Void

di gretamustdie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Diverso e sbagliato. ***
Capitolo 2: *** Un ragazzo normale. ***
Capitolo 3: *** Sedici anni. ***



Capitolo 1
*** Diverso e sbagliato. ***


ANGOLO DELL'AUTRICE

Lo sto facendo? Lo sto facendo, davvero? A quanto pare sì, baldi giovini.
Che dire? Questa è la mia prima fanfiction Frerard, ma ci sto lavorando da circa un annetto. L'ho scritta a più riprese perché il 2015 per me è stata un'annata piuttosto pessima che preferirei archiviare. Ci sono stati periodi in cui scrivere, la mia passione più grande, era decisamente l'ultimo dei miei pensieri. Da qualche mese, però, mi son detta che fosse veramente uno spreco lasciare andare tutte le belle idee che avevo in testa, quindi ho ripreso in mano questa storia. Devo ammettere che i primi capitoli mi escono dalle orecchie, ormai, da quanto li ho letti, rivisti e perfezionati.
Il capitolo seguente è piuttosto statico, in quanto primo. Spero sia comunque di vostro gradimento.
Fatemi sapere cosa ne pensate con una recensione, mi fareste un grandissimo piacere soprattutto se avete delle critiche da muovere o dei consigli da dare.
Grazie per l'attenzione,

Greta

 

CHAPTER ONE

Diverso e sbagliato

 

 

Una mattina mi svegliai stranamente in modo spontaneo, di solito mamma era costretta a torturare la porta della mia stanza per permettermi di andare a scuola ad un orario decente. Mi voltai verso la radiosveglia e scoprii di essere notevolmente in anticipo. Privo della voglia di mettere i piedi a terra ed iniziare a prepararmi, mi soffermai a riflettere fra me e carpii una cosa davvero insolita: non provavo nulla. Non ero felice, né triste e nemmeno rilassato o addolorato. Il vuoto totale. Non capivo cosa mi stesse succedendo, solitamente prima riuscivo a distinguere e catalogare le mie emozioni. Eppure, da quel giorno, la mia vita si è colorata di un denso grigio duro a morire e, giuro, ho provato in tutte le maniere a tentare di colorare disperatamente le mie giornate. Dopo un paio di mesi dalla nascita di questa consapevolezza, trovai il coraggio di chiedere a mia madre di cosa potesse trattarsi per far luce a tutti i dubbi maturati di conseguenza. Il mio tentativo fu pressoché inutile, dato che non mi dedicò più di tanta attenzione e mi disse che alla mia età era più che normale e che, essendo giovane, avevo tutto il tempo del mondo per poter sviluppare dei sentimenti o delle sensazioni talmente forti da poter essere percepite. Per quanto riguarda i sentimenti le diedi in un certo senso corda, però per i miei stati umorali no. Non credevo fosse normale il fatto che nulla riuscisse a toccarmi minimamente e che, invece di colpirmi, mi scivolasse addosso quasi fossi rivestito da uno strato d’olio. Ogni tanto i miei migliori amici se la prendevano con me, ma non mi arrabbiavo minimamente. Piuttosto, non me ne fregava niente e lasciavo che inveissero contro di me finché non si fossero calmati. Volevo davvero capire il motivo di ciò, per cui mi affidai ad altro: dove i genitori e gli amici non possono arrivare, vi arriva Internet. Mi iscrissi in un forum amministrato da medici, andai nella sezione ‘Psicologia’ e posi il mio quesito. Non so di preciso perché mi fossi rivolto alla scienza, probabilmente perché sentivo di avere qualcosa che non andava in me. Nonostante fingessi il contrario, non mi reputavo un ragazzo normale. Ero diverso e questo pensiero mi accompagnava fin da bambino, solo che, crescendo, si era fatto sempre più frequente. Descrissi, dunque, il mio problema con la sfera affettiva ed umorale ed il mio costante sentirmi a disagio in mezzo agli altri. Purtroppo la maggior parte mi rispose nello stesso modo di mamma dicendomi che questa sorta di apatia non fosse un fenomeno anomalo fra gli adolescenti e ne rimasi deluso. Eppure sentivo che non funzionassi nel verso giusto, qualche meccanismo era difettato. Quello che piaceva agli altri, a me spesso non piaceva. Tante volte mi trovavo a dover prestare ascolto, annoiato, alle storie di Ray, il mio migliore amico, con la sua cotta storica, Christa. Mi raccontava sempre di quanto fosse bello baciarla, ma al solo immaginarlo mi veniva il voltastomaco. Non perché Christa fosse brutta, piuttosto mi chiedevo cosa ci fosse di bello nel baciare una ragazza. Sono il primo ad ammettere che siano delle creature stupende, ma non mi sognerei mai di sfiorarne una nemmeno per sbaglio. Se penso alle donne mi vengono subito in mente le mie due sorelle, Paula ed Alex, oppure mia madre. Non farebbe schifo baciare una di loro? Non mi è mai piaciuta un ragazza. Poco tempo fa credevo mi piacesse Jamia, una mia compagna della classe di chimica, ma mi sono reso conto che forse mi ero infatuato più dell’idea di essere innamorato di qualcuno che di lei in sé. Sono confuso, molto confuso. Da quella mattina tutto è cambiato e a distanza di un anno e mezzo ancora non capisco in cosa consista il mio problema. Perché sono sicuro di averne uno, per non dire più di uno. Non riesco ad innamorarmi di nessuno, perfino Bob è quasi riuscito a trovarsi una compagna. Anch’io vorrei, ma al contempo non lo voglio. E’ strano da spiegare. Il mio provar nulla comincia a stancarmi, per colpa di esso sono inesorabilmente svantaggiato rispetto ai miei coetanei: hanno quasi tutti dato il primo bacio ed altri addirittura sono andati oltre, mentre il massimo che abbia sperimentato io è stato sfiorare per sbaglio la mano di un individuo dell’altro sesso. Eppure le farfalle nello stomaco di cui tanto si parla non le sento, il famoso calore che t’investe quando vedi una ragazza carina è una cosa a me sconosciuta anche perché, nonostante siano diverse, per me sono tutte uguali. Me ne vergogno assai. Ho paura che se la gente lo scoprisse, mi additerebbe come quello diverso e, anche se so di esserlo, non voglio passare per un fenomeno da baraccone. Per questo ho confessato a Ray di essermi preso una sbandata per Jamia, così sembrerò di sicuro un po’ meno strano anche se, secondo me, in fondo ha capito che l’ho fatto più per convincere me stesso. “Frank!”. Sussulto spaventato e ritorno bruscamente alla realtà: sono nel sottotetto polveroso di casa mia con le ginocchia conficcate nell'addome e le braccia avvolte attorno alle gambe. Tutt’intorno vi sono scatoloni, due vecchie sedie ed una cassettiera con dentro chissà quali altri oggetti. Sinceramente non mi sono mai domandato cosa vi sia all’interno, se vengo qua è solo perché desidero stare solo, anche se in questa famiglia è praticamente impossibile. Quanto rompono, non riescono a mettersi in testa che quando mi rinchiudo in soffitta non voglio essere disturbato. “Che vuoi?”, urlo di rimando, scocciato. E’ Alex, la mia sorellina di undici anni. La botola sul pavimento in legno che collega al piano sottostante si apre mostrando uno spiraglio di luce, dopodiché esso viene offuscato dal suo faccino paffuto incorniciato da una treccia ricadente lungo una spalla. Roteo gli occhi, questa è violazione della privacy in piena regola. “Perché ti barrichi in questo posto orribile? C’è una puzza di muffa assurda!”. Gradualmente la sua figura si erge dal buco per poi salirvi del tutto, si guarda attorno con circospetto tentando probabilmente di capire cosa mi spinga a recarmi qui quasi ogni giorno. “Ha importanza?”, chiedo arrogantemente. Incrocia le braccia al petto e mi fa la linguaccia, mi sfugge mezzo sorriso. In fin dei conti il rapporto fraterno si basa soprattutto sulle rispostacce e le prese in giro. “Mamma ha chiesto se vieni giù in salotto”. Aggrotto la fronte stranito, che vuole quella donna da me? “Se lo ha chiesto significa che è una domanda e se è una domanda significa che posso rispondere di no”. Inarca un sopracciglio contrariata. So bene che in realtà si tratta di un ordine e non di un invito, però tentare non costa nulla. “Perché dovrei?”. Fa le spallucce. “Che ne so”. “Ma ti avrà accennato qualcosa”, sbotto spazientito. Scuote il capo. “Mi ha solamente chiesto di farti scendere”. La fisso per alcuni secondi, poi sbuffo arrendendomi. “E va bene”, mugugno. Mi sorride trionfante e la tentazione di tirarle uno scatolone addosso diventa tanta, si fa un po’ più avanti e mi porge la mano. La squadro malissimo e mi dice: “Andiamo?”. Mi alzo in piedi da solo guadagnandomi una sua occhiataccia e raggiungiamo l’uscita del sottotetto. La faccio scendere per prima lungo la scaletta a pioli, dopodiché lo faccio io. Non appena a terra, afferro il bastone poggiato al muro e faccio pressione sulla botola affinché si chiuda. Rimetto lo strumento dov’era e c’incamminiamo lungo il corridoio in direzione della scala. “Comunque potevi anche degnarti di darmi la mano”. Mi alzo il cappuccio della felpa sulla testa. “Con me non trovi Paula”. Sospira. “Mi manca così tanto”. Terminato il tragitto, cominciamo a scendere al piano di sotto affiancati. “E’ andata al college, mica in guerra”. “Possibile che tu non riesca ad essere dispiaciuto per qualcosa?”. Siamo esattamente in salotto, ovvero dove mamma mi ha convocato. Mi domando cosa ci sia di così importante da interrompere qualsiasi cosa stessi facendo. “Sono solo realista”. Mi butto a peso morto sul divano e lei mi si siede accanto, involontariamente mi scosto leggermente appena sento i nostri corpi entrare in contatto. “Mamma mia, non sono mica contagiosa”. Poso il gomito sul bracciolo e mi sorreggo il capo con un pugno. “E chi ha detto niente?”. “Beh, ti sei appena allontanato da me”. Poso i piedi sopra il tavolino di fronte a me con nonchalance. “Guarda che noi ragazze non abbiamo mica qualche malattia”. Ma quanto è pesante quando ci si mette? M’infastidisce il contatto fisico e stare troppo vicino alle persone, è una cosa universale che comprende sia maschi che femmine. “Alex, non rompere i coglioni”. “Junior, cosa sono queste parole?”. Ci voltiamo verso l’arcata che collega questa stanza alla cucina: mamma ha appena fatto il suo ingresso. Ha un traversone legato alla vita e la lunga chioma bionda raccolta in uno chignonne. Annuso l’aria e noto che è impregnata da un buon profumo, deve aver cucinato qualcosa di dolce. “E soprattutto: quante volte devo ripeterti di non mettere i piedi sopra il tavolino?”. A malavoglia, li tolgo da dove detto, dinnanzi non ho più mia sorella e risponderle in maniera sgarbata corrisponderebbe alla mia fine. “Perché ci hai voluti qua?”. Mi giro verso Alex e la osservo confuso. Quindi voleva parlare sia con me che con lei? “Tranquilli, non è niente di grave”. Mi pare di avvertire la mia anima alleggerirsi, solitamente, quelle poche volte in cui ci deve parlare, non è mai per qualcosa di buono e, spesso e volentieri, sono io la causa di tutto. “Volevo solo dirvi che fra poco verrete con me a far visita alla nuova famiglia arrivata nel quartiere”. “C’è una nuova famiglia?”, chiede Alexandra. “Sì, sono arrivati un paio di giorni fa. Sono un po’ strani e per questo molti del vicinato hanno preferito rimanere nelle loro, ma non mi pare giusto che non abbiano un degno benvenuto, no?”. Assumo un’espressione contrariata mentre ascolto in silenzio, ma la nota subito. “Che c’è, Junior?”. Rimango fossilizzato una decina di secondi per incamerare bene la situazione, poi spiego: “Beh, prima cosa: magari sono degli psicolabili con precedenti penali, come puoi essere così sicura che quel ‘un po’ strani’ non sia qualcosa di peggiore? Se la gente li evita, un motivo ci sarà. Secondo: è una grandissima perdita di tempo. Perché mai dovremmo fare gli amiconi di persone che manco conosciamo? Ci viene qualcosa in tasca? Io dico di no. Ed ultimo, ma non ultimo: non puoi andare solo te, visto che ci tieni tanto? Perché immischiare me ed Alex? Già che ci sei, chiedi a papà di farsi un permesso di uscita anticipata da lavoro per l’occasione e telefoniamo pure a Paula avvertendola di venire di corsa. Morale del tutto? Questa cosa non ha senso, mi rifiuto di prenderne parte”. Soddisfatto di aver esplicato al meglio le mie ragioni, alzo lo sguardo incrociando quello di mamma che, contrariamente, sembra rimproverarmi. Che ho detto di male? Fin da piccolo mi hanno insegnato che fosse assolutamente proibito mentire ed ora non va bene nemmeno essere sinceri. Ed è ironico come i primi ad essere dei bugiardi impongano ai figli il contrario. “Innanzitutto ci tengo che ci siate anche voi per presentare la maggior parte della nostra famiglia, ma in particolare voglio che tu venga perché hanno un figlio della tua stessa età che, tra l’altro, frequenterà la tua scuola e sarebbe bello se avesse qualcuno con cui parlare almeno i primi giorni. Non trovo che sia un’azione inutile, penso piuttosto sia cordiale ed umile. E’ una tradizione dare il benvenuto nel quartiere ai novellini, ma in questo caso, purtroppo, nessuno si è degnato di fare loro visita. Mi spiace un sacco perché ho parlato con la signora per pura casualità e mi è parsa una tipa a posto. Infine, per l’altra cosa, credo ti faccia troppi problemi. Va bene valutare in base all’opinione comune, ma sono impressioni a pelle e, di conseguenza, nulla deve andar preso per certo. Diverso o strano non sono sinonimi di sbagliato, sono solo pregiudizi senza fondamenta”. Un fitta allo stomaco m’investe, una frase s’imprime nella mia testa come sia incisa con un ferro rovente: ‘Diverso o strano non sono sinonimi di sbagliato’. Io sono diverso. Io sono strano. Io, però, sono sbagliato. Ai ragazzi della mia età dovrebbe piacere divertirsi ed andare alle feste, mentre preferisco di gran lunga chiudermi nel sottotetto o suonare la chitarra e comporre canzoni. I sedicenni dovrebbero avere una modesta esperienza in fatto di donne, mentre io non so manco come fare per baciarne una. Una volta stavo leggendo una rivista e vi era un membro di una rock band con della matita nera a contornargli gli occhi, vedendolo pensai fosse una figata. Allora mi chiusi in bagno per provare a mettermi quella di mia madre e, dopo svariati tentativi fallimentari, riuscii ad ottenere un risultato decente. Mi piaceva, mi piaceva molto vedere le mie iridi verdi valorizzate da quel contorno intenso. Poi, quando stavo per rimettergli il tappo, mi soffermai a leggere lungo di essa: c’era su scritta la parola donna. No, ero un ragazzino. Avevo dodici anni ed ero un maschio. Perché il signore del giornale si era truccato? Non ero una donna. Feci scorrere l’acqua del rubinetto e mi sciacquai il viso tenacemente, volevo che anche il minimo residuo sparisse completamente. Ritornato alla normalità, mi ripromisi che non avrei mai più tentato di usare i cosmetici di mamma e così è stato: non guardo nemmeno per sbaglio il suo beauty case, da quel giorno. Ancora ricordo, però, quando mi stessero bene gli occhi cerchiati di nero. “…mi senti, Frankie?”. Rinsavisco e torno fisso su mia madre. “Sì, basta che non utilizzi più quel soprannome riferendoti a me. Chiamatemi per nome o al massimo Junior, detesto quel nomignolo irritante”. Sospira. Sarà la centesima volta che lo ripeto, lo imparerà mai? “Vero, colpa mia. E’ che quand’eri piccolo ti chiamavamo sempre così ed ora è difficile smaltire l’abitudine. Ogni tanto me ne dimentico”. Si dimentica di un po’ troppe cose, mi sa. Di tutto ciò che riguarda la sua prole, tanto per cominciare. “Infatti, ero piccolo e non capivo. Ora capisco che Alex ha un soprannome più mascolino del mio e la cosa mi snerva”. Mia sorella mi picchietta sulla gamba, ma ritrae subito la mano non appena la fulmino. “Frankie lo trovo dolce”. Regolo il respiro per non sbottare male, non devo incazzarmi. No, non devo. “Io lo trovo da femminucce, okay?”. “Quanto sei permaloso”, sussurra fra sé. “A me gli occhi…”, guardo mamma. “…Frank”. Bene, sta migliorando. “Non sono disposta a scendere a compromessi, tu verrai perché il mio è un ordine”. Allargo le braccia esasperato, non ci tengo proprio a fare questa cazzata. “Dimmi cosa devo fare per rimanere a casa, sono disposto a tutto: lavare i piatti per un mese, apparecchiare e disfare il tavolo per tre o fare la lavatrice per sei”. Ridacchia, divertita. Cosa suscita la sua ilarità in ciò? “Sono tutte proposte allettanti, ma sappiamo entrambi che non le porteresti mai a termine. Vado a mettere la torta in un contenitore, voi intanto rendetevi presentabili che fra cinque minuti usciamo”. Abbandona la stanza tranquillamente, non ci posso credere: ha vinto e pure con classe. Non lo posso accettare, no. Per ripicca non alzerò il culo da questo divano finché non tornerà e non me ne frega niente se non mi sono preparato per andare da questi nuovi vicini di cui manco so il cognome. “Non ti sistemi?”, domanda Alex che, nel frattempo, si è già messa in piedi. Con molta pacatezza mi volto verso di lei e le rispondo impassibilmente: “Ho la faccia di uno che ha voglia di sistemarsi?”. Sbuffa e se ne va lasciandomi finalmente solo. Che problemi affliggono mia madre? Ma soprattutto: cos’ho fatto di male per meritarmi tutto questo? Più passano gli anni e più ho la certezza di essere stato adottato. Detesto questo suo voler apparire per forza come una famiglia perfetta, il sogno americano per eccellenza, perché no, non lo siamo. Cerca di tenerci uniti in ogni maniera possibile ed immaginabile, ma non ha senso fingere una felicità che non ci appartiene. Perché lo so, lo so che i miei genitori sono separati in casa e che, quando io ed Alex siamo a dormire, silenziosamente mio padre sgattaiola in un’altra stanza. Dura da tre anni questo circolo vizioso ed inizio a non sopportarlo. Non sono più un bambino, eppure continuano a trattarmi come fossi stupido e fanno finta di amarsi, ma ricordo ancora la sera in cui ho visto papà baciarsi con un’altra donna. Ho una tale rabbia dentro che potrei esplodere in qualsiasi momento. Il bello è che sanno che sia io che Paula ne siamo al corrente, eppure si ostinano a portare avanti questa sceneggiata perché l’unica all’oscuro dei fatti è nostra sorella minore. Mi domando quando si decideranno a rivelarglielo. Se in più ci aggiungiamo il fatto che mi senta costantemente inadeguato quando sono in mezzo ai miei coetanei e che tema come la peste il giudizio altrui, abbiamo il quadro perfetto per una meravigliosa vita di merda. “Cosa pensi di fare ancora seduto?”. Schiodo lo sguardo dal pavimento, mia madre è davanti alla porta principale con il dolce in mano mentre mi osserva severamente. “Medito sulla vastità dell’universo e sulla possibilità di trovarvi altre forme di vita”, replico ironico. Assume un’espressione poco convinta, per poi dire: “Smettila di fare il cretino e alzati”. Ribalto gli occhi scocciato e mi alzo dal divano, attraverso il soggiorno per raggiungerla accanto all’uscita. “Non ti sei cambiato”. Ma davvero? Che arguzia, Sherlock. “Se mi vedi gli stessi vestiti addosso significa che no, non mi sono cambiato”. Mi rivolge un'espressione estenuata. “Per favore, cerca di essere simpatico quando saremo a casa degli Way o, almeno, provaci dato che non è il tuo forte”. “Ci proverò, ma non ti assicuro nulla”. “Per me è già tanto”. “Sono pronta!”. Ci voltiamo all’indietro, Alex si è sciolta i lunghi capelli castani ed ha cambiato la maglia, sostituendola con un golfino. Usciamo silenziosamente e passiamo per il nostro giardino arrivando sul marciapiede. L’abitazione di questa nuova famiglia pare essere di fronte alla nostra, ora capisco perché nell’ultima settimana ho visto spesso un camioncino parcheggiato di fronte ad essa tornando da scuola. Non mi ero posto alcun quesito su cosa stesse succedendo, comunque. Attraversiamo la strada e ci troviamo proprio davanti all’edificio: ha tre piani, è rivestito con intonaco bianco ed è tale e quale a qualsiasi casa americana tipo. Una residenza semplice, da quanto appuro. Giunti nel porticato in cui vi è l’entrata, mamma mi chiede di tenerle la torta e, controvoglia, faccio quanto domandatomi. Suona il campanello, da fuori non si sente alcun rumore perciò, in cuor mio, spero non vi sia nessuno così avremmo una scusa per andarcene. Purtroppo le mie speranze vengono bruscamente frantumate da una signora sulla cinquantina che appare sull’uscio. Bassa perfino più di me, dalla corporatura esile e coi capelli di una tinta biondo platino scolorita. Inoltre ha un trucco stravagante ed è vestita con una maglietta larga multicolore e dei pantaloni di stoffa grigia, anch’essi oversize. Avevano ragione i vicini: questi Way sono strani, non oso pensare come siano gli altri. “Buongiorno”, esordisce cordialmente mia madre. “Sono Linda, la vicina con cui ha parlato stamattina. Abito qui di fronte e questi sono i miei figli: Frank ed Alexandra. Siamo venuti a darvi il benvenuto nel nostro quartiere”. La donna accenna un sorrisetto ed ha l’aria perplessa, poi posa lo sguardo su di me e su ciò che tengo in mano. Non sembra molto sicura ed ha tutta la mia comprensione, penso ancora sia una cagata. “Sono Donna, uhm… certo, entrate pure”. Ci fa un cenno e si fa indietro in modo da farci passare, mi guardo attorno curioso in quanto mi trovo in un nuovo ambiente. C’è molto disordine: riviste sparpagliate sopra il tavolino dinnanzi al sofà, oggetti strambi posati ovunque senza un criterio ben preciso ed un forte profumo d’incenso mi stuzzica le narici. E’ tutto molto colorato e particolare, le pareti sono decorate da quadri con simbologie a me ignote ed i mobili colmi da sculture naif e cianfrusaglie mai viste prima. “Mi piace come avete sistemato”. Mamma bugiarda a livelli estremi, so benissimo che questo non è il suo genere. “Grazie mille. Prego, accomodatevi”. Toglie un po’ di cose dal divano per permetterci di sederci e scosta alcuni giornali dal tavolino per farmi poggiare il dolce. “Arrivo subito”. Donna ci lascia soli in salotto, non appena sono certo si sia allontanata del tutto mormoro: “Si può sapere in che razza di posto mi hai portato?”. Fa le spallucce. “Vedrai che ti piaceranno, sono solo un po’ originali”. “Un po’ originali? Me ne frego dell’originalità. So già che non mi piaceranno e basta. Cavolo, hanno un elefante sul tavolo da pranzo, ti sembra normale?”. Spontaneamente l’occhio ricade sul tavolo nel quale, al posto di un centrotavola, vi è posta la scultura di un elefante rampante. “A me piace come casa”, commenta mia sorella. “Non ricordo di aver chiesto la tua opinione”. “Junior, smettila di rivolgerti così a tua sore… oh, buongiorno”. Ci giriamo verso le scale, la signora è tornata in compagnia di un ragazzo alto, castano, magro ed occhialuto. Suppongo si tratti di suo figlio, anche se non le somiglia per niente. “Sono riuscita a recuperarne solo uno”, ammette ridacchiando. “L’altro non ha molta voglia di scendere”. Ah. Mia madre dovrebbe prendere esempio da lei: se uno non ha voglia di fare qualcosa, bisogna rispettare la sua decisione e lasciarlo in pace. “Questo è Michael, il più piccolo, anche se ha già la bellezza di sedici anni. Ha la tua stessa età, Frank”. Sorrido forzatamente annuendo, non reggo questa legge genitoriale secondo cui chi ha la stessa età debba per forza andare d’accordo. “Quindi tu andrai a scuola con Frank? Che bello, immagino tu non veda l’ora d’iniziare”. Mamma, ma che dici? E’ palese che l’ultimo dei suoi pensieri sia la scuola. Delle volte dubito seriamente che i miei genitori siano stati adolescenti un tempo, certe cose dovrebbero saperle. “Un po’ sì”, risponde piattamente. “Stai tranquillo, Frank ti starà vicino i primi giorni per aiutare ad ambientarti”. Imbarazzato, rimuovo il coperchio del contenitore della torta, tutto pur di non assistere a questa scena a dir poco disagevole sia per me che per questo Michael. “Bene, sarà molto importante conoscere una persona del posto perché è alquanto disorientato”. “Penso sia normale, ma vedrai che Frank farà del suo meglio per farlo sentire a casa”. La smette di mettermi in bocca parole che non ho detto? Non sapevo della sua esistenza fino a cinque minuti fa, come posso averle promesso di aiutarlo? Non si rende conto che stanno praticamente interloquendo solo lei e Donna? “Beh, se volete, potete andare di sopra mentre chiacchiero con Linda ed Alexandra. In questo modo Frank potrà vedere il piano superiore”. “Sì, è una bellissima idea, così potrete iniziare a conoscervi già da ora”. I presenti adesso sono voltati verso di me come se stessero aspettando un mio responso, l’altro, dal suo canto, si fissa le scarpe in religioso silenzio. “Io pensavo di… ehm, mangiare la torta”. Una delle peggiori scuse che abbia mai formulato in vita mia, ma la situazione è talmente paradossale da mandarmi in tilt. Mia madre mi lancia un’occhiata di rimprovero sottecchi. “Cosa vuoi che sia per la torta? Te ne terremo una fetta da parte!”, mi esorta. Mi torna in mente la promessa fatta poco fa, per cui, a malincuore, dico: “Uh, okay”. “Vado a prendere un coltello per tagliare la torta”, annuncia la signora. Faccio per alzarmi, ma mamma mi sussurra: “Avevi detto che avresti provato ad essere simpatico, mi raccomando”. Annuisco svogliatamente e mi metto in piedi, raggiungendo il ragazzo dall’altra parte del salotto. Mi sento basso accanto a lui, ma in fondo sono già abituato a fianco a Ray e Bob. Perché vogliono forzarci a diventare amici? Adulti: chi li capisce, è veramente bravo. Noto che si sta avviando verso le scale per cui lo seguo, saliamo fino al piano di sopra per poi trovarci in un corridoio lungo e largo. Come pretende che faccia il simpatico con lui, se non mi parla? Pare abbia qualche problema d’espressione o di relazione con le persone, sarà mica preso peggio di me? Ci fermiamo di fronte ad una porta, la spinge e dentro si scopre essere la sua camera. Vi entriamo e si siede sopra il letto, mentre io rimango in piedi come un ebete nel bel mezzo della stanza. E’ tappezzata da poster di rock band ed alcune, tra l’altro, le ascolto pure, tipo i Misfits ed i Black Flag. Abbiamo qualcos’altro in comune oltre all’età. C’è una scrivania con un computer fisso ed una pila accatastata alla bell’e meglio di quelli che sembrano fumetti. Ciò che mi rapisce in particolar modo, però, è un basso poggiato su un cavalletto. Dunque anche lui suona, interessante. “Bella la tua tana”. Aggrotta la fronte. “Tana?”, ripete. Cristo, questa parola l’avrò detta sì e no due volte in tutta la mia miserabile esistenza. Nei film pare un modo di dire divertente, ecco perché mi è uscito. Sembro patetico, non simpatico. Che figura di merda. “Intendevo dire... la tua stanza”. Mi osserva per alcuni secondi serio, l’espressività del volto in questo tizio è pressoché inesistente. “Grazie”. Ci è voluto così tanto per un solo ‘grazie’? Siamo a posto. “Vedo che suoni il basso, Michael”. Fa cenno di sì col capo, per poi dire: “Chiamami pure Mikey”. Mi sfugge una frivola risata. “Non t’infastidisce come soprannome?”. Inarca un sopracciglio. “No, perché?”. Scrollo le spalle. “Non so, forse perché è troppo dolce. Non preferiresti ti soprannominassero Mike, invece che Mikey?”. Scuote la testa. “Mi chiamano così da sempre, non vedo perché dovrebbe infastidirmi”. Mi poggio con una mano sulla scrivania, reggendo meglio il peso del mio corpo. “Ricordo che da piccolo mi chiamavano tutti Frankie, neanche fossi una femminuccia. Tra l’altro sono il figlio di mezzo e l’unico maschio, è anche per questo che spesso mi trattavano quasi alla pari delle mie sorelle”. Mi squadra imperturbabilmente. “Non ci trovo nulla di femminile nel tuo soprannome”, afferma. “Sarà, ma a me proprio non piace. Leggi fumetti?”. Mi dovrebbero premiare per il mio grandissimo sforzo, sto tentando in tutti i modi di essere una persona affabile e sono riuscito a togliergli di bocca più di un paio di monosillabi. Mi sento una divinità scesa in terra. “In verità no, sono di mio fratello. Me ne ha prestati alcuni perché li leggessi, ma ne ho cominciati due e li ho abbandonati subito”. “Ti capisco, neanch’io vado matto per questo genere di cose”, poi aggiungo: “Puoi dirmi dov’è il bagno?”. Cerco di sorridere nel modo più naturale possibile, cercando di trasmettergli una parvenza di gentilezza. “E’ l’ultima a sinistra, non puoi sbagliare”. “Okay”. Vado verso l’uscita, esco e richiudo la porta alle mie spalle. Lancio uno sguardo lungo il corridoio e sì, effettivamente c’è solo una stanza così tanto in fondo. Inizio a camminare a passo abbastanza spedito, quando, improvvisamente, un uscio si apre ed una persona si scontra con me facendomi sbattere contro il muro. Mi volto di scatto rabbiosamente verso chiunque sia stato talmente sconsiderato da gettarsi fuori in questa maniera e rimango letteralmente paralizzato, come se mi avessero congelato in un solo istante. Dinnanzi ho un ragazzo, sicuramente più grande di qualche anno, dai capelli corvini, leggermente lunghi, spettinati e ricadenti lungo il viso. E’ più alto di me, anche se credo che sotto questo punto di vista ci voglia veramente poco, ha un colorito cadaverico ed una corporatura non troppo magra. I miei occhi s’incastonano coi suoi e rimango rapito dall’intensità del suo sguardo, l’iride è di un verde ipnotico ed omogeneo. Non credo di aver visto niente di simile in vita mia. “Tu chi sei e che ci fai in casa mia?”, sbotta sulla difensiva. Cado dalle nuvole atterrando dolorosamente sul terreno, non dovevo di certo aspettarmi una reazione cordiale. “Ehm… Mmh…”. Perché non riesco a dire nulla? Parla, Frank. E’ l’unica cosa che sai fare, perché non sei in grado? “Ce l’hai un nome sì o no? O ti devo chiamare ‘quello che mi è precipitato addosso’?”. E’ dotato di sarcasmo e mi fa piacere, di solito né mamma né Alex riescono a carpirlo ed apprezzarlo. “Frank”. Incrocia le braccia al petto studiandomi con un’espressione corrucciata, mi sento perfino più a disagio che prima di sotto con Mikey e non ne comprendo il motivo. “Ah, dunque ti chiami Frank. Bel nome. Io sono Gerard e devo ancora capire cosa tu ci faccia qui”. Mi pareva di aver scorto un barlume di gentilezza nella sua frase, ma mi sbagliavo. “Abito dall’altra parte della strada, mia madre ha praticamente costretto me e mia sorella a darvi il benvenuto nel quartiere”. Annuisce immagazzinando ciò che gli ho appena riferito, almeno adesso riesco a rispondere. “Ora capisco perché mamma voleva che scendessi di sotto, a quanto pare ho fatto bene a non andarci”. Abbozza un sorrisetto beffardo, ma quanto è stronzo? Perfino più di me. Mi piace. Sarò stupido, ma m'intriga come aspetto. Non capisco perché spesso capiti che la gente tenti di essere disperatamente buona nei miei confronti, mentre, dalla mia parte, non faccio altro che atteggiarmi da arrogante graziandoli con la mia acidità. Lui non si fa scrupoli a trattarmi in malo modo anche se sono praticamente uno sconosciuto e, cosa ancora più strana, non trovo il coraggio di ribattere col mio tono caratteristico. Di certo sarà perché ha un'età maggiore e, di conseguenza, mi sento di dovergli portare rispetto oppure perché mi mette in tremenda soggezione. Opto per la prima, anche se dentro di me so che è, in realtà, la seconda. “Non ti perdi niente, in verità”. Storce la bocca disgustato e si gratta la testa, noncurante. “Lo sapevo senza che me lo venissi a dire tu, ragazzino. Quanti anni hai?”. Involontariamente mi mordicchio il labbro inferiore, ma mi blocco subito non appena vengo a contatto col labret laterale. Mio padre non mi ha parlato per una settimana quando mi sono presentato a casa col piercing al labbro, per non parlare di quello al naso. Sono state le settimane più belle di sempre senza la voce di quel vecchio dispotico a ronzarmi nel condotto uditivo. “Sedici fra poco più di una settimana”. Solleva entrambe le sopracciglia. “Sedici? Veramente? Avrei detto tredici dall’altezza”. E’ ufficiale: è bastardo forte, ma, dal momento che sono piuttosto autoironico, questa battuta non mi tange. “Beh, può costituire un vantaggio. Non hai idea di quante entrate libere mi sia fatto grazie alla mia altezza”. Riesco a strappargli una mezza risata e ne sono contento. Un bel voto non mi fa né caldo né freddo, ma, far divertire questo ragazzo che praticamente non conosco, mi rende orgoglioso. Mi sento come fossi l’unico al mondo ad essere stato in grado di farlo ridere vista la sua indisponibilità, che pensiero idiota. “Non male”, replica annuendo. “Tu quanti anni hai, invece?”, chiedo. La sua faccia diventa tutto d’un tratto scioccata e, teatralmente, si porta una mano alla bocca spalancata. “Come osi? Non si chiede”. In imbarazzo, cerco di riparare subito. “Oh, scusami. Non volevo in alcun modo…”. Una risata sguaiata invade il corridoio, sgrano gli occhi mentre lo osservo prendersi gioco di me per l’ennesima volta. Torna normale e cerca di riprendere fiato, poi mi posa una mano sulla spalla e m’irrigidisco repentinamente. Contatto fisico. “O sono io che dovrei andare a studiare recitazione o sei tu che dovresti darti una svegliata, ragazzino. Ho vent’anni, comunque”. Toglie la mano e si allontana, poi, improvvisamente, si arresta e si volta all’indietro. “Ah, sappi che faccio schifo a recitare”. Sorride perfidamente, poi aggiunge: “Non è che dovevi andare in bagno, vero?”. Scuoto vigorosamente il capo. “Perfetto, perché devo andarci io”. Continua a dirigersi verso la stanza sul fondo, mentre osservo attentamente la sua figura di spalle in movimento. Apre la porta e sparisce varcando la soglia del bagno chiudendo il tutto dietro a sé. Gerard

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Capitolo 2
*** Un ragazzo normale. ***


ANGOLO DELL'AUTRICE

Sicuramente vi starete lamentando del mio ritorno quasi repentino. Eh vabbè, sopportatemi.
Se l'ho postato così presto c'è un motivo, ovviamente. Avevo già in mente di caricare i primi due capitoli a distanza di poco tempo, ma nei prossimi giorni sarò via per Capodanno e successivamente sarò impegnata coi compiti che devo ancora cominciare. Che studentessa modello.
Dopo questo capitolo, cercherò di stare dentro nelle due settimane per quanto concerne l'aggiornamento. Questo non perché non abbia i capitoli, anzi, fino al settimo sono pronti per essere rivisti. Il punto è che dall'ottavo in poi saranno piuttosto densi e mi ci sto veramente mettendo d'impegno per rendere al meglio determinati dialoghi e situazioni, dunque non voglio prendermi eccessivamente indietro con la stesura della fanfiction.
Ad ogni modo, a parte mostravi il mio essere logorroica, ci tenevo a ringraziare chi ha recensito e chi ha messo la storia fra le preferite, le seguite e le ricordate. E anche, perché no, chi si è premurato di complimentarsi contattando il mio profilo twitter. Grazie mille.
Fatemi sapere cosa ne pensate con una recensione, sia che sia un'opinione negativa o positiva. Sono pronta ad accettare tutto.

Greta

 

CHAPTER TWO

Un ragazzo normale

 

 

Le mie dita pizzicano le corde in ferro della mia chitarra acustica, tengo le palpebre serrate mentre lascio che sia la musica a dettare ogni mio singolo movimento. Lentamente inizio a far ondeggiare il capo armoniosamente a ritmo di una melodia lineare, ma dalle sfumature cupe e tristi. Apro gli occhi e, aldilà della finestra che ho dinnanzi a me, riesco ad intravedere la casa bianca degli Way. Poso delicatamente una mano sopra le corde per fermare le loro vibrazioni e fissare l’abitazione dall’altro lato della strada. Quella famiglia è molto strana: la madre sembra una venticinquenne nel corpo di una cinquantenne, Michael, o Mikey, è taciturno e poi c’è quel Gerard. Di lui non penso nulla, probabilmente perché se mi soffermassi a pensare la mia mente diventerebbe un luogo affollato e confusionario. So solo che mi mette a disagio, ha vent’anni ed è irrimediabilmente stronzo. Ammetto di non essere il massimo della simpatia, ma almeno mi sforzo a sembrare un minimo gentile. A lui non sembra importare. C’è un aspetto, però, che anche a distanza di ore mi turba: perché non riuscivo a rispondergli a modo? Do rispostacce a destra e a manca, spesso senza volerlo. Perché a lui no? Dovevo fare il simpatico, in fondo è quello che promesso a mia madre. Cosa dico? Non l’ho fatto per nessuno, non ero proprio in grado. Qualcuno bussa alla porta interrompendo le mie riflessioni, ho già detto che in questa casa non esiste il concetto di ‘privacy’? “Chi sei?”, chiedo svogliatamente. “Babbo Natale, chi vuoi che sia?”. Come sempre è mia sorella a sfracellare i cosiddetti. Non ha delle amiche quella ragazzina? Una vita? Un hobby? “Babbo Natale? Mi spiace, ma nego l’accesso a chi non esiste”. Un altro battito. “Alza il culo da quel letto e scendi che è pronta la cena”, sbotta. Roteo gli occhi, faccio scivolare la chitarra sotto il letto ed esco dalla camera. La trovo a braccia conserte intenta ad aspettarmi e le punto il dito contro. “Tu devi portarmi rispetto, ragazzina. ‘Alzi il culo’ lo dici a qualcun altro, non a me. Intesi?”. Ironico come per me Alex sia l’equivalente di una ragazzina ed io sia lo stesso per Gerard. Perché mi torna ancora in mente quello lì? Scaccio subito il pensiero, infastidito solamente per averlo concepito. “Mi sento giustificata dal momento che, dicendo che Babbo Natale non esiste, mi hai ricordato qualcuno che me l’ha rivelato in maniera decisamente insensibile”. Sbuffo. “Avevo solo nove anni”. “Ed io ne avevo quattro!”, ribatte. “Sai quant’è stata dura per me superarlo? Mi hai rovinato la magia del Natale praticamente da sempre”. Faccio le spallucce, come se me ne importasse qualcosa della magia del Natale. “Tanto il Natale fa schifo, non ti perdi granché. Solo regali più belli perché c’è dietro il mito di Babbo Natale, da quando sai che non esiste ti donano la bellezza di pantofole e portachiavi. Oh, ma aspetta: io non sono il cocco di casa, non hanno continuato a farmi doni strafighi nonostante tutto”. Le lancio un’occhiataccia mentre percorriamo il corridoio per scendere al piano di sotto. “Cosa ci posso fare? Mica li decido io i regali”. Imbocchiamo le scale e dico: “Però le richieste le fai, le fai eccome. Ricorderò sempre quando, due anni fa, a Paula è arrivato un cellulare, a te un walkman come volevi ed io, che come un cretino avevo chiesto una chitarra elettrica, ho trovato un paio di ciabatte sotto l’albero. ‘Ma sono pure antiscivolo, pensa alla comodità'. Me ne frego della comodità se tutti hanno avuto regali tecnologici ed io no”. “Come sei lamentoso”. “Vorrei averti vista al posto mio”. Arrivati in salotto, lo attraversiamo e varchiamo l’arcata che collega alla cucina. Il tavolo al centro di essa è apparecchiato e vi sono già i nostri genitori seduti in attesa del nostro arrivo. Il cibo è servito nei piatti, manchiamo solo noi. Silenziosamente li raggiungiamo e ci accomodiamo sui nostri rispettivi posti: io accanto a mamma e Alex di fronte a noi vicino a papà. E’ dalla separazione dei miei che si respira un’aria malsana quando ci troviamo tutti nella stessa stanza, se non fosse per i pasti nostro padre, ad esempio, sarebbe sempre barricato nel suo studio personale. Si capisce che qualcosa è rotto e non funziona, ma si sono accaniti a portare avanti questa sceneggiata e chissà quando porranno fine ad essa. “Com’è andata a scuola?”. Ed ecco la solita domanda che viene puntualmente fatta ad ogni cena, in fondo quali altri argomenti potremmo affrontare? In questa famiglia il dialogo fra i vari membri è pari a zero. “Bene, papà”. Un rumore di posate mi fa rinsavire. Mi rendo conto di essere ancora immobile a fissare la zuppa di verdure di fronte a me, quindi mi decido ad afferrare il cucchiaio e mangiare. “E te, Junior?”. Ne porto un po’ alla bocca e deglutisco, per poi rispondere: “Il solito”. Giocherello col liquido raccogliendolo e poi facendolo gocciolare all’interno del piatto ripetutamente, è evidente che non abbia fame stasera. Strano, di solito l’appetito non mi manca. “Sai, Junior, stavo pensando al fatto che tu non ci abbia mai presentato una ragazza”. Involontariamente lascio cadere il cucchiaio, il quale finisce rovinosamente all’interno della minestra sguazzandomi. “Cazzo, la felpa con le ossa”, impreco fra me prendendo un tovagliolo e tamponando dove vi sono delle macchie. “Domanda scomoda?”, insiste. Alzo lo sguardo e lo incenerisco, poi poso il rettangolo di carta a lato del piatto. “No, perché?”. Allunga la mano al centro del tavolo per prendersi un po’ di pane. “Era solo per chiedere. Insomma, hai sedici anni ormai ed almeno un’amichetta l’avrai avuta”. Amichetta. Cristo, quanto odio la terminologia degli adulti. “Beh, non è detto. E poi è ancora giovane per pensare a queste cose”, s’inserisce mia madre nel discorso. In un certo senso sono felice che abbia difeso la mia posizione, in un altro no perché sono sicuro che ciò che sta dicendo mio padre abbia un fondo di verità: dovrei aver avuto almeno una storia, magari di quelle senza impegno, ma non l’ho mai avuta. “Ancora giovane? A sedici anni hai gli ormoni a mille, è naturale pensare a certe cose”. Arrossisco e chino il capo verso la zuppa, la posata non è ancora stata rimossa. “Non credi che, magari, Junior sia diverso e stia aspettando il momento giusto?”. Diverso. No, non lo sono. O, meglio, lo sono, ma non voglio esserlo. Torno a guardare mio padre timidamente. “In verità ci sarebbe una ragazza…”, mento con la voce tremolante. “Oh, mi fa piacere. Stavo iniziando a preoccuparmi”, dà un piccolo colpetto di tosse. “Frank”, lo ammonisce mamma. “Che c’è? Sai come la penso”. I miei occhi guizzano da una parte all’altra della tavola sospettosi, mi stanno sicuramente nascondendo qualcosa. “Anche tu sai come la penso”. La tensione fra i miei genitori è palpabile, si stanno lanciando occhiate di fuoco e decido di rivolgere a mia sorella un’espressione che esprima il disagio nell'assistere a questa situazione scomoda. Per tutta risposta deglutisce e si mette a giocherellare col bordo del tovagliolo, è tipico di questa famiglia far finta di niente. Il non voler accettare la realtà e recitare in modo del tutto improvvisato dei ruoli che non ci appartengono, ma che ci ostiniamo a mostrare per una questione di facciata. Io sono la pecora nera, quello che, nonostante si adegui ai dettami impartiti fin da quand’era in fasce, non riesce a nascondere la parte più viscerale di sé, la più intransigente. No, non sono decisamente il figlio modello che vorrebbero. Sono sfrontato, cocciuto, non ho peli sulla lingua e piuttosto di mentire spudoratamente, preferisco stare zitto e far trasparire comunque la mia opinione. Questi aspetti del mio carattere, dunque, sono ardui da soffocare e fatico a non farli emergere. Soprattutto da quando è cominciato quel magico periodo della vita che gli adulti tanto rimpiangono, ma che realmente è a dir poco raccapricciante, più comunemente chiamato ‘adolescenza’. Do un colpo all’indietro con la schiena in modo da scostare la sedia dal tavolo e potermi alzare. Non sarebbe la prima volta che lascio un pasto a metà e, a dire il vero, questo non l’ho neppure toccato. “Dove pensi di andare?”, chiede papà con tono severo. “Non ho fame”. Cerco di dileguarmi, ma ci si mette pure mamma: “Almeno aspetta che tutti abbiano fini…”. Non fa in tempo a terminare la frase che mi sono già precipitato in salotto, diretto alla rampa di scale. Arrivo spesso al punto in cui l’unica cosa che riesco a fare quando li vedo è detestarli, detestarli con tutto me stesso. Loro non capiscono, nemmeno ci provano. Quand’è stata l’ultima volta che ho parlato da solo con mio padre? Forse tre o quattro anni fa. E con mia madre? Sì, abbiamo minimo uno o due dialoghi al giorno, ma nulla d’importante come sempre. I soliti stupidi e banali argomenti, tipo la scuola. Arrivato al piano di sopra mi fiondo a falcate verso la mia stanza, vi entro e mi ci chiudo dentro a chiave. Non so di preciso perché lo faccia, l’unica che potrebbe disturbarmi è Alex e per me è già tanto. I miei genitori non si prenderebbero mai l’incommensurabile briga di alzare il culo, venire fin qui e chiedermi cosa ci sia che non va. No, troppo faticoso. Meglio fingere di essere la famiglia unita ed indistruttibile che tutti sognano, quando invece se osservati con la lente d’ingrandimento paiamo quattro sconosciuti messi a vivere sotto lo stesso tetto forzatamente. Siamo già distrutti da un bel pezzo. In questo momento invidio Paula più che mai, lei sì che ha fatto la scelta migliore: ha avuto il fegato di abbandonare Belleville per frequentare l'Università dei suoi sogni, sebbene si trovi in un altro Stato. E' scappata da questa cittadina fin troppo stretta per una ragazza di larghe vedute come lei. Se n’è andata e mi ha lasciato qui, passandomi il peso di figlio maggiore sulle spalle. Mi ha abbandonato in questo posto odioso a gestire una situazione familiare che mi fa venire il voltastomaco. Forse è per questo che la nomino poco e non le telefono mai, non capisco perché mi senta così tradito da lei. Avevamo un bellissimo rapporto, era una delle poche persone in cui riponevo la mia totale fiducia e mi aveva promesso che avrebbe frequentato un college poco distante per mantenere i contatti. Bugiarda. Sono quasi sicuro che Chicago non sia in New Jersey. In un certo senso sono contento che abbia deciso di pilotare la sua vita come meglio crede, ma al contempo non riesco a non provare una sorta di rancore. E sì, anche se tendo a sviare il discorso o a sminuirlo, mi manca un sacco. In fondo, è pur sempre mia sorella e ci sono cresciuto assieme. Certo, non avevamo il dialogo libero e senza censure che si può avere con un amico, ma era senz’altro meglio di niente. Quando ne avevo bisogno c’era, anche quando, spaventato a morte dai mostri, facevo capolino nella sua camera a chiederle se potevo trattenermi a dormire con lei per una notte. Poi, con l’avvento dell’adolescenza, ci siamo allontanati sempre più e penso sia normale, ma da bimbi eravamo inseparabili. Ammetto che a volte capitavano delle serate in cui ci aprivamo sugli argomenti che ci toccavano maggiormente, in particolare sui nostri genitori. L’ultima è stata due anni fa. Da quando ho scoperto che se ne sarebbe dovuta andare lontano da qui non sono più riuscito a trattarla nello stesso modo. Ogni tanto rimpiango di aver passato quasi un anno ad ignorarla per poi salutarla il giorno della sua partenza in maniera fredda e distaccata. Poi torno in me, ricordandomi come monito personale che sono Frank Iero e non me ne frega niente di nessuno. Nemmeno di mia sorella. Sento dei rumori provenire dal corridoio, istintivamente mi tolgo le scarpe e mi nascondo sotto le coperte. Faccio scivolare un braccio da sotto il piumone e spengo la luce, almeno così crederanno che sono davvero andato a dormire. Ogni piccola cosa è finzione in questa casa. Sobbalzo quando avverto il brusco tentativo di aprire la porta abbassando la maniglia, ma senza produrre alcun risultato. Ho fatto bene a chiudermi dentro a chiave. Dall’altra parte nessun segno di vita così come, volutamente, dalla mia. Dopo alcuni secondi di stallo, la persona in questione se ne va. Mi rannicchio su me stesso promettendomi di alzarmi e mettermi in pigiama di lì a poco, ma il sonno mi coglie impreparato facendomi annegare in esso.

 

Sono fermo sul marciapiede adiacente al giardino di casa mia, mi volto all’indietro e constato che mamma è ancora sull’uscio ad osservarmi. Sbuffo e torno a guardare l’abitazione degli Way dall’altro lato della strada, spazientito. Voglio solo che quell’altro si sbrighi e venga posta fine a questo teatrino per niente simpatico. Finalmente la porta d’ingresso si apre e sbuca Mikey con un cappello di stoffa in testa, un giubbotto decisamente fuori misura vista la sua esile corporatura e guanti mezze dita. Un look perfetto per andare a spacciare nei luoghi più malfamati della città. Attraversa il giardino e, andando oltre con lo sguardo, noto che pure Donna è intenta a studiare le mosse del figlio. L’ho già detto che non sopporto quando i genitori vogliono farti stringere amicizia con qualcuno per forza? Il ragazzo dà un’occhiata a destra e a sinistra per assicurarsi che non stiano per passare automobili. Belleville. Sette e un quarto del mattino. Quartiere meno trafficato delle praterie irlandesi. Chi vuoi che passi? Probabilmente è un’azione dettata dall’abitudine. Per un secondo mi balena la curiosità di sapere dove la sua famiglia abitasse precedentemente e come mai avessero deciso di trasferirsi in questo posto dimenticato da Dio, ma prontamente la scaccio. “Ciao”. Scuoto il capo e constato che a parlarmi è stato proprio lui, mi ero incantato a fissare la strada immerso nei miei ragionamenti. “Uhm… ciao”. Istintivamente lancio un'occhiata alle mie spalle e mia madre ci saluta con la mano. Non posso fare a meno di guardare Mikey che, imbarazzato forse più di me, solleva il palmo a mezz’aria senza un minimo di trasporto. “Andiamo?”, propongo. Non aspetto altro da cinque minuti, i quali si sono dilatati parendomi ore, giorni, anni. Annuisce sommessamente e c’incamminiamo lungo il marciapiede, m’infilo le mani in tasca e catalizzo l'attenzione sulle mie Converse sgualcite. Teoricamente dovrebbero essere nere, in pratica sono di un marrone indistinto. Non mi sono mai preso la briga di lavarle e credo che mai lo farò, non avrebbero senso pulite. Le scarpe pulite sono brutte perché non hanno una storia, osservandole non viene suggerito nulla riguardo chi le indossa e che luoghi frequenta. Sembra stupido, ma le scarpe possono dire molte cose di una persona. “Agitato?”, chiedo. Mi sono appena ricordato disgraziatamente della promessa fatta a mamma, ossia di essere simpatico con questo sconosciuto o, almeno, tentare di esserlo. Fa le spallucce e continua a fissare dritto di fronte a sé. Come faccio ad intavolare un discorso se non gliene frega niente? Non poteva capitarmi qualcuno un po’ più loquace? Gerard sotto questo punto di vista è nettamente migliore. In maniera stronza, ma migliore. Perché la mia mente intricata mi ha portato ancora a quello lì? Basta, Frank. Basta. “Oggi ti siederai accanto a me in autobus. Di solito occupo due posti da solo, ma farò l’enorme sacrificio di non stravaccarmi per una volta”. Si sistema il cappello e, dopo alcuni secondi, risponde: “Okay”. Che nessuno venga a dirmi che non ci abbia provato a rendermi simpatico, non mi sembrava tanto male come battuta. Forse non capisce il sarcasmo oppure gli sto sulle palle. O forse sono io il coglione che sta andando troppo a fondo, dal momento che sono le sette e venti del mattino e molto probabilmente ha solo sonno. “A che ora è la ricreazione?”. Cristo, grazie. Finalmente mi rivolge la parola in modo degno. “Dopo la terza ora, perché?”. “Niente”. Mmh, non era proprio il genere di responso che mi sarei aspettato, ma può considerarsi un inizio. “Fra poco conoscerai i miei migliori amici: Bob e Ray. Ho accennato loro di te ieri sera, per cui avrai ben tre guide in questi primi giorni”. Solleva leggermente un angolo della bocca, un’apparizione quasi miracolosa. “Grazie, non serviva tanto disturbo”. “Figurati”. La fermata è poco distante da noi, in neanche un minuto saremo lì ed il bus arriverà a momenti. “Ho sentito che hai incontrato mio fratello”. Arresto improvvisamente la camminata e ruoto la testa di scatto per vederlo in volto. “Chi te l’ha detto?”, sbotto. “E’ stato lui a parlarmene”. Sollevo entrambe le sopracciglia sorpreso, dunque lui ha parlato di me. Uno stupido senso d’importanza m’investe e non ne comprendo appieno il motivo, chissà cosa gli avrà raccontato. “Ti ha parlato di me?”. Punto l’indice contro me stesso. “Sì”. “E cos’ha detto?”, domando di getto. “Che non gli sembri un tipo molto sveglio”. Rimango pietrificato. Che dovevo aspettarmi? In fondo gli sono andato addosso nel corridoio di casa sua e farneticavo neanche fossi afflitto dalla diarrea verbale. Non abbiamo condotto chissà quale conversazione e di certo era da escludere che gli avessi fatto una buona impressione. “Ah”. Attraverso gli occhiali spessi ed il cappello che gli arriva a circa metà fronte riesco ad intravedere un’espressione lievemente corrucciata. “T’interessa?”. Simultaneamente mi metto scuotere il capo, poi riprendo a camminare per sembrare più disinvolto. “No, era solo per curiosità. Chi se ne frega, insomma”. Un pochino m’importa, in verità. Temo di aver fatto la stessa figura con Mikey, a questo punto. Fingere di essere simpatici e gentili porta solo a risultare dei rimbambiti, lo sapevo. Arrivati in fermata, ci posizioniamo accanto all’apposito cartello e mi poggio con la spalla sul palo. “Non dargli troppo peso”. “Perché?”. Sospira. “Gerard non è proprio il massimo della simpatia, diciamo”. Uh, questo l’ho notato, ma non è che io sia da meno. “Poi col tempo magari cambia, dipende da come lo prendi e da come lui prende te”. Beh, è normale. Anch’io con Bob e Ray non mi comporto da stronzo o, meglio, mi comporto meno da stronzo. “Più da come lui prende te, comunque”. Solamente ora mi rendo conto che mi sta parlando senza che gli strappi le parole di bocca a forza, ma sono talmente concentrato sul contenuto del discorso che quest’aspetto passa in secondo piano. “E’ molto selettivo nei rapporti umani ed in un certo senso non lo biasimo, però adesso basta parlare di mio fratello che già lo vedo tutti i giorni”. Mi sfugge mezzo sorriso e, un po’ a malincuore da parte mia, abbandoniamo l’argomento Gerard. Un rumore di vecchia ferraglia ci fa sussultare: il catorcio è arrivato a prelevarci per portarci in quella gattabuia più comunemente chiamata scuola. L’autista frena ed apre le porte per permetterci di entrarvi, salgo per primo e mi ritrovo nel bel mezzo del corridoio fra i sedili. Fra la moltitudine di teste spicca quella estremamente riccioluta di Ray che alza il braccio in segno di saluto, dal mio canto mi limito a rispondere con un cenno rapido del capo. Lo raggiungo e premurosamente rimuove lo zaino dal mio posto davanti al suo e quello di Bob, lo mette lì ogni mattina per assicurarsi che nessuno vi si sieda all’infuori di me. Mi accomodo ponendo la cartella ai miei piedi e, poco dopo, Mikey fa lo stesso accanto a me. Mi volto all’indietro aggrappandomi con le mani allo schienale per poter vedere i miei amici. Di solito non devo condividere i miei spazi con nessuno, dunque mi è più facile parlare con loro quando ho la schiena poggiata contro il finestrino e le gambe stese lungo i sedili. “Buongiorno idioti”. “Buongiorno anche a te, Frank”, ridacchia Bob. “Come avrete potuto ben constatare, stamattina c’è qualcosa di diverso”, esordisco. “Ti sei tagliato i capelli?”, ribatte ironicamente l’afro. “No, mi sono cresciute le orecchie”. “La battuta più trita e ritrita che abbia mai sentito. Frank, mi deludi. Da te non mi sarei mai aspettato un repertorio così antiquato”. “Non sai che quello che era in voga in passato, può tornare ad esserlo nel presente? Pensavo lo sapessi, Ray. Insomma, giri con quei capelli che nessuno porta dagli anni Ottanta. Credevo li tenessi nella speranza che un giorno tornassero di moda”. Bob si dà una pacca sulla gamba e scoppia a ridere sguaiatamente, mentre l’altro riduce gli occhi a due fessure. “Okay, lo ammetto: sei il migliore in quanto a battute”. “La tua perspicacia mi commuove”. Per un secondo mi sono scordato completamente della presenza di Michael, chissà quanto si sentirà a disagio quel poveretto. “Tornando alle cose serie…”, richiamo l’attenzione del ragazzo al mio fianco pungolandolo al bracco per poi continuare: “…Mikey, questi sono Bob e Ray, Bob e Ray questo è Mikey”. Si volge anche lui all’indietro e sorride flebilmente. La seconda volta in una mattinata, wow. “Ah, sei il ragazzo di cui Frank mi ha parlato al telefono! Abiti di fronte a lui, giusto? Nella famiglia stra…”. Do un rumoroso colpo di tosse volontario per non farlo andare oltre, poi gli lancio sottecchi un’occhiataccia. Non credo il caso di riportare tutte le mie impressioni su di lui e la sua famiglia, sennò probabilmente non mi parlerebbe più. “…nuova, intendevo dire nuova nel quartiere”. Annuisco per fargli capire che ha appena salvato il salvabile. “Sì, siamo arrivati da alcuni giorni”. “Cosa te ne pare di Belleville?”, si intromette Bob. Ci pensa un po’, poi dice: “Non ho ancora un’impressione definita nella mia testa e non me la sento ancora di fare paragoni con Summit…”. Dunque gli Way sono da Summit. “…certo è che un trasloco non è mai facile da digerire, soprattutto se per sedici anni hai vissuto nello stesso posto, ma non è dipeso da me”. Aggrotto la fronte e lo fisso incuriosito. Ironico come abbia dovuto attraversare un travaglio prima di farlo interagire ed i miei amici ci abbiano messo alcuni secondi, allora mi pare ancora più chiaro che ci sia qualcosa di sbagliato in me. “Genitori?”, chiede prontamente il biondo. “Non propriamente, diciamo di sì... per la maggior parte”. “Domandone di vitale importanza: ti piacciono i videogames?”. “Ray!”, esclamo come per ammonirlo. “Che c’è? Era solo per sapere e poi non stavo parlando con te, sapientone”. Mi rivolge una linguaccia che contraccambio, poi torna a posare l’attenzione su Mikey. “Sì, parecchio direi!”. Spalanca la bocca e batte il cinque col compagno accanto a lui, mi poso una mano sulla fronte sospirando. Sono dei bambini cresciuti in altezza ed anche esageratamente sotto il mio punto di vista. “Fantastico! Che videogiochi hai?”. “Troppi per elencarli tutti”. “Il tuo preferito?”, insiste l’afro. “Ce ne sono tanti che mi piacciono parecchio, ma credo che Call of Duty sia quello che preferisco di più”. Sul viso dell’altro si estende un enorme sorriso. “Ma sai che è pure il mio preferito? Sei forte, Mikey!”. Michael è alquanto imbarazzato dal complimento anche se cerca di nasconderlo, non deve averne ricevuti molti in tutta la sua vita vista la reazione. “Oh, grazie. Anche tu mi sembri simpatico”. “Non come questa checchetta a cui non piace praticamente nulla”, punta l’indice verso di me. Mi sento ferito nel profondo. Checchetta. Non lo accetto, no. Tutto, ma non quello. Mi ricorda brutti momenti che preferirei scordare completamente. Femminuccia. Rabbrividisco solo al pensare a quel soprannome. “Vedi di moderare i termini, stronzo!”. Il mio migliore amico rimane sconvolto dalle mie maniere brusche, così come Bob ed anche un po’ Mikey che sembra piuttosto confuso. “Frank, sto scherzando”, mi palesa. Abbasso la testa a disagio, dentro di me si fa strada la consapevolezza di aver esagerato per una battuta innocente. Lui non lo farebbe mai per farmi star male, è ovvio che l’abbia detto scherzosamente. Stupido, stupido, stupido. Perché sono costantemente sulla difensiva? Perché ho sempre paura che qualcuno voglia farmi soffrire? “Lo so, scusami”. Improvvisamente mi arriva una gomitata dal biondo che mi fa l’occhiolino, inarco un sopracciglio stranito. “Che c’è?”. “Indovina chi è appena salita alla fermata?”, domanda retoricamente gongolando. Mi volto verso il corridoio e la vedo avanzare verso di noi, si passa una mano nei capelli corti finché non incrocia il mio sguardo. “Ciao Frank”, mi saluta. “Ciao Jamia”. Avanza oltre i nostri posti per accomodarsi nel suo solito sedile accanto ad Hannah. “Perché non vai da lei e le parli?”, chiede Ray. “Perché mai dovrei?”, ribatto acidamente. Odio quando s’improvvisano un’agenzia matrimoniale. “Frank, Frank, Frank, ma proprio tutto ti devo spiegare?”. Lo liquido con un gesto della mano e mi siedo compostamente dandogli le spalle, detesto quando incappiamo in questo argomento. “Ti pare un atteggiamento corretto, signorino? Non ho finito di parlarti!”. Sposto lo sguardo al finestrino, ignorandolo volutamente. Sbuffo rumorosamente quando sento il suo dito picchiettare insistentemente sulla mia spalla. Emetto un suono simile ad un ringhio sperando che lo fermi, ma continua. “Smettila”. “No”. “Smettila”. “No”. “Smettila”. “Indovina? No”. Mi giro di scatto con gli occhi sgranati. “La smettete di rompere i coglioni, tutti quanti?”. Calco involontariamente le ultime due parole, ma effettivamente c’è un fondo di verità: ne ho le palle piene di tutti indistintamente. “Oh, finalmente ti sei girato!”, esclama suscitando una risatina di Bob e mezzo sorriso di Mikey. Questa me la segno, nuovo arrivato. Ti prendi gioco di me, eh? Qualcosa mi dice che si unirà a quegli altri due idioti nell’esclusivo gruppo ‘Sfottitori di Frank’. “Stavo dicendo: ma proprio tutto ti devo spiegare?”. “Tu non hai proprio niente da insegnarmi”, ridacchio. Dalla sua espressione trapela scetticismo. “Mmh, ne sei proprio sicuro? In che fase sei, Frank?”. Lo fisso confuso. “Fase?”. Scuote il capo, deluso. Gesù, adesso che ho fatto? “Non dirmi che non ricordi la teoria delle fasi”. “Uhm, dovrei?”. Lui e Bob si scambiano un’occhiata delusa mentre Michael ascolta il tutto interessato. “Te ne ho parlato diverse volte quindi sì, dovresti. Non mi ascolti quando parlo?”. Tasto dolente. In verità seguo i discorsi di Ray, ma quando atterriamo puntualmente nel pianeta Christa sconnetto automaticamente il cervello dalla realtà circostante per crogiolarmi nei miei strani ragionamenti. Una volta sono rimasto un bel po’ di minuti con un sorrisetto da ebete ed ho dovuto mentirgli dicendo che stavo pensando a Jamia, in realtà nella mia mente dominava il pensiero che sarebbe stato forte andare in un ristorante il giorno di San Valentino per fare una sceneggiata di gelosia in un tavolo con una qualsiasi coppietta fingendo di essere l’amante e dopo andarsene. “Certo che ti ascolto”. “Non credo, sai?”, ribatte prontamente. “Sennò non ti dimenticheresti la teoria delle fasi. La teoria delle fasi è fondamentale”. Inarco un sopracciglio, scocciato da questo comportamento. Adoro il mio migliore amico, ma riesce a non farsi sopportare molto facilmente. E’ la testa di cazzo più adorabile che conosca. “Oggi sono particolarmente buono, quindi te la spiegherò sommariamente. Solo perché c’è Mikey, sia chiaro. Divulgare il verbo è sempre cosa buona e giusta”. Alzo un angolo della bocca. Ha una teoria per ogni cosa e le prende davvero seriamente, trascinando anche il biondo al suo fianco. Sono davvero io l’unico normale? Oppure sono loro quelli normali ed io quello diverso? “Vedi, Frank, ci sono diversi fasi in amore ed ognuno, quando ha una relazione, rientra in una di queste. Ad esempio io e Christa siamo nella fase intermedia in quanto stiamo insieme, ma abbiamo approfondito il nostro rapporto fino ad un certo limite. Poi c’è Bob che è in quella dilettantistica…”. “Hey!”, piagnucola quest’ultimo. “Tranquillo, tu e Johanne vi state spianando la strada per raggiungere quella inferiore”. L’afro sposta la sua attenzione dal biondo a me. “E poi ci sei tu che sei in una categoria a parte”. “Che?”, esclamo stupito. Non dovrei dar peso a queste stronzate da sedicenni che di amore ne sanno tanto quanto giocatori della squadra di football di grammatica, ma mi lascia di stucco il fatto che sia diverso anche in questo. “Non hai ancora intrapreso una relazione, come dire, fisica. Dunque sei rilegato in una specie di bolla di sapone in cui vengono raggruppati gli appartenenti alla fase platonica”. “Platonica”, ripeto con un pizzico di cinismo. “Sì, platonica. Vi guardate da distante, vi piacete, vi parlate poco e molto formalmente e nessuno dei due si decide a fare un passo verso l’altro. Un amore platonico in vera e propria regola”. Riesco a leggere soddisfazione per aver esplicato esaustivamente la propria opinione a riguardo ed aver abbozzato la teoria delle fasi in modo comprensibile. “Ha ragione Ray, è dal primo anno di liceo che andate avanti con questo scambio di sguardi estenuante e nulla di concreto. Cosa ti blocca, amico?”. Mi mordicchio il labbro inferiore in imbarazzo. Non tanto per la tematica, più per la risposta che non c’è. Sì, non c’è. Non so cosa mi blocchi, cosa mi abbia trattenuto dal provarci con lei in due anni. Anzi, forse lo so: Jamia, semplicemente, non mi piace veramente. Ovviamente la trovo carina, simpatica e sempre gentile nei miei confronti, ma non riesco a pensare a lei a come ad una possibile fidanzata. Dovrei baciarla, aspettarla davanti casa, portarla fuori a cena, conoscere i suoi, andare oltre il bacio, svegliarmi accanto a lei, farle un regalo il giorno della festa degli innamorati. Attività di coppia che sento di non voler condividere con nessuno finora. “Non lo so”, mormoro. Non so se mi abbiano sentito, ma poco m’importa. Torno nella posizione originale, per poi mettermi a guardare al di fuori della lastra di vetro che mi divide dal paesaggio grigio e cupo che scorre rapidamente. Vorrei solo andare a dormire e svegliarmi nel corpo di un ragazzo normale.

 

 

Immergo una mano in una ciotola colma di pop corn ed osservo il televisore mentre sono appollaiato sul bracciolo del divano occupato interamente da Ray, Bob e Mikey. Quest’ultimo durante la ricreazione ci ha invitati a passare il pomeriggio a casa sua e sono certo che ci sia di nuovo lo zampino di sua madre. Sospiro tra me, mi sto quasi annoiando di più che durante le ore di trigonometria. “Spara alla vecchietta, spara alla vecchietta!”, grida eccitato l’afro. Li guardo per alcuni istanti accigliato. Come possono trovare divertente un gioco in cui bisogna andare in giro per una città ad uccidere persone e creare disastri? O, meglio, come si può impiegare il proprio tempo davanti ad una scatola con in mano degli aggeggi dalla dubbia forma? Non capirò mai cos’abbiano di speciale queste console per videogiochi. “Ray, sbrigati a morire che così dopo viene il mio turno”, dice Bob. “Ti piacerebbe, eh?”. Raschio il fondo del contenitore colorato con la testa quasi infilata dentro esso, ormai sono rimasti solamente dei chicchi di mais bruciacchiati che adoro rompere coi denti. Ho trovato finalmente un'attività più interessante che seguire i miei amici giocare con la Play Station. “Oh, Mikey! Avvicinati a me che voglio pomiciare!”. Alzo la testa di scatto, piuttosto turbato, ma mi rendo conto che si riferisce ai due personaggi che stanno manovrando in quanto Mikey, il giocatore uno, gestisce un uomo e Ray una donna. “Potresti andare a puttane visto che si può”, propone il biondo. “Ma io sono già impegnato con Raymonda!”. La battuta di Michael suscita una risata sguaiata dei miei due compagni. Nessuno avrebbe mai detto che sotto quella scorza di timido ci fosse una persona così ironica. Inoltre oggi a scuola non è stato molto taciturno, è incredibilmente socievole per l’introversione che dimostra. “Devo pisciare”, annuncio posando la ciotola sopra il tavolino dinnanzi a me. “Finalmente ti sei risvegliato, Frank”. Mi metto in piedi senza nemmeno rispondere a Bob, purtroppo non ho potuto ignorare le loro stronzate neanche per sbaglio. Detesto quando si dilettano in attività che mi fanno altamente cagare, penso sia naturale isolarsi. “Terra chiama Frank Iero, Terra chiama Frank Iero”. Faccio ancora volutamente l’indifferente per rivolgermi al padrone di casa: “Posso andare al bagno?”. Annuisce. “Ci sei già andato ieri, no? Sai dov’è”. “Certo, mi ricordo”. “Vai a segarti pensando a Jamia, eh? Bravo”. Le mie gote si tingono simultaneamente di rosso, sento il viso avvampare. “Fanculo, Ray. Devo pisciare veramente”, sibilo. Mi allontano per dirigermi verso le scale, avverto la sua risposta distante: “Ma dai, potevi stare al gioco! Non ti si può mai dir niente, Mister Permalosità”. Non avrebbe senso replicare, per cui procedo e raggiungo il piano superiore. Mi blocco improvvisamente all’inizio del corridoio, quasi spaventato, poi aggrotto la fronte. Una figura completamente vestita di nero è posizionata di spalle intenta a guardare fuori dalla finestra. Una figura che, purtroppo, riconosco facilmente. La porta del bagno è collocata proprio alla sua destra, quindi devo passare di lì per forza. Avanzo lentamente senza far rumore, non ho idea del perché stia tenendo un atteggiamento da ladro quando invece devo fare una cosa innocente come andare al cesso. Quando sono ad un metro da lui mi fermo e poso lo sguardo aldilà della sua figura. L’unica cosa che si vede da questo punto è la mia casa, non la trovo molto interessante. “Ciao”, esordisco titubante. Gerard si volta di scatto all’indietro cacciando un urlo e terrorizzando pure me, perciò involontariamente mi unisco a lui gridando. Si porta una mano al petto e si poggia con l’altra al muro per non cadere sul pavimento. “Ma sei cretino?”, strilla con voce strozzata. “Ti ho solo salutato”, cerco di giustificarmi. “Piombandomi dietro come un serial killer!”. Effettivamente non è stato il migliore dei modi per salutarlo, ma come potevo farlo d’altronde? “Prima mi precipiti addosso mentre sto uscendo dalla mia stanza, poi appari dal nulla alle mie spalle. Cosa vuoi dalla mia vita?”, sputa acido. Inarco un sopracciglio perplesso. Va bene essere sulla difensiva, ma così mi pare eccessivo. “Ah, adesso alzi pure il sopracciglio con fare di superiorità, ragazzino?”. Rimango imbambolato senza proferir parola, praticamente mi sta attaccando verbalmente su tutti i fronti ed io non trovo la forza di rispondere. Fantastico. “Ci risiamo”, bisbiglia a denti stretti. “Non mi sento superiore né a te, né a nessun’altro. Come potrebbe una nullità come me essere superiore a qualcuno?”. La rabbia svanisce dal suo volto per lasciar spazio ad un’espressione sorpresa, come se non si aspettasse un responso del genere. “Come avevi detto che ti chiamavi?”, domanda alzando leggermente il mento e scrutandomi in maniera indagante. “Frank”. “Giusto, Frank”, ripete fra sé per poi inclinare la testa di lato. “E compirai sedici anni fra poco più di una settimana”, aggiunge. “Tu ti chiami Gerard, hai vent’anni e sei un pessimo attore”. Mi sfugge un timido sorrisetto che, incredibilmente, ricambia. “Che ci fai qui?”. Scrollo le spalle. “Mikey ha invitato me e i miei due migliori amici a passare il pomeriggio a casa sua”. Annuisce ed incrocia le braccia all’altezza del petto. “Uhm, e cosa ti ha portato a recarti al piano di sopra?”. Mi stupisco di me stesso quando realizzo di starci davvero riflettendo su, è evidente il motivo che mi abbia portato qui. “Devo pisciare”. “Oh, allora mi sa che debba togliermi dal passaggio”, dice per poi ridacchiare. Alzo leggermente un angolo della bocca ed attorciglio le dita attorno alla maniglia. Detesto fare sorrisi sbilenchi, ma quando sono a disagio è il meglio che mi riesce. E Gerard Way mi mette terribilmente a disagio. “Grazie”, quasi sussurro. Mi chiudo la porta alle spalle e butto fuori un bel po’ di aria trattenuta nei polmoni, mi avvicino al water e faccio quello per cui sono venuto. Dopo aver tirato lo sciacquone, mi lavo le mani ed il mio sguardo cade disgraziatamente sullo specchio. Ho gli occhi troppo grandi, il viso troppo appuntito, i capelli troppo banali. Non mi sorprende che non abbia mai avuto una ragazza, sono troppo io. Ed io non piaccio alle persone. Scuoto la testa come per svuotarla fisicamente dalle mie riflessioni e decido di uscire. Appena torno a metter piede in corridoio Gerard mi chiama. Incespicando raggiungo la soglia di quella che suppongo essere la sua stanza e faccio gravare tutto il mio peso su uno stipite. “Sì?”, chiedo flebilmente. “Cosa stanno facendo di sotto?”. Sta rovistando dentro ad un cassetto in cerca di qualcosa a me sconosciuto e, senza volerlo, ci esce all’unisono: “Videogiochi”. Ci lanciamo un’occhiata stranita e ridiamo, forse non è così stronzo come immaginavo. “E ti stavi divertendo?”. Faccio le spallucce. “Sì, dai”. Mi punta il dito contro. “Tu menti”. Nego col capo. “Cosa? Io? No!”. Mi sono sempre reputato un ottimo bugiardo, è impossibile che abbia capito. Non è che sa leggermi il pensiero? Magari attraverso quegli occhi così verdi ed intensi. Effettivamente il suo corpo dalla carnagione cangiante pare emanare un’aura sovrannaturale. Si siede svogliatamente sul letto ed innalza entrambe le sopracciglia armandosi di un’espressione che sembra comunicare: ‘E tu la vorresti dare a bere a me?’. “Okay, lo ammetto: detesto giocare ai videogiochi”. “Lo sapevo”, gongola trionfante, per poi aggiungere: “Pensi di startene lì in eterno o di entrare? Non ho mai ucciso nessuno, almeno finora”. Faccio il mio ingresso a passi incerti, poi mi fermo al centro della camera. E’ stranamente ordinaria per un tipo all’apparenza eccentrico come lui: vi è una scrivania con dei fogli sparpagliati disordinatamente e delle matite colorate, un armadio in betulla, una sedia in cui vi sono poggiati dei panni sporchi ed una libreria straripante. Improvvisamente il mio occhio cade sulle carte che ho analizzato sommariamente in precedenza: sono disegni. Una moltitudine di bozzetti, definitivi e scorgo pure delle frasi scritte a mano. Non faccio in tempo a concentrarmi su uno di essi che il diretto interessato si frappone fra me e la scrivania impedendomi di vedere, dopodiché posa la schiena su di essa ponendosi frontalmente rispetto a me. “Non mi piace che la gente veda cosa creo”, farfuglia. “Perché?”, domando incuriosito. “Non saprei, ho un rapporto molto intimo coi miei disegni e con ciò che scrivo. Sono come pezzi di me sedimentati su carta”. “E giustamente non vuoi che nessuno ti guardi dentro più di quanto tu non voglia”, continuo al posto suo. Schiude le labbra ammutolito, come se non trovasse le parole adatte da aggiungere. “Giusto”. Abbassa lo sguardo, poi lo rialza come se avesse avuto un’illuminazione. “Posso domandarti una cosa?”. Assento. “Tu suoni la chitarra, giusto? Volevo chiederti circa…”. “Come fai a saperlo?”, sbotto. Inizia a spaventarmi il fatto che sappia cose su di me senza conoscermi. L’aura sovrannaturale pare aumentare sempre di più. “Non ha importanza, volevo chiederti circa a che livello sei”. Mi coglie impreparato, dunque, pensieroso, mi mordicchio il labbro inferiore. “Non ne ho idea. Non ho un maestro che mi possa indicare con certezza il mio grado d'abilità. Sono un autodidatta e, soprattutto, suono per me. Non ho mai fatto sentire niente a nessuno, tanto meno i pezzi che compongo personalmente”. Rimane con lo sguardo fisso su di me metabolizzando filo per segno ogni frase uscita dalla mia bocca. “Perché è un modo per esternare ciò che senti e non vuoi che nessuno ne sia al corrente e, anche se lo fossero, sei convinto non capirebbero”. Deglutisco. Ha centrato il punto: comporre musica è una maniera per non lasciare che il marcio che ho in me si rapprenda fra le viscere, attraverso il suono riesco ad estirparlo dalla parte più profonda e sfruttarlo per creare qualcosa di concreto. Non voglio che nessuno conosca anche solo una minima parte di ciò che ho dentro. In verità alcune persone ci sarebbero, ma sono troppo impegnate con le loro vite per perdere tempo con la mia. “Giusto”, mormoro. “Mi piacerebbe sentirti”. Sgrano gli occhi sconvolto, spero sia uno scherzo e, se lo è, non lo trovo per niente divertente. “Perché?”. “Come posso sapere come te la cavi con la chitarra se nessuno ti ha mai sentito?”, risponde come sia la cosa più ovvia del mondo. Corrugo la fronte. “Perché ci tieni a sapere il mio livello?”. Si tortura le mani visibilmente agitato. Strano. “Scrivo canzoni”, confessa tutto d’un fiato. “Scrivi? I testi?”. “Sì”. “Forte, potrei legger…”. “No!”, scatta prontamente. “Prima devo valutare se sei bravo abbastanza, poi se farmi aiutare ed infine, forse, ti farò leggere i testi”. Farsi aiutare? Da me? Cerco nel suo viso un accenno d’ironia, ma pare veramente serio. “Vorresti che ti aiutassi con la parte musicale?”. Rotea gli occhi. “Ma come sei perspicace, metro e trenta”. Eccolo, eccolo il vero Gerard. “Non sono alto un metro e trenta”, ribatto. “Sono alto un metro e trentaquattro”. Mi fissa per alcuni secondi, probabilmente per riuscire a decifrare le mie intenzioni con quella frase, dopodiché scoppia a ridere. Chissà perché le uniche volte che l’ho visto abbandonarsi ad una sana e spontanea risata è stato quando mi sono praticamente preso per il culo da solo. Ieri con la storia delle entrate gratis, ora con questo. Non so se essere fiero di essere autoironico oppure no. “Sei divertente, ragazzino”, constata. “O dovrei chiamarti metro e trentaquattro?”. Sorrido, più per il complimento rivoltomi che per il buffo scambio di battute. “Chiamami Frank che facciamo prima”. Picchietta l’indice contro la guancia fingendosi pensieroso. “Mmh, troppo banale. Ci vuole qualcosa di speciale, non credi?”. “E ‘metro e trentaquattro' sarebbe speciale?”. “No, ma sempre più di Frank”. Faccio le spallucce. “Scusami se è così che i miei genitori mi hanno chiamato. Sono conscio di quanto brutto sia il mio nome senza che tu me lo dica, grazie lo stesso”. Mi sorprendo della naturalezza con cui mi sto esponendo, quando non è aggressivo nei miei confronti è molto più facile interagirci. Oserei dire quasi piacevole. “E comunque praticamente nessuno mi chiama Frank”. “Come mai?”, domanda incuriosito. “Non vuoi farti chiamare in questo modo?”. Scuoto la testa. “No, è che possiedo lo stesso nome di mio padre perciò vengo chiamato Junior. Gli unici a usare ‘Frank’ sono i miei amici e di amici ne ho due, quindi”. Annuisce. Davvero gli interessa di come vengo denominato? O, meglio, davvero gli interessa una qualsiasi cosa riguardante la mia persona? “Sappi che non ti chiamerò Frank e tanto meno Junior”. “E come mi chiamerai?”. Okay, questo discorso sta leggermente degenerando. “Ancora non lo so, ma troverò il nome adatto. Intanto continuo ad usare ‘ragazzino’, se non ti dispiace”. “Frank! Frank dove sei… oh”. Mi volto di scatto verso la soglia della stanza: appena affacciato da essa vi è Ray con un’espressione alquanto stranita e dei riccioli ribelli che gli ricadono davanti agli occhi. “Ci chiedevamo dove fossi finito, non tornavi più di sotto. Tu dovresti essere Gèrard?”. Sento uno sbuffo alle mie spalle. “E’ Geràrd, si pronuncia alla francese”. Improvvisamente rimpiango l’arrivo del mio migliore amico perché il Gerard acido è tornato più carico di prima, soprattutto ora che hanno osato deturpare il suo nome storpiandolo. Ringrazio di averlo sentito personalmente dalla sua bocca per la prima volta sennò mi avrebbe incenerito all’istante, un po’ come sta facendo adesso con Ray. “Uhm… scusa, non era mia intenzio…”. “Sì, certo. Sei perdonato, hai la mia benedizione e puoi uscire dalla mia camera”. Vorrei intervenire in sua difesa, ma non ho il coraggio di proferir parola. La paura che sbrani pure me è tanta e forse gli sto pure simpatico, non voglio rovinar tutto proprio ora. Anche perché Gerard è un tipo interessante e mi piacerebbe approfondire la sua conoscenza, attorno a lui gravita quell’alone di mistero che ti spinge volerne sapere di più. E io devo sapere di più, mettermelo contro non aiuterebbe. “Ma non sono nemmeno entrato”. “La tua testa è protesa verso l’interno, se non erro”, puntualizza. Repentinamente la ricaccia all’indietro come per volersi salvare in extremis. Lo scorgo implorarmi, sussurrando il mio nome, probabilmente per andarsene al più presto da questa situazione scomoda. “Ehm… io vado”, farfuglio raggiungendolo. “Di già?”, piagnucola il moro. Mi si chiude la bocca dello stomaco senza un'apparente ragione. Veramente ci tiene alla mia presenza? Un lieve tremolio mi attraversa il corpo. “Uhm, io…”. “Fa niente, lascia stare. Me la sbrigo da solo”. Aggrotto la fronte. “Sbrighi cosa?”. “Niente, lascia perdere. Ci si vede”. Do la caccia ai suoi occhi disperatamente, bisognoso di risposte, ma il massimo che ottengo è una porta sbattuta in faccia ed un amico che sicuramente ora mi porrà dei quesiti a raffica fino alla nausea. Cosa deve sbrigare? Perché aveva un tono rassegnato? Ed io a cosa servo? Forse per la storia delle canzoni, ma non voleva prima sentirmi suonare? E, ricollegandomi a questo, come faceva a sapere del fatto che suono la chitarra? Solo una cosa mi è chiara: questo ragazzo mi sta facendo diventare matto dopo neanche un giorno di conoscenza. E, non so perché, sento che questa sensazione non sarà passeggera.

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Capitolo 3
*** Sedici anni. ***


ANGOLO DELL'AUTRICE [strana]

Bonsoir, mes amis!
Sono qui. Sono tornata. E sono viva, cosa più importante.
Nell'ultima settimana “pace” è stata una parola mistica e distante. Tra progetti di grafica, studio, presentazioni, preparativi per diciottesimi imminenti, programmi al computer che non funzionavano e, soprattutto, la password dell'account di Efp dimenticata. Quanto sono rintronata da uno a me stessa?
AnyIero, il capitolo l'ho riletto più volte e ho apportato varie modifiche alla struttura come consigliatomi da un'utente nelle recensioni e, a tal proposito, ci tengo ringraziarla di cuore. Ma avrò modo di farlo appena postato il capitolo, quando risponderò ai vostri commenti. Mi ha fatto molto piacere leggerli.
Un grazie immenso a chi ha messo la storia fra le preferite, le seguite e le ricordate!
Fatemi sapere cosa ne pensate del nuovo capitolo.

Greta

 

 

CHAPTER THREE

Sedici anni

 

 

Suona la campanella ed un gregge di pecoroni sciama verso l’uscita della stanza, io, dal mio canto, sto finendo di annotare in fretta e furia le ultime nozioni scritte dalla professoressa alla lavagna prima che vengano cancellate e perda dei passaggi dello schema illustrato. Non appena finito, rimuovo ogni mio oggetto dal banco e lo inserisco all’interno dello zaino. Apro la tasca anteriore ed estraggo il pranzo per poi poggiarlo sopra il ripiano.

“Come sempre, Iero?”, chiede Mrs. Stewart facendomi alzare lo sguardo.

Annuisco sommessamente e lascia, dunque, un mazzo di chiavi sopra il tavolo per poi defilarsi anche lei. Apro la ruvida busta marroncina e prendo fra le mani il mio sandwich con pomodorini ed insalata, lo osservo per alcuni secondi soddisfatto e lo addento affamato.

Non mi piace pranzare in mensa. Non perché soffra d’ansia sociale o altro, semplicemente quella cosa che servono e chiamano impropriamente cibo mi fa altamente cagare e quando mangio mi piace stare tranquillo, non circondato dalla confusione. Per questo è dal primo anno che consumo i miei pasti all’interno di quest’aula e l’insegnante, conoscendomi ormai bene, mi lascia sempre le chiavi per chiuderla. Si fida, in un certo senso.

“Il pranzo del campione, eh?”.

Sorrido nel riconoscere la voce del mio migliore amico prima ancora di voltarmi verso la porta.

“Tu non dovresti essere in mensa con l’altro schifoso?”.

Ridacchia mentre mi raggiunge, sistema una sedia dal lato opposto del banco e si siede.

“Sei parecchio acidello nei confronti di qualcuno che ha fatto un’opera di bene scegliendo di digiunare per farti compagnia”. Scuoto il capo.

“Dovresti mangiare”.

“Che sei mia madre, Frank? Seriamente, delle volte sembri un quarantenne nascosto dentro il corpo di un adolescente”.

Scrollo le spalle continuando a dare morsi al mio panino e a deglutire.

Voglia di vivere, saltami addosso. Ho capito”, continua.

Svito il tappo di una bottiglietta d’acqua naturale e ne bevo un sorso.

“Non hai ancora risposto alla mia domanda”, puntualizzo.

“Cioè?”.

“Dov’è Bob?”.

“In mensa con Mikes, perché?”.

Mikes? Mi-Mikes? Si conoscono da appena sei giorni e già hanno sfondato tutte le barriere. Io ci metto ere geologiche per prendermi confidenze con chiunque, ma Ray è Ray. Lui ha il dono della buona impressione. Certo, è classificato fra gli pseudo sfigati, ma non ho mai trovato nessuno che pensasse qualcosa di negativo su di lui a primo impatto. Infonde simpatia grazie ai suoi ricci disordinati e al suo modo di essere molto alla mano. Io non so che impressione faccia alla gente e nemmeno lo voglio sapere perché temo di rimanerci male. Il parere altrui mi fa male. Come alle medie. “Ci avevo proprio visto bene quando vedendoti in faccia ho pensato: ‘Questo è proprio un finocchio’”. Scrollo via i ricordi di dosso come fossero una doccia gelata, ed effettivamente lo sono, per tornare a posare la mia attenzione sull’afro di fronte a me.

“Lo sapevo che non l’avresti lasciato da solo”.

“Sono una persona corretta”, ribatte scherzosamente.

“Talmente corretta da lasciarmi solo ogni pausa pranzo”. Inarca un sopracciglio.

“Ah, ora ti lamenti perché non sto con te durante la pausa? Tre secondi fa non avrei mai detto ci tenessi così tanto”.

Alzo leggermente un angolo della bocca, poi gli porgo il sandwich facendogli intendere che ho intenzione di condividerlo con lui. Lo rifiuta con un gesto della mano.

“Nah, non mangio queste cose da capre”.

Ingurgito ciò che rimane del panino in un sol boccone e, con la bocca ancora ancora piena, dico: “Come vuoi, volevo solo che mettessi qualcosa nello stomaco”.

“Tranquillo, prenderò qualcosa alle macchinette prima di andare in classe e mangerò durante la lezione. Tanto il professore di storia americana non si accorge mai di nulla. Ho fatto le migliori ripassate ed anche ottime mangiate durante le sue ore in questi tre anni”. Ridacchio.

Lo ammetto: lo ammiro un sacco. Prende alla leggera qualsiasi aspetto della vita e tante volte desidero essere come lui. Sempre positivo, allegro, gioviale. Anche lui ha i suoi problemi, com’è normale che sia, ma non li fa trasparire né tanto meno pesare agli altri. Io non sono in grado di far finta che tutto vada bene quando invece va di merda e tutto ciò mi riporta, come sempre, alla mia famiglia. Fingere, fingere, fingere. Odio farlo. Eppure in quella casa è un’arte a cui ci hanno ammaestrati fin da piccoli. E mi faccio schifo ad ammettere che, nonostante tutto, quei due siano riusciti a rendermi un eccellente bugiardo. Sono sempre stato per la verità, ma, in molti casi, le bugie sono più facili da dire. Sono la via d’uscita più semplice per schivare determinati argomenti o, almeno, io uso le menzogne a questo scopo.

“Senti, Frank… ammetto che c’è un motivo, se sono venuto qui”.

Piego le labbra in una smorfia strana. Cosa vorrà dirmi?

“Il tuo compleanno sarà tra due giorni e…”.

“Non mi avete ancora preso un regalo?”, azzardo. Scuote il capo.

“No, no. Non è questo. Vedi… io e Bob pensavamo che quest’anno potremmo fare qualcosa di diverso, ecco”. Corrugo la fronte.

“Diverso in che senso?”.

Si tortura le mani facendo scricchiolare le ossa delle dita visibilmente nervoso.

“Farai sedici anni, no? I mitici sedici…”, mima agitando le braccia in aria con fare festoso. “…e tu hai una fortuna immensa, ossia compierli il giorno di Halloween. Dunque l’altro ieri in mensa abbiamo preso in considerazione l’idea di andare ad una festa vera, per una volta…”.

“Festa vera?”, ribatto con stizza.

Che c’è? Non si sono mai lamentati di come celebro il mio compleanno ed ora vengono a fare i ragazzi maturi venendomi a dire che preferiscono qualcosa di più serio?

“Pensavo vi divertiste alle mie feste”.

“Ma noi ci divertiamo!”, esclama sulla difensiva. “E’ solo che Ash Newton darà una festa che si dice sarà probabilmente la cosa più epica che avremo la possibilità di vedere in questa decade ed ha invitato pure noi. Noi quattro, capisci? Ha invitato pure te!”, mi indica come fosse un evento di proporzioni titaniche.

E in effetti lo è.

“Hai presente, poi, dove vivono gli Newton, no? Hanno una casa che pare quasi una villa. Sono ricchi da far schifo, Frank”.

Accartoccio la busta nella quale vi era il pranzo e bevo un altro po’ d’acqua. Ray mi fissa con aspettativa, si è creato quella sorta di silenzio imbarazzante che segue un discorso sgradito all’interlocutore. Poggio la bottiglietta non curandomi del mio amico che non stacca gli occhi da me e dai miei movimenti.

“Allora?”, decide di pressare.

Incrocio il suo sguardo e sul mio volto faccio comparire un largo sorriso, ricambia ed il suo viso si tinge di entusiasmo.

Fa per dire qualcosa, ma lo precedo: “Allora no, Ray”.

Okay, forse sono stato ‘leggermente’ stronzo a dargli false speranze, ma non se ne parla proprio. A quella specie di raduno di gentaglia con un Q.I. inferiore ad un tubero non ci vado neanche se pagato.

“Eh dai!”.

“Se pensi che il conto in banca degli Newton serva a farmi cambiare idea, ti sbagli”. Sbuffa rumorosamente.

“Ci divertiremo, vedrai. Per favore, Frank”, piagnucola.

Prendo la spazzatura da sopra il banco e mi dirigo verso il cestino per gettarla, mi volto verso l’afro che mi guarda con una faccia da cane bastonato.

“Senti, Ray: sono sempre quello che deve subire le scelte della maggioranza, ossia tu e Bob. Non ho quasi mai voce in capitolo su un cazzo di niente e l’unica volta in cui posso decidere qualcosa perché, di fatto, si celebra il mio di compleanno…”, calco l’aggettivo possessivo per sottolineare meglio il concetto. “...mi private di questa possibilità. Non capisco cosa non vi piaccia delle feste che abbiamo sempre fatto, davvero. Non mi pareva vi facessero così cagare. Se ci tenete così tanto ad andare a quello schifo di festa va bene, ma andateci voi. Io starò a casa, a guardarmi un buon vecchio film horror e a rovinarmi i denti con dei marshmallow a forma di zucca”.

Si alza di scatto dalla sedia e mi viene incontro.

“No! Senza di te non si va da nessuna parte, hai capito? Mettitelo bene in quella testolina autocommiseratrice”.

Picchietta l’indice contro la mia fronte.

“Non permetterei mai che il mio migliore amico passi il giorno del suo compleanno da solo”.

“Allora provvedete a rivedere i vostri programmi per sabato sera”, rispondo rimanendo sulla mia posizione.

Posa le mani sulle mie spalle e punta i suoi occhi nocciola contro i miei.

“Mi spiace se ti senti così messo da parte nelle decisioni che prendiamo, mi spiace veramente. Non intendevamo in alcun modo offenderti con questa proposta, sapevamo che l’avresti disdegnata ma pensavamo avresti capito”.

Eccoli, puntuali come sempre: i sensi di colpa. Dovrei smetterla di fare la ragazzina mestruata ad ogni idea dei miei amici? Di solito alla fine mi arrendo, ma prima non mancano le lamentele cariche di dissenso. Sospiro con le spalle al muro, letteralmente. Ho la schiena poggiata contro la parete.

“A che ora è la festa?”.

Il riccioluto spalanca la bocca e mi abbraccia di slancio, ma, nonostante i secoli di conoscenza, m’irrigidisco repentinamente come fossi una trave di legno. Scioglie subito l’abbraccio ed in modo consapevole afferma: “Contatto fisico, a volte lo dimentico”.

“Vedi di ricordarlo la prossima volta”.

Vado oltre la sua figura e recupero lo zaino dal mio banco.

“Comunque non era un sì, volevo solam…”.

“Ti prometto che faremo più attività che piacciono a te se verrai!”, urla facendosi quasi sentire in corridoio.

Stringo la bretella della cartella e lo scruto pensieroso. Sembrano davvero tenerci a questa stupida festa.

“E va bene”, pronuncio sommessamente.

“Lo sapevo che avresti accettato alla fine! Sei sempre il migliore, Frank!”.

Saltella verso di me e mi dà una sobria pacca sulla spalla, il massimo che tollero in pratica.

“Già”.

Sorrido falsamente ed afferro il mazzo di chiavi sulla cattedra, usciamo dall’aula e chiudo la porta dietro di me. Per l’ennesima volta ho sacrificato la mia felicità per quella degli altri, quanto durerà ancora? Ogni tanto mi piacerebbe fossero anche gli altri a fare sacrifici per me. Troverò mai una persona in grado di arrivare a tal punto? Probabilmente no. Sono troppo insignificante, troppo accondiscendente, troppo me. So già che me ne pentirò, me lo sento.

 

Apro le palpebre lentamente, ma vorrebbero tornare a stare chiuse e continuare a dormire beatamente. Uno spiraglio di luce mi costringe a sbatterle per poter mettere a fuoco il luogo in cui mi trovo: la mia stanza. Sento un peso oltre al mio gravare sul materasso, dunque alzo leggermente il busto tenendomi poggiato sui gomiti per vedere di chi si tratti.

Alex è seduta ai piedi del letto con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia.

“Auguri fratellone!”, grida e mi si getta addosso facendomi tornare alla posizione precedente.

“Uhm… hey, grazie”.

Avvolge le sue esili braccia attorno al mio busto e si accoccola contro il mio petto. Mi sento parecchio una merda perché non riesco a ricambiare con trasporto. Questa ragazzina ha bisogno d’affetto, decisamente. Affetto che non so dare, purtroppo. Non dovrebbero essere i genitori quelli adibiti a questo compito? Ah, giusto: noi è come non avessimo dei genitori.

“Potresti alzarti, Alex?”.

Cade dalle nuvole e si ricorda che non sono amante del contatto fisico, quindi torna seduta rapidamente.

“Scusami”, mormora imbarazzata.

“Tranquilla”.

Mi metto a sedere anch’io e mi passo le mani sugli occhi ancora assonnati. Ammetto che, nonostante tutto, un po’ mi piace ricevere questo tipo di attenzioni, anche se sono da parte della mia sorellina rompiscatole. Ci sputiamo veleno per trecentosessantatré giorni all’anno per poi dimostrarci un briciolo di sentimento nei nostri rispettivi compleanni, ma va bene così. Il rapporto fraterno funziona in questo modo. Una fitta allo stomaco m’investe quando la mia mente mi porta a Paula.

Non verrà. Lo so che non verrà.

Allungo la mano verso il comodino per verificare se qualche buon’anima si è ricordata della mia esistenza almeno per una frazione di secondo, il tempo di digitare un messaggio e premere ‘invio’. Cinque messaggi. Assumo un’espressione piacevolmente stupita, è tipo il record di sempre.

Noto che Alex si sporge per poter curiosare e tolgo il cellulare dalla sua visuale.

“Inizia per ‘pi’…”.

“… e finisce per ‘rivacy’. Okay, scusa”.

“Brava, vedo che se attivi quei due neuroni che ti ritrovi, riesci a ricordare ciò che ti ripeto fino allo stremo”.

“Antipatico”, bofonchia.

Mi fa la linguaccia e si mette in piedi.

“Ti aspetto di sotto per darti il regalo, mi trovi sul divano a guardare la tv”.

Le mostro il pollice alzato e se ne va lasciandomi finalmente solo. Vanno bene le attenzioni, ma, com’è risaputo, non sono stato cresciuto in mezzo ad esse e di conseguenza alla lunga m’infastidiscono.

Torno a fare ciò che stavo facendo ed apro le conversazioni partendo dalla più recente, risalente ad una decina di minuti fa: Mikey. Sì, Mikey Way: il vicino di casa strano. Però è simpatico, lo devo riconoscere.

“Sono sveglio da tipo due ore e solo ora ho realizzato che è il trentuno ottobre. So che ci conosciamo da poco, ma ci tenevo ad augurarti buon compleanno. Ci si vede stasera”.

Risponderò a tutti più tardi, ho deciso. Per ora mi limiterò solo a leggere.

“Tantissimi auguri al nostro piccolo Frank! Speriamo di riuscire a passare da voi per Natale”.

Zia Pamela, la sorella gemella di mia madre. Una delle persone più carine del mondo nei miei confronti e l’unica parente per la quale non sono invisibile.

“Sono andata a dormire ieri sera pensandoti. Questa giornata la dedicherò come sempre a te, perché non è solamente una festa macabra in cui ci si agghinda per sembrare il più brutti possibile. Oggi è il tuo sedicesimo compleanno. Stai diventando grande, ormai. Mi spiace non essere a casa anche questa volta, ma fra meno di un mese ci vedremo. Il regalo te l’ho spedito per posta, mi auguro che arrivi puntuale o, in caso contrario, sappi che arriverà fra qualche giorno. Anche Kyle ti manda dei calorosi auguri. Spero che questa volta risponderai, ti voglio bene”.

Fisso il display con la mascella serrata mentre il dolore di prima ritorna. Sarà uno sforzo destarmi dal farlo, ma a questo non arriverà alcuna risposta.

“Il mio nano da giardino preferito oggi entra ufficialmente nel magico mondo dei sedicenni! Buon compleanno, stupido. P.S. Stasera voglio vederti sbronzo, hai capito? Sbron-zo”.

Soffoco una risata e guardo l’orario d’invio: le tre e mezza del mattino. Bob non cambierà mai.

“Tantissimi grossi e grassi auguri a Mister Frank Anthony Thomas Iero Pricolo Junior. Dio, sei peggio dei calciatori brasiliani! No, seriamente: sono tredici anni che ti sopporto e che mi sopporti a tua volta. E sono veramente onorato di essere arrivato fin qua al tuo fianco, sei la miglior persona che conosca (non dirlo a Bob) e davvero meriti il meglio del meglio. Buon compleanno, sfigato”.

Sorrido come sempre, del resto, di fronte ai messaggi che mi dedica Ray ogni anno. Gli voglio davvero bene, anche se non glielo paleso quasi mai.

Ripongo il cellulare dov’era per poi alzarmi ed infilarmi un paio di jeans gettato a terra la sera prima. Non sono esattamente un tipo ordinato. La maglia non la cambio, tanto di solito dormo con una t-shirt di qualche band e i boxer. Non comprendo le persone che vanno a letto in pigiama, la trovo una tortura quasi ai livelli di quelle medievali. Mi sento vincolato, stretto, fasciato e la notte voglio solamente che le mie membra respirino. Mi passo una mano fra i capelli illudendomi che possa migliorare il mio aspetto, m’infilo le pantofole o, meglio, il bellissimo dono di qualche Natale fa, ed esco dalla camera per scendere al piano sottostante.

Alex è seduta a gambe incrociate sul divano mentre guarda il televisore e regge una ciotola di cereali disgustosi alla vista. Sono degli anelli di tutti i colori che, una volta sciolti nel latte, si riducono ad una melmaglia indistinta la quale ricorda vagamente il vomito di un unicorno. Ma non sono così male, almeno per quanto riguarda il sapore. Quando non c’è nulla di meglio da consumare, vanno bene anche quelli. Tanto a mia madre cose le importa delle nostre preferenze? Chiunque predilige una marca, un gusto o un tipo particolare di cereali. Per mamma non ha importanza: una confezione vale l’altra. Delle volte si dimentica addirittura del fatto che sono vegetariano, da ben un anno e mezzo, e per cena mi schiaffa nel piatto una bistecca grondante di sangue. Quelli sono gli unici casi in cui polemizzo su ciò che mi viene servito. Forse se fossi allergico a qualcosa farebbe attenzione prima di acquistare del cibo, ma la natura ha pensato bene di non farmi avere intolleranze. Magari se avessi un’allergia mi considererebbero di più, i miei genitori. Ma a cosa cazzo sono arrivato a pensare? Mi siedo svogliatamente nel posto accanto a mia sorella.

“Mamma è in cucina se te lo stessi chiedendo”, mi comunica portandosi in bocca una cucchiaiata senza staccare gli occhi da una stupida serie tv per ragazzine preadolescenti.

“Okay”.

Getto la testa all’indietro e poggio il collo sullo schienale fissando il soffitto che dovrebbe esser bianco, ma col passare del tempo ha assunto una tinta color crema.

“E papà è via questo weekend”.

Sbuffo, ma non dalla noia. Sbuffo perché me l’aspettavo.

“Ha delle commissioni di lavoro da sbrigare”. Mi scappa un risolino.

“A quanto pare abbiamo un imprenditore in casa e manco lo sapevamo”, sputo sarcastico.

“Frank…”, mi ammonisce.

Dal suo tono, però, traspare la consapevolezza che quello a cui mi riferisco sia vero. Nostro padre è semplicemente un ragioniere di un’industria chimica a Newark, eppure il fine settimana spesso sparisce per poi ritornare la domenica sera. Alex crede davvero sia a causa del lavoro. Delle volte muoio dalla voglia di renderla partecipe di tutto ciò, così da avere qualcun altro dalla mia parte e in modo che capisca quanto la nostra famiglia faccia realmente schifo. Sicuramente la smetterebbe di difendere inutilmente mamma e papà ogni qualvolta ne parli male. Ma non voglio rovinarle la magia ancora una volta, non come con Babbo Natale. Sarà lei a scoprirlo oppure sarebbe meglio che chi di dovere faccia il punto della situazione e decida finalmente di parlargliene.

Con me hanno fatto tre anni fa, ma solo perché ho sorpreso nostro padre assieme alla sua… amante? Compagna? Credo che compagna sia la migliore definizione, tanto i nostri genitori è come se non fossero più sposati ormai. Perché i ragazzi che ce li hanno divorziati osano lamentarsi? Certo, posso comprendere il dolore iniziale e la scocciatura di oscillare di abitazione in abitazione, ma sarà sempre meglio che avere due cretini in casa che a stento si rivolgono la parola. Sogno il divorzio fra i miei dalla terza media. Perché gli adulti sono così idioti? Cosa pensano di combinare portando avanti una farsa? Mi passo le dita negli occhi già esausto, i pensieri sono talmente pesanti da farmi venir voglia di ritornare di sopra e dormire tutto il giorno. E al diavolo il mio compleanno e pure Halloween.

“Vado di là a mangiare qualcosa”.

“E il regalo?”, scatta subito la piccola.

“Me lo darai dopo. Tutto si apprezza di più a stomaco pieno, ricordalo”.

Mi metto in piedi e vado verso la cucina.

“Sei il filosofo dei poveri”, mi punzecchia.

Per tutta risposta mi volto all’indietro, le rivolgo un dito medio e proseguo. Arrivato nell’altra stanza, trovo mia madre seduta sul tavolo intenta a sorseggiare del caffè nero mentre legge una rivista. Che vita noiosa, quella delle casalinghe.

“Buongiorno Junior”, dice senza nemmeno distogliere lo sguardo da dov’è catalizzata la sua attenzione.

“ ‘Giorno”.

Prendo una scodella dal ripiano che sovrasta il lavabo, apro il frigo e mi verso del latte freddo. Dopodiché lo richiudo, frugo nella dispensa e mi arrendo al fatto che dovrò mandare giù i cereali dall’aspetto rivoltante che avevo visto mangiare da mia sorella poco fa. Quando tutto è pronto, mi accomodo di fronte a mamma e comincio a far colazione in religioso silenzio. Noto che la sua mano si allunga trascinando con sé qualcosa, osservo meglio ed è una busta. La solita busta.

“Tanti auguri, Junior”.

Sorrido falsamente. Voglio indovinare... soldi? E’ da cinque anni che mi regalano la bellezza di trenta dollari. Né un centesimo in più, né uno in meno. Però non mi lamento, mi potrebbe capitare qualcosa di molto peggio. Tipo pantofole. Strappo la busta, rovisto all’interno e vi trovo una banconota da cinquanta.

“Quest’anno vi siete sprecati”, commento ironico.

Lo so, lo so: a caval donato non si guarda in bocca. Ed il denaro è una cosa che torna sempre utile. E’ solo che, secondo me, sono un regalo freddo e privo di sentimento. Mi sa tanto da ‘Hey, non abbiamo voglia di pensare a che regalo farti! Eccoti dei soldi, comprati ciò che vuoi e fai il bravo’. Li metterò da parte per l’auto che, facendo qualche veloce calcolo, potrò permettermi circa per il terzo anno del college. Avevo pure fantasticato sul fatto che mi donassero una macchina o, almeno, il corso per la patente, ma no. Sarebbe bastato anche solo un plettro. Sarebbe stato un segno che non è vero che a loro non importa nulla di me e che, forse, sono al corrente di cosa mi piaccia o meno.

Ho troppe aspettative da persone dalle quali non bisogna aspettarsi mai niente.

Fa per ribattere, ma la interrompo: “Puoi riferire a quel sant’uomo di mio padre che è riconosciuto il suo duro impegno nel lavoro, ma che potrebbe essersene sbattuto per una volta di suo figlio?”.

Sospira e si sistema nervosamente lo chignonne sulla sommità del capo.

“Junior, non è così semplice come credi…”.

Oh, invece è semplicissimo.

In un certo senso sono contento che non ci sia lui in giro per casa. Anche se sta sempre barricato nel suo studio personale, sento la sua presenza gravare sulle mie spalle. Quando è fuori colgo la palla al balzo per parlarle, che comunque è una persona più trattabile di quel vecchio stempiato. Mi chiedo come abbia fatto a trovarsi un’altra donna, davvero.

“Perché non glielo dite e basta”, sussurro facendo però intuire l’esasperazione nel mio tono. Sia mai che Alex riesca a sentire la conversazione.

“Sono cose da grandi, non dovresti immischiarti”.

Roteo gli occhi ed ingurgito svogliatamente il contenuto della ciotola.

“E quando sarò abbastanza grande per poter dire come la penso?”.

Chiude il magazine e lo poggia sul ripiano, poi incrocia le braccia al petto.

“So già come la pensi senza che tu me lo faccia presente”.

Serro la mano libera in un pugno.

“No, tu non lo sai”.

“Non lo so per certo, ma immagino”.

Sto per punirla ancora una volta col mio sarcasmo, ma mi precede: “Delle volte è meglio limitarsi ad immaginare che sapere con certezza”.

Dall’affievolimento della sua voce mi pare di cogliere una sfumatura di malinconia mista a delusione. Mi soffermo un secondo a squadrare il volto della donna che convenzionalmente chiamo ‘madre’ da una vita intera: ha il viso appuntito, gli occhi grandi e verdi con la pupilla contornata di nocciola ed i capelli biondi con qualche sprazzo di bianco segno dell’età che sta avanzando. E’ invecchiata molto in pochi anni, ma sarebbe ancora una bella donna se si sistemasse.

Mi rendo conto di quanto mi somigli e storco la bocca quasi disgustato. Pensavo di essere la pecora nera della famiglia e di non avere legami con essa. Sono arrivato addirittura alla teoria dell’adozione. Invece no, sono figlio loro. Sangue del loro sangue, indissolubilmente.

Mi alzo dalla sedia, afferro la scodella mezza piena e rovescio il contenuto nel cestino. Ho perso il poco appetito che avevo.

“Come mai non hai finito la colazione?”, chiede, stranamente, con una punta di preoccupazione.

“Non avevo fame e stavo mangiando per forza. Poi voglio anche vedere cosa mi ha regalato Alex”.

Prendo la mia busta e, con un enorme sforzo, dico: “Comunque grazie, almeno tu sei qui”.

Mi sorride sinceramente sussurrando un “Prego” mentre torno nella stanza accanto.

“Sei qui!”, pigola mia sorella allegra.

Devo farmi dare un corso di positività da lei, decisamente. Mi accomodo al suo fianco, sempre a debita distanza affinché i nostri corpi non si sfiorino, e congiungo le mani poggiandomi coi gomiti alle ginocchia.

“Non serviva tanto disturbo, comunque”.

E’ la prima volta che ha deciso di farmi un dono per il mio compleanno. Da un lato sono veramente convinto che una ragazzina di soli undici anni non debba scomodarsi così per me, dall’altro sono felice che abbia anche solo pensato di farmi un presente. E, nonostante sappia già che valga meno, lo apprezzerò sicuramente di più dei cinquanta dollari.

“Come no? Ti odio, ma sei mio fratello!”, dice come sia la cosa più ovvia del mondo ed alzo un angolo della bocca quasi intenerito.

Si mette in piedi e raggiunge il mobile a lato del divano. Non ha uno scopo ben preciso, dentro c’è di tutto e di più. Quello che non ci sta da nessun’altra parte della casa, praticamente. Apre un’anta ed estrae un pacchetto, poi la richiude. Raggiante, me lo porge, lo afferro e lo scruto curioso. L’ha incartato da sola, non c’è ombra di dubbio. Scotch attaccato in ogni dove, ritagli irregolari e fiocco schiacciato. E’ buffo, ma carino come gesto.

“Lo apri?”, domanda impaziente di scoprire la mia reazione.

Annuisco e strappo la carta senza badarci più di tanto. Mano a mano che la rimuovo riesco a scoprire gli oggetti che avvolgeva.

“Un quaderno e… una penna, wow”.

Aggrotto la fronte mentre fisso ciò che ho dinnanzi, poi alzo il capo facendo incrociare i nostri sguardi. Non voglio sembrarle ingrato.

“Certe cose sono sempre utili, no? Non si ha mai abbastanza quaderni e penne”.

Alex scoppia a ridere e questo suo atteggiamento mi confonde.

“Beh, hai ragione. Anche se non è proprio un quaderno qualsiasi”.

“Cosa intendi dire?”.

“Scoprilo tu stesso”, mi esorta.

Sfoglio rapidamente il quaderno e noto con piacere che le pagine sono composte da righe, ma non sono comuni. Bensì esse vanno a formare dei pentagrammi. Sorrido mostrando perfino la dentatura, evento più unico che raro.

“Oh, davvero... non so come…”.

“Ti sento ogni sera prima di cena suonare, non credere che a volte non mi fermi ad ascoltarti fuori dalla porta. Penso tu sia abbastanza bravo da comporre qualcosa di tuo, anche se suppongo tu lo faccia già. In tal caso, penso che sia giunto il momento di riportare ciò che crei, giusto?”.

Con le labbra schiuse dallo stupore e le dita ancorate attorno al regalo riesco solo a ripetere un “Giusto” debolmente. Do un’ultima occhiata al quaderno e a quella semplice penna nera a sfera, poi, riconoscente, la ringrazio. La spesa totale sarà di al massimo tre dollari, nemmeno un decimo della somma di denaro datami dai miei genitori, però il valore che possiede a livello umano è infinitamente maggiore. Qualcuno è al corrente di ciò che mi appassiona. Qualcuno mi considera. Qualcuno si preoccupa di capire cosa possa piacermi o meno. E quel qualcuno è, sorprendentemente, mia sorella minore.

 

Hanno il coraggio di chiamarla musica? Davvero? Immaginavo avrebbe fatto schifo, ma non così tanto. Potevano almeno prepararmi psicologicamente a questo trauma, a questo stupro dei miei timpani. L’avessi saputo mi sarei portato i tappi per le orecchie, quelli che mettevo da bambino quando non volevo sentire mia madre e mio padre litigare. Non ho la forza di credere che non esista una canzone che contenga più di due suoni o che non somigli maledettamente a quella precedente, così come a quella seguente e a tutte le altre che ho sentito finora. Questo è diventato ufficialmente il compleanno peggiore della storia dei compleanni. E di brutti ce ne sono stati, ma mai come questa… cosa. Non so nemmeno affibbiare un nome a questa schifezza.

Eppure la giornata era cominciata in maniera decente grazie al bel regalo di mia sorella e nutrivo persino della aspettative, ero quasi positivo. I miei amici sono passati a prendermi a sorpresa un’ora prima di quanto stabilito trovandomi, ovviamente, vestito com’ero dalla mattina a mangiare schifezze davanti al televisore assieme ad Alex. Perché, ovviamente, non comincio mai a prepararmi minimo cinque minuti prima di uscire. Avevano progettato tutto, comunque, in modo da riuscire a darmi il regalo ed assicurarsi che non avessi cambiato identità e non fossi fuggito all’estero per poter evitare la festa da Newton. L’idea era allettante, però. Mi piacerebbe andare in Messico. Non avevo detto nulla a mia madre nei giorni precedenti ed effettivamente è rimasta stupita nello scoprire all’arrivo di Ray, Bob e Mikey che non si sarebbero fermati a passare il compleanno da me. Se loro avevano pensato di presentarsi in anticipo, io avevo deciso di non dire nulla in merito ai miei. Nel profondo speravo che, così facendo, mamma s’incazzasse e mi punisse facendomi restare a casa. Nulla di tutto ciò. Ha sorriso della faccenda ed ha iniziato a chiacchierare col mio migliore amico del più e del meno tranquillamente, visto che quel ragazzo è una presenza costante fra le nostre mura fin dall’asilo. Quindi sono stato costretto a prepararmi e ad andare a questa inutile festa.

Ed ora eccomi qua: appoggiato alla ringhiera di un terrazzo a guardare le luci notturne di Belleville mentre sorseggio un po’ di punch. Quei rumori ammassati a casaccio che spacciano per musica si sentono da qui fuori, anche se in modo più attutito. Sono pure uno dei pochi cazzoni a non essersi mascherato. Speravo di mantenere un basso profilo avendo un aspetto sobrio, invece do nell’occhio appunto perché non sono travestito.

Cazzo. Amo Halloween, ma lo odio al tempo stesso. Il mio compleanno passa sempre in secondo piano per colpa di questa festività, ma pensandoci bene: quando mai sono messo in primo piano dagli altri?

Sospiro e rigiro fra le mie mani il bicchiere fissando il liquido rosso vorticare al suo interno. Chissà dove sono gli altri in questo momento. Se la staranno sicuramente spassando un mondo, in fondo era quello che volevano, no? Comportarsi come adolescenti normali. Per quanto anch’io lo voglia, so che non riuscirò mai ad essere come loro. Va contro ciò che sono. Dubito mi sarei divertito lo stesso in loro compagnia se non mi fossi dileguato di nascosto. Non che adesso sia tanto meglio, eh? Ma almeno sono in un posto tranquillo.

Improvvisamente sento la porta aprirsi e chiudersi alle mie spalle, ma non vi presto attenzione. Chiunque sia non m’interessa. Con la vista periferica noto che la persona in questione si è appostata poco distante da me, anche lei sulla ringhiera. Sorseggia qualcosa, probabilmente la mia stessa bevanda, ed emette un verso disgustato. Dalla voce capisco che è una donna.

“Questa roba fa schifo”.

Jamia.

Alzo la testa per guardarla e si volta, dunque, in mia direzione.

“Ciao Frank”.

Le rivolgo un cenno col capo per ricambiare il saluto. Ha i capelli cortissimi sparsi in tutte le direzioni, il viso truccato da scheletro ed ha indosso dei semplici vestiti neri. Almeno lei qualcosa l’ha fatto per questa festa.

“Non trovi anche tu che questa cosa faccia alquanto schifo?”, mi chiede.

Ci metto alcuni secondi per rispondere mentre mi osserva con aspettativa, poi dico solamente: “Abbastanza”.

Non perché sia agitato nell’averla di fronte a me, piuttosto non riesco a non pensare al fatto che questa sia la nostra prima conversazione vera e propria.

“Anche la festa fa schifo”, aggiungo per non sembrare scortese.

Mi sorride, probabilmente sollevata dal fatto che abbia pronunciato almeno una frase.

“Già. Mi aspettavo di più, francamente, da Ash Newton”.

Annuisco e torno a fissare l’orizzonte. Da fuori parrò sicuramente imbarazzato in quest’istante, la verità è che non sono loquace con chi conosco poco.

“Io mi aspettavo solo merda da questa festa”.

“E allora perché ci sei venuto se sapevi che non ti sarebbe piaciuta?”.

Non so se sia solo un’impressione mia, ma per porre questo quesito utilizza un tono speranzoso. Per quale motivo non si sa.

“Mi hanno costretto”, rispondo piatto scrollando le spalle.

“Ah”.

Un silenzio imbarazzante cala fra noi. Uno di quelli estremamente disagevoli perché si creano con una persona sconosciuta a cui non sai di cosa parlare.

“Beh, io ritorno dentro a vedere se riesco a recuperare Hannah. Tu che fai?”.

Estraggo il cellulare dalla tasca: le dieci e mezza. E' perfetto.

“Torno a casa”.

“Cosa?”, gracchia.

“Hai capito bene: torno a casa”.

“Come hai intenzione di tornare?”, domanda sinceramente preoccupata.

“A piedi”.

“Sei serio? Vuoi che ti accom…”.

“No”, la liquido con un gesto della mano. “So cavarmela da solo, tranquilla. Grazie lo stesso”.

Mi dirigo verso la porta in vetro prima di lei e poggio il bicchiere semipieno sul davanzale di una finestra, poi rientro in quel covo che avevo abbandonato in precedenza con tanto piacere. Non le ho accennato del mio compleanno, né tanto meno che voglio tornare a casa per godermi quel poco che mi rimane di questa giornata come Dio comanda. Ma è meglio così. Si sarebbe preoccupata ulteriormente e, sarò stronzo, ma l’ultima cosa che desidero è stare in un angolo a lamentarmi con Jamia Nestor. Ora non mi resta altro che farmi circa venti minuti di camminata e festeggiare il mio sedicesimo anno di vita nel modo più desolato possibile, ma pur sempre migliore di questo.

Per fortuna che ci sono io con me.

 

Sono da poco arrivato nel mio quartiere, riesco a vedere la mia casa da qui a circa metà della strada. Non sono mai stato così felice in vita mia di tornare in quell’abitazione da cui spesso mi piacerebbe scappare, perfino di vedere mia madre. Ed è strano, ma la disperazione è tale da spingermi a formulare questo tipo di pensieri.

Mi avvolgo nel giacchetto in jeans rabbrividendo. Novembre è alle porte ed il tipico freddo penetrante del New Jersey inizia a farsi sentire prepotentemente. Ad un certo punto scorgo delle figure in lontananza, ma la cosa non mi sorprende perché, in fin dei conti, è Halloween ed è normale che in giro ci siano dei bambini a fare ‘Dolcetto o scherzetto’. Ma non sarà un po’ troppo tardi? Guardo l’ora: meno cinque alle undici. Più mi avvicino, più assottiglio le palpebre per mettere a fuoco: un gruppo di persone è fermo nei pressi di casa mia, solo aldilà della strada.

Aspetta... sono nel giardino degli Way. Che stanno combinando?

Accelero il passo fino ad arrivare poco distante dalla scena. Dei ragazzini, probabilmente delle medie, stanno srotolando della carta igienica sui cespugli, lanciando uova contro l’ingresso e sparpagliando farina bianca sull’erba. Il tutto ridendo sguaiatamente. Che esseri privi di cervello. Scommetto qualunque cosa che questi siano figli delle famiglie che non vedono di buon occhi l’arrivo degli Way. E dopo si domandano perché odio Belleville.

Un'adrenalina mai provata in precedenza mi scuote dai capelli alle punte dei piedi. Non posso starmene con le mani in mano, questi stupidi marmocchi brufolosi sono perfino più bassi di me. Devo intervenire.

Li raggiungo silenziosamente ed incrocio le braccia al petto, nella maniera più autoritaria possibile urlo: “Che pensate di fare, idioti?”.

Improvvisamente tutti si fermano e si voltano di scatto in mia direzione.

“Sì, parlo proprio con voi, stronzi! Che c’è? Ora che vi ho scoperti avete paura faccia la spia con le vostre mammine, eh?”.

Avanzo minaccioso, mentre loro indietreggiano. Adesso che li ho vicini, vedo che sono in cinque e non avranno più dell’età di mia sorella.

“Ve-veramente noi…”, uno di loro prova ad articolare una risposta, ma le parole gli muoiono in bocca.

Veramente noi un cazzo. Fareste meglio ad andarvene se non volete passarvi brutti guai e, soprattutto, vedervela con me”.

Sgranano gli occhi intimoriti, ma restano comunque immobili come fossero pietrificati.

“Non mi avete sentito? Andatevene via di qui!”.

Non se lo fanno ripetere due volte, racimolano alcune delle loro cose e se ne vanno correndo lungo il marciapiede. Mentre fisso le loro sagome allontanarsi fino a confondersi nel buio, inizio a domandarmi seriamente cosa possa passare per la mente di certa gente. Anch’io reputo la nuova famiglia strana e, lo ammetto, sono ancora un po’ diffidente nonostante conosca Mikey, ma questo non giustifica un gesto così irrispettoso. Questo è essere coglioni, decisamente. Ah, ed è anche avere dei genitori di quelli che vanno in chiesa tutte le domeniche ed inculcano le loro inutili idee in testa ai figli. Purtroppo questa città è piena di persone del genere.

“Grazie per averli mandati via”.

Mi si raggela il sangue nelle vene. Una voce che non sento da più di una settimana, ma che riconoscerei fra mille. Il mio cuore perde un battito e non capisco il perché. Non mi aspettavo fosse qui fuori.

“Uhm… prego”, mugugno girandomi finalmente verso di lui.

Al chiaro di luna il contrasto fra la sua pelle chiarissima e i capelli scuri risalta ancora di più, mentre i suoi occhi verdi paiono composti da chissà quale sostanza liquida e sono tremendamente ipnotici.

“Davvero, grazie. Non se ne poteva più, era da una decina di minuti che andavano avanti”.

Stendo un sorriso tirato a disagio, ma questo è diverso da quello provato con Jamia poco fa. Questo è dato dal fatto che mi sento in soggezione.

“Come mai non sei alla festa?”.

“E tu come fai a saperlo?”, sbotto allarmato.

M’inquieta sempre di più.

“Forse perché ci è andato pure mio fratello?”.

Tiro un sospiro di sollievo. Forse è umano contrariamente a quanto pensi, non una creatura sovrannaturale. Un vampiro. Certo, sembra un vampiro!

“Oh, giusto”.

Inarca un sopracciglio e poggia una mano sul fianco, facendo gravare il peso su una gamba. E’ una posa molto effeminata. E solo ora realizzo quanto sia effeminato fin dal primo momento in cui mi sono scontrato con lui.

“Delle volte mi chiedo se tu lo faccia apposta oppure no”.

“A fare cosa?”, chiedo innocentemente.

“Ad essere così tonto”, sputa acido.

Dovevo aspettarmelo. Perché davanti a questo sconosciuto perdo il mio barlume di lucidità? Perché divento schifosamente ingenuo?

“Ti ho fatto una domanda”, mi esorta leggermente spazientito.

Annuisco repentinamente e cerco di formulare una risposta decente: “La verità è che faceva schifo. Odio le feste, odio i luoghi affollati, odio… tutto”.

Solleva entrambe le sopracciglia e mezzo sorriso si estende sul suo volto.

“Ah, capisco. Siamo sulla stessa barca”.

Armandomi di coraggio, riesco a trovare la forza di porgli a mia volta un quesito: “E tu, invece? Come mai non sei in giro a festeggiare la notte più spaventosa dell’anno?”. Scrolla le spalle.

“La mia famiglia non festeggia Halloween”.

Sgrano gli occhi sorpreso. Davvero al mondo esistono persone che non celebrano Halloween?

“Ecco perché non c’è alcun addobbo sulla vostra casa! Ma perché non lo festeggiate? Sempre se posso sapere…”.

Si sfrega le mani sulle braccia in modo da scaldarsi.

“Senti, posso spiegartelo dentro? Qui fuori si gela”.

Deglutisco, per poi voltarmi verso la mia casa e la fisso dubbioso. Rientrare o non rientrare? Torno a Gerard di fronte a me, sorrido per poi dire: “Certo, hai ragione”. Seguo la sua figura lungo il vialetto. Tanto mia madre è convinta che sia alla festa.

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