Lost boys

di WillofD_04
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Risveglio traumatico ***
Capitolo 2: *** Spiegazioni ***
Capitolo 3: *** A corto di pazienza ***
Capitolo 4: *** Ospite a sorpresa ***
Capitolo 5: *** Sistemazioni ***
Capitolo 6: *** Giro turistico ***
Capitolo 7: *** Chiarimenti ***
Capitolo 8: *** Desideri ***
Capitolo 9: *** Notte stellata ***
Capitolo 10: *** Disastri ***
Capitolo 11: *** Appartamento per sei ***
Capitolo 12: *** Sfide ***
Capitolo 13: *** Aeroplani ***
Capitolo 14: *** Ricerche ***
Capitolo 15: *** Notizie ***
Capitolo 16: *** Passatempi ***
Capitolo 17: *** Terrazzo ***
Capitolo 18: *** Notte memorabile ***
Capitolo 19: *** Secondo desiderio ***
Capitolo 20: *** Giorno dopo ***
Capitolo 21: *** Territorio abusivo ***
Capitolo 22: *** Dubbi ***
Capitolo 23: *** Insolazione ***
Capitolo 24: *** Dressrosa ***
Capitolo 25: *** Incubi ***
Capitolo 26: *** Chiacchierate ***
Capitolo 27: *** Mesiversario ***
Capitolo 28: *** Ultimo desiderio ***
Capitolo 29: *** Arrivederci ***



Capitolo 1
*** Risveglio traumatico ***


Angolo autrice
Ciao a tutti, sono nuova in questo sito e questa è la prima fan fiction che pubblico. Spero di aver catturato l'attenzione di qualcuno di voi. So che la trama può sembrare vista e rivista, ma mi impegnerò per farla il più originale possibile!
Detto questo, spero che la mia scrittura sia comprensibile e di non aver fatto troppi errori. Spero anche che la storia vi piaccia e ringrazio in anticipo tutti coloro che leggeranno e/o recensiranno la mia storia. Non so che altro dire, quindi... buona lettura!
P.S. giustamente l'angolo autrice lo faccio in alto perchè sono alternativa :D




"Sai chi sei? Capisci che cosa ti è successo? Vuoi vivere in questo modo?"


Mi svegliai decisamente soddisfatta dopo quel sonno ristoratore. Ancora nel letto e ancora intorpidita, girai la testa di lato per vedere l'ora. Un quarto a mezzogiorno. Come al solito mi ero svegliata tardi, ma non mi dispiacque più di tanto considerato che avrei ucciso chiunque avesse osato svegliarmi, ora che era estate. Prima di alzarmi feci un paio di conti. "Dunque oggi è giovedì e sono le undici e tre quarti. Ciò significa che i miei torneranno tra due giorni e la donna di servizio è andata via appena un quarto d'ora fa. Bene." pensai. Il giovedì mi metteva sempre di buon umore perché era il giorno in cui usciva il capitolo settimanale di One Piece, cosa che lo rendeva di diritto il mio giorno preferito. Sorrisi al pensiero e mi stiracchiai ben bene tutti i muscoli. Presi il cellulare e controllai prima i messaggi di Whatsapp e poi le notifiche di Facebook, passando in rassegna meticolosamente ogni pagina dedicata a One Piece per vedere se fosse uscito il capitolo. Sfortunatamente era uscita solo la versione in cinese, che non avevo alcuna intenzione di leggere. Mi alzai e dopo aver sbadigliato un'ultima volta, mi avviai verso la porta della camera. Avevo la mano sulla maniglia quando mi si gelò il sangue nelle vene.
Delle voci. Sentivo delle voci. C'era qualcuno in casa mia. Ma chi poteva essere? Mi assalì un senso di terrore poco piacevole. Ero nel panico. Mi imposi di ritrovare la calma e pensare a una soluzione. Figurarsi se a una come me, paranoica fino al midollo, in una situazione del genere fosse stato facile pensare lucidamente a una soluzione. Nonostante ciò, mi feci forza e coraggio e cominciai a ragionare sulle possibili appartenenze di quelle voci. Non poteva essere la colf perché oltre al fatto che avrebbe perso l'autobus se non fosse andata via entro le undici e mezzo, aveva una tono di voce talmente alto da riuscire a risvegliare anche un morto. Non potevano essere nemmeno i miei genitori, perché se la stavano "spassando" all'Expo di Milano e non sarebbero di certo tornati prima senza avvertire. Oddio, sarebbero anche stati capaci di farmi una sorpresa, ma che motivo c'era?
"Ti preoccupi troppo, saranno la nonna o la zia che sono venute a controllare se è tutto a posto" mi dissi per tranquillizzarmi. Affinai il mio udito e restai in ascolto per qualche secondo. Da quello che potei sentire le voci erano tutte maschili. Di male in peggio. Dovevano essere almeno tre. Ero fottuta. Caput. Addio. Tuttavia avevo un vantaggio. Chiunque fosse, non sapeva che ero sveglia e se ero fortunata, non sapeva nemmeno della mia esistenza. Potevo quindi sfruttare l'effetto sorpresa. "Non lasciare che il panico ti assalga, nemmeno per un secondo" mi diceva sempre mia madre. E certo, la faceva facile lei che non era in pericolo di vita. Decisi di seguire il suo consiglio e mantenni il sangue freddo. Mandai un messaggio a mia mamma con scritto "C'è un problema" per non allarmarla troppo – anche perché magari stavo facendo di un sasso una montagna – e scannerizzai tutta la stanza, nonostante fosse mezza buia in cerca di un possibile oggetto contundente. Tutto ciò che trovai fu un righello lungo mezzo metro e un paio di ciabatte ai piedi del letto. Mi vestii senza fare rumore – non potevo decisamente uscire in reggiseno e mutande con chissà quali malviventi in casa mia – e una volta infilato il cellulare in tasca con il numero dei carabinieri già impostato come chiamata rapida, mi riversai fuori dalla porta spinta da chissà quale impulso kamikaze con addosso un reggiseno sportivo, dei miseri pantaloncini e tanta, tanta paura.
Stringevo le ciabatte e il righello come se avessero potuto scivolarmi via da un momento all'altro – cosa non del tutto improbabile vista la mia copiosa sudorazione – a tal punto da farmi diventare bianche le nocche, mentre avanzavo a passo lentissimo e soprattutto cauto verso la sala da pranzo, da dove sentivo provenire i suoni. Eppure in quei timbri di voce c'era qualcosa di familiare. C'era decisamente qualcosa di familiare, ma cosa? L'insieme mi sfuggiva. Quando fui abbastanza vicina da riuscire a sentire i loro discorsi rimasi paralizzata.
«Dobbiamo assolutamente trovare una soluzione al più presto.»
«Sì, concordo pienamente.»
«Ma come cavolo ci siamo finiti in un posto del genere!?»
«Non lo so, ma ecco che succede a mandare avanti te in una spedizione! Moriremo tutti!» quest'ultima voce aveva un tono dapprima arrabbiato e poi lagnoso.
«Ehi! Non mettermi in mezzo! Piuttosto... ci sarà del saké in questo strano posto?»
«Non è colpa dello spadaccino, altrimenti come spieghi la presenza mia e del comandante?»
«A questo non avevo pensato...»
«Questo "strano posto" deve essere una casa e a giudicare da questa stanza direi che ci troviamo nella sala da pranzo.»
Moriremo tutti. Sakè. Strano posto. Spadaccino. Comandante. No. Non era possibile. Non era neanche lontanamente immaginabile. Se il cervello di mi diceva di scappare il più lontano possibile o di farmi direttamente ricoverare in un reparto psichiatrico specializzato, i miei piedi si muovevano da soli verso la provenienza delle voci, di cui credevo di aver capito l'appartenenza. I miei sospetti si rivelarono fondati quando, arrivata sull'uscio della sala da pranzo, quattro paia di occhi mi fissarono. Dire che ero totalmente pietrificata non renderebbe giustizia a come realmente stavo. Dire qualsiasi cosa, non avrebbe reso giustizia alla situazione. Situazione che per la cronaca peggiorò – contro ogni aspettativa e reale possibilità– quando sentii dei rumori sinistri provenire dalla cucina. Non so dove trovai la forza ma indietreggiai quanto bastava per vedere altre due figure che armeggiavano con il frigo. Lasciai cadere le ciabatte e il righello. Niente aveva più importanza a questo punto. Che ci facevano loro qui? E perché erano proprio in casa mia? Sarei morta? Mi sentivo male. Il cuore aveva preso a battere a un ritmo forsennato, avevo la nausea e mi serviva una sedia. Chiusi gli occhi e feci un respiro profondo, aspettando qualche secondo prima di riaprirli nella speranza che loro sarebbero spariti. Ma quando rimisi a fuoco erano ancora tutti lì, più reali che mai e in attesa di spiegazioni che non sarei stata in grado di dar loro, soprattutto in quel momento. Troppe domande mi frullavano per la testa, che aveva preso a girare vorticosamente.
«Credo proprio che tu ci debba delle spiegazioni.» due occhi di ghiaccio mi trafissero, seri.
Deglutii un paio di volte anche se c'era ben poco da deglutire, visto che la mia bocca aveva smesso di produrre saliva da un bel po'. Vedendo che non proferivo parola, il mio interlocutore intensificò lo sguardo già abbastanza terrificante e fece un passo verso di me.
«Oh cazzo... Non è possibile.» dissi. E per qualche ragione che tuttora non comprendo, cominciai a ridere, irritandolo ancora di più. «Io pensavo che oggi uscisse il capitolo... Non i personaggi del manga!» fu tutto ciò che riuscii a pronunciare prima di cadere a terra svenuta.

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Capitolo 2
*** Spiegazioni ***


La fenice. Chirurgo della morte. Cappello di paglia. Cacciatore di pirati. Gamba nera. Sogeking. Ancora nel buio più totale - metaforicamente e non - feci mente locale sui volti che avevo riconosciuto. Assurdo. Davvero assurdo.  Il mio sogno di conoscerli dal vivo si era avverato e io che cosa avevo fatto? Ero svenuta miseramente, collezionando la più grande figura di merda della storia. “Ma ti sembra questo il momento di pensare a una cosa del genere!?” la mia coscienza si era risvegliata prima di me a quanto pareva. Però aveva ragione. La situazione era abbastanza critica. Aprii gli occhi controvoglia, sperando di ritrovarmi in paradiso o dovunque non avessi dovuto affrontare gli occhi freddi e inquisitori del terribile chirurgo della morte. Avrei preferito perfino essere prigioniera al sesto livello di Impel Down, ma non lì. Subito avvertii il cado soffocante estivo e dodici occhi che mi guardavano nella maniera più diversa, chi con indifferenza, chi con curiosità, chi con paura. “Ok. Queste persone si aspettano delle spiegazioni. Spiegazioni che non hai al momento e che probabilmente non avrai mai. Sono pirati. Pirati ricercati. Alcuni di loro uccidono per il semplice gusto di farlo. Fa qualcosa di intelligente se non vuoi rimanerci secca.” Quello che mi preoccupava più di tutti in realtà era Law, tutti gli altri a parte forse Marco che non avevo avuto modo di inquadrare, sapevo che non erano cattivi e non mi avrebbero fatto del male se io non gliene avessi dato un motivo valido. Già. Il punto era proprio questo. Cercare di fornirgli una motivazione sufficientemente credibile per evitare di finire come carne da macello. Quale sarebbe stata era ancora un mistero, ma contavo sul mio buon senso per tirarmi fuori da quella situazione spiacevole.
«Ehi, stai bene?» una voce mi riportò alla realtà, appena in tempo per realizzare che ero stesa sul tavolo della sala da pranzo. Un ragazzino poco più grande di me mi squadrava con un sorriso stampato in faccia. Non capivo che ci fosse da ridere ma la sua allegria in qualche modo era contagiosa, quindi sorrisi anche io, tanto per rendere la situazione ancora più inverosimile.
«Sei proprio il fratellino di Ace» commentò serafico il biondino seduto accanto a lui.
«Ma vi sembra il momento!?» la voce preoccupata dell’aspirante re dei cecchini mi tranquillizzò un po’. Il pensiero che ci fosse qualcuno terrorizzato almeno quanto me mi faceva sentire meno surreale.
«Visto che ti sei ripresa, parla.» disse secco il pirata che temevo di più in quel momento. Prima di emettere qualsiasi suono, c’era una cosa che dovevo fare. Allungai una mano verso lo spadaccino - quello che al momento era il più vicino - e lo toccai. Potei sentire la stoffa del suo vestito sotto le mie dita, era morbida e leggera. Non contenta, gli toccai una guancia. La pelle era liscia e estremamente reale. Dunque era vero. Tutti loro erano veramente lì davanti a me, in casa mia. Era buffo. Il mio desiderio di incontrarli in carne e ossa si era finalmente realizzato e io anziché saltare di gioia ero rimasta paralizzata dal terrore. Ora però dovevo cercare di mettere da parte le emozioni e concentrarmi su quello che stava succedendo, per cercare di capirci qualcosa.
Il chirurgo della morte picchiettava il piede per terra, impaziente, senza però far trasparire alcuna emozione. Zoro invece, mi guardava sconcertato, probabilmente ancora scosso dalla scena che gli avevo propinato prima. Rufy sorrideva ancora e si dondolava come una scimmia dalla sedia. Decisi che avrei guardato lui, se non altro mi rassicurava la sua espressione così serena a dispetto di tutti gli altri. A pensarci bene avrei potuto puntare il mio sguardo tranquillamente anche su Sanji visto che mi fissava estasiato. Scesi dal tavolo che ero ancora un po’ intontita, ma senza perdere tempo mi sedetti sulla prima sedia disponibile.
«Potresti, se non ti è di troppo disturbo, spiegarci questo?» a parlare era stato Marco, accompagnandosi con un gesto della mano. Mi voltai verso di lui e boccheggiai.
«Ragazzi non vedete che è sotto shock? Datele tempo!» cavalier Sanji era venuto in mia difesa «come ti chiami bella fanciulla sconosciuta?»
Boccheggiai anche a quella domanda.
«Secondo me è muta» commentò con molta tranquillità lo spadaccino
«Ti sbagli testa di muschio, ha visto te e si è terrorizzata!»
«Stai zitto cuoco di merda! Ti faccio a fette!»
«Come ti permetti!? Io t…»
«Camilla» sputai fuori all’improvviso, guadagnando l’attenzione di tutti, compresi i due litiganti
«Ma che bel nome! Si addice proprio a una bella ragazza come te!» il cuoco della ciurma di cappello di paglia disperse cuoricini per tutta la stanza, nauseando buona parte dei presenti
«Ci risiamo, è partito» commentò Usop che fino a quel momento non aveva proferito parola
«Però potete chiamarmi Cami, lo fanno tutti» continuai io, facendo un mezzo sorriso
«Quanti anni hai Camilla?» mi chiese Marco
«Diciotto quasi»
«Sei la più piccola allora!» esclamò Rufy, sempre con un sorrisone «Io mi chiamo Rufy e sono colui che diventerà il re dei pirati!»
Risi per la prima volta quella mattina. «Lo so chi sei, Rufy. E faccio il tifo per te! Tutti lo facciamo!»
«Grazie!» rise anche lui
«Tutti chi?» chiese titubante Usop
Merda, avevo parlato troppo. Per l’ennesima volta quella mattina non seppi cosa dire.
«Ehi ragazzina, il nasone ti ha fatto una domanda. Sarà meglio per te che risponda» Law aveva parlato, con una tale freddezza da spazzare via i 35 gradi che facevano.
«Ehm…come faccio a spiegarvelo?» cominciai io «ecco…diciamo che siete famosi qui nel nostro mondo»
«Famosi in che modo?» mi incalzò il medico
«Io vi conosco. Tutti. So chi siete e so da dove venite. Questo perché fate parte di un manga che seguo molto» sputai fuori tutto d’un fiato
«Ah! Lo sapevo! È una strega! Ci ucciderà tutti con uno dei suoi incantesimi! Rufy, Zoro, Sanji pensateci voi!» Usop strillò in preda al panico prima di andare a rifugiarsi sotto al tavolo
«Mango?? Dove?? Ho fameee»
«No Rufy, non farti fregare dalla faccia gentile! Vuole la tua testa in realtà! Oddio Zoro ti ha toccato…ora sei sua preda! Scappa finchè sei in tempoo» da sotto al tavolo la voce suonò ancora più nasale, ottenendo un effetto decisamente più comico del previsto che però non potei godermi perché sentii delle dita affilate afferrarmi il collo «Comincio a spazientirmi. Esprimiti chiaramente»
Cominciai a tremare come una foglia, guardando Trafalgar Law stringere in mano la mia vita, letteralmente. «Manga. Fumetto. Una storia disegnata! La vostra storia, quella di Rufy e la sua ciurma che parla del viaggio per ritrovare lo One Piece e diventare re dei pirati. Voi siete tutti personaggi di questo manga. In molti lo seguono e in molti vi conoscono!» dissi tutto d’un fiato. Il chirurgo però non allentava la presa «M-mi dispiace, ma più chiara di così non posso essere…» ero sul punto di piangere.
«Ehi Traffy. Lasciala.» ancora una volta, da bravo gentleman, Sanji era accorso in mio soccorso. Pronunciò la frase con calma, nascondendo lo sguardo sotto la frangetta e buttando fuori il fumo della sigaretta che aveva aspirato poco prima. Law sembrò convincersi, perché fece come aveva detto il cuoco.
«Quindi, ricapitolando, noi saremmo personaggi di una storia disegnata?» chiese Marco
«Si. Perché siate qui e come ci siate arrivati non ne ho idea, ma appartenete all’universo di One Piece» dissi convinta
«Eh? Conosci anche tu lo One Piece??» gli occhi di Rufy brillavano come quelli di un bambino in un negozio di caramelle
«Diciamo di si» gli sorrisi di rimando. Nessun altro proferiva parola. Erano tutti rimasti sconvolti dalle mie parole.
«Wow! Ma è fantastico!»
«Sanji prepara un banchetto dobbiamo festeggiare!» disse entusiasta Rufy «ehi un momento…non sarà che anche tu vuoi diventare re dei pirati!? Perché in tal caso siamo nemici!» cappello di paglia mi guardò storto per un attimo
«No, no figurati! A me basta seguire le tue avventure e vedere avverarsi il tuo sogno»
«Che sollievo...beh stai pur certa che ce la farò!» il suo volto divenne estremamente sicuro e un ghigno di sfida comparve sul suo volto
«In sostanza, tutti si fanno gli affari nostri leggendoci su un foglio di carta?» chiese pacatamente la bionda fenice dopo essersi ripresa dal piccolo - per così dire – shock.
«Beh…si…»
Il capitano dei pirati Heart prese parola «Se le cose stanno davvero così come ci hai detto, dobbiamo contattare l’autore.».

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Capitolo 3
*** A corto di pazienza ***


Lo sguardo di ghiaccio di Law non ammetteva repliche. A me non fregava niente. «No. Non esiste.»
«Non sei nella posizione di poter scegliere.»
«Beh nemmeno tu.» sapevo di stare andando incontro a morte certa sfidando così apertamente il temuto capitano dei pirati Heart, lo stesso che non si era fatto scrupoli a consegnare i cuori di cento pirati alla marina, ricordiamolo. Infatti mi dedicò uno sguardo molto, molto, molto truce. Trafalgar Law era un individuo pacato, controllato e emotivo quanto una scopa, tuttavia io ero riuscita a farlo spazientire in cinque minuti. Mi feci mentalmente un applauso per la mia bravura prima di tornare a rivolgere il mio sguardo verso il medico. Non avevo intenzione di demordere. Lui ghignò, un ghigno per niente raccomandabile che mise i brividi persino a Usop, che nel frattempo era riemerso dalle profondità del tavolo. Fu un attimo solo. Vidi Law divaricare le gambe, sollevare la mano sinistra e sfoderare la nodachi. “Room”, aveva detto, sempre con quel sorriso sadico dipinto sul volto. In un attimo una sfera bluastra ci avvolse completamente. Rischiavo una sincope o qualcosa di più grave.
«Ti conviene contattare l’autore, e anche alla svelta»
«Traffy ma che stai facendo!?» Rufy era piuttosto contrariato
«Pazzo di un chirurgo! Non vorrai usare i tuoi sporchi trucchetti su una così bella dama!» Sanji mi si parò davanti in un batter d’occhio e io tirai un sospiro di sollievo. Tuttavia Law non perse il suo sorriso malvagio provocandomi la scomparsa di almeno un paio di battiti. Intanto Usop aveva cominciato a strillare. Marco guardava la scena, interrogativo ma calmo.
«Su Law, ora basta.» fece Zoro «la violenza non risolve le cose»
«Ma da che pulpito viene la predica!» Gli fece eco il cecchino
«Camilla ci dirà come contattare questo autore e ce ne torneremo tutti da dove veniamo, senza spargimenti di sangue» continuò il verde, che ignorò bellamente il povero Usop.
Il caro Traffy ancora sfoggiava una smorfia crudele sul viso, cosa che mi mise i brividi. Non augurerei mai a nessuno di vedere quell’espressione da vicino, è veramente raccapricciante.
«Shambles» pronunciò, e in un istante fu a tre centimetri da me. Quel bastardo si era scambiato di posto con Sanji. Ora stava proprio cominciando a darmi sui nervi.
«È la tua ultima occasione»
«Non intendo dartela vinta, chirurgo da strapazzo. Noi non chiameremo l’autore.» sibilai
Si compiacque, si compiacque a tal punto che per un attimo gli brillarono gli occhi di una luce perversa. Cominciò ad allungare lentamente una mano verso di me «Mes» disse; e per un attimo tutto ciò che udii fu il battito del mio cuore, cuore che stava per essere estirpato dal mio corpo. Istintivamente mi ritrassi, balzando all’indietro. A quanto pare feci bene, perché Zoro con uno scatto si frappose tra me e il mio aggressore che mi diede abbastanza tempo per allontanarmi da quel pazzo sadico che voleva mettere le mani sul mio prezioso cuore.
«Basta giocare, Law.»
«Non sto giocando, spadaccino. Sto cercando di estrapolare informazioni. Informazioni utili che ci permetteranno di tornare nel nostro mondo»
«E ti sembra questo il modo!?» si intromise anche Sanji, furente di rabbia
«D’accordo.» Law abbassò la testa, nascondendo gli occhi sotto la visiera del cappello, e con tono piatto dichiarò «se avete altri metodi vi cedo volentieri il posto.». Ritirò la Room, rinfoderò la sua Kikoku e si andò a sedere su una sedia, gambe e braccia incrociate, in attesa.
«Perché suggerisci di non contattare l’autore?» mi domandò il finora indifferente Marco
«Perché è troppo complicato! Innanzitutto è molto lontano da qui e non parla la nostra stessa lingua, in più lavora tantissimo, dorme solo tre ore al giorno»
A quelle parole Zoro sgranò gli occhi, non capacitandosi di come un essere umano potesse dormire così poco.
«Lingua?» chiese Rufy piegando la testa da un lato, senza capire
«Ah già, nel vostro universo non avete di questi problemi. Qui da noi ci sono diversi paesi e ognuno ha un proprio modo di parlare.»
«Non ho capito…fa niente» disse grattandosi la testa
«Quindi questa “lingua” sarebbe un ostacolo in più» constatò la fenice
«Esatto. In più non posso dire che mi sono piombati sei dei suoi personaggi in casa. Finirei decisamente al manicomio. Senza contare che non saprei come contattarlo. E anche se ci riuscissimo e se lui ci credesse, come facciamo a essere sicuri che lui sa cosa fare?»
«Fate come volete, io mi avvio a questo “Giappone”» detto questo, il marimo iniziò a camminare, ma fu subito fermato da Sanji e Usop che, trattenendolo per la maglietta lo redarguirono - e insultarono - ben bene.
«Idiota di una testa di muschio. Dove credevi di andare? Non sapresti nemmeno trovare la porta di questa casa!»
«Chiudi il becco torciglio! Per colpa tua Traffy stava quasi per uccidere Camilla!»
Il cuoco ringhiò e cominciò una delle loro liti epocali. Alle parole di Zoro realizzai che avrei davvero potuto morire. Il chirurgo contava i fatti, non le parole. Ma non poteva uccidermi così e credo che anche lui ne fosse consapevole. Ecco perché tra tutti gli attacchi che aveva a disposizione aveva scelto proprio quello.
«Ora che facciamo?» domandò Usop sconsolato, distraendomi dai miei pensieri contorti «se non possiamo contattare l’autore, come faremo a tornare a casa?»
«Non ti preoccupare nasone, una soluzione la troveremo» lo rassicurò Marco.
Mi fermai a riflettere sul perché quei pirati del manga più seguito al mondo potessero essere proprio in casa mia. O che nesso potesse esserci tra me e loro. Insomma era chiaro che fossi una fan accanita di One Piece, ma così era troppo. Non ero nemmeno una strega come sospettava Usop e non praticavo Vodoo e robe varie. Quindi perché? Perché io? Che fosse un sogno? No, tutte quelle sensazioni erano troppo concrete per non essere vere. La stoffa del vestito, la pelle liscia di Zoro, le dita affusolate di Law sul mio collo, i brividi, la paura. Quando mai in un sogno ero svenuta per il terrore? Ero così intenta a pensare a una possibile spiegazione che non mi accorsi che il chirurgo si era alzato e veniva verso di me. Ma non ne aveva mai abbastanza quello!? Che cosa voleva da me ancora?
«Dov’è il bagno?»
Rimasi inebetita per un attimo da quella che mi sembrava una strana richiesta per provenire da uno come lui «Seconda stella a destra, poi si volta e via sempre dritti» dissi senza pensarci troppo. Alzò un sopracciglio e mi guardò come si guarda un pazzo che ha appena tentato di evadere da una clinica psichiatrica, che a pensarci bene era un po’ come guardava tutto il resto dell’umanità. Un attimo…ma davvero avevo detto “seconda stella a destra, poi si volta e via sempre dritti!?!?!?” ma che accidenti avevo nel cervello! Non era possibile fare una seconda figura di merda così grossa nella stessa ora…e per di più con Trafalgar D. Water Law, il famigerato chirurgo della morte. Me lo avrebbe rinfacciato per tutta la vita o forse farei meglio a dire per tutta la sua permanenza da me. Affondai il viso tra le mani per qualche secondo, perfettamente conscia che stava aspettando in piedi davanti a me che gli indicassi la strada del bagno, che avevo appena confuso con quella per arrivare su un’isola che non esisteva e per di più di un cartone animato, anche se questo lui fortunatamente non lo sapeva.
«Qui nel nostro mondo è un modo di dire…» giustificai la mia strana risposta, sperando che se la fosse bevuta «comunque per il bagno devi uscire dalla sala e svoltare a sinistra, quando sei in corridoio vai sempre dritto.»
Constatai, tra me e me, che avevo bisogno di un lungo periodo di riposo. I miei nervi da quando mi ero svegliata quella mattina, non si erano rilassati un secondo. Non erano qui da neanche due ore e già ero sull’orlo di un esaurimento nervoso. Non sapevo per quanto tempo fossero rimasti, ma qualunque fosse la durata della loro permanenza, in quel momento mi ripromisi che le cose sarebbero cambiate. Nessuno avrebbe più attentato alla mia fragile vita. Nessuno avrebbe fatto come gli pareva perché fino a prova contraria la padrona ero io. Mia la casa, mia le regole. Oddio non era proprio mia la casa, ma quelli erano dettagli. E comunque avrei dovuto risponderne io per qualsiasi danno a oggetto - o persona, perché no - perché c’ero io al momento e perché supponevo non avessero documenti con loro.
Fissai Law avviarsi con passo placido verso il corridoio. Per fortuna ora si era calmato e aveva smesso di tentare di uccidermi. Forse aveva capito che aveva tempo per farlo e si era rilassato. Inchiodò all’improvviso e si mise all’erta, così come avevano fatto Marco e Zoro, che aveva una mano sull’elsa della Shusui. Due secondi dopo il campanello suonò.



Angolo autrice:
Rieccomi qui con il terzo capitolo! Allora, so già che qualcuno troverà questo capitolo noioso e probabilmente brutto (anche se spero vivamente che non sia così) ma era necessario soprattutto per delineare meglio la personalità dei personaggi. So anche che qualcuno troverà fuori luogo la risposta che Camilla dà al chirurgo della morte "seconda stella a destra, poi si volta e via sempre dritti" ma vi assicuro che c'è un motivo se gli ha risposto così! Non è una frase a caso messa per allungare il capitolo o far ridere (una risata però spero che ve la facciate :D), scoprirete tutto se avrete la pazienza di continuare a seguire questa storia. Un bacio e a presto!
 

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Capitolo 4
*** Ospite a sorpresa ***


Sgranai gli occhi per l’ennesima volta. Con la coda dell’occhio vidi Zoro sollevare di poco la sua katana dal fodero. Tutti guardavamo la porta, in attesa. Chi diavolo era a quest’ora? Non aspettavo nessuno. Se anche fosse stato un imbianchino o un tecnico di qualcosa, ne sarei stata consapevole.
«Chi è?» mi chiese Law a voce bassa
«Non lo so» risposi in un sussurro
«C-che cos’era quel rumore?» chiese a sua volta Usop bisbigliando, inconsapevole di cosa fosse un campanello.
Ignorai la sua domanda e mi limitai a dir loro, o meglio ordinare, di nascondersi. Ovviamente ottenni la reazione contraria.
«Sei matta!? Dobbiamo combattere!» esclamò cappello di paglia
«Ci sarà da divertirsi» sul volto del verde era comparso un ghigno poco rassicurante
«Si si bravi! Combattiamo!»  affermò il cecchino da sotto il tavolo
«Non ti preoccupare Cami, chiunque sia lo prenderò a calci per te» Sanji mi guardava con gli occhi a cuore, le mani congiunte e una gamba alzata da terra
«Io non prendo ordini da nes…» aveva cominciato a dire il chirurgo, che fu prontamente interrotto da me «Sentite, non so chi sia ma di sicuro non potete prenderlo a botte. Dovete nascondervi, non può assolutamente vedervi!» vedendo che non cedevano applicai un trucco che appresi proprio dalla rossa navigatrice dei mugiwara.
«Per favore» li pregai con finti occhi lucidi «andate a nascondervi»
«Se me lo chiedi così non posso rifiutare! Subito tesoro!» il cuoco già si era incamminato alla ricerca di un posto dove nascondersi
«Ma io voglio combattere!» protestò Rufy
«Lo farai, ma non qui e non ora» gli promisi. Finalmente li avevo convinti e li indirizzai nel mio bagno, ma non fecero in tempo a fare un passo che la porta si aprì.
Mi girai di scatto verso la figura che stava in piedi sull’uscio della porta e mi guardava con un’espressione indecifrabile.
«Z-zia?»
Lei non rispose, si limitò a guardarsi in giro alla ricerca di qualcosa.
«Posso spiegare!» dissi, alzando le mani in segno di resa
«Certo che puoi spiegare, hai fatto preoccupare tua madre!»
Solo in quel momento mi ricordai di mia madre. Le avevo mandato un messaggio con scritto “c’è un problema” e non avevo più controllato il cellulare. Ansiosa com’era si era sicuramente preoccupata. Toccai la tasca per accertarmi che il mio cellulare fosse ancora lì - e fortunatamente lo era - e guardai lo schermo. Sei chiamate perse e quattro messaggi. Merda.
«Allora quale sarebbe il problema?» chiese mia zia, visibilmente infastidita. La sua domanda mi sbalordì non poco. E non solo me. Tutti i pirati, che fino a quel momento erano rimasti zitti e immobili, guardavano mia zia con stupore. Perfino i più impassibili Marco e Law la fissavano sorpresi.
«Lei non ci vede?»  fece Usop
«Cioè, tu non vedi il problema?» ripetei la domanda, lentamente per farla sembrare meno irrazionale
«No che non lo vedo, dimmelo senza fare troppe storie!»
Mannaggia questo si che era un bel guaio. Lei non li vedeva. Ciò significava che ero diventata completamente pazza. Oppure lei era cieca, ipotesi da escludersi visto che un cieco non entra in casa tua così come se niente fosse. Già, come diavolo era entrata?
«Ma come sei entrata?» le chiesi, per sviare dal problema
«Tua madre mi ha dato un mazzo di chiavi di scorta, per ogni evenienza. Ma non cambiare argomento!»
«Ah…» quindi mia madre non si fidava di me. E non lo avrebbe di certo fatto ora che le avevo giocato questo brutto scherzo.
«Allora!?» si stava spazientendo
Stavo per risponderle che scherzavo o qualcosa del genere, ma Rufy mi interruppe «Ehi signora? Perché non ci vede?» si era messo davanti a mia zia e le faceva su e giù con la mano davanti agli occhi. Tremavo al pensiero che potesse sentire la sua voce. Ma lei non si mosse. Non l’aveva sentita, nemmeno un sibilo. Tirai un sospiro di sollievo. Anche se da un lato significava che al novanta per cento, essendo l’unica a vederli e a sentirli, ero pazza da legare.
«Perciò oltre che cieca è anche sorda» commentò Zoro, dopo un iniziale smarrimento
«Sei davvero così ritardato marimo? È ovvio che non può né vederci, né sentirci ma la vista e l’udito ce li ha»
«Oddio, ora lo vedo il problema! Ma che hai combinato Cami!?» mia zia inconsapevolmente stroncò sul nascere l’ennesima lite tra il cuoco e lo spadaccino. Ci girammo tutti in direzione del suo sguardo e quello che vedemmo mi fece trasalire.
Corsi in cucina. Tutti i mobili aperti, biscotti, patatine e briciole ovunque. Davanti a me il frigo e il congelatore,entrambi aperti e semivuoti, avevano fatto una chiazza d’acqua grande come una pozzanghera e continuavano a perdere. In una situazione normale avrei imprecato più e più volte, invece tutto ciò che riuscii a dire fu un misero “il mio povero frigo” con la testa piegata di lato e le lacrime agli occhi.
«Ma che cazzo hai fatto!?» la zia si era arrabbiata, eccome se si era arrabbiata. Lei non diceva mai parolacce, eccetto quando era in preda all’ira.
“Me lo chiedo anche io…” pensai, ma mi premurai di non dirglielo o avrebbe chiamato il 118 e mi sarebbe toccato un mese di degenza in neurologia.
«Ecco…veramente…» e adesso che potevo dirle? Di certo non avrebbe creduto alla storia del “dei ragazzi sono usciti fuori da un fumetto all’improvviso e uno di loro, che tu non puoi vedere né sentire, ha svaligiato la dispensa, dimenticandosi di chiuderla e sbriciolando in giro. Ora che ci pensavo bene, avevo visto delle briciole percorrere la sala da pranzo e anche il viso di Rufy portava traccia di quel massacro.
«Basta, chiamo tua madre.»
«No!» esclamai forse un po’ troppo forte, perché mi guardò storto «no…che bisogno ce n’è? Non darle ulteriori affanni, la chiamo io dopo e le spiego per bene cosa è successo»
«D’accordo» ci rinunciò. A me venne da ridere perché la scena ricordava vagamente quella svoltasi poco prima che Law ritirasse la sua room. «ma dovrai darle una spiegazione plausibile e se permetti anche io sarei curiosa di saperla»
«Dille che sono entrati i ladri e ti hanno rubato tutta la carne!» suggerì Rufy
«Come no…» gli risposi io
«Cosa?» mi richiamò mia zia
«Formiche» sputai fuori all’improvviso
«Formiche!?» chiesero in coro Usop e Zoro
«Formiche.» ripeté la zia, come affermazione però. Subito dopo la vidi avvicinarsi. Indietreggiai, memore di quello che era successo con il chirurgo, ma lei fu più veloce e mi raggiunse, posandomi una mano sulla fronte «la febbre non ce l’hai…dev’essere il caldo che ti ha dato alla testa.»
«No no!» le gridai in faccia e scaccia la sua mano dal viso «c’è stata un’invasione di formiche. Erano dovunque, tutto questo è opera loro! Ho dovuto togliere tutto e metterlo in quelle padelle» spiegai concitatamente gesticolando affannosamente pregando che ci credesse e notando solo in quel momento le pentole che erano sui fornelli, presumibilmente opera di Sanji.
«Speriamo che se la beva» fece proprio quest’ultimo, sinceramente mortificato per l’accaduto
«Perché non hai risposto a tua madre?»
«Perché ero a farmi la doccia» stavolta mi ero preparata la scusa in precedenza, tanto avrei dovuto comunque rifilarla anche a mia mamma «sai com’è, il caldo e la fatica di svuotare frigo e congelatore…» continuai bellamente
«E perché non hai richiuso gli sportelli?»
«Per amor di Dio zia! Sembra di stare in questura!» ringhiai spazientita da quelle troppe domande per le quali già era tanto se avevo messo in fila due parole sensate.
«Ehi, ehi calmati! Va bene, me ne vado. Tanto dovrai comunque spiegarlo a tua madre e non sarà per niente contenta» disse, con una punta di divertimento
«Ecco brava vattene» e indicai la porta
«Per qualunque cosa, chiamami» mi riferì mandandomi un bacio prima di incamminarsi verso la porta. Però qualcosa andò storto. O meglio, lei andò storta. Spalancai la bocca - si, di nuovo - nel vedere mia zia che si massaggiava una spalla con aria seccata. La ignorai mentre mi diceva che aveva preso male le misure e aveva sbattuto contro lo stipite della porta. La ignorai pure quando finalmente decise di andarsene. Quello contro cui aveva sbattuto mia zia non era la porta. Era…Zoro!?

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Capitolo 5
*** Sistemazioni ***


Eravamo tutti, chi più chi meno, sconvolti. Perfino Rufy, lingua penzolante e testa piegata, non sapeva spiegarsi cosa fosse appena successo. Nessuno lo sapeva. Spostai il mio sguardo da un pirata all’altro per cercare di capire, ma niente.
«Qualcuno mi spieghi perché diavolo tua zia ha sbattuto contro il marimo!» si agitò leggermente Sanji
«N-non sarà che anche lei è…» iniziò Usop, per poi continuare a voce più bassa «una strega!?»
«Quante volte dovrò ripeterti che non sono una strega?»
«Quindi» rabbrividii mentre Law iniziò a parlare, sempre con quel timbro atono «gli altri non possono vederci, né sentirci ma possono toccarci.»
«A quanto pare» fece Marco anche lui impassibile, dopo l’iniziale sbigottimento
«Questo va oltre il limite del razionale» disse il cuoco, che si era appena acceso un’altra sigaretta. Quando c’era da pensare, avevo notato, il biondo ne iniziava sempre una nuova.
«Il cuoco ha ragione. Non so che strano scherzo sia questo, ma vedi di farci tornare dove eravamo o ti garantisco che te la farò pagare.» il medicastro aveva incatenato i suoi occhi ai miei e nonostante la freddezza del suo sguardo, mi sentii sciogliere per qualche motivo ignoto
«Sentite» d’improvviso mi ridestai dal mio stato pseudo catatonico «vi garantisco che sistemeremo tutto. Penseremo a come fare, ma prima per favore aiutatemi a ripulire questo casino» li implorai congiungendo le mani.
Le mie suppliche funzionarono, perché mezz’ora dopo tutto era tornato come prima, eccetto il frigo che era ancora vuoto. Sanji però mi aveva promesso che nel pomeriggio sarebbe andato personalmente a fare spesa degli ingredienti più pregiati. Come non lo sapevo, visto che era invisibile agli altri e io ero a corto di soldi. Beh, i soldi ce li avrei anche avuti se non avessi dovuto sfamare sei persone di cui almeno una mangiava per un plotone militare. Ma io confidavo in lui e nella sua parola e mi riproposi di accompagnarlo, se non altro perché non aveva idea di come muoversi nel nostro mondo. Per il momento però,  mi limitavo a gustarmi le pietanze paradisiache che aveva preparato per pranzo, stando attenta come mi avevano detto, alle mani lunghe – in tutti i sensi – di Rufy.
Il pomeriggio scorse abbastanza tranquillo. Per ovviare al caldo opprimente del dopo pranzo, sistemai il ventilatore in salone. Inutile dire che Rufy ci si parò davanti, impedendo a tutti gli altri di goderne dei benefici. Zoro invece aveva monopolizzato uno dei due divani, addormentandocisi sopra. Io, Usop e Marco occupavamo l’altro mentre Sanji sciacquava le ultime stoviglie. Sapevo di non essere una buona padrona di casa, avrei dovuto aiutare il cuoco, ma lui mi aveva detto di non disturbarmi e io avevo seguito il consiglio; e comunque gli avevo mostrato dove stava tutto l’occorrente. Law stava seduto compostamente sulla poltrona, con uno sguardo torvo. Probabilmente stava pensando a un modo per tornare a casa. Non riuscivo a capire perché non si rilassasse un po’. Come aveva detto due anni prima, del resto, lo One Piece non scappava da nessuna parte. E poi si erano tutti rilassati, perfino Marco aveva preso un po’ di confidenza con me e ora mi sedeva accanto, con la testa reclinata all’indietro e le gambe leggermente allargate. Quindi perché non poteva farlo anche lui?
«Vi va di giocare a palla?» chiesi all’improvviso, annoiata da tutta quella inattività.
«Palla? Si!» Rufy si era scosso dal semitorpore in cui era
«Va bene! Ma ti avverto, io ero il campione del mio villaggio!» mi comunicò Usop con finta fierezza, facendomi sogghignare
«Perché no?» Marco si alzò lentamente dal divano
«Ehi Traffy vieni anche tu!» lo incitò Rufy
«Tsk» fu la sua unica risposta e io capii che era meglio lasciar perdere.
«Tu vieni Sanji?»
«Si fiorellino, non appena ho finito di asciugare i piatti»
Zoro nemmeno lo considerai, non svegliare il can che dorme, dice il detto.
Li guidai in terrazza, dove ci raggiunse anche Sanji. Poco dopo decisi di andare in un angolino a osservarli, perché se avessi anche solo sfiorato la palla dopo che l’aveva colpita uno di loro, mi sarei fratturata un polso. La potenza dei loro colpi era infinita. Due minuti dopo poi si unì anche Zoro al gioco – anche se sarebbe più propenso dire al massacro – che in realtà cercava la dispensa. Il momento più spettacolare fu quando, per errore, Rufy fece finire la palla fuori dal terrazzo. In un secondo netto Marco appoggiò la gamba sul parapetto, fece un salto in direzione della palla e utilizzando i suoi poteri spiegò le ali. Aveva recuperato il pallone sorridendo. E io avevo visto Marco la Fenice utilizzare i suoi poteri. Dal vivo. A meno di tre metri da me. Se qualcuno avesse visto i miei occhi in quel momento ci avrebbe visto pura meraviglia. Meraviglia che si trasformò in esasperazione quando il cuoco e lo spadaccino si misero a litigare per l’ennesima volta e quest’ultimo, troppo impegnato nel accapigliamento, trinciò in due la mia palla.
«La mia povera palla…»
«Ecco vedi marimo!? Hai fatto piangere la mia bella Cami!»
«A me non sembra che stia piangendo…»
«Beh comunque le hai affettato la palla e ci hai rovinato il gioco!»
«Se vuoi affetto anche te, sopracciglia a spirale!»
«Provaci, testa d’alga e ti faccio assaggiare uno dei miei calci!»
Sospirai, sconsolata e mi passai una mano sulla faccia. Me ne tornai dentro, avevo bisogno di un po’ di pace. Avevo intenzione di andarmene in camera mia e distendermi sul letto, ma l’idea fallì quando vidi Trafalgar Law proprio sopra il mio materasso, intento a leggere un libro preso chissà dove. Mannaggia a lui. Sapeva irritarmi anche senza aver fatto nulla di particolare. Quando mi vide alzò lo sguardo di poco per poi riabbassarlo e continuare a leggere come se nulla fosse. Lo odiavo. E lui odiava me, poco ma sicuro.
«Sei sul mio letto.» gli feci notare con poco garbo, decisa a riprendermi quello che era mio. Non rispose. Ora sapevo di chi non volevo la compagnia se mai fossi finita su un’isola deserta. Me ne fregai e mi ci sedetti accanto, aspettando una sua reazione che ovviamente non arrivò. Non contenta, allungai le gambe verso di lui ma stando attenta a non toccarlo, ci tenevo ai miei arti inferiori e desideravo che rimanessero attaccati al mio corpo.
«Dovresti chiamare tua madre» disse semplicemente, senza nemmeno alzare la testa dal libro. Quelle quattro parole bastarono a farmi balzare in piedi. Con uno scatto fulmineo presi il cellulare e digitai il numero, precipitandomi fuori dalla stanza per non far sentire a Law la conversazione. Nella fretta non lo vidi in faccia, ma ero sicura che sulla suddetta vi era stampato un largo ghigno. Maledetto. Questa volta aveva vinto, ma se era la guerra che voleva, la guerra avrebbe avuto. La telefonata con mia madre mi impegnò dieci minuti buoni. Non è facile spiegare a un genitore perché non rispondi al telefono e perché lasci il frigorifero aperto e soprattutto come mai il sopraccitato frigorifero è vuoto, il tutto inventandoti assurde scuse per non farti internare direttamente al CIM. Una volta che l’ebbi tranquillizzata, anche il resto del pomeriggio trascorse sereno. Andai a fare spesa con Sanji, che si meravigliò delle auto – che nel suo mondo non esistevano – e del supermercato. Fortunatamente era tutto abbastanza accessibile a piedi da dove abitavo io. Per sicurezza comprammo anche un lucchetto a combinazione da mettere al frigo. Convenimmo entrambi che non andava bene, non potevo spendere cento euro ogni giorno solo per il sostentamento, avevo dei budget molto limitati al contrario dello stomaco di Rufy. Mi chiesi come sarebbe stato se ci fosse stato anche Ace e mi venne da ridere. Sicuramente non sarebbe stato positivo per le mie tasche.
Il vero problema arrivò la sera quando, dopo aver cenato, il sonno cominciava a farsi sentire. Di solito la ciurma di cappello di paglia rideva e festeggiava fino a tardi, ma quella sera nessuno era tanto in vena. A parte questo, non avevo idea di come li avrei sistemati. Primo, perché non avevo sei pigiami maschili da prestargli e se anche ce li avessi avuti non avevo intenzione di prenderli in prestito da mio papà, che se ne sarebbe sicuramente accorto e me ne avrebbe chiesto il motivo. Secondo, dove cavolo li mettevo a dormire sei ragazzi!?
Il primo punto si risolse con la decisione di comune accordo – o quasi – dei ragazzi di dormire in mutande. Il secondo punto fu un po’ più complicato da sbrogliare. Con l’aiuto di Zoro, Usop e Sanji tirai fuori il letto per gli ospiti e misi le lenzuola. Lasciai il mio letto a una piazza e mezzo a due di loro. Preferii lasciarlo a Rufy e Usop, anche perché non vedevo altra possibile coppia. Io presi il letto per gli ospiti e mandai Zoro a dormire sul divano che aveva occupato nel pomeriggio. Sull’altro divano ci andò Law. I due biondi rimasti andarono a dormire nel letto matrimoniale dei miei. Per fortuna erano affidabili e mi auguravo che non avrebbero fatto danni. Per quanto riguardava il mio letto invece, temevo il peggio. Ma la preoccupazione mi passò completamente quando vidi i bei pirati spogliarsi. Un paradiso. Ero in estasi. Li passai in rassegna tutti, uno per uno, senza tralasciare alcun dettaglio. Mi soffermai un po’ più sui pettorali ben scolpiti dello spadaccino e sul petto tatuato del chirurgo. Mentre il verde si fece rimirare ben bene, esibendo un sorriso compiaciuto sulla faccia, il moro non parve essere della stessa opinione poiché mi guardò male e, con mio grande disappunto, si voltò dall’altra parte. Per ripicca smisi di osservarlo e posai il mio sguardo sulla cicatrice a X di Rufy. Cavolo, doveva aver fatto molto male. Dal vivo era un’altra cosa rispetto ai disegni. Mi chiesi come avrei fatto ad andare avanti con una cicatrice del genere, che mi avrebbe ricordato costantemente che una persona a me cara era morta proprio tra le mie braccia, proprio in quel luogo maledetto, proprio per mano della persona che mi aveva sfregiato. Quando però alzai gli occhi, il ragazzo di gomma sorrideva. Era un sorriso sincero, felice e innocente, che mi scaldò il cuore.
«Buonanotte Cami!» urlarono in coro Usop e Rufy dopo che anche io mi fui cambiata, non davanti a loro ovviamente
«Buonanotte Cami» ripeté Zoro con meno entusiasmo, prima di andare a coricarsi sul divano
« Buonanotte mio dolce bocciolo di rosa! Ci vediamo domattina!» Sanji sbucava da dietro la porta con gli occhi a cuore
«Notte, a domani» disse Marco
«A domani» bisognava ammettere che Law era davvero uno di poche parole
«Buonanotte ragazzi» risposi io. Avrei voluto aggiungere altro, ma mi fermai. Non c’era bisogno che sapessero che in fondo ero contenta di averli lì con me. Sorrisi nel buio. Per la prima volta dopo tanto tempo, nonostante tutto, andavo a letto felice.



Angolo autrice:
Rieccomi qui con il quinto capitolo. Capitolo tranquillo e un po' più introspettivo anche se lo spogliarello ci stava :D Che altro dire? Spero che il capitolo vi sia piaciuto e se avete voglia lasciate una recensione :)
 

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Capitolo 6
*** Giro turistico ***


Sapevo che avrei passato la notte insonne. Guardai l’orologio luminescente della mia camera, che segnava le tre di notte. Sospirai e mi rassegnai al fatto che non avrei dormito. Avevo vissuto troppe emozioni in un giorno solo e probabilmente avevo ancora l’adrenalina in corpo. Mi imposi di chiudere gli occhi e provare a riposare, anche perché l’indomani mi avrebbe atteso una giornata dura; Rufy aveva già detto che voleva uscire e vedere il mio mondo e sapevo già che suicidio sarebbe stato, con quel caldo poi. Ero stanca, ma troppi pensieri mi vorticavano per la testa. Mi alzai e uscii sul balcone su cui dava la mia camera. Mi sedetti sul gradino della portafinestra e mi misi a fissare la luna, che quella sera era piena. Era davvero magnifica, quasi ipnotica. Così splendente e fiera da far dimenticare le preoccupazioni per un attimo. Sospirai di nuovo.
«Ehi, Uomo della Luna» sussurrai «perché proprio io? E perché ora?» chiesi, quasi più a me stessa che a lui. Davvero mi ero ridotta a parlare con una figura proveniente da un libro per bambini? Oh beh, al diavolo. Tanto il fondo lo avevo toccato quella mattina, quindi cosa c’era di male?
«Se tu potessi aiutarmi a capire, te ne sarei molto grata. E credo anche loro» indicai con il pollice i due che dormivano scompostamente nel mio letto, riferendomi anche al resto della banda. Continuai a guardare la luna per un po’ in attesa di una risposta.
«So per certo che quando sarà il momento me lo farai capire».
La mattina dopo, come previsto, erano tutti vispi e ricettivi tranne me. Io ero un totale straccio. Al punto che quando Sanji mi augurò il buongiorno gli risposi con un mugugno molto poco femminile ed educato. Del resto avevo dormito solo due ore ed ero stata svegliata o meglio, buttata giù dal letto alle otto da un Rufy entusiasta della giornata che gli si prospettava davanti. Tre cose odiavo: dormire poco, essere svegliata durante le vacanze e le persone mattiniere. La combinazione di quelle tre cose insieme, risultava letale. Il peggio arrivò durante la colazione. Quell’idiota di gomma aveva sparso tutti i cereali sul tavolo e per terra.
«Ora basta» mi prese un tic nervoso all’occhio destro «ti prometto che ti sgozzo la prossima volta che fai cadere anche una sola briciola.»
Come persona in generale non avevo un’aria minacciosa. Ma data la stanchezza e l’irritabilità diventavo molto pericolosa, specialmente se avevo un coltello in mano. Lo strinsi e lo portai lentamente alla gola di cappello di paglia. Era un coltellino da burro per cui non avrebbe tagliato nemmeno la carta, ma era il gesto che contava. «Mastica con la bocca chiusa la prossima volta.» lo dissi tenendo un tono basso e assottigliando gli occhi, puntati nei suoi, così da sembrare credibile.
Lui rise, sbriciolando ancora. «Sei spassosa Cami» mi disse, serafico
«Questo non ti salverà dalla mia furia!» e mi avventai sul suo collo. Mi fermò Sanji, che mi allontanò da lui che ancora rideva, perdendo pezzi di cereali dalla bocca.
«Rassegnati, non lo ucciderai mai»
«Già, è immortale» concordò lo spadaccino, forse per la prima volta nella storia di tutto One Piece.
Nel frattempo notai di sottecchi un guizzo divertito nello sguardo di Law. “Ah, così ti fa ridere il mio nervosismo? Mi vendicherò.”. “Provaci” sembrava aver detto il suo sguardo. E fu strano, molto strano, pensare che con una sola occhiata avesse capito il mio intento. Scossi la testa e mi passai una mano tra i capelli come a scacciare quella congettura.
«Ehi Cami oggi che facciamo?» mi chiese Usop rimanendo a debita distanza e proteggendosi dietro a Rufy, ancora spaventato dalla scena precedente
«Non lo so. Suppongo che vogliate fare un giro nel mio mondo»
«Si assolutamente!» esclamò lo spargi briciole «e voglio andare dove si mangia la carne!»
Come avevo predetto, mi aspettava una giornata di fuoco. Armata di occhiali da sole per coprire le occhiaie e tanta pazienza, uscii di casa con i ragazzi al seguito. Erano le undici di mattina e il sole picchiava cocente. Almeno mi sarei abbronzata. Spiegai loro come funzionava qui, cosa erano le macchine, il cellulare e tutti gli altri apparecchi elettronici che loro non avevano nel loro universo. E mostrai loro anche la mia scuola, dopo un’accurata delucidazione su cosa fosse. Dovevo ammettere che ero abbastanza brava con le spiegazioni. Li portai nel supermercato dove eravamo andati il giorno prima io e il cuoco, perché giustamente Rufy aveva fame. La faccia del pirata quando entrò in quel paradiso fu come quella di un bambino davanti a una montagna di caramelle a forma di cuccioli. Non avevo mai visto nessuno più felice e sorpreso. Ovviamente io non entrai, tanto nessuno li vedeva e quindi non c’era bisogno che pagassi tutta la carne che Rufy si mangiava e tutto il liquore che si beveva Zoro. L’unica mia preoccupazione era che qualcuno potesse scoprirli, anche se chi avesse visto pezzi di cibo fluttuare in aria per poi scomparire, come prima cosa avrebbe dubitato della propria sanità mentale, non sarebbe di certo andato a dirlo al direttore del supermercato.
«Cami? Sei tu?» mi girai verso quella voce
«Oh, Sara! Ciao!»
«È da un sacco che non ci vediamo. Come stai?»
«Tutto bene, tu?»
«Anche io» mi fece un largo sorriso. Sara era stata la mia migliore amica fino a qualche tempo prima. Ancora non avevo capito perché ci eravamo perse di vista, ma sapevo per certo che le volevo bene. Forse avevamo preso strade diverse perché avevamo esigenze diverse. In un certo senso eravamo un po’ come Ace e Rufy, solo che finora eravamo entrambe vive e in salute. Iniziammo a chiacchierare del più e del meno e il tempo volò. Almeno fin quando il mio sguardo non si posò furtivamente su Sanji e Zoro che trascinavano fuori dal negozio il loro capitano per un lembo del gilet, a forza.
«…agazzi?»
«Come?» le chiesi, distratta dalla scenetta comica che si prospettava poco più in là e che solo io avevo il privilegio di vedere
«Dicevo, come va con i ragazzi?»
«Oh, bene direi, a parte gli screzi iniziali»
Lei mi guardò storto. «Ehm, cioè…male» mi ripresi. Quei sei stavano invadendo la mia mente oltre che la mia casa.
«Non c’è nessuno che ti piace?»
«No, nessuno»
«Sono sicura che lo trover…» ma non riuscì a finire la frase, perché qualcosa alle mie spalle le fece aggrottare la fronte e spalancare gli occhi
«Cami-chan noi abbiamo finito e stiamo andando a casa a mettere in frigo i surgelati, ci accompagni?» il biondo cuoco mi aveva poggiato delicatamente una mano sulla spalla. Sara si portò una mano al petto e rise «accidenti mi ha spaventato! È sbucato all’improvviso!»
«Chi?» non capivo
«Il tuo amico!» e indicò Sanji, confuso almeno quanto me
«Mi vuoi dire che tu vedi un ragazzo.»
«Si»
«Dietro di me.»
«Si»
«Con i capelli biondi.»
«Si!»
«No.»
«Ti dico di si! Ma insomma, mica sono cieca!»
Oddio. Che casino. Perché stava succedendo tutto ciò? Com’era possibile che lei lo vedesse e tutti gli altri esseri umani no? Eravamo diventate entrambe pazze? O erano tutti gli altri a essere diventati ciechi e sordi?
«E per caso vedi anche gli altri?» le chiesi, deglutendo l’oceano
«Quali altri?»
«Aah! Vede solo me!» il cuoco era partito alla carica, proprio nel momento peggiore «io sono Sanji e sono al servizio delle donne!» si era tranquillamente frapposto tra me  e lei e si era inchinato come un idiota. Non aveva tutti i torti, vista la bellezza di Sara, ma aveva scelto il momento peggiore per fare una delle sue scenate.
«Ehi aspetta ma che? Dove…dove è andato?»
«Eh?» quel dialogo sembrava quello di una commedia, ma c’era ben poco da ridere. La confusione regnava sovrana.
«Oddio, non ci capisco più niente. Un attimo prima era qui e l’attimo dopo…» si guardò in giro alla ricerca del biondino, che ai suoi occhi era sparito
«Ma come? Perché non mi vede più? Fai qualcosa Cami-chan!» mi supplicò in lacrime lo chef, che era in ginocchio davanti a me e mi aveva preso una mano
«Ah eccoti…ti giuro che non riuscivo a vederti anche se eri qui davanti a me..» fece Sara scuotendo la testa e portandosi indice e pollice sul ponte del naso «perdonami Cami ma sono tornata ieri dal mare e sono stravolta, non so più che cosa dico, né che cosa vedo. Siamo stati alle Maldive e sai com’è, con il jet lag non ci capisco più niente. Adesso sarà meglio che vada prima di veder scomparire anche gli scaffali del supermercato» detto questo ci salutò e sparì nei meandri del grande magazzino.
Mi andai a sedere sul muretto lì vicino, con sempre più domande in testa e sempre meno risposte. Poggiai i gomiti sulle ginocchia e la testa sulle mani.
«So che sei disorientata, ma il caldo non ti aiuterà a risolvere i tuoi enigmi» Marco si era seduto accanto a me. Magari fossi stata solo disorientata. Invece in testa avevo uno zoo allo sbaraglio, con tanto di specie estinte.
«Devo avere una faccia molto afflitta» lo guardai
«Si» fece una piccola risata «coraggio, torniamo a casa. Se non altro stiamo un po’ più al fresco»
«D’accordo».

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Capitolo 7
*** Chiarimenti ***


AVVISO: per chi non legge il manga in questo capitolo potrebbero esserci spoiler


Avevo rivissuto tante volte la scena dell’incontro con Sara. Alla fine avevo collegato quasi tutti i pezzi. Ed era ora di parlarne con i ragazzi. Era ora di chiarire ben bene le cose e provare a capire perché cavolo fossero lì.
Li chiamai a raccolta e quando furono tutti davanti a me, iniziai a parlare.
«Dobbiamo fare il punto della situazione»
«Concordo» disse la fenice
«Sottoscrivo» gli fece eco il chirurgo della morte. Almeno eravamo d’accordo.
«Voi non potete essere visti, né sentiti dalle altre persone. Tuttavia non siete fantasmi e anche se siete invisibili il vostro corpo è come quello di un normale essere umano appartenente a questo mondo. Ecco perché potete toccare tutto, mangiare eccetera…»
«Sei perspicace» percepivo una nota di sarcasmo nella voce di Law
«Fai silenzio e ascoltami.» lo guardai male, ma distolsi subito lo sguardo per paura di venire congelata, o peggio «però c’è un modo affinché tutti possano vedervi»
«Sul serio? Quale?» chiese Usop curioso
«Nel momento in cui il mio corpo viene a contatto con il vostro, inspiegabilmente diventate visibili»
«Quindi se ti tocchiamo possiamo parlare con l’autore e tornare finalmente a casa»
«Piuttosto che fare contento te mi do fuoco» risposi molto fieramente al capitano dei pirati Heart, che ancora non aveva capito che non avremmo mai e poi mai contattato l’autore
«Io ci guadagnerei comunque» ghignò. Avevo sempre paura che potesse creare un’altra room, ma finché avevo Rufy e compagnia accanto ero abbastanza tranquilla.
«Oh, anche io» sorrisi «non vedrei più la tua brutta faccia da ameba» se lo sguardo avesse potuto trucidare una persona, il suo lo avrebbe fatto
«Ok, ora basta» fece serio Zoro allargando le braccia verso entrambe le nostre direzioni «passiamo a cose serie. C’è un posto dove posso bere del buon sakè?»
«E mangiare della buona carne?»
«Idioti! Vi sembrano cose serie queste!?» entrambi si beccarono un calcio in testa dal cuoco
«Siamo alle solite» sbuffò il cecchino
«Aspettate un attimo, non ho finito di parlare» dissi, cercando di risultare il più amichevole possibile, anche se mi stava salendo la furia omicida di Cavendish sonnambulo
«Scusaci principessa! Prego continua pure» com’era facile mettere ko il biondo con le sopracciglia a ricciolo
«Che cuoco cretino» sibilò Zoro. Per fortuna Sanji non l’aveva sentito o non avremmo cavato un ragno dal buco
«Dicevo, a giudicare dal vostro abbigliamento e dalle vostre caratteristiche somatiche, sicuramente sono già passati i due anni e voi prima di essere catapultati qui eravate nel Nuovo Mondo» almeno una cosa certa c’era e solo in un secondo momento ci avevo fatto caso.
«Cosa c’entra tutto ciò con il nostro ritorno a casa?» chiese Law
«Tutto fa brodo» risposi io «e comunque, era solo per curiosità. Magari io so cose che voi non sapete» nella mia voce traspariva una punta maliziosa
«Allora diccele!» esclamò Usop
«No Usop! Non dircele Cami o non sarà più divertente!» urlò Rufy
«Avete già sconfitto Doflamingo?» volsi il mio sguardo verso il dottore
«Certo che si! Lo abbiamo preso a calci in culo!» rispose Rufy al posto del chirurgo, che non aveva avuto il tempo di elaborare la domanda. Quindi a livello temporale erano esattamente dove ero arrivata io o più avanti, ma di certo non più indietro e non rischiavo di rivelare loro niente di compromettente.
«E che stavate facendo prima di esservi ritrovati qui?»
«Eravamo a Zou» stavolta Law fece in tempo a rispondere. Magari si comportava così con me perché per colpa mia non aveva potuto ricongiungersi con i suoi compagni. Non osai chiederglielo.
«A dire il vero, io ero disteso sul mio letto a rilassarmi» dichiarò Marco. Non mi aspettavo che mi dicesse una cosa del genere. Sapere che era vivo e che c’era anche lui mi rassicurava. Chissà che fine aveva fatto in quei due anni. Decisi – stupidamente – che non volevo rovinarmi la sorpresa e non lo interrogai su altro.
«Mi dispiace» dissi semplicemente «mi dispiace di avervi trascinati in questo casino»
«Non è colpa tua» mi consolò Sanji «non sappiamo perché siamo qui, potrebbe essere un caso che siamo capitati da te» su questo non potevo dargli torto, anche se mi sentivo comunque in colpa.
«Rilassati. Tanto io non avevo niente di meglio da fare» mi sorrise Marco e io sorrisi a mia volta.
«Sono contenta che il tuo braccio sia tornato come prima. Sono stata in pena per tutto il tempo!» dissi dopo un po’, rivolta a Traffy. Mi ero preoccupata davvero per lui e per il suo braccio, quei tatuaggi sexy sulle dita non potevano esistere solo su una mano, ciò che li rendeva belli era proprio la loro simmetria. E poi come avrebbe fatto con un solo braccio? Per fortuna però, aveva recuperato il pieno uso dell’arto da quanto avevo potuto vedere.
Si stupì di quell’affermazione, ma non fece niente, nemmeno mezzo sorriso. Mi fissò e basta, con uno sguardo indecifrabile ma non cattivo. Al contempo io evitai di dirgli che ero contenta che finalmente aveva ottenuto la sua vendetta e soprattutto evitai di parlargli di Corazòn. Era uno dalla room facile ultimamente e avevo imparato a scegliere bene le parole da dire. Giusto, la room. Ora che ci pensavo quando erano piombati qui avevano mantenuto i loro poteri. Non sapevo dire se fosse un bene o un male, ma questo significava che se mi facevano incazzare potevo pur sempre affogarli nella vasca da bagno.
«Allora?» mi incalzò Zoro
«Allora cosa?»
«Dove posso bere del buon sakè?»
Ci riflettei un attimo. Non era facile in Italia trovare un posto dove servivano sakè e di certo non potevo portarli al ristorante giapponese, lui e il suo capitano lo avrebbero svaligiato e con esso anche il mio portafoglio, già abbastanza vuoto. Però c’era un posto dove servivano qualsiasi tipo di alcolico ed era anche vicino.
«C’è un posto. È un pub» gli dissi
«Pub?»
«Bar, taverna, chiamalo come vuoi»
«Dimmi dov’è»
«Non così in fretta. Sono le cinque del pomeriggio, non vorrai ubriacarti a quest’ora?»
«Ehi ragazzina, io lo reggo l’alcol»
«Non avevo dubbi, ma non reggerai niente senza documenti, che ovviamente non hai»
«E a che mi servono i documenti per bere!?»
«Servono per attestare che hai diciotto anni e quindi che il barista può servirti sostanze alcoliche» spiegai io con tutta calma «funziona così qui»
«Il tuo è un mondo stupido» digrignò i denti come un cane randagio, furioso per la scoperta appena fatta
«Lo so, ma se vuoi stasera possiamo provare ad andare lo stesso. Anche se non hai i documenti, hai comunque ventuno anni e si vede che sei maggiorenne»
«Sarà anche maggiorenne ma resta comunque minorato» commentò il cuoco accendendosi l’ennesima sigaretta e dando il via all’ennesima lite.
«Cami» Usop si era avvicinato a me e mormorava con una mano davanti alla bocca
«Si?»
«Non vorrai mica farlo andare da solo al pub, vero?» indicò tenuemente lo spadaccino che stava urlando contro il cuoco
«Certo che no, non per niente ho parlato al plurale. Tu verrai con noi stasera»
«Io!? E perché proprio io!?»
«Perché si. Non vorrai far venire il tuo capitano con me e lo spadaccino, vero?»
«Ma accidenti a me che non sto mai zitto!» si lamentò.
Non mi andava di spiegare al cecchino che volevo che venisse con me perché io da sola non ero in grado di gestire Zoro. Lui conosceva il verde, era il meno notabile tra la sua ciurma – naso lungo a parte – ed era in più “umano” tra i mugiwara lì presenti. Il più normale insomma; e in quel momento avevo bisogno di normalità. Inoltre non potevo portarmi dietro troppe persone, se non volevo ritrovarmi addosso le loro mani tutta la sera. Già, perché c’era anche il problema della visibilità. L’idea che lo spadaccino e il nasone tenessero le loro falangi su di me tutta la sera non mi faceva impazzire, ma erano sempre meglio di quelle fredde del chirurgo. Ora, con quel caldo non le avrei di certo disprezzato un po’ di fresco sulla pelle, ma la sola idea che Trafalgar Law mi toccasse, soprattutto dopo i precedenti, mi faceva accapponare la pelle.
«Allora noi andiamo, ci vediamo dopo» salutai i ragazzi chiudendomi la porta alle spalle e sperando che non combinassero danni. Dovevo dire che il capitano dei mugiwara era abbastanza deluso di non venire con noi ma non avevo intenzione di portarlo, neanche sotto tortura. Avrebbe creato caos e si sarebbe mangiato mezzo locale. Senza contare un miliardo di altri possibili guai che avrebbe potuto causarmi.
Arrivammo in pochi minuti al pub e Zoro non perse tempo, si sedette su uno sgabello al bancone, con me e Usop al seguito – del resto eravamo attaccati – e ordinò da bere, sotto le occhiate indagatrici della gente. In fondo anche se gli avevo prestato dei vestiti di mio papà, con quei capelli verdi attirava comunque l’attenzione.
«Questo posto è carino e il sakè è buono. Come si chiama?»
«Si chiama Neverland»
«Che strano nome»
«È il nome di un’isola» sorrisi, ricordandomi della mia infanzia passata a desiderare di andare all’Isolachenoncè.
«Ora che mi ci fai pensare…potrei esserci stato!» considerò Usop. Io gli tirai una gomitata amichevole «Stai zitto e bevi, va»
«Ma perché ci sono tutte queste stelle appese sul soffitto?»
«Oggi è venerdì. Il venerdì facciamo sempre una serata a tema e stasera c’è la “Starry night”» rispose il barista. Usop mi guardò confuso.
«Starry night significa notte stellata» spiegai io
«Venerdì scorso c’era la serata a tema sui pirati» continuò il barista «dovevate vedere come era ridotto il locale! Erano tutti travestiti, pappagalli sulle spalle, bende agli occhi, bandane e chi più ne ha più ne metta!» rise, mentre io ringraziai mentalmente il Signore che Rufy non fosse lì o non avrebbe più mollato quel povero barman per raccontargli del One Piece e del re dei pirati.
«Wow! Allora anche qui avete i pirati!» esclamò Usop entusiasta
«Se volete venire anche venerdì prossimo, il tema è “Desideri”. Faremo scrivere alla gente su un foglio il loro desiderio più grande, poi li mischieremo e ad ognuno metteremo il foglietto nel drink che sta bevendo. Chi si ritrova il suo beve gratis tutta la sera»
«Sai Cami, dovremmo tornarci venerdì prossimo» Zoro sogghignava pericolosamente
«Avrò già finito i soldi venerdì prossimo se continui così» alla quinta bottiglia lo fermai
«E come sai che non imbroglieranno per bere gratis?» il cecchino, da bravo bugiardo, aveva fatto i suoi conti. E anche io dovevo farli. Non badai alla risposta che il barista diede a Usop e mi concentrai. Ero sicura che c’era qualcosa che il mio subconscio tentava di dirmi. Eppure non sapevo cosa. Starry night. Desideri. Seconda stella a destra. Pirati. Cosa cercava di comunicarmi? Cosa mi sfuggiva? Alzai la testa.
«Dobbiamo andare a casa.» strinsi forte il polso del cecchino
«Eh? Ma perché?» tentò di divincolarsi dalla mia presa
Avevo fatto incastrare la tessera mancante. Il puzzle era completo. «Ho capito tutto. Ho capito perché siete qui.»


Angolo autrice: nuovo capitolo. Finalmente Cami ha capito perchè quei sei sono piombati in casa sua! Si scoprirà tutto nel prossimo capitolo :D Zoro ubriacone come al solito e Usop la povera vittima xD
Spero che vi sia piaciuto e alla prossima! Un grazie in anticipo a chi vorrà recensire :)

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Capitolo 8
*** Desideri ***


Arrivammo a casa tutti trafelati. Anche se il pub era vicino, ero sfiatata. Avevo fatto una corsa pazzesca, trascinandomi praticamente dietro lo spadaccino che non voleva lasciare il suo angolo di paradiso. Il cecchino in compenso aveva fatto da sfondo musicale per tutto il tragitto con le sue lamentele sul perché stessimo correndo. Spalancai la porta, entrando come una valanga.
«Ah, già tornati?» chiese Rufy sporgendosi dal divano
«Il tritatutto ha combinato qualche guaio?»
«Stai zitto imbecille di un cuoco. Io non ho fatto proprio niente, è lei che è impazzita»
«Ehi, non osare offendere Cami-chan!»
«Chiudete la bocca.» ordinai io «per favore» aggiunsi. Si azzittirono.
«Non è il momento di bisticciare. Devo dirvi una cosa molto importante»
«Infatti! Ascoltatela!» mi diede man forte Usop. Non feci in tempo a dire mezza parola che squillò il telefono di casa.
«Non rispondere.» mi intimò Law
«Devo farlo o si preoccuperanno e manderanno di nuovo qualcuno a controllare». Non obiettò stavolta. Andai in sala da pranzo, lasciando tutti in sospeso e guardai il numero sul display. Mia nonna. Tipico dei miei familiari chiamare sempre nei momenti peggiori. Alzai la cornetta pregando che la chiamata finisse presto, ma chiacchierona com’era faceva prima Oda a terminare la sua opera. Erano già passati cinque minuti – in cui la mia cara nonnina mi aveva aggiornato sulle ultime puntate di Beautiful e del Segreto, suscitandomi lo stesso interesse di quello di un bradipo in letargo – e cominciavo a fremere.
«Si ok nonna, scusa ma ora devo proprio andare. Buonanotte» le dissi senza troppi fronzoli
«Aspetta! Che devi fare di tanto urg…» non finì la frase. O meglio non potei sentirla mentre la finiva perché una figura alle mie spalle con le dita tatuate mi aveva preso il telefono dalle mani e lo aveva rimesso a posto. Mi girai molto infastidita.
«Vedi di parlare. Odio chi mi tiene sulle spine.»
Gli feci gesto di tornare in salone dagli altri.
«Oh» mi scappò davanti alla scena che vidi. Marco aveva il telecomando in mano e rideva davanti alla tv accesa.
«Non sapevo cosa fosse e come funzionasse. Pensavo che magari sarebbe stato utile per riportarci a casa…» si giustificò sorridendo, leggermente imbarazzato
«Non ti preoccupare. Quello si chiama telecomando e serve per far funzionare la televisione» comunicai loro, indicando lo schermo piatto acceso su un canale di televendita.
«E a cosa serve la televisione?» chiese Usop
«Serve a tante cose. Non mi sembra il momento di parlarne ora, ve lo spiegherò più tardi»
«Toglietevi tutti dal mio divano, voglio farmi un pisolino»
«Sta’ zitto marimo, non vedi che Cami-chan deve dirci una cosa importante!?»
Dietro di me percepii il medico stringere le dita attorno alla sua nodachi.
«Per ora direi che basta.» strappai di mano il telecomando alla fenice, anche se poverino non se lo meritava e spensi la tv. Il telefono squillò di nuovo, provocando irritazione sia in me che in Law, che ciononostante mi accordò il permesso di andare a rispondere. Come se avessi bisogno di un permesso, rasentavamo il ridicolo.
«Ti sembra questo il modo di comportarti con tua nonna!?» la vecchia gridava dall’altra parte del telefono, costringendomi ad allontanare l’apparecchio dall’orecchio
«Scusa nonna, ma è caduta la linea» inventai
«Farò finta di crederci…» chissà perché tutti i miei parenti mi dicevano così
«Molto gentile»
«Non fare cavolate. E salutami i tuoi quando tornano» Non fare cavolate, diceva. Se solo avesse saputo…
«Lo farò. Ora devo davvero andare. Ciao nonna»
«Ciao tesoro» finalmente riagganciò. Tornai dagli altri che stavano in silenzio ad aspettarmi. Nonostante la tensione del momento, non erano agitati. Zoro era talmente tranquillo che si stava per addormentare. Dopo una lieve botta in testa da parte di Usop si riprese e io potei finalmente parlare.
«Ho capito perché siete qui» cominciai
«Perché siamo qui?» domandò Marco con aria annoiata. Evidentemente lo avevo offeso con il mio gesto di poco prima
«Siete qui per mio volere»
«Spiegati meglio» insistette il moro, allentando la presa sulla Kikoku
«È complicato, ma cercherò di farvi capire»
«Sarà meglio»
«Tempo fa ho espresso un desiderio» iniziai a ricordare «sapete, qui da noi c’è una superstizione. Non so se c’è anche nell’universo di One Piece, ma in questo mondo se vedi una stella cadente puoi esprimere un desiderio.»
«E tu hai desiderato di incontrarci? Come sei dolce! Ma adesso ci sono qui io con te! Il tuo desiderio è diventato realtà!» il tono di voce di Sanji era salito di almeno tre ottave, provocando uno spasmo al mio occhio e un conato di vomito allo spadaccino.
«Ora capisco…» Usop aveva le mani appoggiate sulle ginocchia e le dita stuzzicavano il pizzetto. Scossi la testa e alzai gli occhi al cielo.
«Quindi è colpa tua?» chiese Marco, retoricamente. Law si sedette sul divano «Tu risolverai la situazione» disse tranquillamente anche se sembrava più un ordine
«Certo» dissi io. Non sarebbe stato semplice ma lo avrei fatto, non appena avessi avuto un po’ più informazioni su come procedere.
«Ora possiamo riaccendere la telequalcosa?» Rufy si grattava la testa annoiato
«Traffy vai a farti un giro o cambia posto, voglio dormire» fece lo spadaccino. Aggrottai la fronte. Davvero a loro non importava di saperne di più? Non volevano sapere altro? Bastava così poco? Eppure l’argomento era di loro interesse. Persino Law sembrava essersi tranquillizzato. E dire che pensavo mi avrebbe bombardato di domande. Ma mi stavo dimenticando del motivo per cui desideravo tanto conoscerli, la loro spensieratezza. Io purtroppo la spensieratezza non sapevo nemmeno dove stava di casa. Ero paranoica e pensavo decisamente troppo. Mi serviva quel clima di leggerezza che solo loro avrebbero potuto darmi. Scossi la testa per scacciare via i pensieri negativi, presi il telecomando e mi sedetti tra la fenice e cappello di paglia. Accesi sul canale sportivo, che poteva interessarli un po’ di più e porsi l’apparecchio a Marco per farmi perdonare.
«Ma non volete sapere niente di più su come avete fatto a finire qui?»
«Ci fidiamo di te» affermò Rufy con un sorrisone dei suoi e quasi mi commossi. Era bello sapere che qualcuno credeva in me. Mi diede un senso di pace interiore.
«Naturalmente io, il grande Usop ti aiuterò a trovare una soluzione per farci tornare a casa» il cecchino pronunciò il tutto con voce solenne.
«Grazie» non sapevo a chi stessi parlando, né per cosa stessi ringraziando, ma non mi importava. Guardai lo schermo della televisione dove un uomo probabilmente stava facendo il tiro che avrebbe segnato la sua carriera da golfista e mi sentii bene. Sorrisi e decisi che per quella sera poteva bastare con le spiegazioni. O almeno, con quelle serie.
«Allora, volete sapere come funziona la televisione?»
«Si!» esclamò Usop
«In poche parole è lo stesso principio dei lumacofoni che hanno trasmesso la guerra di Marineford in diretta. Solo che ci sono più programmi da scegliere, per permettere a tutti di guardare cosa preferiscono» cercai di essere il più chiara possibile, ma non era facile far capire una cosa del genere a quelle teste di legno.
«Questo significa che potrebbe fornirci informazioni» esaminò Law. Che noia lui, la sua serietà e le sue informazioni. Mi aveva stufato, anche se non aveva tutti i torti.
«Oppure potremmo guardare dei combattimenti!» suggerì il verde
«Ottima idea, Zoro!» concordò Rufy
«Ci sono anche dei programmi di cucina?» chiese speranzoso Sanji
«Si, certo»
«Fantastico!» al cuoco si illuminarono gli occhi
«Scordatelo torciglio, non vedremo mai quei programmi di merda»
«Stai pur certo che tu non li vedrai mai perché ti caverò l’unico occhio buono che ti è rimasto»
«Non se prima ti taglio le gambe. Chissà se Rufy le mangerebbe se gliele servissi con qualche salsa»
«Di certo non potrebbe mangiare te, avresti un saporaccio persino per i mostri marini!»
“Ma certo, perché non ci ho pensato prima!” tra un insulto e l’altro, mentre fissavo la tv, mi era venuta in mente una cosa. “Prima o poi lo farò.”.




Angolo autrice:
Ok, so che questo capitolo è scarno di spiegazioni sul perché i nostri pirati preferiti sono qui. Ma verrà tutto spiegato meglio nel prossimo capitolo, che già vi preannuncio che sarà piuttosto malinconico e introspettivo. Per il momento questo è tutto ciò che posso dirvi, spero che comunque il capitolo vi sia piaciuto e alla prossima!
 

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Capitolo 9
*** Notte stellata ***


Era una fredda e buia sera di Febbraio. Le nuvolette di vapore uscivano dalla mia bocca ogni volta che espiravo. Sedevo su una sdraio in terrazza, con le gambe raggomitolate al petto, per tenermi al caldo. Era una di quelle sere in cui niente sembrava avere senso. Non avrei saputo spiegare come mi sentivo, sapevo solo che ero persa. In realtà ancora non lo avevo capito, ma ero certa che qualcosa non andava. Nella mia testa c’era la più totale confusione, mentre nel mio petto c’era il vuoto più assoluto. Non sentivo nemmeno più di tanto il vento che mi sferzava la pelle aggressivo. Ancora mi chiedo come ciò sia possibile.
Stavo lì senza far niente, a fissare il cielo illuminato da quella miriade di stelle, sperando che una di loro, da qualche parte, potesse cadere per farmi esprimere un desiderio. Stavo solo lì, senza sapere perché. Ma era una di quelle sere in cui non mi importava di niente, poteva crollare il mondo o potevo morire, non me ne sarebbe importato e probabilmente non me ne sarei nemmeno accorta.  Forse perché in parte già il mondo era crollato e in parte già ero morta. Se anche avessi visto una stella cadente, non avevo idea di quale desiderio avrei espresso, avevo solo bisogno di esprimerne uno. Il vento gelido soffiava forte. Ero quasi congelata, ma volevo rimanere fuori, perché dovevo pronunciare il mio maledetto desiderio. Mi strinsi nella pseudo coperta che avevo appoggiata sulle spalle. La bandiera della ciurma di cappello di paglia. In mano stringevo il ciondolo della mia collana preferita, quella da cui non mi sarei separata mai e poi mai, per nulla al mondo. Il pendente era il tatuaggio che aveva sul braccio sinistro Portgas D. Ace. Sembrerà stupido, ma stringendo quei due oggetti, sentivo meno freddo. Era come se avessi dovuto aggrapparmi a loro per sopravvivere. E in un certo qual senso, era così. Poi, ad un tratto, l’ho vista. È bastato un attimo, ho alzato la testa ed era lì. Sembrava dire “guardami, sto splendendo per te” e per una volta, una sola volta nella mia vita, sapevo esattamente cosa fare. Brillava, di una luce meravigliosa, capace di oscurare perfino la luminosità della luna. E così, sotto quella luminosità magica e ipnotica, chiusi gli occhi e espressi tre desideri, sempre tenendo stretti la bandiera-coperta e il ciondolo. Tre desideri che mi vennero così, sul momento ma dalle profondità più remote del mio cuore. Erano lì da tanto tempo e l’unica cosa che doveva fare la mia testa era elaborarli, non appena si fosse presentata l’occasione. Quella sera avevo colto l’attimo.
Un lieve brivido mi era sceso lungo la schiena e avevo provato una sensazione strana, come se quella stella si fosse mossa. Come se l’universo si fosse mosso. In un secondo mi ero sentita avvolgere dal suo calore e dalla sua brillantezza e avevo sentito un sussurrio. Non sapevo come fosse possibile dimenticarsi di una cosa del genere ma me ne ero ricordata solo nel momento in cui avevo capito cosa era successo. Però non riuscivo a ricordarmi cosa avevo udito. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a rammentare quale fosse il significato di quel suono. Cosa tentava di dirmi?
«Non riesci a dormire?»
Girai di scatto la testa verso quella voce «Marco…mi hai spaventata»
«Scusa, non volevo»
«Tranquillo» gli sorrisi «a quanto pare nemmeno tu riesci a dormire»
«Ogni tanto mi capita di svegliarmi nel cuore della notte»
«Ah, mi dispiace. Ti succede spesso?»
«Mi succede da dopo la guerra»
Accidenti, potevo capirlo. Perdere suo padre e un suo compagno fidato non doveva essere stato per niente facile. Per non contare tutti gli altri membri che erano caduti in battaglia e quelli che erano rimasti gravemente feriti, tipo Jozu. Tutti ci eravamo concentrati sul dolore di Rufy, ma nessuno aveva pensato al dolore di tutti quelli che erano lì e che avevano perso un amico, un padre o un fratello.
«Posso?» mi chiese indicando il gradino dove ero seduta anche la sera precedente
«Certo» si accomodò accanto a me e rimanemmo in silenzio a fissare il cielo
«Anche Ace ogni tanto faceva come te. Non riusciva a dormire e allora usciva sopraccoperta e fissava le stelle per ore e ore, senza stancarsi mai, finché si addormentava stremato sul ponte della nave» rise, ma i suoi occhi celavano un velo di nostalgia
«Io ho sempre adorato Ace. Pur non conoscendolo di persona, mi ha sempre ispirato fiducia e simpatia»
«Si, era genuino e spontaneo e non si faceva troppi problemi. Finiva sempre nei guai e ci trascinava anche me!» sorrise, con la tipica espressione di chi rimpiange qualcosa che non c’è più
«Mi sarebbe piaciuto conoscerlo»
«Sareste andati d’accordo, credo. Non è poi tanto diverso da suo fratello»
Mi alzai e andai a prendere la collana con il tatuaggio di Ace, anche se con quel buio fu difficile trovarla al primo colpo. In quei giorni non l’avevo messa per non essere bombardata ancora di più dalle domande di tutti. «Quando ho espresso il desiderio di conoscere Rufy e la sua banda di scalmanati, ho stretto al petto questo ciondolo e ho desiderato di poter incontrare anche lui, anche solo in sogno»
La fenice sembrò destabilizzata per un attimo.
«Tutto a posto Marco?» chiesi
«Si. È solo che era da tanto…che non vedevo quel tatuaggio»
«Scusa…non ci avevo pensato»
«Non ti devi scusare» fece un mezzo sorriso
Gliela porsi e lui allungò la mano per prenderla «Solo perché sei tu» feci, scherzando. In realtà non scherzavo affatto, ero gelosissima delle mie cose, soprattutto di quella collana. Ma anche se era solo una stupidaggine, credevo che lui avesse bisogno di un gesto del genere.
Se la rigirò tra le dita come a sentirne la consistenza e la strinse, proprio come feci io quella famosa sera di Febbraio. Marco la fenice, uno dei più pericolosi e temuti pirati in circolazione, ora assaporava il contatto con quel ciondolo quasi fosse la cosa più preziosa del mondo. Chiuse gli occhi e sospirò un paio di volte, finché la sua faccia si illuminò all’improvviso «Deve essere per questo che sono capitato qui!»
«Che significa?»
«Ho una teoria. Quando tu hai espresso il desiderio eri a contatto con gli oggetti delle persone che volevi conoscere, giusto?»
«Si…ma non capisco dove vuoi arrivare»
«Ace purtroppo non c’è più, però io ho alcune sue cose, tipo la sua camicia e alcune palline della collana, che purtroppo è andata quasi completamente distrutta»
«Ma certo! Marco sei un genio! Hai appena risolto il mistero!»
«Non era poi così difficile» sorrise seraficamente «però c’è una cosa che mi sfugge…»
«Cosa?» ero già preparata al peggio
«Nel nostro mondo, come nel vostro, chi vede una stella cadente può esprimere un desiderio»
«E fin qui ci siamo» dissi, leggermente infastidita perché non andava al punto e io, esattamente come il chirurgo della morte, odiavo chi mi teneva sulle spine. Non a tal punto da minacciare di ucciderlo, però.
«Ma tale desiderio è talmente irrealizzabile che ci deve essere qualcos’altro che non ci hai detto. Voglio dire, noi proveniamo da un altro mondo e a quanto hai detto tu non dovremmo nemmeno esistere.»
«Non ho mai detto che non dovreste esistere…»
«Beh tu ci hai detto che siamo disegni. Ma non cambiare argomento»
Non stavo cercando di cambiare argomento, semplicemente volevo chiarire che io ho sempre voluto e pensato che da qualche parte loro esistessero. Che dovessero esistere.
«Non sono un strega come pensa il nasone, se è questo che vuoi sapere» sospirai
«Non l’ho mai pensato. Volevo solo sapere che razza di stella era, ti sarà caduta addosso per farti realizzare un tale desiderio»
Prima tirai un sospiro di sollievo e poi sorrisi con l’aria di chi la sa lunga «È perché quella non era una stella cadente»
«Lo immaginavo» sorrise a sua volta, con quella leggera arroganza che lo contraddistingueva
«Quella a cui mi sono rivolta è una stella speciale»
«Adesso però mi hai incuriosito»
«Era una brutta serata» cominciai a raccontare «hai mai avuto serate in cui ti sei sentito perso e solo?» la mia era una domanda quasi retorica, visto quello che aveva passato il poveretto, infatti fece un lieve cenno d’assenso e io proseguii «bene, la sera in cui ho espresso il desiderio era una di quelle sere. Io ero triste e mi sentivo abbandonata da tutti e così ho cercato un po’ di compagnia in cielo»
Marco se ne stava lì senza dire una parola, ma sapevo che mi capiva bene. Non eravamo poi tanto diversi.
«Quando ero piccola, c’era una storia che mi piaceva più delle altre. Non credo che tu la conosca»
«Narramela, allora»
«Parla di un ragazzo che non vuole crescere e che può volare. Il suo nome è Peter Pan»
«Mi intriga, va’ avanti»
Gli raccontai tutta la storia, mettendoci forse più enfasi del previsto e lui se ne uscì con un “credo di aver capito”. Non era di troppe parole nemmeno il biondo.
«Peter Pan è tutto ciò che ho sempre desiderato essere» conclusi, con un po’ di nostalgia nella voce
«Non vorrei rovinare il tuo bel racconto, che per la cronaca mi è piaciuto, ma cosa c’entrano le fate e i coccodrilli cannibali con la storia della stella?»
«In poche parole mi sono affidata alla Seconda Stella a Destra. Ho alzato gli occhi e inspiegabilmente la vedevo. Sapevo che era proprio lei. Così ho espresso i miei tre desideri senza pensarci»
«Sapevi già di dover esprimere quelli» non avevo capito se la sua era un’affermazione o una domanda. Nel dubbio, risposi.
«Si. Era come se mi guidasse»
«Una luce nel buio» constatò
«Letteralmente. Ero nella più totale oscurità senza neanche essermene resa conto e lei mi ha salvata»
«E perché eri nella più totale oscurità? Se posso saperlo»
Aspettai un po’ per rispondere. «Non lo so» dissi infine. Abbassai lo sguardo, portai le gambe al petto e le cinsi con le braccia
«A volte gli esseri umani sono tristi senza un motivo»
Lo guardai. Quella frase mi stupì parecchio, soprattutto visto che veniva pronunciata da uno come Marco. «Già».
Gli avevo raccontato tutta la storia sul perché avessi espresso quei tre stupidi desideri – che non volle nemmeno sapere – e la verità era che non stavo mentendo, io ci credevo. Ci credevo davvero. Quella è la stella che porta all’Isolachenoncè. La stella che brilla sempre un po’ più delle altre.  La stella che quella sera splendeva per me, o almeno così mi piace credere. Quella è la stella della speranza, quella che mi ha fatto realizzare forse il più impossibile dei tre desideri. La stella che aiuta tutti i ragazzi sperduti.
«Ti sembrerà stupido, ma per me quella è la stella della spensieratezza»
«No, non è stupido. È perché Peter Pan è spensierato?»
«Non solo. È perché mi ha fatto incontrare voi. E anche se siete qui solo da due giorni, da quando vi conosco di persona il mio cuore è molto più leggero».
Quella è la stella che mi ha accompagnato per tutta la mia infanzia e che lo farà ancora. La stella che mi ha salvata. La stella che ha fatto avverare i miei sogni. Quella è la Seconda Stella a Destra.



Angolo autrice:
Come vi avevo preannunciato, capitolo introspettivo e piuttosto malinconico, in cui più o meno viene chiarita la situazione.
Allora, su questo capitolo vorrei soffermarmi un attimo. In realtà avevo finito di scriverlo già da parecchio, ma lo pubblico solo ora perchè non mi convinceva molto. Con ciò, intendo dire che questo capitolo è stato scritto basandosi su gusti personali e quindi ci sta che a qualcuno possa non piacere. Ho scelto di fare così perchè una semplice stella cadente mi sembrava troppo banale per poter far realizzare il desiderio di Cami. Un desiderio che ha da sempre e che per come la vedo io, è troppo grande, come dice anche Marco e solo così poteva essere esaudito. Inoltre, come ho già detto, la mia è stata anche una scelta dettata dalla ricerca dell'originalità. Come sapete sto cercando di rendere la storia il più innovativa e soprendente possibile e questa mi è sembrata una buona maniera per farlo :) con l'occasione ho inserito la storia che ha segnato la mia infanzia, Le avventure di Peter Pan. Peter Pan rappresenta la mia infanzia, appunto, mentre One Piece la mia adolescenza e anzichè fare un crossover ho voluto rendere loro omaggio in questo modo. Abituatevici perchè con me, se continuerete a seguire le mie storie, sentirete parlare molto del bambino che non voleva crescere :D
Tutto questo per dirvi che alla fine, convinta o no, il capitolo lo pubblico lo stesso. In fondo non credo sia così male :D Ho cercato di rendere realistico il discorso tra Marco e Cami, senza sbilanciarmi più di tanto sul passato della fenice. Solo Oda-sensei può dirci cosa realmente è successo dopo Marineford ai pirati di Barbabianca. Ho anche immaginato un ipotetico Ace che guarda le stelle :)
Detto ciò, avrete notato che vengono nominati non uno, ma ben tre desideri. Non preoccupatevi, gli altri due verranno svelati in seguito :)
Bene, ora, per la vostra gioia, ho finalmente finito di scrivere questo poema. Fatemi sapere cosa pensate di questo capitolo, come sempre vi sono grata se lasciate una recensione :) un bacio e alla prossima!

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Capitolo 10
*** Disastri ***


Negli ultimi giorni mi sembravo decisamente impazzita. Seconda Stella a Destra, Uomo della Luna, Pirati in casa e chi più ne ha più ne metta. Mi serviva assolutamente una pausa da quella marmaglia. Anche perché a breve sarebbero tornati i miei genitori e non potevo certo dirgli “Mamma, papà, condividerete il letto con due ragazzi provenienti da un fumetto che non riuscite né a vedere, né a sentire a meno che non li tocchi” perché a quel punto sarebbe stata davvero una gara a chi impazziva prima, anche se personalmente mi ritenevo sulla buona strada. Se non per la pazzia, almeno per un esaurimento. Erano solo quattro giorni che erano lì e già riuscivano a farmi salire i nervi a fior di pelle. Rufy continuava a fare casino per tutta casa, Zoro e Sanji stavano sempre a litigare e Law mi fissava sempre con quello sguardo torvo, senza dire una parola. Dovevo liberarmene. Se non definitivamente, almeno per qualche ora. Giusto il tempo di farmi la doccia e rimettere a posto casa prima che un nuovo tornado firmato cappello di paglia si scatenasse. Ah già, dovevo anche riposare i timpani dagli snervanti urli dello spadaccino e del cuoco e stendermi cinque minuti per farmi passare il mal di testa, che ormai martellava incurante delle disgrazie che mi toccava sopportare. Se volevano che facessi delle ricerche, dovevano cercare di agevolarmi e non di ostacolarmi! Ora finalmente capivo come si sentiva Nami, poverina. La avevo sempre odiata per il suo comportamento aggressivo e materialista, ma invece era solo vittima di quegli scalmanati.
Il colmo fu quando decisi disgraziatamente di prendere un ingrediente per la torta che voleva cucinare Sanji. Era in alto, per cui presi uno sgabello e ci salii sopra. “Faccio io, non ti scomodare” aveva detto il biondo; e sarebbe stato decisamente meglio viste le conseguenze. Io, che normalmente avevo l’equilibrio di un ubriaco su una gamba sola, ero in piedi precariamente su un cavolo di trespolo traballante, con una busta aperta di farina in mano. Il cuoco gentilmente mi teneva la gamba con un braccio, ma questo non bastò per arrestare la furia di Rufy, che correva pericolosamente verso di noi con la lingua di fuori e le narici dilatate.
«Cibo, cibo, cibooooo!»
«Rufy, aspetta!» il povero Usop lo rincorreva ansimante con una mano a tenersi l’asciugamano che gli cingeva la vita e che minacciava di cadere e l’altra tesa verso il suo capitano, stringente una bottiglietta di quello che mi parve essere shampoo «ti devi sciacquare la testa!»
«Se ti avvicini ti giuro che…»
Non potei finire la mia minaccia e non potei neanche ammirare gli addominali che il cecchino si era fatto in quei due anni, perché in due secondi netti qualcosa mi investì in pieno e finii a mezz’aria. Il tempestivo intervento del cuoco salvò la situazione e soprattutto il mio sedere. Infatti mi ritrovai tra le braccia del biondo, felice come una Pasqua di avermi salvato. Ma le buone azioni non restano impunite, come si suol dire. A parte la farina, che giaceva riversa al suolo suscitandomi un pericoloso tic all’occhio, per terra c’erano anche le pozze d’acqua che il rinoceronte Rufy aveva sgocciolato al suo passaggio. Non per niente Sanji ci mise un piede sopra e scivolò, facendoci cadere rovinosamente. La posizione, per chiunque ci avesse visto in quel momento, era alquanto equivoca. L'ex capocuoco del Baratie era supino e io ero completamente stesa sopra di lui, a pancia in giù. Le nostre facce erano a tre centimetri di distanza. Ringraziai il cielo che non ci eravamo dati una testata.
«Ehi, ma la torta ancora non è pronta! Uffa»
Mi tirai su e lentamente mi girai verso l’idiota che osava pure aprire bocca. Aveva l’asciugamano in vita e la testa ancora insaponata. L’acqua ancora colava dal corpo di quell’insignificante essere che sarebbe presto stato linciato.
«Rufy» grugnii «Rufy.» dissi in tono più dolce «Scappa. È un consiglio da amica»
Lui piegò la testa da un lato, non capendo un accidente come al solito.
«Se non lo fai ti garantisco che ti ritroverai come minimo un occhio nero.» stavolta ero riuscita a completare la mia minaccia. Feci un passo avanti, ma dovetti rinunciare alla mia idea quando mi accorsi che avevo del sangue sul petto. Automaticamente ruotai i piedi in direzione del cuoco, ancora steso per terra e in piena epistassi.
«Sanji? Ehi Sanji, stai bene?» domandai, senza ricevere alcuna risposta. Quando eravamo caduti, io ero atterrata su di lui e non mi ero fatta niente, ma accecata dall’ira del momento non mi ero premurata di chiedere allo chef se stesse bene. A giudicare dalla faccia sembrava avesse visto il paradiso. “Almeno se muore, muore felice” pensai.
«Usop, che facciamo?» mi rivolsi al cecchino che era a pochi passi da me, ricurvo e con le mani poggiate sulle ginocchia per lo sforzo della corsa.
«Non ti preoccupare, di solito passa da solo» mi rassicurò, ancora a corto di fiato
«Si ma guarda, sta sanguinando davvero molto» ci sporgemmo entrambi per osservare quello spettacolo a tratti inquietante
«Hai ragione…chiama Traffy»
«No no, chiamalo tu!»
«Perché io? Ti ho detto che secondo me passa da solo!»
Poco prima avevo visto che il chirurgo sonnecchiava in salone e non avevo la minima intenzione di disturbarlo. E a quanto pare Usop doveva aver pensato la stessa cosa.
«Perché fino a prova contraria Sanji è un tuo compagno e se muore sarà colpa tua!»
«Traffyyyyyyy!» un urlò assordante si levò da dietro le mie spalle «vieni presto, Sanji sta male!» perfetto, ci aveva pensato Rufy. Si precipitò fuori dalla cucina verso il salone. Almeno sarebbe morto lui al posto nostro. Io e il nasone ci guardammo. Mi fece cenno di dileguarci finché fossimo in tempo. Concordavo in pieno con il suo pensiero, ma non riuscimmo nel nostro intento. Un paio di occhi mezzi assonnati ma comunque glaciali ci fecero inchiodare immediatamente sull’ingresso di casa.
«Mi avete svegliato. Ciò vuol dire che qualcuno sta morendo o che è già morto, spero. Perché se non è così, vi garantisco che lo sarà.»
Rabbrividimmo in due. Forse in tre, contando anche il lampadario che ero sicura avesse tremato per qualche secondo.
Law si chinò sul corpo quasi esanime – ma felice, vale la pena ricordarlo – di Sanji e esaminò la situazione.
«Non serve una trasfusione, basta fermare la perdita di sangue. Hai qualcosa per bloccare l’emorragia?»
«Va bene lo scottex?» chiesi. Come al solito mi guardò male. Sbuffai e andai a strapparne un quadratino. Glielo porsi cautamente e lui analizzò quel pezzo di carta.
«Sarebbero più indicati dei tamponi nasali» stavo per ribattere che non ci trovavamo in una struttura sanitaria, quale che essa sia e che quindi si doveva accontentare ma lui parlò di nuovo «ma suppongo che in mancanza d’altro possa andar bene anche questo “scottex”».
Scongiurato il pericolo, feci una stima dei danni. Pozze d’acqua per terra, la farina tutta rovesciata, lo shampoo finito, uno sgabello probabilmente rotto e un cuoco mezzo morto. Non osavo andare in bagno perché sapevo che probabilmente la situazione era anche peggio.
«Sta bene?» chiese cappello di paglia al dottore dopo che ebbe finito di trafficare con il naso del biondo.
«Oh, lui si. Ma tu…no» risposi io. Chissà perché tutti rispondevano al posto del povero – ma neanche più di tanto – Traffy. Già era uno di non molte parole, se gli toglievamo anche le poche che gli restavano finiva per diventare muto completamente. Del resto, tale "padre" tale figlio.
«Perché? Guarda che io sto beniss…» fece Rufy, ma si fermò a metà perché gli tirai un pugno in faccia degno di quello che tempo prima aveva dato lui a quello spocchioso Drago Celeste. Essendo fatto di gomma, non mi feci nemmeno troppo male. Lo stesi. Oh cazzo, potevo dire di aver steso cappello di paglia! Anche se nessuno mi avrebbe creduto, la verità io la sapevo. Con la coda dell’occhio scorsi il chirurgo che ghignava come suo solito alla vista della scena.
«Te l’avevo detto che ti saresti ritrovato un occhio nero» dissi cercando di non sorridere compiaciuta e apparendo il più innocente possibile. Alzai le spalle e lo lasciai lì, per dirigermi in bagno, pronta a ritrovarmi sul set di un film horror. E infatti così fu.
Con l’aiuto degli altri pirati, rimisi tutto a posto. Ci vollero due ore buone ma la casa tornò linda e splendente come prima. Stranamente persino Law diede una mano. Sanji non aiutò perché era debilitato a causa della consistente perdita ematica e nemmeno Zoro, che dormiva e non c’era stato verso di svegliarlo. Rufy era, sotto mio ordine indiscutibile, seduto sullo sgabello che aveva buttato giù prima – che miracolosamente non era rotto – e si premeva una busta di piselli surgelati sull’occhio gonfio. Ovviamente prima gli avevo intimato di non mangiarli. Così non poteva andare avanti. Va bene che ci voleva pazienza, ma così era troppo da sopportare, persino per Padre Pio. Dovevo trovare una soluzione e alla svelta, visto che l’indomani sarebbero tornati i miei.



Angolo autrice:
Ciao a tutti :)
Capitolo comico dopo l'ultimo malinconico. Non succede nulla di particolare ma spero comunque di essere riuscita a strapparvi un sorriso :)
Alla prossima e grazie in anticipo a chiunque vorrà recensire!

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Capitolo 11
*** Appartamento per sei ***


All’improvviso mi balenò in mente un’idea.
«Uno di voi venga con me» feci ai ragazzi
«Vengo i…» Rufy si arrestò vedendo che lo guardavo con aria truce. In fondo mi faceva pena, era tutto entusiasta e io infrangevo così i suoi sogni.
«Dove?» chiese lo spadaccino, svegliatosi da poco
«Perfetto, hai vinto. Andiamo» lo presi per un braccio e lo trascinai fuori di casa dopo aver recuperato le chiavi e una fascia per capelli «tutti voi state buoni e non fate danni. Se torno e vedo anche solo mezza cosa fuori posto ve la faccio pagare»
Law sorrise divertito. Non mi importava se era il chirurgo della morte, se mi poteva affettare quando voleva, rubare il cuore o qualunque altra cosa fosse in grado di fare. Se osava fare altri danni in casa mia lo avrei incenerito, parola mia.
Mi chiusi la porta alle spalle cercando di non pensarci e mi avviai con Zoro al seguito. Mentre eravamo in ascensore gli presi il polso, cosa che suscitò in entrambi abbastanza imbarazzo, e lo legai al mio con la fascia per capelli.
 «Che diavolo stai facendo?»
«Sto facendo un favore a entrambi»
«E perché credi che legarmi il polso a te sia un favore che mi fai? Mi limiterebbe i movimenti qualora incontrassimo qualche nemico»
Alzai gli occhi al cielo «Rilassati. Non incontreremo nessun nemico»
«Tsk» sbuffò «slegami, ora.»
«Non darmi ordini.»
«Slegami e non lo farò»
«No. In questo modo staremo sempre a contatto e la gente ti vedrà, così potremo chiacchierare senza che la gente mi prenda per pazza»
«Cosa ti fa pensare che io voglia fare conversazione con te?»
Spalancai la bocca in un gesto teatrale, fingendomi offesa «Hai ragione, mi annoierei. Sono troppo intelligente per parlare con te, marimo» contrattaccai
Sogghignò «Ti ho per caso offeso, ragazzina?»
Le porte si aprirono e io uscii fuori dall’ ascensore sorridendo. Avrei avuto l’ultima parola. «Sei così stupido che non riesci nemmeno a slegarti da un nodo del genere?»
Non dovevo dirlo. Lui tirò indietro il braccio, facendomi perdere l’equilibrio e di conseguenza cadere di sedere su uno scalino che avevo appena sceso. Evidentemente gli facevo pena, perché mi tirò anche su, ovviamente con un ghigno provocatorio stampato sul viso.
«A pensarci bene potrebbe essere divertente rimanere così legati» provai l’impulso di sciogliere subito quel nodo e tornare di corsa a casa, ma non intendevo dargliela vinta e così uscimmo dal palazzo. Il caldo ci immerse completamente ma non mi persi d’animo.
«Mi dici dove mi stai trascinando con questo caldo infernale?»
Quando mio nonno era morto, ci aveva lasciato in eredità un piccolo appartamento che era a cinque minuti a piedi da dove abitavamo. Tra l’altro il palazzo era quello dove abitava anche Sara. Non ci abitava nessuno e le tasse le pagavamo comunque, quindi perché non cogliere l’occasione?
Arrivammo che ci eravamo fatti un bagno di sudore nonostante ci avessimo impiegato tre minuti. Quando aprii la porta del palazzo e sentii l’aria fresca, mi sentii sollevata e feci un sorriso ebete, che sparì non appena vidi Sara sul pianerottolo.
«Cami!»
«Sara…»
«Che ci fai qui?»
«Ehm...si…tu?»
Assottigliò gli occhi e mi guardò male «Si? Sei sicura di stare bene? Io ci abito qui!»
Ah già ci abitava… «Si, si! È che…sai…sono venuta qui per far vedere l’appartamento a lui»
Sara lo squadrò da capo a piedi, soffermandosi sulla fascia che ci legava e fece uno sguardo strano, a metà tra il perplesso e l’allusivo. Fortunatamente non fece domande e si presentò, solare come al solito «Piacere, Sara!»
Zoro, già abbastanza imbarazzato dalla situazione, guardò la mano che la mia amica gli aveva teso. “Stringila idiota” pensai. In qualche modo gli arrivò il mio pensiero perché gliela strinse. Forse troppo forte, visto che la poverina si massaggiò la mano una volta terminata la stretta.
«Alla faccia che con i ragazzi andava male, eh?» disse a bassa voce e mi fece l’occhiolino
Presa dal panico gli inventai la prima cazzata che mi venne in mente «Eh no, lui è gay!» lo urlai come per farlo sembrare convincente, solo dopo mi resi conto dell’enorme stronzata che avevo detto. Zoro mi guardò dapprima stupito, poi in cagnesco.
«Oh…D’accordo, io vado. Piacere di averti conosciuto!» detto questo finalmente se ne andò e io potei tirare un sospiro di sollievo. Quando il portone d’ingresso del palazzo fu chiuso, Zoro parlò «Gay, eh?»
Boccheggiai. Sara era di certo una brava persona e una buona amica, ma era un po’ troppo pettegola per i miei gusti e l’avrebbe saputo tutto il mondo se le avessi detto che era il mio fidanzato o anche solo un mio amico. Già con quei capelli verde alga e quella cicatrice sull’ occhio avrebbe avuto un ampio argomento di conversazione per tutto il pomeriggio. Ed ero sicura che dopo che le avevo detto dell’appartamento sarebbe venuta a curiosare e avrebbe indagato sui nuovi inquilini "fantasma", come piaceva definirli a me. Almeno in quel modo avevo evitato ogni tipo di gossip.
«Te l’avevo detto che dovevi slegarmi, mocciosetta» fece un sorriso di scherno.
«Tenerti incollato a me era l’unico modo per non farti perdere, razza di idiota!» ma perché non gliel’avevo detto prima? Almeno lo avrei azzittito per un po’. Ad ogni modo lo liberai da quella “tortura” e iniziai a scendere le scale che portavano all’appartamento. Era abbastanza isolata come casa, considerato che era due piani sotto il piano terra.
«Eccoci arrivati» dissi, una volta sul pianerottolo.
«Arrivati dove?»
«Alla vostra nuova casa»
«Cos’ha quella vecchia che non va bene?»
«Siete fastidiosi. Rumorosi. Confusionari. Occupate troppo spazio…e potrei andare avanti all’infinito» incrociai le braccia e simulai uno dei miei sorrisi angelici
«Ok, ok ho capito…»
«E in più domani tornano i miei ed è necessario che ve ne andiate il più lontano possibile» il concetto di “più lontano possibile” con loro non era ben definito. Per poter essere davvero al sicuro da quei pazzi come minimo avrei dovuto mandarli in Russia. Ma in mancanza di fondi questo era il massimo che potevo permettermi e se ciò evitava il coinvolgere i miei genitori in quell’isteria di gruppo allora andava bene anche così.
«D’accordo»
«Bene» uno lo avevo convinto, ora dovevo convincere gli altri cinque. Impresa ardua, ma avevo i miei assi nella manica.
Entrammo e per un attimo rimasi con il fiato sospeso. Temevo che l’appartamento fosse in cattive condizioni. Fortunatamente non era così. Anzi era tenuto piuttosto bene. Bastava dare una pulita qua e là. Non era molto grande, ma si sarebbero adattati. L’abitazione era composta da tre stanze e un bagno più un piccolo terrazzo e un balcone. Una stanza fungeva da ingresso e da salotto, infatti vi era un divano un po’ vecchiotto in pelle marrone. Un’altra stanza era la cucina, sulla sinistra, con un tavolo per mangiare e infine c’era la camera da letto, con due letti singoli separati. Se proprio i due fortunati che ci avrebbero dormito sentivano la mancanza l’uno dell’altro potevano avvicinarli.
«È di tuo gradimento?» chiesi ironicamente, consapevole che qualunque fosse stata la risposta ci avrebbero abitato uguale.
«Non è male. C’è la palestra?» la palestra voleva lui. Già era tanto se quella casa era in quelle condizioni e non cadeva a pezzi. Anzi no, già era tanto se avevo una casa dove mandarli ad abitare! Era un po’ spoglia, ma nel complesso faceva la sua umile figura.
«No e non credo che esistano palestre con pesi tali in grado di soddisfarti»
Sembrò contrariato. «Allora dovrò arrangiarmi con quello che mi offre la natura»
«Basta che non ti metti a sradicare alberi»
«Solo se posso dormire su uno dei due letti»
«Parlane con gli altri, a me non interessa chi dorme dove o con chi».
Tornammo a casa – che era rimasta, strano ma vero, esattamente come l’avevo lasciata – e parlai della mia idea agli altri, che alla fine accettarono. Mostrai anche a loro l'appartamento e gli piacque.
«Servono più letti però» constatò Rufy, che aveva ancora l’occhio nero e si era portato dietro i piselli ormai non più tanto surgelati
«A quello ho già pensato» risposi. Mio zio lavorava tanto bene in un negozio di materassi e mi adorava, quindi bastava inventarsi una scusa qualunque e avrei avuto i tre materassi che mancavano. Decisi di andarci il giorno stesso, perché prima si sistemavano meglio era. Portai con me due galantuomini per aiutarmi con il trasporto. Marco e Law. Nonostante Rufy si offrisse ogni volta, non me la sentivo di farlo venire, avrebbe fatto troppa confusione. E poi con quei vestiti e ora quell’occhio nero sarebbe sicuramente sembrato un teppista di strada a mio zio e ci saremmo letteralmente sognati i materassi. Quindi optai per due persone posate e controllate, almeno in apparenza. Non che Marco con quella sua capigliatura a ananas fosse raccomandabile, ma almeno non aveva i capelli verdi o il naso chilometrico e non rischiava un' epistassi ogni volta che vedeva una donna.
Arrivammo al negozio di materassi con il pullman stavolta, dopo che ebbi spiegato loro cosa fosse e come funzionasse. Rimasero piacevolmente colpiti.
«Ciao zio!» appena entrai, lo notai e lo chiamai, facendolo girare.
«La mia nipotina preferita!» mi venne incontro con le braccia aperte e mi abbracciò
«Sono l’unica che hai del resto! Ascolta, ti presento due miei amici» Law, sentendo quella parola fece una smorfia di disgusto.
Lui li esaminò scrupolosamente, soffermandosi per lo più nel punto in cui i due pirati tenevano le mani a contatto con la mia schiena e una volta finito disse, rivolto prima a me e poi a loro «ti trattano bene? Guardate che sono molto geloso della mia unica nipote. Per cui se la fate soffrire vi vengo a cercare!» in parte scherzava, in parte no. Sapevo che era vero.
Marco rise, Traffy no, mantenne quella sua stupida aria altezzosa.
«Comunque, veniamo al dunque. A cosa devo la vostra visita?»
«Ci servirebbero tre materassi» dissi molto tranquillamente
Lui assottigliò gli occhi «Che ci devi fare con tre materassi?»
«Servono a loro. Stanno organizzando un pigiama party»
«E tu parteciperai?» li guardò in cagnesco
«No! Certo che no! Però loro non possono pagare al momento e quindi dovresti farci anzi, fargli, un prestito sulla fiducia» sorrisi innocentemente
«Mh. Lo farò solo perché siete amici della mia nipotina. Ma vi tengo d’occhio» li indicò entrambi minacciosamente.
«Grazie zio!» lo abbracciai, sentendo le mani dei due pirati ancora incollate a me
«E comunque non me li hai presentati»
Giusto, non gli avevo ancora detto i nomi «Ah già, loro sono Marco e L…orenzo» mi ripresi in corner. Marco era un nome normalissimo – e anche bello – ma non potevo dirgli il vero nome del chirurgo. Già era titubante sul lasciarci i materassi, se scopriva come si chiamava lo prendeva per uno straniero venuto da chissà dove. Law era anche piuttosto scuro di carnagione e mio zio oltre ad essere un tipo un po’ all’ antica era anche uno che faceva parecchie congetture campate per aria.
Alla fine prendemmo i materassi e uscimmo. Per tornare a casa fu un disagio. Nel pullman non ci avrebbero di certo fatto entrare con quei cosi e a piedi era troppo lunga. Oltre al fatto che faceva caldo e dovevamo trasportare del peso extra.
Alla fine fu necessario utilizzare i poteri. Marco portava i materassi in volo, mentre Law utilizzava lo shambles per avanzare piano piano, stando ben attento a non farsi notare. O meglio, a non farmi notare. Lui era invisibile, il problema ero io. Aveva un respiro leggermente corto.
«Stai bene?»
«Si.» mi rispose in maniera distaccata e sembrava quasi scocciato. Io mi preoccupavo semplicemente per lui, perché sapevo che i suoi poteri consumavano parecchia energia e dopo l’ultima battaglia era rimasto parecchio debilitato. Che c’era di sbagliato in questo? Cosa diavolo c’era che non andava in lui?
Tornammo a casa stanchi, ma soddisfatti. Mentre gli altri si occupavano di sistemare i materassi, io decisi di raccogliere le mie ultime energie per andare a fare un po’ di spese utili ai nuovi inquilini. A piedi arrivai al supermarket più vicino e comprai spazzolini per tutti, dentifricio, qualche snack e una bottiglia di vino. Il giorno dopo avrei pensato a fare un paio di copie delle chiavi e alle altre cose.
Ritornai da loro che mi accolsero sorridenti. Dovevo ammettere che era bello rincasare e trovare dei volti così allegri e solari, nonostante la stanchezza del giorno passato tra calura e materassi. Mi faceva sentire come se avessi qualcosa per cui combattere. Avevo qualcuno per cui tornare a casa la sera. Sanji mi prese dalle mani la spesa e la mise da una parte, tranne la bottiglia di vino che invece stappò. Si era già orientato a meraviglia visto che sapeva dove fossero i bicchieri – che io non sapevo nemmeno dove fossero a casa mia –. Li tirò fuori e vi versò la sostanza alcolica. Aveva un aspetto molto invitante, avevo scelto bene.
«Fate silenzio imbecilli!» ordinò ai suoi compagni che si ammutolirono. Risi e scossi la testa. Certe cose non sarebbero cambiate mai. «Alla nuova casa» riprese e alzò il suo calice «e a Cami» mi guardò e fece un piccolo inchino, i suoi occhi erano sereni.
«Alla nuova casa e a Cami!» lo seguirono gli altri.
«Alla nuova casa» alzai anche il mio flute
«E a te» mormorò Marco quasi rimproverandomi di essermi dimenticata una parte importante.
Mi rassegnai e brindai «A me» bevvi e il liquido scese in gola, irradiando calore nel resto del corpo. Ma il calore che sentivo non era solo merito del vino, a scaldarmi era la gioia, quel meraviglioso sentimento che non provavo da parecchio tempo e che solo con loro avevo riscoperto.

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Capitolo 12
*** Sfide ***


Come avevo deciso giorni prima, alle diciannove e trenta minuti feci sistemare tutti in salone e accesi la tv, sul canale dove trasmettevano One Piece. Ovviamente, solo dopo aver preso le dovute precauzioni. Avevo legato Rufy a Zoro e Sanji – con loro somma gioia – con le famose fasce per capelli, onde evitare che si precipitasse sulla tv. Figurarsi se poteva stare fermo mentre rivedeva le sue azioni su uno schermo. Infatti, come previsto quando cominciò il programma si agitò come una bestia. Anche gli altri in realtà erano stupiti.
«Oh! Me lo ricordo! È quando siamo andati a salvare Robin!» esclamò cappello di paglia tutto esagitato
«Quella giraffa di merda mi ha dato del filo da torcere» sorrise Zoro
«Si mi ricordo! Ci siamo ritrovati ammanettati all’improvviso, che tortura! Pensavo che sarei morto affettato…» disse Usop
Sanji sbuffò «Come fai a ricordartelo se non c’eri?»
«Infatti Usop, guarda che tu non c’eri!» confermò il loro capitano
«Ah già…devo essermi confuso…» si grattò la testa
«Wow, fa effetto vedervi rimpiccioliti su uno schermo» era stato Marco a parlare. Giustamente lui non poteva vedersi perché ancora non aveva fatto la sua apparizione.
«Avanti tizio col piccione, fatti sotto! Non ho paura di te!» il moro sbraitava come non mai e continuò così per il resto della visione
«Nami-san! Robin-chan! Sono bellissime anche sullo schermo» affermò innamorato Sanji «chissà che staranno facendo…» continuò poi, pensieroso.
Potevo capirlo. Ormai era passata già una settimana dal loro arrivo e qualcuno di loro cominciava a sentire la mancanza di casa. Però per ora le cose procedevano bene; si erano ambientati a meraviglia nella nuova casa e anche in città non se la cavavano affatto male. Io, sotto le pressioni o meglio, le minacce del chirurgo continuavo a fare ricerche. Ancora non ero riuscita a trovare nulla di consistente, ma ero fiduciosa. E se anche non fosse stato avrei comunque trovato un modo per farli ritornare nel loro mondo, gliel’avevo promesso e loro si fidavano. Glielo dovevo.
Una volta nell’appartamento i ragazzi avevano deciso che i letti li avrebbero presi Zoro – che l’aveva prenotato fin da subito – e Law. A Marco avevano lasciato il divano e tutti gli altri avrebbero dormito per terra, sui materassi. Io passavo a trovarli appena potevo, generalmente quando i miei – che erano ormai tornati dall’Expo – non c’erano, per evitare domande inquisitorie. Di solito mi intrattenevo dopo pranzo e dopo cena. Loro venivano prima di cena per vedere gli episodi di One Piece, mentre la notte guardavamo le stelle in cerca della Seconda Stella a Destra, ma per ora erano state notti vane. La mattina dormivo, quei pirati mi stancavano più di quanto immaginassi. La sera si faceva sempre baldoria e tornavo sempre tardi. Anche se il tragitto dal loro appartamento a casa mia era relativamente breve, mi facevo sempre riaccompagnare, non si sapeva mai cosa poteva succedere alle due di mattina. Una cosa era certa però, quando era ora di andare mi veniva sempre una leggera malinconia. Con loro stavo bene, mi sentivo a casa e apprezzata, qualsiasi cosa facessi. Stavo persino trascurando i miei amici per passare più tempo possibile con quella banda di scalmanati, del resto non sapevo per quanto tempo ancora sarebbero stati con me e dovevo approfittarne. La cosa frustrante era che non potevo parlarne a nessuno e ormai avevo finito le scuse da propinare a tutti quelli che mi chiedevano di vederci. Ero arrivata a dire che dovevo badare al cane della vicina di casa di mia nonna, il che mi rendeva ridicola.
«Cami lo mangi quello?» chiese Rufy con la bocca piena
«Quello cosa?» feci io, che avevo il piatto pieno di roba. Mi avevano invitato a cena e io non potevo di certo rifiutare. Sanji era un ottimo cuoco e ogni volta che assaggiavo una sua pietanza era una sensazione stupenda, le mie papille gustative visitavano la terra promessa.
«Quello!» disse indicando l’intero piatto
«Baka! Non importunare Cami mentre mangia!» il biondo gli sferrò un calcio in piena faccia, che però non sortì l’effetto sperato.
«Beh, qualcosa dovrò pur mangiare…però se vuoi ti lascio i broccoli» quei cosi non li potevo nemmeno vedere. Nemmeno se a prepararli era il mio cuoco preferito. In realtà sospettavo che nemeno a Rufy piacessero tanto, ma lui era onnivoro. Quello che era commestibile si poteva star certi che sarebbe finito nel suo stomaco.
«Cami-chan…non ti piace quello che ho preparato?» fece una faccia affranta
«No, no. È tutto buonissimo! Però i broccoli non mi piacciono tanto…» mi giustificai. In realtà dire che non mi piacevano i broccoli era un’eresia. Io li odiavo. Con tutto il cuore. La sola vista di quegli affari mi faceva vomitare. Avrei mangiato di tutto ma non i broccoli.
«Perdonami! Non li preparerò più allora!»
«Ehi stupido cuoco, chi ti ha detto di non prepararli più!?»
Stavo per dire “Infatti, solo perché a me non piacciono non vuol dire che devi smettere di farli” ma fui preceduta, tanto per cambiare «Sarà perché mi ricordano la tua stupida testa verde!?»
«A chi hai detto stupida testa verde!?»
Mi misi una mano sulla fronte e chiusi gli occhi. Quell’odissea non avrebbe mai avuto fine. MAI. Abbassai la testa sul piatto, che con mia grande sorpresa era diventato vuoto!
«Ehi ma ch…Rufy!» spostai lo sguardo sul moro che si stava ingozzando come se non mangiasse da giorni. Aveva la bocca così piena che temevo potesse esplodere da un momento all’altro, lasciandoci ricoperti di poltiglia. Ma lui era Monkey D. Rufy, il ragazzo di gomma, quindi ingoiò direttamente il tutto e sorrise pure. Strinsi i pugni, desiderosa di dargli un cazzotto ma mi trattenni e distesi le dita, contro la mia volontà. Se mi aveva rubato il cibo da sotto gli occhi in parte era colpa mia, dovevo fare come Usop, che circondava con le braccia il suo piatto e lo sorvegliava come un secondino tiene d’occhio i criminali in una prigione di massima sicurezza.
«Non mi stupisco» mi sussurrò Usop avvicinando la faccia alla mia. Per poco non rischiai di rimanere accecata dal suo naso, infatti mi scostai leggermente. «Te l’avevo detto di fare come me!» si vantò
«Non si è nemmeno scusato» gli sussurrai a mia volta
«Certo. Perché secondo lui non è sbagliato. Niente è sbagliato se si tratta di cibo»
«Mi sembra giusto…» feci poco convinta «ma stai pur certo che non ricapiterà»
Annuì serio e io assottigliai lo sguardo verso quella sottospecie di ladro ingurgita-tutto.
«Hai trovato qualcosa di utile oggi?» mi chiese il chirurgo sempre con quell’aria imperturbabile
«No» scossi la testa. Stavo anche per dire che mi dispiaceva ma ci ripensai dopo che mi disse che non ero in grado nemmeno di trovare delle semplici informazioni. Volevo insultarlo pesantemente e dirgli che poteva trovarsele lui le informazioni che tanto agognava e che poteva pure mettersele dove non batteva il sole, ma decisi di fare il suo stesso gioco. Del resto il fuoco non si spegne con il fuoco ma con l’acqua, giusto?
Sorrisi e lentamente presi il cestino dove stavano le pagnotte. Glielo misi praticamente sotto il naso «Pane, Law?» chiesi e alzai un sopracciglio, trionfante. Per un nanosecondo fece quella che mi sembrò una smorfia schifata, prima di ritornare imperscrutabile come sempre.
«Broccoli, Camilla?» chiese dopo un po’. Quel maledetto. Decisi che non avrei perso la sfida, se così si poteva chiamare. «Ma certo, perché no?»
Ne prese un po’ dal suo piatto e li mise nel mio. Ghignò in attesa che li mangiassi o che rinunciassi. Li contai. Cinque. Erano cinque schifosi broccoli. Ce la potevo fare. Feci un respiro profondo e presi in mano la forchetta. La strinsi talmente forte che a momenti si piegava.
«Fossi in te ci andrei cauta» mi avvisò il chirurgo «sai, mi piace mangiare piccante» sogghignò
«Non lo fare Cami» mi consigliò Usop e gli avrei anche dato ragione se non fossi stata testarda come un mulo.
«Adoro il cibo piccante» feci l’occhiolino a Traffy, che non smise di ghignare soddisfatto. Infilzai con decisione un broccolo e me lo portai alla bocca. Dopo averlo masticato per tre ore, finalmente mi decisi ad ingoiare. “Altri quattro” pensai “soltanto altri quattro. Poi potrò azzittire quello stronzo”. Arrivai al terzo quasi con le lacrime agli occhi. Non soltanto mi faceva schifo, ma era anche piccantissimo!
«Mh, che buono» dissi e a quel punto persino il cuoco e lo spadaccino smisero di litigare e si voltarono a guardarmi. Mangiai gli altri due per miracolo, resistendo ai conati di vomito che mi stavano venendo. Quando il mio piatto fu di nuovo vuoto bevvi tutta l’acqua che riuscii a trovare e quando ebbi prosciugato la bottiglia d’acqua mi versai del vino. Storsi la testa «Rassegnati Traffy. Ho vinto» alzai le spalle quasi a scusarmi della mia “vittoria”.
«Eh si, amico. Ti ha fregato» disse Zoro
«In pieno» confermò Sanji
«Già» affermò Usop
«Shishishi» rise Rufy «sei forte Cami». Mai mi ero sentita più fiera che in quel momento. Insomma, erano solo stupidi broccoli, non avevo fatto niente di che in confronto a tutte le imprese che avevano compiuto loro, ma se Monkey D. Rufy, nonché il futuro re dei pirati mi aveva detto che ero forte, qualcosa doveva pur significare, no? E poi avevo appena battuto Trafalgar Law al suo stesso gioco e con l’appoggio degli altri pirati.
«Domani cerca meglio.» si limitò a dire il medicastro
«Senti, io non ti conosco. So chi sei e so che sei temuto e sicuramente rispettato e che il tuo nome echeggia per tutti i mari, ma dovresti rilassarti un po’. Siamo tutti nella stessa situazione eppure non possiamo farci niente. Anche io odio essere impotente, ma che senso ha preoccuparsi?» fece tranquillo Marco. Dio, come lo adoravo. Sapeva essere schietto e conciso, ma gentile. Era simile a Ace in questo. Allargai le braccia «Grazie di esistere, Marco!» lui in risposta mi fece l’occhiolino.
Law alzò gli occhi al cielo e per il resto della sera prese possesso della bottiglia di vino. La finì in quattro e quattr’otto e mentre noi eravamo impegnati in un ballo di gruppo decisamente scoordinato, lui si rinchiuse in camera da letto. Qualche minuto dopo decidemmo di uscire nel terrazzino a guardare le stelle, tante volte avessimo ritrovato la famosa Seconda Stella a Destra. Portammo i materassi fuori e li disponemmo uno affianco all’altro, in fila. Prima di sdraiarci andai a chiamare Traffy. Bussai, onde evitare malintesi. Ovviamente non ricevetti risposta, quindi entrai comunque ma mi fermai sull’uscio della porta. Era semi sdraiato sul letto, intento a leggere il giornale. Aveva gli occhiali da vista.
«Ehi» non rispose, ma io non demorsi «abbiamo deciso di osservare le stelle, per vedere se quella che vi ha portato qui c’è, ti unisci a noi? Ci farebbero comodo un paio di occhi in più» ora, con quello sguardo gelido che si ritrovava, avrebbe anche potuto congelare tutti i corpi celesti e addio per sempre.
Ci mise un’eternità per rispondere. «Non appena ho finito di leggere questo articolo»
«D’accordo. Ti aspettiamo» uscii dalla stanza e mi richiusi la porta alle spalle. Chissà che articolo era e che cosa ci potesse essere scritto di più interessante dello stare in compagnia a guardare le stelle. Ritornai dagli altri scuotendo la testa.
Pochi minuti dopo, ci ritrovammo tutti e sette, stesi su tre miseri materassi, schiacciati come sardine, a osservare l’immensità del cielo stellato di quella sera.

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Capitolo 13
*** Aeroplani ***


«Eccola! Una stella cadente!»
«Dove Rufy!?»
«Proprio lì Usop, guarda!»
«Ehi non vi agitate! Mi farete cadere!»
«Capirai che botta, marimo. Va bene che hai così pochi neuroni che anche una minima caduta potrebbe sterminarli tutti, ma così mi sembra troppo. Sei su un cavolo di materasso a tre centimetri da terra»
«Sta’ zitto cuoco di merda o taglio a metà te e il materasso»
«Guardate! Lampeggia pure! E com’è lenta a cadere…» Rufy era in estasi.
Risi. Talmente tanto che persino Law si voltò a chiedermi che accidenti avevo da ridere. Averlo steso accanto a me mi dava un brivido di inquietudine.
«Quella non è una stella cadente Rufy. È un aereo!» ricominciai a ridere. Il capitano dei mugiwara si girò verso di me, perplesso, mettendo in serio pericolo l’equilibrio precario di tutti. «Aereo?» fece confuso
«Ah già…voi non potete saperlo»
«Spiegaci» incalzò Marco
«Avete presente il treno marino?»
«Certo!»
«Ecco. È un mezzo di trasporto, proprio come il treno marino, ma più veloce. Supponiamo che voi doveste passare dall’arcipelago Sabaody nel Nuovo Mondo»
«Veramente già l’abbiamo fatto» mi corresse Usop
«Si lo so ma era un esempio. Allora supponiamo che doveste tornare indietro»
«E perché dovremmo?» chiese Rufy
Sbuffai. «Non lo so, fingi che Sabo stia per essere giustiziato a Marineford e tu voglia assolutamente andare a salvarlo»
«Cosa!? Sabo sta per essere giustiziato!? Dobbiamo assolutamente tornare indietro! Non intendo far morire anche lui!» cappello di paglia si agitò, facendo cadere il chirurgo e lo spadaccino, che erano i più esterni e suscitando la loro ira «anche se a pensarci bene…Sabo è perfettamente in grado di cavarsela da solo» sorrise sornione, ignaro della sua sorte.
«Ma insomma Rufy!» si arrabbiò Zoro
«Calmati cappellaio. È solo uno stupido esempio» spiegò Law, infastidito ma calmo come al solito.  A quanto pare funzionò, perché si calmò all’istante e i caduti poterono risalire in mezzo a quell’accozzaglia.
«Dicevo, fingiamo per un momento che dobbiate tornare indietro. Anziché passare per l’isola degli Uomini-pesce, potreste utilizzare l’aereo e sorvolare la Red Line» ripresi
«Non ho capito»
Sospirai, esasperata. «D’accordo. Immaginatevi un grosso uccello, capace di portare un centinaio e passa di persone»
«Oh, ma è enorme!» Usop era strabiliato «ma un uccello così grande di cosa si nutre?»
«Di carburante, come la Sunny»
«Carburante? È un uccello alquanto strano»
«Già» feci io. Sapevo di aver spiegato male il concetto, ma non sapevo come altro farglielo capire.
«Voglio salirci uno di questi giorni!» il mio cuore perse un battito.
«No Rufy…non si può, mi dispiace»
«Perché no?» storse la bocca
«Perché…è un uccello riservato ai…» non sapevo proprio cosa inventarmi per dissuaderlo
«Nobili mondiali e alla marina» finì la frase Traffy, al posto mio. Non era così stronzo come poteva sembrare a quanto pareva. Me l’ero sempre immaginata un ottimo complice per cose di questo genere, perché almeno lui capiva.
«Tsk. Ti pareva» commentò Zoro
«Non mi importa nulla, io voglio salirci!»
«Ci arresteranno se saliamo senza permesso» disse Marco, che sapevo che aveva parlato solo perché anche lui aveva capito la situazione. Ero certa che altrimenti non se ne sarebbe curato. Ah, gli amici intelligenti.
«Ma se siamo invisibili!» fece Usop, che trovava il coraggio per fare qualcosa di proibito solo così
«Io no però! Vuoi far arrestare anche me?»
«Non ti azzardare a mettere in pericolo Cami-chan! Capito testa di rapa!?» il cuoco si era alzato in piedi e premeva un piede sulla faccia del suo capitano
«E poi come fareste a ritornare indietro? Sono uccelli molto complicati, per chi non ne è pratico» dissi e con mio grande sollievo si chetò e rinunciò all’idea, continuando a brontolare sottovoce.
«Senti Cami ma perché questo “aereo” lampeggia?» mi chiese Usop tutt’a un tratto
«Quando fa buio l’aereo accende delle luci lampeggianti per far capire dove si trova e in quale direzione sta procedendo, evitando così il rischio di collisione con un altro aereo»
«Oh, affascinante» disse «quando torno voglio chiedere a Franky se si possono mettere anche sulla Sunny queste luci»
«Buona idea» lo supportai
«Sempre se torniamo» fece il cecchino, pessimista come al solito
«Torneremo, non ti preoccupare.» affermò sicuro Law, intercettando il mio sguardo colpevole
«Smettila di affannarti Usop, qui è divertente» Rufy rise, già dimentico di quanto accaduto poco prima e io fui contenta di sapere che almeno uno di loro si stava divertendo. Dovevo ammettere che da quando c’erano loro ero più allegra, persino i miei lo avevano notato. Mia mamma mi aveva chiesto se mi ero innamorata, provocandomi un quasi soffocamento con l’acqua che stavo bevendo sul momento e un conseguente vistoso arrossimento. Ovviamente per coprire l’imbarazzo avevo riso, perché non era affatto così, non mi stavo affatto innamorando. Ero solo contenta di averli lì con me. Mi faceva sentire speciale il fatto che io potessi vederli e gli altri no o che potevo decidere se e quando farli vedere agli altri. E si, mi sentivo speciale perché una stella aveva esaudito uno dei miei desideri. A dire la verità, non sapevo nemmeno perché mi ostinavo a voler trovare una soluzione a quel problema che più di tanto problema non era. La parte egoista di me avrebbe voluto incatenarli lì per sempre, perché loro sapevano rendere migliori le mie giornate. E gli bastava così poco per farlo. Ma la mia parte razionale diceva che era colpa mia se erano finiti lì in quello schifo dove stavo io e che quindi dovevo cercare e trovare assolutamente un modo per farli tornare a casa. Finora non l’avevo trovato e non si era posto il problema, ma laddove l’avessi trovato, quale parte di me avrebbe prevalso? Sarei stata così tanto cattiva da tenerli all’oscuro di tutto, facendoli rimanere per sempre con me, impedendogli di realizzare i loro sogni? Oppure avrei fatto la cosa giusta, rimandandoli nel loro universo e rimanendo con un pugno di mosche in mano e in preda alla depressione?
Mi alzai da quel giaciglio improvvisato e con un po’ di sforzo mi districai da quell’intreccio di corpi.
«Credo che sia ora che io vada» dissi «chi si offre di accompagnare questa giovane fanciulla a casa propria?» domandai ironicamente, consapevole che a parte Sanji nessuno si sarebbe offerto
«Vengo io»
Mi voltai verso il proprietario di quella voce, con un sopracciglio alzato e la bocca leggermente aperta «Tu?»
«Si, io. Ora sbrigati, prima che cambi idea»
«Oh in tal caso fammi prendere l’ombrello, non sia mai che piova durante il tragitto» dissi sarcastica
«Muoviti, stupida ragazzina» era rientrato, aveva preso le chiavi e stava aspettando sull’uscio della porta.
«Posso fidarmi?» chiesi furtivamente al cuoco. Lui asserì e io mi diressi verso la porta.
Qualche minuto dopo, ancora non sapevo come, camminavo fianco a fianco con il temibile chirurgo della morte. Rimanemmo in silenzio per tutto il tragitto e fu piuttosto imbarazzante. Quando finalmente arrivai al portone d’ingresso e infilai la chiave nella toppa lui decise di parlare «Domani faremo le ricerche insieme»
«Come?» rimasi interdetta
«Voglio risolvere questa situazione al più presto. L’idea non piace neanche a me, ma rassegnati. Ho deciso così.»
«No, no fermo. Da quando in qua tu decidi?» mi arrabbiai, ma cercai di darmi un contegno. Era tardi e dormivano tutti e in più avevo davanti un interlocutore piuttosto difficile e imperscrutabile. Era meglio non rischiare, dato che eravamo pure soli e stavolta nessuno avrebbe potuto salvarmi da un suo possibile attacco.
«Da quando tu ci hai trascinati in questa merda» nonostante le parole pronunciate, il suo tono era distaccato. Beh, su questo non potevo dargli torto.
«E mi dispiace, ok? Ma ci sto provando, con tutte le mie forze»
«Evidentemente non è abbastanza. Sarò da te domani alle nove. Buonanotte.» si girò e si incamminò, lasciandomi sull’uscio della porta come una cretina, a bocca spalancata. «Cosa?» dissi dopo ore. Alle nove? Perché così presto? E mi aveva dato la buonanotte? Oh Cielo. Entrai in casa ancora più confusa di prima. Tanto ormai andava di moda essere confusi, e nella mia testa c’era talmente tanta confusione che ormai la regalavo insieme all’ansia. Due al prezzo di uno. “Sarà meglio che me ne vada a letto. Ho già capito che domani mi aspetta una delle tante altre giornate di fuoco.” Mi infilai a letto e chiusi gli occhi, imponendomi di dormire nonostante la miriade di pensieri che mi vorticavano in testa. Alla fine, dopo un po’ fortunatamente mi addormentai.
Stavo facendo un bel sogno. Nuotavo in una piscina di cioccolata con Ian Somerhalder e i delfini, che erano caramelle gommose, quando fui bruscamente svegliata da una luce puntata dritta nelle pupille. Strizzai gli occhi, liberando le palpebre dalla presa della figura che mi aveva appena svegliato. Quando misi a fuoco chi fosse, per poco non mi prese un colpo. Mi portai una mano al petto e mi tirai su, appoggiando la schiena alla testiera del letto. Chiusi gli occhi e reclinai la testa all’indietro, ansimando e cercando di recuperare tutti i battiti che avevo perso. Non era una novità chi fosse, ma ciò non toglie che uno spavento bello e buono me l'ero preso! Non era questo il modo di svegliare la gente, accidenti a lui!
«Co…come…come diav…oh, merda» mi passai una mano tra i capelli e mi allungai verso il comodino, per prendere una sorsata d’acqua dal bicchiere che tenevo sempre lì la notte. Bevvi e mi ripresi. «Come diavolo sei entrato?»
«Non ha importanza. Sono le nove e sette minuti e sei in ritardo.»
«Ma vaffanculo! Prima o poi mi farai impazzire e a quel punto dovrai fartele da solo le tue ricerche del cazzo!» mi alterai e lui sogghignò.



Angolo autrice:
Ciao a tutti! Finalmente dopo tempo, eccomi di nuovo qui!
Il capitolo non è nulla di speciale, non era nemmeno previsto a dire la verità, ma mi è venuto così e ho deciso lo stesso di pubblicarlo. Spero di riuscire a strapparvi qualche risata e spero che qualcuno lascerà comunque qualche recensione. :)
Alla prossima!
 

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Capitolo 14
*** Ricerche ***


Alla fine mi alzai. Piuttosto incazzata e controvoglia, ma mi alzai. Praticamente mi aveva obbligato, quel bastardo.
«Vuoi qualcosa da mangiare?» chiesi giusto per cortesia mentre alzavo le tapparelle
«No. E nemmeno tu. Mangerai quando abbiamo trovato quello che cerchiamo.»
Eh no, così era troppo. Nemmeno fosse Mihawk che aveva proibito a Zoro di bere fin quando non fosse riuscito a usare correttamente l’Haki. Privarmi del cibo, no. Privarmi del mio, amatissimo cibo avrebbe portato a risultati pericolosi.
«Trafalgar D. Water Law.» lo chiamai. Lui si irrigidì e strinse la mano a pugno. Sfortunatamente, non vidi la sua espressione perché mi dava le spalle. Dopo che ebbe disteso le dita, si girò verso di me. «Come sai il mio vero nome?» mi chiese con estrema calma. Ma si vedeva che lo avevo turbato, anche se solo in minima parte.
«Te l’ho detto. Io so tutto di voi» feci un sorriso di sfida
«Ciò che sai non deve uscire dalla tua bocca, chiaro?»
«Puoi stare tranquillo» lo rassicurai e intanto ridacchiai tra me e me. I fatti suoi li sapeva mezzo mondo, del resto e non sarei stata di certo io a dirglielo.
«Mettiamoci al lavoro»
«Se permetti, prima vado a fare colazione. Il mio cervello non funziona bene a stomaco vuoto»
«Fai in fretta».
A quanto pare avevo trovato un modo per poterlo avere in pugno. Ottimo. Sorrisi per tutto il breve tragitto da camera mia alla cucina e una volta arrivata, spalancai lo sportello della dispensa in cerca di cibo. In realtà gli avevo rifilato una bugia. Non facevo quasi mai colazione e di certo non avevo voglia di farla quel giorno, mi serviva solo un pretesto per perdere tempo. L’idea di passare la mattinata con il chirurgo della morte non mi allettava per niente. Sgraffignai dallo scaffale un pacco di biscotti e tornai di là, trascinando i piedi. Il mio amico del cuore nel frattempo si era già sistemato, aveva acceso il computer – io ancora avevo problemi a farlo – e aveva occupato la mia sedia. Nemmeno si girò, mi ordinò solo di inserire la password. Presi la sedia dall’altro lato della scrivania e gli diedi un colpo di fianchi che lo spostò quanto bastava per farmi entrare in quello spazio angusto. Sbagliai tre volte la parola d’accesso e Law mi squadrava come se fossi ebete. Gli avrei anche dato ragione, se non fosse stato lui. Mentre tentavo per la quarta volta, inaspettatamente mi rivolse la parola.
«Seconda stella a destra, eh?»
Mi voltai leggermente verso di lui, che sorrideva. Lo guardai di traverso e poi scossi la testa, ghignando a mia volta. «Stavi ascoltando»
«Stai premendo il tasto T da due minuti buoni» disse semplicemente. Io spostai lo sguardo sulla tastiera del computer e mi accorsi che era come aveva detto. Non me ne ero nemmeno resa conto. Fui costretta per l’ennesima volta a cancellare la password e alla fine, al quinto tentativo, ce la feci. Non volevo dargliela vinta, però.
«Allora anche tu hai problemi d’insonnia»
Non rispose ma io lo braccai. Mi girai con tutto il corpo verso di lui e con il viso poggiato sulle mani e le mani a loro volta poggiate sulle ginocchia, cominciai a fissarlo, con la faccia di una bimba curiosa. Lui teneva gli occhi incollati allo schermo del computer e fece per allungare una mano verso la tastiera ma io fui più veloce. Con uno scatto fulmineo chiusi il pc e fortunatamente il chirurgo fu abbastanza veloce da levare il braccio, che avrebbe sicuramente fatto una brutta fine. Quel braccio aveva passato certamente momenti migliori rispetto agli ultimi tempi. Comunque io non avevo intenzione di schiacciarglielo, volevo solo andare fino in fondo alla questione.
«Riapri il computer»
«No. Non finché non ammetterai che soffri d’insonnia»
«Peggio per te» disse piano «staremo qui più tempo».
Quella frase non mi piacque affatto. Prima o poi avrebbe dovuto lasciarmi andare, volente o nolente.
«Sarà peggio anche per te, perché dovrai sopportarmi di più» sogghignai
«Stavo dormendo. Le vostre fastidiose voci mi hanno svegliato» affermò con insolenza
«Ma tu senti! Non provare a dare la colpa a noi!» risi. Il mio divertimento cresceva a ogni sua frase «parlavamo pianissimo e dal salotto nessuno poteva sentirci, nemmeno tu»
«A quanto pare posso»
«Ammetti che non riuscivi a dormire e finiamola qui, Traffy». Riportai lo schermo del computer a 90 gradi e vidi il chirurgo della morte rimanere immobile a fissare lo sfondo del desktop. Oh merda. Mi ero scordata di Cora-san! L’immagine ritraeva Law, sdraiato con le mani sugli occhi e la figura sbiadita di Corazòn, in ginocchio che sovrapponeva le dita alle sue, con la scritta al centro “I miss you”. Da una parte stavano il cappello maculato e la nodachi. Mi morsi il labbro, in attesa e per un po’ nessuno dei due disse niente. Poi Trafalgar girò la testa verso di me «Non mi piace dormire»
«Capisco. Ecco perché eri sveglio» avrei voluto aggiungere “e origliavi le nostre conversazioni” ma non mi sembrava il caso.
«Quando si dorme si perde il senso del tempo»
«E tu non puoi permettertelo» mi sfuggì. Lo pronunciai quasi come un rimprovero. Per tredici anni si era preparato alla sconfitta di Doflamingo, aveva messo a punto il piano e aveva pazientemente aspettato. Chissà quante notti di sonno aveva perso. Chissà quanto si era consumato aspettando la sua vendetta. Chissà quante notti aveva sofferto in silenzio. Ma ora era tutto finito. Aveva vinto. Aveva ottenuto la sua vendetta. Non c’era motivo di angosciarsi. Potevo capirlo, era in un mondo che non era suo e voleva tornare a casa sua, ma non avrebbe risolto niente in quella maniera. Mi preoccupavo per lui, ecco tutto.
«Dormire è bello» dissi infine io «ti fa scordare per un attimo tutte le cose brutte»
«Riprendiamo le ricerche».
Il mio stomaco gorgogliava da minuti ormai, o forse ore, non lo sapevo più nemmeno io. Sapevo solo che era da troppo tempo che stavamo davanti a quel computer. L’orologio segnava le due e un quarto e io avevo fame. Mi ero portata i biscotti, era vero, ma non bastavano più. Il mio corpo chiedeva un nutrimento più sostanzioso.
«Traffy, ti prego, sono ore che stiamo qui, andiamo a mangiare» piagnucolai
«Mi pare di essere stato chiaro. Nessuno mangerà finché non avremo trovato qualcosa.»
Mi afflosciai contro la superficie liscia della scrivania. Avevamo navigato in internet il lungo e in largo e non avevamo cavato un ragno dal buco. Evidentemente non c’era nessun ragno in quel maledetto buco, Law doveva rassegnarsi e lasciare che le cose facessero il loro corso.
«Ma Sanji ci sta aspettando…sarà in pensiero per me»
«Non ti lamentare e continua a cercare»
«Uffa» mi lamentai invece. Eravamo già alla tredicesima pagina dei risultati di ricerca per “Seconda Stella a Destra desideri” e avevamo meticolosamente esaminato ogni articolo che compariva su ogni pagina. Avete una minima idea di che cosa significhi? Io si. E non ero nemmeno più sicura di averla, visto che non ci capivo più niente. Quello stronzo nazista non mi aveva nemmeno fatto andare in bagno. Fortuna che avevo la vescica resistente. Avevo perso ogni speranza e temevo che la mia vita sarebbe finita lì, su quella sedia e davanti a quel computer. Sarei morta di fame o di disidratazione, perché no. Il che era ironico, dato che accanto a me c'era un medico. Scorrevo la rotellina del mouse e cliccavo sugli articoli senza nemmeno più farci caso.
«Traffy io sono una semplice umana. Non ho poteri dati da frutti del diavolo, non so usare l’ambizione e sicuramente la mia resistenza a qualsiasi tipo di fatica fa schifo» avevo cominciato a dire «perciò ti supplico, mi metto in ginocchio se vuoi, smettiamo e andiamo a pranzo. Lascio il computer acceso e non appena avremo finito ti prometto che continuer…» il suo braccio mi fermò. In tutti i sensi. Lo guardai come si guarda un povero cane randagio, perché sicuramente doveva essere impazzito pure lui. Ma quando rivolsi gli occhi allo schermo, capii che non era così. “Leggenda della Seconda Stella a destra”, c’era scritto. Ci cliccai sopra e lessi tutto ciò che c’era scritto, comprese le note, trattenendo il fiato. Una volta finito, potei respirare. Mi fermentai e cominciai ad agitarmi sulla sedia. Indicai con il dito tremolante l’articolo e dalla gioia misi un braccio intorno alle spalle di Law, che sorrideva soddisfatto.
«Guarda Traffy, l’abbiamo trovato!» esclamai «Oh…scusa, scusa» dissi poi, vedendo che mi fissava, infastidito dal gesto di poco prima e togliendo il braccio dalle sue spalle. Fece quella che mi parve essere una piccola risata e stavolta fu lui a mettermi delicatamente una mano sulla spalla, sotto il mio sguardo allibito.
«Hai fatto un buon lavoro Cami. Andiamo a pranzo»

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Capitolo 15
*** Notizie ***


Non me lo feci ripetere due volte. Ci precipitammo  o meglio, io mi precipitai, Law si limitò a starmi dietro infastidito da tutta quella fretta, dagli altri. Sapevo che in realtà aveva fretta di andare a mangiare anche lui. Quando finalmente arrivammo a casa, non c’era nessuno a tavola. Avevano tutti finito di mangiare, giustamente. Perfino l’insaziabile Rufy ora stava steso sul suo materasso in preda al sonno post pranzo. Sanji invece, lavava amabilmente le stoviglie e quando ci sentì arrivare si girò contento come non mai.
«Cami! Finalmente sei qui, mio dolce bocciolo di rosa!»
«Ce l’abbiamo fatta!»
«Dateci notizie» disse calmo come al solito Marco, che fece capolino dal divano. In mano aveva un libro che era appartenuto a mio nonno. A quanto pare in parecchi amavano leggere là in mezzo.
«Prima nutriteci» supplicai in preda a un calo di pressione. Tra la fame, la corsa per arrivare lì e il caldo dovetti sedermi per riprendere le forze.
«Certo mia cara!» esclamò Sanji, togliendosi i guanti in gomma che ero riuscita a procurargli qualche giorno prima e prodigandosi a tirare fuori da un mobile che usava come scompartimento segreto anti-Rufy i piatti per me e Law. Mi avventai su quel cibo come un avvoltoio si avventa sulla carcassa di un animale morto. Da tutto quell’abbuffarmi rischiai di strozzarmi per ben due volte e per ben due volte, con mia somma soddisfazione, vidi Traffy che buttava un occhio su di me e mi faceva segno di prendere la bottiglia d’acqua lì vicino. Che finalmente avesse iniziato a non odiarmi?
«Ottimo pranzo, cuoco» disse il chirurgo dopo che si fu elegantemente pulito la bocca con il tovagliolo
«Cami, piace anche a te?» mi chiese speranzoso il biondo, che nel frattempo aveva finito di lavare i piatti e li stava riponendo con cura al loro posto. Non risposi. Ero troppo impegnata a gustarmi i manicaretti.
«Non so se sia la fame a parlare ma questa volta Sanji ti sei proprio superato!» biascicai con la bocca ancora non del tutto vuota mentre agguantavo un panino. Il cuoco gioì come un bambino davanti a un negozio di caramelle e si mise a volteggiare per tutta la stanza.
«Sono così affamata che potrei mangiarmi un bufalo intero!» esclamai io dopo aver dato un consistente morso al pane
«Io una volta l’ho mangiato!» si ridestò Rufy
«Confermo» fece Usop
«Non avevo dubbi!» risi. Ero allegra anche se non del tutto serena. L’articolo che avevo trovato risolveva l’enigma che ci aveva perseguitato per giorni, ma ciò implicava che se non ci fossero stati altri intoppi presto se ne sarebbero tornati a casa e io non volevo. Sapevo di essere egoista in questo, ma che ci potevo fare se i giorni che avevo trascorso con loro erano stati i più felici della mia vita? Che potevo fare se con loro stavo così bene da dimenticarmi tutte le cose brutte? Non potevano andarsene proprio in quel momento, sarebbe stata una doccia fredda o peggio. Non mi ricordavo nemmeno come fosse prima. Per me ora esisteva solo il presente. Vivevo giorno per giorno come era giusto che fosse. Non potei continuare la mia riflessione perché quando vidi Law alzarsi da tavola, lo intercettai.
«Traffy…» cominciai. Lui alzò lo sguardo verso di me, ma non si rimise seduto. Non sapevo come fare a dirgli quello che volevo dirgli e inspirai varie volte, ma dalla mia bocca non uscì niente.
«Quando saprai cosa dire mi trovi sul divano» disse, dopo un po’ che non parlavo. Il suo tono mi stupì, non era il solito tono distaccato o infastidito. Forse finalmente si era rilassato e anche un po’ addolcito.
«Mi dispiace che tu abbia dovuto vedere quell’immagine» sputai fuori tutto d’un fiato, prima che potesse muovere un passo «non ci ho pensato, non avresti dovuto vederla, scusa» continuai
«Non sono affari miei. Le immagini che hai sul tuo computer sono un problema tuo, non sarò di certo io a impedirti di averle».
Rimasi quasi a bocca aperta. Con tutte le risposte che poteva dare quella era l’ultima che mi sarei aspettata. Il tono era ritornato quello impassibile di sempre, ma la sua risposta era di una maturità inimmaginabile, almeno per quanto mi riguardava. Wow, ero davvero spiazzata. Così, dissi l’unica cosa che potevo dire in un momento del genere, nonché l’unica che mi venne in mente «Comunque se ti interessa, “I miss you” significa “mi manchi”»
«L’avevo intuito»
«Tu sai sempre tutto, del resto» sorrisi e mi alzai anche io da tavola.
«Ad ogni modo l’immagine è stata fatta bene» commentò sovrappensiero
«Sono d’accordo. Però non ti ci so vedere con le lacrime agli occhi» confessai imprudentemente. Non disse nulla. Buttai uno sguardo ai resti della mia abbuffata e guardai il cuoco che ancora lavava i piatti. Quasi come se sapesse che lo stavo fissando, si girò e mi fece cenno che ci avrebbe pensato lui. Perché non esistevano uomini come lui nel nostro mondo? Lo guardai grata e andai a sedermi sul divano con il mio nuovo quasi amico. Era tempo di aggiornare la ciurmaglia.
«Siamo tutt’orecchi» cominciò Marco, stranamente impaziente di sapere. Forse cominciava a mancare casa anche a lui.
«Ci siamo tutti?» chiesi, vedendo che mancavano un paio di persone all’appello. Sanji stava ancora asciugando le stoviglie e Zoro sonnecchiava amabilmente. Rufy, come lo spadaccino, era mezzo addormentato e di sicuro non avrebbe capito il discorso.
«Mia cara Cami tu parla pure, la tua soave voce mi arriva come una brezza» disse il biondo senza girarsi. Da dove le tirava fuori certe frasi dovevo ancora scoprirlo.
«Tu dicci, che tanto queste due teste di rapa non capirebbero comunque» fece Usop indicando capitano e vice capitano che ormai erano tra le braccia di Morfeo.
Sospirai rassegnata e cominciai a riferire tutto ciò che avevo letto la mattina con il chirurgo, che di tanto in tanto annuiva.
«Avete capito?» domandai alla fine della spiegazione, che durò un quarto d’ora buono.
«Wow» disse Marco
«Già» si aggregò il cecchino
«Quindi mi stai dicendo che la sera in cui comparirà questa famosa stella torneremo a casa?» chiese Sanji, buttando fuori il fumo della sigaretta appena iniziata
«Si»
«Ma comparirà solo dopo che tutti e tre i tuoi desideri saranno esauditi» ancora una volta non avevo capito se quella della fenice era una domanda o un’affermazione.
«Si. Almeno credo. Non possiamo prendere l’articolo come fonte sicura al cento per cento»
«Beh, i tuoi desideri dovresti volerli esaudire per te stessa, non per uno stupido articolo trovato chissà dove» affermò il cuoco. Mi resi conto che non poteva avere più ragione. Avevo perso me stessa, letteralmente. Mi ero scordata cosa volesse dire fare qualcosa per se stessi.
«Per chi e come li esaudisce non ha importanza» intervenne Law «basta che una volta esauditi torneremo nel nostro universo»
«Ci proverò anche se non sono facili da realizzare»
«Non mi interessa. Sbrigati a soddisfarli.» ecco, era tornato il solito Traffy. Si alzò dal divano e si ritirò in camera sua. Anche gli altri, non so come o dove, si dileguarono.
L’articolo che avevo letto parlava della leggenda della Seconda Stella a Destra. Si narra che se credi fermamente in Peter Pan e vedi due stelle e quella a destra è più grande e brilla di più, quello è proprio Peter che viene a farti visita come ringraziamento per credere in lui; e se esprimi tre desideri lui li esaudirà per te, sussurrandoti parole dolci e cospargendoti di polvere magica di Campanellino. Poi veglierà su di te mentre dormi. La parte della polvere magica non credo che mi fosse successa, o almeno non che ricordassi, ma comunque senza dubbio l’articolo c’entrava con la mia situazione. Raccontava anche dell’esperienza di una ragazza di nome Hanna che come me aveva un disperato bisogno di qualcuno o qualcosa e che credeva nella Seconda Stella a Destra. Una sera era comparsa in mezzo alle altre stelle e lei l’aveva riconosciuta. Aveva espresso i suoi desideri e aveva sentito la Stella che le sussurrava “stai tranquilla, andrà tutto bene”.  Ero sicura che quella che avevo sentito io fosse una frase diversa, sebbene non riuscissi a ricordarmela. La ragazza aveva desiderato di essere magra, di avere tanti amici e di trovare un ragazzo. Raccontava di come qualche mese dopo, grazie alla palestra, fosse dimagrita e si fosse fatta tanti amici, tra cui c’era anche il suo fidanzato. Diceva di aver provato una felicità che non provava da tempo. Anche lei, come me, aveva espresso quei desideri senza pensarci, perché erano quelli che venivano dal cuore. Una volta che tutti e tre furono realizzati rivide la Seconda Stella a Destra. Era venuta a dirle che poteva esprimere un ultimo desiderio, per ringraziarla di aver creduto in lei fino alla fine. Hanna non desiderò niente perché aveva già tutto ciò che poteva desiderare. Era felice della sua vita. E io adesso sapevo cosa fare. Dovevo solo capire come farlo.
«Che mi sono perso?» Rufy aveva smesso di ronfare e si guardava intorno curioso. Sorrisi, mi alzai dal divano andandomi ad inginocchiare accanto al suo materasso e gli scompigliai i capelli «sei sempre il solito»
«Mi sono addormentato…è che qui non c’è niente da fare e mi annoio» disse storcendo la bocca
«Allora ti troveremo qualcosa da fare» gli sorrisi e lui sorrise a sua volta, regalandomi un piccolo angolo di paradiso.

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Capitolo 16
*** Passatempi ***


I giorni passavano e io mi divertivo come non mai. Anche se gli animi di qualcuno – principalmente Law – diventavano mano a mano sempre più irrequieti, io stavo bene. Per calmare un po’ la sete di sangue del chirurgo gli avevo insegnato un gioco con le carte che andava a genio con la sua personalità, Machiavelli. A dire la verità avevo tentato di insegnarlo a tutti, ma per un motivo o per un altro eravamo sempre io, Traffy e Marco a giocare. Rufy mi aveva chiesto di imparare, ma ci avevo perso le speranze ancora prima di iniziare a spiegare, Zoro si addormentava dopo dieci minuti – come se anche lui avesse capito –, Usop tentava di barare e per questo rischiava di essere ucciso da Law se giocava quindi ovviamente aveva troppa paura e Sanji aveva sempre da cucinare o da lavare i piatti e solo raramente si univa a noi.
«Ho vinto ancora!» sorrisi soddisfatta alla vista di Marco che buttava sul tavolo le carte che aveva in mano e sbuffava «non ti sei ancora stufato di perdere, Fenice?» lo provocai
«Vedrai che prima o poi vincerò» assottigliò gli occhi
«La prossima volta scommettiamo soldi!» esclamai
«Ti dovrai accontentare dei soldi del Monopoli allora» il biondo si passò una mano sulla nuca
«Monopoli? Quando vi ho insegnato a giocare a Monopoli?»
«Non l’hai fatto. Abbiamo trovato per caso la scatola» comunicò tranquillissimo il moro che nel frattempo si era alzato e si stava incamminando verso la sua stanza stiracchiandosi. Non lo voleva dare a vedere ma la sconfitta bruciava anche a lui. Del resto, non conoscevo persona più machiavellica del chirurgo e perdere  a un gioco del genere doveva frustrarlo parecchio.
«Ah, buono a sapersi» dissi cercando di non sembrare troppo perplessa. Com’è che loro trovavano pure Atlantide e io non riuscivo a trovare nemmeno due calzini uguali? I misteri della vita.
«Per oggi direi che ti ho umiliato abbastanza» diedi una gomitata affettuosa alla fenice, che scosse la testa sorridendo. La cosa che mi piaceva di Marco era il fatto che potevo provocarlo quanto volevo, tanto non se la prendeva anzi, rideva con me. Pensai a come doveva essere la vita sulla nave di Barbabianca. Di certo aveva sviluppato tutta quella pazienza dopo che aveva avuto a che fare con individui come Satch e Ace. Vivere su quella nave non doveva essere affatto facile, specialmente se eri il comandante in seconda e dovevi sorbirti tutto il giorno quegli scalmanati. Pensai a Marco, a quanto fosse cambiata la sua vita. Dallo sbuffare per la marachelle che combinavano gli altri comandanti al sospirarne per l’assenza. Dal ridere insieme a loro al piangere da solo. Quasi mi ci venivano le lacrime agli occhi. Uno dopo l’altro li aveva persi tutti.
«A cosa pensi?» mi chiese
«A niente» mentii
«Su, sputa il rospo» mi incitò «Ace faceva la tua stessa faccia quelle poche volte che rifletteva su qualcosa»
Non potei fare a meno di sorridere a quella frase, venire paragonata ad Ace era qualcosa che mi irradiava immensa gioia. Squadrai attentamente la sua faccia e sembrava serena. Né triste, né malinconica, né nostalgica.
«Stavo pensando al fatto che non vedo l’ora di batterti di nuovo a Machiavelli» gli feci la linguaccia e lui piegò la bocca in un sorriso, si alzò, mi accarezzò la testa e disse «Dato che non me lo vuoi dire, vado a sdraiarmi su uno dei materassi». Ero certa che la fenice era una di quelle persone a cui se dicevi che ti dispiaceva per le loro perdite, ti rispondevano di non essere tristi per loro e ti sorridevano. Solo che Marco era sincero, lo pensava davvero.
«Domani comunque giochiamo a scacchi» annunciò con un sorriso sadico sulla faccia. No. A scacchi no. A parte il fatto che non ci avevo mai capito niente di quel gioco, lo trovavo tremendamente noioso. In più sapevo che lui era bravo. O meglio, l’immaginavo, d’altronde cosa puoi aspettarti da uno che dice “Non puoi mangiare il re alla prima mossa” nel bel mezzo di una guerra? Il momento in sé mi aveva emozionato molto e per quanto la ritenessi una delle più belle frasi dell’intero manga, l’idea di giocare a scacchi con la fenice mi eccitava quanto Doc Q che faceva le spugnature a Barbanera. Non feci in tempo a pensare ad altro che mi addormentai con la testa sul tavolo e sognai pure Teach che si faceva il bagno, mannaggia a me che mi immaginavo certe cose.
Mi risvegliai con uno strano senso di nausea e un dolore indescrivibile alla schiena e al collo. Pensai subito al peggio. Mi avevano rapita e stavano facendo esperimenti su di me, erano entrati i ladri e mi avevano sparato, Traffy si era deciso a farmi fuori e aveva scambiato tutti i pezzi del mio corpo.
«…ocentodue, ottocentotre, ottocentoquattro…»
«Ma che diav…»
«Ehi, non agitarti così o mi farai perdere il conto!»
Solo dopo qualche secondo realizzai che la mia nausea e il mio dolore lombare dipendevano dal fatto che stavo facendo da bilanciere a Zoro. Mi sollevava con la stessa facilità con cui io avrei potuto sollevare una piuma. A tal punto che mi lanciava anche in aria, per poi riprendermi con due dita che puntualmente mi si conficcavano nella spina dorsale.
«Zoro!» gridai «mettimi subito giù!»
«Ti ho detto di non agitarti»
«Zoro! Fammi scendere! Ora.»
«E dai, fammi arrivare almeno a mille. Ah poi devo fare l’altro braccio»
«Se non mi fai scendere ti vomito addosso» lo minacciai, e la minaccia era fondata visto che con tutto quel su e giù avevo un senso di nausea tremendo. Funzionò perché finalmente mi mise giù. Faticai a stare in piedi, sia perché mi ero svegliata da poco sia perché quel pazzo mi aveva sballottata troppo, infatti mi dovette reggere per qualche minuto buono.
«Come cazzo ti è venuto in mente di usarmi come peso per i tuoi allenamenti!?» ero furiosa
«Calmati. Non stavi facendo niente e io avevo bisogno di allenarmi, così ne ho approfittato»
«Non stavo facendo niente!? Stavo dormendo, cazzo!»
«Scusa, scusa. Non vali neanche tanto come bilanciere» fece annoiato. A quelle parole ero pronta a fare la sfuriata più grande della mia vita. Diventai rossa dalla testa ai piedi e alzai un indice, ma quando fui sul punto di parlare dovetti sedermi sul divano e coprirmi la bocca con una mano, mentre con l’altra mi tenevo lo stomaco. Mi era venuto un conato di vomito abbastanza potente.
«Ti porto un bicchiere d’acqua?» mi chiese il verde, atono. Io feci di si con la testa. Andò in cucina e quando tornò con l’acqua – strano ma vero, non si era perso – mi accorsi di una cosa che tra furia e nausea non avevo ancora avuto modo di notare.
«Dove sono tutti gli altri?» domandai, temendo la risposta. Effettivamente se in casa ci fosse stato Sanji, non avrebbe mai permesso che il marimo mi maltrattasse così.
«Sono usciti» rispose Zoro con tranquillità
«Come usciti? E dove sono andati?» già mi stavo agitando. Mi alzai in piedi per controllare se fossero in terrazza, ma non c’erano. Erano proprio usciti.
«Ah non lo so, non chiederlo a me, io dormivo» si rimise steso sul sofà e chiuse gli occhi
«Dormivi? Strano!»
«Comunque dopo devo fare l’altro braccio»
Gli tirai un ceffone così forte che Nami sarebbe stata fiera di me. Riaprì gli occhi sconvolto «Ma che caz…»
«Se solo provi a riusarmi come attrezzo per la palestra ti garantisco che te ne faccio pentire» gli soffiai sull’orecchio prima di andare a rimettermi sulla sedia dove mi ero addormentata, a giocare al solitario con le carte.
«Brutta mocciosa…» borbottò e si rigirò dall’altra parte. Lo ignorai solo perché nel dargli lo schiaffo ci avevo messo talmente tanta forza che mi ero fatta male alla mano e non potevo ridargliene un altro dello stesso calibro. Tanto di sicuro si era già addormentato. Avrei voluto svegliarlo per vendicarmi, ma quello non si svegliava neanche con una cannonata, letteralmente. Perché non poteva dormire quando anche io dormivo? O meglio, perché non poteva restare addormentato in quei rari momenti in cui mi concedevo un pisolino pomeridiano?
Continuai a fare il solitario per un tempo indeterminato finché non sentii una chiave girare nella toppa. Finalmente erano tornati.
«Ehi, dove siete stati?»
«Abbiamo fatto compere» mi rispose Marco, cordiale, poggiando delle cianfrusaglie sul tavolo dove ero seduta anche io e sommergendo le mie amate carte. Ora, dire che avevano fatto compere era un eufemismo. Sembrava fossero tornati da una vacanza di un mese per quanta roba avevano riportato.
Al mio sguardo perplesso, Usop mi rassicurò «E pensa che metà della roba l’ha mangiata Rufy durante il tragitto»
Aggrottai la fronte per un secondo, per poi ridere. Ormai non mi stupivo più di quasi niente.
«Cami-chan scusaci se siamo usciti senza avvisarti, ma il frigo era vuoto e dovevamo fare la spesa. Tu dormivi e non volevamo svegliarti» fece apprensivo Sanji «eri così carina mentre eri immersa nei tuoi sogni» aggiunse, partendo anche stavolta per la tangenziale.
«Da oggi abbiamo deciso che due volte a settimana usciremo per comprare o meglio, rubare, tutto quello che ci serve. Uno di noi però, a turno, resterà a fare la guardia a casa» mi spiegò Marco, impeccabile come al solito. Dovevo ammettere che la loro era una bella strategia. Tanto anche se fossero entrati i ladri uno di loro bastava tranquillamente a spazzarli via tutti.
«Stavolta è toccato a Zoro» disse Usop in tono ovvio
«Beh perché dormiva e non riuscivamo a svegliarlo» affermò Sanji con aria annoiata, a indicare che quella scena si ripeteva sempre «tanto sapevamo che con lui c’eri tu Cami-chan e la casa era in mani sicure»
Se la casa fosse in mani sicure non lo sapevo – anche se sospettavo di no – ma comunque quella a non essere in mani sicure ero io, letteralmente parlando. Non dissi niente perché sapevo che se avessi fatto intendere anche solo mezza cosa al cuoco si sarebbe scatenata un’altra lite e io dei loro battibecchi non ne potevo più, per quanto morissi dalla voglia di far svegliare Zoro da Sanji, magari con uno dei suoi potentissimi calci. Rinunciai all’idea non appena vidi il marimo che dormiva come un angioletto. Avevo pur sempre un cuore, no? Per il resto del pomeriggio, aiutai la banda a sistemare gli acquisti – se così si potevano chiamare – evitando che finissero nelle mani di cappello di paglia, anche se non c’era solo cibo ma anche altre cose utili. Finimmo verso l’ora di cena, stanchi e affamati ma soddisfatti. Guarda caso, proprio nel momento in cui finimmo di mettere l’ultima scatola sullo scaffale, lo spadaccino si svegliò. Con calma, si stiracchiò, si alzò e guardò l’ora sull’orologio a muro della cucina.
«Non è ora di cena?»
«Non è ora che stai zitto?» soffiai io, ancora arrabbiata per quanto successo nel pomeriggio. Mi guardò in cagnesco, ma il mio sguardo era più arrabbiato e perfettamente in grado di sostenere il suo.
«Cami-san lascialo perdere» mi suggerì il biondo «vieni a mangiare il cibo che ho preparato con tanto amore per te».
Ascoltai il suggerimento e smisi di osservarlo, mantenendo però l’espressione contrariata e massaggiandomi la schiena nei punti dolenti. Qualche minuto dopo eravamo tutti con le forchette affondate nei rispettivi piatti, a fare versi abbastanza equivoci che esprimevano quanto fosse buona la pasta. C’era silenzio, quando improvvisamente Sanji domandò «Ehi marimo, perché hai una chiazza rossa sulla guancia?» facendomi sputare l’acqua che stavo bevendo, nel piatto ormai vuoto, dal ridere.

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Capitolo 17
*** Terrazzo ***


«Rufy fai pian…» era tutto inutile. Non mi avrebbe ascoltato lo stesso.
«Banzaiiii»
«Attento! Ti farai male!»
«Cami-chan, non stare così tanto in pena per lui. È di gomma, ricordi?» mi sollecitò Sanji
«Già. Ma il pavimento no. Magari lo sfonda e ci tocca pure pagare i danni» feci seria con le mani sui fianchi
«Su quello non posso darti torto»
«Ehi Cami! Serve altra acqua!»
Guardai la scena pericolosamente infastidita. Cappello di paglia si annoiava e si lamentava perché non aveva niente da fare, così avevo riesumato dalla cantina la piscinetta in cui sguazzavo quando ero piccola. Era alta trenta centimetri e aveva un diametro di due metri. A malapena ci stava una persona, ma almeno avevo trovato qualcosa da far fare al capitano dei mugiwara, che aveva smesso di lagnarsi anche del caldo. L’avevo fatta gonfiare a Zoro, che dopo qualche scena aveva capito che era meglio darmi retta. A detta sua non era stato faticoso, ma il colore della sua faccia, che era rosso pomodoro, diceva il contrario. Per carità, non lo criticavo affatto, nessun uomo sarebbe riuscito a gonfiarla a fiato. Comunque finalmente tutti potevamo rilassarci e farci un bagno – se così si poteva chiamare – nella “vasca” che avevamo preparato con tanta cura. Peccato che quell’idiota di cappello di paglia era talmente privo di grazia che con tuffo aveva prosciugato la piscina di tutta l’acqua con cui l’avevo riempita.
«Ma perché non puoi fare un po’ d’attenzione!?» grugnii andando ad aprire l’irrigatore. La riempii di nuovo e ammonii Rufy. Pochi minuti dopo mi ritrovai schiacciata tra quest’ultimo e il marimo, bisognoso di farsi un bagno dopo il suo allenamento, che consisteva nel fare all’incirca diecimila flessioni appeso alla ringhiera del balcone. Non che mi dispiacesse vederlo sudato, ma l’idea che si lavasse il sudore nella piccola piscina in cui stavo anche io non mi emozionava tanto. Glielo dissi anche, ma non mi calcolò. Come al solito il suo capitano se ne infischiava altamente, continuando a giocherellare nello spazio ridotto e a schizzare acqua in ogni dove. “Alla faccia che l’acqua lo rende debole” pensai irritata, dopo che uno schizzo mi finì dentro all’occhio. Uscii dopo poco perché la situazione divenne insostenibile quando anche Usop decise di immergersi. A quel punto non si riusciva davvero a respirare. Presi un asciugamano e me lo passai su tutto il corpo. Per fortuna avevo portato il costume, non mi sarei di certo fatta vedere in intimo da quei matti, sebbene ci fossi andata vicino la prima volta che li avevo visti. Una volta asciutta, misi le ciabatte e rientrai. Dalla cucina proveniva un odore fantastico.
«Ah, Cami-chan, hai già fatto il bagno?»
«Sanji-kun» gli sorrisi, era sempre premuroso con me «si, ma sono uscita presto perché eravamo in troppi»
«Quegli idioti! Non hanno un minimo di tatto! Adesso ci penso io Cami-chan» detto questo abbandonò i fornelli per dirigersi verso il terrazzo a passo deciso, ma io lo fermai «Non ce n’è bisogno, Sanji. Tanto sarei uscita comunque» mentii, ma era l’unico modo per evitare l’ennesima litigata. Lui mi guardò negli occhi per qualche secondo, poi diede un’occhiata fuori e infine si convinse che era come gli avevo detto e tornò a cucinare. La verità era che avrei potuto stare ore e ore immersa nell’acqua, da quanto stavo bene. Se avessi potuto respirare sott’acqua, nessuno mi avrebbe più rivisto. Se pensavo che nel mondo di One Piece alcuni si perdevano per sempre la gioia immensa di nuotare o semplicemente di galleggiare, diventavo triste per loro.
«Che stai preparando di buono?» chiesi dopo un po’ di silenzio, quasi con la bava alla bocca
«Crostatine di ciliegie»
Già mi pregustavo il momento in cui le avrei assaggiate. «Tra quanto pensi che saranno pronte?» chiesi impaziente
«Tra una decina di minuti»
Emisi un verso simile a un lamento e lui se ne accorse, perché mi domandò se intanto volevo andare ad assaggiare la marmellata. Io ovviamente annuii e in men che non si dica gli fui accanto, con la stessa espressione di un cagnolino che rivede il suo padrone dopo tanto tempo. Ne prese una cucchiaiata dal recipiente e mi imboccò. Mi venne da ridere perché in quel momento avremmo potuto sembrare una coppietta di innamorati, ma l’unica cosa di cui ero innamorata era quella marmellata di ciliegie. Dire che era sublime era dire poco. A quel punto, dato che aveva infornato i dolci, non potevamo far altro che aspettare e sperare che al suo capitano non ne arrivasse l’odore. Decidemmo quindi, di comune accordo, di uscire fuori a goderci un po’ di sole prima dell’assalto alle crostate. Una volta in terrazza, non mi piacque per niente ciò che vidi. Acqua ovunque, tubo aperto ma soprattutto, la cosa che mi fece perdere più di un battito, era che all’estremità di quel tubo c’era Rufy. Rabbrividii solo al pensiero che avesse lui il “potere”, anche se non ebbi il tempo di pensare a niente perché un getto d’acqua gelida si riversò su di me. Rimasi lì impalata con l’acqua che mi colava dovunque, non perché fossi stupita o non sapessi cosa fare, ma perché ero troppo furiosa per fare qualsiasi cosa.
Abbassai la testa per poi rialzarla lentamente con la bocca piegata in un sorriso poco raccomandabile e l’indice accusatorio puntato verso di lui.
«Tu. Tu la pagherai per questo.» non lo dissi in maniera cattiva, quanto piuttosto divertita. Alla fine, zuppa fino ai piedi o no, ero felice.
«Cami. Fatti da parte» Sanji si parò davanti a me e non aveva per niente un’aria rassicurante. Sarei scappata a gambe levate se solo non avessi voluto godere alla vista della scena di Rufy che veniva gonfiato come un tamburo. Prima di scattare, il biondo buttò a terra il mozzicone di sigaretta che stava fumando prima dell’inondazione. Era completamente bagnato e quindi non si poteva più fumare, doveva essere quello ad averlo fatto arrabbiare tanto.
«Mollusco idiota!» lo prese per la camicia e lo scosse talmente forte che se non fosse stato di gomma gli avrebbe già spezzato il collo. Poi si mise a tirare calci, che il suo capitano schivava prontamente. Nella colluttazione, ne approfittai per prendere il tubo in mano con l’intenzione di chiuderlo. Anziché girare il rubinetto però, volli fare qualcosa di folle che mi sarebbe costato caro. Indirizzai il getto dell’irrigatore verso Rufy, per vendicarmi. Non realizzai che se Rufy e Sanji – che lo stava inseguendo per tutta la terrazza da cinque minuti buoni – si spostarono appena in tempo, la figura dietro di loro non lo fece, ritrovandosi più bagnata dell’acqua stessa.
«Oh oh» disse il cuoco, indietreggiando
«Oddio, oddio, oddio» Usop si mise le mani nei capelli e scappò a nascondersi in casa
«Brutto affare» commentò Marco – ricomparso chissà da dove – con la fronte aggrottata e le braccia incrociate, ma sempre con quella leggera arroganza tipica di lui
«Oh merda. Ti prego risparmiaci, è stato un incidente» lo pregai, ma invano. Trafalgar D. Water Law si era alzato dalla sdraio in cui era seduto e ora avanzava minaccioso verso di noi. Se non era un presagio di morte quello allora tutte le mie certezze erano sbagliate.
«Mi avete stufato. Fate troppo rumore.»
«Scusaci, ti prego scusaci!» gridai «ti compro un giornale nuovo, tutti i libri che vuoi, ma ti prego non farmi del male»
Non disse niente per un po’. Pensai di essere riuscita a corromperlo e osservai il giornale riverso sul pavimento, tutto zuppo. Mi interrogai ancora una volta su che tipo di articolo stesse leggendo il medicastro, rinunciandoci dopo poco. Era così imprevedibile che poteva essere cronaca nera come gossip.
«Room»
«Cos…» fu un attimo. Vidi la sfera bluastra avvolgerci e sgranai gli occhi, quasi in preda a un attacco di panico. Oddio, saremmo morti tutti.
«Shambles».
“Oh no, non di nuovo” fu tutto ciò che riuscii a pensare lucidamente prima di andare in confusione, memore del nostro primo incontro. Mi preparai a fare ciao ciao al mio adorato cuoricino, ma rimasi notevolmente sconvolta quando vidi che nessuno di noi si era mosso dal proprio posto e nessuno di noi aveva un buco nel petto. Sentii solo una spinta in avanti e vidi qualcosa di rosa farsi strada davanti a me. Poi tutto tornò normale, Law ritirò la room e potemmo tutti tirare un sospiro di sollievo. Ma Trafalgar Law non faceva mai le cose a caso. Non avrebbe mai attivato il suo potere solo per intimidire la povera, piccola ed indifesa Cami. Ne ebbi la conferma quando udii Sanji imprecare. Mi girai verso di lui e imprecai a mia volta. Ciò che vidi non mi piacque affatto. Assottigliai gli occhi per capire se quello che avevo visto era un miraggio, ma purtroppo era tutto reale.
«Woooow!» esclamò meravigliato Rufy. Io scossi la testa sconsolata, sull’orlo delle lacrime.
«Ti prego» caddi in ginocchio verso il dottore «ridammi il mio corpo» supplicai. Quel bastardo ci aveva scambiato i corpi. Avevo visto me stessa, ecco perché avevo imprecato. Solo che la Camilla che avevo visto aveva una voce decisamente poco femminile. E potevo anche capirlo, visto che nel mio corpo c’era Sanji. Nel suo c’era Rufy, mentre io ero finita in quello del moro.
«Torao, dai retta a Cami» fece Sanji molto serio. Poi chinò la testa sulla “novità” e il suo viso si illuminò «a pensarci bene, potresti anche aspettare qualche ora prima di restituirci i corpi»
«Lo abbiamo perso…» commentò Marco, che ormai aveva imparato a conoscere i suoi temporanei compagni di avventura e ora aveva la faccia divertita più che mai. Gli avrei dato un pugno. Avrei dato un pugno a tutti, per la verità.
«Guarda come tiro i calci!»
«Non sulla ringhiera Ru…» non completai la frase che si sentì un botto tremendo.
«Oh merda!» esclamò il marimo, allarmato «e adesso io dove mi alleno!?»
«Ah ecco…ti dispiaceva esclusivamente per la ringhiera…» commentò Usop
«Che botta» si espresse Marco. Il capitano dei pirati di cappello di paglia aveva sfondato la ringhiera con un calcio ed era caduto giù dal terrazzo.
«Quell’idiota! Si farà ammazzare, anzi, mi farà ammazzare!» urlò Sanji. Ancora mi faceva uno strano effetto sentire la sua voce provenire dalla mia bocca.
«Ragazzi! Non potete immaginarvi! È stato stupendo, posso rifarlo?» era vivo e vegeto fortunatamente. Sorrideva pure ed era entusiasta.
Sanji – o più correttamente io – grugnì e gli poggiai una mano sulla spalla «Per fortuna hai la pelle dura»
«Se lo prendo io…»
Feci un passo di lato, allontanandomi dal cuoco, d’altronde disgraziatamente c’ero io nel corpo del suo capitano e non si poteva mai sapere.
«Ehi, come ci torno su?»
«Sarà meglio che non torni, Rufy!» lo avvertì il cecchino
«Usa lo skywalk» consigliò il proprietario del corpo in cui stava, chi meglio di lui poteva conoscerlo? Lo aspettava al varco, ma non aveva capito che rischiava più lui che Rufy.
Sospirai. Se ero in quella situazione, tanto valeva trarne vantaggio.
«Fatemi provare una cosa» dissi e tirai un braccio all’indietro per poi allungarlo in avanti. Funzionava! Potevo allungare il braccio come Rufy!
«Lasciate che ci pensi io» feci, consapevole che se il moro avesse provato a risalire con lo skywalk avrebbe fatto ancora più danni e l’ira del cuoco sarebbe aumentata.
Non era affatto facile controllarlo e dovetti riprovarci un paio di volte prima di riuscire a indirizzare l’arto nella giusta direzione. Alla fine, con mia somma soddisfazione, lo tirai su. Non sentivo nemmeno il peso. Beh, lui era Mokey D. Rufy, non c’era bisogno di ricordare tutte le sue imprese per capire quanto fosse forte. Ma la mia felicità durò ben poco, perché mi accorsi del buco che c’era sulla ringhiera e iniziai a piagnucolare e poi a rincorrere quella testa di rapa che l’aveva sfondata.
«Posso aggiustarla» disse Law
«Sul serio!?» ero stupita da tale affermazione, soprattutto perché proveniva da lui, che di solito se ne fregava altamente
«Si, dammi cinque minuti»
Venne fuori che Traffy, oltre a essere un ottimo chirurgo e uno stronzo di prima categoria, era anche un eccellente fabbro. I suoi poteri gli permettevano di fare quasi tutto. Per il resto c’era Mastercard.
Fu un pomeriggio memorabile, quello. Dopo aver minacciato varie volte Sanji di stare lontano dalle mie zone intime, finalmente ritornai nel mio caro, vecchio corpo. Tutto grazie a un piccolo e sottolineo piccolo ricatto. Avevo semplicemente detto al chirurgo della morte che se non fossi tornata nel mio piccolo e fragile corpicino, non avrei fatto in modo di esaudire gli altri due desideri e di conseguenza lui non avrebbe mai più fatto ritorno sul suo stupido sottomarino giallo. Ovviamente però avevo imparato la lezione. Ciononostante non ero affatto terrorizzata, non più almeno. Ero stata nel corpo del futuro re dei pirati! Quanti potevano dirlo, a parte Rufy stesso? Avevo indossato il suo cappello e usato i suoi poteri, questo si che era un privilegio! E in più mi ero anche gustata le crostate alle ciliegie che aveva cucinato Sanji, con uno stomaco extralarge. Quella era pura vita. Per concludere la giornata, stavamo aspettando che ci consegnassero la cena a domicilio. Mi stavano raccontando del Davy Back Fight quando qualcuno suonò alla porta.
«Pizza!» esclamai battendo le mani e ridestandomi. Presi il portafoglio poggiato sul tavolo e andai alla porta. Mi sorpresi nel sentire che le mie gambe arrancavano un po’. Erano state per metà pomeriggio quelle di Sanji gamba nera e non c’era da stupirsi se io, che mi stancavo a fare due rampe di scale, non avevo retto il confronto. Senza contare poi gli innumerevoli inseguimenti che erano avvenuti quel pomeriggio. Nonostante mi sentissi il corpo pesante, andai ad aprire con il sorriso, e non solo perché dall’altra parte della porta c’era la cosa che adoravo di più al mondo, ma anche perché quella era stata una bella giornata, che nel bene e nel male avrei sicuramente ricordato. E anche se al momento non lo sapevo, la notte sarebbe stata ancora meglio.



Angolo autrice:
Ciao a tutti! Eccomi qui, con questo capitolo diciassette che spero vi sia piaciuto :) Non so come mi sia venuta l'idea di Law fabbro, ma qualcuno doveva pur aggiustare la ringhiera in qualche modo, quindi perchè non dare sfogo alla propria immaginazione? :D Detto ciò, volevo avvisarvi che dal prossimo, i capitoli saranno più introspettivi e meno comici. Spero comunque che vi facciate qualche risata e che li apprezziate. Ringrazio chiunque abbia seguito la storia fino a questo punto e continuerà a seguirla e tutti coloro che mi hanno lasciato una o più recensioni. Mi auguro che continuiate a seguire la storia e a recensirla perchè mi sprona a dare il meglio di me! Alla prossima! :)

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Capitolo 18
*** Notte memorabile ***


Sbuffai accarezzandomi lo stomaco. Ero stravaccata sull’ormai famoso divano in pelle, in preda all’abbiocco del dopo pasto. La pizza era piaciuta a tutti. Forse un po’ troppo, perché Rufy a parte – che era vispo come al solito – eravamo tutti estremamente rilassati, quasi lamentandoci della quantità di cibo ingerito. Sebbene Sanji all’inizio fosse un po’ contrariato perché voleva cucinare lui, alla fine si era goduto la sera di libertà e per la prima volta aveva lasciato che qualcun altro cucinasse per lui. Non aveva ribattuto dopo, quindi doveva aver apprezzato. Del resto, erano nel mio mondo e per giunta in Italia, il paese della pizza per eccellenza, almeno una volta dovevano provarla!
Quando avevo aperto al fattorino, mi aveva guardato male. Avevo ordinato dieci pizze e come minimo si aspettava una festa, invece aveva visto che l’appartamento era vuoto, in apparenza. Gli avevo sorriso un po’ impacciata dicendogli che i miei amici erano usciti e che sarebbero tornati a breve e a quel punto non aveva detto niente e mi aveva fatto pagare, poi mi aveva rifilato le pizze tutte insieme e se n’era andato senza nemmeno salutare. Che gentile. In un altro momento, avrei pensato che sarebbe andato d’accordo con Law, ma ero troppo impegnata a tenere in equilibrio le pizze, che pesavano quanto Machvise alla massima potenza ed erano anche bollenti, tra l’altro. Sanji, da vero gentleman, era subito venuto in mio soccorso, ma era stato fermato dal marimo che diceva che i suoi muscoli si stavano atrofizzando e voleva fare lui, causando così l’ottantesima litigata del giorno. Nel frattempo anche Rufy era intervenuto, ma non le avrei di certo lasciate a lui.
«Dalle a me, faccio io» mi aveva detto Marco, e me le aveva prese delicatamente dalle mani. A vederlo sembrava che stesse tenendo in mano un foglio di carta, anziché dieci pizze impilate alla buona.
«Ehi, pennuto! Dovevo prenderle io!» il cuoco se l’era presa anche con la povera fenice
«Sanji, apparecchieresti per me?» gli avevo chiesto, sperando che lo facesse azzittire. Aveva funzionato e tutti avevamo potuto goderci quella meraviglia divina, ognuna con ingredienti diversi. Rufy mi aveva sollecitato a mangiarla tutte le sere, oltre alla sua amata carne ovviamente. Non aveva capito che se mangiavo la pizza tutte le sere diventavo più grossa di Big Mom.
Ora giacevamo immobili, chi sui materassi, chi sul divano, chi su altre superfici, senza nemmeno avere l’energia per parlare. Tra un paio di ore saremmo tornati tutti arzilli come prima, giusto il tempo di digerire.
Avevo ragione. Verso le undici si ridestarono tutti dalla loro inerzia e vollero addirittura uscire. Rufy voleva vedere la città di notte e Zoro voleva bere. Ovviamente quei due in giro da soli non potevano andare, quindi – noi sani di mente – decidemmo di comune accordo che Sanji sarebbe andato con loro. Marco si era addormentato sul divano, mentre Law si era chiuso direttamente in camera, socievole com’era. Usop era stanco e aveva espresso il desiderio di rimanere a casa, noi umani la sentivamo la stanchezza. Ci eravamo fatti un tè e eravamo in cucina a chiacchierare, facendo attenzione a fare piano per non svegliare la fenice. C’era una tale tranquillità e una tale pace senza Rufy intorno, che poteva sembrare un tempio buddhista. Potevo capire il povero testa d’ananas che, sebbene fosse abituato alla confusione, non lo era a Rufy e alla sua incredibile energia. Ora, non che il comandante della seconda flotta di Barbabianca fosse così diverso, ma almeno ogni tanto aveva attacchi di narcolessia che lo “costringevano” a stare buono per un po’. In tutto quel turbinio e con tutte le cose successe negli ultimi giorni, Marco non aveva potuto riposare neanche un secondo e doveva essere stanco. Da bravo pirata aveva colto l’occasione e ora stava facendo una pennichella prima che tornasse quel casinista e prima che le urla del cuoco e dello spadaccino si sentissero di nuovo. Perché spesso il problema erano anche loro due.
«Questo tè è molto buono» mi disse Usop a un certo punto
«Vero? Lo ha comprato Sanji, ancora una volta ha fatto la scelta giusta» sorrisi, ma il viso di Usop era spento, distante. Guardava in basso con un’espressione assente, come se lo turbasse qualcosa. Avevo intenzione di chiedergli cosa gli passasse per la testa, ma non ci fu bisogno perché me lo comunicò lui.
«Sai Cami, stavo pensando…» si fermò un attimo, sospirò e poi proseguì «tu hai detto che quella sera hai sentito la stella sussurrarti qualcosa, vero?»
«Si…» non capivo il nesso
Sbuffò una risata «Come quella volta a Enies Lobby…» abbassò lo sguardo e si perse nei ricordi
«Usop?» lo richiamai «cosa cerchi di dirmi?»
«La Merry…ci ha salvati tutti. Ci ha sussurrato di buttarci in mare e lei era lì» quando lo disse mi fece una tenerezza incredibile. Avevo capito.
«Era lì per noi» sentii la sua voce vacillare un attimo e mi parve di vedere una lacrima scivolare lungo la sua guancia, per poi essere spazzata via lesta dalla mano del cecchino, che aveva ancora lo sguardo basso. Quella scena me la ricordavo bene, mi ci ero pure commossa. “Tutti in mare!” la voce angelica di quella piccola grande caravella ancora mi risuonava in testa. Si erano buttati tutti in mare come aveva detto ed erano riusciti a scappare. Il resto lo sappiamo tutti.
«Hai ragione, sai. In un certo qual senso, si può dire che la Stella sia stata la mia Merry»
«Allora sei stata molto fortunata» mi sorrise nostalgico e io gli sorrisi di rimando.
«Vuoi dell’altro….oh mio Dio» spalancai gli occhi, che divennero lucidi in pochi secondi e mi portai una mano alla bocca
«Che succede? Che c’è Cami? Che è successo?» Usop si era allarmato ed era scattato sull’attenti
«Io…mi sono appena ricordata che cosa mi ha detto la Stella!»
«Cosa ti ha detto?» fremeva impaziente, tutta la sua malinconia sembrava essersene andata adesso
«Grazie. Grazie!» mi alzai in ginocchio e lo abbracciai stretto. Poi accostai la bocca al suo orecchio e sottovoce gli bisbigliai «Non avere paura. Ti prometto che non sarai mai più sola. Sei in buone mani adesso. Esaudirò i tuoi desideri e ti farò visita un’ultima volta.» stavolta toccò a me versare una lacrima. Io però non me la asciugai. La lasciai scorrere fino a che non andò a finire sulla spalla del cecchino, che dopo quello che gli avevo detto mi accarezzava la schiena.
«Sarà meglio staccarci» dissi dopo un po’ «non vorrai affrontare le ire di Sanji, vero?»
«No per carità!»
Sciogliemmo l’abbraccio e tutto tornò alla normalità. Sui nostri volti c’era la solita allegria e agli occhi di un esterno era come se non fosse successo nulla. Noi due però sapevamo.
Il resto della serata trascorse tranquilla. Insegnai a Usop a giocare a briscola e a scopa e il tempo passò in fretta. Fu divertente, ci giocammo le caramelle. Traffy non si fece vedere, se non una volta che fece capolino dalla Stanza Oscura per chiedere se era rimasto del tè. Marco aveva continuato a dormire come un ghiro. Era così carino quando dormiva. Si vedeva che dormiva profondamente, ma non russava né niente. Se ci si avvicinava, lo si poteva sentire respirare. Era un respiro regolare, un po’ più forte di quello normale, che dava l’idea di un sonno tranquillo e sereno. I vagabondi invece, ancora non erano tornati. Era l’una quando, dopo l’ennesima tazza di tè deteinato, Usop decise di andare a letto. Quella sera faceva un po’ più freddo e gli procurai – o meglio fregai dal letto di Zoro – un lenzuolo per coprirlo. Si addormentò poco dopo avermi augurato la buonanotte. Ero rimasta sola praticamente. Mi girai i pollici per un po’ in attesa di sentire la serratura della porta scattare, ma non accadde e io cominciai a preoccuparmi. Mi avviai verso la camera di Law e bussai. Non ottenni risposta, ma dopo un po’ entrai. Aveva sempre indosso gli occhiali da vista e leggeva qualcosa che sembrava straordinariamente noioso e impolverato. Di sicuro era un tomo di medicina o roba simile. Dove l’avesse trovato ovviamente era un mistero.
«Quel coso sembra più pesante di te» commentai
«Che c’è?» tagliò corto come al solito
«Ti serve qualcosa?»
«No, grazie.»
«Ok, buonanotte»
«Buonanotte Cami»
Almeno era stato educato. Sospirai, non sapendo che fare e rassegnandomi a passare una nottata all’insegna dei solitari con le carte. Almeno finché non fosse tornato Sanji che mi avrebbe riaccompagnato a casa.
«Fa freschino stasera»
I miei occhi si illuminarono «Marco! Ben svegliato!».
Lo osservai stiracchiarsi seduto sul divano.
«Gli altri?»
Alzai le spalle. «Vuoi del tè?» Santo Cielo, mi sembravo il Cappellaio Matto quella sera.
«No grazie» mi sorrise. All’improvviso mi venne un’idea. Ok, forse non mi venne proprio in quel momento, ma decisi che quella era la volta buona per metterla in pratica. Lo fissai, ancora indecisa se parlargliene o no. Iniziai a muovere nervosamente la gamba.
«Devi dirmi qualcosa?» fece, apprensivo
«Verresti fuori con me un attimo?»
«Certo».
Contemplammo il cielo stellato per qualche buon minuto. Era meraviglioso, quella notte era pieno di stelle. Ma non era quello il motivo per cui me la sarei ricordata per sempre. Né perché faceva più freddo del solito, né perché avevo vinto tante caramelle da farmi venire il mal di pancia se le avessi mangiate o perché Traffy mi aveva risposto in modo gentile. Strinsi nervosamente la ringhiera riparata poco prima e finalmente mi decisi a parlare.
«Marco la Fenice. Comandante in seconda della rinomata e temuta ciurma di Barbabianca»
«Ex comandante» mi corresse
«Oh, già. Scusa» accidenti a me che quando parlavo, parlavo sempre troppo. Ero nervosa e il nervosismo per me aveva effetti devastanti sulla scelta delle parole.
«Non importa. Va’ avanti» aveva un’espressione a metà tra il divertito e il perplesso.
«Ok, cioè no. Ricominciamo.»
«Dillo con parole tue» mi prese in giro. Non aveva tutti i torti alla fine. Ero lì come un’ebete. Ma gliel’avrei chiesto, avessi dovuto riformulare la richiesta cento volte. Presi un respiro profondo, raccolsi le idee e parlai «Marco la Fenice, esaudiresti il mio secondo desiderio?»



Angolo autrice:
Ciao a tutti, ecco un altro capitolo. Come vi avevo preannunciato è meno comico e più introspettivo e lo sarà anche il prossimo. Spero che vi sia piaciuto e un grazie in anticipo a chiunque vorrà recensire. Alla prossima! :)

 

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Capitolo 19
*** Secondo desiderio ***


«Coraggio, ti riaccompagno a casa»
Annuii e rientrai a prendere il telefono e le chiavi. Salutai l’aria dato che ancora nessuno era rientrato e di quelli che c’erano uno dormiva e l’altro si era chiuso in camera da letto. Una volta sulla porta mi girai verso Marco per chiedergli di avvertire Sanji e compagnia che ero tornata a casa, quando fossero tornati, ma non potei parlare.
«Si, ci penso io ad avvertire gli altri»
Aggrottai le sopracciglia e lui rise. Supponevo fosse abituato a precedere le persone, in quanto capitano di una numerosa flotta e valido combattente.
Percorremmo il tratto di strada in silenzio, lui tranquillo come al solito, io fremente di agitazione. Quando arrivammo all’ingresso del palazzo dove abitavo avevo le mani sudate e tremanti e ebbi non poche difficoltà a infilare la chiave nella toppa, ma dovevo mostrarmi sicura o avrebbe cambiato idea.
«Ti aspetto qui» mi disse e io annuii ancora. Mi chiusi il portone alle spalle e salii le scale fino al mio appartamento. Per la seconda volta, inserire la chiave fu un dramma. Per fortuna però, la fenice non poteva vedermi e avevo tutto il tempo di farla cadere un paio di volte e imprecare sottovoce prima di riuscire finalmente ad aprire la porta. Mi precipitai verso l’armadio e scelsi con cura la felpa da prendere. Optai per una con le tasche che si chiudevano con le cerniere, per poter tenere le chiavi al sicuro. Sarei pur dovuta rientrare a casa in qualche modo, no? Poi mi cambiai i pantaloni e mi misi i leggins fino al ginocchio, al posto degli shorts di jeans che avevo fino a quel momento.
Scesi con il cuore che batteva a mille. Per fortuna i miei genitori avevano il sonno abbastanza pesante e non si erano accorti che ero rientrata, mi ero cambiata e poi ero uscita di nuovo, o mi avrebbero tempestato di domande per le quali non avevo una risposta concreta. O meglio, non avevo una risposta credibile. Se anche gli avessi detto che avevo un amico che mi aspettava di sotto, se si fossero affacciati non avrebbero visto nessuno. Quindi era meglio che fossero rimasti a sognare, loro che non avevano un chirurgo che gli piombava in camera e gli puntava una torcia dritta nelle pupille per svegliarli. Quando fui all’ingresso vidi Marco che mi aspettava con la sua solita aria annoiata e mi affrettai. Senza dire niente infilai la felpa e sorrisi a trentadue denti.
«Blu notte. Ottima scelta» commentò sorridendo arrogantemente
«Grazie» gli feci l’occhiolino
«Così ti confonderai con il cielo»
«Non aspettavo altro» rivelai, con gli occhi lucidi di felicità
«Sei pronta?» mi chiese
«Si» risposi senza esitare
«Andiamo fino alla Seconda Stella a Destra e ritorno?»
Risi di gusto e mi posizionai sulla sua schiena. «Verso l’infinito e oltre» gli sussurrai all’orecchio una volta sistemata. Stavolta fu lui a ridere. Ovviamente – ma neanche tanto visto che era pur sempre Marco – non poteva sapere l’origine di quella frase, però fu comunque in grado di cogliere l’ironia.
«Reggiti forte» mi ordinò, e così feci. Ciò che avvenne dopo fu storia.
In pochi secondi Marco spiegò le ali e si sollevò. Le sue ali celesti erano così belle che per poco non mi accorsi che i miei piedi non toccavano più terra. Mi agitai per mezzo secondo e cercai con le gambe la vita della fenice, che mi teneva ben salde le braccia.
«Stai tranquilla, non ti lascio andare tanto facilmente» mi rassicurò «non puoi morire, devo prima tornare a casa!»
Mi fece ridere e mi calmai un po’. Ancora non eravamo a nemmeno tre metri da terra e dovevo rilassarmi e godermi il mio secondo desiderio. Quando gliel’avevo chiesto aveva riso e come unica cosa mi aveva domandato se soffrivo di vertigini. Ovviamente gli avevo risposto di no e sul suo volto era comparsa un’espressione soddisfatta che se fosse provenuta da chiunque altro non mi avrebbe fatto presagire nulla di buono, ma di Marco mi fidavo. E poi, parlavamo del mio secondo desiderio, quello che avevo da sempre e che sognavo di realizzare anche la notte, mentre dormivo. Non ci avrei rinunciato tanto facilmente, ora che avevo la possibilità di esaudirlo.
Quando fummo a una decina di metri, con un colpo d’ali il biondo si inclinò finché non fu con il torace parallelo al terreno e potemmo iniziare a volare sul serio. Fu bellissimo, davvero. L’esperienza più bella della mia vita. Fu talmente fantastico che non saprei nemmeno come descriverlo, non ci sono parole.
Il vento di tarda notte mi sferzava il viso e mi scompigliava i capelli, ma non me ne importava niente. Non avevo nemmeno freddo, stavo così bene che per qualche istante mi dimenticai perfino di essere sulla schiena di Marco. Era un sogno che si avverava. Mi sentivo così libera, così viva. Era una sensazione che non si può descrivere e non si può nemmeno capire, se non la si prova. Avevo i brividi, ma non per il freddo. Ero così felice, così leggera. Il vento mi penetrava fin dentro le ossa e io non pensavo a niente se non a quanto fosse meraviglioso quell’istante e quello dopo. Tutto era più amplificato. Le mie emozioni, i miei sensi, il tempo, tutto.
«Mi dispiace, è notte e il panorama non si vede» mi disse a un certo punto la fenice
«Non importa, posso immaginarmelo» sorrisi, anche se non poteva vedermi. Si girò appena verso di me e intercettai il suo sorriso colmo d’arroganza.
«Lì c’è il fornaio che fa i grissini che mi piacciono tanto. Da quel negozio proviene un profumo molto invitante di pane appena fatto. Law lo odierebbe» sbuffai una risata e continuai «lì invece c’è la chiesa che frequentavo da piccola, con gli altri bambini ci piaceva tanto usare la ringhiera delle scale come scivolo. Oh, quella è la mia scuola! E quello laggiù è il parco vicino alla mia scuola! Quante giornate ci ho passato là quando ero bambina» sospirai. Non per la scuola, a quella avrei dato fuoco volentieri. Purtroppo in quel momento ero così felice che non pensai di chiedere a Marco se poteva tirare un calcio o qualche altro colpo potente sull’edificio, così da distruggerlo. A dire la verità, non sapevo nemmeno se stavamo realmente sorvolando la scuola, ma pazienza. Avevo deciso di lasciare spazio alla mia immaginazione.
«Eri una bambina felice» fece Marco, come al solito lasciandomi indecisa se interpretare la frase come una domanda o un’affermazione. Tuttavia, mi fece lo stesso riflettere. Ero felice, una volta. Non avevo niente più di così, ma avevo tutto, allo stesso tempo. Perché ero felice. Ero una persona spensierata e Marco mi aveva regalato un po’ della spensieratezza che avevo da piccola. A dire la verità tutti loro me l’avevano regalata.
«Puoi rallentare un po’, per favore? Non ti fermare, solo, rallenta un po’. C’è una cosa che devo fare»
Fece ciò che gli avevo chiesto e con tutto il coraggio che avevo in corpo, decisi di tornare bambina. Arpionai bene le gambe alla sua vita e poi, con estrema calma, staccai prima un braccio e poi l’altro dal suo collo. Presi un respiro profondo e raddrizzai il busto. Adoravo Marco proprio perché mi capiva al volo. Mi prese le gambe con le mani e io in quel modo ebbi il coraggio di staccare le braccia dalla sua schiena e di allargarle, proprio come Wendy e Peter. La fenice riprese velocità e io chiusi gli occhi. In quel momento mi sentii più libera che mai. Il tempo sembrava essere sparito, non sapevo da quanto stavamo volando. Potevano essere dieci minuti come dieci ore, non ne avevo la più pallida idea, ma nemmeno mi importava. Questa era il genere di sensazione che vorresti non finisse mai, il genere di bene che non si può spiegare. Quando riaprii gli occhi, tutto era più vivido ma era come se fosse a rallentatore. Le meravigliose ali azzurre e gialle di Marco si muovevano su e giù elegantemente, illuminando la piccola parte di cielo in cui eravamo. Alzai la testa. Le stelle sembravano più grandi e la luna, la luna era stupenda. Mi piace pensare che in quel momento l’Uomo della Luna ci stesse guardando e stesse ridendo. Proprio come me. Tutta la tristezza che avevo provato in quei mesi se n’era andata. Ora c’era solo gioia e spensieratezza. E libertà. Un enorme, meraviglioso e quanto mai vero, senso di libertà. Gettai la testa all’indietro e lasciai che il vento mi avvolgesse. Avevo gli occhi lucidi, ma non saprò mai se per la potenza della folata del momento o per la gioia. Mi sentivo invincibile.
«Sei pronta per il gran finale?»
Quella domanda – stavolta lo capii che era una benedettissima domanda – mi mise tristezza d’improvviso, perché stava a significare che presto sarebbe tutto finito e io non volevo affatto che finisse. Ma tutte le cose belle devono finire, no? Anche Wendy torna dai suoi genitori alla fine della storia.
«Si» risposi
«Bene. Non gridare»
«Perché dovrei gri….aaaaaaaaaah» gridai eccome, con tutto il fiato che avevo in gola. Con uno scatto fulmineo, Marco si era girato a pancia in su. Aveva staccato le sue mani dalle mie gambe e di conseguenza avevo perso la presa. Stavo precipitando. Nel vuoto. Non capivo più niente, non riuscivo a vedere niente. Non vedevo più nemmeno la luce azzurrognola delle ali del biondo. C’era solo buio attorno a me. Provai a chiamare Marco, ma invano. La voce non mi usciva. Ero nel panico più totale e non sapevo da quanto stessi precipitando. Il tempo era dilatato e infinito. L'unico pensiero che mi veniva in mente risaliva a James Matthew Barrie e recitava "nel momento in cui dubiti di poter volare perdi per sempre la facoltà di farlo". Cercavo di fare pensieri felici per tenermi in aria, come mi aveva insegnato Peter Pan, ma non mi sarebbero serviti a niente. Io non stavo volando. Stavo cadendo. Perché mi aveva lasciato andare? Non volevo morire, non lì almeno. Mi dimenavo e scalciavo nel tentativo di fermare la caduta. Cercavo disperatamente un appiglio nell’oscurità, ma non riuscivo a ragionare. Chi ci riuscirebbe, nel buio più totale mentre precipita da un centinaio – se non più – di metri? Non sapevo nemmeno dove sarei precipitata. Speravo che quello fosse uno di quei sogni stupendi che si trasformano in incubi, ma le sensazioni che avevo provato e che stavo tuttora provando erano troppo reali per essere quelle di un sogno.
Due braccia forti mi strinsero in una presa salda. Deglutii più volte e mi accorsi che mi mancava il fiato. Ripresi a respirare e mentalmente maledissi in tutti i modi possibili la testa d’ananas.
«Guarda che ora puoi riaprire gli occhi»
«Si può sapere perché diavolo l’hai fatto!?» cercai di risultare incazzata, ma già era tanto se mi era uscito quel filo di voce
«Per farti provare il brivido»
«Quale brivido?» altro che brivido, qui rasentavamo l’infarto
«Il brivido della vita da pirati. Un giorno ci sei e quello dopo…» lo disse con la sua velata arroganza. Dopo quella sua affermazione potevo sperare che facesse ancora il pirata.
Scossi la testa «Sei un idiota. Ma ti perdono»
Strinse più forte la presa e qualche secondo dopo poggiò i piedi per terra.
«Eccoci arrivati»
Mi guardai intorno e mi accorsi con stupore che eravamo davanti all’ingresso del mio palazzo. Aveva addirittura calcolato dove abitavo, non male. Con molta cautela mi mise giù e si premurò di accompagnarmi fino alla porta di casa, vedendo che le gambe non mi reggevano molto bene. Del resto, uno spavento del genere non si scorda facilmente!
Quando fummo sull’uscio, mi voltai verso di lui.
«Grazie» dissi semplicemente. Non c’era bisogno di tante parole, mi avrebbe capito.
«Quando vuoi» mi fece l’occhiolino e sparì per le scale.



Angolo autrice:
Salve a tutti, eccomi qui con un altro capitolo. Come prima cosa vorrei scusarmi se Marco vi sembra un po' OOC, ma è un personaggio complesso e di cui sappiamo poco, quindi ho dato libero sfogo alla mia interpretazione. Inoltre, andando a riguardare le immagini, ho visto che nella forma ibrida, le braccia di Marco diventano ali. Nel capitolo invece le ali sono sulla schiena. Mi faceva comodo che le braccia rimanessero braccia (una mano in più del resto fa sempre comodo, come la mia amica Mariaace ben sa xD). Infine vorrei dire che non è stato facile scrivere questo capitolo, perchè si tratta di un'esperienza che (ovviamente) non ho mai vissuto, quindi ho dovuto lavorare molto di immaginazione. Tuttavia mi è piaciuto molto idearlo e scriverlo. Mi auguro di non essere stata troppo ripetitiva, di aver reso bene l'idea e che questo capitolo vi sia piaciuto. Concludo dicendo che come sempre spero che lasciate qualche recensione e ringrazio tutti quelli che finora hanno seguito e recensito la storia. Alla prossima!

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Capitolo 20
*** Giorno dopo ***


Mugolai gutturalmente in risposta alla donna di servizio che cercava di svegliarmi urlando frasi sconnesse che per come stavo in quel momento, non sembravano avere il minimo senso. Avevo sonno, accidenti a lei. L’orologio non mentiva, ero tornata a casa alle tre suonate la “sera” prima. Ciò significava che senza accorgermene io e Marco avevamo volato per un’ora. Avevo avuto un’ora di libertà. Avevo avuto modo di pensarci per le quattro ore successive, una volta ripresami dallo shock. Ero sicura di essermi addormentata con il sorriso, da quanto ero felice. Avevo persino dato la buonanotte a tutti come facevo le prime sere in cui dormivamo tutti insieme, come se avessero potuto sentirmi. Ciò non toglie che erano le dieci e avevo dormito solo tre ore. Ero stanchissima e la scimmia urlatrice non aiutava affatto. Ora, le volevo bene e avevo un gran rispetto per lei, ma come Robin odiava chi distruggeva le antiche rovine, io odiavo chi osava svegliarmi dal mio amatissimo e indispensabile sonno mattutino estivo.
Dopo varie maledizioni mentali verso la mia disturbatrice, mi alzai e feci quello che dovevo fare. Accesi il computer, inserii la password – stavolta mi ci vollero solo due tentativi – e stampai ciò che dovevo stampare. A pranzo ovviamente ero dai miei sbandati preferiti. Avevo dovuto dirgli, decisamente controvoglia, che avevo realizzato il mio secondo desiderio. Tra me e Marco c’era un po’ di imbarazzo, ma era normale considerato che mi aveva lanciato nel vuoto, lasciato cadere per qualche buona decina di metri e poi ripreso come se niente fosse. Inoltre aveva visto un lato di me che avevo mostrato a pochi nella mia vita e mi sentivo scoperta quando lo guardavo. Neanche fossimo in una di quelle serie tv in cui i protagonisti il giorno dopo si guardano con imbarazzo per aver passato la notte insieme in intimità. Ma gli altri insistevano perché gli rivelassi cosa avevo desiderato e perché mi servisse Marco per realizzarlo e sappiamo tutti quanto possano essere pedanti Usop e in particolare Rufy. Quindi alla fine cedetti, pronta a ricevere sguardi alla “non ti preoccupare, capisco il tuo disagio mentale”, soprattutto da Law. Invece non accadde niente di tutto ciò, anzi, un duo entusiasta, composto da capitano e cecchino, mi chiese come fosse stato e volle sapere ogni dettaglio con gli occhi luccicanti. Il colpo di grazia però, fu durante il pranzo.
«Ehi Cami, ma non è che Marco è un aereo in miniatura?» mi chiese Rufy inconsapevolmente, facendomi quasi strozzare con gli spinaci che stavo ingoiando. Quasi automaticamente, volsi i miei occhi alla fenice, che mi guardava con un’espressione a metà tra il divertito e il curioso.
«Lo sono?» domandò a sua volta dopo un po’, con un gomito sul tavolo, la testa appoggiata alla mano e un guizzo negli occhi
«Credo che tu sia semplicemente un pennuto arrogante e presuntuoso che ha avuto la fortuna di mangiare un frutto che ti conferisse poteri fantastici» risposi, ma sorrisi quando lo dissi, segno che era solo una delle mie piccole provocazioni
«Sei ancora arrabbiata per il piccolo spavento che ti ho fatto prendere ieri?» accolse la mia sfida
«Piccolo spavento!? Ti pare un piccolo spavento quello!?» persi la calma «Scappa, Marco, perché se ti prendo…»
«È così che si ringrazia un povero ragazzo che ha esaudito uno dei tuoi desideri?»
Stavo per minacciarlo di tirargli un pugno, ma come al solito non potei farlo perché qualcuno intervenne.
«Questo è un bene. Manca solo un desiderio, poi potremo tutti tornarcene alle nostre faccende» Law era sempre il solito guastafeste. Chi glielo avrebbe detto che il terzo desiderio non era affatto semplice da realizzare? Io no di certo, non volevo rovinare quel rarissimo momento in cui non era incazzato con me o con il mondo. Anzi, sembrava persino soddisfatto.
Passammo il resto del pranzo in silenzio, fino al dessert, quando mi accorsi che Rufy fissava un punto imprecisato sotto al mio collo. Non poteva fissare il mio décolleté, ne ero sicura, perché a lui non erano mai interessate quelle cose. Forse mi ero inconsapevolmente sporcata e stava fissando la macchia. Per cercare di capire, abbassai lo sguardo anche io e mi resi conto che cosa realmente stava guardando. Nell’euforia generale, mi ero dimenticata di togliere la collana con il ciondolo di Ace ed ora era in bella vista sul mio sterno. A parte Marco non l’aveva ancora vista nessuno. L’avevo messa la sera precedente perché volevo che fosse con me durante quella particolare esperienza, come lo era la sera che mi aveva cambiato la vita.
«Stai bene?» chiesi, apprensiva. Lui in risposta sorrise, esibendo il suo tipico sorriso a trentadue denti. Come si faceva a non adorarlo quando sorrideva così?
«Si. Quel ciondolo è il tatuaggio di Ace, vero?»
Annuii. Vedendo che continuava a fissare la collana, feci una cosa che nemmeno io avrei mai immaginato di fare con nessuno. La sfilai e gliela porsi. Gli avrei anche detto di fare attenzione, visto il soggetto, ma non mi sembrava appropriato. Era pur sempre un momento delicato e profondo in un certo senso. Lui mi guardò sorpreso.
«Posso davvero?»
«Certo. Eri…sei. Sei il suo fratellino in fondo»
«Già» sorrise di nuovo e la prese in mano. La osservò per un po’ e poi ci passò un dito sopra, come a togliere la polvere. Ma la polvere che stava togliendo non era sul ciondolo, era nel suo cuore. Stava spolverando tutti i ricordi, probabilmente di quando era piccolo e giocava allegro e spensierato con Ace e Sabo. Mi appoggiai allo schienale della sedia, ormai sazia, e incrociai le braccia continuandolo a guardare. Era completamente immerso nei ricordi. Lo sapevo perché ormai avevo imparato a conoscerlo. Non pretendevo di essere onnisciente, ma quando passi tanto tempo con una persona, volente o nolente impari a cogliere i dettagli. Come sapevo qual era la faccia di Usop quando gli veniva un’idea da progettare, qual era la marca di sigarette che fumava Sanji e qual era quella che “comprava” qui in assenza di quelle del suo mondo o quante flessioni faceva Zoro, sapevo esattamente quando Rufy cominciava a ricordare qualcosa.
C’era un silenzio che non si addiceva a loro, così parlai io.
«Era un gran bel tatuaggio» “su un gran bel braccio” avrei voluto aggiungere, ma non mi sembrava il caso
«Già. In questo modo lo avrebbe avuto sempre con sé» disse Rufy e io non capii subito. Realizzai le sue parole solo dopo aver notato che il suo dito accarezzava la lettera S.
«Beh però il tatuatore non era molto intelligente. Ha sbagliato a scrivere il nome» commentò Usop. Contemporaneamente ci girammo in tre verso di lui. Cappello di paglia sorrise e la fenice sbuffò una risata.
«Non hai capito proprio niente» lo redarguii scuotendo la testa
«Come sarebbe a dire?»
Guardai il fratello di Ace come a chiedere il permesso per raccontarglielo ma lui continuava a sorridere sornione al cecchino.
«Prova a pensarci» fece Marco, alzandosi da tavola e facendo restare di stucco sia me che il nasone «noi abbiamo una partita da giocare»
«Cosa? No. Noi non giocheremo a…»
«Traffy sei dei nostri?» domandò il biondo, che nel frattempo si era seduto al tavolino della sala e stava mischiando le carte. Law sbuffò e poi andò a sedersi a sua volta. Tirai un sospiro di sollievo. Ciò significava che non avremmo giocato a scacchi. Per me gli scacchi erano come i broccoli. Sul serio. Non li reggevo. Erano giorni che Marco tentava di insegnarmi ma io oltre a non essere una brava allieva, non ero mai dell’umore adatto. Trovavo sempre qualche scusa, una volta stavo perfino per dire a Zoro che poteva usarmi come peso per l’allenamento pur di non giocare a scacchi. E la povera testa d’ananas rimaneva sempre sola a fare uno dei solitari che gli avevo insegnato. Ma perché non ci giocava con il chirurgo? Ah già, ogni volta era troppo infastidito dall’ennesima sconfitta a Machiavelli e si ritirava in camera sua.
«Ma non è possibile! Hai vinto di nuovo!»
Feci un sorriso scaltro e appoggiai i gomiti sul tavolo.
«Stai diventando una piaga» commentò irritato il chirurgo, a cui stavolta mancava una sola carta da sistemare per la vittoria. Si alzò e se ne andò, come al solito.
Rimanemmo solo io e Marco, che mi guardava con una faccia strana.
«Per punizione subirai la mia ira» scherzò, ma io mi allarmai lo stesso. Tirò fuori dal nulla una scacchiera. Ma accidenti a loro, dove cazzo le trovavano tutte queste cose!? Non potevano mica avercele in tasca!
«Rassegnati, oggi sono usciti tutti e ti tocca giocare per forza con me» disse con un sorriso poco rassicurante.
Mi guardai intorno e mi resi conto che aveva ragione. Quando erano usciti? E soprattutto…dov’era la mia collana!? Chi ce l’aveva? Mi stavo innervosendo, ma non potevo fare niente, quindi mi rassegnai all’idea che avrei dovuto giocare a quello stupido gioco intreccia cervello. Inoltre, al di là del mio amatissimo pendente, c’era qualcos’altro che mi stavo scordando.
«Bianchi o neri?»
«Neri» optai «come il mio umore» aggiunsi sottovoce stando ben attenta a non farmi sentire
«Ottimo, allora comincio io» annunciò allegro e io gli feci gesto di iniziare con la mano.
«Scacco al re» esultai, solo che a dirlo non ero stata io, ma il pennuto. Era stata la mezz’ora più lunga della mia vita. Per fortuna ora era tutto finito, aveva fatto scacco e non potevo fare niente. Non avevo nemmeno fatto finta di essere dispiaciuta. Tuttavia non mi alzai ma anzi, controllai se c’era qualcosa per evitare lo scacco.
«Qualcuno vuole il tè?» Law era riemerso dai meandri di camera sua. Ma lo aveva chiesto davvero? E da quando in qua era così gentile? Mi girai a guardarlo mettere il bollitore sul fuoco.
«No grazie» rispondemmo in coro, prima di ritornare con gli occhi puntati sulla scacchiera. Anche se stavo guardando grossolanamente, non vedevo comunque nessuna mossa possibile. Stavo per dichiararmi sconfitta quando una mano dietro di me, veloce, mosse una mia pedina – o forse era la torre? – mangiandone una del biondo.
«Non è più scacco» disse il proprietario della mano. Controllai ed era vero. Anche la fenice si era stupita. Mi poggiai una mano sul cuore e finsi una faccia commossa, poi mi alzai, presi per il medico per le spalle e lo spinsi giù sulla sedia, al posto mio.
«Caro Marco, ti ho appena trovato un compagno di scacchi degno della tua fama»
Law cercò di divincolarsi dalla mia presa, ma fu tutto inutile. Lo rassicurai dicendogli che avrei preparato io il tè e alla fine cedette. Ogni tanto buttavo un occhiata a loro e dovevo ammettere che era molto tenero vederli allo stesso tavolo impegnarsi per non perdere la partita. In più il tè mi venne molto buono e fu pronto proprio nel momento in cui la partita finì. Traffy aveva perso. Mi gelò con un occhiata quando risi di lui.
«È colpa tua»
«Mia? Beh si, forse…»
«Almeno in qualcosa riesco a vincere» fece Marco, piuttosto soddisfatto dall’esito. Il chirurgo si alzò e si diresse verso di me.
«Due cucchiai di zucchero?» mimai il numero con la mano. Una volta che fu abbastanza vicino, allungò le dita a piegarmi l’indice alzato, lasciando su solo il medio. «Ne prendo solo uno» aveva detto. Aprii la bocca dallo stupore. Lui ghignò e io risi a mia volta. Non ero affatto offesa dal gesto, ero…divertita. Beh, Law era famoso per gesti del genere. Ancora mi ricordo la sua prima apparizione, alla casa d’aste dell’arcipelago Sabaody. Aveva quella sua felpa gialla e…
«Siamo tornati mia dea!» la voce di Sanji mi riscosse dai miei pensieri e nel momento in cui lo vidi, con la faccia innamorata e carico di buste, mi ricordai ciò che dovevo fare.

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Capitolo 21
*** Territorio abusivo ***


Consegnai a ognuno i fogli che avevo stampato la mattina. Erano semplicemente le loro pagine di Wikipedia, ma ci tenevo a fargliele vedere. L’idea infatti fece piacere a tutti. Lessero con entusiasmo e interesse cosa c’era scritto su di loro, commentando qua e là laddove ci fosse qualche imprecisione. Usop come al solito si lamentò di qualcosa che non stavo seguendo, perché avevo intercettato la mia collanina. Era appesa al braccio di Rufy. L’aveva messa proprio come quel bracciale che gli aveva regalato Nami e che a Impel Down aveva a sua volta regalato a Buggy. Le aveva fatto fare due giri e stava lì, strano ma vero, intatta. Quando il capitano si accorse che la fissavo, mi sorrise.
«L’ho legata stretta al braccio perché volevo che fosse al sicuro»
«Grazie Rufy, sei stato molto gentile»
«So che questo è il tuo tesoro, quindi ci sono stato attento».
Per il resto della giornata riflettei sulle sue parole. Di certo ci tenevo molto a quella collanina, ma non sapevo se fosse il mio tesoro. Aveva una grande importanza, sia simbolica che affettiva, dato che rappresentava il tatuaggio del personaggio preferito dell’opera che amavo – che era morto, tanto per cambiare – e mi aveva portato a conoscere Marco, o meglio, aveva portato Marco da me. Ma nella mia vita avevo davvero un tesoro? Non lo sapevo. Non ci avevo nemmeno mai pensato a dire la verità. Continuai a pensarci anche mentre stampavo da Wikipedia le pagine del resto dei mugiwara, che Rufy mi aveva chiesto di stampare così da potergliele riportare e mostrare. Ci riflettei anche il giorno seguente, ma dovetti interrompere quando vidi tornare mio padre all’ora di pranzo infuriato nero. Aveva in mano dei fogli di carta e un’espressione che mi metteva un po’paura, ma non me ne preoccupai perché supposi che fosse arrabbiato per le complicazioni che portava la burocrazia e roba simile. Invece mi sbagliavo. Per qualche strano scherzo del destino mi trovavo lì nel momento della sfuriata e sebbene avrei preferito non esserci, era una fortuna che ci fossi. Sbatté sul tavolo dove stavo pranzando dei fogli stropicciati, probabilmente dalla sua rabbia.
«Ti pare possibile!?»
«No…?» aggrottai la fronte, non sapendo di cosa parlava
«Tu!»
«Io?» ora cominciavo ad avere davvero paura
«Tu ne sai sicuramente qualcosa!»
«Di cosa?» che stava dicendo?
«Stai sempre lì! Sei stata tu!»
«Ma a fare cosa?» alzai la voce, mi stavo innervosendo e non era un bene. Va bene che mio padre quando era arrabbiato additava tutti, ma se nemmeno mi diceva per che cosa mi stava dando la colpa peggiorava la situazione e basta. Si calmò un po’ – per la gioia dei miei timpani – e mi spiegò la situazione.
«Qualcuno sta occupando abusivamente la casa che ci ha lasciato il nonno. Mi sono arrivate le bollette oggi»
Rimasi inebetita da quelle parole. Le bollette. Non avevo fatto i conti con le bollette. In tutti i sensi.
«Ah ma io non le pago eh! E scoprirò chi sono quegli infami che hanno abitato per tutto questo tempo in quell’appartamento a nostro discapito e li farò arrestare!» mentre mio padre partiva con i suoi brontolii, allo stesso modo in cui partiva Sanji quando vedeva una bella donna, io cercavo di far rallentare i battiti del mio cuore.
«Guarda qua! Luce, gas e acqua! Io li denuncio!»
«Chi?»
«Come chi!? Quei ladri pezzi di merda!»
«No, intendevo se hai scoperto chi sono»
«Non ancora, ma stasera dopo il lavoro passo a fare un’ispezione a sorpresa e vedi come li stano! Tu graviti spesso da quelle parti, non è che sai qualcosa?» mi chiese, leggermente sospettoso
«No. Non so niente» nonostante i tentativi di mantenere la voce ferma, mi tremava leggermente e speravo che non se ne accorgesse. Il cuore mi batteva all’impazzata e mentre pronunciavo quelle parole fissavo il vuoto. Non potevo vedermi, ma ero abbastanza sicura di essere pallida come un cencio. Per fortuna mio padre non era uno di quelli che notava certi dettagli.
«Non fa niente, li scoverò»
«Vengo con te».
Il discorso si concluse lì. Ci mettemmo d’accordo sull’ora in cui sarebbe tornato e poi fremetti fino a che non mi salutò chiudendosi la porta alle spalle per andare al lavoro. Una volta uscito, mi precipitai fuori di casa. Arrivai all’appartamento dei pirati che non avevo più fiato in corpo. Spalancai la porta ed entrai come una valanga. Tutti si girarono verso di me con sguardo interrogativo. Ero talmente a corto di fiato che non riuscivo a spiccicare mezza parola. Sanji mi chiese con premura se avevo bisogno di un bicchiere d’acqua ed io negai con convinzione. Non era quello il momento di perdersi in chiacchiere e convenevoli. Mi accasciai sulla prima sedia libera che trovai e raccolsi le ultime energie rimaste per spiegare loro la situazione.
«Avete capito adesso? È un grosso problema e se non facciamo in modo di farvi sparire siamo fottuti»
«Oddio! Tuo padre che potrebbe farci se ci scopre?» chiese Usop che aveva iniziato a tremare già da un pezzo
«Non lo so, ma non sarà una cosa piacevole. Né per me, né per voi qualora vi vedesse»
«Quindi dobbiamo far scomparire tutte le possibili prove che possano indurre a pensare che qui ci abiti qualcuno» intervenne Law che come al solito aveva capito la situazione al volo
«Se le cose stanno così, mettiamoci al lavoro» Sanji si alzò buttando fuori il fumo della sigaretta che stava fumando «ma prima…» diede un potente calcio a Zoro, che si era beatamente addormentato «alzati marimo»
«Brutto torciglio, ti taglio in due!»
«Provaci testa d’alga. Io ti faccio assaggiare uno dei miei calci!»
«Ragazzi non è questo il momento di litigare!» esclamai esasperata, ma né il cuoco, né lo spadaccino mi ascoltarono. Però qualcuno – forse l’unica volta in vita sua – lo aveva fatto, perché si frappose tra i due, con le braccia stese e la faccia seria.
«Ragazzi, non litigate. Dobbiamo aiutare Cami. Lei è stata tanto gentile con noi quindi dobbiamo ripagare il favore» il capitano dei mugiwara aveva pronunciato quelle parole con tanta calma e fermezza da farmi dubitare che fosse intervenuto Law con uno shambles e che a parlare non fosse veramente Rufy. I due litiganti smisero di insultarsi a vicenda e ritornarono mansueti.
«Allora, da dove cominciamo?» il moro che aveva parlato poco prima si girò verso di me con uno dei suoi sorrisi a trentadue denti.
Io ero ancora spiazzata dalla scena e Marco dovette darmi una leggera bottarella per farmi riprendere.
«Eh? Cosa? Ah si. Cominciamo con il togliere i materassi» con il dito indicai il terrazzo
«Cami, pensi che una volta che avremo risolto la situazione saremo a posto o dovremo trovarci un’ altra residenza?» mi domandò con timore il cecchino
«Preoccupiamoci di risolverla intanto»
«Se le bollette arrivano mensilmente saremo a posto fino al prossimo mese. Sta a te riuscire ad esaudire i desideri entro quella data.» disse Law, facendomi alzare gli occhi al cielo. Tanto per lui la conversazione cadeva sempre lì.
«Lascia che te lo spieghi in termini semplici. Se non muovi il tuo frigido culo non ci sarà un prossimo mese. Per nessuno di noi.» replicai stizzita
«Non c’è bisogno di agitarsi tanto» ghignò come non faceva da tempo. Dovevo ammettere che un po’ mi era mancato il suo sorriso strafottente.
Ci impiegammo due ore buone per far sparire tutta la roba e per ricontrollare che non fosse rimasto niente. Il cibo che era in frigo avevamo deciso di toglierlo all’ultimo momento, per non far marcire niente, tanto più che facevano almeno trenta gradi. Infatti non fu facile con quel caldo riuscire a “lavorare” ma dovevamo farlo per il bene comune. Mi sembravo un capo cantiere che dava ordini a destra e a manca e nel frattempo un operaio che li eseguiva sbuffando e asciugandosi il sudore sulla fronte con un braccio. Me la cantavo e me la suonavo, insomma. Il piano era che Marco volasse fino in cima al tetto con i materassi al seguito, accorto a non farsi vedere o meglio, a non far vedere i materassi, che per il resto della popolazione fluttuavano sospesi per aria. Ma non mi preoccupavo di quello, lui del resto era Marco la fenice. In seguito tutti gli altri lo avrebbero raggiunto in un modo o nell’altro, ognuno portando qualcosa, mentre lui sarebbe risceso e sarebbe rimasto per tutto il tempo della visita o sarebbe stato più corretto dire “ispezione” di mio padre. Con tutto quel saliscendi ne avevo approfittato per andare a buttare la spazzatura nei cassonetti di fronte al palazzo. Avevo meticolosamente tolto il sacchetto dell’immondizia dall’apposito cestino sotto al lavello. Avevo levato di mezzo spazzolini, dentifricio, carta igienica, saponi e tutto quello che avevo trovato in bagno che prima non c’era, o almeno non che ricordassi. Avevamo cancellato tutte le prove della loro residenza lì, ma andai in panico quando sul tavolino vidi le carte e gli scacchi.
«Oddio. Le carte e la scacchiera. Adesso dove accidenti li mettiamo!?»
Per fortuna intervenne Super Sanji che mi prese per le spalle e mi scosse leggermente «Cami, calmati. È tutto a posto. Qualcuno se ne occuperà»
«Qualcuno chi? Mi servono dei nomi, delle persone concrete!»
Al che prese gli oggetti che erano la causa della mia agitazione e li mollò a Law, chiedendogli, ma neanche tanto, di portarli sul tetto insieme a tutto il resto. Il moro eseguì con sguardo disgustato ed espressione basita, ma in quel momento non me ne poteva fregare di meno delle sue turbe mentali.
«Grazie Sanji, ti voglio bene» gli dissi sorridendo. Non lo avessi mai fatto. Si mise a volteggiare per tutta la stanza come suo solito. Lo ripresi al volo per un lembo della giacca.
«Non mi sembrano queste le circostanze per mettersi a spargere cuoricini in giro».
Non potevo nemmeno pensare alle avances del biondo. Dovevo correre a casa, farmi una doccia e prepararmi. Prima di andare però, ricontrollai altre due volte, tanto per essere sicura e diedi disposizioni al cuoco di togliere la roba dal frigo a una certa ora e portarla sul tetto. Nel dubbio avevo anche spruzzato per tutto l’appartamento un deodorante per ambienti che avevo portato da casa, per levare la puzza di fumo provocata dalle sigarette di Sanji. Si, ero decisamente una maniaca del controllo.
Mi feci la doccia e mi vestii il più in fretta possibile. Mio padre sarebbe tornato a momenti e io fremevo per fargli vedere che tutto era a posto. Perché era tutto a posto, no? Ma certo che era tutto a posto, avevo ricontrollato tante di quelle volte che avrei potuto muovermi al buio in quell’appartamento. C’era il soggiorno con il vecchio divano di pelle, il tavolo rotondo di vetro con il vaso di fiori che mi aveva regalato Sanji qualche giorno prima, il lampadario penzolante dal soffitto e la creden…un momento. Il vaso. I fiori. Quelli non c’erano prima. Non li avevamo tolti. Erano rimasti lì su quel fottuto tavolino. Mio padre li avrebbe visti e si sarebbe infuriato e a quel punto tutti i nostri sforzi sarebbero stati vani. Saremmo stati fregati. Fregati da uno stupido mazzo di fiori! Ma come si fa!? Il panico si fece in strada in me più velocemente di quanto si spostasse Kizaru e rimasi lì impalata con gli occhi sgranati per qualche buon secondo. Non potevo avvertirli di togliere il vaso perché non avevano il telefono e l’unica soluzione era andare lì direttamente. Non c’era altro tempo da perdere. Ma proprio nel momento in cui posai la mano sulla maniglia, la porta dall’altra parte si aprì. Era mio padre.
«Sei pronta?»
Trattenni il fiato. «Si».
Per tutto il tragitto fu come avere una lancia puntata sullo stomaco. Mi meravigliavo anche io di come potessi camminare e atteggiarmi con tanta disinvoltura mentre dentro stavo tremando di paura. Quando fummo in prossimità della porta d’ingresso dell’appartamento maledetto chiusi gli occhi, ovviamente dopo aver sceso le scale, non fosse mai che avessi mancato uno scalino e fossi caduta rovinosamente. Ora, per come mi sentivo avrei anche potuto farlo, ma a che scopo? Potevo solo sperare che la sbadataggine di mio padre avesse evitato di fargli notare il vaso. Una volta entrati scoprii con mia somma sorpresa e gioia, che il vaso non c’era sul tavolino! I miei occhi cercarono subito quelli di Marco che, come d’accordo, era in terrazzo a vegliare sulla situazione.
«Vado a controllare in terrazza» dissi a mio padre distrattamente e uscii fuori dalla portafinestra.
«Dov’è il vaso?»
«Su con il resto della roba. Per fortuna il chirurgo se ne è accorto in tempo».
E così era stato il chirurgo, eh? Buono a sapersi. Rientrai a cuore un po’ più leggero.
«Visto? Non c’è nessuno qui. C’è stato sicuramente un errore con le bollette» suggerii io, sperando che quella tortura finisse presto. Nonostante tutto, il cuore mi martellava nel petto a ritmi molto elevati, troppo per una  quasi diciottenne con una cartella clinica impeccabile. E fu peggio quando vidi la carta rossa di una caramella su quel cazzo di tavolo di vetro che a questo punto avrei buttato volentieri dalla finestra per tutti i problemi che mi stava causando. Mi precipitai a coprirla con la mano facendo finta di stare appoggiata e sorridendo come se niente fosse a mio padre che si era appena girato con aria sospetta. Nella mia testa stavo maledicendo chiunque avesse lasciato quella carta di toffee alla fragola lì nonostante tutte le raccomandazioni, quindi probabilmente stavo inveendo contro Rufy. Tra un insulto e l’altro me la misi in tasca per nasconderla.
«Ho controllato tutto, bagno, cucina, camera da letto e terrazzo e non c’è traccia di possibili inquilini. A questo punto, andrò a sentire le varie società che mi hanno mandato le bollette e aspetterò il prossimo mese. Ma per il momento torniamo a casa.»
Era finita. Grazie a Dio. «Ottima idea. Io credo che però  passerò un attimo da Sara»
«Ok, allora chiudi tu per favore. Ci vediamo a casa» detto ciò mi affidò le chiavi – che avevo sempre avuto io in realtà e che solo quel giorno avevo lasciato dove mio padre credeva fossero sempre state – e ci salutammo. Mi afflosciai sulla sedia che avevo più vicina mentre la banda scendeva scompostamente dal tetto.
«Dio, non sono adatta per fare certe cose» mi poggiai una mano sulla fronte
«Ce l’abbiamo fatta?» chiese Usop titubante. Io annuii.
«Dovrebbero darmi un premio oscar»
«Un che?» Rufy piegò la testa, perplesso
«Lascia perdere» feci un gesto con la mano. Non avevo la forza per essere arrabbiata con lui in quel momento. Più tardi, forse, avremmo fatto i conti.
«Cami-chan, stai bene? Ti vedo un po’ pallida» mi domandò il cuoco dopo un po’. Pallida!? Certo che ero pallida! Ed ero pure sudata! In un solo giorno avevo avuto addosso una tale ansia da farmela bastare per tutta la vita!
Mi alzai e mi diressi verso l’uscio di casa, portando le braccia in alto e aprendole leggermente, come un criminale che si arrendeva ai poliziotti. «Mi serve una pausa.».

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Capitolo 22
*** Dubbi ***


Quando dicevo che mi serviva una pausa, dicevo davvero. Il giorno dopo, infatti, ne approfittai per passare del tempo con i miei amici – quelli visibili a tutti – che non vedevo ormai da un po’. Anche perché mi avevano dato una specie di ultimatum e sebbene io odiassi gli ultimatum, avevo colto l’occasione e preso due piccioni con una fava. I ragazzi li avevo lasciati a trasportare la roba del giorno prima dal tetto alla casa. Trascorremmo la giornata in piscina, tanto più che ero bianca come un cencio e mi dovevo abbronzare. Dovevo ammettere che mi erano mancati i gossip da corridoio. Ultimamente mi ero estraniata molto dal resto del mondo e non pensavo di essermi persa così tante novità. A dirla tutta però, lo avrei rifatto altre cento volte. Stare con quei sei pirati era la cosa migliore che potesse capitarmi e anche se mai lo avrei ammesso, la loro presenza lì mi aveva cambiata. Ora vedevo solo le cose che contavano davvero e per quanto potesse sembrare una contraddizione, grazie a ciò vivevo con più leggerezza. Era come se fossi partita per un viaggio con venti valigie e fossi tornata con dieci. C’era ancora parecchia strada da fare, ma loro non se ne sarebbero andati via tanto facilmente. Non per egoismo mio ma perché il terzo desiderio era semplicemente un desiderio che poteva arrivare in quell’istante come tra dieci anni e l’apparizione della stella non dipendeva dalla mia volontà ma da quella del desiderio.
La giornata in piscina mi era comunque servita per svagarmi un po’, soprattutto da tre cose: l’iperattività di Rufy che sfociava in vero e proprio caos, le litigate di Zoro e Sanji e le pressioni di Law, che spesso consistevano in sguardi carichi d’aspettativa che io puntualmente deludevo. Eppure, anche se ero lontana da loro continuavo a pensarli, quasi fossero diventati indispensabili per la mia vita e per il mio benessere. Avevo pure incontrato Sara, che mi aveva chiesto come stesse andando con i miei amici affittuari e mi aveva lasciato un dubbio cosmico, che dovevo assolutamente comunicare agli altri. Tipico di lei, almeno però ero riuscita a rimediare un passaggio direttamente a casa sua e quindi nello stesso palazzo dei sei dell’Ave Maria da cui dovevo comunque passare ora che mi aveva messo in testa questo dubbio.
Tornai alle sette di sera, stanchissima e con un mal di testa lancinante. Tra l’altro ero sicura di essere a chiazze rosse perché mi ero dimenticata di mettere la crema. L’idea di passare da loro non mi allettava per niente, soprattutto perché c’era sempre casino là in mezzo e di sicuro il mio mal di testa sarebbe peggiorato drasticamente. C’era da augurarsi di non prendere mai una sbronza e passare la mattina dopo con loro. Entrai in casa e la confusione mi colpì in faccia come uno schiaffo.
«Cami! Ben tornata!» esclamò Rufy non appena si voltò. Era in piedi sullo schienale del divano, nemmeno sul divano.
«Non mi avrai mai, Usopevil!» gridò al suo compare di giochi di ruolo che stava poco sotto di lui, con la coperta messa come mantello, dei baffi finti e un monocolo. Forse li aveva presi a un negozio di costumi.
«Questo lo vedremo, Rufy cappello di paglia!» rispose con lo stesso entusiasmo. Feci una panoramica e vidi Zoro che faceva i piegamenti alla ringhiera, Sanji che cucinava e Marco e Law che giocavano a scacchi. Mi fecero scappare un sorriso, perché ero io che li avevo “accoppiati” e ora si divertivano entrambi. Se stare a spostare pedine di legno su una superficie a quadretti bianchi e neri si poteva chiamare divertimento.
«Fermate tutto ciò che state facendo e ascoltatemi. Non ho tempo da perdere. Abbiamo una questione da risolvere.»
«Illustraci» Marco scostò la sedia dal tavolo e accavallò una gamba sopra l’altra. A parte lui e il cuoco, mi ignorarono tutti. Cecchino e capitano continuarono a far baldoria, lo spadaccino ad allenarsi e il chirurgo a studiare bellamente la prossima mossa da fare.
Roteai gli occhi e sospirai prima di illustrare la questione. «Oggi sono stata in piscina»
«Si vede» mi interruppe Usop, commentando il mio colorito rosso aragosta. Mi tolsi una ciabatta e gliela tirai in piena fronte. Non avevo molta mira in genere, ma se si trattava di scarpe ci prendevo a colpo sicuro. Si azzittì e io potei continuare.
«Vi dicevo, oggi sono stata in piscina e ho visto Sara»
«Dovresti metterti una crema per lenire le ustioni, è pericoloso per la pelle» mi consigliò Law, che si era girato mezzo secondo a squadrarmi per poi rigirarsi. Allargai le braccia esasperata. Almeno si preoccupava per me, non potevo tirargli l’altra ciabatta.
«Tralasciando la mia pelle ustionata, Sara mi ha detto che ci ha visti»
D’improvviso tutti smisero di fare quello che stavano facendo – tranne Zoro che probabilmente nemmeno mi aveva sentito – e mi guardarono.
«Come? Quando? E chi?» volle sapere il biondo cuoco dei mugiwara
«L’altro giorno quando Law ci ha scambiato le personalità» fissai il chirurgo con sguardo accusatorio
«E te lo ha detto lei che era il giorno in cui ho usato lo shambles?» chiese il medico, scettico, quasi fosse offeso
«No, l’ho dedotto io, il come non è importante adesso»
«No, prego, illuminaci con le tue teorie»
Sospirai, per poi sbuffare rumorosamente «Sara ha detto che quando si è affacciata dalla finestra ha visto me e Rufy fradici e quando le ho chiesto se per caso avesse visto anche una piscina gonfiabile ha risposto di si. L’unico giorno possibile era quello in cui ci hai reso parte dei tuoi giochi sadici» lo dissi tutto d’un fiato e la testa cominciò a girarmi, al punto che – con molta discrezione per non farmi notare– andai ad appoggiare la spalla sinistra al muro.
«Di sicuro vi avrà visti perché vi siete toccati…no?» intervenne Sanji
Scossi la testa. Facevo fatica anche a parlare da quanto fossi stanca. Chiusi gli occhi per non sprecare energie e perché vedere il moro che saltava sul divano non migliorava la situazione.
«Mi ha detto che eravamo distanti. Io stavo correndo dietro a qualcosa di inesistente»
«Allora non saprei davvero come mai» il biondo si arrese
«Magari stava osservando da un’angolazione particolare» azzardò quello che riconobbi essere Marco
«Può darsi» finora mi pareva l’ipotesi migliore anche se era buttata lì
«E se fosse successo quello che succede a Brook?»
Riaprii gli occhi per guardare sconcertata cappello di paglia, che ora stava seduto sul divano a gambe incrociate. Tutti lo fissavamo come si fissa un imbecille, incapaci di riuscire a capire il nesso tra Brook e il fatto che una mia amica ci aveva visti senza che ci toccassimo. Il cuoco era già pronto a dargli un calcio in testa, ma lui continuò.
«Lo shambles non è lo scambio delle anime?» chiese, con aria innocente e un dito nel naso. Spostammo tutti lo sguardo verso Law, che pareva stesse riflettendo sulla domanda che praticamente gli era appena stata posta.
«Tecnicamente è lo scambio di personalità» lo corresse il chirurgo
«Però Rufy non ha tutti i torti» si ricredette Sanji, che nel frattempo si era acceso un’altra sigaretta «Brook è fatto di un corpo materiale, ma ciò che lo tiene in vita è l’anima come ha sempre detto»
«In realtà più che un corpo, è uno scheletro» fece Usop che oggi era in vena di commenti sarcastici
«Avete uno scheletro nella ciurma?» chiese la fenice divertita
«Oh si. Se è per questo abbiamo anche un cyborg» si vantò il cecchino
«E una renna che parla!» aggiunse Rufy «e Nami…» rabbrividì leggermente, insieme al suo amico
«Fate silenzio e fatemi finire!» il biondo dalle sopracciglia a ricciolo sferrò un calcio a entrambi e continuò «ciò che volevo dire era che anche tutti noi siamo fatti di un corpo e uno spirito, o in questo caso, personalità»
Con la coda dell’occhio vidi che il medico sorrideva. Aveva già capito tutto il ragionamento. Tipico.
«Non appartenendo a questo mondo, noi non possiamo essere visti. Ma Cami si»
«Ma certo, ho capito!» m’illuminai all’improvviso, rianimandomi dal mio stato catatonico «in pratica se la mia “anima” finisce in un altro corpo, quel corpo potrà essere visto perché io esisto in questo mondo»
«La teoria è quella» rispose il biondo, che si era rimesso ai fornelli
«Non conoscendo questo Brook non posso dire niente, ma mi sembra una valida spiegazione» concordò l’altro biondo, che ora si stava dondolando con la sedia e aveva i piedi poggiati sul tavolo di vetro.
«Per una volta in vita tua hai detto una cosa sensata, Rufy!» si stupì il nasone, che si stava ancora massaggiando la testa per il potente calcio ricevuto poco prima. Anche io lo guardai e protesi le braccia verso di lui.
«Ha ragione! Rufy sei un genio! Ottimo, abbiamo risolto il mistero. Adesso però me ne vado a casa perché sono proprio stanca. Ciao a tutti e buona serata» salutai al volo, con cappello di paglia che mi guardava perplesso, agguantai la borsa della piscina che avevo posato a terra quando ero arrivata e mi diressi repentina verso l’uscita.
«Non ti fermi a mangiare con noi?» chiese Sanji dispiaciuto
«No. Ciao» risposi quasi male, ma avevo davvero fretta di tornare a casa e buttarmi sul letto
«Aspetta»
Molto, molto, molto controvoglia, mi voltai e rimasi molto stupita dalla scena che mi si presentò davanti. Law, in piedi, con le chiavi in mano.
«Ti accompagno a casa»
«No, no» dissi. L’ultima – e unica – volta che lo aveva fatto, ero stata obbligata a passare tutta la mattina successiva con lui e avevo rischiato di morire di fame. Di sicuro mi avrebbe “chiesto” qualcos’altro e quel qualcosa non sarebbe stato di mio gradimento. Quindi era decisamente un no. No, no e poi no. Un no secco.
Tre minuti dopo, camminavamo fianco a fianco verso la via di casa. Se Trafalgar Law voleva qualcosa, potevo stare certa che l’avrebbe ottenuta. Ecco perché mi stavo mangiando le mani dalla preoccupazione. Camminavamo in rigoroso silenzio. Arrivammo alla scalinata che portava alla mia via che ero in preda all’ansia e alla stanchezza. Mi faceva così male la testa che avrei voluto accasciarmi lì, sulle scalette, ma non volevo che il medicastro pensasse che ero una debole e inutile ragazzina. Cosa che effettivamente ero, ma non volevo dargliela vinta. Non fu affatto facile perché erano almeno una cinquantina di metri in salita e di scale. Scale. Scale. Scale. Perché c’erano così tante scale nella mia vita? Non trovai una risposta valida. In quello stato non avrei trovato nemmeno un cratere di meteorite ingrandito cento volte. In compenso però, arrivai in cima che ero sfiatata e con un mal di testa più forte di prima. Quando fummo al portone d’ingresso, lo salutai. Ma lui volle salire fino a casa e quando gli chiesi perché, l’unica risposta che mi diede fu che aveva bisogno di alcune cose. Pensai subito che qualcuno potesse stare male, ma non avevo la forza di parlare. La testa mi pulsava, pulsava tanto, troppo. Forse però era quello il motivo per cui si era offerto di accompagnarmi e potei tirare un sospiro di sollievo.
«Bene, prendi quello che ti serve e poi chiudi la porta. Buonanotte» gli dissi, una volta che arrivai all’ingresso. Mi rifiutai di accompagnarlo dovunque avesse bisogno di andare, l’avrebbe trovato comunque. Tutto ciò che feci fu dirigermi in camera, svuotare la borsa per la piscina, mettere in carica il telefono – che dopo una giornata fuori aveva la batteria quasi scarica – e stendermi sul letto. Il mio amatissimo letto. Non soddisfatta, aprii l’armadio e tirai giù una coperta di lana. Ebbene si, in agosto, con una trentina di gradi fuori, io sentivo freddo. Sentivo Law armeggiare con gli armadietti del bagno, probabilmente in cerca di qualche medicina. Almeno in questo ci avevo azzeccato. Qualcuno stava male. Chi poteva essere? Forse Marco, che oggi era particolarmente silenzioso. No, Marco era sempre silenzioso. Forse era Traffy! Magari gli facevano ancora male le ferite, poverino…pazienza, non era un mio problema. Il mio unico problema in quel momento era riuscire ad addormentarmi. Sprofondai la faccia nel cuscino con un sorriso. Dio, quanto era comodo il mio letto. Avrei potuto rimanerci per sempre.
«Alzati»
Emisi un profondo suono gutturale. «No Traffy, sono davvero stanca, qualsiasi cosa sia me la dici domani»
«Tirati su»
Scossi debolmente la testa, già per metà nelle braccia di Morfeo.
«D’accordo» fece lui e lo sentii sbuffare dal naso. Esultai mentalmente e tornai a concentrarmi sulla comodità del mio materasso. Per un po’ non udii alcun rumore, se non quello del chirurgo che trafficava con degli oggetti e probabilmente li metteva in borsa. Poi sentii due braccia che mi sollevavano di peso e d’improvviso mi ritrovai a sacco di patate sulla spalla sinistra di Law. Ma che diavolo stava facendo!? Che stava succedendo? Mi aveva forse confuso per la sua nodachi?



Angolo autrice:
Ciao a tutti, eccomi qui con un altro capitolo. Ovviamente è un capitolo di transizione, ma spero comunque che vi sia piaciuto e vi abbia strappato un sorriso. L'ho riletto di fretta, perciò se c'è qualche errore mi dispiace, ditemelo e correggerò il prima possibile :) Chissà che intenzioni ha Law? :D
Grazie in anticipo a chiunque vorrà recensire e alla prossima! :)

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Capitolo 23
*** Insolazione ***


“Tu vieni con me” aveva detto Traffy. Per quanto potessi dimenarmi, imprecare, negare, insultarlo e infine supplicarlo, avevo dovuto fare come diceva lui. Non sembrava, ma aveva una presa molto salda. Al che mi ero rassegnata e gli avevo chiesto dove andavamo. Mi aveva risposto con un semplice “a casa”. Io volevo tornarmene nella mia, di casa. Con la stanchezza che mi ritrovavo l’ultima cosa che volevo era di passare una serata con quegli scalmanati e in mezzo a quel casino. Avevo bisogno di dormire. Perché una volta tanto non potevo fare quello che volevo? Ma soprattutto, perché mi stava trascinando nel suo covo? Quel ragazzo era un mistero, davvero. Vai a capire che voleva. Oltretutto non era facile cercare di ragionare in quella posizione, mi stava andando tutto il sangue al cervello. Poco importava, perché in tre minuti fummo al loro appartamento.
«Ah. Bentornati» fece Rufy, o almeno così mi pareva, dato che da dietro la schiena di Law non vedevo niente. Avevo imparato a distinguere le loro voci da tempo, ma nelle condizioni in cui ero poteva pure essere un cane che abbaiava e che avevo preso per il capitano dei mugiwara.
«Ma che ci fai di nuovo qui? Non avevi detto che andavi a casa?» chiese Zoro, annoiato
«E soprattutto, perché sei sulla spalla di Law?» aggiunse Usop
«Non ti stanchi mai di noi, eh?» disse Marco arrogante e divertito, che da quel poco che riuscivo a vedere era ancora nella stessa posizione di quando ero andata via, ovvero con i piedi appoggiati al tavolo di vetro.
«Cosa!? Traffy mettila subito giù!» questo era sicuramente Sanji che si era infuriato per il trattamento poco galante che mi aveva riservato il chirurgo.
«Roronoa, per questa notte mi serve il tuo letto»
«Eh!?» fecero in coro spadaccino e cuoco
«Col cavolo che te le lo lascio!» proseguì Zoro «E per cosa ti servirebbe poi?»
«Brutto cretino di un marimo, non è evidente!? Law, non osare toccare Cami con un solo dito o dovrai vedertela con me!» Sanji urlava in preda alla rabbia e insinuò in me un bruttissimo presentimento, che mi provocò brividi in tutto il corpo
«No, no, senti Traffy non facciamo scherzi. Io sono una brava ragazza! Se devi soddisfare i tuoi bisogni carnali usa Federica, la mano amica…» parlai con le ultime energie che avevo in corpo
«Fa’ silenzio» rispose amichevole come sempre, e non riuscii a sentire altro perché mi addormentai lì di punto in bianco, sulla spalla del medico.
Mi risvegliai in un letto che mi accorsi dopo poco non essere il mio. Per un attimo mi prese il panico, ma poi mi ricordai del “rapimento” e mi tranquillizzai. La stanza era buia e io non vedevo quasi niente. Le coperte da cui ero avvolta erano verdi, segno che dovevo trovarmi nella stanza di Law e Zoro e a giudicare dalla posizione dovevo essere sul letto di quest’ultimo. Solo in un secondo momento mi accorsi di avere qualcosa di umidiccio poggiato sulla fronte. Con un grande sforzo, tirai fuori dalle coperte un braccio e me lo portai alla testa. Tastando, ebbi la conferma che era una pezza bagnata. Infine notai che il lenzuolo era tirato su fino alla mia bocca e che invece di sentire caldo – cosa più che normale visto il clima torrido – sentivo leggermente freddo e avevo pure il respiro pesante. Ora forse cominciavo a capire. Quanto ero stata stupida. Manco a farlo apposta, la porta si aprì in quell’istante, facendomi sollevare leggermente la testa verso di essa e chiudere un occhio per la luce che vi proveniva. Avevo la gola secca, ma provai a parlare comunque.
«E così mi sono presa una bella insolazione» dissi alla figura appoggiata allo stipite
«Quello che mi stupisce è che tu ci abbia messo così tanto a capirlo»
«Probabilmente non volevo dartelo a vedere. Mi avresti preso per la ragazzina fragile che dopo una stupida giornata sotto al sole si prende una febbre da cavallo»
«È quello che sei»
«Grazie Traffy, sei molto gentile»
«Ehi Law, adesso si è svegliata, può tornarsene a casa!» Zoro entrò quasi urlando
«No»
«Rivoglio il mio letto! Non dormirò per terra.»
«Puoi dormire con Naso-ya o con il cappellaio» fece atono
«Scusate, ma credo che Zoro abbia ragione, io devo tornare a casa» feci per alzarmi, ma il chirurgo con due dita spinse la mia testa all’indietro, facendola ricadere sul cuscino. Giurai di aver sentito il mio cervello rimbalzare dentro la scatola cranica. Poi fece una cosa inaspettata; inumidì la pezza – che era caduta mentre tentavo di mettermi in piedi – nella bacinella che c’era sul comodino e me la rimise sulla fronte. Ero sconvolta.
Dopo qualche buon minuto passato a discutere inutilmente con il medicastro, io dovetti rassegnarmi al fatto che avrei passato la notte lì, mentre lo spadaccino dovette rassegnarsi al fatto che avrebbe dovuto dormire insieme a qualcuno. Mi ero offerta di andare a prendere un altro materasso per il povero martire al negozio di mio zio, ma non potei alzarmi dal letto. A un certo punto mi sarebbe andata bene qualsiasi cosa, purché il verde avesse smesso di urlare. Chissà perché tutt’a un tratto quella testa d’alga – che era capace di dormire pure in un cannone e di essere sparato per aria senza svegliarsi – si agitava. Forse non amava cedere le cose di sua proprietà.
«Traffy aspetta!» esclamai dopo che la situazione si fu calmata e prima che il moro uscisse dalla stanza
«Che c’è?»
«Devo avvertire mia mamma. Mi serve il telefono e il caricabatterie perché è scar…»
Nella penombra vidi il suo braccio alzarsi svogliatamente e indicare un punto alla mia destra. Mi puntellai sui gomiti, mi girai nella direzione in cui indicava il dito e notai che dietro alla famosa bacinella, c’era il mio cellulare con tanto di caricabatterie attaccato alla presa.
Assottigliai gli occhi e lo guardai «come accidenti hai fatto?»
Lui ghignò, o almeno credo e se ne andò dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle. Chiamai mia mamma sforzandomi di fare una voce squillante e le dissi che rimanevo a dormire da Sara. Per fortuna i miei non erano né troppo apprensivi, né troppo indagatori. Bastò qualche parola di circostanza e fu fatta. Una volta finita la telefonata, affondai la nuca nel cuscino e mi godei quella pace dei sensi. Il mal di testa ancora non era passato e di sicuro nemmeno la febbre, ma pazienza. Il resto della serata passò in tranquillità. Troppo in tranquillità per i miei gusti. Non osai andare a guardare quello che stava – o non stava – succedendo e me ne rimasi stesa e al caldo tutta la sera.
A un certo punto, entrò qualcuno e dovetti riprendermi dallo stato di torpore in cui ero.
«Cami, tesoro, come ti senti?»
«Sanji» sorrisi, un po’ sorpresa «ancora un po’ rintronata, tu come stai?»
«Addolorato che la mia dea stia male» finse di disperarsi, d’altronde era solo un po’ di febbre. Mi sollevò la pezza dalla fronte e la immerse nella bacinella piena d’acqua.
«Che stai facendo?»
«Traffy mi ha chiesto di inumidire il panno e di prenderti la temperatura ogni quattro ore»
«Ah…» ero alquanto stupita da come Law fosse diventato premuroso tutto a un tratto. O forse stava solo facendo il suo lavoro. O meglio, lo stava delegando a qualcun altro. «Ma lui e gli altri dove sono?»
«Sono usciti, non ti ricordi? Rufy è entrato in camera come una furia»
Non me lo ricordavo proprio, dovevo essermi assopita. E anche profondamente, visto che per non sentire cappello di paglia ce ne voleva. Immersa in questi pensieri, con la coda dell’occhio, vidi il cuoco che tentava di infilarmi il termometro in bocca. Scostai la faccia dopo aver corrugato la fronte. Glielo strappai dalle mani sempre con espressione corrucciata e me lo misi sotto all’ascella. Per fortuna che era lui e non Rufy, o chissà dove avrebbe tentato di infilarmelo...
«Hai fame? Vuoi che ti prepari qualcosa?» mi chiese il biondo mentre aspettavamo che quello strumento maledetto suonasse
«No grazie» risposi, nello stesso istante in cui dalla mia ascella arrivò un rumore ovattato. Accesi la lampada del comodino per vedere meglio e lessi trentanove e otto.
«Fantastico. Come cavolo posso aver fatto a prendere una febbre da cavallo stando semplicemente sotto il sole?»
«Forse è anche lo stress»
«Che stress posso avere ora che finalmente le cose stanno andando per il verso giusto?»
«Beh, stare dietro a Rufy, alla testa d’alga e a tutti noi richiede una certa dose di nervi saldi»
Accennai una risata «Fammi un toast, va» mi era venuto un certo languorino e avevo cambiato idea.
«Subito mio amore!» era tornato quello di sempre e anche il mio stomaco a quanto pareva. Trangugiai quella prelibatezza in soli due bocconi, gustandomela appieno nonostante la bocca impastata e la gola secca, appena in tempo prima che tornassero gli altri cinque pirati. Mi si accalcarono subito intorno e fu bello sapere che si interessavano della mia salute e si preoccupavano per me. Law volle sapere i resoconti medici e ordinò a Sanji di fare un tè verde per me, un ottimo drenante e antiossidante. Mi faceva schifo, ma lo bevvi tutto da brava paziente. Per un po’ facemmo una sorta di pigiama party e rimanemmo a chiacchierare del più e del meno, fino a che il medicastro non decise che era ora di riposare. Nonostante il mal di testa martellante, mi faceva piacere parlare con loro. Anche di cose stupide, come quali creature secondo Rufy fanno la cacca o quanti pesci possono entrare nell’acquario della Sunny. Loro mi facevano sentire a casa, come se ci fosse un posto per me, da qualche parte. Per tutta la vita mi ero sentita diversa, quasi sbagliata. Ma con loro non era così. Loro mi facevano sentire accolta e potevo essere me stessa liberamente, senza dovermene vergognare.
«Buonanotte Cami»
«Buonanotte ragazzi. A domani» li salutai con la mano, sorridendo. Ero in pace con me stessa in un certo senso.
Quando però vidi il chirurgo spogliarsi, mi allarmai.
«Hai intenzione di dormire qui?»
Mi guardo come si guarda una cretina, tanto per cambiare. «Dove altro dovrei dormire?»
«Mi fa strano dover dormire da sola nella stessa stanza di uno che non mi sopporta»
«Non è un mio problema» disse impassibile come al solito, mentre tirava le coperte ai piedi del letto. Solo in quel momento notai le cicatrici sul petto e quella sul braccio. Chissà perché, la prima volta che si era spogliato non le avevo notate. Erano tutte ricordi dell’ultima battaglia che aveva combattuto. Una battaglia che alla fine aveva vinto, quelle erano solo il prezzo che aveva pagato per ciò che voleva. Mi ricordai i proiettili di piombo, i fili che lo trapassavano, Doflamingo che gli tranciava il braccio di netto. Tutta l’angoscia che avevo avuto per lui, uno dei miei personaggi preferiti, che ora era tranquillamente immerso nella lettura di un giornale accanto a me. Pensai al suo passato e a come doveva essersi sentito. Allontanato da tutti perché malato di una malattia non contagiosa. Questo era davvero il colmo. E pensai che in fondo ero stata fortunata, avevo avuto una vita fantastica in confronto alla sua. Fissai quelle cicatrici che per molti altri non erano che solchi sulla pelle di un uomo freddo e insensibile. Ma per me erano molto di più. Quelle cicatrici erano la sua vittoria personale. Segnavano la fine della sua sofferenza e un nuovo inizio, che non aveva ancora avuto in realtà perché proprio sul più bello io gliel’avevo portato via. E mi sentii tremendamente in colpa. E capii perché si comportava in quel modo con me.
«Traffy» cominciai, prendendo un respiro profondo «mi dispiace di averti…»
«Il tuo mondo non è poi tanto diverso dal nostro»
«Cosa?» sgranai gli occhi, quel tanto che il mal di testa mi consentiva
«Nel tuo mondo c’è molta più oscurità di quanto pensassi»
«C-che vuoi dire?» ero confusa. Forse avevo sentito male per via della febbre. Lui continuava a stare con la testa china sul giornale e a sfogliare le pagine.
«In questo mondo, come nel mio, si cela un’oscurità che va ben oltre la comprensione di molte persone»
«Non sono sicura di aver capito ciò che intendi dire» dissi dopo qualche attimo di silenzio
«Non importa. Buonanotte Camilla»
Sbuffai. Tipico di lui lasciare le frasi in sospeso. «Buonanotte Law». Ora finalmente avevo capito che cosa leggeva ogni sera il chirurgo della morte.



Angolo autrice:
Innanzitutto scusatemi per il ritardo ma ho avuto talmente poco tempo questi giorni che non sono riuscita a ritagliarmi nemmeno una mezz'oretta per aggiornare! E di conseguenza poco ho potuto scrivere, ahimè...
Comunque sono qui per dirvi che avevo degli appunti per questo capitolo, appunti molto belli...che ho perso. Quindi ho dovuto riscriverlo secondo quanto mi ricordavo e ovviamente è venuto meno bello di quanto immaginavo, ma spero comunque che vi sia piaciuto. Come al solito mi fareste una ragazza molto felice se lasciaste qualche recensione e niente, alla prossima! :)

P.s. la battuta della mano amica mi è uscita così, del resto ho una mente molto perversa :D

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Capitolo 24
*** Dressrosa ***


Di morte. Di cosa potevano mai parlare gli articoli che leggeva il chirurgo della morte se non di morte? Risi tra me e me nel constatarlo, prima di chiudere gli occhi e addormentarmi, sfinita. Quello che mi risvegliò fu un fastidioso suono. Qualcuno urlava. Prima di aprire gli occhi, feci mente locale su chi poteva essere. Forse era il cuoco che urlava allo spadaccino, forse era il cecchino che si stava lamentando per qualcosa o forse era il loro capitano che era eccitato per chissà quale motivo. Ma quelle sembravano grida diverse, erano grida...di dolore. Un dolore molto profondo, forse perfino disperazione. Aprii gli occhi e mi ci volle meno di mezzo secondo per capire che non mi trovavo nel letto in cui mi ero addormentata. Intorno a me era tutto grigio e sotto di me il terreno era duro, segno che dovevo trovarmi su un pavimento. Mi guardai intorno, sembrava un luogo familiare, fatto interamente di pietra. Dove lo avevo già visto? All’improvviso, una nuvola di polvere mi investì e io dovetti portarmi una mano alla bocca per non tossire e socchiudere gli occhi, che già iniziavano a lacrimare. Quando svanì, vidi che non c’erano più né pareti né tetto e tutt’intorno a me vi erano macerie. Le urla continuavano. Spostai il mio sguardo al centro della stanza. Li vidi e capii immediatamente. Ero...a Dressrosa!? Con una velocità sorprendente mi misi in piedi, per poi rimanere paralizzata, indecisa sul da farsi. Una figura imponente, con un sorriso sadico stampato sulla faccia, ne sovrastava un’altra, più esile, la faccia sofferente e l’unico braccio a reggersi l'altra spalla. Non poteva essere vero. Non potevo trovarmi lì. E soprattutto non in quel momento della battaglia. Da sotto i miei piedi provenivano strani suoni e il terreno vibrava, segno che Bellamy stava molleggiando in giro, deciso a uccidere Rufy. Non sapevo che fare. Non sapevo se dovevo avvicinarmi a Law che era a terra agonizzante e dargli una mano – o un braccio in questo caso – o rimanere lì dov’ero, fuori dal campo visivo di Doflamingo e relativamente al sicuro. La scena che vidi dopo mi mise in allarme. Il fenicottero tirò fuori repentino la pistola e il chirurgo, altrettanto repentinamente scattò in ginocchio imprecando. Con il pollice il biondo alzò il cane e mirò.
«No! Law!» gridai con tutto il fiato che avevo in corpo, agendo d’impulso. Mi portai una mano alla bocca e sgranai gli occhi mentre il terrore si impossessava di me. Non sapevo se potevano vedermi o sentirmi. Non sapevo niente. Non sapevo neanche perché lo avevo fatto. Insomma, sapevo come andava a finire. Sapevo che Rufy da un momento all’altro sarebbe arrivato e avrebbe salvato la situazione, come sempre. Ma avevo strillato senza pensarci. Perché? Perché avevo agito così sconsideratamente proprio in quell’occasione, io che non facevo mai niente di azzardato? Tre teste si girarono verso di me, ognuna con un’espressione diversa sul volto. Il mio cuore perse un battito. Due. Tre. Per poi riprendere al triplo della velocità.
«Bueh eh eh e questa bella ragazzina chi è?» alla mia destra una mano viscida si allungò in direzione della mia guancia
«Non mi toccare» sibilai con un filo di voce – anche se mi uscì più come una supplica – facendo un passo indietro. L’unico che riuscii a fare. Data la situazione infatti mi meravigliai che le gambe mi reggessero ancora o che il cuore non mi fosse ancora scoppiato.
«Sei un’amichetta di Law?» mi chiese ancora lo scagnozzo di Doflamingo, avanzando sempre verso di me
«Non. Mi. Toccare.» dissi un po’ più decisa stavolta, ma con la paura fissa negli occhi. Per fortuna in quel momento ci fu un gran fracasso e qualcosa volò dal basso verso l’alto, ricadendo inerme a terra, come un manichino. E proprio di un manichino si trattava, visto che era una copia di fili di Doflamingo.
«Mingo! Libera Bellamy altrimenti morirà!»
Approfittai di quel momento di distrazione generale per dirigermi a passo svelto verso il chirurgo, ancora mezzo agonizzante.
«Eh? Camilla? Che ci fai qui?» chiese stupito Rufy notando la mia figura, ora in bella vista in mezzo alla stanza. Ma non ci fu bisogno di dargli una risposta, perché Bellamy era passato al contrattacco.
“Scappa Law” cercai di dirgli con lo sguardo, ma seppure in fin di vita, i suoi occhi rimanevano fermi. Era disposto a morire.
«Ti prego...mettiti in salvo» sussurrai in sua direzione. Era come se tutto fosse sparito. Eppure lo sapevo come sarebbe andata a finire. Lui si sarebbe salvato e sarebbe ritornato tutto intero, per poi salpare verso la prossima isola, felice e soddisfatto. Ma in quel momento era come se me lo fossi dimenticato. Era come se nemmeno il fenicottero, Trèbol e Rufy fossero esistiti. Volevo solo che Law si salvasse. Almeno finché non udii una risata che mi gelò il sangue.
«Fufufu. Non so chi tu sia ma mi stai rendendo il gioco ancora più divertente» si passò la lingua sulle labbra. Io tremavo come una foglia, lì accanto al dottore. Eravamo più indifesi che mai. Ma perché lo avevo fatto? Perché avevo fatto una tale pazzia? E soprattutto, come diavolo avevo fatto a trovarmi lì!?
«Devi essere un’amica di questo traditore qui. In tal caso, vedrò di trattarti con delicatezza. Che ne dici, Law?» ghignò, di un sorriso che non mi piacque molto oltre al fatto che non prometteva nulla di buono. Dal piano di sotto provennero ancora suoni e urli ovattati, che distrassero i due membri della Family.
«Perché l’hai fatto!?» il moro sembrava aver perso tutta la sua lucidità
«Io...» scossi la testa, sul punto di piangere «non...non lo so»
«D’accordo, ma ora devi andartene»
«Oh si, decisamente. Tu però devi venire con me, anche perché non so come accidenti io ci sia finita qui e di conseguenza non so come andarmene»
«No.»
«Traffy ti prego! Morirai!»
«Non è affar tuo.»
«Per favore andiamo insie…» dalla mia gola uscì un verso pacato di dolore. Caddi in ginocchio. La gamba e il braccio mi bruciavano tantissimo. Doflamingo era tornato con gli occhi puntati sulle sue prede e mi aveva lanciato uno dei suoi fili. Per fortuna mi aveva colpito solo di striscio la gamba e il braccio destro. Faceva un male cane uguale però. I suoi fili del resto erano talmente affilati che tagliavano senza sforzo perfino un meteorite.
«Merda» sibilò Law
«Fufufu. Due colombelle spaventate in gabbia» spostò lo sguardo verso di me – o almeno così mi parve visto che con quegli occhiali, dei suoi occhi non ce n’era nemmeno l’ombra – e sorrise. Io avevo lo sguardo vitreo di chi si è rassegnato all’imminente morte, tenendomi la ferita sul braccio con l’altra mano. In cuor mio speravo solo di non soffrire ma dato il sadismo per cui è famoso il flottaro, non c’era da aspettarsi nulla di buono.
All’improvviso il mio corpo si mosse. Da solo. E anche quello di Law. “No, no, no, no, no, no, no, no, no, no” pensai.
«Quando si dice prendere due piccioni con una fava. Fufufu»
«Bastardo!» gridò il chirurgo al suo interlocutore. Un altro urlo sommesso partì dalla mia gola. Se avessi potuto guardare in basso, avrei visto la nodachi del capitano dei pirati Heart conficcata nel mio fianco sinistro. Strano a dirsi, ma mi fece meno male dei fili di Doflamingo. Chiusi gli occhi e cercai di fare resistenza al dolore. Non potevo vedere la faccia del chirurgo, né quella del flottaro maledetto. Avrei voluto piangere, avrei voluto scoppiare in lacrime, ma per qualche motivo non lo feci. Guardai il cielo, l’unica cosa che il biondo mi permetteva di vedere e ricordo di aver pensato che era così terso, così limpido, così bello e distante. Mi dava una sensazione di pace, nonostante fosse coperto in parte dalla gabbia per uccelli. Quasi mi faceva scordare il dolore. Ma all’improvviso qualcosa mi riportò alla cruda realtà.
«Non ti preoccupare cara, avrai la tua vendetta» il Joker ghignò. Mi passò una pistola, che io fui costretta a prendere e a puntare alla testa di Law, ora in ginocchio a pochi metri da me.
«No...» a quel punto due lacrime rigarono il mio viso. Non potevo girare la testa, dovevo per forza rimanere a guardarlo negli occhi. Occhi che nonostante tutto non mostravano segni di paura.
«Non temere, non lo ucciderai. Questo moccioso ha la pelle dura»
«Non mi interessa…non sarò io a ucciderlo e lo sai anche tu. La volontà della D non si arresterà mai.» dissi tra un singhiozzo e l’altro. Ora so che non avrei potuto dire una frase peggiore. Non sapevo nemmeno come mi era venuta fuori in un momento come quello. La vena sulla fronte di Doflamingo si gonfiò pericolosamente e temetti il peggio. Fu un attimo.
«Room»
Il mio dito premette il grilletto.
«No! Law!»
«Shambles»
«Mi dispiace tanto Traffy, scusa...» già ero pronta a scusarmi, piangendo senza ritegno. Solo dopo notai che non ero più di fronte a lui. Di fronte a me c’era Trèbol, che si era preso la mia pallottola in pieno e ora si teneva il costato, lamentandosi. Tirai un sospiro di sollievo anche se per molto poco. La vena sulla fronte del biondo tornò a pulsare e uno dei suoi fili mi colpì – sempre di striscio per fortuna – la guancia. D’istinto mi portai la mano sulla ferita, ma ero ancora bloccata da quei maledetti fili.
«La pagherai, piccolo insolente bastardo.»
Tutto ciò che vidi fu lui che veniva verso di me a velocità elevata.
«Mingoooooo» Doflamingo che girò la testa verso quell’urlo.
«Ti prenderò a calci in culo!»
Si arrestò e sorrise. Due fili partirono dalla sua mano e si diressero rispettivamente verso me e Law, poco dietro. Serrai le palpebre, non pensando a niente se non al dolore che avrei sentito a breve. Sapevo che se Donquijote Doflamingo covava rancore verso qualcuno, non si sarebbe risparmiato. Quando riaprii gli occhi, Rufy stava bloccando il colpo diretto a me. Dio solo sa quanto gli fui grata in quel momento. Subito mi girai a cercare gli occhi del chirurgo, che non erano più tanto fermi. Il filo lo aveva colpito in pieno e ora un rivolo di sangue scendeva dall’angolo della sua bocca.
«Traffy! No...ti prego, no...» piansi, gridai, non sapevo più nemmeno io che stavo facendo.
«Oh no, Traffy resisti!» anche Rufy si era accorto della situazione «Doflamingo. Ora sono molto arrabbiato. Non ti permetterò di far loro del male.»
«Fufufu. Non immischiarti in battaglie che non ti appartengono, ragazzino»
«Ti sbagli. Questa battaglia mi appartiene eccome. Perché nessuno fa del male ai miei amici!»
Ebbi un sussulto. Quasi in automatico ormai, altre lacrime uscirono dai miei condotti lacrimali. Corsi a soccorrere il chirurgo, anche se c’era ben poco che potessi fare.
«Traffy» mi portai una mano tremante alla bocca, mentre le mie spalle e tutto il mio corpo erano scossi da potenti singhiozzi, che mi facevano provare dolore alle ferite ad ogni movimento. Mi inginocchiai accanto a lui.
«Tampona...la ferita...o si creerà un’emorragia» disse con un filo di voce e con molta fatica
«S-si» con la massima delicatezza posai le mie mani sul suo petto, dove sanguinava. Anche se per tamponare tutte le ferite che aveva non avrebbe avuto abbastanza mani nemmeno Nico Robin.
«Non la mia, la tua. Per me ormai c’è poco da fare»
«Oddio, non dire così. Non osare morirmi tra le braccia. Non osare morire in generale».
Qualcosa mi distrasse. Rimasi a bocca aperta di fronte all’infinita potenza di Doflamingo. Un’enorme stringa bianca si ergeva dal terreno e stava dando del filo da torcere a Rufy, che fu colpito e per un attimo rimase steso per terra. Attimo in cui il biondo approfittò per colpire noi. Si avventò sulle sue prede con la stessa prontezza con cui un avvoltoio si avventa sulle carcasse degli animaletti morti. Perché questo eravamo per lui. Animaletti indifesi che a breve sarebbero morti, possibilmente tra atroci sofferenze. Non potei fare niente, se non rimanere a guardare la fine imminente che veniva verso di noi. La sua mano mi sollevò da terra e le sue dita affusolate strinsero il mio collo. Non riuscivo a respirare, stavo soffocando. Stavo morendo. Ma non gli avrei dato la soddisfazione di vedermi piangere. Non so per quanto rimasi nella sua morsa stritolatrice, pregavo solo che finisse presto. In quel momento il mio pensiero andò ai miei cari, che non mi avrebbero più rivisto e non avrebbero mai saputo perché. L’unico torto alla fine, il re di Dressrosa lo stava facendo a loro. Ma proprio mentre le forze cominciavano a mancarmi e mi preparavo ad esalare gli ultimi respiri, la sua figura cominciò a svanire.
«Maledetti...ma non mi sfuggirete tanto facilmente. Non finisce qui!»
Lo guardai e lui guardò me. Nonostante gli spessi occhiali che rendevano impenetrabile il suo sguardo, ci fu un attimo in cui vidi i suoi occhi. Erano gelidi e li sentii fin dentro le ossa. Mi trafissero l’anima, proprio come i suoi fili avevano fatto con la mia carne.



Angolo autrice:
Ciao a tutti! Che dire? Non è un capitolo come gli altri...come ci sarà finita Cami a Dressrosa? E perchè? Cosa è successo? Cosa farà adesso? Si scoprirà tutto nel prossimo capitolo. Per ora spero che questo vi sia piaciuto almeno quanto ha fatto piacere a me scriverlo. Da brava sadica, adoro le scene tragiche e drammatiche :D
Da adesso gli ultimi capitoli rimasti saranno un po' meno comici e più "seri", ma mi auguro che varrà ancora la pena di leggerli. :) Come al solito ringrazio in anticipo chiunque leggerà la storia e chiunque vorrà lasciare una recensione. :) Alla prossima!

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Capitolo 25
*** Incubi ***


«Law! Che cosa le hai fatto!? Se scopro che hai fatto del male alla bella Cami io...»
«Fermo Sanji, aspetta! Forse non dovremmo entrare...»
Aprii gli occhi di scatto e mi tirai su. Mi accorsi di essere sudata e di avere le guance bagnate. Ansimavo, ansimavo terribilmente, mentre dalla porta provenivano rumori sinistri. Mi portai una mano alla gola, memore della recente sensazione di soffocamento e l’altra sulla guancia, che ancora bruciava per la ferita infertami. Ma non c’era niente sulla guancia. Così come sul braccio, sulla gamba e sullo stomaco.
«Si può sapere che hai da strillare tanto?» Law mi guardava con la schiena appoggiata alla testiera, le braccia incrociate e lo sguardo serio. Stava bene. Io stavo bene. Ma non potevo essermelo immaginato, erano sensazioni troppo forti per poter essere solo immaginate. Avevo fantasia, ma non fino a tal punto.
Sanji entrò con una foga che pensavo avrebbe sfondato la porta, con al seguito Usop e Marco. Tutti e tre avevano la faccia preoccupata.
«Cami-chan stai bene?»
Non sapevo che dire. Mi asciugai le guance e alzai la maglia per controllare ancora una volta che sul mio fianco sinistro non ci fosse nessuna ferita. E non c’era.
«Si...si. È stato solo un brutto, bruttissimo sogno a quanto pare»
Il biondo tirò un sospiro di sollievo. «Eravamo molto preoccupati. Ti abbiamo sentito urlare e pensavamo che Traffy ti avesse fatto qualcosa, sadico com’è» fece un mezzo sorriso e si grattò la nuca in segno di imbarazzo.
«Beh, dato che è tutto a posto io me ne torno a dormire. Buonanotte» disse Marco, girandosi e andandosene – per modo di dire visto che il divano non era a più di dieci metri da lì – seguito da Usop che si rilassò e ci augurò la buonanotte.
«Mi dispiace per aver dubitato di te Traffy» si scusò Sanji
«Non c’è problema» rispose lui, con l’aria di chi era stato molto più infastidito dalle urla che avevano interrotto il suo pacifico riposo.
«Vuoi raccontarmi il sogno?» chiese poi rivolto a me.
«No, no. Nemmeno me lo ricordo più»
«D’accordo. Hai bisogno di qualcosa?»
Scossi la mano in segno di negazione e mi accorsi che tremava. La richiusi a pugno per non farlo vedere e salutai il cuoco, che finalmente si richiuse la porta – che era ancora attaccata ai cardini per fortuna – alle spalle e tornò sul suo materasso.
«Mi dispiace di averti svegliato»
«Lo avevo messo in conto. Quando si ha a che fare con pazienti con febbre alta possono capitare allucinazioni molto vivide seguite da urla»
E così adesso ero una sua paziente? Sempre meglio di niente.
«Non era un’allucinazione. Era come se fossi lì» il ricordo di quell’incubo mi fece rabbrividire e scesi dal letto in direzione del bagno. Mi lavai le mani strofinando bene con il sapone. Ancora mi sembrava di avere il sangue di Law incrostato sulle dita. Mi ricordai della scena in cui Rufy si sente ancora addosso il sangue del fratello ormai defunto. Non potevo capirlo appieno ma di certo doveva essere stato orribile. Una volta finito mi sciacquai la faccia. Andavo a fuoco e non solo per la febbre ma anche per l’agitazione che quel sogno mi aveva messo. Mi guardai nello specchio sopra al lavandino. Avevo davvero una faccia sconvolta e stanca. Controllai ancora una volta che il collo non fosse rosso. Non lo era. Inspirai ed espirai profondamente per poi appoggiare due dita alla tempia e chiudere gli occhi.
«È solo un brutto sogno. È solo un brutto sogno. È solo...un brutto sogno.» sussurrai tra me e me a voce bassissima.
«Te l’ho detto, è normale avere dei sogni vividi di questo tipo quando si è nella tua condizione»
Sussultai – un’altra volta tanto per cambiare – e mi girai con una mano posata sul petto in segno di spavento. Appoggiato allo stipite della porta c’era il chirurgo sempre con la sua espressione impassibile, anche se mi sembrò un po’ assonnata.
«Condizione? Addirittura?»
«Uso solo i termini appropriati»
«Certo, certo...» dissi, con la faccia di chi ha perso le speranze
«Quando hai fatto, mi servirebbe il bagno»
Mi appoggiai al lavandino e incrociai le braccia come faceva sempre lui. «Hai la vescica iperattiva?» chiesi in tono canzonatorio
«Chi lo sa» alzò le spalle ghignando. Era un atteggiamento che non era tipico di lui. Di solito mi avrebbe guardato male e avrebbe evitato di rispondermi. Mi staccai dal lavandino guardandolo storto e mi diressi fuori dal bagno, per rimettermi al caldo sotto le coperte. Sentii lo sciacquone tirare, l’acqua del lavandino scorrere e aspettai che il medicastro facesse la sua comparsa.
«A me non interessa cosa hai sognato» cominciò lui
«Si, l’avevo capito» replicai io
«Ma vorrei capire per quale motivo stavi urlando il mio nome così disperatamente».
Non risposi subito. Gli diedi il tempo di rimettersi a letto. Mi girai a pancia in giù, con la faccia sul cuscino rivolta verso di lui.
«Semplice. Ho sognato che rimanevo bloccata con te su un’isola deserta per sempre. Non c’era modo di andarsene, né di uccidersi» dissi, cercando di sembrare il più allegra e convincente possibile. Non volevo raccontargli del mio sogno, mi avrebbe presa sicuramente per pazza. Eppure qualcosa mi diceva che avrei dovuto dirglielo. In fondo nel sogno c’era anche lui e io provavo un’inquietudine che poche volte nella mia vita avevo provato.
«In tal caso sarebbe stato un incubo più per me che per te»
Sbuffai una risata, auto-convincendomi che avevo fatto solo un brutto sogno più reale degli altri. Era tutto ok.
«Comunque, ne parleremo domani, adesso riposati e cerca di non assordarci con i tuoi ululati»
«Ci proverò. Buonanotte» risposi semplicemente, ancora troppo inquieta per le sensazioni che avevo provato nel sonno. Il resto della notte passò di merda. Ci misi un’eternità per addormentarmi e quando lo feci non sognai niente. Mi svegliavo ogni mezz’ora in preda all’ansia e non capivo se il fatto che non sognassi era perché dormivo così profondamente da non accorgermi di stare sognando o perché ero in una sorta di dormiveglia che mi impediva di fare sogni.
«Buongiorno cioccolatino!»
Questo era di sicuro Sanji che come al solito, di prima mattina, doveva venire a rompere le uova nel paniere dopo aver rotto e cucinato quelle vere. Si sentiva il profumo da chilometri. Aprì le tende della finestra con un gesto secco, facendo entrare l’adorabile luce mattutina che puntualmente finì tutta sui miei occhi. Risposi facendo un suono gutturale e girandomi dall’altra parte, come facevo sempre con la donna di servizio che veniva a urlarmi nelle orecchie per svegliarmi.
«Traffy mi ha detto di svegliarti verso le dieci se non ti fossi svegliata da sola. Ti ho preparato la colazione» disse, felice come una Pasqua poggiando il vassoio – sul serio? Un vassoio? – sul comodino.
«Digli che può andare al diavolo» mi rigirai ancora dalla parte opposta di dove si trovava il cuoco
«Glielo riferirò. Però intanto ha detto che devi misurare la febbre».
Sbuffai pesantemente, rassegnata al fatto che mi sarei dovuta alzare o perlomeno svegliare. Sanji poteva essere una vera piattola certe volte. Mi tirai su, appoggiando la schiena alla testiera del letto e incrociai le braccia in segno di disappunto. Lui mi porse il termometro e io lo ficcai sotto l’ascella.
«Come avrai intuito, gli altri sono usciti e siamo rimasti di nuovo io e te, soli soletti» fece la sua solita espressione ebete da innamorato «Ah, ho fatto la spremuta d’arancia, si dice che faccia bene per chi ha la febbre» mi riferì mentre aspettavamo che l’apparecchio suonasse
«La spremuta d’arancia mi fa schifo».
Suonò e lessi trentanove e quattro. Ancora troppo alta per poter tornare a casa. Era buffo, sembrava un sequestro. Eppure in fondo mi faceva piacere stare lì, anche se contro la mia volontà. Scostai le coperte e mi sedetti sul bordo del letto. Mi alzai e feci un passo, troppo in fretta. La testa mi girò e mi sbilanciai. Il biondo mi riprese al volo e mi rimise seduta sul letto.
«Ehi, piano corritrice» fece apprensivo. Lo guardai male e liberai il braccio dalla sua presa. «Sto bene. E non ho bisogno di un baby sitter»
«Ok, ok, sei nervosa. È per via dell’incubo di stanotte?»
«Si. No. Non lo so. Devo andare in bagno, spostati».
Alla fine mi accompagnò e mi aspettò anche – fuori dalla porta chiusa ovviamente – per riportarmi a letto. La verità era che ero nervosa perché odiavo stare male. O meglio, odiavo dover dipendere da qualcuno. Perciò non vedevo l’ora di guarire e ritornare alla normalità – se così si poteva chiamare – in cui Traffy mi odiava e non mi parlava e Sanji non mi trattava come se fossi una portatrice di handicap grave.
Mi convinse a bere la spremuta e a mangiare qualche biscotto, poi dovette tornare in cucina e mi lasciò a me stessa e ai miei pensieri. Non avendo più sonno e non avendo niente da fare, presi il cellulare e controllai le notifiche di Whatsapp. Mi avevano scritto entrambi i miei migliori amici, qualcuno sul gruppo della classe e mia mamma, che chiedeva se stavo bene. Risposi a tutti e mi misi a giocare a Candy Crush Saga. Mi imposi mentalmente di non far mai scoprire a Rufy l’esistenza di questo gioco se non volevo ritrovarmi lo schermo pieno di saliva o peggio, se non volevo che ingoiasse il telefono intero. Sorrisi, poi, quando pensai a Chopper. Di sicuro gli sarebbero venuti gli occhi lucidi solo a vedere le caramelle sul display e mi avrebbe monopolizzato il cellulare. Non che ci fosse pericolo, non avrei mai incontrato la piccola renna.
Andai avanti così per un’ora, finché decisi che poteva bastare. Invece di migliorarlo, quello stupido gioco aveva peggiorato il mio mal di testa. Provai a dormire, ma mi ridestai all’improvviso quando sentii della musica provenire dalla sala. La scena che mi si presentò davanti fu unica. Sanji che cucinava a ritmo di una canzone pop.
«Da quando abbiamo una radio?»
Si girò di scatto. «Ti ho svegliato con questa musica, Cami-chan? Mi dispiace!» fece mortificato
«No tranquillo. Non stavo dormendo, stavo morendo di noia. La musica mi ha fatto tornare un po’ di buonumore»
«Sono contento di aver reso di buonumore la mia Cami-chan!» si perse in un’espressione sognante e quando si fu ripreso continuò «comunque da quando Usop ha voluto che la rubassimo per studiarla meglio»
«Ah. Beh, ha fatto un’ottima scelta, la vita senza musica non è vita»
«Nemmeno senza il buon cibo, però»
«Hai ragione» sorrisi, pregustandomi già nella testa quali prelibatezze ci avrebbe preparato Sanji per pranzo. Partì “Photograph” di Ed Sheeran e io tesi una mano verso il biondo.
«Mi concede questo ballo, Mr. Prince?»
«Cami, tesoro, certo!» impazzì per un po’, poi tornò serio e si inchinò davanti a me. Mi cinse la vita con un braccio mentre io sistemai la mano sulla sua spalla e cominciammo a ballare. Dovevo ammettere che era molto bravo con la danza, forse aveva preso qualche lezione da Mr. 2 o da Viola. Io invece ero impacciata fino all’inverosimile, se poi si considerava anche il fattore febbre la situazione peggiorava drasticamente.
«Scusa» dissi dispiaciuta, dopo avergli pestato il piede per l’ennesima volta. In tutta risposta lui mi fece roteare su me stessa un paio di volte, per poi avvicinarmi a sé e sollevarmi. Quando mi rimise giù, i miei piedi erano sui suoi, eravamo ancora più vicini e lui continuava a ballare come se niente fosse.
«Le principesse non devono affaticarsi» mi sussurrò, facendomi scappare un sorriso. Mi ricordò la scena di Twilight in cui al ballo di fine anno Edward fa salire Bella, che ha il gesso a una gamba, sui suoi piedi per permetterle di ballare. Ad ogni modo la canzone finì e con essa anche l’atmosfera magica. All’improvviso mi aggrappai al cuoco.
«Cami? Stai bene?» mi chiese preoccupato
«Non tanto...» risposi ancora attaccata al suo braccio
«Ok, forse è meglio che ti riporti a letto»
Feci segno di no con la testa. Non ci volevo tornare a letto.
«Dovresti riposare, Traffy se la prenderà con me se le tue condizioni peggiorano»
Ma quali condizioni accidenti a loro? Era solo febbre, non ci sarei morta! Potevo capire che facendo vita di mare si poteva morire anche per un raffreddore se non ci si faceva attenzione, ma qui eravamo sulla terraferma e soprattutto in un mondo che aveva fatto progressi enormi nel campo medico.
«Cami-chan» mi richiamò Sanji, ma il suono della sua voce mi parve tanto lontano e ovattato. Sentivo il cuoco che mi chiamava, ma non riuscivo a capire da dove venisse il suono. Era la stanza che girava o ero io? Perché mi sembrava di fluttuare nel nulla?
 Perché tutto si faceva sempre più bianco e sfocato?

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Capitolo 26
*** Chiacchierate ***


«Secondo voi è morta?»
Usop.
«Tsk. Stai attenta fenice, o dopo il mio letto si impossesserà anche del tuo divano!»
Zoro.
«Forse se le diamo della carne si riprenderà»
Rufy.
«Datele spazio per respirare, non statele così addosso, razza di idioti»
Sanji.
Aprii lentamente gli occhi. Ero stesa sul divano, con una pezza bagnata sulla fronte e tutti i pirati, tranne uno, che mi fissavano.
«Sto bene, non c’è niente da vedere» dissi infastidita
«Cami-chan, ti sei ripresa! Meno male! Ero molto preoccupato per te!» esclamò il biondo
«Grazie per la premura, ma ora potete tornare alle cose che fate di solito» li guardai uno a uno con un sorriso a metà tra l’allegro e il contrariato. Cercai di alzarmi puntellandomi sui gomiti, sentendo ancora la testa un po’ pesante. Il cuoco cercò di aiutarmi a tirarmi su, ma io mi ribellai alla sua presa. Alla fine dovetti cedere al suo aiuto, visto che non riuscivo a mettermi in piedi da sola senza rotolare giù dal divano. Dopo un po’ si dileguarono tutti e tornarono alle loro attività di sempre, Sanji su mie ripetute sollecitazioni dopo avergli assicurato che stavo bene. Solo Marco era rimasto lì in piedi a fissarmi.
«Rivuoi il tuo divano?»
«Non ho niente da fare. Il mio compagno di giochi non c’è»
Assottigliai gli occhi guardandomi in giro. «Già. Dov’è Traffy?»
La fenice alzò le spalle e uscì in balcone, dove lo spadaccino era già alla duecentesima e qualcosa flessione. Si stiracchiò e in qualche modo mi fece pensare a lui sul ponte, in una giornata di sole, che controllava che tutti i mozzi eseguissero il proprio lavoro, magari sgridando Vista e Fossa per il troppo rumore. A lui che sorrideva a Satch, o a Ace, o a Barbabianca; e se dapprima sorrisi, qualche secondo dopo dovetti distogliere lo sguardo. Proprio nel momento in cui la serratura della porta girò. Rimasi lì in piedi come un’ebete senza sapere che fare, se tentare di correre a letto o buttarmi sul divano. Quando entrò, la famigerata figura mi squadrò da capo a piedi.
«Dovresti essere a letto»
«Dov’eri finito?» chiesi, notando che aveva con sé delle buste poco raccomandabili
«Volevo vedere com’era gestita la sanità nel tuo mondo»
«Se intendi quella mentale, è partita da un sacco di tempo» scherzai, ma neanche tanto. Ghignò prima di intimarmi di tornare a letto. Roteai gli occhi e ubbidii, il medico era lui. Non volevo starmene sotto le coperte in panciolle tutto il giorno, avevo bisogno di fare qualcosa. L’iperattività di Rufy mi aveva contagiato a lungo andare. Aspettai una decina di minuti cercando di interpretare i rumori che provenivano dalla sala. Sanji aveva spento la radio, che peccato. Era così che funzionava, quando tornava Law l’atmosfera si gelava e sembrava di essere in Siberia. Se Punk Hazard era per metà un’isola ghiacciata era tutta colpa del chirurgo, altro che Aokiji. Guardai l’ora sul display del telefono e mi accorsi che era mezzogiorno passato, segno che mancava poco al pranzo. Il pranzo. L’unica cosa positiva di quella giornata tremenda. Avrei tanto voluto delle lasagne e del pollo arrosto con patate. Alla faccia che chi era malato non aveva fame. Inclinai la testa con aria sognante, inspirando l’ipotetico odore di tutto quel ben di Dio che mi stavo immaginando davanti.
«Non penserai di poter mangiare quello che ha preparato il cuoco, vero?» chiese il medico, che nel frattempo era entrato nella stanza senza che me ne accorgessi
«Cosa? E perché non posso?» mi accigliai, ignorando il fatto che fosse riuscito in qualche modo a leggermi nel pensiero
«Ho già detto al biondo di prepararti un brodo caldo»
«Oh, ma accidenti! È solo una stupida insolazione! Al diavolo il brodo, io voglio la carne!»
«È brodo di pollo, c’è la carne»
«Ci rinuncio!» esclamai esasperata gettando la testa indietro e facendola affondare nel cuscino, pentendomi subito dopo del gesto troppo violento. Rimasi in quella posizione per un po’, prima di rendermi conto che mi stavo comportando esattamente come una bambina viziata. Non volevo assolutamente apparire così ai suoi occhi, ma mi stava negando il cibo! Con la coda dell’occhio però, vidi che si infilava dei guanti in lattice. Che aveva intenzione di fare?
«C-che vuoi fare?» mi allarmai. In un attimo scostò le coperte e mi sentii nuda di fronte a lui, nonostante fossi vestita. Mi alzò anche la maglietta e a quel punto avvampai. Sogghignò di fronte alla mia reazione e cominciò a scorrere due dita lungo tutta la mia cavità addominale. Mi stava facendo il solletico e trattenni il respiro per non scoppiargli a ridere in faccia. Già la situazione era abbastanza imbarazzante, ci mancava solo che mi mettessi a ridere senza ritegno. A un certo punto passò il dito proprio dove la sua nodachi mi aveva trafitto nel sogno e io sobbalzai, rivivendo quell’orribile momento. Senza dire una parola prese dal comodino un tubetto di crema, lo aprì e ne versò un po’ sul punto maledetto. Sobbalzai di nuovo, sia perché il gel era freddo, sia perché non capivo perché mi avesse versato addosso della pomata proprio in quel punto.
«Mi dici che accidenti stai facendo?»
«Sto visitando la mia paziente. Ora fai silenzio»
«No! No caro mio, non sarò la tua cavia da laboratorio!» cominciai a innervosirmi e mi alzai, iniziando a cercare per tutta la stanza un fazzoletto con cui pulirmi. Con tutta calma lui mi mostrò il tubetto e io vidi che era semplice Connettivina. Fermai la mia corsa pazza nel bel mezzo della camera e incrociai le braccia.
«È psicologia elementare. Hai sussultato in quel punto e le opzioni erano due» disse passandomi un pezzo di scottex «o ti sei ustionata, ma a giudicare dalla mancanza di rossore o bollicine non è così, o quello è un punto critico per te»
«Non potrebbe semplicemente essere che quello è un punto in cui soffro il solletico, Mr. Saccente?» dissi mentre mi ripulivo accuratamente dalla crema
«Potrebbe, ma tu soffri il solletico in qualsiasi punto, non vedo perché quello dovrebbe essere più sensibile rispetto agli altri»
Sospirai. Allora se n’era accorto. «Non mi lascerai in pace finché non ti avrò raccontato cosa è successo ieri notte, vero?»
Sorrise, con una strafottenza che avevo visto a pochi.
«Ti detesto.»
«Lo so, ora dimmi cosa hai sognato e che c’entrava con me» mi incalzò mentre appoggiava il mento sul palmo della mano. Me la pose come semplice affermazione, ma mi sembrava più un ordine.
Sbuffai pesantemente, rassegnandomi al fatto che avrei dovuto comunque raccontargli tutto e me ne tornai al caldo sotto le coperte. Almeno non aveva scoperto che ero svenuta come una pera cotta. Gli dissi per filo e per segno quello che avevo sognato. Anzi, lo avevo proprio vissuto. Non potevo provarlo visto che non avevo segni di ferite o altro, ma io c’ero stata in quello scontro. Lo avevo visto con i miei occhi.
«Traffy devi credermi! Era reale!»
«Era solo un sogno»
«Ma tu c’eri! Hai vissuto tutto in prima persona, sai che non posso essermelo inventata!»
«Sai come è andata perché l’hai letto»
«Ti prego Traffy ho bisogno che tu mi creda. Ho sentito tutto. Le tue urla di dolore, i fili acuminati di Doflamingo, la tua nodachi che mi trafiggeva, tutto»
«Sei qui e stai bene. E anche io. È stata solo un’allucinazione»
«Ti dico di no. Tu non mi vuoi credere, ma non è stato così.»
«Quindi secondo te che cosa è stato? Un sogno premonitore?» mi chiese in tono di scherno
«E come faccio a saperlo!?»
Mi rivolse un’occhiata eloquente. Sapevamo entrambi che aveva ragione lui, tutto ciò era irrazionale.
«Senti, lo so che è assurdo. Insomma, Doflamingo è a Impel Down e non credo che ne uscirà tanto facilmente a meno che non intervenga Kaido o Jack o chi altro...»
Mi guardò come si guarda un cane che sta per essere soppresso, con una punta di divertimento nelle pupille per il mio improvviso impazzimento.
«E so anche che io sono qui e lui è lì» gesticolai con le mani per far capire a Law – come se ne avesse bisogno – quanto fossimo “lontani” «e non c’è la minima possibilità che noi ci incontriamo. Quel brutto fenicottero cattivo è addirittura in un altro mondo!» fui interrotta dal dottore che mi porse il termometro. Come al solito lo misi sotto l’ascella e aspettai che suonasse.
«Per fortuna, dico io...però c’è qualcosa che mi turba lo stesso» continuai con il mio discorso insensato. Almeno però avevo la scusa del delirio da febbre.
«Con tutti gli scontri perché hai sognato quello tra me e Doflamingo?» mi chiese all’improvviso il chirurgo, lasciandomi spiazzata.
Allargai le braccia e alzai le spalle «Come se lo sapessi. Forse perché è l’ultimo che ho letto nel manga»
Non poté ribattere alla mia ultima affermazione. A quel punto aspettammo che il termometro facesse il suo solito bip di conferma. Quando lo tirai fuori, Law me lo strappò dalle mani con la sua solita delicatezza e non potei leggere il risultato. Non appena ebbe visto, mi poggiò il dorso della mano sulla fronte.
«Trentotto e due. Sta scendendo»
«Questo vuol dire che stasera mi farai tornare a casa?»
«No»
«E dai! Ho delle cose da fare! Cose importanti!»
A quel punto tirò fuori da una delle buste poco raccomandabili un blister di aspirine e mi venne da ridere.
«Scioglile in acqua e prendile ogni quattro, otto ore».
Odiavo le pasticche. Ma il capo mi aveva detto di prenderle, quindi avrei dovuto escogitare un modo per sbarazzarmene senza essere scoperta. Ma avrei dovuto pensarci dopo, perché proprio in quel momento entrò Marco. Aveva aperto la porta con il piede perché le mani erano occupate a tenere un vassoio.
«Sanji mi ha mandato a dire che il pranzo è pronto» disse rivolto a Traffy, che si alzò e imboccò la porta. Poi la fenice venne verso di me con il vassoio sempre tra le mani.
«Fate sul serio? Sono ancora in grado di mangiare come le persone normali» feci sgarbata
«Ehi, ambasciator non porta pena» sorrise «e poi è un pranzo a letto! Pagherei per avere un trattamento del genere»
Risi e una volta che mi ebbe appoggiato il vassoio sulle gambe, controllai il mio pranzo. Brodo di pollo, acqua, tre fette di pane, una mela e una banana. Peggio che in ospedale. Per fortuna il cuoco era Sanji.
«Dopo arriva anche la spremuta d’arancia» fece il biondo, comprensivo, dopo aver visto la mia faccia sia scettica che disgustata. Evitai di commentare perché avrei speso solo parolacce e insulti per quel misero pranzo quando nell’altra stanza stavano consumando sicuramente un pranzo cento volte migliore di quello che era toccato a me.
«Ti faccio compagnia. Tanto ho già mangiato» mi sorrise di nuovo e si sedette sulla sedia sulla quale era seduto prima Law, accanto al letto
«E cosa hai mangiato? Anzi no, non lo voglio sapere»
«Polpette al sugo»
Li odiavo tutti, dal primo all’ultimo. Decisi che non avrei parlato per un po’, per non risultare maleducata. Almeno ci si fossero strozzati. Dopo qualche minuto in cui aveva regnato il silenzio, Marco aprì bocca e quello che ne uscì mi lasciò piuttosto perplessa.
«Ultimamente il chirurgo ti dedica molte attenzioni»
«È perché sono malata e ha bisogno di una cavia da laboratorio su cui sperimentare nuove tecniche di guarigione»
«Non sarà che un po’ vi piacete?» chiese all’improvviso. Rimasi con il cucchiaio e la mano a mezz’aria. Mi girai lentamente verso di lui per guardarlo in faccia e capire se facesse sul serio. A quanto pareva si, nonostante negli occhi avesse un po’ di malizia.
Scoppiai a ridere e continuai per cinque minuti buoni. Mi sforzai di tornare seria e fissai lo sguardo al suo.
«Marco, lo sai che mi piaci solo tu» gli poggiai una mano sul petto e la feci scorrere fino allo stomaco. Dapprima si mostrò un po’ in imbarazzo, per poi sciogliersi in una fragorosa risata con me.
«Non credo che ci sarà mai una donna in grado di sopportare Traffy» dissi asciugandomi una lacrima all’angolo dell’occhio «anzi, un essere vivente» ricominciai a ridere.
«E tu?» domandò Marco, come al solito vago. Lo guardai. Non sapevo quanto potevo risultare convincente con gli occhi lucidi e stanchi per la febbre e il vassoio con il pranzo sulle gambe, ma lo dissi lo stesso.
«Ascolta bene queste parole, Marco la fenice. Io non mi innamorerò mai.»

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Capitolo 27
*** Mesiversario ***


Finalmente dopo tre giorni e due notti di prigionia, il chirurgo della morte aveva deciso che stavo bene e che potevo tornarmene a casa. Quando dicevo che avevo urgenza di tornare a casa per fare delle cose importanti, dicevo davvero. Perché quello era un giorno importante. Era esattamente un mese che stavano lì, con me. Un mese che li sopportavo e che loro sopportavano me. Il mese più bello della mia vita  e anche il più assurdo. Tra desideri, prelibatezze, chirurghi sadici, insolazioni, incubi, amiche impiccione e bollette. La verità era che li adoravo, adoravo stare con loro e adoravo anche la me stessa che ero quando stavo con loro. Ero una persona diversa da quella che ero un mese prima, prima di conoscerli. Ero allegra, felice e come diceva mia mamma con gli occhi luccicanti di voglia di vivere. Non sapevo quando se ne sarebbero andati, ma sapevo che prima o poi quel giorno sarebbe arrivato e speravo con tutta me stessa che quando fosse successo, sarei rimasta quella che ero mentre c’erano loro. Non volevo più essere la cupa e triste Camilla a cui pesava alzarsi dal letto la mattina. Volevo essere la Camilla che non vedeva l’ora di alzarsi dal letto per poter stare con i suoi amici pirati, anche se non ci sarebbero più stati. Tra due settimane sarebbe ricominciata la scuola e io speravo solo che questo ultimo anno me lo sarei goduto, come non avevo fatto con i precedenti quattro. Speravo solo di non ritornare a sentirmi di nuovo in gabbia, perché avevo imparato a sentirmi libera. Ero un uccellino che aveva imparato a volare e avevo volato anche letteralmente, quindi dovevo “solo” continuare a volare. Continuare a sorridere. E me lo imposi, imposi a me stessa di essere felice. Di godermi la vita. E mi venne da ridere mentre avevo le mani immerse nell’impasto di quella che sarebbe diventata una torta. Quella era la prima e ultima volta che osavo cimentarmi in cucina, ma almeno quello glielo dovevo. Era colpa mia se erano stati catapultati nel mio mondo. Ma durante la realizzazione della mia opera d’arte culinaria non pensai a quello. Non pensai a chi attribuire la colpa. Pensai solo che ero molto contenta che loro fossero lì con me e che tra tutti la Stella avesse deciso di realizzare proprio i miei desideri. Aggiunsi l’ultimo ingrediente all’impasto e dopo aver mescolato, infornai. Misi il timer ed uscii. L’idea di bruciare la cucina mi preoccupava parecchio, ma si trattava di fare compere veloci al supermercato sotto casa. Per fortuna ero stata previdente e avevo chiesto alla mia migliore amica, maggiorenne, di prestarmi la sua tessera sanitaria. Mi fecero un po’ di storie perché volevano un documento con la foto, ma alla fine mi lasciarono comprare lo spumante e il liquore. Salii appena in tempo per togliere la torta dal forno. Dovevo ammettere che era venuta proprio bene. Aspettai che si raffreddasse, la glassai e uscii di nuovo per ridare il documento alla mia migliore amica, in attesa che la glassa sul dolce si raffreddasse.
Il pomeriggio, torta e spumante in spalla, ero da loro.
«Cami, ciao! Ultimamente ci incontriamo spesso, eh?» una voce mi richiamò mentre tentavo di aprire il portone del palazzo
«Sara! Eh si, sono venuta a portare ai miei amici una torta fatta da me»
«Tu che fai una torta? Non so chi siano questi tuoi amici, ma tieniteli stretti! Se sono riusciti a farti fare una torta devono essere davvero speciali!» scherzò. Io ci risi su, ma in cuor mio sapevo che erano davvero speciali e che me li sarei tenuti stretti con il pensiero e avrei seguito sempre le loro avventure. In qualche modo, Sara riusciva sempre a dire la cosa giusta al momento giusto, sebbene la maggior parte delle volte lo facesse inconsapevolmente. Anche se adesso era quasi una donna, in lei c'era ancora la bambina di una volta, quella che guardava il mondo con occhi pieni di meraviglia e che un po' invidiavo. Ma proprio questo ci accomunava, da qualche parte in noi c'era ancora l'innocenza e lo stupore tipici di un bambino. Avevo imparato a riscoprirli ma soprattutto a riscoprirmi, con i pirati.
Aprii la porta e sorrisi. Eccoli, i miei paladini. Mi salutarono calorosamente e Rufy mi fu davanti in men che non si dica, curioso di sapere cosa nascondessi sotto al contenitore.
«Cami, mia dea, mi sei mancata! Che cosa ci portano le tue dolci mani?»
«Sanji, tesoro, anche tu. Questa è una torta, fatta da me»
«Oh, le tue mani gentili e perfette avranno fatto sicuramente una torta buonissima!»
«Io non la mangio» fece Law, simpatico come al solito
«Non è che la torta è un pretesto per avvelenarci vero?» chiese sospettoso Usop
«Può darsi, ma questa volta mi sono limitata a metterci gli ingredienti della ricetta. Dobbiamo festeggiare!»
«Perché?» domandò Rufy, smanioso di assaggiare il dolce
«Perché è il nostro mesiversario! Cioè, il vostro...comunque è un mese che siete qui»
«Non c’è niente da festeggiare» disse il chirurgo, gelido
«Hai portato da bere?»
«Si Zoro, tranquillo» gli sorrisi e poi con la faccia di chi la sapeva lunga mi avvicinai al suo orecchio e gli sussurrai «ti ho anche portato una bottiglia di liquore tutta per te»
Ghignò e io gliela consegnai.
«Bene, allora che stiamo aspettando?» Marco mi aiutò a togliere la torta dalla confezione mentre Sanji andava a prendere piatti, bicchieri e posate.
«Aspetta Rufy!» lo ammonii vedendo che si stava per avventare su quel povero dolce indifeso «prima ci devo mettere le candeline».
Ne misi una al centro che aveva la forma del numero uno. Tutt’intorno ne posizionai sette. Feci la foto con il telefono, ignorando Usop che mi chiedeva perché fossero rosa e sorridendo quando il suo capitano si stupì che il mio cellulare fosse multiuso. Versammo lo spumante negli appositi bicchieri e la piccola festa poté cominciare.
Dovevo dire che se c’era una cosa che quei pirati sapevano fare bene era proprio festeggiare. La torta finì in pochi minuti e così anche lo spumante. Per tutto il pomeriggio ridemmo, scherzammo e ci raccontammo aneddoti. Il momento più bello fu quando il cuoco mi chiese la ricetta del dolce. Lui, il miglior cuoco dei sette mari, che chiedeva a me la ricetta di qualcosa! Mi immaginai come potesse venire buona cucinata da lui e mi venne l’acquolina in bocca al solo pensiero. Anche cappello di paglia e il cecchino si complimentarono con me. A quanto pare non ero poi così tanto male come pasticcera.
«Dato che stasera i miei genitori non ci sono, siete tutti ospiti da me. Devo farvi vedere una cosa» dissi a un certo punto, mentre mi versavo nel bicchiere l’ultimissimo sorso di spumante rimasto
«Spero che sia la Stella» commentò il medicastro, sempre in prima linea quando si trattava di rovinare l’allegria
«In un certo senso si» spostai la testa di lato e ci riflettei, per poi scoppiare a ridere.
«Ok, io direi basta con l’alcol per oggi» Sanji mi tolse delicatamente la bottiglia dalle mani e la prese sotto custodia
«Ehi!» protestai io. In realtà aveva ragione. Poco ci mancava che mi mettessi a ballare sopra il tavolo. Ma non era l’alcol a farmi agire così, era la gioia e la spensieratezza che mi trasmettevano loro. Certo, l’alcol dava il suo contributo, non ero mai stata una gran bevitrice e non avevo mai retto granché nulla di alcolico, ma pazienza. Non sarebbe stato quel goccino in più a farmi ubriacare. Perché già ero ubriaca, ero ubriaca di vita, come tutti loro. Tranne forse il chirurgo, che come suggeriva il suo soprannome preferiva la morte.
Verso le sette di sera ci incamminammo compatti verso casa mia. Compatti per modo di dire, visto che Zoro continuava a sbagliare strada. Come fosse possibile non lo so, visto che bastava andare dritti e solo durante l’ultimo tratto girare verso le scale.
Appena arrivati all’appartamento, tirai fuori da un mucchio di altri fogli, il foglietto di carta della ricetta della torta. La trascrissi per Sanji e gliela consegnai. Lasciai quest’ultimo ai fornelli e gli altri cinque sul divano prima di congedarmi e andare a cercare la scatola magica. Quando la trovai ghignai pericolosamente. Tornai dai ragazzi e sfoderai la mia arma segreta, che sarebbe stata parte dell’intrattenimento di quella sera.
«Ta dà!» la presentai come fanno le ragazze del wrestling che girano per il ring con i cartelli in mano
«Che roba è?» chiese Usop un po’ perplesso
«Twister!» feci io eccitata all’idea di giocarci. Mi guardarono ancora più perplessi e io spiegai loro per filo e per segno in cosa consisteva. Law si rifiutò di giocare, Sanji declinò gentilmente l’invito, Marco si offrì per girare la freccia del tabellone, Rufy e Usop vollero sperimentare il gioco in prima linea e Zoro non si espresse. Alla fine lo costrinsi a giocare inventandogli che sarebbe stato un ottimo allenamento per la sua flessibilità.
«Ehi, Rufy, sposta quel piede!»
«Sposta tu il naso Usop, mi stai trafiggendo!»
«Non è colpa mia Cami. C’è Zoro, non posso andare più in là!»
«Adesso basta! Ma che razza di allenamento è questo!? Io me ne vado» lo spadaccino, preso dal nervoso, si sgrovigliò dalla sua posizione e se andò, probabilmente in cucina per vedere se c’era dell’alcol. Ancora non aveva capito che tutto l’alcol lo tenevamo chiuso nella credenza in sala da pranzo.
«Cami: mano destra sul rosso. Rufy: piede destro sul giallo. Usop: piede sinistro sul verde»
Ci muovemmo tutti insieme. Come degli idioti ci scontrammo e come degli idioti cademmo per terra. Era inevitabile data la situazione. Per fortuna atterrai sul cecchino – che si lamentò un po’ – e non mi feci niente. Però risi insieme a Rufy. Il gioco gli era piaciuto particolarmente, anche perché se non piaceva a lui che era di gomma non sapevo a chi poteva piacere. La cosa che gli piacque particolarmente è che nessuno aveva vinto o perso, eravamo tutti caduti nello stesso momento, tranne Zoro che come aveva detto lui era un "burbero incapace di prendersi una pausa e divertirsi". Non era l'unico per cui quella definizione calzasse a pennello. Mi ricordava vagamente un certo chirurgo dagli occhi di ghiaccio... Poco dopo la cena fu pronta e dovemmo interrompere il gioco. Una volta finito di mangiare, quando anche Sanji ebbe finito di lavare i piatti, ci sistemammo tutti sul divano come i vecchi tempi e prima di accendere la tv, feci un discorso.
«Stasera voglio farvi vedere due dvd. Sono la prima e la seconda parte della stessa storia sostanzialmente. Li guardavo sempre quando ero piccola e la storia che raccontano è la versione per bambini del motivo per cui siete qui. Non fatemi domande, quando lo vedrete capirete» li squadrai tutti e più d’uno aveva la faccia confusa «o almeno qualcuno di voi capirà...ad ogni modo, godetevi i dvd».
Inserii il disco nel videoproiettore e spensi la luce, andandomi a sistemare al mio solito posto sul divano, che i pirati avevano lasciato appositamente vuoto. Aspettai che il primo dvd partisse, congiungendo le mani e posandoci sopra il mento. Già mi pregustavo le magnifiche emozioni che mi avrebbero suscitato quei film, come accadeva ogni volta.

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Capitolo 28
*** Ultimo desiderio ***


Un brivido mi attraversò quando sentii il narratore dire le parole d’inizio del cartone, parole che ormai sapevo a memoria. Marco, che era accanto a me, sorrise quando vide le mie labbra muoversi in sincrono con le parole pronunciate dalla voce narrante. “Questa è una storia senza tempo, di ieri come di domani. Ma quanto al luogo, non v’è dubbio: essa ha inizio a Londra, in una strada del quartiere di Bloomsbury.”
Avrei continuato il mio solenne discorso, ma qualcuno mi interruppe. Stoppai, per non far perdere agli altri nemmeno mezza parola, o forse per non farla perdere a me.
«Dov’è Londra?»
«È in Inghilterra» risposi infastidita
«E dov’è l’Inghilterra?»
Sbuffai «È lontana da qui, Rufy. Non puoi andarci»
«Oh...uffa» sembrò deluso e si chetò.
“Nella casa d’angolo laggiù, abitava la famiglia Darling, e Peter Pan la prescelse tra le tante perché là vi era più d’uno che credeva nella sua esistenza.”
Il resto del film scorse tranquillo. Tranquillo per modo di dire, visto che cappello di paglia, insieme al cecchino, rideva e partecipava attivamente al film. Mi scappò inevitabilmente una risata quando il padre di Wendy disse “Pan o Pane è la stessa cosa”. Pensai a Law che rabbrividiva e dovetti mettermi una mano davanti alla bocca. Per lui del resto tra Pan e Pane c’era un'enorme differenza! Risi anche quando il capitano dei mugiwara notò in Uncino una certa somiglianza con il suo ex nemico Crocodile. “C’è anche il coccodrillo!” aveva detto lui e io non avevo potuto fare altro che confermargli che Oda si era ispirato proprio al caro vecchio Capitan Uncino per creare l’ex flottaro. Rimase anche positivamente colpito dal fatto che all’interno della storia vi erano i pirati. Per non parlare dell’Isolachenoncè, gli piacque così tanto che si impuntò perché voleva andarci, al punto che dovetti mettere in pausa un’altra volta.
«Rufy, ragiona, è un’isola di fantasia. Non puoi andarci» gli dissi dolcemente
«Se ci credi tutto è possibile!» ribatté lui
«Ne sono sicura, ma certe cose non si possono fare»
«Si invece! Basta crederci!»
«Adesso basta, Rufy» fece Sanji
«Il cuoco ha ragione, smettila di comportarti come un bambino» gli diede man forte Zoro. Che carini, sembravano madre, padre e figlio.
Il finale piacque a tutti, soprattutto a me, che mi emozionavo sempre quando Agenore Darling, come battuta finale, diceva “è molto strano, ho la sensazione di averlo già visto quel vascello. Tanto tempo fa, quando ero bambino.”.
Attaccammo con il secondo dvd e anche qui mi emozionai per l’inizio e ripetei mentalmente le parole del narratore. “La storia finisce sempre così. Peter Pan che grida: addio Wendy! E poi Wendy che gli risponde: crederò sempre in te Peter Pan! E mantenne la parola, sempre. Anche quando lasciò la fanciullezza alle spalle ed ebbe dei bambini suoi.”.
Come il primo film, anche durante il secondo il moro ci volle mettere bocca. Parlava con i personaggi e pretendeva pure che facessero ciò che gli aveva detto di fare. Si arrabbiò con Capitan Uncino più volte, poi con Jane e infine si intristì per Trilli, la cui luce si era spenta. Gioì quando la fata rinsavì e associò la piovra – sostituitasi al coccodrillo – al suo amico Surume, il kraken.
«Non assomiglia un po’ al chirurgo della morte questa Jane?» chiese Marco sottovoce ad un certo punto «è sempre imbronciata e anche un po’ rompipalle. Sembra che non sappia come divertirsi e che voglia togliere il divertimento anche agli altri»
«O mio Dio! Hai ragione! Non ci avevo pensato, sono identici!» risi di gusto
«Chi?» s’intromise Usop, ficcanaso come al solito
«Niente, discorsi tra machiavellisti» feci io per giustificarmi «Marco sei decisamente un genio» gli sussurrai subito dopo
«Non abbastanza da batterti a Machiavelli» constatò, facendo sorridere entrambi.
Il punto di svolta della serata – e non solo – però, arrivò quando Jane volò per la prima volta. All’improvviso ebbi come un flash. E tutto mi fu chiaro. “Basta crederci” mi dissi e lo ripetei più e più volte. E fu in quel momento che capii. Il mio terzo desiderio l’avevo realizzato da tempo. Desideravo dei compagni di viaggio, come quelli che aveva Rufy. Desideravo avere accanto qualcuno che mi capisse fino in fondo, che mi supportasse, che mi proteggesse e che si fidasse. E desideravo avere qualcuno da capire, da supportare, da proteggere e di cui fidarmi. Ma io in realtà ce l’avevo. Ce l’avevo sempre avuto. Bastava crederci. Ero io. Ero sempre stata io la mia compagna di viaggio. Ora lo avevo finalmente capito. Ora credevo in me stessa e credevo negli altri. E d’un tratto il mio volto si scurì. Mi alzai e mi diressi verso camera mia il più repentinamente possibile.
«Ehi, dove vai?» chiese qualcuno. Mi fermai. Non sapevo nemmeno chi fosse l’artefice della domanda, ero troppo sopraffatta da un unico pensiero.
«Vado...» lasciai in sospeso la frase, facendo un gesto scocciato con la mano e corsi verso la camera. Spalancai la finestra e guardai il cielo. Proprio come pensavo. Era lì, in bella mostra. E questo non significava nulla di buono per me. Quella era la fine della corsa. Che cosa sarebbe accaduto poi? Come avrei fatto senza di loro? Che ne sarebbe stato di me? Cercai di calmarmi passeggiando avanti e indietro per tutto il balcone e prendendo profondi respiri. Mi infilai le mani tra i capelli e le chiusi a pugno, intrappolando qualche ciocca tra le dita. Il cuore mi batteva all’impazzata. Non sapendo che fare mi sedetti sul gradino che separava la camera dal balcone e ringhiai sommessamente – per non farmi sentire dagli altri – dalla frustrazione, per poi rialzarmi subito dopo passandomi entrambe le mani sulla faccia. Fissai la Stella ancora una volta. Era meravigliosa. Esprimeva magia, eleganza e potenza insieme, uno spettacolo di rara bellezza che non si poteva descrivere senza tralasciare qualcosa. Mi persi ancora una volta a guardarla, consapevole che là dietro si celava il luogo proibito che io e Rufy volevamo visitare. Se mi concentravo abbastanza riuscivo addirittura a vedere l’arcobaleno che avvolgeva l’Isola. Una lacrima mi rigò il volto ma stavolta non ne seppi riconoscere il motivo.
«È lì, non è vero?»
Mi asciugai rapidamente la lacrima caduta poco prima e mi girai di scatto.
«Sei sempre un passo avanti tu, eh?»
«Non mi ci è voluto molto a fare due più due»
Mi rigirai e tornai a guardare il cielo. «Guardala, Traffy. Non è meravigliosa?»
Scrutò l’ampia volta celeste per un attimo, in cerca di quel minuscolo angolo di Paradiso.
«Non vedo niente»
Lo guardai sorpresa. «Come non vedi niente? Sono lì, guarda» indicai con il dito una porzione di cielo «sono due stelle, più grandi e più brillanti di tutte le altre, specialmente quella a destra»
«Forse non le vedo perché non ci credo» fece un mezzo sorriso. Seguì un attimo di silenzio, poi presi coraggio e mi decisi a parlare.
«So cosa vuoi che faccia. Dammi il tempo di avvisare gli altri e...»
«Non c’è fretta. Godiamoci la fine del film».
Rimasi inebetita da quelle parole. Non c’era fretta. Lui, che mi aveva sempre sollecitato per farlo tornare a casa e che finalmente adesso aveva la possibilità di farlo, non aveva fretta. Quanto era strano. Tuttavia non potei non concordare con lui e tornai dentro stringendomi tra le braccia.
«Eccoti! Ti stavamo aspettando, dov’eri finita?»
«Era in bagno» rispose il chirurgo per me lasciandomi stupita ancora una volta
«Il film ormai è finito ma ho scoperto che si può tornare indietro, quindi mettiti comoda» mi sorrise Marco orgoglioso della scoperta appena fatta. Sorrisi debolmente e mi rimisi al mio posto. Per il resto della durata del film era come se non fossi presente. Mille sensazioni mi stavano attraversando e non sapevo cosa pensare. Avevo gli occhi fissi sullo schermo, ma persi, distanti, inquieti. Solo durante la scena finale mi ridestai. Vedere Peter che imboccava la Seconda Stella a Destra mi provocò un’immensa tristezza.
«Tutto bene?» domandò Marco alla vista dei miei occhi lucidi
«Si...è che la scena finale mi fa sempre commuovere» mentii. La verità era che non stavo affatto bene. Stava accadendo tutto troppo in fretta. Insomma, sapevo che prima o poi sarebbe successo, ma non ero pronta. Probabilmente queste erano il genere di cose a cui uno non era mai pronto, ma poco importava. Era ora di affrontare la realtà per quella che era e cioè che loro a breve sarebbero dovuti ritornare nel loro mondo. Quando riaccendemmo le luci, i dieci minuti passati mi colpirono in faccia come uno schiaffo. Sospirai e mi preparai per affrontare la cosa.
«Ragazzi, c’è qualcosa che dovreste sapere» iniziai, mentre i pirati si sgranchivano le gambe e commentavano i due film appena visti
«Di che si tratta?» chiese Sanji incuriosito.
Pensavo di farcela, ma mi sbagliavo. Le parole mi morivano in gola.
«Forse è meglio che lo vediate con i vostri occhi»
«Non vedranno niente» asserì Law e molto probabilmente aveva ragione. Strinsi la mano a pugno. “Basta di perdere altro tempo, devi dirglielo” mi imposi.
«Che dovremmo vedere?» volle sapere Zoro ormai insospettito
«Ho realizzato il terzo desiderio e la Stella è apparsa» buttai fuori tutto d’un fiato per poi fare un energico sospiro. I ragazzi furono più che comprensivi con me e mi si strinsero intorno, dandomi tutto il tempo che mi serviva e tranquillizzandomi.
«Ci sono» dissi dopo un paio di minuti. Senza esitare uscii di nuovo in balcone, guardai verso la Stella ed espressi il desiderio.
«Allora si torna a casa?» si informò Rufy eccitato
Deglutii. «Ho chiesto alla Stella di farvi ritornare nel vostro mondo domani sera. Non vi arrabbiate, ma ho bisogno di qualcuno che mi dia una mano a sgomberare l’appartamento e non so a chi altro chiedere se non a voi» li osservai uno ad uno per poi soffermarmi su Traffy «mi dispiace».
«Non c’è problema» fece cappello di paglia sorridendo
«Quell’appartamento l’abbiamo occupato noi per tutto questo tempo, è giusto che ti diamo una mano» affermò il cuoco
«Concordo con il sopracciglione» confermò lo spadaccino
«Bene, allora è deciso. Daremo una mano a Cami» decretò il moro, esibendo un sorriso scaltro e portandosi le braccia sui fianchi in un gesto molto teatrale «domani però, ora ho sonno»
«Grazie ragazzi, davvero. Che ne dite di rimanere a dormire qui, come le prime notti?»
«Ci entriamo?» chiese Usop, titubante come al solito
«Ci stringeremo» risposi. Alla fine li convinsi – non che ci volle molto – e tempo dieci minuti erano tutti in mutande e addormentati, sulle superfici più improbabili della casa. Tranne Marco. Lui era ancora sveglio e stava contemplando l’infinità celeste. Mi sedetti accanto a lui, proprio come la sera in cui gli avevo raccontato della Seconda Stella a Destra.
«Prendi una felpa» mi disse a un certo punto e io ci misi un po’ per capire.
«Lo faresti davvero?» domandai incredula quando ebbi realizzato il significato delle sue parole. Lui annuì sorridendo, facendo sorridere radiosamente anche me. Mi alzai subito e presi la prima felpa e il primo paio di jeans che trovai nell’armadio. Mi tolsi gli shorts ignorando che Marco mi stava osservando, mi infilai i pantaloni, misi la felpa e fui pronta.
«Verso l’infinito e oltre?»
Risi e scossi la testa. «Questa volta Seconda Stella a Destra e poi dritti fino al mattino».



Angolo autrice:
Ciao a tutti, eccomi qui con un altro capitolo.
Prima di tutto vorrei ringraziare Mariaace, che tempo addietro mi ha suggerito che la battuta del "pan o pane è la stessa cosa" non è affatto la stessa cosa per Law. Grazie mille Mariaace, non solo per questo. <3
Ritornando al capitolo, direi che siamo quasi giunti alla fine di questo viaggio. Cami è riuscita a capire cosa significasse avere dei compagni di viaggio ed è quindi riuscita ad esaudire l'ultimo desiderio, facendo comparire la Stella. So di essermi soffermata poco sul terzo desiderio, ma lo approfondirò nel prossimo capitolo. :)
Scusate se ho messo tante citazioni dei film di Peter Pan, ma mi sembrava doveroso inserirle, se non altro per far capire il senso e riderci un po' su.
Infine, chiedo perdono a tutti quelli che non hanno visto "Ritorno all'Isola che non c'è" per gli spoiler che ci sono. Spero comunque che questo capitolo vi sia piaciuto. Come al solito ringrazio chi vorrà recensire o chi avrà anche semplicemente la pazienza di leggere fino a qui.
Alla prossima!

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Capitolo 29
*** Arrivederci ***


«Cami? Cami svegliati»
Emisi un verso che si poteva considerare quasi un mugolio. Aprii gli occhi lentamente e guardai la figura che mi stava chiamando.
«Sono le nove» mi disse apprensivamente Marco. Annuii, mi stiracchiai e mi misi seduta sul bordo del letto. La mattina ci mettevo sempre un po’ a carburare.
A poco a poco mi ritornarono in mente tutti i ricordi della sera precedente e mi intristii un po’. Purtroppo questa volta non era stato un sogno. La stella era apparsa davvero e io non avevo potuto farci niente. Loro se ne sarebbero andati la sera stessa. Però tutta la mia malinconia era scivolata via quando la fenice mi aveva caricato sulle spalle e avevamo spiccato il volo. Era stato liberatorio e ne avevo un gran bisogno in quel momento. Avevo persino gridato nel cielo della notte. E il biondo aveva preso per buone le mie parole, aveva davvero volato fino al mattino, senza dare a vedere nessun segno di fatica. Ciò aveva confermato ancora di più la mia tesi che lo vedeva come un portento. Tutti loro erano portenti. Quando erano cominciati i primi bagliori dell’alba eravamo tornati ed avevamo trovato Law e Sanji che dormivano ognuno su un divano, Usop e Rufy che dormivano vicini sul tappeto della sala, adagiati su qualche cuscino che avevano scalciato via e per finire Zoro sul mio letto. Con l’aiuto di Marco avevamo spostato il verde da una parte e io mi ero ritrovata schiacciata tra lo spadaccino e l’ex comandante di Barbabianca. Tuttavia ero davvero molto stanca e mi ero addormentata quasi subito.
Mezz’ora dopo essere stata svegliata, eravamo quasi tutti in cammino – ognuno con il rispettivo materasso appresso – verso il negozio di mio zio. Io non avevo niente in mano, ma facevo il doppio della fatica per cercare di stare dietro a tutti e mantenere il contatto con loro. Non poteva andarmi peggio, dato che il materasso di Usop lo trasportava Zoro e di conseguenza mi ritrovavo a fare da balia a cappello di paglia che se ne andava per i cavoli suoi in esplorazione di vie che io non avevo mai visto prima e allo spadaccino e al cuoco che litigavano ogni due per tre per scemenze di proporzioni epiche. Alla fine riconsegnammo i materassi a mio zio e nonostante le sue occhiate inquisitorie verso i miei amici – soprattutto perché erano diversi da quelli dell’altra volta – andò tutto liscio. Anche il resto della giornata andò liscia. Troppo, forse. Ero troppo angosciata per poterla davvero trascorrere in leggerezza o per poter provare qualsiasi altra emozione. Dopo aver sgomberato tutto l’appartamento – e per la cronaca avevamo fatto un lavoro impeccabile, che aveva richiesto cinque ore di affaccendamento – e una doccia collettiva o meglio, io l’avevo fatta a casa mia, loro per l’ultima volta in quell’appartamento, avevo deciso che le ultime ore che trascorrevano in questo mondo le avrebbero trascorse all’aperto. Per questo li avevo portati al parco. Detto così sembra stupido, ma era il compromesso giusto per tutti. Il capitano dei mugiwara si divertiva come non mai insieme al cecchino, Traffy se ne stava da una parte all’ombra, lo spadaccino si allenava e io, Marco e il cuoco eravamo su un tavolo da pic nic a chiacchierare del più e del meno.
«Ehi, cos’hai?» mi chiese Rufy che si era appena lanciato giù dalla torre di uno scivolo «ti vedo triste»
«No, è solo che mi dispiace che ve ne andate» cercai di sorridere
«Dispiace anche a me! Ma io devo diventare il re dei pirati e non posso farlo se sto qui!»
Risi. «Hai perfettamente ragione, sono sicura che ce la farai! Io farò il tifo per te da qui»
«Perché non vieni con noi?» domandò il moro innocentemente, ma con l’aria di chi ha appena avuto un’idea geniale
«Si! Ci serve un’altra bella donzella in ciurma!» lo supportò Sanji
«Siete molto gentili ragazzi, ma non posso venire con voi, io devo restare qui. E poi ormai ho già espresso il desiderio quindi sarebbe tutto inutile»
«Oh» fecero in coro, delusi
«Io starò qui e vivrò la mia vita, come avrei sempre dovuto fare» affermai più a me stessa che ai pirati
«Ben detto» disse Marco.
La sera arrivò più veloce di quanto pensassi e in un attimo mi ritrovai a ripensare a tutte le avventure che avevamo vissuto in quel mese meraviglioso. Certo, non eravamo andati all’arrembaggio di nessun galeone, non avevamo combattuto qualche opprimente tiranno di una qualche nazione sperduta, non avevamo esplorato territori inesplorati e non avevamo affondato a colpi di cannonate nessuna nave della marina. Ma per me e per loro anche semplicemente riconsegnare dei materassi era un’avventura. Ripercorsi a ritroso tutti i momenti di quell’esperienza come se fosse una clip di qualche reality, a rallentatore e con il sottofondo musicale. Mi ricordai dei film, il twister, la torta, la febbre, l’incubo, le bollette, il volo sulla schiena della fenice, gli shambles di Law, la ringhiera rotta, la piscina gonfiabile, Zoro che mi usava come bilanciere, le interminabili ore di ricerche con il chirurgo, le notti passate ad osservare le stelle, i broccoli, l’appartamento, l’epistassi di Sanji, i disastri di Rufy, i giorni passati a fare la guida turistica e tutte le altre cose che c’erano state fino al momento in cui me li ero ritrovati davanti. E sorrisi, sorrisi perché ero contenta. Per una volta ero davvero contenta, di quello che avevo vissuto, di quello che avevo e soprattutto di quello che ero. In fondo, ero io il mio terzo desiderio! Non avevo bisogno di tante persone intorno, avevo bisogno di una persona sola per stare bene. Me stessa. E questo non significava che stavo meglio da sola, tutti abbiamo bisogno di amici con cui condividere le nostre esperienze più belle e più brutte. Significava semplicemente che dovevo amarmi, con i miei pregi e difetti. Perché solo così avrei potuto lasciare che anche gli altri mi amassero. E perché alla fine per quanto possiamo fare affidamento negli altri, dobbiamo prima di tutto credere in noi stessi. Proprio come faceva il futuro re dei pirati e tutta la sua ciurma. Aveva estrema fiducia nei suoi compagni perché aveva fiducia in se stesso e nelle sue potenzialità. E anche quando la battaglia si prospettava ardua, in qualche modo riusciva sempre a vincere. Mia nonna diceva sempre che la fiducia e la convinzione sono le forze più potenti sulla terra dopo l’amore e non avevo mai capito perché mi dicesse cose del genere, ma ora so che aveva pienamente ragione.
«Che stai facendo? Vieni con noi di là, festeggiamo!» la voce di cappello di paglia mi riscosse dai pensieri. Mi alzai e lo seguii in sala. Fino a quel momento mi ero rintanata nella camera del chirurgo e dello spadaccino perché dovevo raccogliere i pensieri e fare una cosa molto importante per me. Ma adesso ero pronta a lasciarmi la tristezza alle spalle e a scatenarmi in pista! Passarono secondi, minuti, ore, che importava? Eravamo così felici. Sanji mi faceva girare come una trottola, Rufy era fuori tempo oltre ogni immaginazione, Usop continuava a girare per tutta la stanza facendo mosse assurde e Zoro era impacciato e imbarazzato.
«Avanti spadaccino, mostrami il tuo lato selvaggio!» lo provocai dopo che mi fui avvicinata
«Queste cose non fanno per me» si guardò in giro quasi disgustato
«Coraggio!» gli diedi un colpo d’anca inaspettato che dopo un primo momento di sgomento, lasciò sul suo volto un ghigno maligno. Prima che me ne accorgessi mi ritrovai sulla sua spalla a sacco di patate e in due secondi netti fummo al centro della “pista”. Mi mise giù e davanti a me cominciò a muoversi disordinatamente. Era davvero uno spettacolo impagabile. Dopo un po’ andai vicino al cecchino.
«Hai avuto un’ottima idea a rubare la radio»
«Cosa?»
«Hai avuto un’ottima idea a rubare la radio!» gli urlai per sovrastare il suono della musica. Lui in tutta risposta fece una faccia fiera, accompagnata da una posa altrettanto fiera e cominciò a dire «Non per niente son...»
Nemmeno a farlo apposta, la radio esplose, letteralmente. Ci fu un boato e io mi strinsi al nasone, che coraggiosamente si era messo dietro di me, riparandosi.
«La radio è esplosa...» fece Marco in un misto di stupore e divertimento
«Ah...chi se ne frega continuiamo senza musica!» gridò Rufy e noi non potemmo che dargli ragione. Continuammo a ballare senza musica, finché il mio telefono non suonò. Fu un colpo al cuore a dire la verità, ma cercai di mantenere la calma e soprattutto l’allegria che avevo avuto fino a quel momento. Erano le già le dieci. Avevo messo la sveglia come promemoria, visto che prevedevo già che il tempo sarebbe scivolato via senza che ce ne accorgessimo. Ci eravamo persino dimenticati di cenare, e questo voleva dire!
«Ci siamo ragazzi, dobbiamo andare»
«Cosa? È già ora?» fece deluso il capitano dei mugiwara.
Feci uscire tutti prima di guardare per l’ultima volta quell’appartamento. Era così vuoto e silenzioso senza i pirati dentro. Sembrava triste anche lui di doversi separare dai suoi inquilini.
«Non temere» sussurrai al suo interno «non rimarrai vuoto a lungo, tra qualche anno verrò a vivere qui. In memoria dei vecchi tempi» sorrisi per l’ultimissima volta prima di chiudere per sempre quella porta. E se non per sempre, se non altro per qualche anno o finché mio padre non avesse deciso di andare a controllare che l’appartamento fosse deserto. E purtroppo o per fortuna, dipende dai punti di vista, lo sarebbe stato. Desolato e triste.
«Ciao appartamento, ci mancherai!» salutarono insieme i ragazzi. Chiusi la porta, nascondendo agli altri un’espressione quasi dolorosa e una volta che mi fui imposta di contenermi, ci incamminammo verso casa mia, premurandoci di sbarazzarci della radio rotta. Pensare che mancava un’ora alla loro sparizione faceva male. Ero consapevole di essere egoista, ma che potevo farci? In fondo non ero sicura che le cose sarebbero cambiate, magari sarei ritornata a sentirmi come prima. E io non volevo assolutamente tornare a sentirmi come prima. Ma non lo sapevo e non sapere mi rendeva inquieta e nervosa. Di certo non ero più la Camilla di una volta, ma ero pronta a lasciarli andare? Non aveva più importanza ormai. Se ne sarebbero andati comunque ed in fondo era un bene, perché io dovevo imparare a contare solo sulle mie forze per essere felice. Perché potevo farlo. Io potevo essere felice. Io volevo essere felice. Io dovevo essere felice. Io meritavo di essere felice.
L’ultima ora insieme la trascorremmo guardando un pezzo di un film che davano in tv. Uno dei film più belli mai realizzati tra l’altro, “Titanic”. Ma non riuscii a godermelo appieno. Nel momento in cui Jack chiede a Rose “Dove la porto, signorina?” e lei gli risponde “Su una stella”, io e Marco ci guardammo e sorridemmo, complici e consapevoli che noi ci eravamo quasi stati davvero su una stella.
«Per me, il pezzo più bello è stato quando Jick urla “sono il re del mondo”» commentò cappello di paglia «il resto è stato noiosissimo, è troppo sdolcinato»
«Vuoi dire Jack» lo corresse il cecchino
«Questo film è quanto di più  noioso possa esistere, per fortuna non lo vedremo tutto» fece Law
«Ah già...» disse Rufy dispiaciuto «come finisce?» volle sapere
Guardai storto il medico dei miei stivali che doveva rovinare sempre l’atmosfera. «Ti piacerebbe Traffy, c’è un naufragio e alla fine muoiono tutti tranne la protagonista»
«Non ha importanza, perché tanto dobbiamo andare» annunciò il chirurgo.
Mi si strinse la gola e il mio cuore perse un battito. Sentivo già le lacrime che premevano per uscire.
«Sono le ventidue e cinquantotto, il desiderio lo hai espresso alle undici e tre, direi che dobbiamo muoverci» il dottore dagli occhi grigi era sempre preciso come un orologio. Mi alzai a fatica, le gambe deboli dal malessere.
«Svegliati, idiota di un marimo» il cuoco tirò un cuscino allo spadaccino e nonostante la situazione, risi. E decisi che era così che volevo ricordarmeli, pasticcioni, confusionari, allegri e gioiosi. In fondo era quello che erano e quello che avevano  portato nella mia vita. Sanji – dopo aver concluso una battle di insulti con lo spadaccino – fece per raccogliere il cuscino, ma io lo fermai. Volevo che rimanesse lì in terra, per avere qualcosa da fissare una volta che se ne fossero andati. Quello sarebbe stato l’ultimo ricordo tangibile della loro presenza qui, che mi avrebbe rammentato che tutto quello che era stato, era stato reale. Che non me l’ero immaginato o sognato.
Prima di arrivare in balcone, presi dalla scrivania una busta per lettere e la consegnai allo chef.
«La do a te perché di quelli della tua ciurma mi sembri il più affidabile» aspettai che si riprendesse dopo il complimento «apritela e leggetela solo quando sarete tornati nel vostro mondo. Mi raccomando.»
«Non ti preoccupare Cami-chan, puoi contare su di me».
Raggiungemmo gli altri fuori, dove mi premurai di lasciare loro gli ultimi consigli, come una mamma.
«Marco, grazie di tutto. Ti voglio bene. Abbi cura di te e guardati le spalle, qualcuno potrebbe venire a cercarti» sussurrai l’ultima parte mentre gli stringevo le spalle con le mani.
«Traffy, o forse in quest’occasione è più appropriato che ti chiami Law» sospirai «so che non sta a me dirlo e probabilmente nemmeno vorresti sentirtelo dire, ma sei libero. Ora sei libero. Goditi la tua libertà e vivi la tua vita. Grazie per aver sopportato tutto questo»
Mi aspettavo come minimo un’occhiataccia, invece pronunciò delle parole che mi lasciarono a bocca aperta «Tutto sommato non mi è dispiaciuto stare qui» ghignò «dovresti vivere la tua vita anche tu». Annuii. Aveva ragione.
«Che dire ragazzi? Grazie di tutto, davvero. Io continuerò a seguirvi e a credere in voi, sempre. Vi prego, non scordatevi di me» a queste parole la mia voce tremò profondamente e mi ci volle tutta la mia forza di volontà per non scoppiare a piangere.
«Non temere Cami, non lo faremo» Rufy mi sorrise e il nodo che avevo in gola mi si sciolse quasi del tutto. All’improvviso, qualcosa si posò sulla nostra pelle. Guardammo tutti in alto e ci perdemmo in un’esclamazione di meraviglia. Della polvere dorata stava scendendo dal cielo su di noi.
«La famosa polverina di cui parlava l’articolo» commentò Law.
«Che ne dite di stringerci in un ultimo abbraccio di gruppo prima che svaniate?» proposi io e tutti accettarono di buon grado, tranne Traffy che se ne stava da una parte a braccia incrociate, come suo solito. Ora eravamo avvinghiati l’uno all’altro, coperti di “polvere di fata” e io avevo la vista appannata a causa degli occhi pieni di lacrime, che aspettavano di uscire ma che avrei pianto solo quando fossero andati via. Volevo godermi ogni istante. Deglutii.
«Addio ragazzi» fu l’ultima cosa che riuscii a dire loro, prima che mi scomparissero da davanti agli occhi.
Feci un lungo sospiro e chiusi gli occhi. Non mi sarei arresa alle lacrime. Non mi sarei arresa di nuovo alla tristezza. Inspirai, inalando il loro profumo che aleggiava ancora nell’aria. Ognuno di loro aveva un odore diverso, non mi ci ero nemmeno mai soffermata a pensare a una cosa simile. Tuttavia mi imposi di sorridere. Non ero sola, avevo tante persone che mi volevano bene per come ero. Ma soprattutto, avevo me stessa ed era quello il mio tesoro più grande. Avevo anche la “polvere di fata” adesso, se non altro non sarei passata inosservata con tutto quel luccichio che avevo ancora addosso. Fissai nuovamente la Stella, che splendeva di una rara bellezza per me e le sussurrai un “grazie” dal cuore. “Coraggio Cami, torniamo dentro” mi dissi tra me e me. Sapevo come si sarebbe svolto il resto della serata. Avrei fissato il cuscino per terra per dieci minuti, prima di rimetterlo al suo posto. Poi avrei visto la fine di “Titanic” e per la prima volta ci avrei pianto, per via della mia temporanea fragilità emotiva e infine sarei andata a letto, consapevole che avrei passato un’altra notte insonne a rimuginare su tutte le cose che avrei potuto dire e fare. O almeno questo era quello che avrebbe fatto la vecchia me. La nuova me voleva solo tornare dentro, sul divano, godersi il resto del film e passare la notte a ridere e a ricordare i momenti migliori di quella avventura. E proprio questo mi riproposi di fare mentre posavo il piede sul gradino della portafinestra. E questo avrei fatto, a testa alta, senza rimpianti o ripensamenti di nessun genere.
Ma qualcosa andò storto.



Angolo autrice:
Ok, so che il finale non è quello che vi aspettavate, ma non vi preoccupate, perchè ci sarà un seguito! Seguito che comincerò a scrivere e pubblicare con molta calma. Nel frattempo lascio fare a voi ipotesi e congetture su come potrebbe svolgersi, magari mi date qualche buona idea :D
Detto questo, direi che siamo arrivati al capolinea. Confesso che barrare la casella "completa" mi ha spezzato un po' il cuore. Questa è una storia a cui mi sono appassionata molto (me lo dico da sola, pensate un po') e mi sono divertita come non mai a idearla e scriverla. Immaginarsi situazioni, dialoghi e sviluppi e metterli per iscritto è stato meraviglioso e voglio ringraziare tutti coloro che hanno seguito, recensito, messo come preferita, ricordato o anche semplicemente letto questo racconto. Che sia un capitolo, dieci o tutti e ventinove, avete dedicato del tempo a me e alla mia "Lost boys" e ve ne sono infinitamente grata, anche perchè non ci sarebbe stata nessuna fan fiction senza il vostro contributo. Quindi grazie, grazie davvero a tutti e come dico sempre...alla prossima! (Perchè ci sarà una prossima volta, vi garantisco che ci sarà!)

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