso per vero che si trovava
nella
sua mente tutto il resto sembrava perfettamente logico. La luce
abbagliante, i
poteri, il niente che la circondava… no, non si trattava di niente di
tutto
ciò.
Cos’era
avvenuto prima che si risvegliasse? All’improvviso si rese conto che
era
abbastanza difficile ricostruirlo. Ricordava di essere andata a parlare
con i
civili insieme a Sam e Rhodey per avvertirli che potevano tornare nella
zona
senza correre rischi. Dopo… Ah, sì, era tornata a quell’albero dove
aveva
trovato il messaggio che le aveva dato appuntamento. Cosa diceva? “La
realtà
trema.”
Spalancò
gli occhi. Ecco cos’era! Come aveva potuto non pensarci?
«Non
mi stai dicendo tutto» disse con voce ferma, fissando James con quei
suoi occhi
verdi che gli ricordarono quelli di Loki. Erano di una sfumatura
leggermente
diversa, ma anche l’asgardiano aveva quello sguardo che sembrava
scavare
nell’animo delle persone.
«Che
cosa vuoi sapere?» chiese James.
«Magari
potresti cominciare dicendomi chi ha scritto il biglietto con cui mi
hai dato
appuntamento» rispose Wanda, concedendosi un sorriso nel vedere il
lampo di
preoccupazione attraversare il volto del Soldato d’Inverno.
«Cosa
intendi?» si riprese velocemente Barnes «Sono stato io a scriverlo»
«Sì»
concesse Wanda «Magari la grafia è la tua, ma, a meno che tu non sia un
incantatore in grado di alterare la realtà, dubito che saresti stato
capace di
trasformare la scritta in un’altra in modo che soltanto io potessi
leggere ciò
che c’era veramente scritto»
Barnes
chinò il capo, cercando qualcosa da rispondere mentre pensava che sia
lui sia
Loki avevano decisamente sottovalutato la ragazzina.
«Chi
ti manovra, Soldato d’Inverno?» Wanda era infuriata, era stata
ingannata,
rapita, le avevano mentito e avevano cercato di manipolarla. Ora tutto
ciò che
voleva erano risposte e un nome. E Barnes continuava a tacere.
Non
aveva osato farlo fino a quel momento perché non sapeva cosa sarebbe
potuto
succedere usando i suoi poteri all’interno di quella che a quanto
pareva era la
sua mente, ma decise che non le importava poi così tanto ed entrò nella
mente
del Soldato d’Inverno.
Si
sarebbe aspettata qualunque cosa, ma non di venire catapultata in un
luogo
identico a quello da cui proveniva. Per fortuna la consistenza
dell’ambiente
era rimasta simile a una nuvola e la sua caduta era stata attutita da
ciò che
la circondava. Rimase qualche attimo immobile, con gli occhi chiusi,
chiedendosi come avrebbe fatto a uscire da una mente altrui. Le faceva
male
tutto il corpo, aveva i muscoli completamente indolenziti.
Infine
si convinse ad aprire gli occhi, riparandoli con la mano dalla luce
bianca
ancora troppo intensa. Si guardò intorno e notò immediatamente una
figura in
lontananza, seduta, con i gomiti poggiati sulle ginocchia e le mani
intrecciate
sotto il mento. Le dava le spalle, ma era probabile che l’avesse
comunque vista
arrivare. Wanda escluse quasi subito che si trattasse del Soldato
d’Inverno,
così stabilì di avvicinarsi cautamente per capire chi fosse.
La
figura si voltò verso di lei quando ormai era distante un paio di metri
e la
fissò negli occhi. Wanda trattenne il fiato quando vide quell’uomo in
viso. Non
poteva essere lui. Non poteva essere vivo. Non doveva esserlo.
Cercò
con tutte le proprie forze di togliere il velo di magia che copriva
l’immagine
davanti ai suoi occhi, convinta che fosse un’altra illusione, ma per
quanto
provasse quel volto non mutava. Fece alcuni respiri profondi, convinta
che
bastasse calmarsi per accorgersi che la persona che le stava davanti
non era
veramente chi sembrava.
Chiuse
gli occhi. Rievocò nella propria memoria Thor che le raccontava della
guerra
che aveva portato al recupero dell’Aether. E della morte di suo
fratello. Wanda
non aveva dubbi. Thor le aveva detto che Loki era morto, lei aveva
percepito il
suo dolore. Non era possibile che quello davanti a lei fosse il Signore
degli
Inganni.
«Niente
di tutto questo è reale» bisbigliò a se stessa la strega, coprendosi
gli occhi
con le mani «È evidente anche da questo posto. Non può essere»
Sentì
un tocco freddo sulle mani che la fece sobbalzare. Delle dita delicate
spostarono le sue mani da davanti agli occhi che lei aveva spalancato
per la
sorpresa. Si trovò a fissare da vicino il verde dello sguardo di Loki
che la
studiava con curiosità. Per un attimo si chiese se non fosse uno
specchio che
rifletteva i suoi occhi.
Aprì
la bocca per dire qualcosa, ma nessun suono ne uscì. Loki aveva
continuato a
tenere le sue mani tra le punte delle dita, come un delicato origami
appena
completato, ma la strega se ne accorse soltanto quando egli le lasciò
andare.
Le braccia di Wanda ricaddero ai lati del suo corpo come gli arti di un
burattino a cui fossero stati tagliati i fili.
I
secondi trascorrevano scanditi solo dai loro respiri che non
producevano alcun
rumore. Loki fissava la giovane donna che rimaneva immobile come una
statua di
cera. Il ricordo del calore delle mani di lei si faceva sempre più
lontano e
l’asgardiano avrebbe quasi voluto sfiorarle il volto con un dito per
controllare se fosse fatto di carne o no, ma temeva di spaventarla.
Era
affascinato: le lievi venature rosse che si erano disegnate negli occhi
di
Wanda dopo che ella aveva utilizzato i propri poteri stavano lentamente
svanendo e il verde tornava a riempire completamente le sue iridi.
C’era un
potere incredibile in lei, pensò Loki, eppure lei non sembrava esserne
cosciente.
A
Wanda sembrò che il tempo si fosse fermato. Stava respirando, ne era
certa, ma
quell’ambiente surreale assorbiva qualunque rumore. Il cuore le batteva
così
forte che avrebbe dovuto sentirlo rimbombare nelle orecchie, invece
c’era solo
silenzio. Aveva paura. Aveva paura di quell’uomo che sarebbe dovuto
essere
morto. Aveva paura di quel luogo assurdo. Aveva paura del potere che
sentiva
scalpitare dentro di sé, impaziente di prendere il controllo di quella
situazione che si sentiva sfuggire tra le dita. Ma più di tutto aveva
paura di
quel silenzio irreale.
«Io
sono reale» disse Loki, la voce ridotta a un sussurro. Wanda gli fu
quasi grata
di aver rotto quella quiete angosciante.
Inconsciamente
sentiva che ciò che il Fabbro di Menzogne aveva appena detto doveva
essere
vero. Aveva sentito il suo tocco sulla pelle. Vedeva il verde
sfavillante degli
occhi dell’uomo di fronte a lei e si diceva che non poteva non essere
reale.
Eppure
la sua mente si rifiutava di accettarlo. Sentiva una voce, in fondo,
che le
diceva che se Pietro poteva essere vivo non c’era alcun motivo per cui
Loki non
lo sarebbe dovuto essere, ma semplicemente non riusciva a pensarlo. Era
sbagliato. Non poteva succedere, non doveva
succedere.
«Tu
sei… morto» rispose infine, appena prima che il silenzio la soffocasse
del
tutto.
«Non
ci credi davvero» disse Loki, concedendosi un piccolo sorriso.
«E
tu
che ne sai di cosa penso?»
«So
che ti trema la voce» rispose il Signore degli Inganni, senza smettere
di
sorridere «So che nei tuoi occhi è tornata quella venatura rossa di
quando
lasci liberi i tuoi poteri perché stai cercando di entrare nella mia
mente. Ma
non ci riuscirai. So che stai pensando a tuo fratello»
«Smettila»
disse Wanda.
«Di
fare cosa?» gli occhi di Loki lampeggiavano di divertimento «Di
bloccare la tua
mente? Vuoi davvero sapere cosa penso? Basta chiedere, te lo dico io:
penso che
non siamo così diversi come credi tu»
«Non
è
vero»
«C’è
una persona che ha perso suo fratello e potrebbe non rivederlo mai più»
iniziò
a raccontare lui «Che si è vista crollare addosso il mondo che
conosceva dopo
che ha scoperto di non essere chi credeva. Poi ha trovato qualcuno che
le
stesse vicino e la aiutasse a risollevarsi dopo questa caduta. Ha
imparato che
ci si fa più male cadendo da più in alto e sta cercando di evitare di
sollevarsi troppo da terra»
«E…?»
domandò Wanda.
«E
poi
ci sei tu, che sei esattamente uguale»
«Parlavi…»
la strega si interruppe a metà della frase e poi comprese «Stavi
parlando di
te»
«Suona
familiare, però, vero?»
«Io
non sono come te» affermò Wanda, impedendo alla propria voce di tremare
«Io non
ho mai voluto conquistare la terra per mio divertimento»
«Ma
hai desiderato di uccidere» la interruppe lui «Sei arrivata a un soffio
dal
permettere che un robot impazzito sterminasse la specie umana»
«Non
vivo di inganni» continuò la giovane mentre ignorare le parole del
Signore
degli Inganni diventava sempre più difficile «Non costruisco ad arte le
menzogne come invece fai tu. Io proteggo la Terra da gente come te. Non
posso
essere così. Io non…» fece un gesto che comprendeva tutto il nulla che
li
circondava «Io non rapisco le persone per portarle in un luogo che non
esiste
senza un valido motivo. Il rapimento, la tortura, l’assassinio… io non
sono
così»
«E
gli
Avengers?» domandò Loki «Loro sono così?»
«Sai
che non lo sono» rispose Wanda a voce bassa.
«No»
la contraddisse l’asgardiano «Tu credi che non lo siano. Sai quante
persone
sopravvissute all’ultima missione dei Vendicatori? Non credo, sei
andata via
troppo presto. Trentasette. Su oltre duecento. E quindici di loro sono
morti
successivamente in ospedale. Dei ventidue rimasti, due si trovano
all’Avengers
Facility in questo preciso istante. E sono convinto che darebbero
qualunque cosa
per essere da un’altra parte, a giudicare dalle loro urla»
«Stai
mentendo. Gli Avengers non farebbero mai una cosa simile»
«Allora
forse non stiamo parlando delle stesse persone. Tu sei certa al cento
per cento
che la tortura sia fuori dalla loro mentalità? Perché io ho
informazioni
diverse»
Wanda
strinse gli occhi: «Non hai nessuna informazione. Sono solo menzogne»
«Se
lo
sono davvero e tu ne sei convinta, perché le mie parole ti turbano
tanto? Forse
anche tu credi che potrebbero arrivare a fare una cosa del genere?»
«Basta!»
urlò Wanda, stendendo il braccio verso di lui. Dalle sue dita nacque
una
scarica rossa che avrebbe colpito Loki al cuore, se non si fosse
bloccata a
mezz’aria per poi svanire. La strega si guardò la mano, perplessa.
«James
non ha voluto che tu mi colpissi» rispose Loki alla sua domanda
inespressa
«Anche tu avresti potuto fare cose del genere nella tua mente, lo sai?»
James.
Ci mise un attimo a capire che parlava del Soldato d’Inverno. Quei due
erano
d’accordo? Wanda non sapeva più cosa pensare, cosa fare. Si lasciò
cadere
all’indietro, sperando di battere la testa e addormentarsi, o forse
svegliarsi,
ma una forza la trattenne e la costrinse a sedersi lentamente.
«Che
cosa vuoi da me?» chiese infine, esasperata da quella situazione di cui
cominciava a sfuggirle l’intero senso.
«Una
promessa»
«Che
cosa vuoi da me?»
«Che
tu non dica a nessuno dell’incontro che hai avuto con me e con James»
«E
perché dovrei farlo?»
«Perché
neanche tu credi che i Vendicatori siano del tutto estranei a quello
che ti ho
descritto prima. Se dirai loro che ci hai visti, loro ci troveranno. Se
fermeranno la nostra ricerca, tutto il mondo potrebbe essere in
pericolo»
«E
perché dovrei crederti?»
«Non
devi. Non ce n’è bisogno. Mi basta che tu prometta»
Wanda
si attorcigliò una ciocca tra le dita, sovrappensiero, riflettendo su
quanto
era appena successo. Infine parlò: «Voglio una cosa, però»
«Cosa?»
«Risposte.
La realtà trema»
Loki
sorrise: «Ah, già»
«Perché
proprio quella frase?» cominciò a chiedere Wanda «E come potevi sapere
che mi
avrebbe attirata da te? Che cosa sai sulla realtà? L’hai sentita
tremare?»
«Calma,
calma» Loki si sentiva soddisfatto, ma non sapeva neanche lui perché
«Pensavo
avessi mandato tu quella visione, come ti ha detto James. Se fosse
stata colpa
tua, di certo l’avresti fatto per un motivo e mettermi in contatto con
te era
l’unico modo per scoprirlo. Il biglietto leggibile soltanto con la
magia mi
assicurava che avrei attirato la tua attenzione, ma non quella degli
altri. E
sì, ho sentito tremare la realtà. Io e James stiamo lavorando per
capire che
cosa stia succedendo. Potrei avere bisogno del tuo aiuto, un giorno. Tu
ci
aiuteresti?»
«Forse.
Ci sono troppe possibilità diverse. Se sarà la cosa giusta da fare»
«Anche
se potrebbe voler dire combattere contro i tuoi amici?»
Wanda
si prese la testa tra le mani: «Non posso dirti di sì senza riserve,
perché
starei mentendo. Farei il possibile»
Loki
sorrise: «Il tuo possibile è l’impossibile del resto del mondo. Il
possibile mi
basta. Puoi andare. James?»
Come
rispondendo a quella chiamata, una forza invisibile risucchiò Wanda
verso
l’alto. Lei cercò di opporsi, ma con i propri poteri riuscì soltanto a
rallentare il movimento. Si stava muovendo attraverso la mente del
Soldato
d’Inverno. Ciò che vide non le piacque, ma non poteva fare nulla per
impedirsi
di guardare.
Sentì
James urlare e non riuscì a capire se il suono venisse dal luogo che
stava
lasciando o dalla realtà in cui stava tornando. Vide stralci di
ricordi, scene
che non pensava potessero rimanere nella memoria di un uomo senza farlo
impazzire. Poi vide scene di quotidianità, di una vita normale che
doveva far
male per quanto era distante, di una vita con Steve. E capì. Capì, ma
non disse
nulla, perché non ci sarebbe stato nessuno ad ascoltarla.
Alla
fine ritornò nel proprio corpo. Le faceva male ogni singolo muscolo del
corpo,
compresi il cuore e la lingua. Era seduta su una sedia e per terra
c’erano i
resti di corde che a quanto pareva l’avevano tenuta ferma. Doveva
essersi
divincolata parecchio, perché sui suoi polsi risaltavano dei segni
rossi.
Di
fronte a lei, seduto a un tavolo, il Soldato d’Inverno si premeva la
testa con
le mani. I capelli gli ricadevano davanti al viso e Wanda non poteva
vederlo,
ma lo sentì singhiozzare e pensò che per lui quel viaggio doveva essere
stato
ancora più doloroso che per lei. Poggiata davanti a lei c’era una
bottiglietta
d’acqua. La vuotò in pochi sorsi e la rimise dov’era. Nonostante avesse
placato
la sete, sentiva ancora la bocca asciutta. Forse era più dovuto al non
sapere
cosa dire che all’arsura.
Si
alzò in piedi e si diresse verso l’unica uscita. Vide Loki venirle
incontro. Si
sentiva stanchissima e non aveva più voglia di parlare, ma fece uno
sforzo:
«Avevi detto che potevo andare»
«Sei
libera, infatti» rispose Loki. Wanda sentì le gambe cedere e si
aggrappò a lui
per rimanere in piedi «Ma così non andrai da nessuna parte»
La
strega annuì.
«Ti
conviene riposare, prima» Wanda annuì ancora e si lasciò portare a un
sacco a
pelo steso sul pavimento.
Si
addormentò immediatamente, appena dopo aver sperato con tutta se stessa
di non
sognare ciò che aveva visto nella mente del Soldato d’Inverno.
Loki
non rimase a guardarla e andò via subito. James aveva bisogno di lui.
The Magic
Corner:
Ciao
a tutt*!
Ebbene sì, sono ancora viva e sono tornata qui a deliziarvi/tormentarvi
(spero più la prima).
Ne è passato di tempo, eh? Spero che abbiate avuto modo di riprendervi
dal capitolo scorso, io ci ho messo un po'. (Sì, sto abilmente evitando
di ricordare che avevo detto metà settembre e invece siamo a gennaio)
In questi quattro mesi, però, mi sono tenuta attiva. Prima di tutto mi
sono schiarita un po' le idee riguardo a cosa voglio fare di questa
storia e dove voglio andare a parare (che aiuterebbe anche, visto che
siamo ormai al capitolo sedicesimo), anche se non sono ancora certa di
tutti i dettagli al 100%. Poi, proprio mentre eravate distratti, ho
creato un account su AO3 (mi chiamo LizzyPavlova, se volete cercarmi) e
Instagram (sempre lizzypavlova), in caso vi interessasse.
Spendo giusto due parole sul capitolo che avete letto e poi vi lascio
in pace :)
Come mi ha giustamente fatto notare quell'angelo di GreekComedy, c'è un
enorme hint della FrostWitch (che sarebbe Loki/Wanda) in questo
capitolo. Devo ammettere che è assolutamente intenzionale, soprattutto
il momento in cui lui le toglie le mani da davanti agli occhi. Cioé,
non è che mi sia messa lì a dire "ora metto una scena FrostWitch", è
che ci stava così bene e poi loro sono dei cuccioli assurdi... Insomma,
comprendetemi.
Non parlerò delle insinuazioni di Loki riguardo agli eventi
immediatamente successivi al capitolo scorso (ci terrei solo a
ricordarvi che, nonostante i quattro mesi di differenza nella
pubblicazione, i due capitoli sono cronologicamente attaccati), perché
ne saprete di più nei capitoli a venire.
E... credo di aver finito!
Per quanto riguarda la pubblicazione dei prossimi capitoli, spero di
riuscire a mantenere un ritmo mensile, ma non posso darvi garanzie in
proposito, purtroppo. Almeno su febbraio dovrei farcela, perché il
prossimo capitolo è oltre la metà, però il resto è nebbia.
Ok, ora la devo proprio smettere. Un giro veloce di ringraziamenti e mi
estinguo.
Un grazie enorme a Pouring_Rain11 per le sue belle recensioni Nonsense
e perché si commuove e perché mi stalkera e... Vabbè, ho reso l'idea.
Un grazie almeno altrettanto gigantesco a quella svitata di GreekComedy
che sono quattro mesi che mi ripete che deve recensirmi il capitolo
quindici anche se mi ha già detto cosa ne pensa per cui non ce ne
sarebbe davvero bisogno. Odio minimizzare il suo contributo a questa
storia, ma ho sempre troppo poco spazio per spiegarlo. A buon
intenditor poche parole ;) infine grazie a quei sedici che hanno messo
la storia tra le preferite/seguite (sempre che si ricordino della mia
storia dopo questo letargo) e a tutt* voi che avete letto!
Per finire, come sempre, un piccolo promemoria per dirvi che recensire
è assolutamente gratuito, ma anche solo un MP mi fa piacere, e ci si
vede presto!
Che gli dèi siano con voi!
-Magic
|
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Capitolo 17 *** Sommesse e senza senso ***
Sommesse e senza senso
Pubblicità
Progresso - Campagna No Profit
Sono
una tastiera.
Il
mio proprietario è uno scrittore incapace. Da anni cerca di scrivere
qualcosa di decente, ma non ne ha il talento.
Scrivo
questo messaggio di aiuto e lo rivolgo a voi lettori.
Potete
fare qualcosa, potete incoraggiare scrittori diversi, scrittori capaci.
Potete
dire al mio proprietario che non ha un briciolo di talento.
Potete
scrivere una recensione.
Voi
potete, dovete fare qualcosa. Aiutatemi.
Sommesse e senza senso
Una voce nel buio
Dove sei
Chi sei
Parli la mia lingua
Credo
Parole senza senso
Voce fredda
Richiesta di aiuto
Credo
Una voce nella luce
Suoni confusi
Sono parole
Sono per me
Forse
Cosa dici
Voce sommessa
Offri aiuto
Forse
Dolore
Dolore
Dolore
Sei tu?
Sono io
Fa
male
Si
trattava certamente di un incubo. Helena aveva imparato a riconoscere
quei
minimi segni che potevano darle indizi su come stesse il suo paziente.
Con gli
altri era più facile: se non riuscivano a dormire bene si svegliavano,
se
avevano male da qualche parte glielo dicevano. Lineare. Con Pietro,
invece, si
trattava di indovinare, di studiare le reazioni che il suo corpo aveva
a quel
disastro che stava succedendo nella sua testa. A volte sembrava
addirittura più
semplice che con gli altri – di certo non poteva mentirle – ma bastava
una piccola
differenza nella contrazione di un muscolo per mostrarle uno stato
d’animo
completamente diverso e a volte sembrava impossibile cogliere questi
cambiamenti.
Il
respiro del ragazzo era affrettato come se avesse appena finito una
corsa alla
velocità della luce, pensò Helena, per poi ricordare a se stessa che in
effetti
il giovane non ne sarebbe stato neanche affaticato. Avrebbe giurato che
le
labbra di Pietro fossero serrate più strette dell’ultima volta che
l’aveva
visto. Come era possibile? K non aveva previsto nulla di simile. Ancora
non
riusciva a capacitarsi di quei minuscoli movimenti che il ragazzo
riusciva a compiere
nonostante in teoria fosse paralizzato.
Gli
accarezzò il viso. Helena aveva sempre le mani fredde, era vero, ma era
la fronte
di Pietro a scottare, ne era certa. Lo vide spalancare gli occhi mentre
prendeva fiato come qualcuno appena emerso da sott’acqua. Si accorse di
aver
stretto i denti per la tensione soltanto mentre rilassava i muscoli
della
faccia. L’azzurro degli occhi del ragazzo quasi non si vedeva da quanto
erano
dilatate le sue pupille.
C’era
molta luce. Troppa luce. Com’era possibile? Aveva smesso di essere
abbagliato
dal bianco appostato al di fuori delle sue palpebre settimane prima. O
forse
soltanto ore – chi lo sa – il tempo non aveva poi molto significato in
quella
specie di limbo in cui si trovava. Nei suoi sogni erano trascorsi solo
pochi
attimi, ma gli erano sembrati un’eternità. E Wanda… Come stava Wanda?
Aveva
sentito il suo dolore, ma forse era stato solo un sogno.
C’era
troppa luce. Voleva chiudere gli
occhi,
ma allo stesso tempo aprirli gli era costato uno sforzo tale che non
voleva
rinunciarvi. E se fosse ripiombato in quell’incubo da cui era sfuggito
a
malapena? Meglio convincersi di aver sognato si disse. Non poteva
credere che
sua sorella avesse sofferto tanto.
A
poco
a poco, sentì le pupille restringersi dolorosamente come succede agli
occhi
chiari esposti troppo all’improvviso alla luce e riuscì a distinguere
ciò che
lo circondava. Era sempre quella camera, era sempre quel soffitto. Però
c’era
una voce e quella voce stava dicendo qualcosa. O meglio, probabilmente
lo stava
facendo, perché tutto ciò che Pietro sentiva erano suoni confusi.
Perché, perché non riusciva a
distinguere le
parole?
Helena
sapeva che la sua voce doveva far risuonare il sollievo che provava. «Ciao,
Pietro» disse «Mi chiamo Helena Mazur. Sono
il medico che si sta prendendo cura di te. So che non ti puoi muovere e
non
riesci a parlare, ma possiamo comunque comunicare. Se vuoi dire di sì
puoi
chiudere gli occhi e poi riaprirli. Se vuoi farmi una domanda batti due
volte
le palpebre. Se vuoi dire di no oppure non mi riesci a capire, resta
fermo.
D’accordo?»
Il
ragazzo rimase immobile. Maledettamente immobile. I secondi scorrevano,
Helena
poteva sentirli ticchettare anche se nella stanza non c’erano orologi.
Non
sapeva cosa fare, non era mai successo in precedenza che lui non le
rispondesse. Cosa doveva fare?
Cosa faccio adesso?
Si
impose di calmarsi, di smettere di trattenere il respiro. Non si era
nemmeno
accorta di starlo facendo. Fece un respiro profondo, poi un altro.
Chiuse gli
occhi e visualizzò il volto di K. Non sapeva come fosse possibile, ma
la sua
amica riusciva sempre a calmarla, anche quando non c’era. Riaprì gli
occhi e
riportò lo sguardo sul paziente.
Pietro
la stava guardando. Ci mise un attimo a rendersi conto di cosa questo
volesse
dire. Pietro la stava guardando.
Era
la prima volta che gli occhi di lui non erano fissi sul soffitto. Pietro la stava guardando. Pietro aveva
mosso gli occhi. Il suo cervello quasi non riusciva a pensarlo. Voleva
piangere
per la felicità. Sorrise al giovane paziente, che sembrava spaventato.
«Ciao,
Pietro» ripeté allora, scandendo lentamente
le parole «Mi chiamo Helena Mazur. Sono il medico che si sta prendendo
cura di
te. So che non ti puoi muovere e non riesci a parlare, ma possiamo
comunque
comunicare. Se vuoi dire di sì puoi chiudere gli occhi e poi riaprirli.
Se vuoi
farmi una domanda batti due volte le palpebre. Se vuoi dire di no
oppure non mi
riesci a capire, resta fermo. D’accordo?»
Il
ragazzo chiuse e riaprì gli occhi, tornando a guardarla. Helena era
felice.
Sentì la morsa attorno al suo stomaco allentarsi poco a poco.
«Ti
ricordi delle altre volte che abbiamo parlato?»
Pietro
rifletté. Si ricordava… si ricordava qualcosa, si ricordava una donna.
Sapeva
di aver pensato che fosse sua madre, mentre probabilmente era proprio
quella
donna che in quel momento sedeva di fianco al suo letto. Ed era certo
che ci
fosse dell’altro. Forse qualcun
altro. Sì, ecco, una persona che non aveva voluto vedere ma si trovava
là per
fargli visita. Non era Wanda.
-Sì-
rispose infine.
La
donna sorrise e gli accarezzò di nuovo il viso, con delicatezza. Era un
contatto piacevole, fresco e leggero. Le sue mani odoravano di buono,
di quella
menta piperita che mettono nei profumi in modo che sia leggermente meno
intensa
di quella glaciale e non faccia venire in mente il dentifricio al solo
annusarla. Pietro inspirò profondamente per riempirsi i polmoni e la
memoria di
quel profumo.
«Molto
bene» annuì Helena, notando che il ragazzo sembrava avere il controllo
del
proprio respiro «Ora vorrei provare a chiederti di descrivere che cosa
senti,
pensi di poterlo fare?»
Ci
fu
una breve pausa. -Sì-
Helena
si chinò a raccogliere la borsa che aveva lasciato per terra ed
estrasse una
penna e il quaderno su cui aveva precedentemente preso alcuni appunti.
«Bene,
ti farò delle domande, oggi affronteremo soltanto le prime dieci.
Sentiti
libero di fermarti quando vuoi, basterà smettere di rispondere. In
questo caso
facciamo un battito per dire sì, due per dire no. D’accordo?»
-Sì-
«Perfetto.
Prima domanda: escludendo il gusto, che naturalmente non possiamo
esaminare, ti
sembra di ricevere percezioni da tutti i sensi?»
-Sì-
Helena
disegnò una piccola V sul foglio e lesse la riga successiva: «Seconda
domanda:
ti sembra di vedere allo stesso modo con l’occhio destro e il sinistro?»
-Sì-
La
dottoressa annuì: «Ed è la stessa cosa anche per le orecchie?»
-Sì-
«Ok,
questa potrebbe essere un po’ più complicata. Parliamo di miele. Te lo
spalmo
sulle labbra tutti i giorni prima di andare via da questa stanza.
Quando torno
la mattina dopo è sparito. Ti accorgi di quando lo spalmo?»
-No-
Helena
scrisse una crocetta di fianco alla quarta domanda. «E sei cosciente
quando lo
mangi?»
-No-
«Ti
è
mai capitato di sentire in bocca il sapore del miele quando ti svegli?»
-Sì-
«Spesso?»
-Sì-
«Sempre?»
-Sì-
«Anche
stamattina?»
Pietro
ci pensò un attimo. Ricordava di essersi svegliato con il sapore acido
degli
incubi in bocca. Era certo di aver sentito la gola asciutta. C’era
anche il
miele? Non ne era sicuro. Batté tre volte le palpebre.
«Vorrebbe
dire che non lo sai?»
-Sì-
«Non
importa» sorrise Helena «Andiamo avanti con la settima domanda: ricordi
quello
che sogni, di solito?»
La
risposta affermativa fu più rapida delle altre. Eccome se lo ricordava,
pensò
Pietro mentre batteva le palpebre. Era più facile ricostruire quello
rispetto a
ciò che gli succedeva quando era sveglio. Certo, avrebbe di gran lunga
preferito il contrario.
«Bene.
Ottava domanda: sai chi è Wanda?»
Se
Pietro avesse potuto, avrebbe riso. Che domanda stupida, certo che
sapeva chi
era sua sorella, pensavano che avrebbe potuto dimenticarla? Poi ci
pensò: era
stato in coma per chissà quanto tempo, forse era anche stato morto per
degli
attimi che naturalmente aveva cancellato. Avrebbe potuto benissimo
eliminare
l’immagine di Wanda dalla propria memoria. Per fortuna non l’aveva
fatto: -Sì-
«Questa
sì che è un’ottima notizia» commentò Helena mentre prendeva nota. Per
un
secondo, Pietro si chiese se fosse sarcastica, ma poi si rese conto che
era
davvero soddisfatta «Le ultime due domande e poi ti lascio in pace: hai
mai
sognato tua sorella?»
Come
no, in continuazione: -Sì-
«Per
finire:
ti ricordi il mio nome?»
Pietro
ci pensò. Scavò nella propria memoria e seppe con certezza che quando
si era
presentata la dottoressa aveva detto il proprio nome. Soltanto che non
riusciva
in alcun modo a riportarlo alla mente. Gli dispiaceva di non
ricordarselo:
quella dottoressa gli stava simpatica. Riusciva a non trattarlo come
una cavia
di laboratorio, o un bambino, o qualcuno in punto di morte e allo
stesso tempo
prendersi cura di lui come se fosse stato tutte e tre quelle cose
insieme.
Eppure non aveva la minima idea di quale fosse il suo nome.
-No-
fu costretto ad ammettere.
«Non
è
grave» rispose la dottoressa. Pietro si chiese come facesse quella
donna a
sorridere sempre «Mi chiamo Helena, comunque. Per oggi posso smettere
di
torturarti. Vuoi che ti legga qualcosa?»
-Sì-
“Grazie” aggiunse mentalmente il ragazzo.
«Le
fiabe vanno bene?»
-Sì-
Pietro
ci mise più tempo del solito ad addormentarsi. Forse, pensò Helena, con
quelle
domande aveva svegliato il suo cervello tanto da renderne più difficile
lo
spegnimento. Quando finalmente lo sentì respirare con un ritmo più
lento e
regolare e vide che aveva gli occhi chiusi, mise via il libro, spalmò
il miele
e andò via.
«Buonanotte,
smemorato» disse, mentre spegneva la luce. Era troppo distante dal
paziente per
dire con certezza se avesse davvero sorriso o se lo fosse immaginata.
Al
colonnello Fury non piacevano i medici. Non ce l’aveva con la categoria
di per
sé – in fondo non gli aveva fatto niente di male – bensì con tutti i
suoi
esponenti che aveva incontrato negli anni. Dopo una serie di esperienze
negative, era difficile non guardare male quella fauna color celeste
pastello
che affollava la stanza dove si trovava.
Era
nella sala in cui infermieri, inservienti e medici potevano rilassarsi
durante
la loro ora di pausa o prendere un veloce caffè, niente che non avesse
già
visto avvenire in centinaia di contesti diversi. Lo facevano anche allo
SHIELD,
ricordò a se stesso. Eppure non riusciva a reprimere una sensazione che
per
orgoglio non avrebbe mai definito disagio, anche se ci somigliava
molto. Forse
era l’idea che tutte quelle persone lavorassero con la vita degli
altri, si
disse. Lo facevano anche allo SHIELD, ricordò invano
a se stesso. Non
importava quanto i due personali si somigliassero: quella moltitudine
celeste
non riusciva a piacergli.
Qualunque
ne fosse il motivo, il sollievo di veder comparire la dottoressa Mazur
oltre la
porta a vetri fu enorme e Fury le rivolse un sorriso. In fondo, l’aveva
salvato
da quella folla di professionisti insopportabili e, soprattutto,
indossava
abiti di un colore normale.
«Novità?»
le chiese. Lei annuì, ma non sembrava molto disposta a parlarne davanti
ai suoi
colleghi. Lanciò in giro un paio di occhiate nervose, salutò due
infermieri
agitando la mano e poi gli fece segno di seguirla. Fury le fu
incredibilmente
grato: il suo occhio era salvo da quello stupro cromatico.
Quando
finalmente furono nell’ufficio di lei, la vide rilassarsi.
«Mi
scusi se non le ho voluto parlare prima, colonnello» disse, facendolo
accomodare «C’era troppa gente e poi quei camici celesti mi fanno
davvero
venire il mal di testa»
Fury
annuì, con un sorriso: «La capisco perfettamente. Cosa è successo,
allora?»
Helena
sospirò, dando una veloce occhiata ai propri appunti, come per
confermare alla
propria memoria che aveva tutto quanto sotto controllo.
«Vorrei
dire che non riesco a spiegarmelo, ma mi sembrerebbe di non aggiungere
niente
di nuovo. Pietro sembra aver subìto uno shock e non so a cosa potrebbe
essere
dovuto. Stamattina ci ha messo più tempo del solito a svegliarsi e
aveva il
sonno agitato. Quando ha finalmente aperto gli occhi aveva le pupille
così
dilatate che quasi non si vedeva l’iride. Probabilmente stava facendo
degli
incubi. Il lato positivo è che per la prima volta da quando ha aperto
gli occhi
glieli ho anche visti muovere. Mi ha guardata in viso e ha risposto a
una serie
di domande su come si sentiva. La sua memoria a breve termine sembra
avere
qualche problema, ma per il resto si ricorda tutto. Domani, se lei è
d’accordo,
vorrei provare di nuovo a chiedergli se voglia vederla oppure no»
Fury
rimase per qualche tempo in silenzio, come riflettendo su tutto ciò che
lei gli
aveva detto. Per riempire quell’inattività, la dottoressa si versò una
tazza di
caffè e gliene offrì un’altra che lui rifiutò con un gesto della mano.
«Questi
incubi» disse infine il colonnello «È riuscita a capire di cosa si
trattasse?»
Helena
scosse la testa mentre deglutiva un sorso di caffè, poi poggiò la tazza
sulla
scrivania: «Di solito cerco di evitare di parlare di ciò che i pazienti
vedono
quando sono incoscienti. È stato verificato che nella maggior parte dei
casi
simili a questo le persone tendono ad avere difficoltà a distinguere
tra il
sogno e la realtà e di norma si consiglia ai medici di evitare di
mescolarli
facendo raccontare ai pazienti ciò che sognano. Certo, questo caso è
unico,
quindi magari prima o poi ci proverò, ma per ora preferisco di no»
«Capisco.
E… Potrebbe essere opera di Wanda?»
La
dottoressa si strinse nelle spalle: «E chi lo sa? Non ho modo di
entrare in
contatto con lei per sapere se l’abbia fatto volontariamente e in ogni
caso non
bisogna escludere che possa avvenire contro la sua volontà e magari
anche senza
che lei se ne accorga»
«Quindi
potrebbe essere?» insistette Fury.
«Non
conosco perfettamente i poteri di Wanda, ma neanche lei stessa
d’altronde, però
per quanto ne so potrebbe essere, sì»
«Mi
tenga aggiornato comunque» disse il colonnello per congedarsi, mentre
si
alzava.
«Naturalmente.
Ah, colonnello» Fury si voltò sulla soglia «Non vorrei impicciarmi dei
suoi
affari, ma la sera scorsa ha lasciato il computer acceso e mentre
tornavo nel
mio ufficio ci sono passata davanti. C’era un documento aperto e la
notifica di
una e-mail, non ho letto oltre. Volevo soltanto consigliarle di non
lasciarlo
così, incustodito. Il resto del personale non conosce la sua identità,
è vero, ma…
non credo che lei voglia rivelarla»
Fury
fece una smorfia come per dire che era d’accordo: «Non si preoccupi,
non
capirebbero comunque nulla» poi si allontanò a larghi passi nel
corridoio.
Helena si era seduta alla scrivania e aveva appena aperto uno dei
fascicoli dei
suoi pazienti, quando lo vide apparire di nuovo alla porta.
«Una
e-mail, ha detto?» chiese lui.
La
dottoressa annuì e Fury si dileguò, senza aggiungere altro.
Pietro
fu svegliato da un tocco delicato sul viso e aprì gli occhi lentamente.
Era
meglio così – notò – piuttosto che spalancarli come aveva fatto il
giorno
prima.
«Ciao,
Pietro. Mi chiamo Helena Mazur. Sono il
medico che si sta prendendo cura di te. So che non ti puoi muovere e
non riesci
a parlare, ma possiamo comunque comunicare. Se vuoi dire di sì puoi
chiudere
gli occhi e poi riaprirli. Se vuoi farmi una domanda batti due volte le
palpebre. Se vuoi dire di no oppure non mi riesci a capire, resta
fermo.
D’accordo?»
Mentre
batteva le palpebre, il ragazzo si chiese se
fosse possibile sentire in bocca il sapore di miele, ma avere le narici
invase
dal profumo di menta piperita.
Colonnello,
So
che si
aspetta da questa e-mail una spiegazione. Ho passato diverse ore seduto
davanti
al computer alla ricerca di qualcosa da dirle, ma purtroppo tutto ciò
che so è
che io stesso non riesco a spiegarmi cosa stia succedendo.
Fino
a
pochi giorni fa si trattava soltanto di noncuranza, come se alla
squadra non
importasse più di quanti civili rimanevano coinvolti negli scontri, ma
nell’ultima missione qualcosa è cambiato.
Hanno
lottato, glielo giuro, per uccidere. Non per difendersi, non per
ottenere informazioni,
ma per vendicare e uccidere. E se è vero che sono i Vendicatori, non è
così che
deve andare. Bisogna fare qualcosa.
Abbiamo
attaccato una struttura presumibilmente di criminali, dentro c’erano
più di
duecento persone. Attualmente, ventidue sono ancora vive. Due di loro
si
trovano nella nostra struttura. Preferirei spiegarle a voce il resto,
visto il
rischio che corriamo con questi scambi di informazioni. È ridicolo, ma
ho paura
di essere intercettato dai miei stessi compagni di squadra.
Non
so
quanto sia sicuro per lei venire qui, forse possiamo incontrarci da
qualche
altra parte.
Rimango
in
attesa di direttive e la saluto,
JR
Il
colonnello Fury sollevò lo sguardo dal portatile
sentendo un lieve bussare alla porta. Cambiò videata del computer e
disse:
«Avanti»
La
dottoressa Mazur socchiuse appena la porta, poi fece
un sospiro ed entrò.
Per
un attimo rimasero immobili a guardarsi in silenzio,
come se entrambi avessero sentito il peso dei pensieri dell’altro ed
esitassero
a interromperne il flusso, poi Helena si decise a parlare.
«Colonnello»
disse «Pietro ha accettato di vederla»
The Magic Corner:
Ciao a tutt*!
Ci ho messo un pochino più di un mese perché ho avuto una settimana un
po' d'inferno, ma ora sono qui tutta per voi!
Sono estremamente contenta di pubblicare questo capitolo, anche perché
ho passato il mese scorso a fremere perché non lo avevo finito però
volevo comunque aggiornare... Sì, sono strana.
Due cose veloci sul capitolo:
Primo, Pietro ed Helena. Ok, devo ammetterlo, non li shippo ma sto
spingendo un sacco per questi due. Per me c'è solo affetto tra questi
due, ma posso capirvi se li shippate.
Secondo, siccome quella cinnamon roll di GreekComedy mi ha fatto notare
che non si capisce molto bene, volevo specificare che "JR" sta per
James Rhodes, AKA Rhodey, AKA War Machine.
E niente, oggi sono un po' meno prolissa del solito, quindi mi limiterò
a ringraziare: Pouring_Rainn11 che sclera ogni volta di più nelle
recensioni, GreekComedy che è fantasticissima as usual, Lumos and
Nox, Juliet Leben22 e dany the writer perché si sono imbarcati
nell'impresa titanica di recensire questa roba e i 16 irriducibili che
mi seguono. Ah, già, e naturalmente tutt* voi che leggete!
Direi che posso anche chiudere, ricordandovi come sempre che recensire
o mandare un messaggio privato è gratis ^^
Ci vediamo (forse) più presto del previsto...
Che gli dèi siano con voi!
-Magic
|
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Capitolo 18 *** Terzo intermezzo ***
Terzo intermezzo
Pubblicità
Progresso - Campagna No Profit
Ogni
giorno una tastiera si sveglia e sa che sarà maltrattata da uno
scrittore incapace.
Mentre
tu stai comodamente seduto davanti al tuo computer a leggere
fan-fiction, c'è una tastiera che soffre.
Ognuno
di noi può fare qualcosa per aiutarla.
Puoi
dire a quello scrittore che è incapace, o incoraggiarne un altro perchè
non lo è.
Scrivi
una recensione!
Non
restare indifferente, il destino delle tastiere dipende anche da te!
Terzo
intermezzo
Colpo
di tosse. «Qualcosa non va»
«Perché?»
Un'altra occhiata al
video, ma purtroppo quei numeri non
sono cambiati: «Hanno
i valori sballati»
«Quanto?»
«Guarda tu stessa»
Non è possibile. «Lei...»
«Già»
«...»
«...»
«Che cosa vuoi fare?»
«Se continua così,
dovremo staccarla»
Occhi sgranati: «Stai...
stai scherzando. Hai detto tu stessa che sarà estremamente pericoloso
anche quando lo faremo al termine del ciclo. Figuriamoci adesso»
«Sì, ma chissà cosa sta
succedendo là dentro»
sospiro «Potrebbe
essere l'alternativa migliore»
Nessuna risposta. Non ci
sono risposte da dare.
«Lena?»
«Sì?»
«Lei sarebbe d'accordo»
«...»
«...»
«Aspettiamo ancora un
po', K. Per favore. Magari si
sistemerà tutto da sé»
«Voglio crederci»
Lizzy's Magic Corner:
Ciao
a tutt*!
Sarò
breve perché non ho granché da dire... Spero che abbiate apprezzato il
capitolo (ancorché breve, come avevo annunciato) e che siate armati di
pazienza perchè il prossimo potrebbe richiedere più di un mese per la
pubblicazione. O forse molto meno, non lo so. Non vorrei sbilanciarmi
troppo :D
In ogni caso, nel prossimo capitolo si sposterà finalmente
l'obiettivo sugli Avengers a scoprire cosa stanno combinando dopo
l'assalto alla base di K, quindi non perdetevelo!
Avviso: non so
quanto mi spingerò in là perché fa impressione anche a me, ma potreste
trovarvi davanti descrizioni che sfociano un po' nello splatter. Non
dovrebbe essere nulla di disturbante in ogni caso e potrete
tranquillamente saltare quelle parti se le riterrete eccessive (anche
se non credo che le mie capacità descrittive siano tali da spingervi a
queste misure di emergenza...)
Concludo con i miei soliti
ringraziamenti: a GreekComedy e a Pouring_Rain11 per il loro feedback
rapidissimo e tante altre cose; alle sedici persone che continuano
strenuamente a seguirmi; a tutt* voi che mi leggete con una pazienza
invidiabile.
Ci si vede presto, spero...
Che gli dèi siano con voi!
-Liz
|
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Capitolo 19 *** Nel nostro minaccioso sotterraneo ***
Nel nostro minaccioso sotterraneo
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Progresso - Campagna No Profit
Ogni
giorno uno scrittore incapace si sveglia e sa che dovrà inseguire una
tastiera che fugge.
Ogni giorno una tastiera si sveglia e sa che dovrà correre più
veloce di uno scrittore incapace.
Che tu sia scrittore
o tastiera, comincia a correre.
Ma se sei un lettore
no! Puoi fermare questo scempio!
Scrivi
una recensione!
Non
restare indifferente, il destino delle tastiere dipende anche da te!
Nel nostro minaccioso
sotterraneo
Respira
l'aria pesante di paura
Respira
con l'ultimo sangue in
gola,
il vomito nascosto
dietro i denti,
sulla lingua acido
bruciante
da cui non ti liberi
neanche con lo sputo.
Parla.
Non parlare,
loro non devono, non
possono sapere.
Ma loro chi?
Loro chi?
Il nemico.
Ma il nemico è buono,
siamo noi i cattivi,
il nemico è clemente.
Forse non più.
L’uomo
con i capelli neri lo fissava
ormai da almeno mezz’ora, si disse Shad. Era fisicamente possibile per
una
persona rimanere perfettamente immobile per tutto quel tempo? Non ne
era certo.
Certo era che quel verde sfavillante degli occhi dell’altro aveva un
che di
accecante non per la sua luminosità ma per la sua intensità, come se
avesse
dovuto risucchiarlo dentro. Shad sentiva il bisogno di guardare altrove
o
almeno socchiudere gli occhi per proteggersi da quel verde, ma allo
stesso
tempo non avrebbe voluto per nulla al mondo farlo e perdere l’occasione
di
esaminare quell’uomo che sedeva di fronte a lui.
All’improvviso,
senza che
nulla fosse cambiato minimamente, l’uomo si alzò dallo sgabello su cui
era
seduto e sparì dalla sua vista. Shad provò a voltarsi per vedere dove
fosse andato,
ma si rese conto di essere legato alla sedia. Strano che non se ne
fosse
accorto prima, quel verde doveva averlo distratto. Strano che la cosa
non lo
facesse agitare per nulla, forse era ancora un po’ intontito.
Sentì
sulla
spalla un tocco leggero, quasi timoroso di fargli male, e sussultò. Una
mano
dalle dita ruvide gli si posò, delicata, sulla nuca: «Calma» disse
l’uomo.
Aveva una bella voce profonda che risuonava in quella specie di
scantinato
anche se stava sussurrando.
«È
sveglio?» chiese una voce metallica da un
altoparlante che Shad riuscì a individuare in un angolo della stanza
nonostante
la penombra che vi regnava. Non distingueva, però, se
si
trattasse di
un
uomo o
una donna.
«Sì»
rispose l’uomo alle sue spalle, con una sfumatura un poco più aspra
nella voce.
Shad
iniziò a rendersi conto che non era normale non essere agitato
per quella situazione. Si trovava legato nello scantinato di qualcuno
con un
uomo che non conosceva e che avrebbe potuto fargli qualunque cosa e per
di più
parlava con un altoparlante collegato a chissà dove, eppure non sentiva
nulla.
Che cosa gli stava succedendo? Gli avevano insegnato a dominare le sue
emozioni, non a non provarne affatto.
Si
ricordò dell’attacco al suo
stabilimento, lo scudo di Capitan America che lo tramortiva – se si
concentrava, poteva ancora sentire il dolore alla schiena per la brutta
caduta
– e poi più niente. Era prigioniero dei Vendicatori? No, era ridicolo,
quella
gente non prendeva prigionieri, al massimo portava i feriti
all’ospedale.
Quell’uomo dai capelli neri era uno di loro? Non gli sembrava di averlo
mai
visto prima. O forse dall’altra parte dell’altoparlante c’era qualcuno
degli
Avengers? Non era normale che la situazione non lo rendesse neanche
nervoso,
continuava a ripetersi.
L’altoparlante
si accese di nuovo: «Collega
la
telecamera. Vogliamo vederlo»
Shad
sentì un po’ di movimento alle sue spalle e
poi un leggero clic. La mano
dell’uomo non aveva abbandonato la sua nuca. Gli dava un senso di
sicurezza,
come una piccola ancora di certezza in quel mare di dubbi.
«Signor
Bradbury» lo
salutò la voce metallica «Speriamo che la sistemazione sia di suo
gradimento.
Deve capire, c’è stato bisogno di sistemare tutto di fretta»
Shad
avrebbe
voluto rispondere, ma non avrebbe saputo cosa dire e poi si sentiva
come
incapace di articolare qualsivoglia suono. Non riusciva proprio a
muovere le
labbra, che nonostante i suoi sforzi rimanevano appena dischiuse,
abbastanza da
far passare l’aria. Stava respirando con la bocca: se ne accorse in
quel
momento, ma non poté farci nulla.
«Non
si preoccupi se non può rispondere. Non
è colpa sua, si tratta del sedativo che le ha somministrato Edward. Ha
degli
effetti diversi dai normali farmaci di questo genere, ma d'altronde
viene
direttamente dal nostro laboratorio»
Shad
non riusciva neanche più a pensare
coerentemente e tutto si riduceva a frasi sconnesse nella sua testa, ma
di
emozioni neanche l’ombra. Soltanto confusione, come una maledetta
spirale in
cui vorticavano i suoi pensieri.
Edward.
Quindi si chiamava così l’uomo che
c’era nella stanza con lui.
Gli
aveva somministrato un sedativo. Questo
spiegava perché non riuscisse a muoversi.
Ma
non gli riusciva di capire perché
l’avessero portato lì.
Chi
fossero.
Cosa
volessero da lui.
No,
anzi, quello lo
sapeva.
Edward
si allontanò da lui e tornò a sedersi sullo sgabello dov’era
quando Shad si era svegliato. Qualcosa gli si attorcigliò dentro quando
sentì
la mano di Edward lasciare la sua nuca: non era esattamente nervosismo,
era
molto più blando, una sorta di inquietudine
che lo riportò bruscamente alla realtà, ma era già
qualcosa. Era ancora in grado di provare emozioni.
«In
attesa
che ritorni abbastanza cosciente da poter rispondere alle mie domande,
mi
presento e ti spiego un paio di cose» disse Edward, fissandolo con gli
occhi di
chi avrebbe potuto benissimo strappargli il cuore a mani nude e non
perdere
neanche un filo del proprio autocontrollo. Shad sentì come un tremito
interiore
quando incrociò il suo sguardo, ma riuscì a controllarlo.
«Innanzitutto,
mi chiamo
Edward Devlin» continuò l’altro, mentre gli si dipingeva sul volto un
sorriso
che a Shad non piacque per nulla «O comunque ti basti conoscere questo
nome.
Puoi chiamarmi signor Devlin, niente di più. Spero che ci siamo intesi»
La
sua
voce continuava a mutare di tono, come quella di un attore che cerca
l’intonazione migliore da dare a un testo che legge per la prima volta.
Nelle
ultime frasi, Shad aveva percepito una specie di larvata minaccia,
benché
pronunciata con il sorriso. Era come se i suoi occhi si fossero
illuminati
pronunciando le ultime parole, con una punta di divertimento su cui
Shad non ci
teneva per nulla a indagare oltre.
«Com’è
andata con l’altra, Edward?» chiese
la voce dell’altoparlante. Quella volta Shad fu quasi sicuro che si
trattasse
di un uomo.
Il
signor Devlin sbuffò: «Mi ha fatto quasi perdere la pazienza e
non mi è piaciuto il metodo che abbiamo dovuto usare, anche se era
evidentemente il più adatto. Mi è dispiaciuto per lei, ma era fragile,
troppo
fragile»
«L’abbiamo
scelta apposta»
«Lo
so, anche se aveva poco da dire è stata
una buona scelta, non me ne pento. Ma lo sapete che mi diverto di più
se la
situazione è un po’ diversa» di nuovo quel tono strano di voce. Shad
sentì il
bisogno di distogliere lo sguardo da quegli occhi verdi che
scintillavano
troppo e lo inquietavano.
Da
un lato continuava a ripetersi che era
meraviglioso tornare a provare emozioni: si era sentito quasi menomato
allo
scoprire che non riusciva neanche a innervosirsi. D’altro canto, però,
avrebbe
preferito non potersi agitare perché gli sembrava una situazione in cui
i nervi
saldi avrebbero potuto aiutarlo.
Edward
si alzò e si accovacciò vicino a lui in
modo da incrociare di nuovo il suo sguardo: quella volta Shad non osò
guardare
altrove. «Conosci Nancy Daniell?» chiese Edward, piegando appena la
testa di
lato come un bambino.
Shad
ancora non riusciva a rispondere, ma a sentire quel
nome aveva aperto gli occhi appena un po’ di più: l’altro capì che si
trattava
di un sì. Edward spiegò che aveva parlato anche con lei. «È una brava
ragazza»
aggiunse «Un peccato. Davvero un peccato»
Si
rialzò in piedi e con un enorme
sforzo Shad riuscì a seguirne con la testa il movimento, chiedendosi a
cosa si
riferisse l’altro. Aveva ripreso controllo almeno dei muscoli del
collo: poco
per volta ce l’avrebbe fatta.
«Ancora
qualche minuto e riuscirai a parlare»
disse Edward, notando il suo movimento. Shad si chiese se
quell’informazione
fosse per lui o piuttosto per l’uomo dall’altra parte dell’altoparlante.
«Ora,
io immagino che tu abbia firmato un qualche accordo di segretezza con
la tua
azienda» vedendo che l’altro annuiva lentamente, continuò «e suppongo
che noi
siamo quanto di più simile a un concorrente la CloaK possa avere.
Nonostante
ciò, io non mi preoccuperei eccessivamente di quell’accordo e di cosa
potrebbe
farti l’azienda, se fossi in te, perché a breve ne rimarrà così poco
che avrà
certamente altro per la testa che venire a cercare te»
Shad
deglutì, cercando
di ritrovare la voce. Quella minaccia non era velata. Non era stata
pronunciata
con un qualche tono accomodante o con il sorriso sul volto, come le
precedenti.
Era semplicemente un’affermazione: loro avrebbero ridotto in briciole
la CloaK,
e lui non aveva alcuna voce in capitolo.
«Voi…
chi?» riuscì infine a dire, strappando
al signor Devlin un sorriso compiaciuto dalla sua ritrovata capacità di
parlare.
«Sono
stato così scortese da non presentarmi come si deve?» chiese
fingendo stupore Edward, poi, senza aspettare la risposta continuò «I
Vendicatori naturalmente, lavoro per loro»
«Lavora?»
ripeté Shad, sillabando la
parola come un bambino alle prime armi con la lettura.
«Sicuro,
mi pagano per
ottenere le informazioni che servono loro. Poi che io ami il mio lavoro
è una
questione totalmente secondaria»
«Informazioni…
da me?»
Edward
annuì, poi gli
si avvicinò e gli prese una mano. Era piacevole il contatto con le sue
dita,
notò nuovamente il prigioniero, nonostante la ruvidezza della pelle
avevano
qualcosa di rassicurante. Ce n’era proprio bisogno, visto che tutto il
resto
era l’esatto opposto.
«Prima
che tu dica qualcosa di stupido, ad esempio che
non tradirai mai la CloaK o qualcosa del genere, lascia che ti spieghi
una
cosa. Tu mi dirai quello che mi serve, che tu lo voglia o meno. Non è
qualcosa
che dipenda da te. Ciò che puoi decidere è la quantità di dolore che
vuoi
sopportare prima di iniziare a parlare»
Shad
sorrise, notando che i movimenti
sembravano farsi più facili di secondo in secondo. Con la stessa
rapidità lo
stavano inondando le emozioni e ormai era certo che quello non gli
faceva
altrettanto piacere. Aspettò che il cuore rallentasse un poco, poi
rispose:
«Soltanto per curiosità: c’è mai stato qualcuno che abbia ceduto dopo
questa
presentazione? Perché non è la prima volta che sento un discorso simile»
«Alla
fine
mi dirai se sarà stata tutta roba già vista» concluse il signor Devlin
«Direi
che possiamo considerare i convenevoli terminati»
«Sì,
nonostante la buona
compagnia non vorrei rischiare di annoiarmi» sorrise ancora Shad.
«Adoro
il
buon umore» rispose Edward, con la voce scesa ancora di un tono.
Edward
aveva
detto di volerlo conoscere meglio, poi era tornato a sedersi di fronte
a lui e
aveva tirato fuori da chissà dove una serie di appunti inquietantemente
simili
a una cartella clinica.
«Allora»
cominciò a leggere «Shad Bradbury, quarantuno
anni, orfano dall’età di ventuno, figlio unico con nessun legame con il
mondo
che ti circonda. Niente fidanzate o fidanzati, niente amici, non
frequenti
abitualmente neanche un pub»
«Mi
piace cambiare. E sono astemio»
Il
signor
Devlin continuò, sollevando appena un angolo della bocca alla sua
risposta:
«Congedato dall’esercito per problemi psicologici, hai abbandonato
completamente quell’ambito per entrare nella CloaK»
«Sì,
conosco il mio
curriculum»
«Peccato
che di norma la tua azienda assuma personale altamente
specializzato in campi che non c’entrano niente con il tuo. Biologi,
ingegneri,
medici e infermieri… Tu cosa hai da spartire con tutta questa gente?»
«Serve
sempre qualcuno che faccia il lavoro manuale, anche con tutti gli
ingegneri del
mondo a tua disposizione»
«Che
cosa contempla questo lavoro manuale?» era
ridicolo, ma Shad ebbe come l’impressione che la questione interessasse
veramente all’altro, che non stesse soltanto raccogliendo le
informazioni che
gli avevano chiesto.
«Montaggio
e smontaggio di parti meccaniche. Lavoro da
operaio, niente di più» Edward annuì e Shad abbassò gli occhi a
guardarsi le
mani legate, chiedendosi se fosse suonato abbastanza convincente.
Prima
che
potesse rendersi conto di cosa fosse successo, sentì il respiro
mozzarsi, ma
quando aprì la bocca per riprendere aria scoprì che qualcosa gli
stringeva la
gola. Alzò lo sguardo solo per incrociare gli occhi verdi di Edward che
scintillavano come non mai.
«Non
vuoi mentirmi, Shad» bisbigliò l’altro, la
stretta d’acciaio attorno alla gola di Shad era così ferma che sembrava
esserci
sempre stata «Davvero, non vuoi vedere cosa succede se lo fai»
Shad
cercò di
muovere il collo all’indietro, ma lo schienale della sedia lo bloccava.
I
secondi scorrevano inesorabili, era troppo tempo che non respirava, si
sentiva
la testa esplodere. Provò a far forza sulle braccia, ma riuscì soltanto
a
strappare a Edward un sorriso divertito. Quando iniziò a vedere macchie
nere
davanti agli occhi, li chiuse e si abbandonò all’indietro.
Fu
allora che
l’altro mollò la presa. Prima ancora che Shad se ne fosse accorto,
aveva
spalancato la bocca e cominciato ad ansimare: il suo corpo aveva un
istinto di
sopravvivenza decisamente migliore di lui. Gli girava la testa e si
sentiva
cadere anche se sapeva perfettamente di essere seduto.
Quando
riprese il
controllo, vide che l’altro era tornato a sedersi e aveva preso a
scrivere
sulla cartella. Era mancino, notò, con una lucidità che lo stupì.
«Riproviamo»
disse Edward alzando gli occhi su di lui. Shad sentì di nuovo un
tremito dentro
di sé. È brutto avere paura, pensò.
«Parlami
del progetto Terminator» chiese il
signor Devlin.
Shad
gli sorrise, rispose «Non ne so nulla», e prese fiato,
preparandosi a sentirsi di nuovo strangolare. Non avvenne niente di
simile.
Edward rimase immobile a fissarlo per quella che a Shad parve
un’eternità.
Forse gli stava dando il tempo di cambiare idea.
Quando
infine era giunto alla
conclusione che niente sarebbe più mutato e sarebbero rimasti in quello
scantinato per tutti i giorni a venire, Edward lo colpì. Non che Shad
non se lo
aspettasse del tutto, ma pensava che l’altro avrebbe mirato al viso,
invece gli
diede una ginocchiata all’imboccatura dello stomaco.
Il
suo riflesso naturale
sarebbe stato di piegarsi in avanti e indietreggiare, ma era legato e
l’unica
conseguenza del colpo che aveva ricevuto fu che la sedia su cui era
seduto
oscillò pericolosamente all’indietro a causa dell’impatto. Ebbe la
sensazione
di stare per vomitare e sentì in bocca un sapore acido che gli diede
ancora più
la nausea. Cercò di prendere fiato per riprendere il controllo e fu
colto da un
accesso di tosse.
Non
si accorse del secondo colpo in arrivo perché gli
lacrimavano gli occhi e li aveva socchiusi per via della tosse: sentì
soltanto
la testa voltarsi verso la spalla sinistra e subito dopo il dolore al
volto e
al collo. Sputò per terra nel tentativo di liberarsi dell’acido che
sentiva
sulla lingua. Sollevò lo sguardo verso Edward e vide la tranquillità
con cui
l’altro lo guardava, come se invece di dargli un pugno gli avesse
appena
assegnato un progetto di scienze per la settimana successiva.
Se
ne accorse in
quel momento: il suo carceriere assomigliava decisamente a un
professore delle
superiori di cui Shad non aveva un ottimo ricordo. Non che questo
migliorasse
la situazione, pensò, ma almeno aveva finalmente identificato di chi
fosse
quell’immagine che riemergeva nella sua memoria ogni volta che guardava
Edward.
Il
secondo pugno seguì al primo non appena Shad alzò di nuovo gli occhi a
incrociare quelli del signor Devlin. Il terzo arrivò senza neanche
dargli il
tempo di rendersi conto di che cosa gli stesse accadendo. Così avvenne
con il
quarto, il quinto, il sesto, fino al decimo, dopo il quale perse il
conto. Era
troppo concentrato ad analizzare quanto precisamente si sovrapponessero
i colpi
l’uno sull’altro. Era troppo occupato a non chiedergli di fermarsi, a
non
dichiararsi pronto a dirgli tutto.
Non
era un debole, continuava a ripetersi
quando prendeva fiato dopo aver ricevuto un altro pugno, non era come
Nancy.
Era davvero una brava ragazza, Nancy, non sarebbe mai dovuta finire là
dentro.
Shad, invece, lui era stato addestrato per quello, il dolore non
avrebbe dovuto
neanche intaccarlo. E allora come mai gli sembrava sempre più difficile
non
iniziare a raccontare ciò che sapeva su quel progetto? Era psicologico,
pensò,
era tutta quell’atmosfera. Doveva staccarsi da quella pressione che
Edward gli
stava facendo e ricordarsi che aveva una missione, un compito.
A
un certo punto
Edward si arrestò, senza un vero motivo. Shad non sapeva da quanto
andassero
avanti. Tutto ciò che poteva capire in quel momento era strettamente
legato
alle sue percezioni sensoriali: sapeva che a un certo punto i colpi
avevano
iniziato ad arrivare da entrambe le parti, che non riusciva a sollevare
le
palpebre e che sanguinava in viso. Il resto gli era oscuro. Isolarsi
dall’ambiente circostante portava anche a quello.
«Sai»
la voce di Edward
sembrava arrivare da chilometri di distanza «Un po’ mi dispiace. Voglio
dire,
questa specie di pestaggio… non te lo meritavi veramente. Non era parte
dell’interrogatorio, in realtà. È il genere di tortura che si rivela
tendenzialmente inutile: se qualcuno cede per questi quattro colpi,
probabilmente avresti potuto farlo cedere senza alzare un dito, che se
permetti
è molto più divertente. In tutti gli altri casi, è stato abbastanza
inutile,
no?
Devo
ammetterlo, in realtà l’ho fatto per sfogarmi, stavo accumulando
troppa tensione a causa del comportamento della tua amica. Mi piace il
mio
lavoro, davvero, ma a volte le condizioni non sono ottimali» Shad non
comprendeva veramente il discorso di Edward, ma era bello avere un
suono a cui
aggrapparsi «Voglio essere onesto con te: mi stai simpatico, mi piaci,
anzi. In
altre circostanze avremmo potuto chiacchierare, forse ti avrei chiesto
di
uscire.
Credo
di aver capito come ragioni, perciò lascia che ti spieghi subito
la situazione in modo più conciso di prima: non sono un mafioso di un
qualche
film, né un torturatore dilettante. I pestaggi, i classici tagli sul
corpo,
persino gli stupri e le altre cose un po’ più elaborate… non fanno per
me. Io
prendo molto seriamente il mio lavoro, non do spettacolo per una
telecamera»
Shad
aprì piano gli occhi e lo guardò, confuso: non riusciva a capire dove
volesse
arrivare.
«Sai
molto più di quanto dici» continuò Edward, passandogli un dito
sul labbro inferiore per poi pulirlo su uno straccio. Uno dei pugni
doveva
averlo tagliato, perché Shad sentiva il sangue continuare a fuoriuscire
«di
certo sei un minimo informato su questo genere di cose. Te lo dico
chiaro e
tondo: c’è una stanza, vicino a questa, con l’attrezzatura per una
tortura
specifica»
«Che
tortura?» riuscì ad articolare Shad tra le labbra spaccate,
sentendo sulla lingua il sapore del proprio sangue.
«Gli
americani la chiamano waterboarding»
rispose Edward,
rivolgendo un angelico sorriso ai suoi occhi traboccanti di terrore
«Deduco che
tu lo conosca»
«Guantanamo
Bay» sussurrò Shad.
«Precisamente»
Il
prigioniero
scosse lentamente la testa: «Non ci credo»
«Mi
sottovaluti» rise il signor
Devlin «Ma capisco che tu non ti fidi. Ti porterò a vederla. Puoi
fermarmi
quando vuoi e raccontarmi ciò che sai, ricordatelo»
Dopo
un tempo che Shad non
seppe quantificare, ma immaginò essere stato molto breve, la porta si
aprì e
due persone entrarono. Erano uomini, alti, con il genere di fisico in
grado di
fargli rinunciare a qualunque pensiero di fuga, se mai fosse stato in
grado di
formularne alcuno. Uno dei nuovi arrivati aveva i capelli biondi, quasi
gialli,
lunghi fino alle spalle, l’altro invece li aveva corti, non riusciva a
vederne
il colore. Per il resto, gli sembravano uguali da dietro le palpebre
socchiuse.
«Ti
aspetto qui» gli mormorò all’orecchio Edward. Shad non riuscì a
sorridergli in
risposta.
-Nancy?
Sono qui per aiutarla-
Lizzy's
Magic Corner:
Ciao a
tutt*!
Vi chiedo
innanzitutto scusa per il mostruoso ritardo. Ho avuto una serie di
casini, interrogazioni terrificanti e viaggi vari che si sono
sovrapposti, ma la verità è che questo capitolo non mi andava di
scriverlo e quindi ho temporeggiato moltissimo. Perché? Beh, perché la
tortura non mi va per nulla. Da un lato volevo farvi vedere quanto in
basso stessimo cadendo, dall'altro una parte di me piangeva al pensiero
di cosa stessi scrivendo.
Per prima cosa, lasciate che vi dia un consiglio: se non sapete che
cosa sia il waterboarding
(e vi auguro di non saperlo) non e ripeto NON andate a cercarlo. Ho
fatto fatica a dormire dopo aver scoperto di che cosa si trattasse. Vi
basti sapere che è abbastanza da far ammettere qualunque cosa a
chiunque. No, davvero, fatevelo bastare, lo dico per voi, gente.
Eeeh Loki aveva ragione, forse gli ospiti dell'Avengers Facility in
questo momento vorrebbero trovarsi da tutt'altra parte! Wanda farebbe
meglio ad ascoltarlo, la prossima volta.
Poi... vediamo un po', che altro c'è da dire? Ah sì, volevo comunicarvi
che in un universo parallelo che esiste soltanto nella mia testa i due
protagonisti di questo capitolo vivono felicemente sposati con prole
(non entro nel merito di che cosa fanno in camera da letto), nel senso
che per come li ho immaginati i loro caratteri sono perfettamente
compatibili, se non fosse che le circostanze hanno portato uno a
diventare un torturatore professionista e l'altro... Beh, non voglio
fare troppe anticipazioni!
Riguardo al nuovo capitolo (che spero di portare a termine molto più in
fretta di questo, ma purtroppo ultimamente l'ispirazione e la voglia di
scrivere litigano...) posso dirvi che sarà quasi certamente l'immediato
seguito di questo. Pensavo di spiegarvi qualcosa sulla CloaK
(nonostante dare spiegazioni non sia per nulla nel mio stile, ehm
ehm...) e magari presentarvi l'adorabile Nancy, ma per ora è tutto
molto nebuloso.
So che non vi interessa, ma volevo soltanto bearmi del fatto che il
primo capitolo di questa storia ha superato le 1000 visualizzazioni e
io sono una bimba felice.
Stiamo ritornando ai livelli delle Note dell'Autrice più lunghe del
capitolo, quindi sarà meglio che tagli corto: grazie a GreekComedy che
è tipo il centro nevralgico della mia esistenza da fangirl (questo è
l'ombelico del mondoooo), a Pouring_Rain11 per la sua pazienza
nell'attendere gli aggiornamenti e recensire sempre tutto (imparate,
gente, imparate), alle 11 persone che seguono la storia e ai 6 che
l'hanno messa tra le preferite nonché a tutt* voi che leggete :)
Basta, mi sto annoiando da sola: ci si sente (spero) il mese prossimo,
nel frattempo vi ricordo che recensioni e MP sono totalmente gratuiti ^^
Che gli dèi siano con voi!
-Liza
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Capitolo 20 *** Nella tua mente ***
20Nella_tua_mente
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Progresso - Campagna No Profit
Il
mio nome è Board, Key Board.
Vivo in casa di uno scrittore totalmente privo di talento, ma ostinato
come un mulo.
Sfruttando un suo momento di distrazione, rivolgo un appello ai
lettori, a nome mio e di tutti i componenti del suo computer.
Le vostre recensioni sono importanti.
Sono l'unica cosa che potrebbe salvarci dalla sua tortura.
Fate qualcosa.
Recensite.
Nella tua mente
Nella tua mente
ho guardato una volta soltanto.
C'era dolore,
ma non era da solo,
c'erano urla,
urla di persone,
c'erano incubi,
che mi tormentano ogni notte.
Nella tua mente
non mi importa cosa ci sia,
perché nella tua mente
non voglio mai guardare.
Voglio soltanto
che accetti il mio aiuto,
che accetti il mio amore.
Nella mia mente
non so più cosa succeda.
Ci sono persone
che non vorrei lì,
ci sono ricordi
che tralascerei volentieri,
ci sono incubi,
o almeno me li aspetterei.
Dopo aver
messo Wanda a riposare, Loki era corso subito da lui, pronto a dare a
James il sostegno di cui aveva bisogno, ma l’altro non lo aveva voluto
e aveva preferito chiudersi in un sofferente mutismo. Loki era rimasto
immobile a fissarlo per minuti che erano parsi secondi o forse ore,
indeciso sul da farsi.
L’asgardiano
non era molto esperto di sogni. Quando era adolescente, a volte aveva
accarezzato con la mente il pensiero di scoprire cosa abitasse la testa
di suo fratello mentre dormiva, ma sua madre si era raccomandata di non
farlo mai e perciò si era sempre trattenuto. Si era accorto, però, che
James si stava impedendo di dormire per paura di ciò che avrebbe
sognato e aveva deciso che valeva la pena fare almeno un tentativo di
aiutarlo. Alla fine aveva finto di addormentarsi e aveva atteso che
anche James cedesse al sonno.
Non
appena sentì il respiro dell’altro cambiare ritmo, si mise all’opera.
Sfilare i sogni gli dava una sensazione strana, forse dovuta anche al
fatto che Loki era stato all'interno della mente di James All’inizio fu
dura, soprattutto perché si era imposto di non spiare i sogni, ma di
eliminarli soltanto, uno alla volta, ma infine riuscì nel proprio
intento. Il respiro rilassato e regolare di James suonava come un
ringraziamento alle sue orecchie. Rimase sveglio tutta la notte a
vegliare sul suo sonno.
Fu
soltanto il mattino dopo, quando si rese conto che James si stava
svegliando, che si concesse di crollare addormentato e approfittare
delle poche ore di sonno che sarebbe riuscito a strappare alla propria
mente e agli incubi.
James
si era sentito in colpa per essersi rifiutato di parlare con Loki di
come si sentiva, ma non aveva potuto fare altrimenti: non appena
l’aveva visto avvicinarsi si era istintivamente chiuso in se stesso,
come se fosse stato Loki il pericolo. L’altro non aveva pronunciato una
sola parola, lasciandogli la libertà di scegliere se parlare e cosa
dire, ma James aveva preferito tacere e far passare il tempo
specchiandosi nel verde preoccupato degli occhi dell’asgardiano.
Dopo
che Loki era crollato addormentato sulla sedia di fronte alla sua, era
rimasto a fissare i suoi capelli scuri che gli ricadevano davanti al
viso. Si era proibito di dormire, o avrebbe rischiato di vivere ancora
una volta la tortura di quando la strega aveva attraversato la sua
mente.
Svegliandosi,
scoprì che infine si era addormentato. Si rallegrò un poco del fatto di
non aver sognato nulla, per una volta, e si chiese se fosse stata opera
di uno degli altri due: erano entrambi incantatori e probabilmente
capaci di qualcosa di simile.
Concluse
velocemente la lotta mentale con i propri muscoli che si lamentavano
per la scomoda posizione in cui aveva dormito tutta la notte e si alzò
in piedi. Si stirò con cautela le braccia e la schiena e poi andò a
cercare la stanza in cui Loki aveva messo la strega a dormire.
L’autunno
era ormai inoltrato, quindi la notte era stata alquanto fredda, ma
Wanda aveva dormito così profondamente da non accorgersene, nonostante
il pomeriggio prima si fosse coricata sul sacco a pelo invece che
dentro. Probabilmente era così stanca che non aveva notato la
differenza.
Aveva
dormito parecchie ore, più di quanto si sarebbe aspettata. Non era
stato un sonno tranquillo, però: tutto ciò che era successo nella sua
mente prima e in quella del Soldato d’Inverno poi le aveva impedito di
riposare. A un certo punto della notte, non avrebbe saputo dire quanto
tempo dopo essersi addormentata, aveva sentito la voce di Pietro nei
propri sogni e aveva capito di essersi messa in contatto con lui.
Suo
fratello l’aveva riconosciuta, cosa che non poteva che riempirla di
gioia, ma la connessione stabilita aveva trasmesso anche a lui il
dolore e la confusione che animavano i sogni di Wanda e alla fine era
stato meglio interromperla e lasciare che Pietro si svegliasse o
ritrovasse un sonno tranquillo.
Una
volta sveglia, aveva scoperto che, nonostante gli incubi e tutto il
resto, quel sonno l’aveva aiutata a recuperare le energie. Non se la
sentiva di alzarsi in piedi, però, per paura di scoprire che le gambe
non erano ancora in grado di sorreggere il suo peso.
Infine
aveva deciso di mettersi a sedere con le gambe incrociate e di
guardarsi intorno. La stanza era molto ampia e aveva il soffitto alto:
probabilmente, si disse Wanda, l’edificio era un vecchio capannone
industriale, in disuso da chissà quanto tempo. I muri erano
originariamente grigio chiaro, ma erano pieni di macchie scure e pezzi
di intonaco che erano saltati, rendendo ancora più desolato l’insieme.
A
completare il tutto c’era una piccola apertura di forma quadrata nel
muro, più o meno all’altezza di un metro e mezzo, che mostrava ancora i
segni dell’intelaiatura di una finestra che doveva essere stata divelta
anni prima.
Una
volta che era stato abbandonato, il capannone era stato probabilmente
vittima di varie incursioni dei giovani dei dintorni, che avevano
lasciato diversi graffiti a testimonianza del proprio passaggio. Wanda
si chiese dove si trovassero e quanto tempo fosse passato dall’ultima
volta che qualcuno aveva messo piede nell’edificio per restarci più di
qualche ora. Sembrava il set di uno di quei film horror che Pietro
voleva sempre vedere anche se gli facevano paura e poi aveva gli incubi
per settimane.
James
trovò la strega seduta sul sacco a pelo, mentre guardava fuori da
quella che era stata una finestra. Volgeva la schiena alla porta,
quindi non si accorse subito di lui. James prese fiato per dire “Ti sei
svegliata”, ma poi si accorse che erano le stesse parole con cui
l’aveva salutata l’ultima volta, all’interno della propria mente, e
rimase in silenzio.
Wanda
si voltò di scatto sentendo il suo respiro interrotto a metà. I loro
occhi si incontrarono esitanti, come se nessuno dei due avesse davvero
voluto guardare l’altro.
La
strega distolse immediatamente lo sguardo. Forse lei invece aveva fatto
degli incubi, si disse James, o forse le era bastato ciò che aveva
visto il giorno prima. Non ci teneva a saperlo.
«Mi
dispiace» mormorò Wanda, alzandosi in piedi.
James
avrebbe voluto chiederle se fosse stata lei a permettergli di dormire
sonni tranquilli, ma poi si disse che saperlo non era così importante e
decise di tacere perché non aveva nulla da rispondere a quelle scuse.
«Devo
andare» aggiunse la giovane.
«Ce
la fai?» chiese James. Si stava di nuovo preoccupando per lei, notò,
era strano. Dopo tutto quello che la strega gli aveva fatto soffrire,
avrebbe voluto che non gliene importasse nulla. Anzi, non avrebbe
dovuto importargliene nulla.
Invece
si scopriva nel petto un ansito di preoccupazione per le sue
condizioni. Forse era perché Loki ci teneva tanto che lei stesse bene o
forse perché sapeva che il dolore del giorno prima non era stata
veramente colpa di quella ragazzina che sembrava quasi più ferita di
lui. In effetti, sapendo quali ricordi si era trovata davanti agli
occhi, non aveva dubbi che dovesse essere scossa.
«Non
sto benissimo, ma mi riprenderò» rispose Wanda, stringendosi nelle
spalle «Non posso restare»
James
annuì e pensò che aveva perfettamente ragione e che, nonostante una
parte della sua mente si stesse interessando di come stava la strega,
non la voleva lì, anche se non voleva indagare troppo sul perché.
Ripensò allo scambio di sguardi e gesti che c’era stato tra lei e Loki
quando si trovavano all’interno della sua mente. No, si disse, non
poteva essere quello. Era stupido pensare che si trattasse di gelosia.
Era
meglio non sapere perché la volesse lontana, concluse. In fondo, lei
per prima aveva detto di non poter restare là. James si raccontò la
storia che si trattasse soltanto di una questione di sicurezza: se
fosse rimasta troppo a lungo, li avrebbero certamente scoperti.
Wanda
si chiese se ci fosse altro da dire, ma non le venne in mente nulla.
Guardò il Soldato d’Inverno ancora una volta e gli fece un cenno con la
testa che voleva essere in parte un saluto e in parte una richiesta di
scuse, e forse qualcos’altro di cui non era sicura. Forse un
ringraziamento.
Sorprendendola,
Barnes le rispose con una specie di cenno d’assenso che Wanda non seppe
interpretare, ma le bastò. Lo seguì fino all’uscita di quel capannone
industriale abbandonato da un po’ troppo tempo e poi se ne andò senza
più voltarsi indietro.
Nello
spiccare il volo con la forza dei propri poteri, per sollevarsi
abbastanza da capire dove si trovasse, le tornarono in mente le parole
ambigue con cui Loki aveva alluso alle condizioni dei prigionieri alla
Avengers Facility.
Doveva
tornare dai Vendicatori, si ripeté. Le serviva soltanto quello:
rivedere quelli che ormai erano i suoi amici, parlare con Visione dei
propri dubbi e sentire le sue frasi misurate che la riportavano alla
tranquillità, ricominciare gli allenamenti con Sam, tornare alla
normalità. Non era una normalità molto diffusa, ma era la sua normalità.
Eppure,
sentiva qualcosa di sbagliato, una specie di grumo alla fine dello
sterno, che le diceva che il motivo per tornare era anche e soprattutto
un altro. Perché le parole di Visione non sarebbero bastate a tacitare
quei dubbi assillanti: aveva bisogno di vedere che andava tutto bene.
Aveva bisogno di provare a se stessa che Loki aveva torto, perché
doveva avere torto.
Gli
incubi del Signore degli Inganni erano spesso monotoni. Non che questo
lo aiutasse a riposare un po’ meglio, sia chiaro, ma aggiungeva quella
sfumatura di anticipazione che rendeva forse ancora peggiori quei
momenti. Loki sapeva già che in quel momento sua madre gli avrebbe
rivolto uno sguardo disgustato, o che in quell’altro il trono di Asgard
su cui sedeva aveva cominciato a divenire freddo e così tutto ciò che
lo circondava, fino a che l’intero regno non fosse diventato una
distesa di ghiaccio.
Vivere
ogni secondo di quegli incubi con la certezza di cosa sarebbe venuto
dopo e con la consapevolezza che nonostante fosse soltanto un sogno non
aveva alcun modo di svegliarsi, quella era una delle torture peggiori
di tutto il sonno di Loki. O almeno, così aveva sempre creduto.
Quella
mattina, invece, vide delinearsi la figura di James all’interno del
sogno. Non anche lui, si disse, non voleva che la sua immagine fosse
corrotta dal fumo dell’incubo. Invece la scena proseguì, mentre l’unico
uomo che avesse mai amato lo rifiutava, gli voltava le spalle, se ne
andava cento volte abbandonandolo come avevano sempre fatto tutti.
Erano
al pub dove si erano incontrati per la prima volta, il Passato alle
Spalle –che nome assurdo–, poi a casa di James, poi all’albergo Montage
Beverly Hills, ad Asgard, in quel capannone dove si trovava anche il
corpo di Loki in quel preciso momento. Mille posti diversi, ma lo
stesso dolore al vedere quegli occhi azzurri fissarlo insofferenti e
infine voltarsi dall’altra parte.
Fu
quell’angoscia che lo fece svegliare. Per prima cosa si guardò intorno,
ma non vide James. Aveva imparato da tempo a separare le immagini
nebulose che vedeva in sogno da ciò che avveniva nella realtà, quindi
sentì soltanto un ansito di preoccupazione in più di quella che avrebbe
avuto normalmente.
Decise
di andare a cercarlo: riprese completamente controllo della propria
mente e delle proprie azioni e fece per alzarsi, ma proprio in quel
momento l’altro si materializzò nella cornice della porta.
«Sei
sveglio» osservò James «La signorina Maximoff è andata via qualche ora
fa. Non si era ancora ripresa del tutto, ma se la caverà»
«E
tu come stai?» chiese Loki, stiracchiandosi il collo come un felino.
James
fece una smorfia: «Secondo te?»
«Cosa
hai fatto per tutto questo tempo?»
«Come
sai che non dormivo?»
Loki
si strinse nelle spalle sospirando, evitando di raccontargli ciò che
aveva fatto quella notte e di conseguenza il momento in cui aveva
sentito che James si stava risvegliando: «Non hai l’aria di uno che si
è appena svegliato»
L’altro
lo guardò per qualche attimo, dubbioso, ma infine rispose: «Sono stato
fuori. A camminare. Dovevo pensare»
«Vuoi
parlare?»
James
scosse la testa, dicendosi che non sarebbe stato comunque capace di
trovare le parole per fargli capire cosa sentiva.
«Hai
voglia di bere?» propose allora l’altro.
Barnes
lanciò un’occhiata all’orologio: mancava un’ora a mezzogiorno.
«Alle
undici della mattina?» chiese, sollevando un sopracciglio.
«Dici
che è tardi?» rispose Loki, fingendo preoccupazione «Non lo dirò in
giro, promesso»
James
cercò di reprimere un sorriso, ma non riuscì molto bene.
«Visto?
Ti ho fatto ridere» disse l’asgardiano, con un’espressione rilassata in
viso. James doveva concederglielo, stava davvero facendo del proprio
meglio.
«Forse
è meglio parlare, a questo punto» disse, scuotendo la testa con un
sorriso esasperato.
«Come
preferisci» rispose Loki e James capì che gli stava davvero lasciando
la scelta. Gliene fu grato. Tornò alla sedia su cui aveva dormito,
dall’altro lato del tavolo rispetto a Loki, e lo guardò.
«Mi
spieghi una cosa?» chiese.
Loki
annuì e non disse nulla per non interrompere il filo dei pensieri
dell’altro.
«Perché?»
James si bloccò per cercare le parole «Voglio dire… Mi hai raccontato
di ciò che provi per me. Mi ha raccontato di come è cominciato tutto.
Mi hai detto che cosa ti ha colpito in me che non avevi mai trovato in
nessun altro. Ma non ho ancora capito perché tu abbia deciso di farti
carico di stare accanto a questo rottame di uomo che sono»
Loki
parve sorpreso: «James, tu non sei questo. Non sei soltanto questo. Io
l’ho visto. Non mi sono fatto carico di nulla, ti sto vicino perché lo
voglio. Dopo che ti ho raccontato tutto ciò che provo, credo che tu
possa capire che ne ho bisogno»
«Ma
tu… Tu non te lo meriti» non voleva che la sua voce si spezzasse,
quindi si fermò un attimo per respirare più a fondo «Tu dovresti avere
qualcuno che ti possa sostenere, non che ti trascini sempre più giù. È
come se stessi avanzando con un ferito grave caricato sulle spalle
senza poter fare nulla per aiutarlo. Per quanto tu possa tenere a lui,
ti rallenterà sempre e le probabilità che guarisca sono minime»
Il
Signore degli Inganni posò delicatamente la punta delle dita sul
braccio metallico di James: «Prima di tutto, io non merito nulla. Io e
il destino abbiamo già avuto molto da ridire e quindi credo di non
poter pretendere niente dal suo aiuto. Il tuo aver accettato di avermi
vicino è già stato un regalo più grande di quanto avrei mai potuto
pensare. Tu non mi rallenti, James, non sei un ferito grave in punto di
morte. Sei l’unica persona che mi impedisca di bloccarmi completamente
o affondare»
James
sorrise e abbassò gli occhi, quasi imbarazzato. Spostò la sedia un po’
più vicina a quella di Loki, muovendosi senza scatti in modo che
l’altro non togliesse la mano dal suo braccio.
«Quando
è uscita dalla mia mente» raccontò infine «la strega è passata
attraverso dei ricordi. Molti erano dolorosi. Persone che ho visto
morire. Spesso per mano mia. La caduta dal treno. Le operazioni. Ha
visto praticamente tutto. Ha visto dei ricordi che sono dolorosi adesso
perché sono distanti. Dei ricordi di Steve»
Loki
non disse nulla, mosse soltanto lievemente le dita della mano che aveva
posato sul braccio metallico, in una sorta di carezza. James non sapeva
quanto consciamente l’avesse fatto.
«In
quel momento stavo gridando perché il dolore era quasi insopportabile e
poi rivedere tutto quanto mi faceva male» continuò «Ma vederli così mi
ha fatto anche capire quanto sono distanti. Erano parte di un’altra
vita. Quando ci ripenso, non mi sembra neanche che fossi io ad agire e
tutto questo mi confonde. Non so cosa penso al riguardo, come mi sento.
So soltanto che forse potrei andare avanti»
La
sedia di Loki scricchiolò quando lui la spostò per avvicinarsi ancora
di più a James, mentre quella sul suo braccio diventava quasi una
stretta: «Stai dicendo che…?»
James
coprì la sua mano con la propria. Loki quasi rabbrividì a contatto con
la sua pelle.
«Sto
dicendo che forse non è più tempo di aspettare»
Improvvisamente
tutti e due si resero conto che il tavolo era di troppo in quella
stanza. Loki si alzò in piedi e James seguì il suo esempio, mentre le
loro mani abbandonavano riluttanti la presa l’una sull’altra. Per un
istante rimasero immobili a fissarsi. James si chiese se gli occhi di
Loki fossero sempre stati di quel verde o avessero qualcosa di diverso.
Fece
appena in tempo a domandarsi perché Loki non si muovesse, prima di
venire colpito da un pensiero: nonostante ciò che aveva appena sentito,
l’altro aveva ancora paura. Paura di esagerare. Paura di affrettare le
cose. Paura di non aver capito.
Ma
James quella volta era sicuro di aver capito e così fu lui ad
avvicinarsi. Un passo. Un altro passo. Loki lo guardava con gli occhi
di chi avrebbe voluto corrergli incontro perché un istante era già
troppo lungo e un millimetro a separarli voleva dire essere già troppo
distanti, ma continuava a stare fermo.
Per
un attimo, James ebbe paura. Ebbe paura di rovinare tutto. Ebbe paura
di non riuscire a essere chi voleva essere con Loki. Ebbe paura che
avrebbe avuto paura. Infine si disse che la paura era irrazionale, ma
lo erano anche le altre emozioni che provava in quel momento, quindi
non importava poi tanto.
Si
fermò a un respiro di distanza dal viso di Loki. I suoi occhi lo
fissavano quasi imploranti, gridavano che l’asgardiano bruciava dal
desiderio di quel bacio, ma non si sarebbe mosso, non per primo.
Colui
che per qualche minuto poteva smettere di essere l’ex-Soldato d’Inverno
alzò una mano fino a toccare la guancia di colui che in quel momento
aveva del tutto dimenticato di essere stato, una volta, il Signore
degli Inganni.
James
accarezzò la pelle del viso di Loki, tracciò la linea del mento e
proseguì fino a sfiorargli la gola con la punta delle dita, così
leggere che l’altro avrebbe potuto non accorgersene, se non fossero
stata l’unica cosa che gli importasse al momento.
Loki
dischiuse le labbra per prendere fiato. A quel minimo movimento,
qualcosa scattò finalmente nella mente di James. Non ebbe più
esitazioni, non aveva più paura. Lo baciò.
Non
era il primo bacio di Loki, non assomigliava neanche lontanamente a
quella serie di esperienze adolescenziali che cercava di tenere lontane
dalla propria memoria. Eppure aveva qualcosa di nuovo. Era come se la
sua mente stesse scoprendo tutto da capo. Era davvero così baciare? Non
aveva mai pensato potesse essere così travolgente.
Non
era il primo bacio di James. Si prese il proprio tempo, condivise
lentamente il respiro di Loki e nel riprendere fiato gli sfiorò i denti
e le labbra con la lingua. A ogni secondo che passava, gli sembrava di
dissipare una nebbia che lo aveva circondato per chissà quanto tempo.
Il fiato di Loki era una medicina, pensò confusamente. Si staccarono
per una frazione di attimo, prima che l’asgardiano riprendesse a
baciarlo, ogni paura dissolta.
Mentre
era distratto, perso in quel contatto che gli faceva così bene,
all’improvviso James pensò a Steve. Durò soltanto un istante,
un’esitazione che nascose facilmente con un ansimare leggero prima di
riprendere il bacio come se non fosse successo nulla, ma la sua
immagine era lì. La scacciò con la mente una prima volta, ma quando
Loki lo baciò di nuovo era ancora là pronta a riempire la sua testa.
Spalancò gli occhi e nel verde dello sguardo di Loki riuscì a liberarsi
di nuovo di Steve, ma non per molto.
Quando
infine si allontanarono abbastanza da guardarsi in viso, James non fu
abbastanza veloce a mascherare l’inquietudine.
«Qualcosa
non va?» chiese Loki, con la voce leggermente arrochita ma preoccupata.
«No,
va tutto…» cominciò James, ma si interruppe «È Steve» cedette.
«Steve»
ripeté Loki «Certo»
James
disse che gli dispiaceva, ma Loki scosse la testa, accarezzandogli la
tempia: «Non ce n’è bisogno. Dimmi soltanto cosa vuoi che faccia»
«Non
fermarti» chiese James «Ti prego»
Loki
annuì, serio come se avesse giurato, poi riprese a baciarlo. Non si
fermò, né James ebbe altre esitazioni. A un certo punto, in quella
mattina, James smise di pensare a Steve.
Lizzy's
Magic Corner:
Guess
who's back!
Ciao a tutt*!
Quanto tempo è passato? Quasi tre mesi? Chissà se mi ricordo ancora
come funziona questo sito...
All'epoca dissi "Riguardo
al nuovo capitolo (che spero di portare a termine molto più in fretta
di questo, ma purtroppo ultimamente l'ispirazione e la voglia di
scrivere litigano...) posso dirvi che sarà quasi certamente l'immediato
seguito di questo. Pensavo di spiegarvi qualcosa sulla CloaK
(nonostante dare spiegazioni non sia per nulla nel mio stile, ehm
ehm...) e magari presentarvi l'adorabile Nancy, ma per ora è tutto
molto nebuloso." E
infatti... non ho fatto nulla di tutto ciò.
Riguardo
alla lentezza ad aggiornare (anche se ormai dovreste averci fatto
l'abitudine...), non ho proprio scuse, se non che sto scrivendo altre
cose e ho iniziato questo capitolo tre volte prima di riuscire a
finirlo. Per il resto, vi avevo avvertit* che non avevo le idee molto
chiare. Per due volte ho cercato di scrivere il capitolo che vi avevo
annunciato (quello con le spiegazioni sulla CloaK, per intendersi), ma
poi mi sono resa conto che avevo bisogno di spiegare altri avvenimenti
prima e quindi vi toccherà aspettare ancora.
E
ora, le notizie importanti.
Verso
fine agosto parto. Non nel senso che vado in vacanza, ma nel senso che
faccio un anno di studi in Inghilterra. Non ho idea di cosa ciò
comporterà per la mia "carriera" su Efp. Intendo dire che, benché io
sappia per certo che avrò una connessione Internet a disposizione, i
miei ritmi saranno ovviamente diversi e quindi potrebbe essere che gli
aggiornamenti (che già non sono molto frequenti) diventino un evento da
segnare sul calendario. Oppure potrei non aggiornare per tutto il tempo
che sono via. Oppure, al contrario, potrei aggiornare ogni due
settimane. Non lo so e lo scoprirò soltanto una volta arrivata là.
Nel
frattempo, spero di riuscire a postare ancora un capitolo (magari due,
ma non vorrei pormi obiettivi esagerati) prima di volarmene via e
quindi dovrei avere occasione di salutarvi tutt* come si deve.
Chiudo
con un mega-grazie a Kyem13_7_3 per la sua recensione nello scorso
capitolo, a Pouring_Rain11 e GreekComedy che mi supportano sempre, al
mio consulente Marvel e mia sorella che sopportano i miei scleri, alle
17 persone che hanno messo tra i preferiti/seguiti questa storia e in
generale a chiunque abbia letto il capitolo.
Vi
lascio in pace, non preoccupatevi.
Che
gli dèi siano con voi!
-Liz
|
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