Give 'Em Hell, Kid

di Stray_Ashes
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ashes (Prologue) ***
Capitolo 2: *** White Scars ***
Capitolo 3: *** Losing Yourself ***
Capitolo 4: *** Stray Cat ***
Capitolo 5: *** Fragile Dove ***
Capitolo 6: *** Secrets ***
Capitolo 7: *** Déjà-vu ***
Capitolo 8: *** Weak Spot ***



Capitolo 1
*** Ashes (Prologue) ***


Voglio comunicare che ho scritto questa storia qualche mese fa, e che in questi ultimi giorni l'ho corretta e revisionata. Più o meno..
Buona lettura.





 
 
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1. Ashes  (Prologue)


“Hate me
Hate me
Break me,
I’m a criminal.”
 
Sangue. Ricordavo bene il sangue. La mia vita era il sangue: quello che mi scorreva sotto la pelle, tra vene e arterie vulnerabili – e quello che mi scorreva sopra, e mi macchiava i vestiti, mi macchiava le mani, la pistola; e non andava più via, l’odore, l’immagine.
 
“Blood
Blood.
I feel the taste
The smell
The death
The warm,
warm blood
 
Mi passai la lingua sulle labbra secche. Anche quelle sapevano di sangue. Riappoggiai la matita su foglio.
 
The blood,
All over your face,
all over your fingers,
all over your soul
you can’t escape,
you’re red,
red like blood
that tomorrow
will be black.
That tomorrow
will be dead.”
 
Non mi piacevano insieme quelle parole. Le trovai vuote, tra loro, scoordinate.. ma forse, forse, il punto era quello. Sì, ma rimasi comunque insoddisfatto, stizzito, e chiusi di botto il taccuino, piegando più di un foglio; forse uno di quelli con poesie, forse uno di quelli con i disegni. Non mi importava, gettai tutto nella sacca di pelle con rabbia, e mi presi il volto tra le mani, perché, anche se la notte era fresca, la luce del fuoco mi arrivava direttamente in viso, scottandomi.
Il taccuino non aveva importanza. Io odiavo la mia arte, la odiavano tutti. Solo una sola arte, in quel mondo, veniva apprezzata, ed era quella delle armi, dell’agilità, della crudeltà, della sopravvivenza, della morte. Quella, quella la apprezzavano, finché loro non diventavano il foglio, la tela della mia arte. Nessuno vuole morire, ma tutti vogliono veder morire. Ero anche piuttosto bravo, e siccome le persone amavano l’arte della morte, avevo provato ad amarla a mia volta… forse c’ero riuscito, forse l’amavo anch’io. Quel che era certo, era che l’arte urlata sul quel taccuino non mi faceva vivere, non mi dava dei soldi, delle conoscenze, delle vere soddisfazioni, mentre l’arte della morte sì, oh sì, eccome; l’arte della morte mi trasmetteva brividi vivi, e mi permetteva di mangiare… però, non mi lasciava dormire: mi perseguitava, mi chiamava, mi assillava, mi ammaliava, mi trascinava a commettere ancora peccati, e poi taceva ed esultava allo stesso tempo, mentre avevo sulle mani il sangue fresco. E quando mi sdraiavo, nel buio del mio niente, quando il fuoco si affievoliva e moriva, lì tornava ancora una volta, per ridere di me: rideva di me l‘arte della morte, e mi rinfacciava quei peccati, quelle tentazioni, quelle abilità.
E io non dormivo, rimanevo vuoto, e allora prendevo il taccuino e ci sfogavo ciò che non avrei mai sfogato in lacrime, come farebbe un bambino, ma che non mi sarei nemmeno mai sfogato come un adulto, perché un adulto né piange, né esprime il suo dolore riempiendo di matita nera un foglio. Quindi, che cos’ero io? Non ero un bambino, i bambini non uccidono. Non ero un adulto, gli adulti hanno una vita.
Io ero un assassino, un artista, un vagabondo, un randagio, uno con la vita corta che non ricordava niente del passato, che non voleva sapere nulla del futuro, che come un automa eseguiva il presente. Meccanicamente. Puntuale. Mi facevo schifo.
In città la gente mi indicava col nome di cacciatore di taglie, ma lo diceva con paura, perché nessuno voleva essere la mia prossima tela, su cui avrei appoggiato forse il pennello, forse il coltello. Mi andava bene, come nome, non era tanto male; il termine di cacciatore mi dava un’importanza che non avevo, perché i cacciatori escono a caccia, catturano un cervo e lo portano vincenti ai figli e alla moglie. Io non ero un cacciatore, anche se mi piaceva pensarlo: io uscivo a caccia sì, ma non portavo il cervo a qualcuno, non facevo nulla di utile, neppure a me stesso. Io mietevo freddamente una vita, e in cambio intascavo qualche soldo, che finivo col sprecare. Non ero un cacciatore, ero uno strumento, utilizzato da chi non voleva macchiarsi le mani. E come tale mi lasciavo usare.
Com’è che ero finito così? No lo ricordavo quasi più.
 
I know nothing
Help me, mother,
I feel empty,
I feel lost
I don’t wanna listen to my thoughts,
I hate what’s inside my head
and I guess you hate it too.
Blow my head off, if you dare,
I’m not brave enough,
such a coward, they may say,
but go and yell to them,
and please, it’s better if you do,
that they are right:
I think it too.
 
Ecco. Non mi ero accorto di aver preso di nuovo il taccuino. Maledizione, avrei dovuto bruciare quei fottuti  fogli di carta. Li gettai nuovamente nella sacca e mi spostai i ciuffi di capelli scuri dietro l’orecchio, sospirando e alzando il mento verso il cielo: il buio era glaciale, quindi le stelle si vedevano bene. Neppure la luna c’era ad illuminare, nascosta chissà dove oltre la porzione di cielo che dal quel bosco riuscivo a scorgere.
Il cielo, di notte, era davvero ricco di fascino, e rappresentava anche un gran mistero. Poteva davvero essere tutto così infinito? Mi faceva stare meglio, contrariamente a quanto si potesse pensare, la consapevolezza che in confronto all’enormità dell’esistenza, la mia piccola vita e i miei miserabili problemi non erano altro che polvere, o forse meno della polvere, forse polvere posata sulla polvere, che al soffio del vento già si è consumata.
Sorrisi amaramente e mi stesi accanto al fuoco, le braccia dietro la nuca. Ascoltai il battito del mio cuore rimbombarmi nelle orecchie, in quel silenzio totale, che mi cullava nel sonno: il mio cuore mi ricordava che nonostante tutto ero ancora vivo, perché lui batteva, e continuava a battere, imperterrito, regolare, in un modo così puro e naturale che in quei momenti riuscivo a non odiarmi.
 
Sentii subito uno scalpiccio poco lontano nel bosco, e aprì gli occhi immediatamente, alzandomi e afferrando sia la pistola che il coltello, restando in allerta a fissare il buio. Non so quanto avevo riposato, ma il fuoco era spento. La mia mente era ormai tanto abituata a sentire rumori estranei nel bosco, che dovetti aspettare vari minuti prima che il responsabile del rumore si avvicinasse: l’avevo captato decisamente da toppo lontano. Non sapevo se essere orgoglioso di quelle abilità… avrei dovuto? Forse sì, non mi dispiaceva sapere che almeno, anche se mostro, ero bravo come un lupo. Ma il lupo è un cacciatore, io non lo ero.
«Se vieni fuori adesso con le mani alzate, giuro che ti lascerò tenere abbastanza sangue da vivere per almeno altri due giorni» dissi, imperiosamente, all’estraneo già piuttosto vicino, nascosto là nella boscaglia.
Indovinai che l’estraneo stesse ponderando le scelte. «Calma Gerard, sono io» disse, invece.
Aggrottai la fronte, ma poi riconobbi la voce. «Bert» dissi in risposta, posandomi giù in grembo la pistola e abbandonando a terra il coltello. «Potevi dirlo prima… » bofonchiai, vedendo l’uomo uscire con passo stanco dal bosco, e venire verso di me, col solito broncio. Scambiai con lui uno sguardo soltanto e neppure mi alzai, prendendo invece un legnetto per scoprire le braci rosse nascoste sotto la cenere, in modo da far tornare un po’ in vita il fuoco. Ormai ero sveglio, tanto valeva restare al caldo. Era davvero interessante come quel cuore ardente continuasse, nelle ore, a bruciare sotto la coltre grigia del legno morto, deciso a non arrendersi.. era un bell’esempio nella vita, pensai. Non importava quanta cenere ti tirassero negli occhi, non avrebbero spento quella luce. Decisi di memorizzare il paragone.
«Come va? » chiese Bert, ma sapevo che non gli importava davvero. Ci conoscevamo da tempo ma il nostro rapporto era freddo: lui era il mio informatore, io ero la macchina da guerra che faceva ciò che andava fatto e poi gli sganciava dei soldi. Di fatti, non gli risposi, se non con un’alzata di spalle. Anche se me l’avesse chiesto qualcuno a  cui importava davvero, probabilmente la mia risposta sarebbe stata comunque quella. In ogni caso il problema finiva in fretta, perché non avevo qualcuno a cui “importasse davvero”. Forse al mio taccuino importava, forse solo a lui.
«E a te?» mi costrinsi a dire infine.
«Scommetto meglio che a te. Stasera si mangia cervo a casa mia»
«Fottiti» mormorai acidamente. «Stronzo» aggiunsi. Neanche Bert era un cacciatore, però lui aveva il cervo. Io avevo un fuoco e un taccuino. Lui aveva una famiglia e una specie di lavoro, io avevo il fuoco e il taccuino. E la pistola.
Bert scrollò le spalle, non facendo neppure caso alla mia risposta, e si limitò a gettarmi sulle gambe incrociate un foglio arrotolato con del nastro rosso. Fin troppo elegante per essere stato portato a me. Alzai un sopracciglio.
«Hai un nuovo lavoro. Uno dei pezzi grossi della forza di guardia di una città poco lontana da qui ha richiesto i tuoi servigi. A quanto pare qualcuno di troppo furbo sta infastidendo la città…» sghignazzò, e io ghignai con lui. Di rado le guardie si abbassavano a tanto, di rado chiedevano aiuto a un cacciatore di taglie: preferivano perdere qualche uomo e risolvere da soli, o non risolvere affatto. Curioso…
Avevo bisogno di soldi e ormai non lavoravo da due settimane, avevo paura di rammollirmi... qualcosa mi dava l'impressione che l'immobilità mi avrebbe fatto perdere massa muscolare e agilità, aspetti fondamentali, nel mio lavoro sporco. Un molto vago ricordo mi suggeriva che non ero sempre stato cosi come ero adesso... e mi chiesi com’ero da ragazzo, come facevo a vivere, e soprattutto mi chiesi perché non ricordassi niente.
«Beh, grazie Bert, era l’ora» dissi con uno sbadiglio, chiudendo la mano attorno al foglio ingiallito.
Non era mio amico, non mi disse buona fortuna, non mi ammonì di non abbassare la guardia, non mi confessò che sperava non morissi, solamente accennò alla spartizione dei soldi, e poi se ne andò, così com’era venuto, ma con un foglio in meno.
Sospirai e cominciai a togliere il nastro e a srotolare il foglio: era scritto in una bella calligrafia, e lessi velocemente tutte quelle frasi inutili, saltai persino la cifra della ricompensa, e andai direttamente al punto: il nome, il nome era la cosa più importante, dovevo sapere come si sarebbe chiamata la mia nuova tela, il mio nuovo quadro.
Lo trovai dopo un istante, e l’espressione sul mio viso rimase impassibile. Ecco il nome della tela.
Frank Anthony Iero.
E non mi comunicò niente.
Avrebbe dovuto?
Forse avrebbe dovuto, ma la mia mente era nera, nera come la pece, nera come le notti in cui vagavo come un’ombra.
Avrebbe dovuto…?
 
“And down, and down we go,
while losing ourselves
to the ash, to the smoke.
And dead, and dead we fall
forgetting the days
where we smiled,
where we loved.
And black, and black is my soul,
And white, and white are my eyes.”




______________________________________________-



Boh, prima volta che scrivo in questo fandom, anche se lo seguo da un po'..... l'idea mi è venuta dalla fissa per i cacciatori di taglie, e per Gerard. Dio, amo quell'uomo. Tanto. Eh, e anche Frank.
Sono indecisa se fare più di qualche capitolo, se farla finire male o meno, se farla finire in una frerard o meno, vedrò... ma per ora, ho scritto questo, forse a un'ora un po' tropo tarda considerando che domani devo svegliarmi alle 6...
Beh, in qualunque modo vada, spero di non avervi annoiati, e vi amerei per una recensione.
Le parole che Gerard scrive sono mie, non di altre poesie e testi di canzoni. spero che tutti voi capiate l'inglese, e non linciatemi, se come poeta faccio un po' schifo....
Oh beh, buonanotte!


_Ashes

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Capitolo 2
*** White Scars ***





 
 
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2. White Scars



Mi inumidii le labbra con la lingua, per poi riappoggiarci sopra la sigaretta, stringerla con una lieve pressione e tirare. Sentii il fumo entrare in corpo, e mi venne un brivido; all'inizio, quando avevo iniziato, forse un paio di anni fa, avevo sentito le scariche di piacere della nicotina attraversarmi il corpo fino al cervello, anestetizzando i miei pensieri, ma ormai non sentivo neanche più quelle: l'unica cosa che, in quel preciso istante, immaginai, fu il fumo macchiarmi l'anima, già eccessivamente macchiata. Avevo tanti vizi, ma quello mi faceva schifo. Mi sporcava, contro la mia volontà, in modo diverso dai peccati che mi sporcavano la coscienza. Il fumo rimaneva nel fisico, dentro, come le cicatrici. 
Perlomeno, le cicatrici mi piacevano. Le vedevo io e basta, e mi ricordavano di avere un passato. Il nero del fumo non potevo vederlo, ma c'era, e non ricordava alcun tipo di particolare esperienza nel mondo, se non una debolezza umana. Non mi toccava, però, l'idea del cancro, di una malattia, da cui non sarei di certo fuggito... non avevo paura di morire, tutta questa questione sul fumare aveva un significato prettamente morale, forse psicologico. 
Buttai fuori il fumo sporgendo le labbra in avanti, e lo osservai creare vortici volubili e allo stesso tempo incorporei, nella notte davanti a me, lasciandosi illuminare dalla luna, che lo trasformava in qualcosa di brillante, etereo, come se avessi appena sputato fuori uno spirito.
Era davvero bello il fumo fuori, bello tanto quando brutto dentro. Immaginai il catrame incastrarsi tra i miei polmoni, come faceva con gli scogli nel mare. 
Voglio dire, amavo il nero, vederlo attorno a me, su di me, dentro di me, nel cuore, nel cervello, ma nei polmoni no, quello no. Avrei davvero dovuto perdere quel vizio, che ormai non mi dava alcuna sorta di piacere... storsi la bocca in una smorfia e gettai la sigaretta mezza consumata a terra, badando di spegnerla per bene, in modo che non bruciasse l'erba e le foglie del suolo. Non volevo un incendio nella foresta, era la casa di tante vite ed era la mia, l’unica che avessi. Forse una città meritava di bruciare, ma la foresta... la foresta no. 
In una città c'erano sostanzialmente solo vite umane, corrotte e viscide vite umane; le case ed i tetti ed i carri non erano vivi, poteva bruciare tutto. I gatti e i cavalli sarebbero scappati, ne ero sicuro; sui cani non sapevo, non mi ero mai avvicinato ad un cane, non mi piacevano, ma ipotizzai che fossero abbastanza intelligenti per farlo. 
Molti degli uomini sarebbero bruciati. 
Nella foresta, invece, viveva tutto, dal fungo all'insetto all'albero ed io. Anche io vivevo, almeno nel senso meccanico del termine. 
Eppure, ultimamente, bruciavano più foreste che città. Avrei invertito i ruoli senza affatto pensarci due volte. Almeno, gli alberi, morendo tenevano dignità; gli uomini e comunque i viventi, urlavano e piangevano e mugolavano e strillavano e ansimavano... non sapevo cosa avrei fatto io morendo, ma sperai nessuna di quelle cose. 
Perso nei miei pensieri, infilai le mani nelle tasche dei pantaloni neri, abbastanza aderenti; saltai un sasso, seguendo il sentiero che mi stava conducendo fuori dal bosco, e presi ridiscendere la collina. 
Alzai il viso sull'orizzonte, verso est, spiando fra i ciuffi di capelli neri, e sospirai, osservando il mio respiro condensarsi e poi svanire nel niente: era quasi più bello del fumo e, nonostante venisse fuori dal disgustoso me, aveva un qualcosa di molto più puro, e mi nacque un sorriso quando vidi il mio respiro diventare un tutt'uno con la notte. Era bello, a modo suo. Era più bello il mio respiro nell'aria fredda che me. Poco male. 
Scrollai le spalle e ripresi a camminare, stringendo la cinghia della sacca a tracolla. Avevo pulito la canna della pistola, fatto scorta di proiettili, avevo riaffilato la lama dei coltelli - e ne avevano bisogno, messo vestiti puliti e rigorosamente neri, per nascondermi nella notte, ed ero partito, con quello che avevo. 
Il cielo, in quella pennellata di orizzonte, aveva preso una tonalità verde acqua, che preannunciava pigramente e senza fretta l'alba. 
Sarei arrivato in città per quando il sole sarebbe stato già abbastanza alto nel cielo. 
 
E in città ci arrivai proprio come un gatto randagio che, scappando dai cani, si trovava erroneamente nel territorio di caccia altrui.
Proprio come un gatto arrivai trasandato, nero, dall'aspetto cupo, solitario e malaticcio. Nessuno si soffermava a guardare troppo a lungo un gatto randagio, come se portasse sfortuna. Io invece li fissavo spesso i gatti solitari, soli contro il mondo eppure ancora vivi. Mi ci riconoscevo bene. 
E poi, che mi sarei aspettato dalla gente? Era perfetto così: lo sguardo che si alzava su di me, si abbassava e fuggiva. A volte non si alzava neanche, passava subito alla fase dell'ignorare. Che avrei voluto..? Mi ripetei. Un sorriso? Niente era più falso di un sorriso. Persino i ghigni erano meglio, perché quelli esprimevano crudeltà, sarcasmo, ironia, verità molto più autentiche in un uomo. E poi, non volevo avere un sorriso da una persona, magari la persona che sarei poi andato a uccidere. 
Non avevo solo a che fare con criminali che la giustizia "legale" non riusciva a sistemare, ma anche con questioni personali e private della gente, venivo pagato magari per far fuori rivali di lavoro o in amore. Avevo ucciso padri di famiglia, e giovani promettenti nel mondo dei grandi, e anche delle donne. Sarei bruciato all'inferno, se solo avessi creduto in qualcosa come l'inferno. 
"L'inferno è in terra..." mormorai a fior di labbra, passando per i vicoli della città, le mani ancora nelle tasche. "...solo che voi non lo sapete ancora". 
Decisi che mi sarei visto passo passo la città, e me la sarei goduta; evitando per bene le persone, si intende. Non mi andava di lavorare già... mi ero veramente arrugginito, in neanche un mese? Sbuffai. Stavo regalando qualche minuto di vita in più alla mia tela, era un atto caritatevole, e decisi di vedere da questa prospettiva la mia pigrizia. 
Si notava subito la lunga storia di quella città, dalle case ai pavimenti lastricati, ai manifesti per i teatri e le mostre d'arte: mi sarebbe piaciuto andarci, giusto per soddisfare l'arte della creatività nascosta in me, e non l'arte della morte, per una volta. 
Mi chiesi come quella città fosse sopravvissuta così a lungo in quello stato di antica, antichissima storia... forse perché era circondata dal bosco, ed era poco accessibile? Forse perché lì la tradizione era forte, e nessuno aveva lasciato che la guerra cambiasse quel posto? Perché la guerra aveva toccato tutto, prima di finire. Sapevo che, oltre queste zone protette dalla natura e dal niente, c'erano state città grigie, con palazzi infiniti: ma la guerra aveva raso al suolo tutto. Avevo sentito che c'erano continenti, aldilà del mare, molto molto diversi. Alcuni erano quasi disabitati e allo stato ormai selvaggio, sia a causa della natura che aveva preso il sopravvento, sia a causa della mente ormai sballata degli uomini. E poi, un continente era stato riorganizzato sotto una società tirannica, ma conoscevo poco altro.
Sapevo anche che una volta tutto il mondo era in contatto... e ora si viveva come in pianeti differenti. Molto, molto meglio così. Da ciò che avevo sentito, la mia realtà andava bene, persino la mia arte della morte, era meglio.
Senza accorgermene sprecai varie ore tra quelle viuzze, senza badare se le persone mi guardassero o meno, con la mente che spaziava, chissà dove, perché molti di quei pensieri finivo col dimenticarli... il mio cervello faceva davvero schifo. 
E così, con il sole tipico del pomeriggio tardo, mi fermai davanti ad un ostello... in genere non mi soffermavo a dormire nella città, di solito arrivavo di notte, finivo il lavoro e all'alba sparivo come un'ombra, lasciandomi alle spalle del sangue, delle lacrime e un uomo soddisfatto con dei soldi in meno. 
Ma decisi che almeno questa volta avrei cambiato piano, non era tanto male prendersela con calma... alla fine, che cosa temevo? Anche se qualcuno con cattive intenzioni mi avesse attaccato, avrei vinto io.
Le guardie avevano detto, nella loro lettera, di non passare per la caserma. Mi avevano dato tutto il necessario per il mio lavoro e probabilmente non volevano neanche vedermi. Di certo, non avevo messo da parte i miei sospetti... niente mi assicurava che, una volta liberatisi della piaga della città - qual era il nome, poi? - non sarebbero venuti a cercare me per sbattermi in carcere e alla fine impiccarmi. Potevo vincere contro tre, quattro uomini, forse anche di più se la fortuna mi sorrideva, ma le guardie sarebbero state un numero enorme. 
E non sarei morto in quel modo. Avrei fatto attenzione.
I patti per la ricompensa sarebbero stati diversi... in genere, esigevo un anticipo, ma quella volta avevo deciso di non pressare, perché tanto con quelle teste calde delle guardie, non si ragionava. Era già tanto se si erano abbassate a chiedere aiuto a uno della mia razza. 
Oh beh, entrai nell'ostello ostentando calma e distacco, cercando di non sembrare troppo minaccioso nel mio abbigliamento nero. Sperai che la pistola non si vedesse troppo, ma di sicuro gli stiletti fissati con delle cinghie alla gamba, non sarebbero passati inosservati. Forse avrei dovuto cominciare a girare con un mantello. 
Abbozzai un sorriso al tizio dietro al bancone, ma probabilmente il mio fu un ghigno, perché il tipo sbiancò appena, diventando nervoso. Non poteva pretendere più di tanto, d'altronde ero abituato a ghignare solamente. Che non rompesse le palle. 
Non so perché mi arrabbiai da solo, semplicemente seguendo una linea di pensieri, ma riuscii a non dire nulla di acido all'uomo, sapendo di giocarmi la camera all'ostello. 
Allargai di un poco il sorrisetto storto. «Potrei avere una stanza..?» azzardai.
Probabilmente i miei denti, bianchi e scoperti, lo inquietarono ancora di più, perché sobbalzò appena... e per Diana, neanche fossi stato un vampiro e fossi in procinto di strappargli la giugulare dal collo, così da poter sguazzare felicemente nel suo sangue. 
 
Sbattei le mani contro le cosce, per scrollarmi via polvere che in realtà non c'era - non ero tanto abituato a cose così pulite e appena comprate - e per sentire la consistenza del lungo cappotto di sottile pelle nera. Mi avrebbe accompagnato a lungo quell'indumento, l'avevo capito subito, là al negozio dove quel vecchietto, inaspettatamente, mi aveva donato un largo sorriso, un sorriso che per la prima volta da parecchio tempo, non mi era sembrato falso. Di sicuro stava solo cercando di vendere, lì in mezzo alla viuzza, con quella bancarella. Sorridere a tutti era d'obbligo. 
Era stata una scena piuttosto curiosa però, ripensai, sistemandomi meglio le spalline sulle spalle, e notando compiaciuto le cuciture, che sembravano quasi puramente decorative. 
Avevo passato il pomeriggio del giorno precedente mangiucchiando e dormendo nella camera all'ostello, e avere un letto vero sotto il peso del mio corpo era stato strano, abituato com'ero al suolo duro di campi e boschi. Dormii bene, comunque.
Poi mi ero alzato, ed ero uscito alla chiara luce del sole, finché ancora non c'era troppa gente. Alla fine, da un lato della strada, avevo scorto la bancarella, e adocchiato il cappotto che, ora, come un'ochetta, mi stavo crogiolando nel vedermi addosso. Ammisi che mi donava, senza alcuna finta modestia. 
L'avevo visto e avevo capito che era molto meglio di un mantello, aveva persino la cintura e un cappuccio largo. Mi ero avvicinato, e quell'uomo mi aveva sorriso, in quel modo così sincero che mi aveva spiazzato e mandato in crisi la mia risolutezza... che avrei dovuto fare? Avevo abbozzato un "salve", con la voce raschiante sulla gola, in quanto prima parola di tutta la giornata. 
Mi ero chiesto perché non si fosse limitato a salutarmi e basta, magari esponendomi la roba e vendendomi in modo veloce ed indolore quel cappotto, in modo che sparissi in fretta... insomma, ero "buio", la mia ombra era quasi più scura del normale, la mia pelle bianchiccia e a tratti cicatrizzata mi dava un aspetto malato, e triste, ed ero solo, minaccioso, cattivo, sbagliato, forse persino brutto, di viso. Non avrebbe dovuto sorridermi, non lo meritavo.
Poi, avevo notato i suoi occhi, di come fossero... bianchi, e vuoti.
La consapevolezza che quell'uomo fosse cieco, mi colpì con uno schiaffo.
Non seppi che provai, esattamente...  forse niente, ma sospesi il respiro.
Il vecchio cieco non smontava il sorriso puro, nonostante i diversi minuti trascorsi. Alla fine mi ero riscosso, e avevo stretto i pugni. 
«Non sorrideresti, se potessi vedermi... » l'avevo detto così, con impulsiva schiettezza. 
«Ma io ti vedo», era stata la risposta.
Dire che ero rimasto spiazzato sarebbe stato sminuire la mia sensazione.  
«I-io pensavo... » avevo quindi balbettato, confuso e paonazzo. Adesso avevo dato del cieco a qualcuno che ci vedeva benissimo, grandioso. Figura di merda, come al solito.  
«Io vedo in modo diverso, ma vedo. Io vedo l'energia che ti gravita attorno, vedo il colore del tuo umore e i graffi nella tua anima. Io vedo; non hai l'anima così nera da non meritare un sorriso, giovanotto. Anzi, a tratti, a graffi, è bianca, la tua anima. C'è qualcosa che non ricordi, vero? Che ti manca»
Avevo aperto la bocca, mentre nella mia testa aveva iniziato a scaturirsi la tempesta. «T-tu come fai a.. a sap... » 
«Quanto offri per il cappotto? » aveva domandato l'uomo invece, dondolandosi con un sorriso e fissandolo coi suoi occhi vitrei. Mi erano morte le parole in gola,infatti tutto ciò che ne uscì fu un rantolo strozzato. 
«Sai non sei il primo che lo adocchia, ragazzo mio» aveva continuato imperterrito l'uomo, poi piano piano io suo sorriso si era affievolito. «Ma i graffi bianchi della tua anima mi mettono tristezza. Facciamo così, lo lascio a te, anche ad un buon prezzo» aveva detto, seguendo un ragionamento che si stava costruendo tutto da solo, mentre io non avevo più avuto la risolutezza di dire nulla. L'anziano si era alzato e aveva afferrato senza una sola esitazione il cappotto nero esposto, come se la cecità non fosse stato affatto un problema.
«I-io... la ringrazio, credo», ero stato in grado di balbettare. Non avevo fatto praticamente altro ogni volta che aprivo bocca, da quando avevamo iniziato quella "conversazione" a senso unico. «Di nulla, giovanotto. Scommetto che ti starà molto bene»
«Non può dirlo». Ecco. La confusa frustrazione mi portava a dire solo cose idiote, come continuare a sottolineare una cosa tanto delicata. Gran bello stronzo sei, Gerard.
Ma il vecchio non era parso affatto darci peso, o anche solo rendersene conto. «Invece credo di sì, da come lei stava guardando l'indumento. A lei piace il cappotto, al cappotto piacerà lei. Farete un bell'effetto insieme»
Ancora una volta, mi ero trovato interdetto dalle stranezze di quell'anziano, e avevo cominciato a spaventarmi sul serio. 
Ma diamine, era un bellissimo cappotto, quindi me l'ero comprato, avevo ringraziato ed ero sgusciato via col cuore in gola, neanche l'avessi rubato anziché pagato, quel coso. 
Oh, e come avevo trovato i soldi per quella debolezza puramente estetica? Anche questa era una storia strana: tastando la federa del mio cuscino da viaggio -  il mio unico cuscino, mi ero rifiutato di usare quello dell'ostello - avevo tirato fuori, con mio grande stupore, una buona somma, e solo poi ricordai di averli messi da parte tempo prima.
Ma no, non era vero, non li avevo messi da parte, la verità era un'altra: il punto, è che li avevo nascosti proprio. A me stesso. Mi ero ubriacato apposta, avevo nascosto i soldi e, consumata la sbronza, avevo dimenticato tutto. Ero un verme persino con me stesso. 
Beh, perlomeno, avevo potuto comprarmi quel cappotto da urlo e pagare l'ostello: nascondermi le cose mi conveniva, a quel punto... mi venne istintivo chiedermi chissà quante altre cifre avevo incastrato chissà dove, senza ricordarmene più. Provai a fare mente locale sulle ultime mie cose che mi ero concesso di buttare, ma alla fine scossi la testa e rinunciai. Non mi avrebbe aiutato.
Sorrisi amaramente e mi avvicinai allo specchio, e anche questa era una cosa strana. Tendevo a non cercare mai il mio riflesso, per paura di vedermi all'improvviso invecchiato, e notare qualche nuova orribile cicatrice a deturparmi il volto.  Ne avevo una, sulla guancia, e mi bastava. Nel senso... ne avevo tantissime, sulla schiena, sul ventre, sulle braccia, sulle gambe, bianche sottili e crudeli, ma non mi importava, quelle restavano sotto i vestiti, lontane da occhi indiscreti. Quelle sul viso si vedevano invece, e mi marchiavano più dei vestiti neri, più degli occhi tristi, più delle armi allacciate alla mia gamba destra. 
Sbuffai e smisi di farmi delle paturnie come una ragazzina, e piegai la schiena facendo frusciare il cappotto lungo, per vedermi il viso nello specchio. 
Sollevai un sopracciglio. Con un sentimento misto tra sollievo e delusione, constatai che la mia faccia era sempre la stessa, che fosse brutta, bella o da schiaffi, era sempre e comunque la stessa. Forse non sarebbe stato poi così male vedersi gli anni scorrermi addosso... almeno, mi comunicava per quanto ancora avrei dovuto sopravvivere così, finché non ero troppo debole per farlo.
Con la punta delle dita sfiorai le occhiaie accennate appena sotto l’occhio, e mi fissai l’iride verdastra. Era un colore sporco, indefinito, che cambiava del tutto a seconda della luce, ma almeno mi ricordava la foresta; quando era fitta, verso sera, il sottobosco prendeva quel colore lì.
«Ma guarda guarda, non odi il colore dei tuoi occhi. Un punto a te, Ger...» quell’inutile frase in terza persona fu bloccata nella mia gola dal rumore fragoroso e dalle urla che arrivarono da sotto la finestra della mia stanza: per lo spavento soffocai un urlo e d’istinto mi sporsi in avanti, sbattendo la fronte contro le specchio e graffiandomi da solo la guancia. Per fortuna questo non andò in frantumi, evitando di tagliuzzarmi artisticamente i capelli e il cervello.
Mi tirai su di botto, ringhiando come una bestia inferocita e diventando un compatto fascio di muscoli tesi. Odiavo essere spaventato, la mia ira ci metteva ore a scemare, dopo.
Corsi alla finestra con quella che era quasi la bava di un lupo furioso, e guardai giù: sotto di me, dove di mattina avevo visto un bancarella di frutta e verdura, era scoppiato il putiferio: le merci verdi e fresche rotolavano da tutte le parti, e il polverone che si era alzato era imponente. Il proprietario sbraitava come un ossesso, la gente lì attorno un po’ si avvicinava, un po’ si scansava, tutti con espressioni tra lo stupore, la sorpresa e la paura. Arricciai le labbra... la gente si lasciava scandalizzare da così poco? Ricordai la testata contro lo specchio e azzittii la mia mente, per non fare l’ipocrita, e mi concentrai meglio sulla scena.
In quel preciso istante, dal polverone si alzò una figura, in piedi su un cassone di banane, facendo una veloce giravolta su sé stesso, ma proprio sotto il mio sguardo perse d’un tratto l’equilibrio e cadde in avanti, sulla schiena, con un tonfo secco. Riuscii a sentire il rumore del suo corpo sulla pietra dura e impolverata, la sua mascella scioccare per l’urto, la bocca dalle labbra sottili schiudersi e sputare gocce di sangue, e negli occhi di quello che doveva essere un ragazzino di - quanti, diciotto, diciannove anni? - passare come una saetta la luce del dolore. Provai pena per lui... il che fu strano, ma quei grandi occhi spalancati verso il cielo, verso la mia finestra, mi trafissero la fronte, andando giù fino a quella zona del cervello in cui risiedeva la mia compassione.
E il mio cuore fece letteralmente una capriola quando capii cosa stava continuando a produrre rumori bassi e arrabbiati: dal polverone emerse un cane enorme, un fascio marrone di muscoli, denti e bava, che fece leva con le zampe contro la cassetta da cui il ragazzo era caduto, e si lanciò in avanti.
Aprii la bocca, come per gridare. Ero metri più su, e guardavo dall’alto come un dio inutile, e tutto il mio campo visivo era occupato solo dal cane. L’avrebbe ucciso, fu il mio pensiero, sarebbe piombato su quella specie di bambino e sarebbe riuscito a fargli sputare persino i reni.
Non mi piacevano i cani.
Poi il ragazzo fece qualcosa di risoluto, che non mi aspettai: dal suo viso sparì la smorfia del dolore, e vidi solo degli occhi calcolatori e pronti; quando il cane volò su di lui, sollevò di scatto le gambe e lo sbalzò via. Nella foga, potei giurare di sentirgli mormorare uno “scusa” disperato.
Vidi il cane cadere più in là, rimettersi in piedi e caricare di nuovo in tempo zero, neanche fosse un cinghiale, e di cinghiali ne avevo visti tanti, e mi spaventavano meno. Vidi il ragazzo afferrare al volo, dal bancone che avevano distrutto, un’asta di legno e usarla a mo’ di mazza, per tentare di proteggersi dalla potenza con cui il cane si stava per avventare su di lui.
Ecco, ora sarebbe morto. A causa di un cane. Era uno dei mille modi in cui non avrei mai voluto morire io. Avrei preferito addirittura essere soffocato da un gatto, ma diamine, i cani no.
Senza neanche sapere come e perché, mi ritrovai con i piedi sulla finestra, i capelli spostati dal vento leggero che tirava di fuori.
E un attimo dopo, stavo cadendo. 




______________________________



.:Angolo dell'Autrice:.
Ed ecco il secondo capitolo. In pratica, l'ho scritto tutto nelle note del cellulare in corriera, col terrore pesante che mi crashasse l'app e perdessi tutto. Oh beh, io alla mattina alle sei penso a questo. Nessun rimpianto.
Già che ci siamo, vi presento lo schizzo di Gerard (in realtà nella mia mente era diverso, ma so che le cose non vengono mai come le sei vogliono. E' anche venuto un po' grandino lo scanner, lo schizzo era piccino) fatto durante l'ora di inglese, per darvi un po' un'idea di quello che è.... ho deciso di mescolare l'era di Danger con i capelli neri, siccome rossi, almeno per adesso, non si legavano al personaggio. 
Spero di non avervi annoiati con questo capitolo, e di aver richiamato almeno un minimo l'interesse del malato che sta leggendo queste parole. E se sei lì che stai leggendo queste parole, beh scrivine due anche tu per me, le gradirei, anche se fosse un insulto... ci sono gli insulti e poi ci sono i complimenti. E' l'essere ignorati, che fa più male. 
ora lasciate perdere i ragionamenti filosofici, e spero che sta roba vi sia piaciuta, la storia piano piano si sta costruendo nella mia testa... ho paura di me stessa.
Chiedo venia agli amanti dei cani, in realtà non li odio così tanto, non sempre, ma... qui Gee è troppo un tipo da gatti  u-u sorry


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Capitolo 3
*** Losing Yourself ***





 
 
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3. Losing Yourself



La consistenza del sangue tra le dita... viscido. Sporco. Rosso. Nero.

Il bambino fissava il sangue che gli macchiava le dita, come se quel cremisi intenso non se ne sarebbe andato mai più. E no, non se ne sarebbe andato. 
«Vieni via. » una voce alle spalle, roca e rimbombante, atona. «Ormai è morto»

Il bambino si morse il labbro inferiore, per bloccare i tremiti. Erano minuti che era inginocchiato lì, davanti a quel corpo abbandonato morto, a fissarsi il sangue sulla pelle chiara, come se potesse bloccare quel momento crudo e irreale. L'ultimo, con il suo mentore; l'ultimo, con il suo sangue tra le dita; l'ultimo, con i suoi occhi vitrei a fissare il cielo grigio. 

Il bambino non pensava più a niente. Non aveva paura, ora, di niente. Cosa si può pretendere da una mente vuota da ogni cosa? Perché non c'era più passato e non c'era più futuro; adesso, solo quel frammento di presente freddo, tinto di rosso. 

"Sei come un foglio bianco", erano state le prime parole con cui il suo tutore, un anno addietro, gli si era riferito. Ora, quel foglio bianco giaceva a terra, accartocciato, e si stava macchiando con la terra bagnata e col sangue che non voleva saperne di asciugare. Nessuno aveva ancora scritto niente, su quel foglio, e già era stato abbandonato. Di nuovo. 

Il bambino non versò una lacrima. Non gli sarebbe mancato il suo tutore... bisognava volere bene a qualcuno, per sentirne la mancanza. E il bambino non voleva bene a nessuno. 

Però adesso era solo, e non sapeva dove andare, e come fare. Si chiese perché fosse ancora così importante vivere. Si chiese perché non era possibile decidere di non voler più aria nei polmoni e andarsene così, con una scelta personale, naturale. Aveva fatto un esperimento, una volta, ma per quanta determinazioni ci si mettesse, i polmoni costringevano a riassorbire ossigeno. Era lì che si era del tutto reso conto di quanto fosse schiavo del suo corpo.

«Vieni via» Ancora quella voce raschiante. «Presto arriveranno degli animali, e prima di quel corpo mangeranno il tuo, vivo. Imparerai che la foresta è un posto crudele» 

Il bambino liberò dalla stretta dei denti il labbro inferiore, sentendo il sangue anche in bocca, adesso, oltre che sulle mani. Non capiva perché quell'uomo non se ne andasse e basta, lasciandolo solo con i suoi fantasmi. «Che vengano, gli animali... » soffiò, acido, fissando un punto indistinto in basso davanti a sé, forse lì dove il sangue colava e imbrattava l'erba giovane, attraversava lo stelo di un fiore dai petali caduti e incontrava pigramente la terra brulla. 

Non avrebbe voluto dire quella frase all'uomo, non avrebbe voluto parlare mai più, ma la lingua era un vizio. Strinse i pugni fino a sbiancare le nocche, nonostante la pelle fosse già al limite del pallore. 

L'uomo tacque per una manciata di lunghi minuti. «Posso offrirti un lavoro» disse infine. 

E il bambino ci pensò, lo fece davvero. Un lavoro... mh. I lavori lo distraevano dalla realtà, era una cosa positiva. 

Lentamente, alzò gli occhi del colore del muschio, su quella figura che si era presa la briga di parlargli nel nero del bosco. Per quello che poteva saperne l'uomo, l'assassino avrebbe potuto essere lui stesso, proprio quel bambino, dalle mani imbrattate di sangue viscido; ma la gente sottovalutava i bambini, sottovalutava lui, per meglio dire. Parlargli, era stato stupido, da parte dell'uomo: ma il tizio l'aveva fatto comunque. 

Ancor più lentamente, e arreso al lasciarsi soggiogare da quel insolito presente, il bambino si alzò.

E io, dal buio del mio angolo, accanto ad un albero nero come il resto, lo fissai avanzare con il sangue sulle mani che alla fine cominciava a rapprendersi; lo vidi imboccare una strada che, come tutte le strade, non avrebbe portato a niente. Si alzò il vento, e spostò le chiome e le foglie secche, muovendo pigramente i ciuffi di capelli neri dagli occhi del ragazzino, e dai miei. 

Fissai quel giovane, senza sapere perché, e non appena quello sparì nella vegetazione senza voltarsi indietro, un dolore lancinante mi colpì come un pugno allo stomaco, violento e improvviso: eppure, ero ancora solo. Sentii il sangue arrivarmi in gola e colarmi dalle labbra, e portandomi le mani al petto e di nuovo sotto gli occhi, vidi il rosso sui miei palmi brillare alla luce color latte della luna. 

Poi, mi sentii cadere. 

 

Il ricordo di quel sogno mi colpì all'improvviso, come una sberla, e mi rimase incastrato in gola, amaro. Eppure, non annebbiò la mia mente, mentre sentivo l'aria sul volto e vedevo, nella mia caduta, il pavimento impolverato della strada avvicinarsi.

Accompagnato dal rumore del lungo cappotto che sferzava l'aria alle mie spalle, atterrai molleggiandomi sui piedi, una mano in avanti, e liberai la forza d'inerzia facendo leva con le caviglie e saltando in avanti. In qualche modo, mi ritrovai, dalla finestra tre, forse quattro metri più in su, alla strada, tra il corpo del cane e quello del ragazzo, in mano un pugnale che non ricordavo di aver estratto. 

Fu tutto molto veloce: la mia schiena inarcata, il mio ginocchio che incontrò la stabilità del terreno, il lieve scarto a destra, la mano avvolta  sull'impugnatura, gli stessi precisi e professionali movimenti, eseguiti come fossi un automa, nato per quello, e poi l'elettricità di quella frazione di secondo, e l'urlo isterico alle mie spalle.

«No!! Non ucciderl... » 

La lama incontrò la carne, e lacerò quel fascio teso di nervi e muscoli, ubbidiente ai miei comandi. Sentii la scarica e la forza del contraccolpo vibrarmi prepotente nei muscoli del braccio, abbastanza potente da scaraventarmi all'indietro, sotto il peso di quel sacco di carne morta, ma il mio ginocchio rimase saldo a terra, garantendomi equilibrio. Ogni mio movimento era inconsciamente studiato, impeccabile, elegante. L'arte della morte era mia, ormai mi apparteneva. 

Sentii un dolore risalirmi lungo il braccio sinistro, ma non ci feci caso, mi limitai soltanto a far cadere il corpo esanime dell'animale accanto a me, e liberai i muscoli del polso, vibranti sotto il notevole sforzo. Da sotto, gli occhi vitrei e ancora iniettati di sangue dell'animale, mi fissavano con un astio che non avrebbe mai sfogato: altro non erano che biglie di vetro, imprigionate in un corpo molle. 

Sentii il sapere del sangue in bocca, e mi accorsi di essermi spaccato un labbro; sputai sangue e saliva al suolo, accanto al cane, poi mi alzai, accompagnato dal suono frusciante del cappotto contro le mie gambe, e mi voltai, sentendomi addosso gli occhi del ragazzo, a cui avevo appena salvato la vita, intento a divorarmi la nuca a sguardi.

Ci provai, ma non potei trattenere un ghigno notando l'espressione del giovanotto, che variava dall'allibito, alla sorpresa, allo scandalo, al terrore. Era una bella espressione, per me, soprattutto regalatami da quel piccolo viso dalla pelle chiara, quasi porcellana, in netto contrasto con la zazzera di ribelli ciuffi neri. 
Spensi il ghigno e spostai lo sguardo piatto dal ragazzo, al cane, e poi di nuovo sul ragazzo, e infine sulla lama insanguinata stretta nella mia destra. Non mi piacevano le armi sporche.

Mi godetti l'espressione del tipetto mentre, con calma glaciale, mi avvicinavo, l'arma stretta tra le dita, finché non me lo trovai a pochi centimetri. Era bassino, il suo naso mi arrivava giusto giusto all'altezza delle clavicole. 

Indovinai che fosse impietrito da chissà che tipo di sorpresa, perché nei suoi panni, trovandomi uno come me così pericolosamente vicino, me la sarei data a gambe fino a slogarmi le caviglie. Beh, poco male, lui non era me. 

Sollevai le sopracciglia e arricciai le labbra. «Prego. » sentenziai, come rispondendo a un grazie che non ci sarebbe stato. Gli afferrai il bordo della maglietta e la sollevai un poco, poggiando quindi la lama sulla stoffa e pulendola dal sangue, lentamente, come se fosse una cosa del tutto normale. Osservai freddamente l'arma: adesso brillava, intonsa, catturando i raggi del sole della prima mattina. Sorrisi, compiaciuto, e lasciai andare la maglietta al ragazzo, i cui occhi rischiavano di saltare fuori dalle orbite da un momento all'altro. 

«...e grazie» dissi ancora, allargando il sorriso a labbra chiuse, riponendo il pugnale nel fodero senza più degnare di uno sguardo la macchia di sangue scuro sulla maglia color crema del ragazzo. 

Vidi il suo labbro tremare leggermente nel tentativo di articolare una parola, e sollevai un sopracciglio. 

«I-io.. uhm.. » balbettò, senza diminuire la dimensione degli occhi. Poi, fissò lo sguardo su di me, sulla lama, e sul cane morto dietro di noi, e la sua espressione si alterò d'un tratto, aggrottando le sopracciglia e stringendo la mascella. Sollevò le mani e le premette contro il mio petto, spingendomi all'indietro con rabbia, o forse lo fece solo per sfogare l'immobilità che fino a quel momento l'aveva intrappolato. Non feci più che un passo indietro, non ci aveva messo molta forza in quella spinta. 

«Perché l'hai ucciso?! » esclamò il ragazzo, gesticolando in direzione del cane. 

Sgranai gli occhi: tra le cose, non mi sarei aspettato proprio una lamentela del genere. Che problemi aveva questa specie di bambino?

Mi obbligai a restare calmo, infilando le mani nelle tasche del cappotto nero, e sostenendo un'espressione di sufficienza, forse anche un po' altezzosa. «Perché sennò saresti morto, piccolo ingrato» 

Il ragazzo incrociò le braccia. «Non puoi saperlo! Sarei riuscito a scappare, senza uccidere un povero cane» ringhiò.

Sì, era proprio un ingrato. Ma che mi aspettavo? Avrei dovuto girare i tacchi e basta, non mi ero mai aspettato un grazie da nessuno. Ma d’altronde, non avevo mai neanche difeso nessuno di spontanea volontà, né avrei mai dovuto farlo. Idiota.

Mi lasciai scappare una breve risata secca, di scherno. «Ah! Forse avrei dovuto lasciarti fare, e vederti continuare a gironzolare per la città, infilato a brandelli, tra le unghie del tuo cane»

Il ragazzo aprì la bocca per ribattere, ma le sue labbra rimasero schiuse a mezz'aria, un risposta sospesa in gola, e sentii i suoi occhi, di un colore indefinito, studiare i miei. Socchiuse le palpebre e piegò di un poco la testa, l'espressione indagatrice che cominciò a tubarmi, spingendomi a spostare lo sguardo di lato. 
 
«P-per caso ci conosciamo...? » azzardò. Il ragazzo si avvicinò di un passo, e io ne feci uno indietro, improvvisamente a disagio. 

Non mi piacevano quelle parole... sotto-intendevano qualcosa di pericoloso. E no, io non conoscevo proprio nessuno. 

«Ho già visto i tuoi occhi… » osò ancora il giovane, e sentii il sangue diventare ghiaccio quando sollevò una mano, quasi a sfiorarmi il viso.

Mi ritrassi arricciando le labbra e rabbuiando lo sguardo. «No. Credo proprio di no. Non ci conosciamo affatto… non dovrei essere qui, anzi…» sibilai, ma neanche a metà frase, la voce mi si ruppe in gola. Ecco, ecco cosa avevo scordato… non eravamo soli lì.

Con il terrore che mi strisciava nella gola, suscitandomi la nausea, spostai gli occhi sulla gente che, a debita distanza, ci fissava sussurrando, indicando, o voltandosi e andandosene, o arrivando. Merda. Sono un idota.

Idiota.

Non dovevo mai dare nell’occhio, era una regola che mi accompagnava da sempre: e invece adesso, chissà quanti occhi erano puntati su di me, e mi guardavano il volto, le mie cicatrici, i miei capelli scuri, la mia pelle chiara, le mie armi, il mio sangue, che sentivo lungo il braccio e sul labbro. Non potevano guardarmi, solo con lo sguado potevano prendersi qualcosa di me… e io appartenevo solo a me stesso.

Dovevo fare il mio lavoro, e poi sparire, come un’ombra, e basta, e basta, e basta. La mia vita era quella, uccidere e sparire, quindi fanculo quel vecchio, fanculo il cappotto, ed il cane, ed il ragazzo. Stavo diventando debole.

Bloccai di colpo il respiro e mi afferrai con uno scatto felino il cappuccio del cappotto di pelle, portandomelo sul volto, fino agli occhi, e incassando la testa fra le spalle. Senza dire nulla mi voltai e presi ad allontanarmi a passo svelto, desiderando solo sparire.

Chissà perché avevo sperato che il ragazzino mi lasciasse andare…

Infatti, si gettò in avanti provando ad afferrami per il braccio, ma non mi sfiorò nemmeno, non glielo permisi. «A-Aspetta! Dove stai andand-- »

«Vattene» intimai, la voce resa vibrante dai miei denti serrati, e dal cappuccio che mi nascondeva già metà volto. Con sollievo, notai che nessun altro a parte il giovane aveva l’intenzione di seguirmi, perché sapevo di avere poca pazienza; non mi andava di sporcare ancora una volta la lama, richiamandomi addosso null’altro che altra attenzione.

Ometterò le imprecazioni varie che mi attraversarono la mente in quel momento, la maggior parte riferite a me stesso, oltre che a tutti i presenti… dovevo smettere di sbagliare così, o la mia vita sarebbe durata anche meno di quello come avevo programmato. Essere visibile significava essere esposto, e debole.

Imboccai il primo sentiero stretto  che mi si presentò, velocizzando ancora il passo, le mani schiacciate nervosamente fino in fondo alla tasche, il mio labbro, già tagliato e dolorante, stretto tra i denti, che ne stuzzicavano la carne, in una specie di perverso antistress; neppure mi accorsi di aver davvero seminato il ragazzino. Non ci avrei mai davvero sperato…

Fu così, quindi, che mi trovai fuori dalla città, solo. Intorno a me, cassette rotte, alberi storti, da una parte un orto trascurato, dall’altra una casetta modesta. Davanti a me, della ghiaia e alla fine l’inizio della foresta… la mia foresta, casa mia, la mia pace, la mia solitudine, la mia autodistruzione…

Finalmente mi lasciai il labbro. Faceva male, ma non ci badai. Anche il braccio faceva ancora male, d’altronde. Sentii la tensione piano piano scemare, e la sentii tramutarsi in debolezza, che mi strisciò dentro, velenosa eppure morbida, liscia, tentatrice. Mi diceva… cedi.

E io cedetti. Con un brivido ad attraversarmi la schiena, caddi in ginocchio. Mi presi la testa tra le mani, perché non riuscivo a reggerla più, e mi strinsi fra le dita ciuffi di capelli corvini.

Perché? Perché mi sentivo così solo? Così… abbandonato, tutt’a un tratto? Sentivo ancora la presenza opprimente di quel sogno, le sensazioni bollenti eppure fredde, il sentimento di vuoto e perdizione, del mio…. ricordo? Per la prima volta, la mia mente registrò quella scena come un ricordo, anziché come un incubo, frutto della mia mente spezzata.

Ma io non avevo ricordi. Non di questo genere. Non potevo.
Non dovevo.
 
"We’re crawling back
from our dreams
We’re breathing in
mud, blood and fear
We’re crying out
all the memories
that at night
don’t let us sleep. "
 
Cantilenai lentamente quelle parole, come se a loro volta venissero dal passato. Anche le note le sapevo, forse le ricordavo, e le sentii vibrarmi sulle labbra umide, e venire distorte dalle mie mani premute sul volto, e dai ciuffi di capelli sudati, ancora intrappolati fra le mie dita.

Non piansi. Ne l’avevo mai fatto, da quando ne avevo memoria… ma avevo visto molta gente farlo. Mi ero chiesto spesso come si stesse, ad avere un oceano sopra il viso, a vedere i colori del mondo sfibrati dalle lacrime, fino ad addormentarsi.

Però rimasi lì, a sussurrare parole per calmare quel momento stranamente emotivo, lasciandomi cullare fino in fondo al baratro, che d’altronde, era parte integrante di ogni giorno della mia vita, ma che ogni tanto tornava su, e bussava alla porta della mia coscienza.

Ciò nonostante, era tutto ciò che avevo, tutto ciò che potevo avere. Quindi sì, rimasi lì, chiuso su me stesso, per proteggermi da qualcosa che non c’era, abbandonato sulla ghiaia, alle spalle una città, e davanti solo il bosco.

Era così che funzionava. Perdevo me stesso, nella speranza di potermi ritrovare.





                                                                                            
 

Mmmh eccoci, se qualcuno sta davvero leggendo, con il terzo capitolo. E' un po' una schifezza, lo so.. mi sono già un po' bloccata... è anche piuttosto corto.
 Il personaggio di Gerard si sta rivelando difficile da usare, ma mai quanto quello di Frank.. ho paura di starlo rendendo più bambino di quello che è, perché credetemi, non è solo il ragazzo col viso di porcellana. Ho paura di quello che questa storia si stia tramutando nella mia mente... beh, sappiate che riutilizzerò questa storia per un fumetto, se mai un giorno qualcuno volesse leggerlo, anche se ovviamente cambierò delle parti e sopratutto i nomi u-u

_Ashes

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Capitolo 4
*** Stray Cat ***





 
 
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4. Stray Cat


 
Con una lentezza esasperante, mi lasciai scivolare giù la camicia bianca dalla spalla dolorante, tenendo la stoffa sottile con la punta delle dita. Osservai, abbassando le palpebre, la pelle chiara ricoprirmi la carne ed i muscoli, e sotto i raggi del sole, mi sembrò di un candido fin troppo innaturale. Come sarei stato da morto, trasparente?
Rabbrividii; non che avessi freddo, ma sentirmi così scoperto, con i raggi del sole ed il soffio del vento a sfiorarmi la pelle nuda delle spalle e del petto, era una sensazione insolita per me. In genere, mi lavavo al buio, di notte, quando non c'era quel vento fresco del giorno, ma solo l'umido respiro della notte.
Non potei negare a me stesso, comunque, che l’aria un po’ più calda, lavandosi, era gradita.
Il sole, ora, era allo zenit. 
Sospirai, lasciando cadere del tutto la camicia dalle mie spalle: avrei dovuto lavarla, quindi l'appoggiai vicino al masso, su cui mi sedetti, ripromettendomi di occuparmene. Appoggiai i gomiti sulle ginocchia, e mi stropicciai il viso per l'ennesima volta, tentando di rilassare i nervi tesi e migliorare il mio umore pessimo.
Sentivo annichilito ogni muscolo delle braccia, e la schiena ed il collo dolermi sensibilmente... sapevo bene perché. Quanto tempo ero rimasto, nella semi-incoscienza, piegato su me stesso, la testa fra le mani e la schiena curva, al limitare di quello stupido bosco? 
Non lo sapevo. Davvero, davvero non lo sapevo. Il mio cervello era inutile e stupido, lo sapevo bene ormai: dimenticavo velocemente molte cose, e avevo la tendenza ad addormentarmi, o comunque di entrare in trance, restando pure in piedi, se nessuna delle mie arti era attiva. L’arte della morte, tra tutte, era quella che mi rendeva più lucido, più capace... non più vivo, non era questo che intendevo: perlomeno, il mio corpo funzionava, attraversato da scariche di energia.
Ero un casino. E meno male che ero solo, nella mia vita.
Ecco... solo. Non ne ero poi cosi convinto. 
Sbuffai sonoramente e lasciai cascare le braccia tra le ginocchia, sentendo ancora una volta la fitta al braccio destro. Avevo un brutto taglio lì, lasciatomi dal cane, probabilmente, ma più lo guardavo, coperto di sangue, meno mi veniva voglia di occuparmene. Volevo morire di infezione? Forse. Che morte stupida, però. Ero troppo pigro per farlo? Forse. Ma l'ho detto, il mio cervello era un casino. Forse da bambino ero stato investito da una mandria di struzzi, che mi avevano danneggiato la ragione, per quello le cicatrici sconosciute sul corpo... ma che andavo a pensare? Struzzi? Sul serio...? Idiota. Neanche avevo mai visto uno struzzo. Probabilmente erano estinti, ma io avevo letto molti libri. Forse troppi, con tutte quelle pagine, ed i disegni che avevo ricopiato, e le parole piene di fantasmi del passato, che avevano contribuito a distorcere la mia visione delle realtà. Ma leggere mi piaceva, andava a stuzzicare la mia arte, quella senza nome, intendo, quella contrapposta all'arte della morte, quella che tenevo imprigionata nel taccuino e nella voce.
Beh, mi dimenticai della ferita al braccio, e arricciai le labbra da un lato, annoiato, scettico e a disagio. 
Abbassai uno sguardo quasi accusatorio sull'acqua del laghetto, a un metro dai miei piedi, muoversi e rilucere rispondendo pigramente alle carezze del sole. Il venticello la increspava leggermente, rendendola fredda, eppure invitante. 
Avrei dovuto spogliarmi... ma una brutta sensazione mi stuzzicava le tempie, come sempre, quando il mio curioso sesto senso decideva di mettermi all’erta.
In realtà, mi ero accorto già da un po’ che qualcosa di sbagliato mi accompagnava da quando ero entrato nel bosco.
Incominciamo con la sensazione di essere osservato.
No, non mi sarei spogliato finché quella sensazione continuava a soffiarmi gelida sulla nuca. Forse ero solo uno sciocco, ma un brivido silenzioso mi fece venire la pelle d’oca... e decisi di arrendermi ai miei sensi, e non dubitare più. Sì, qualcuno mi stava decisamente osservando.
Mi passai la lingua sulle labbra, inumidendole, e indugiando sul taglietto nel labbro inferiore, lo sguardo ancora perso nell’acqua del laghetto, seguendo il ragno d’acqua pattinare pigramente e sfidare la tensione superficiale del liquido. Avevano davvero una gran bella faccia tosta, quei ragnetti, che neanche ragni erano, non propriamente.
Scossi la testa, tornando alla realtà.
Feci una breve riflessione, andando ad esclusione, poi mi passai una mano fra i capelli neri, ancora umidi, da quando mi ero sciacquato il viso. Alla fine sospirai, una mano poggiata al mio bicipite.
«Puoi anche uscire, ranocchio, prima che mi stanchi della tua presenza e rimedi da solo» sbottai, apparentemente al niente. Seguii un lungo minuto di silenzio, in cui mi concessi un solo secondo di scetticismo, poi il mio istinto venne ricompensato e sentii rumore di foglie, alla mia destra, da qualche parte nel bosco.
Sospirai ancora, più pesantemente, questa volta, perché mi sentisse. Spostai i miei occhi chiari nella direzione giusta, mentre il mio mento si appoggiava alle mani incrociate, in tempo per vedere una figura slanciata saltare giù da un albero, piegando le ginocchia nell’impatto. Lo vidi scrollare le spalle, lo sguardo basso, le mani affondate nelle tasche, e avvicinarsi passo dopo passo a me, finché non fu ad almeno tre metri.
Come avevo immaginato, era lui, lo stesso viso giovane, la stessa pelle chiara, gli stessi capelli neri che, ora, con il suo viso puntato verso il basso, gli cascavano su un lato della fronte fino all’occhio, oscurando ancor di più la sua espressione.
Il ragazzino spostò il peso su un piede, poi sull’altro. Mi sembrò vagamente imbarazzato, ma non... spaventato; anzi, mi parve fin toppo tranquillo vicino a me, e la cosa quasi mi irritò. Volevo che avesse paura di me, volevo che mi lasciasse in pace: semplicemente lui non sapeva che razza di assassino fossi, o perché mi trovassi in quella città... ma non volevo che lo sapesse, ed ero cosciente che il mio corpo, pur ribellandosi alla mia ragione, non avrebbe mai fatto qualcosa in grado di spaventarlo. Avevo salvato la vita a quel ragazzino, qualcosa mi bloccava dal fargli del male... sembrava quasi una cosa giusta, pensata così. Non mi ero mai fatto troppi scrupoli, con chi mi dava fastidio, ma adesso era il prezzo da pagare per aver aiutato qualcuno: mi stavo facendo degli scrupoli.
Complimenti, Gerard, stai sperimentando qualcosa di nuovo.
Onestamente, speravo che il mio aspetto bastasse a intimorirlo e farlo restare lontano... già, aspetto. Abbassai lo sguardo, ricordandomi di essere a torso nudo. Ah, ecco. Ora tutto quadrava. Probabilmente facevo ridere, forse schifo. Quante delle mie cicatrici erano visibili?
Scossi la testa. In realtà, non me ne fregava niente, avevo accettato quell’aspetto di me molto tempo prima.
Incrociai le braccia, rivolgendo al giovane uno sguardo tra l’annoiato e l’irritato. «Perché mi segui...? » e lo dissi come se stessi sputando qualcosa che avevo incastrato fra i denti.
Lui scrollò le spalle, tranquillo, sollevando lo sguardo e abbracciandosi da solo, come se dovesse assolutamente impiegare le braccia in qualcosa. Mi fissò in silenzio, dritto negli occhi, i suoi nocciola nei miei, verde sporco. Il suo sguardo era così genuino, così schifosamente genuino, che sentì qualcosa attorcigliarsi nel mio stomaco, e inarcai un sopracciglio.
Il ragazzo si avvicinò di ancora qualche passo, senza lasciare il mio sguardo, restando zitto per una mezza eternità, finché non lo sentì buttare fuori un gran respiro, e infine fare il primo vero e proprio gesto, che non fu nulla più se non un movimento degli occhi e del mento: seguii la direzione del suo sguardo e, con pura sorpresa, notai che mi stava fissando la ferita sul braccio.
«Quella è colpa mia... e ancora non l’hai curata»
Era davvero un ragazzo strano. Prima mi dava addosso per avere ucciso il cane, poi mi rimproverava se non mi curavo. Per quello che poteva importare a quello lì, avrei anche potuto morire dissanguato, non sarebbe stato comunque un suo problema. Mi sentii convinto di questo, poi ci ragionai velocemente...
Beh, anche lui avrebbe potuto morire dissanguato, quel giorno, e non sarebbe stato un mio problema. Eppure, l’avevo salvato, tirando il problema su di me.
Idiota. Quante volte me lo stavo dicendo in un giorno? Avrei dovuto cominciare a contare.
«Perché non ne ho bisogno» risposi, piatto.
Lui inarcò una delle sopracciglia sottili. «E’ viola... » constatò, scettico.
Mi accigliai, spostando ancora una volta lo sguardo sul taglio. Beh, aveva una tonalità particolare, ma non l’avrei chiamata viola. C’era tutta una gerarchia di colori, la mia arte senza nome lo sapeva: quello non era sicuramente un viola, non propriamente, ma riuscì a tenere a freno la lingua, e scrollai le spalle.  
«E’ importante...? » risposi. Che domanda idiota.
Probabilmente lo spiazzai, infatti, poiché curiosamente lo vidi aprire la bocca, e poi chiuderla, facendo comparire una piccola rughetta sulla fronte. «Se stai cercando di morire, allora no, non credo che... che lo sia, importante» disse, titubante , e lo trovai molto divertente. «Ma sarebbe molto stupido... non considerarla tale, intendo»
Sì, probabilmente lo sarebbe stato. Sollevai entrambe lo sopracciglia, spostando un attimo lo sguardo in basso. Sapevo di star facendo il difficile, ma era un mio vizio. Con tutta onestà, sapevo che mi sarei odiato da solo, se solo avessi potuto guardarmi attraverso un altro paio di occhi. Ma non potevo, e quindi, pur di non odiarmi, mi ritrovavo ad amarmi nella mia idiozia.
«Immagino di sì. E no, non sto cercando di morire, ma sai... ho avuto altro da fare» dissi, con un movimento vago della mano, ed era quasi vero. Le mie cose erano ancora all’ostello,  non avevo veramente nulla con cui curarmi. Dovevo, come in quei bei libri d’avventura, strapparmi un pezzo di camicia e annodarmelo per fermare il sangue ed evitare l’infezione? No, mi piaceva quella camicia. Non l’avrei fatto.
Feci spallucce.
Il ragazzo arricciò le labbra, e poi se le inumidì, e lì mi accorsi dell’anellino sul labbro inferiore: il metallo catturava il raggi del sole, brillando sul suo viso. Era un ninnolo interessante, pensai. Poche persone portavano quel tipo di cose, ormai, ma sapevo che molti anni prima, prima della guerra, andava abbastanza di moda.
Perso nei miei pensieri, non mi accorsi di quanto si fosse avvicinato, finché non me lo ritrovai praticamente davanti, le dita strette intorno alla cinghia della sacca che aveva legata alla cintura... neanche di quella mi ero accorto. Che mi stava succedendo?
Beh, mi immobilizzai, bloccando persino il respiro.
Lui, senza dire nulla, un lieve colorito nella guance, si inginocchiò e tirò fuori dalla sacca una bottiglia contente un liquido e un rotolo di garze, posandole al suolo, poi mi rivolse una mano vuota, il palmo all’insù.
«Posso? » azzardò.
Oh. Oh.
Voleva aiutarmi, era lì solo per quello? Perché seguirmi in silenzio, allora?
Non risposi subito, occupato a tenere a bada la tempesta di pensieri intrappolata stretta e scomoda nel mio cranio, e mi risvegliai solo quando lui si morse ancora più forte il labbro, assumendo uno sguardo da cane bastonato, alla ricerca di attenzioni.
Era un’espressione buffa sul suo viso, e il suo dispiacere per il mio silenzio ed apparente rifiuto di essere aiutato, mi fece internamente sorridere. Forse non aveva paura di me, ma mi parve quasi mi... rispettasse.
S-sul serio l’avevo davvero pensato? Rispetto? Nessuno mi aveva mai rispettato. Temuto, sì; rispettato, no. Sono cose ben differenti, e parecchio.
Alla fine deglutii, e lentamente spostai il braccio dalla pelle scoperta nella sua mano, e lui piano chiuse le dita, avvicinando il viso per esaminare il taglio.
Fu... strano, quel tocco. Da quanto qualcuno non mi toccava con quella gentilezza? Ah, già, aspetta. Non era mai successo. O forse sì? Forse era accaduto quando ero piccolo, ma non lo ricordavo. Anch’io avevo dovuto avere una madre, giusto? Mi aveva amato, accarezzato? O forse era proprio lei che mi aveva abbandonato subito, lanciandomi su quella strada, come si lancia via un gatto, che non si vuole tenere più.
Oh, poi c’erano alcune delle donne con cui ero stato, ma gran parte di quelle notti le avevo dimenticate; e non avevo mai amato, non avevo alcun tocco importante da ricordare, nessuna gentilezza speciale che andasse oltre al piacere che sapevo dare, e che a volte, solo a volte, mi veniva dato indietro... anche quell’aspetto di me era davvero strano, c’erano volte in cui il sesso non mi comunicava niente, non c’era piacere, o particolare sensazione.
E poi c’erano le cicatrici, e c’era l’odio, nei confronti delle persone. C’era il mio vuoto, tra me e il mondo.
Era un po’ come la questione del fumo. Non la sentivo quasi più, la nicotina.
Guardai quella specie di bambino sollevare la bottiglia e mormorare qualcosa come “potrebbe fare male” ma non lo ascoltai molto. Quando l’acqua ossigenata assaggiò, bagnata, la mia pelle e sfrigolò sul sangue, lavandolo via, mi limitai a ritrarre la labbra e strizzare un occhio soltanto. Avevo decisamente affrontato di peggio.
In un silenzio quasi religioso, il ragazzo, sotto i miei occhi vigili, finì di disinfettarmi e prese la garza, cominciando a fasciarmi il braccio, con gesti lenti e attenti, per non farmi male, indovinai. Fu guardandolo fare il suo lavoro, che decisi di rompere il silenzio: «E’ il tuo modo di dire grazie, mh?»
Lui per un attimo bloccò le mani, poi piano ricominciò ad avvolgere la garza, senza sollevare lo sguardo. «Forse»
Per la prima volta da quando era qui, increspai le labbra da un lato, in un sorriso sghembo. «Il grazie sarebbe stato sufficiente»
Lui tacque di nuovo, finché non sospirò. «Non mi piace dire grazie. E’ stupido. Non ricambia niente» e finalmente spostò gli occhi su di me. «Preferisco essere utile e basta»
Feci una smorfia, riflettendo. Beh, diamine, era vero. Io, in genere, non ricevevo né grazie, né gesti per ricambiare il favore, solo soldi. Ma tenni il pensiero per me. «Credo che tu abbia ragione» sentenziai alla fine, annuendo un poco.
Anche lui, per la prima volta, increspò le labbra in un sorriso timido. Felice, forse, della mia approvazione. Dopo un ultimo giro, finì di avvolgere la garza, fissò il nodo, perché rimanesse chiusa, e raddrizzò la schiena, senza spegnere il sorrisetto.
Fui sul punto di dirgli grazie, ma ricordai quello che aveva detto, e decisi di stare al suo gioco e tacere. Ripresi il mio sorriso, quello che mi invadeva solo una parte del volto, quello storto, e provai a renderlo comunque un po’ sincero.
Cominciava ad andarmi a genio quel giovane. E dire che fino a pochi istanti prima l’avevo odiato...
«Perché hai deciso di tornare a cercarmi, comunque...?» Ok che voleva ricambiare il favore, ma addirittura attraversare il bosco?
Fece spallucce, e rispose con un voce sottile. «Non ti ho mai davvero perso di vista... » mormorò, e non fui neanche sicuro di averlo sentito, ma non ebbi tempo di ribattere poiché, tempo zero, sulla garza bianca ed intonsa, tornò a formarsi una rosellina rossa di sangue. Il sorriso sul ragazzo si spense immediatamente, lasciando posto ad un’espressione abbattuta e sconsolata che mi fece piangere il cuore... perché sì, avevo un cuore.
«S-scusa, pensavo di aver fermato l’emorrag-- »
Divertito, sollevai l’altro mano per bloccare le sue scuse. Non gli piacevano i grazie, ma aveva le scuse facili. «Ehy ehy, è ok. Hai fatto un buon lavoro, migliore di quel che avrei fatto io. E’ che persino il mio sangue è stronzo»
Lo vidi strozzare una risatina, e poi scuotere la testa. «In realtà lo pensavo già da prima, ma speravo per il meglio... beh, ho solo peggiorato la situazione ora. Arrivando al punto, temo tu abbia bisogno di qualche punto, soprattutto per evitare una troppo brutta cicatrice» mormorò.
Guardai truce la garza, e poi il mio ventre. Cicatrice più, cicatrice meno...
«Va bene così» sentenziai scotendo la testa. Punti? No, solo l’idea mi faceva salire l’acido in gola. Mi era già successo di dover sopportare punti di sutura, ma ogni volta era un’esperienza orribile. Cioè, un ago, e un filo, sotto la mia pelle... cos’ero, una bambola?
«Non è un problema, conosco un posto sicuro, lì posso aiutarti a sistemarla decentemente» insistette.
Aggrottai le sopracciglia, ritraendomi di scatto. Ok, mi andava a genio, ma seguirlo da qualche parte, chissà, forse proprio nella bocca del nemico, mi sembrò un’idea terribile e assolutamente da scartare. «Hai fatto abbastanza, hai pagato il tuo debito. Sono felice di averti aiutato, davvero, ma è il momento che tu ti dimentichi di me, e io di te. Non ti piacerebbe sapere chi sono... ». Errore. Fu un errore dirlo.
Lui infatti aggrottò le sopracciglia. «Perché, chi sei? »
Ma non se ne rendeva conto di essere inopportuno, con quella domanda...?
Lo fissai, dritto negli occhi, le labbra ridotte a una linea, e non dissi nulla.
Lui sostenne il mio sguardo, semplicemente, e non so per quanti minuti neanche sbatté le palpebre, in quella sfida silenziosa che avrebbe potuto non finire mai. Io non avrei parlato. Lui avrebbe rinunciato?
«Dovresti andartene e basta. Prima che ti vedano con me»
Lo vidi piano piano  rilassare le spalle, e il suo sguardo si spostò in basso, sul viso un’espressione indecisa, sconsolata. Non me ne dispiacqui, non avrebbe dovuto fare quella domanda, si meritava di scoprire la mia freddezza. Mi parve tentennante sul dire qualcosa, poiché schiuse le labbra, e le richiuse, ripetendo il processo per almeno altre due volte, sena guardarmi. Mi ricordò un pesce.
«Non hai neanche chiesto il mio nome...»
Spalancai la bocca, letteralmente. Ok, era vero, non l’avevo chiesto, ma non pensavo gli importasse... gli avevo appena raccomandato di dimenticarci a vicenda, o mi sbaglio? Scrollai le spalle. «Tu non hai chiesto il mio»
Il ragazzo abbozzò un sorriso, un sorriso sorprendentemente triste. «Ma io lo so il tuo, Gerard...»
Raggelai, ero sicuro che anche il sangue avesse smesso di scorrere, per paura di provocare rumore. «T-tu... come... » balbettai, ed entrando poi velocemente sulla difensiva, sul punto di alzarmi e minacciarlo di dire la verità, tutta la verità, qualunque essa fosse. Non avevo mai visto quel moccioso prima di oggi, ne ero fottutamente sicuro.
L’altro si limitò a sollevare un poco la mano, agitando le spalle e spostando il peso sull’altro ginocchio. «Tranquillo... ti ho solo sentito rimproverare qualcosa a te stesso, mentre ti seguivo... »
Se possibile, aggrottai ancor di più le sopracciglia. Non sapevo se era una bugia... ma da un lato lo sembrò. E poi, da quanto mi seguiva, esattamente? Ricordai le sue precedenti parole, “Non ti ho mai davvero perso di vista”, e subito dopo rievocai l’immagine di me stesso debole, l’immagine di me stesso che cantava, spezzato e confuso, al limitare di quel bosco. Qualcosa di viscido strisciò in me, tra l’imbarazzo, la rabbia, e... e non lo sapevo, qualcosa di terribilmente negativo. Era stato un momento profondamente intimo...
«Oh, beh... » cominciai, ma mi resi conto di non sapere andare avanti, senza insultarlo, senza uscire di testa, o senza scappare seduta stante. Stranamente, quindi, decisi rilassare le spalle e spingermi un poco in avanti, accontentandolo.
«...qual’è il tuo nome, quindi, ranocchio?»
Fu lì, inaspettatamente, che il ragazzo sollevò lo sguardo e mi puntò in viso due iridi furbe, speranzose, e compresi come avesse già programmato quella conversazione nella sua mente. Ma non sapevo, non sapevo davvero, il perché. Perché niente aveva senso, in questa stupidissima giornata?
Dovevo avere un’espressione da puro panico, perché lui sembrò quasi divertito dal mio viso, facendo perciò comparire sul proprio un ghignetto sghembo. «Beh, secondo te... qual’è il mio, di nome...?»
Che razza di domanda cretina era quella?! Sgranai gli occhi, fissandolo, in silenzio, e dopo alcuni minuti, la determinazione in quegli occhi nocciola scemò, assorbita dai miei verdi, come si perdeva il fumo nella notte, e lasciò nulla più che un’ombra. L’ombra di una profonda delusione, che non comprendevo, ma che sentii arrivare malinconica anche in me.
«D’accordo, ho capito... io- io devo essermi sbagliato. Scusami» Lo vidi ritrarsi, incrociando le braccia per abbracciare se stesso, come mera consolazione.
Mi passai la lingua sulle labbra, provando a pensare in fretta. «I-io... » balbettai, ma ancora una volta, non sapevo tirare avanti la frase. Ero decisamente più bravo a scrivere, che a parlare. «...non so» confessai.
«Già. Ma è ok» disse in un soffio, e lo seguì con lo sguardo mentre recuperava la sacca e si rialzava in piedi.
Mi sentii un verme. Non era colpa mia tutta questa situazione, non ero io quello che sarebbe sembrato un pazzo, non adesso, ma non potei fare altro se non sentirmi un verme.
Sentendo il freddo della pietra su cui ero seduto risalirmi su per la schiena nuda, lo bloccai, prima che potesse fare un solo passo via da me. «No, fermo. Io... non so che cosa intendi, ma... voglio davvero saperlo, il tuo nome» dissi, poi deglutii, confuso dal suo comportamento, e forse ancor di più dal mio.
Sbattevo sempre la porta in faccia a tutti. A questo ragazzo, invece, la stavo aprendo, e mi resi conto di quanto tutto questo fosse pericoloso, per me, per lui. Ma non potevo più tirarmi indietro.
Lui tentennò, ma mi rimase in piedi lì davanti, fissandomi negli occhi, e alla fine sorrise, non uno dei suoi precedenti sorrisetti timidi, ma un sorriso serio, che mi arrivò come un ultimo regalo.
«Frank Anthony Iero»
E, lì, il mio mondo crollò.
Annaspai, mentre la sorpresa, la consapevolezza, l’incredulità mi presero al gola e strinsero, tanto che mi portai una mano al collo, alla ricerca di aria, che trovai con difficoltà. Il movimento brusco mi fece perdere l’equilibrio, e a malapena mi accorsi di essere caduto di lato, sulla schiena. Una fitta al braccio, ma la ignorai.
La mia mente si riempì di quel nome, del peso che si portava dietro. Come? Avevo sentito male. Non era possibile. Non- no. No.
«Ehy! St-stai bene? Gerard..? Il bracc-- »
Scossi violentemente la testa, terrorizzato, con il bisogno di ritrarmi, di nascondermi, di non stare più vicino a lui, come se avessi veramente rischiato di fargli improvvisamente del male.
Era lui. Era la mia tela. Aveva riconosciuto il nome appena l’aveva detto. Era lui che le guardie volevano uccidessi, un ragazzino... un ragazzino, dalla pelle porcellana su cui avrei dovuto dipingere di rosso.
Oh, porca puttana.
«I-Io devo andare via» dissi, e sentii la mia voce roca e strozzata, come se avessero davvero appena cercato di strangolarmi. «Ora» Mi alzai velocemente in piedi ed afferrai il cappotto e la tracolla, neppure badai alla maglia, e strizzai gli occhi, forte.
«Cosa...?» sentii mormorare confuso il ragazzo, Frank, che nel frattempo era rimasto pietrificato nella stessa identica posizione, gli occhi sgranati e la gola secca, probabilmente.
Mi costrinsi a non guardarlo, mi allontanai velocemente, come un codardo, sperando vivamente di non sentire passi dietro di me. Cercai di cancellare la sua espressione dalla mia testa, cercai di cancellare quel nome, e avvertii la garza, la gentilezza intrisa in essa, bruciare come fuoco sulla mia pelle, la stessa pelle che teneva sotto di sé un anima sporca.
Eccomi lì, io, il gatto randagio, che tornavo a fuggire via, la coda fra le gambe, lontano dai cani famelici. Ma no, questa volta non ero io il gatto randagio... questa volta io ero il cane, e Frank il gatto, ed era lui che avrebbe dovuto fuggire via da me.
Solo, che ancora non poteva saperlo.
Sperai non dovesse saperlo mai.

 
 


                                                                                   




Mmh, oh beh... scrivo ad impulso, niente di questo capitolo era del tutto programmato. Ma stranamente non mi fa così schifo... c'è qualche dialogo un po' più serio, finalmente.
Spero di non avervi incasinato troppo la testa, perché in realtà la mia lo è, mi sento un po' Gerard, al momento.
Non ho disegni questa volta, ma forse è meglio così :,)
Oh, uh... è San Valentino da un'ora e 8, e io sono qua a scrivere.. non c'è modo migliore in cui passarlo.
Vi cito le parole di Gee dell'anno scorso, perché mi hanno fatto sorridere: "And hey, if you don't have a Valentine today, remember that loving yourself is the best way to spend the day"
Alla prossima, gente :3

_Stray Ashes_

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Capitolo 5
*** Fragile Dove ***


 
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5. Fragile Dove
 
Ahi. 
Pensai solo quello per, almeno, tre minuti esatti. 
Qualcosa mi pungeva la scapola, sotto la schiena.  
Feci una smorfia con le labbra - o almeno ebbi l'intenzione di farlo, con gli occhi ancora ermeticamente chiusi; da sotto le palpebre, riconoscevo una luce arrivare da sinistra. 
Fottuto sole del mattino.
Dov'ero? Non ricordavo niente. Mi accigliai, eppure non ebbi il coraggio di aprire gli occhi... mi sentivo pesante e ogni mio muscolo era addormentato e dolorante. Per quale maledettissima ragione, poi? 'Fanculo.
Mi sentivo anche parecchio arrabbiato: mi ero accorto di star continuando ad imprecare mentalmente dal momento in cui il mio cervello aveva ripreso conoscenza. E l'aveva ripresa davvero conoscenza, poi? Non sentivo il mio corpo quasi per nulla, se non quel qualcosa pungermi la schiena. Ero sdraiato, perlomeno. 
Magari ero morto. Si, magari il mio cuore si era fermato mentre dormivo nel bosco e adesso qualche schifosissima pigna disturbava il mio sonno eterno. Volevo sorridere ma non riuscivo a muovere le labbra... dovevo proprio essere morto morto. 
Strano, però... avevo passato tutta la vita, da vivo, a credere che una volta morto non avrei più dovuto sentire dolore fisico... eppure sentivo la pigna, se una pigna era. All'improvviso, mi immaginai tutti quei cadaveri attraversati e mangiati dai vermi... chissà che razza di male, davvero. Non lo trovavo giusto; insomma, cercare rifugio nella morte e scoprire di dover soffrire ancora. 
Oppure, siccome ero una persona orribile, quel trattamento era riservato solo a me, solo io ero destinato a sentire i vermi strisciarmi tra le viscere per il resto dell'eternità. Beh, brutto e plausibile.
Oppure, non ero morto. Non sapevo tuttavia cosa pensare di questa possibilità... apriva una quantità incredibile di incognite, e non avevo la forza di stare dietro a tutte. Correvano veloci, le incognite, e l'uomo era lento.
Quel che era certo era che.... Ahi... porca put-Ah! 
Senza sapere come, spalancai la bocca e strizzai le palpebre, ma non uscì suono.
Di nuovo, dolore; più forte questa volta, più fastidioso, intenso ed estraneo. Non certo un fastidio nella schiena... questo veniva dal braccio, e lo riconobbi come qualcosa di esterno intento a pungermi la pelle, e strisciarci sotto. Che porco male, e sentire tutto quel male spuntare fuori dal mio oceano di insensibilità, ebbe effetto triplo.
Era così reale come dolore, per essere quello provato da un morto.. forse era solo il primo verme ad aver trovato il mio corpo morto, invece. Maledissi i vermi e il dolore tornò, con lo stesso procedimento: quel qualcosa si insinuò sotto la pelle del mio braccio ed uscì. Ma ancora non riuscivo a muovermi.
Fottuti, fottutissimi verm--
«Scusa»
I miei pensieri si fermarono, cosi, a metà; volli irrigidirmi ma ero già rigido fin da prima; in compenso smisi di respirare... e wow! in effetti avevo continuato a respirare fino a quel momento, mi accorsi: una cosa insolita, per un morto. 
E in più, i vermi non potevano dirmi scusa, non con quella voce femminile e piatta. 
Ebbi l'intenzione di scuotere la testa per la marea di cagate che la mia mente stava partorendo. Che avessi bevuto? Bhe, d'altronde non ricordavo niente. L'alcool lo sentivo un poco di più della nicotina, perché lo usavo meno.
Mi concentrai di nuovo sulla voce, che però per diversi minuti, non parlò più, ne fiatò. Il dolore tornò ancora una volta, e mentalmente entrai sulla difensiva: non vedevo niente e non sapevo dove fossi, né cos'era che continuava a fare male, né chi fosse quella persona lì con me - perché si, era una persona, non uno stupidissimo verme. Naturalmente non credevo più di essere morto, andiamo, era assurdo, e un po' ridicolo... ma pensarlo, era stato divertente. Credo.
«Finalmente ti sei svegliato, comunque» disse all'improvviso la voce; veniva da sinistra, proprio accanto al braccio che mi faceva male. «Almeno Frank smetterà di farsi paranoie...»
Fu lì, con quel nome, che la mia intorpidita apatia, venne spazzata via. Sbarrai gli occhi, incontrando la fatidica luce bianca del mattino e boccheggiai, provando a tirare su la testa da quello che era, evidentemente, un cuscino.
Il capogiro venne da me violento come un pugno nello stomaco, costringendomi a tornare al ricovero su quel letto modesto, eppure comodo.
Frank... Oh, mioddio, ti prego, no. Tutta la conversazione avuta con lui riaffiorò nella mia mente, e mi spaventò. Ero sicuro di aver chiuso quel discorso, di averlo temporaneamente allontana da me, eppure quella donna mi veniva a dire, in qualche modo, la condizione in cui ero, era collegata a lui.
Gemetti, e provai a sollevarmi, per uscire dal letto. Ebbi giusto tempo di spostarmi la coperta dal petto, scoprendo di essere ancora a torso nudo, che un mano fresca si posò sulla mia fronte, spingendomi delicatamente ma con determinazione, si nuovo giù, sulla comodità del cuscino.
"Oh no no, dolcezza." disse la voce. "Non puoi alzarti, non ho finito di disinfettare la ferita e, ammettilo, sei ancora stordito da far schifo"
Aggrottai la fronte, in disappunto evidente per non poter fare quel che volevo, e feci saettare gli occhi su quella figura fin troppo vicino a me. Ero indifeso, scoperto, nessuno doveva starmi così vicino, o non sarei riuscito a controllare l'arte della morte, e della difesa, della paura. 
Era una ragazza. E si era sporta pericolosamente verso di me per poggiare la mano sulla mia fronte e tenermi giù: potevo sentire, adesso, il suo pollice muoverci impercettibilmente sulla mia pelle chiara e sudata, spostandomi qualche ciuffo troppo lungo dagli occhi. 
Mi accigliai maggiormente, stringendo le labbra. 
Aveva i capelli... strani, tra i più strani che avessi visto. E in quel tempo era insolito, quasi proibito, cosi come gli orecchini ad anello che portava. I capelli erano neri, o meglio, marrone scuro, ma tra essi c'erano alcune ciocche rosse, e perfino qualcuna blu, di un blu vecchio, rovinato, che in più punti era coperti dal rosso stesso. 
Il mio cervello lavorò, mentre fissavo i suoi occhi scuri, abbracciati da ciglia nere di mascara: chi avevo davanti? I capelli erano pettinati e lisci, ma quel colore lasciava intendere un impulsività evidente, un bisogno di lasciarsi alle spalle qualcosa, come il colore blu, e coprirlo abbastanza male da non farlo andare del tutto via, con quel rosso sangue acceso. Non le piacevano gli schemi, sicuramente, si affidava alle proprie voglie e preferenze; che importava se altri trovassero quell'unione di tinte assolutamente contrastante? Una ribelle. Avevo davanti una ribelle, e i capelli della ribelle mi stavano sfiorando la pelle nuda appena sopra la coperta. 
Mi si era avvicinata, un po' troppo, considerando il mio essere uno sconosciuto, per lei. Era molto estroversa? Poteva darsi. Oppure le piacevo io, c'era una luce affamata nelle sue pupille nere. Che pessima, pessima decisione. La gente è stupida.
Non capivo quasi mai quella stupidità umana e invece a volte la comprendevo, soprattutto la studiavo... facevo questo di me l'ennesimo stupido? Forse sì, forse no.
Non mi sembrò pericolosa comunque, non finché non notai l'ago nella sua mano, non finché non seguii con lo sguardo il percorso del filo, trovandolo incastrato nella pelle del mio braccio, su cui spiccava la ferita, ora cucita chiusa. La pelle era ancora arrossata, e faceva schifo.
Mi lasciai sfuggire un gemito lungo e strattonai quella mano via da me, via dalla mia fronte. Merda, non volevo quell'ago sotto la pelle, meglio i vermi. 
«Ehy ehy, ti ho detto calmati, rischi di peggiorare. Hai anche un brutta ferita in testa, lo sai? E pare tu abbia fatto tutto da solo, bell'idiota» mi guardò con stizza, forse dispetto.
No, mi eri sbagliato. Probabilmente non le piacevo. Perché l'avevo anche solo pensato, poi?
E, soprattutto, che diamine stava dicendo? Non ricordavo neanche che anno fosse, perché fossi ferito, perché fossi lì, perché in tutto questo c'entrasse Frank. Caspita, l'avevo detto che lo scoprire di essere ancora vivo avrebbe posto troppe incognite. 
Sbuffai e decisi di fare quello che volevo: feci pressione contro il letto e mi tirai un poco su, appoggiando la testa allo schienale, in modo da poter vedere meglio l'ambiente. Era una stanza piccola, di legno, a destra c'era quella finestra da cui filtrava il "fottutissimo sole", poi c’era il mio letto, la sedia della tizia, la tizia, un mobile, un comodino, medicamenti, garze insanguinate, travi per terra consumate, porta mangiata dai tarli, il filo, l'ago, io. 
Un quadretto che faceva schifo. Mi parve che l'unico colore serio fosse quello dei capelli della giovane, a parte quello del mio sangue, ovviamente. In realtà amavo segretamente il colore del mio sangue. Era lo stesso rosso del sangue di tutti, ma era irrimediabilmente il mio rosso ed il mio sangue, e la cosa mi faceva sentire a casa. Assurdo? Mh, molto. Probabilmente ero un sociopatico. 
Socchiusi le palpebre, sentendo all'improvviso la stanchezza, e mossi lo sguardo sulla ragazza. «Mi avete drogato?» chiesi, schietto.
Lei non mi guardò, ma nel mentre aveva afferrato le forbici e aveva tagliato il filo che suturava la mia ferita, così di dividerlo dall'ago. Rabbrividii, silenzioso.
«Abbiamo dovuto. Curare la ferita alla testa e richiuderti la voragine sul braccio sono operazioni piuttosto dolorose. E Frank non voleva che ti svegliassi urlando e sentissi dolore...» dissi infine, umettandosi le labbra, e le mie budella si contorsero ancora una volta, appena il nome del ragazzo tornò a galla. Diavolo, cosa non aveva capito di "stiamoci lontani"? 
La ragazza sollevò gli occhi su di me. «Non so che razza di amicizia abbiate, ma non aveva mai portato nessuno al rifugio prima... Anzi, non credevo nemmeno conoscesse qualcuno al di fuori di noi. Chi diavolo sei?» azzardò, ma il suo tono non era né sprezzante, né cordiale, era solo un... tono. Che ragazza strana. 
Poi, noi? Noi chi? 
E poi, io? Chi diavolo ero io? Ottima questione, tizia. 
«...domanda di scorta?» replicai, piatto. Sollevai il braccio all'altezza del viso, studiando critico la ferita, poi riabbassai il braccio sul letto. Assurdamente, lei non insistette; bensì, prese una bottiglietta bianca e senza tanti complimenti me la versò sul braccio. Cazzo, acqua ossigenata. Bruciava, ma mi limitai a sbarrare un poco gli occhi e stringere la mascella. Insomma, prima mi accarezzava la fronte, poi mi svuotava l'acqua ossigenata sulla ferita appena ricucita. Bella stronza. 
Basta imprecare a caso, Gerard. Contieni la rabbia, mi ripresi mentalmente, da solo. 
Scrollai le spalle per scacciare la tensione, e mi tastai la testa: era vero, appena sopra la nuca ritrovai una ferita chiusa da poco, i capelli ancora un po’ bagnati, forse di acqua ossigenata, forse di sangue. Beh, non mi faceva molto male, anzi, mi stava dando più fastidio l’effetto della droga o chissà cosa mi avessero iniettati, abbandonare il mio corpo e lasciarmi scombussolato e confuso. Volevo alzarmi, ma sapevo che se avessi provato, il giramento di testa sarebbe stato sufficiente da spezzarmi l’equilibrio, farmi cadere in avanti nell’angolazione giusta per beccare lo spigolo del mobile e mandare al vento le cure che mi erano state riservate. Immaginai la scena in ogni minimo dettaglio, prima di tornare in me e farmi passare la mano dalla nuca, alla fronte, agitandomi i capelli, fino a posare le dita sugli occhi e stropicciarli. Avevo bisogno di sentirmi ancora vivo e sensibile, da un lato, e che modo migliore se non tormentarsi la faccia?
Con la coda dell’occhio vidi la ragazza sistemare le bende avanzate e prepararsi per alzarsi e andarsene, così mi costrinsi  a dire qualcosa: «Ehy, uhm... com’è che sono qui, esattamente? Io, sai... ho un gran casino, in testa...» mormorai, facendo finta di alludere all’effetto della droga – morfina? – picchiettandomi la fronte con un dito, ma in realtà il casino c’era indipendentemente dalla droga, di cui di fatti non sentivo più alcun effetto.
Lei, già in piedi, mi squadrò un poco, le labbra ristrette, e non potei non chiedermi a cosa stesse pensando, sulla mia domanda, di me... indovinare cose sulla gente dall’aspetto era semplice, ma indovinare i pensieri solo dal viso era complicato. Dovevo ancora imparare, per quello, ma sapevo che prima o poi ci sarei riuscito... il mio stupido cervello a volte funzionava abbastanza bene, sapete? Era tutto molto curioso, ma non ero sicuro che altri avrebbero pensato così, del mio cervello, sul fatto che non fosse completamente inutile... forse avrebbero trasformato la mia ipotetica intelligenza in banale pazzia. Per questo ogni mio pensiero, ogni mia deduzione, la tenevo strettamente per me.
In compenso, mentre la mia testa lavorava, regalavo loro la meglio faccia ebete.
«Ti confesso di sapere poco, e questa è una delle varie cose che mi danno sui nervi...» mi rispose alla fine, stringendosi nelle spalle, e guardando un punto qualunque che non fossero i miei occhi. «Frank ti ha portato qui, sanguinante, e non ha detto granché, se non urlare di fare qualcosa...» Non mi lasciai sfuggire il tono vagamente acido e infastidito, che però non compresi del tutto. Rompeva così le palle prendersi cura di me? Probabilmente sì, ok, ma non c’era bisogno di dimostrarmelo eccessivamente... e anzi, io non avrei voluto essere lì, a pesare sull’animo alla gente. Com’è che ero finito sanguinante? La mente mi suggeriva che fosse tutta una cosa stupidissima, quella storia... beh, anche se fosse stato, avrei preferito rimanere a morire dissanguato in quel qualunque posto. L’avrei urlato in faccia a Frank, appena l’avessi visto, mi promisi. E poi me ne sarei andato impettito, ecco. Prendendomi una camicia, prima, però. E il mio amato cappotto, e la sacca, e la chiav—la chiave! La mia chiave!
Il cuore mi balzò nel petto e feci scorrere lo sguardo ovunque, alla ricerca della sacca. Avevo.. avevo tolto la chiave per lavarmi al lago, lasciandola nella borsa, ma poi.. Frank, la mia fuga... uh, giusto, la mia fuga. Era lì che la memoria si bloccava... fanculo al mio cervello.
Mi tastai il petto nudo, probabilmente sotto la sguardo stranito della giovane, ma non mi importò: a gira collo, trovai finalmente la cordicella, e la tirai: dalla mia schiena, la piccola chiave scivolò sulla mia spalla e poi mi ciondolò sotto il mento, rassicurante e familiare. Oh, ecco cos’era, che stando sdraiato mi pungeva la pelle, tra me e il materasso. Sospirai pesantemente, tenendola nel pugno e abbassando le palpebre... non sapevo perché avessi quella chiave, non sapevo di che fosse, cosa aprisse, se effettivamente apriva qualcosa, ma era parte di me da quando ne avessi memoria, la tenevo sempre nascosta sotto i vestiti, e occasionalmente la toglievo per fare il bagno. E...
Riaprii gli occhi di scatto. Le non cose tornavano, non tornavano... non me l’ero rimessa, la chiave al collo, ne ero certo, per una volta nella vita. Era rimasta nella sacca, quando ero scappato, e allora perché...?
«Stai... stai bene?»
La voce della ragazza mi riportò alla realtà, interrompendo i miei pensieri. Probabilmente avevo smesso di respirare, fissando il niente. Liberai il respiro ed annuii, per poi guardarla negli occhi. «Io... sto. Sei un dottore?»
Lei si passò ancora una volta la lingua sulle labbra, probabilmente ragionando sula mia risposta enigmatica. «Quando serve...» replicò infine, enigmatica a sua volta.
Eo stato ricucito da una persona che era un medico solo quando serviva? Forte. Sperai solo di non morire per un braccio in cancrena, non sarebbe stata una morte dignitosa. Tenni il pensiero per me. «Come ti chiami?»
La ragazza infilò le mani nelle tasche dei pantaloni stretti. «Mi chiamo Johann»
Sorrisi, con quel sorriso storto, ma pur sempre sincero, per una volta. «Beh, grazie, Johann» tentai. A lei potevo dirlo grazie, giusto? Non era Frank, potevo farlo. Potevo? E soprattutto... perché mi stavo davvero ponendo questo problema? Potevo dire grazie a chi mi pareva, diamine.
Mi parve quasi di riconoscere un rossore su quelle guance, ma ben presto sparì, quando lei annuii  e fece spallucce. «Nulla. Ti vedo abbastanza bene, penso che andrò a chiamare Frank»
Ingoiai amaro, e annuii a mia volta. Che potere avevo di ribattere, dopotutto? Non era stata una domanda. E Frank mi aveva portato lì, dove mi aveva fatto curare, seppur contro la mia volontà, e allora forse si meritava di vedermi... aspetta, c’era qualcuno che si meritava di vedermi? Sul serio..? Sbuffai, a me stesso, perché ero noioso. Io, e le mie paranoie.
Dopo qualche minuto, mi ricordai che stavo ancora intrattenendo una banale conversazione di cortesia. «Comunque, io sono Gerard-- »
Johann fece un sorrisetto beffardo ed enigmatico, spiazzandomi. «Lo so» disse soltanto, poi fece un gesto con la mano e se ne andò, lasciandomi solo nella mia confusione. Solo nella stanza che non conoscevo, solo con il mio disappunto e i miei fantasmi, solo con il sonno che decise di anestetizzare tutto il resto e portarmi via.
 
Ancora una volta, una delle prime cose che sentii, fu un fastidio al braccio. Niente, in confronto a quell’ago infernale, ma sentivo ancora il filo chiudermi le carni, e adesso quel nuovo qualcuno, stava turbando la mia quiete toccandomi la pelle sensibile.
Aggottai le sopracciglia, senza aprire gli occhi. «Johann, smettila. Ora. O ti... taglio le dita» borbottai, la voce impastata, quindi neppure seppi che razza di suono ne uscì.
«Oh, Johann, stanno minacciando le tue dita di fata...! » non conoscevo quella voce, e la cosa mi fece irrigidire, ma riconobbi facilmente il pesante tono sarcastico nella frase.
 Qualcuno, alla mia destra, ridacchiò, e non era certo Johann. Frank.
«Sì, certo, Andrew, le stesse dita di fata che tra poco ti caveranno gli occhi» rispose, Frank, ghignando ancora a quel qualcuno a me sconosciuto, lì in qualche punto della stanza.
Sbarrai gli occhi, vedendo sopra di me solo il soffitto di legno, ma non ebbi altra forza psicologica per guardarmi intorno; il sonno, questa volta non dovuto alle droghe, era ancora attaccato alle mie ossa.
«Sì, però prima devi arrivarci, all’altezza dei miei occhi, Frankie...»
«Niente battute sull’altezza Andrew, ricordi? O ti risbatto per strada»
«Certo che me lo ricordo»
Frank tacque per almeno un minuto, finché non sospirò. «...e niente battute tristi. Anche questa clausola era nel patto, mh?»
Andrew sghignazzò, e finalmente mossi gli occhi nella stanza, tirandomi su sullo schienale quel che bastava, senza farmi notare: accanto a me, Frank era seduto con in mano una garza, che fino a poco prima mi stava arrotolando attorno al braccio curato da Johann. Ora però era bloccato e stava fissando il ragazzo appoggiato allo stipite della porta, le braccia incrociate sul petto.
Lo guardai con rinnovato interesse, perché proprio come Frank, proprio come Johann, era una persona davvero particolare: il fisico asciutto ma muscoloso era messo in risalto da una maglietta largamente sbracciata, i pantaloni stretti, la cintura spessa, gli stivali, e... ma tutti aveva i capelli così assurdi, lì? Frank almeno li aveva corvini come i miei, mentre Andrew aveva ciuffi tagliati completamente a caso, un po’ lunghi un po’ corti, un po’ blu e un po’ neri, così come gli occhi magnetici, che erano un po’ blu e un po’ neri, un po’ iride e un po’ pupilla. Sembrava quasi finto quel ragazzo, con quello stesso anelletto alle labbra che aveva Frank. Notai altri mille particolari utili per capire che tipo di persona fosse, ma non avevo tempo.
Deglutii, perché troppe persone lì dentro mi stavano mettendo in soggezione. Ero sempre stato io quello a fare paura, quello avvolto nella sua aura nera, che sapeva di morte... e adesso queste persone da dove saltavano fuori? Mi resi conto in un lampo di essermi infilato in qualcosa di pericoloso... io, che doveva andare lì, restare un giorno, prendermi i miei soldi, uccidere... Frank. Oh, giusto. Ecco che tornava l’istinto di scappare via, lontano dalle cose viventi, a meno che non fossero alberi, o magari gatti.
Neanche a farlo apposta, nell’esatto istante in cui spostai gli occhi pieni di ansia sul corpo del ragazzo accanto a me, quello piantò i suoi nei miei, e subito lo vidi illuminarsi, l’anello al labbro brillare nel sorriso.
«Ehy! Ti sei svegliato finalmente» mi disse, e quel suo tono così schifosamente puro strisciò ancora una volta nella mia anima intrisa di catrame.
Deglutii. «Uhm, già... credo» mossi lo sguardo su Frank, poi su Andrew, il quale notò i miei occhi e liberò un braccio, facendomi un gesto, e poi tornare a incrociarselo sul petto. «Holà...» mormorò, semplice, con un sorriso storto come il mio. Mi andava a genio.
Sollevai a mia volta una mano, poi guardai me stesso, sotto quel lenzuolo, e feci una smorfia di disgusto. Il ricovero era finito, non sopportavo più di stare sdraiato lì... mi faceva sentire come una colomba caduta dal nido, bisognosa di cure e riposo, e io non ero questo, nulla di così candido: io ero un cacciatore, ero un assassino, ero il gatto randagio. Pensai a Frank, che mi stava così innocentemente accanto, e ricordai di essere anche il cane. E dovevo fuggire.
Sospirai e scostai la coperta, alzandomi velocemente in piedi. Forse troppo? Barcollai un poco ma riuscii a stare in piedi, ormai la droga mi aveva del tutto abbandonato, ma continuavo a essere debole... quanto sangue avevo perso? Scossi la testa, abbandonando l’impellente bisogno di chiedere spiegazioni su cosa fosse successo, ma l’unico pensiero a tormentarmi era “scappa”. Ringrazia e fuggi, torna ai posti a cui appartieni.
Non sapevo ancora cosa fare col mio incarico. Mi passò l’idea di uccidere Frank lì, e liberarmi di quel peso e farla finita con le paranoie. Ma no... non l’avrei fatto, non avrei potuto più. Dovevo scappare dalla città, trovare Bert e dire che abbandonavo il lavoro; forse avrei fatto la fame per il prossimo mese, ma all’improvviso non mi importava.
Scappa.
Frank si alzò in piedi di scatto, allarmato, e credetti quasi che volesse afferrarmi un braccio per fermarmi, ma invece si limitò a guardarmi, stranito, la schiena. «Ehy ehy, dove vai?»
Andrew si sollevò dallo stipite della porta, le braccia ancora incrociate e una ruga sottile sulla fronte.
Deglutii ancora, guardandomi intorno con circospezione. «Io... devo andare via» risposi soltanto, ma la mia mente era assente.
«Non ti sei ancora del tutto ripreso, e non ti sarà concesso di uscire da questa base in stato cosciente, se vuoi saperlo. Non ti conviene prendere un botta in testa da qualcuno che ti becca a scappare, e finire l’opera spappolandoti il cervello»
Mi voltai verso di lui, sbarrando gli occhi. «Sono.. prigioniero?» realizzai poi, allibito, le braccia abbandonate lungo i fianchi.
Frank sembrò ponderare la risposta, scambiando uno sguardo con Andrew, che dopo aver ghignato, lasciò la stanza.
Tornò a guardarmi, Frank, e mi fissò serio, quasi altezzoso.
«Sì»
Mi sentii davvero una colomba caduta da nido, sentii le mie piume rovinate, sentii le mani di qualcuno raccogliermi dal suolo, ma anziché ripormi nel mio nido, decise di stringermi in una morsa e portarmi via.
Potevano uccidermi, lasciarmi a piangere per terra e morire dissanguato, ma non dovevano rubarmi la libertà.
Ero ancora il gatto randagio, dopotutto, che aveva paura dei cani.
Ero la colomba caduta, che aveva paura degli estranei e delle mani.

 
 
 
 
 
                                                                                     


Ok, questo capitolo fa un po' schifo, ok, non è accaduto niente... e avrei voluto mettere anche qualche disegno, ma ho un blocco anche lì, e ogni cosa che faccio nel giro di qualche ora non mi piace più. I apologize...
Coomunque, uhm... se ho fatto qualcosa di buono e se siete arrivati fino a qui, come vi sembrano i personaggi nuovi? Johann è del tutto improvvisata scrivendo, il suo aspetto fisico, perlomeno, mentre Andrew è un personaggio particolare a cui pensavo da un po'. Ametto che, nella mia mente, corrisponde a Andy Biersack(omg i suoi cristo di occhi.........), ma in realtà ha la faccia un po' diversa e i capelli parecchio diversi, anche, comunque, ma... vabbé, il concetto è quello. Poi Andrew ha una voce più sottile e giovane, Andy ha una voce bellissima, ma troppo grave, non c'entrava niente con il mio personaggio... ma perché sto dicendo tutto questo, allora?? Mi sento Gerard stesso, a volte, forse sto dando troppo di me stessa, a quel ragazzo. Usare la prima persona è pericoloso....
E uh, essermi vista tutta quanta la serie Sherlock nel giro di due giorni con un'amica, mi ha del tutto stravolto il cervello.... è qualcosa di bellissimo, e voglio uno Sherlock tutto per me e.e
Ohimé, vi lascio andare. Non so i quani di voi stiano leggendo questa roba, sia il capitolo, che queesto angolino, ma ringrazio comunque i lettori silenziosi, quelli che hanno messo sta roba nelle seguite e preferite, e ovviamente la mia commentatrice Gengarparade, che mi dà una ragione per continuare :3 grazie ragazza.

Bye!

_StrayAshes_
 

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Capitolo 6
*** Secrets ***





 
 
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6. Secrets


 
 
Che altezza sarà stata? Uhm, dieci o sette metri, almeno. 
Probabilità di sopravvivere? Alte, ero pur sempre io, non certo un novellino.
Probabilità di sopravvivere, intero? Scarse, ma era un altro discorso.
Il mio sguardo saettò dal terreno brullo là sotto, alla mia destra: lì l’edificio si articolava scendendo più in basso, e mi sembrò una zona anche piuttosto trascurata. Mi chiesi cosa ci fosse lì, sotto quei tetti di legno consumato dal tempo e dalla pioggia. Vedevo delle persone muoversi, dall’alto della mia finestra, ma non mi giungeva alcun suono. Era tutto un ambiente tranquillo, eppure inquietante. Ero prigioniero, d’altronde, no? E in base a cosa, poi? Frank era pazzo, realizzai. Piccolo maniaco, ma perché gli avevo salvato la vita? E più che altro, perché non mi decidevo a reagire seriamente? Se ci pensavo, potevo risolvere quella situazione con violenza e intelligenza, anche rischiando... ma almeno risolvendola. Però... una parte di me si ostinava ad aspettare, quella curiosa, probabilmente, perché tutta questa storia non mi era chiara. Anzi, neanche avevo ancora scoperto perché mi trovassi lì, come mi fossi procurato la botta alla testa, e tutto il resto. 
Il braccio pulsava piano, e io mossi pigramente le gambe nel vuoto quando sentii il vento accarezzarmi i capelli neri e sfiorarmi la pelle del torso. 
Spostai lo sguardo a sinistra, adesso, e anche lì l’edificio si articolava scompostamente in tante piccole cascine, fino a sparire alla mia vista, perdendosi nel bosco, perché sì, eravamo da qualche parte persi nel bosco. L’avevo capito al primo sguardo appena alzatomi dal letto per sbirciare fuori dalla mia “gabbia”.
Era tutto qua? Era questo quello che avevano chiamato rifugio? Oh, no, io non ero uno stupido. C’erano troppe persone che passavano e sparivano, o tutti questi edificio qui, erano tropo malandati per assicurare una vera protezione. E siccome non ero uno sciocco, sapevo che tutto questo era una copertura, per qualcosa di più grande.
Era stato l’odore, a darmi il primo indizio. Appena Andrew e Frank se n’erano andati, avevo ragionato sull’odore che si erano lasciati alle spalle: odore di muschio, di qualcosa di selvatico, quasi di.. chiuso, in un modo impercettibile. E da lì e dagli indizi raccolti guardando fuori, ero arrivato alla conclusione che l’edificio non si articolava decentemente né a destra né a sinistra, né dietro, ma sotto. Quale modo migliore di passare in osservati se non agire sotto terra?
Mi chiesi esattamente come fosse organizzato tutto, metri sotto i miei piedi.. della serie, tunnel? O vere e proprie stanzone d’acciaio? Ma forse, stavo divagando. Era ancora colpa dei troppi libri che avevo letto? Forse.
Dondolai ancora le gambe, e socchiusi le palpebre, quando un raggio filtrò tra le nuvole e mi colse in viso. Mi trovavo lì, seduto sul bordo della finestra, gambe a penzoloni nel vuoto, da... mh, tredici minuti, quasi quattordici ormai. Non molto, in effetti, ma abbastanza da farmi i ragionamenti che mi servivano. Era la cosa più vicina alla libertà che avessi, stare seduto sulla finestra, mezzo dentro e mezzo fuori in balia del vento, senza alcuna paura di cadere; anzi, stavo ancora soppesando l’idea di saltare. Avrei potuto farlo, me la sarei cavata, ma se mi fossi rotto qualcosa? Era un rischio considerevole, qualcosa di rotto avrebbe potuto  bloccare la mia fuga, e allora sarebbe stato inutile. Probabilmente, mi sarei slogato una caviglia, e se rotolavo di lato, forse una spalla. Ero già saltato da questi metri di altezza, grazie al mio “lavoro” e mi era anche andata bene, ma adesso mi sentivo un po’ meno sicuro, forse perché non avevo il pericolo serio a fiatarmi sul collo, avevo ancora tanti modi di sopravvivere. Tipo, rompere il collo  a Frank e andarmene tranquillamente. Oh sì, mi sarebbe anche piaciuto.
Ma non l’avrei fatto, dannazione a me. 
«No, non ti conviene buttarti, se a questo stai meditando.» 
Anche se non l’avevo sentito arrivare – sapeva essere silenzioso il moccioso, accidenti – non feci nulla per dimostrare la sorpresa, anche perché no, non ero sorpreso. Mi aspettavo una sua visita molto presto.
Mi chiesi più che altro se si fosse spaventato, entrando e vedendomi seduto sulla finestra, a pochi centimetri prima del vuoto. Glielo leggevo nello sguardo, da quando ci eravamo scambiati le prime parole, che mi considerava imprevedibile.  E mi piaceva saperlo.
Lo scorsi, con la coda dell’occhio, appoggiare le braccia incrociate su quel che restava del bordo della finestra, nello spazio non occupato da me, e lì mi rimase, vicino e tranquillo, persino pensieroso. 
Mi strinsi nelle spalle. «Ho buone possibilità di sopravvivere»
Mi parve di vederlo annuire con un sorriso amaro. «Oh, non lo metto in dubbio. Sono otto metri, e una buona percentuale di possibilità di slogarsi qualcosa, se la fortuna non sorride, e non sorride quasi mai. Il terreno sotto è troppo brullo, destabilizzerebbe l’equilibrio, rischiando di spezzarti le caviglie. Per quel che mi riguarda, potresti anche saper volare, considerando che, la prima volta che ti ho visto, ho pensato fossi un angelo... ma comunque no, non ti consiglio di saltare, per quanto so tu voglia»
Sollevai le sopracciglia, senza parole da dire, e mi voltai a guardarlo. Lui non mi guardava, fissava un punto imprecisato, là davanti, chissà cosa e chissà dove. Non seppi se essere più confuso dalle informazioni che aveva improvvisato, o dall’accenno al mio essere un angelo. Sul serio? Io? Angelo?  Nah.
Un altro sorrisetto amaro increspò le sue labbra. «Oh, sì. Mi sono già studiato un modo per saltare giù di qui. Avevo... dodici anni»
Strabuzzai davvero gli occhi, questa volta, fissandolo. Frank spostò brevemente le iridi su di me, poi di nuovo prese a osservare l’esterno. Sapevo che la mia confusione era palpabile, e che lo stava divertendo. 
«Tu...» biascicai, sbattendo ripetutamente le ciglia, insicuro su come continuare. 
Lui annuì. «Sì, anche io una volta sono stato rinchiuso qui e ho avuto voglia di buttarmi per fuggire...» fece una pausa, guardandosi intorno. «E invece adesso è casa mia»
Mi limitai a sospirare, distogliendo finalmente  lo sguardo da lui. Avevo un sacco di punti interrogativi nel cervello... ma non mi andava di chiedere, e non ero neppure sicuro che Frank mi avrebbe effettivamente risposto. E poi, meno sapevo di questo ragazzo, meglio era, l’avrei avuto meno sull’anima, una volta andatomene. «Perché sono qui?» domandai alla fine, scegliendo la domanda più assillante. 
Lui ridacchiò sommessamente. «Sei scappato, prima, nel bosco... dopo che...» lo vidi deglutire «.. ti ho detto il mio nome. Non so perché, o forse, io... uhm, è difficile. Comunque, eri agitato e sei fuggito via. Dopo un po’ di ho seguito, per capire, almeno. Mi hai urlato da lontano di lasciarti in pace e poi...» fece spallucce, con nonchalance. «... sei cascato come un sacco di patate giù da una scarpata, siccome troppo impegnato a urlarti alle spalle, e hai battuto la testa contro un masso...»
Deglutii. Oh. Che figura di merda... Forse non avrei voluto sapere come era andata. Ebbi l’istinto di nascondermi, e invece guardai giù, sospirando. «Sai, credo che mi convenga davvero buttarmi giù, adesso» dissi. 
Lui ridacchiò, ma senza gioia. «Tanto scenderei comunque a raccoglierti di nuovo. E Johann scoppierà dalla felicità sapendo di potersi prendere di nuovo cura di te»
Mi accigliai. Non avevo capito se fosse ironico o meno. All’improvviso lo strano ragazzo accanto a me abbassò il viso, assumendo un’espressione cupa. «All’inizio pensavo fossi morto... perdevi un sacco di sangue. Io.. ho cercato di portarti fino a qui il prima possibile, ma... »
Scrollai le spalle. L’argomento non mi toccava granché. E se fossi morto davvero? Dov’era il problema? Dopo quella figura da idiota poi...
«Ehy, è ok. Anzi, credo di doverti la vita...» sospirai, perché in realtà l’idea non mi piaceva affatto, dovere la vita, intendo. 
«No, affatto. Io la doveva già a te...»
Oh, giusto, mi stavo dimenticando del cane. Quindi apposto, no? E inoltre avevo deciso di non uccidere quel ragazzo in cambio di soldi, quindi era come se fosse di nuovo lui a dovere la vita me, ma considerai comunque la questione come se fossimo pari. «E allora a posto» 
Frank mi avevo appena descritto suo prigioniero, avrei dovuto odiarlo... perché non ci riuscivo, allora? 
Vidi il ragazzo sciogliere le braccia in avanti, per poi incrociale di nuovo, in evidente disagio. «Senti, Gerard... io... Perché sei scappato quando ti ho detto il mio n-- »
«No» risposi, secco,  e inflessibile. Non gli avrei risposto, mai, mi ripromisi. 
Lui aprì la bocca e si irrigidì, poi invece la chiuse, e si arrese. Non disse più niente, anzi, nessuno di noi lo fece, e per diversi minuti. 
Fui io, alla fine, a dare voce ai miei pensieri. «Non so se lo capisci, Frank» scandii «Ma conviene a te e a tutti i tuoi compagni lasciarmi andare via da qui, e non mi rivedrete mai più. Tenermi chiuso qui, è un pericolo e basta» sentenziai, cosciente del rischio che correvo, perché temevo mi avrebbe posto un sacco di domande per comprendere questa mia affermazione. Ma almeno, dovevo metterlo in guardia... in qualche modo, avrebbe dovuto lasciarmi andare senza mettere su una guerra, in cui tanto avrei vinto io. Ma non volevo versare sangue, né il suo, né quello di Andrew, né quello di Johann. Tutte le persone che avevo visto lì, erano molto giovani... e la voglia di sapere cosa fosse tutta questa storia mi assillava.. nel senso, perché tutti questi ragazzi si trovano qui, con questa aria di segretezza, in mezzo al bosco, in una struttura che si sviluppava sotto terra? Però, se avessi chiesto e nel caso che Frank avesse anche risposto, avevo timore che non mi avrebbero davvero più lasciato andare. Chi sa troppo, diventava pericoloso, e io, oh, lo sapevo bene. Preferivo non sapere nulla, almeno per adesso. 
Frank non rispose a lungo, mentre i miei pensieri correvano. Ebbi il dubbio che non mi avrebbe risposto mai, che sarebbe rimasto lì, appoggiato sul davanzale accanto a me per sempre. C’era qualcosa di teso e allo stesso tempo rilassato, in quella situazione. Molti punti di domanda viaggiavano fra noi, ma entrambe le nostre menti accoglievano le incognite e le conservavano tali, come muta salvaguardia. “Sapere” è molte cose, è bello, brutto, e tanto pericoloso. 
«L’ho saputo subito, che eri una persona... particolare. Che mi avrebbe causato problemi. Ma non mi è interessato... ti ho visto e ho..» mormorò alla fine Frank, come se stesse confidando un segreto. Si passò le mani sulle spalle, a disagio. «... ho pensato che avrei dovuto fidarmi di te. Ho creduto che avresti potuto aiutarmi, e... non so perché l’abbia pensato. Ma c’è qualcosa in te, che mi ha spinto a non volerti lasciare andare via. So che ora penserai che sia solo uno sciocco, e che vorresti torcermi il collo e scappare... te lo leggo negli occhi..»
Non gli risposi subito. Che avrei potuto dire, d’altronde? Non avevo capito niente, e quella di Frank era una supposizione molto sbagliata (quella del fidarsi, intendo. La supposizione sul rompere il collo, era azzeccata), forse l’aveva solo scambiata con la paura nei miei confronti. In effetti, non avrebbe dovuto provare altro, se non paura.  
Senza volerlo, sollevai una mano, andando ad accarezzare la chiave che mi pendeva al collo, indifesa, senza i vestiti a coprirla. «Non so aiutare le persone, Frank... dovrei andarmene a basta, e tu lo sai» ribadii, ancora, guardando il vuoto davanti a me. 
Lui sospirò e scosse la testa. «Non riesco a permettertelo»
Tacqui, e il silenzio ci avvolse. 

Aprii lentamente gli occhi, sbattendo le palpebre per combattere la luce, mentre per un momento mi ritrovai a vedere tanti puntini bianchi muoversi nel mio campo visivo. Mi ero addormentato di nuovo... ero davvero debole, quel giorno, probabilmente a causa della perdita di sangue. O almeno sperai fosse solo per quello.
Ero appoggiato al muro, sopra la mia testa la finestra, da cui ero sceso diversi minuti prima, quando Frank si era congedato: ero ancora senza maglia, e il vento fresco aveva cominciato a stuzzicare la mia pelle, e così mi ero rifugiato a malincuore all’interno. 
Ora ero lì, le ginocchia strette al petto e le palpebre pesanti per il sonno. Oh, e poi c’era il ragazzo che mi fissava a gambe incrociate, la testa piegata da un lato, con i ciuffi blu e neri che gli cascavano sulla fronte e sulle orecchie. E gli occhi magneticamente color ghiaccio fissi nei miei, intenti a studiarmi con un'espressione strana: mi ricordò un animale selvatico intendo a studiarne un altro, altrettanto selvatico. Mi sentii in sintonia con lui, per un momento, ma allo stesso tempo, non gradivo essere osservato, né studiato. Ebbi improvvisamente una gran nostalgia del mio cappotto e del relativo cappuccio... c’era troppa luce, e io ero troppo inerme.
Sollevai un sopracciglio, ricambiando il suo sguardo immobile. «Vuoi un mio ritratto? Dura più a lungo»
Le sue labbra sottili, decorate dal piercing, si piegarono in un sorriso appena accennato. Ma in ogni caso ignorò il mio commento. «Ti sei svegliato, alla buon ora. Mi hanno spedito qui per farti mangiare» disse, ghignando con nonchalance. 
Mi accigliai un poco. Da quanto tempo mi stava fissando dormire? Da com’era comodo, seduto a gambe incrociate sul pavimento davanti a me, probabilmente da un po’. Com’è che si chiamava, poi? Uh, Andrew. 
Abbassai lo sguardo sul mio stomaco, e storsi le labbra. In realtà, non avevo affatto fame, ma il bisogno di uscire da quella stanza era impellente. Non restavo mai troppo a lungo nello stesso posto, l’avevo detto prima, no?. 
Buttai fuori l’aria dal naso ed annuì, aspettando che lui si alzasse; Andrew, invece, mi porse una camicia bianca, rimasta fino a quel momento abbandonata sulle sue ginocchia. «E’ meglio che tu ti vesta, ci sono troppe ragazze appena oltre questa porta»
Inarcai un sopracciglio per l’ennesima volta. E che me ne fregava delle ragazze? Che me ne fregava delle persone in generale? Ma sentivo freschino sulla pelle, e quindi lo assecondai, prendendo la camicia: era bianca, e sapeva di pulito, senza alcun odore particolare, e questo mi diede sicurezza, in un senso contorto del termine.
Andrew si alzò, tornando a essere quella figura magra e slanciata che ricordavo stare appoggiata allo stipite, e io lo imitai immediatamente; infilai un braccio nella manica della camicia, e in breve presi ad abbottonarla, lasciando però diversi bottoni liberi vicino al collo. Mi assicurai ti tenere la chiave nascosta sotto il tessuto, e ciò nonostante, continuai a sentirmi scoperto. Sollevai lo sguardo su Andrew, che mi guardava in silenzio. 
«Non è che potrei riavere la mia roba..?» gli domandai, guardandolo titubante da sotto i miei ciuffi di capelli neri. Lui incrociò le braccia sul petto: una posizione che doveva piacergli molto, notai. «Cappotto e tracolla...?» azzardò. 
Feci un gesto d’assenso con la testa, evitando di guardarlo in modo troppo speranzoso. 
Andrew fece spallucce. «Forse. La tua borsa ce l’ha Frank, ma il cappotto credo di potertelo permettere. Anche se non so come tu possa non morire di caldo... » mi rispose alla fine, gesticolando con una mano e voltandosi. Lui aveva solo una misera maglietta sbracciata, fui io a chiedermi come mai non avesse freddo affatto. 
Nonostante il turbamento nel sapere la mia borsa tra le grinfie di Frank mi abbandonai a un sospiro sollevato. Avevo bisogno della presenza nera del mio cappotto, per uccidere quella luce bianca e stomachevole. 
Dalla porta, Andrew mi fece un gesto per invitarmi a seguirlo, e senza avere molte alternative, lo feci. 
Lasciare quella stanza mi regalò una boccata d’aria più pulita, anche se era probabilmente era solo una mia impressione, poiché l’aria era sempre fresca uguale: ma avere la possibilità di attivare il mio cervello per studiare il nuovo ambiente, mi fornì un motivo per alleggerire la testa dalle domande che premevano sulle mie tempie e mi sfioravano le labbra. 
Appena oltre la porta, tutto ciò che vidi fu un lungo corridoio, con tante altre porte uguali alla mia, e da ognuna di esse filtrava la luce dell’esterno, sufficiente ad illuminare l’ambiente. Il pavimento era di travi di legno, mentre i muri, qui, contrariamente alla mia camera, non erano di legno scarno, ma ricoperti da una superficie simile all’intonaco. Che fosse? Ero stato talmente poco dentro spazi chiusi, che ero davvero poco esperto, e la cosa mi dava fastidio. Chiedetemi di analizzare una foresta, e sarei stato molto più pronto. 
Sospirai, mentre Andrew, davanti a me, mi faceva strada con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni scuri: studiai con rinnovato interesse i tatuaggi che gli ornavano le braccia, ma non ne trovai comunque un senso, così rinunciai. Piercing, tatuaggi, tinte ai capelli... mi stavo davvero cacciando in un brutto problema. E pensare che sarei dovuto arrivare lì, uccidere Frank, andarmene con i soldi, sparire. Mi chiesi dove fosse Bert, se avesse provato a cercarmi, o se le guardie l’avessero nuovamente contattato per sapere di me, perché in effetti non avevo più dato alcuna notizia a nessuno. E mi chiesi anche quante persone avessero assistito al mio “spettacolino” con il cane, e se avessero fatto passare le voci... e, oltretutto, io non sapevo chi fosse effettivamente Frank per quella città, d’altronde le guardie gli davano la caccia sufficientemente da aver contattato me... magari ora mi avevano marchiato come suo complice, e mi sarebbe toccato allontanarmi parecchio di più rispetto a come avevo previsto. 
Sbuffai istintivamente, richiamando senza volere l’attenzione di Andrew, che mi spostò addosso uno sguardo indecifrabile, senza comunque dire nulla, e segretamente lo ringraziai per questo. Era un tipo schietto e sarcastico, ma riservato e perspicace. Mi ritrovai ancora una volta ad ammettere che mi andava a genio... forse sarei riuscito ad estrapolare più informazioni da lui che da Frank, senza tuttavia legarmi le mani da solo e condannarmi. 
Mi morsi l’interno della guancia, rimuginando assorto, e Andrew mi condusse giù per una rampa di scale, scendendo al piano inferiore. E lì, improvvisamente, sentii il disagio tornare al mio capezzale in modo violento. Ok Frank – o quasi- , ok Johann, ok Andrew... ma adesso, c’erano decisamente troppe persone. Senza neanche volerlo del tutto, i miei passi si bloccarono, e io mi ritrovai fermo lì, ai piedi delle scale, col respiro che cominciava ad accelerare, i miei occhi a schizzare da una persona all’altra della grande stanza. Nessuno badava a me, ma sentii l’irresistibile bisogno di afferrare il cappuccio che non c’era e nascondermi. Strinsi i denti, perché non avevo l’elsa di un’arma da poter stringere: mi avevano tolto tutto, persino la cinghia con gli stiletti che era sempre stata stretta alla mia coscia. Mai mi sentii nudo come in quel momento, con quella valanga di ragazzi intenti a parlocchiare per la stanza, con piatti fumanti in mano, ed i tavoli stracolmi di persone, e le luci soffuse, e le risate, e i discorsi, e le spallate, e le mani strette in altre mani.
Troppo. 
Andrew si accorse di non avere più i miei passi alle spalle, e si voltò a fissarmi con un sopracciglio sottile sollevato. Anche lì brillava un piercing di metallo. «Ehy, è tutto ok. Gerard, giusto...?» 
Spostai impercettibilmente lo sguardo su di lui, e poi di nuovo sulla sala, e non risposi. 
Andrew sciolse le spalle, con un sospiro. «Ehy, Gatto, vuoi mangiare o meno?» disse, guardandosi un attimo intorno «O sei vegetariano anche tu? Non sai che fatica aver fatto mangiare Frank le prime volt-- »
«Andy!!» 
Andrew non interruppe quella frase solo per l’urlo che risuonò nella stanza, ma più per il fatto che qualcuno gli collassò letteralmente addosso. La persona si avvinghiò al ragazzo, allacciandogli le braccia al collo, sotto il mio sguardo congelato e sì, terrorizzato. Ebbi quasi l’istinto di buttarmi in avanti e difendere Andrew, ma non avevo neanche armi... eppure, non poteva che essere aggressivo quel gesto, no? 
«Jack!» strillò Andrew, mentre barcollava scompostamene nel tentativo di non cadere sotto il peso dell’altro ragazzo. «Levati» intimò, la voce stridula a causa delle braccia che gli stringevano eccessivamente il collo. 
Finalmente il tizio, Jack, sciolse la stretta e scoppiò a ridere. Io, a pochi metri, mi limitavo ad osservare la scena, rigido come uno stecco. Andrew sembrava turbato, ma non allarmato, anzi giurai di scorgere una specie di sorriso, o di ghigno, sul suo volto. 
«Calma amico, ma sono giorni che non ti fai vivo» esordì Jack, senza neanche notare la mia presenza. 
Andrew sollevò un sopracciglio, massaggiandosi il collo. « “Calma” a me...?» disse, con un sorrisetto beffardo, termine che sembrava essere stato coniato direttamente sul suo viso, pensai. 
Jack si strinse nelle spalle. «Ti sapevo in giro a fare casini fuori città, non sapevo neanche fossi tornato. Non intero, perlomeno» si difese. «E’ un gioia vederti» disse alla fine, sorridendo. 
Andrew ricambiò il sorriso, ostentando tutta quella vaga freddezza tipica di lui. Jack mi parve molto estroverso, invece, ma non pericoloso. Tuttavia, quel lanciarsi sulle persone, continuava a farmi rabbrividire. Se ci avesse provato con me, gli avrei smontato una spalla, poco ma sicuro. 
«Uh, Frank? Era con te» continuò Jack, dandomi ancora le spalle. Perlomeno, dagli sguardi sfuggenti, mi parve che almeno Andrew si ricordasse della mia presenza, e questo annullò l’idea di darmela a gambe subito e trovare un’uscita. 
«Mh? Sì, era con me, ma è una storia lunga. Comunque dev’essere da qualche parte nella struttura. Probabilmente è sceso...» disse, rimanendo vago, ancora una volta gesticolando con il polso magro. Era la seconda volta che glielo vedevo fare. 
Jack si passò la lingua sulle labbra, forse intuendo qualcosa che solo lui sapeva. «Ok, me ne farete sapere meglio dopo... già mangiato?»
Andrew lo fissò, poi piantò gli occhi chiari nei miei, vigili. E allora Jack si voltò, sollevando le sopracciglia. In quel momento notai che aveva i capelli neri ribelli, con diverse ciocche bianche, decolorate; avrà avuto pochi anni più di me, sicuramente.  
«Uh, e lui chi è?» domandò, con un gran sorriso cordiale, ma io continuavo a temere la sua espansività, e non mi fidai neppure per finta. Che avrei dovuto dire, di me stesso? Che poi in realtà, neanche l’aveva chiesto a me. 
Vidi Andrew stringersi nelle spalle. «Uhm, ottima domanda. Chiedilo a Frank... fatto sta che è arrivato qui perdendo sangue come uno scolapasta, fortuna che ho trovato Frank in mezzo al bosco mentre se lo trascinava tra le braccia» 
Oh. Che imbarazzo. 
Jack ridacchiò, sotto il mio sguardo di veleno.
«Potreste evitare di parlare come se io non fossi qui...» sibilai, con tutta l’acidità di cui disponevo. Avevo una dignità, io, nonostante mi gettassi addosso parecchia merda, quando pensavo a quanto facesse pena la mia vita di assassino. Ma non mi meritavo certo tutta questa mancanza di rispetto... oh, se solo avessero saputo chi ero. Invece avevo l’impressione che lì mi considerassero un fenomeno da baraccone, e la cosa non solo mi dava fastidio, ma mi faceva venire la pelle d’oca... ed ebbi bisogno di fuggire, da tutto questo.
Sentii Andrew rivolgere un'altra frase a Jack, e questo rispondere con una risata, ma la mia stizza mi spinse ad ignorare il fastidio di tutte quelle persone: era più importante allontanarmi da loro, e presi a vagare per la sala, evitando il contatto con le persone che mi passavo accanto, in mano piatti fumanti da un odore curioso. Da quanto non mangiavo, in effetti? Ok, avevo lo stomaco chiuso, ma avendo perso tutto quel sangue, mi conveniva mettere qualcosa sullo stomaco indipendentemente dai capricci del mio fisico... non potevo permettermi  di essere troppo debole, non in quella situazione instabile... ancora non avevo deciso cosa avrei fatto. Scappare? Aspettare che si decidessero a lasciarmi andare? Sentii il bisogno di parlare con Frank, e allo stesso tempo, ebbi il desiderio di non vederlo direttamente mai più. Ma questa speranza era altamente improbabile...




                                                                                     


Ci si vede al prossimo capitolo, bye!
_StrayAshes_

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Capitolo 7
*** Déjà-vu ***




 

 

8. Déjà-vu





Avevo storto il naso all'idea di un dormitorio, ma alla fine non era così male; era di modeste dimensioni, non troppo luminoso né troppo buio, un numero giusto di letti e una finestra ampia, ma sbarrata. La cosa che però più mi tolse il fiato, fu la vista del soffitto, quando sollevai il viso rimanendo letteralmente a bocca aperta: era un grande affresco, con bassorilievi ai lati e decorazioni floreali che dividevano scena da scena, anche se i protagonisti della storia avevano perso gran parte delle loro fattezze e forme, per via di tutto il tempo che era passato strisciando lì sopra, con la spietata delicatezza di un soffio di vento e troppi anni trascurati nell'abbandono.

Doveva essere stata una piccola chiesa, molto tempo fa. La gente, dopo la catastrofe e la guerra, aveva smesso di credere nell'esistenza di Dio, o almeno, aveva smesso di credere nell'esistenza di un Dio buono. Non aveva certo perso il bisogno impellente di credere in qualcosa, ma non era neanche più in grado di inventarsene uno nuovo, di Dio, perché stanca di auto-illudersi. Si era arresa all'idea di essere figlia di nessuno.

Scossi la testa, decidendomi a distogliere lo sguardo dall'affresco che stava risvegliando dal profondo la mia arte, e non era proprio il momento, adesso.

Andy mi aveva detto che c'era un letto libero proprio sotto la finestra, e infatti, appena sotto il mobiletto che faceva da comodino, riconobbi la mia sacca, che giaceva lì con l'aspetto arreso di chi è stato trafugato e derubato.

In realtà, la conversazione con Andy e Frank, era stata un pelo più lunga... prima di andare da Oliver Frank mi aveva consigliato di andare a riposare, per non sforzarmi troppo e rischiare di riaprire le ferite, e silenziosamente aveva approvato, perché sentivo le garze pizzicare fastidiosamente la pelle del braccio, il filo dei punti sfregare a ogni movimento; avevo solo voglia di chiudere gli occhi e dimenticare tutto questo, almeno per un po'. Ma poi mi avevano guardato strano, con l'evidente timore che io me la svignassi non appena calata la notte: voglio dire, era un timore legittimo, se fossi stata una persona intelligente l'avrei fatto, ma... per qualche motivo, non me la sentivo di inventarmi un modo di scappare senza farmi vedere, o comunque di scappare in generale, perché sotto sotto, qualcosa mi sussurrava di restare lì, e di aspettare. Curiosità? Spossatezza? Non lo sapevo, e non era più di tanto importante.

Fatto sta che non ero una persona intelligente. Solo istintiva.

Certo, se per magia si fosse aperta una porta nel muro in grado di portarmi dall'altra parte del paese, l'avrei presa così su due piedi, ma siccome la magia non apriva passaggi nel legno, non valeva la pena cercare un altro modo.

Frank aveva minacciato di chiudere a chiave il dormitorio, o persino di ammanettarmi al letto, ma per qualche ragione Andy era scoppiato a ridere istericamente, e allora avevo promesso che non sarei scappato, e che mi avrebbero trovato qui almeno fino al mattino dopo. Se provavo a dimenticarmi di Bert, delle guardie e della mia vita stessa, tutto questo non sembrava nemmeno così male, prometteva uno di quei brividi che non sentivo da anni, o che forse non avevo mai sentito, non per quanto ricordassi... eppure continuava a non essere giusto che io restassi qui, e far finta di dimenticare gli indelebili fatti non avrebbe cambiato questa cosa, né tanto meno il mio modo di pensare. Se c'era qualcosa che, volente o nolente aveva imparato, era l'arte della sopravvivenza, perché il mio lavoro non era solo uccidere, era anche restare vivo, e riscuotere la mia ricompensa guardandomi costantemente alle spalle, pur di non essere sorpreso da qualcuno – un incidente già capitato, più di una volta. Far fare il lavoro sporco a un cacciatore di taglie e poi far fuori anche lui, è troppo facile, e anche troppo stupido. Tant'è che più volte avevo dovuto rompere il collo a chi tentava di fregarmi, prima di intascare i soldi che mi erano dovuti – non legalmente forse, ma mi erano dovuti senza dubbio. Non dicevo addio ai miei sogni tranquilli senza avere in cambio nulla.

Sospirai, lasciandomi cadere sul letto e nascondendo il viso tra mani, tentando – inutilmente – di organizzare le cose che mi erano successe e di darci un senso, ma ero così stanco e tutto era così confuso, che stavo perdendo voglia di dargliene uno.

«Hey. Perché hai l'anima piena di graffi?»

Sobbalzai e spensi in gola un urlo stridulo, togliendomi subito le mani dagli occhi e allontanandomi di botto dalla figura che in qualche modo si era piazzata dinanzi a me, senza che me ne accorgessi.

In uno sguardo, registrai che persona che avevo sotto gli occhi, ma allo stesso tempo non capii un bel niente di lei.

Si trattava di un ragazzo giovane, slanciato, seduto a rana per terra davanti al mio letto, un sorriso sornione dai canini appuntiti, un anello argentato all'orecchio e bizzarri capelli bianchi che non nascondevano affatto la ricrescita nera. Aveva vispi occhi celesti, e un naso lievemente all'insù che dava un aspetto ancor più infantile al ragazzo - probabilmente sedicenne - che avevo davanti.

Sbattei le palpebre un paio di volte, i muscoli ancora tesi e sulla difensiva, ma allo stesso tempo rimasi bloccato dal suo sguardo; non mi sentivo davvero in pericolo vicino a lui, nonostante sapessi che avrei dovuto, perché insomma, avevo i miei precedenti... una volta uno dei miei clienti mi mise alle calcagna un quattordicenne per uccidermi nel sonno; il ragazzino alla fine lo risparmiai, ma non il mio cliente.

«C-che cosa hai detto...?» balbettai infine, cercando di riafferrare le strane parole che il giovane mi aveva riferito.

L'altro non smontò il sorriso vivace, e fece spallucce. «Non è importante. Prendi una matita»

Preso alla sprovvista aggrottai la fronte, e poi notai la mano che lo sconosciuto teneva davanti a sé, tre matite di colore diverso incastrate tra le dita. Ce n'era una viola, una rossa e una azzurra, eleganti e delle stessa dimensione.

Scossi piano la testa, seriamente confuso da questa scena assurda, che mai mi era capitata prima di allora, e le cose nuove mi mettevano una notevole agitazione, specie quando non si doveva combattere o difendersi, ma solo "socializzare". Non ero bravo, a socializzare, né tanto meno rientrava nella lista delle cose che era utile saper fare – anche se una lista ovviamente non ce l'avevo per davvero. «Perché...? Non capisco»

«Non c'è un perché. È soltanto un gioco» mi rispose il ragazzo, molleggiandosi brevemente sui talloni e lanciando un'occhiata alle matite, per poi tornare a fissare me con intento. «Prendi una matita»

Mi accigliai, non affatto soddisfatto dalla risposta, ma d'altronde avevo seri dubbi che la suddetta matita avrebbe potuto esplodere se io l'avessi presa in mano, quindi perché no? Allungai una mano con cautela, senza perdere d'occhio il ragazzo e il suo inguaribile sorrisetto, e presi la matita al centro, quella rossa, sentendo il legno sottile sotto i polpastrelli; non era diversa dalla matita che io usavo per il mio taccuino, ma la mia era grigia, e non ne avevo mai avuto una colorata. «Contento?»

L'altro si limitò ad annuire. «Ok, adesso mettitela sopra l'orecchio. Così...» mi disse, per poi lasciar cadere la matita viola a terra e mettersi quella azzurra sopra all'orecchio, accanto alle ciocche di capelli chiari.

Stranito ma curioso, inarcai un sopracciglio e mi piazzai la matita rossa sopra l'orecchio, ma nel mio caso, il pastello rimase in contrasto con ciocche color pece. «E quindi...?» feci, non riuscendo a tenere a bada il mio seccante scetticismo.

Il ragazzo sorrise per un paio di secondi, poi per mia sorpresa si fece avanti, mettendomi entrambe le mani vicino alle orecchie, e quando si tirò indietro teneva in man una moneta dorata, che prese a farsi girare velocemente tra le dita. Io, intanto, continuai a fissarlo con gli occhi sbarrati, rigido come uno stecco, cercando di controllare l'istinto di afferrarlo e rompergli le braccia prima che riprovasse ad avvicinarsi così tanto a me e al mio viso.

«In questo posto le voci su di te stanno correndo come un cervo impazzito, lo sai?» ridacchiò il giovanotto, sollevando un istante i grandi occhi celesti su di me, senza fermare il movimento fluido e quasi ipnotico della moneta tra le proprie dita esperte, lasciandosela scivolare sul palmo per poi riafferrarla tra l'indice e il medio, roteandola e lasciandola passare sull'anulare e sotto il mignolo, fino a tornare al palmo ed il pollice. «Qua di cose ne capitano di continuo, ma non partivano così tanti gossip da quella volta in cui Jack ha scoperto lo smalto. C'è chi dice che hai salvato Frank, chi dice che sei tu che hai tentato di ucciderlo, o chi sostiene che sei il suo ragazzo, e no, non guardarmi come se volessi usare la mia faccia per lavare i bagni, quella voce non l'ho messa in giro io» disse, prendendosi a malapena il tempo di respirare e finendo la frase con una mano sollevata per provare innocenza sotto i miei occhi truci, mentre l'altra continuava a gestire la moneta. «Fatto sta che qui c'è qualcosa di nuovo, e a me piacciono le cose nuove. Ma chi sei tu, esattamente? Perché a Frank importa di te?»

Sentendo la rabbia e l'impotenza montarmi in corpo, aprii la bocca per ribattere. «Quante volte devo dirlo, io non ho idea del per– »

«Shhhh» fece l'altro, e in quell'istante il movimento regolare e liquido della moneta cambiò, ai lati del mio campo visivo, e non appena i miei occhi si spostarono brevemente a guardarla, il ragazzo ne fermò del tutto i movimenti, aspettando che io riportassi gli occhi su di lui prima di muovere il braccio con uno scatto felino vicino al mio orecchio, e quando si ritrasse, le mani erano di nuovo vuote, la moneta sparita.

Mordendomi le labbra per reprimere la mia esclamazione sorpresa, notai improvvisamente una cosa diversa sul volto del ragazzino davanti a me: il sorrisetto giocoso era invariato, e anche la matita sul suo orecchio era ancora lì, ma un cosa in effetti era cambiata: la matita era rossa.

Sbarrai gli occhi e velocemente andai a recuperare quella abbandonata contro la mia tempia, e non appena me la portai sotto gli occhi, la trovai azzurra, uguale identica a com'era stata prima, tra le dita del giovane illusionista. «Come- ...»

«Nah nah, trucchi del mestiere» fece quello, socchiudendo appena appena gli occhi. «Ho voluto provare se riuscivo a confondere anche te, è stato un buon allenamento. Ma ora le cose importanti: a Frank interessava tanto questa. Che cosa apre?»

Inarcando nuovamente un sopracciglio, aprii la bocca per chiedere a che cosa diamine si riferisse, ma ogni parola mi si congelò in gola, quando mi accorsi cosa il ragazzo teneva in mano: la mia chiave, quella che tenevo al collo da tutto la vita. Non avevo fisicamente idea di come fosse riuscito a sfilarmela o a come fosse riuscito a sciogliere il nodo in brevi movimenti, ma al momento nemmeno mi interessò. Ignorando l'impulso di energia violenta che mi spinse a ad afferrarlo per il bavero e riprendermi ciò che era mio, riuscii a ostentare una calma fredda, bensì pericolosa, che sapevo funzionare meglio di molto altro. Portai avanti la mano, palmo all'insù.

«Quella è mia, e la rivoglio indietro. Adesso».

Studiando la chiave attaccata al filo di spago, il ragazzo sorrise con curiosità, finché i suoi occhi non si spostarono sulla mia figura, sul mio viso irrigidito, e la giocosità sparì improvvisamente dal suo volto, lasciando un'espressione vuota e seria che lo rendeva molto più adulto. Mi chiesi per istante che razza di persona avessi davanti, ma la mia priorità tornò subito alla chiave.

«Quando ha trovato questa chiave, l'ho visto tremare e stringere gli occhi, e ha mandato via tutti dalla stanza. Non è una cosa che Frank fa. E appena ti hanno messo sul letto dell'infermeria, te l'ha rimessa al collo, incurante delle lamentele di Johann. Perché? Chi sei tu?» mormorò lui con altrettanta calma, e non appena finita l'ultima sillaba, si sporse leggermente in avanti e delicatamente mi lasciò la chiave sul palmo, senza aggiungere altro.

Io, non appena ritrovato il peso rassicurante di quel pezzetto di metallo, mi permisi di deglutire e assorbire quell'informazione, che mi rese inquieto, più di quanto avrei voluto, perché io non lo sapevo chi ero, non sapevo chi era Frank, non sapevo cosa apriva la chiave, non sapevo cosa essa significasse per Frank, e non sapevo cosa significasse per me. Ma era stata al mio collo da sempre, e in qualche modo mi ricordava che ero più che questo, e che avevo avuto altro, prima.

Quindi, per me la chiave alla fine aveva un significato, ma non doveva averne per Frank. Era tutto così assurdo, e non aveva senso.

«Non lo so» dissi alla fine, senza guardare l'altro ragazzo negli occhi. «So che non mi crederai, ma io non lo so».

L'altro non disse niente, e quando sollevai lo sguardo, lo trovai intento a guardarmi con attenzione, forse persino occupato a studiarmi, frugando fin nel profondo dei miei occhi color muschio. Per un istante soltanto, mi parve di riconoscere quella sensazione, e il déjà-vu mi riportò alla mente due occhi bianchi, vuoti. Socchiusi le palpebre; «Ti credo» disse alla fine, e il suo sorriso lentamente tornò. Ma non il mio.

Sopirai e sollevai le braccia, risistemando il filo di spago attorno al mio collo e risistemando la chiave sotto il cappotto e la maglietta, lì dove doveva restare, da qualche parte appoggiata sul mio petto, piena dei suoi segreti con cui avevo imparato a scendere a patti. E da un lato, ora avevo paura di rompere quel patto d'ignoranza, e scoprire qualcosa che non avrei voluto scoprire.

Il ragazzo tornò a sedersi sul pavimento, gambe incrociate e braccia abbandonate in grembo. «Scusami, non volevo prendere le tue cose» disse, inaspettatamente, per poi sorridere timidamente. «Sono una maledetta persona curiosa, e quando sai di avere le carte per scoprire qualcosa in modo interessante provi a usarle, non ti pare?»

Guardando i suoi grandi, giovani occhi azzurri, alla fine cedetti e riuscii a piegare da un lato le labbra, concedendogli almeno quello. «Sì, forse sì, almeno finché qualcuno di irascibile non decide di slogarti i polsi; ammetto di aver sentito l'istinto»

Lui rise, come se avessi veramente fatto una battuta, spingendosi lievemente avanti e indietro. «In realtà è già più o meno successo» ammise, scuotendo piano la testa e perdendosi qualche secondo in quel ricordo. «Ma dopo mio fratello gli ha reso pianeggiante la faccia, quindi ho la mia reputazione e nessuno ci ha provato più. E comunque, ho imparato ad essere veloce» disse, facendomi brevemente l'occhiolino.

Sollevai le sopracciglia e sorrisi anch'io, chiedendomi brevemente chi fosse suo fratello. Avere un fratello per me era una cosa sconosciuta, aliena addirittura, perché io ero da sempre cresciuto da solo, arrancando sulle mie forze, fino a perdermi in un mondo enorme, tra uomini più grandi di me e responsabilità che ancora oggi non sarei stato in grado di gestire. Non avevo avuto dei genitori, e di certo non il lusso di dover proteggere, o di essere protetto, da un fratello. Eppure, nonostante tutto questo, io ero ancora qua.

«Mi chiamo Matthew» disse all'improvviso il giovane illusionista, per rompere il silenzio che era calato, e strappandomi ai miei malinconici pensieri.

Gli accennai un sorriso, guardandolo vagamente con sfida. «Scommetto che il mio nome invece lo sai già» risposi, anche se poi mi ricordai del modo in cui Hayley mi aveva chiamato, ma sperai comunque che Matthew invece non avesse frainteso. Mi sembrava un tipo sveglio, d'altronde.

«Beccato» si ammise sconfitto Matthew, sollevando le braccia in segno di resa, prima di ridacchiare nuovamente. Dopo poco lo osservai alzarsi lentamente, rivelandosi magro ma non molto alto, seppur agile. «Ora è meglio che vada» disse, e io mi limitai ad annuire, già pronto a riportare la mia attenzione al letto e le sue coperte. «Ah, e se vuoi, le matite puoi tenerle».

Lo guardai un istante, poi spostai l'attenzione sulla matita azzurra che era rimasta abbandonata sopra la mia coscia, e le altre due per terra, quella rossa che avevo scelto e quella viola. Sorrisi a Matthew, «Grazie». A lui potevo dire grazie, sì?

Matthew sorrise a sua volta e si allontanò di qualche passo verso la porta, per poi fermarsi e tornare a guardarmi, questa volta con un'espressione insicura, combattuta, e persino apprensiva. «Io... non so cosa tu possa mai significare per Frank, ma mi è sembrato scosso, più scosso di come io l'abbia mai visto negli ultimi tempi. E ne ha passate tante anche lui, ne abbiamo passate tutti... però lui è tutto ciò che resta a questo posto, e siamo in bilico già da troppi mesi»

Senza capire, mi accigliai e inclinai di un poco la testa.

Matthew si mordicchiò nervosamente le labbra, abbassando lo sguardo. «Quando sei arrivato qui e ho guardato Frank negli occhi, dal suo sguardo ho avuto paura che le cose sarebbero peggiorate ancora di più, e volevo che te ne andassi, e che non avessi mai nulla a che fare con le nostre vite. Volevo che sparissi e che non facessi niente. Ma ora penso che dovresti proprio fare qualcosa, invece»

E detto questo, mi sorrise brevemente e lasciò la stanza.

Rimasi solo, nel silenzio tombale del dormitorio che troppo tempo addietro fu una chiesa, con i raggi del sole della sera che mi accarezzavano la schiena, poco prima di tramontare, come tutte le sere, come tutti i giorni, come tutti gli anni. Anche prima della guerra, anche durante, e dopo, il sole era tramontato nello stesso identico modo, ma diverso ogni giorno.

Scossi la testa e mi lasciai cadere del tutto sul letto, gambe e braccia allargate, osservando con la coda dell'occhio la polvere alzarsi dal cuscino e incontrare il raggio di luce, nel suo disperato aleggiare nell'aria senza un motivo.

Non so bene per quanto rimasi a fissare i disegni intricati e consumati del soffitto, mentre la luce diventava più buia e altri ragazzi, a me sconosciuti, entravano silenziosamente nel dormitorio e sprofondavano sui materassi, colti all'istante dal sonno, mentre io restavo lì, a guardare e a non pensare a niente.

Quando mi addormentai, lo feci soltanto perché non vedevo più nemmeno un singolo particolare dell'affresco, e la mia mente si arrese a spegnersi e diventare nera proprio come l'atmosfera inquieta, sospesa, della stanza.

* * * *

Troppe volte, nella mia vita, mi ero svegliato a causa delle grida.

Ormai, ero quasi in grado di sentire l'allarme nell'aria prima ancora che l'urlo iniziasse, riuscivo a sentire il sottile odore della paura, della tragedia, e capivo in quella frazione d'un istante che guai erano in arrivo, proprio come gli animali avvertivano la pioggia incombente solo respirando.

Fu per questo che quando aprii gli occhi nella penombra dell'alba, con l'affresco del soffitto ad accogliermi, il grido risuonò nell'aria solo tre secondi esatti dopo, e in un certo senso, in quei tre secondi mi ero già preparato a sentirlo: immediatamente scattai fuori dal letto, per fortuna già vestito dalla sera prima, e drizzai le orecchie, bloccando il respiro. Attorno a me, i ragazzi negli altri letti cominciarono a loro volta a destarsi, insicuri e persino seccati di essere stati svegliati, ma il meccanismo della loro coscienza scattò quando al primo urlo – che era stato femminile e acuto – se ne aggiunse un altro, maschile e arrabbiato, oppure terrorizzato, ma mascherato dalla rabbia, e avrei potuto giurare che quella era stata la voce di Frank.

Da sotto, adesso erano scoppiate le voci concitate, ordini ringhiati, respiri veloci, rumori di passi veloci. Prima ancora di rendermene conto, mi ritrovai fuori dal dormitorio, in piedi in cima alle scale, e con gli occhi stavo mangiando la grande sala sotto di me, alla ricerca di un indizio che mi aiutasse a capire cosa stesse succedendo, se c'era un pericolo all'interno, e di che genere. Nemmeno mi passò per la testa che non avevo armi, ma la mia mente da cacciatore aveva sempre funzionato così, coi suoi protocolli standard.

Cercai di riconoscere qualcosa, qualunque cosa, ma non riuscivo a identificare le voci, né a vedere Frank, o Andy, o Matthew, chiunque. Ci fu una voce, sconosciuta, che però attirò la mia attenzione: «Sono tornati!», ma ciò che mi stupii fu la nota di terrore e preoccupazione che vi colsi, mescolata a quella di un inspiegabile sollievo.

Mentre tendevo i muscoli, pronto a lanciarmi in quel casino di persone e parole, un paio di occhi si incastrò nei miei, un riflesso nocciola che, nonostante il velo di tesa preoccupazione e fretta, non abbandonò il mio sguardo.

Frank, per quel breve istante, mi rivolse un'occhiata di paura, di ansia, di colpa, di aspettativa, di terrore, di abbandono, accompagnato da capelli neri incasinati, la pelle pallida all'inverosimile, le labbra socchiuse e la fronte piegata in un'espressione di panico, di richiesta di aiuto.

Bastò quell'immagine a farmi sentire come se avessi ricevuto un pugno nello stomaco, riconoscendo lo stesso dolore acuto e la stessa sensazione di smarrimento, che portò con sé l'ennesimo déjà-vu, ma che questa volta veniva da molto, troppo lontano. 

 

 

 

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Here I am again, tell me something if you can ~

_StrayAshes

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Capitolo 8
*** Weak Spot ***









7. Weak Spot

 

Abbassai lo sguardo, scrutando la sostanza scura, assaporandone l'odore pungente, raffinato. Era l'unica cosa che avevo deciso di concedermi. Pensandoci, sembrava ci fosse un legge fisica o divina: quel momento fortunato in cui ti offrivano del cibo gratis, ecco, ecco che il tuo stomaco improvvisamente non ne vuole sapere. Ma il caffè era come un sempreverde, un asso nella manica. Come fosse un dessert, per lui c'era sempre posto.

Ma io, d'altronde, che ne sapevo di cucina? Ci fu una volta in cui mi tirai avanti a pane secco per un mese, il concetto di dessert era astratto nella mia testa, un po' come un mito.

Scossi la testa e posai le labbra sul bordo della tazza, allontanando i miei pensieri futili e cercando di concentrarmi su ciò che avrei dovuto fare durante il mio soggiorno lì, per quanto avrebbe potuto durare. Una parte di me continuava ad architettare una possibile fuga, e un'altra si era arresa all'idea di restarsene qui per un po', magari nella speranza che Bert si dimenticasse della mia esistenza... o che io mi dimenticassi della sua, è uguale.

E poi, come dicevo, cibo gratis. Non ero abbastanza suicida da andare avanti solo a caffè per davvero, mh?

Ero seduto su una sgabello, braccia conserte posate al bancone di legno, sguardo giù. Mi sentivo sulla schiena le occhiate e i sussurri dei ragazzi attorno a me, che si chiedevano chi fossi, da dove venissi, se fossi uno di loro. Ma non ero uno si loro.

Dopo undici minuti e una manciata di secondi che mi trovavo li, avevo deciso che quelle occhiate non mi interessavano; mettevano meno agitazione che quelle della gente comune, appena oltre queste travi, poiché queste erano persone che si nascondevano, proprio come me. Forse erano a loro volta assassini, ladri, esiliati, ma paradossalmente erano meno pericolosi. Nella mia privata versione delle cose, ovviamente.

Finii l'ultima goccia di caffè, passandomi la lingua sulle labbra e appoggiando la guancia sul palmo, mentre con le dita dell'altra mano presi a grattare un punto rovinato del legno, sovrappensiero.
C'erano ancora troppe cose che nella mia mente non quadravano... cioè, ero abituato al fatto che la mia testa fosse un puzzle dai pezzi a tinta unita, ma ehy, questa volta non era colpa mia, erano gli altri a tenermi all'oscuro delle cose, a parlare ad enigmi e a mezze frasi, e proprio questo era il motivo per cui odiavo avere a che fare con le persone... quelle che restavano vive, intendo.

«Io non gratterei troppo il legno lì. Una volta Mark ci ha vomitato»

Fermai i miei movimenti, fissando il legno e sollevando lentamente le dita, girandomi di qualche grado e pulendomele sulla maglia chiara della persona che, guarda caso, era Frank. La cosa mi fece anche tornare un piccolo dejà-vu.

«Dov'è Andy?»

Scrollai le spalle, cercando di capire se mi sentissi sollevato o turbato dall'idea di riavere di nuovo Frank con me.

No, ero decisamente turbato.

«Un tizio gli è quasi caduto addosso, hanno cominciato a parlare e io me la sono svignata» Sollevai la tazzina, tanto per fare qualcosa, e sperando in qualche goccia superstite. Non ce n'erano. Deluso, la rimisi giù.

«Grosso, capelli scuri con ciuffo chiaro...?» chiese, e io annuì. «Jack. E quindi so per esperienza personale cosa ha provato Andy»

Frank appoggiò gli avambracci sul bancone accanto a me, lanciandomi un sorriso un po' esitante. Costrinsi le labbra a ricambiare il gesto, ma no so bene che ne uscì; tuttavia Frank parve illuminarsi un po' di più, quindi forse ero riuscito nel mio intento. Progressi Gerard, progressi. Tutti del tipo sbagliato, ma pur sempre progressi.

«Ah, comunque... questo è tuo. Ho constatato che non ci sono altre armi, e per fortuna, niente esplosivi» disse poi Frank, con un altro sogghigno.

Solo in quel momento, quando allungò il braccio verso di me, mi accorsi del mio cappotto ripiegato lì, e il mio sorriso divenne un po' meno finto.

Avevo cambiato idea. Ero decisamente sollevato di vedere Frank, nonostante tutto.

«Nah, gli esplosivi non sono nel mio stile» risposi con un mezzo ghigno, afferrando il mio indumento perfettamente nero. «Ma potrei cominciare a portarmene in tasca per sorprendere il mio prossimo rapitore»

Mentre m'infilavo le maniche e sistemavo il colletto, notai Frank aggrottare brevemente le sopracciglia, forse turbato dal termine che avevo usato, "rapitore", ma d'altronde era ciò che lui stesso aveva detto di essere. Ero in questo posto contro la mia volontà, non credo che se lo fosse già dimenticato.

«Quindi, ora potrei sapere il punto della mia presenza qui...?» domandai alla fine, incrociando le braccia sul petto. Frank sospirò e staccò le braccia dal bancone, raddrizzando la schiena ed aprendo la bocca come per parlare, ma io lo bloccai sul nascere, sollevando una mano. «Ti ho salvato, ti sei fatto più che ringraziare, dimentichiamo i nostri nomi e dividiamo le strade, come ti suona? Questo non è il mio posto, e tu lo sai, e non so per quale assurda ragione tu abbia voluto fidarti al punto di portarmi qui, e se questo è tutto un piano per incastrarmi, dimmelo subito, non sarebbe una novità. Ma se non lo è, voglio che tu capisca che è sbagliato, e che io ho bisogno di andare via, per il bene di me stesso e di tutta questa gente. È così difficile capirlo, e fidarsi di quello che dico per l'ultima volta

Frank sospirò nuovamente, scuotendo la testa e portandosi una mano fra i ribelli capelli neri. «Senti, non lo so perché ho deciso di fidarmi, e so che tutto questo per te potrebbe non avere senso, perché credimi, non ha senso nemmeno per me, ma... fidati tu di me, questa volta» mi rispose, lanciandomi addosso grandi occhi supplichevoli, che però non funzionarono.

Feci un passo indietro, sentendomi sempre più nervoso, e molto poco convinto. «Io non mi fido delle persone, Frank. Se lo facessi, sarei già morto. E non comincerò adesso, non con te».

«Però dovrai farlo prima o poi, perché te l'ho già detto, non posso lasciarti andare- »

«Di questo abbiamo già parlato, e ancora non ha senso. Tu non mi conosci, io non ti conosco» lo bloccai nuovamente, stringendo i pugni.

«E allora permettimi di spiegarti, posso dirti che posto è questo, e se tu capissi forse-»

«No! Io non voglio capire, non voglio sapere cosa fate qui, perché non ho bisogno di altri problemi, e pensi davvero che sia così stupido? Se ti lasciassi raccontare cose che non dovrei sapere, allora sì che avresti un buon pretesto per tenermi qua. E cosa hai raccontato agli altri, eh...? Sono uno sconosciuto per questa gente»

«Cosa io ho detto ai miei ragazzi, non è un tuo problema, e nessuno ti toccherà finché resti buono e sotto la mia protezione»

La rispostaccia mi morii in gola, mentre mi presi un istante per guardare incredulamente Frank negli occhi. «Aspetta – protezione? Tu? Fai sul serio...?» esclamai, cercando di trattenere una risata, e riuscendoci solo per metà. «E non solo: i tuoi ragazzi...?»

Frank inarcò un sopracciglio, incrociò le braccia e appoggiò il fianco al bancone, con un'espressione visibilmente seccata. Anche se ero io, quello con tutte le ragioni di essere seccato. «Sì, esatto. Questa "gente", come dici tu, è sotto i miei ordini. Qualche critica?»

Scossi la testa e mi passai una mano su tutta la faccia, tirando leggermente all'indietro le ciocche di capelli scuri. «Sì, in effetti sì. Questa situazione è ancora più pazza di quello che credevo»

Frank fece spallucce, e mi lanciò un sorriso beffardo. «Beh, prima o poi ti annoierai di stare qui senza niente da fare, e alla fine vorrai sapere cos'è questo posto, e perché io ero in città oggi»

Questa volta, ricambiai facilmente il sorriso di scherno. «Qui c'è caffè gratis, non mi annoierò»

«Questa è un'idea! Potrei cominciare a fartelo pagare»

Aprii la bocca e la richiusi, preso in contropiede. Dovrei chiudere questa fottuta bocca, pensai, accigliandomi. O magari chiudere la sua.

«E siccome non hai soldi...»

Certo che non ho soldi. Dovrei uccidere te per guadagnarne, piccolo ingenuo.

«...puoi dimostrare la tua riconoscenza ascoltando, smettendo di fare l'orso e renderti utile»

«Mi hai sputato in faccia che sono prigioniero, che razza di riconoscenza dovrei dimostrarti...?»

Per qualche ragione Frank sembrò di nuovo turbato da quel termine, ma poi fece spallucce e sorrise sornione, avvicinandosi di un poco. Resistetti all'impulso di fare un passo indietro. «Il caffè però non ti dispiace»

«Non mi comprerai a caffè, Frank»

«E' una sfida, Gerard

«E' un dato di fatto»

«I dati cambiano...»

«Non flirtare con me».

Frank strabuzzò gli occhi, fissandomi per un lungo secondo con un'espressione interdetta, poi si ritrasse come se l'aria attorno a me scottasse, e incespicò di due passi indietro. A quel punto, scoppiò a ridere stringendo gli occhi, e solo quando lo vidi un po' più distante mi decisi a ricominciare a respirare, mentre il disagio ancora mi solleticava la pelle della schiena.

«Scusami, è che... sono abituato a giocarle tutte subito le mie carte» disse, facendomi velocemente l'occhiolino, ma cercando a tutti i costi di evitare il contatto coi miei occhi. Che stranezza.

Strinsi le labbra e sollevai le sopracciglia, «Immagino» dissi, inespressivo, e fingendo di non aver notato il rossore che si era impossessato delle guance di Frank nell'ultimo minuto.

«...in genere le tue carte consistono nel mettere il broncio e sbattere i piedi per terra, quand'è che cambiato qualcosa?»

Sobbalzando lievemente gettai lo sguardo di lato, e lì notai Andy avvicinarsi lentamente, guardando Frank. I suoi occhi color ghiaccio si spostarono poi su di me, lanciandomi un sorriso. «Ciao Gatto»

«E' cambiato qualcosa quando la tua stupidità mi ha contagiato, Andrew» ammise Frank, con aria grave.

Andy scosse le spalle, urtando di proposito quelle di Frank, nettamente più in basso. Sentii le labbra guizzare brevemente verso l'alto, ma le costrinsi a ritornare subito al loro posto. C'era di nuovo quell'aria così famigliare, fraterna... e io ero un estraneo a quelle cose.

«Almeno adesso hai guadagnato un po' di stile»

«Ovvio, ora mi basta sbattere le ciglia per avere le informazioni che voglio...» rispose Frank, con aria di sufficienza e un sorriso mal celato.

Andy sollevò gli occhi su di me. «E ha funzionato?»

Storsi le labbra, scrollando lievemente il capo. Tutto questo era così assurdo per me, era sbagliato, inappropriato, ma... non spiacevole come avrei voluto che fosse. «Nah, non proprio. Ha cercato di comprarmi a caffè»

«Mh, punto debole?»

«Circa»

«Frank, sei ignobile»

Vidi Frank abbandonare la schiena contro il bancone, sfregandosi la faccia con la mano e borbottando, «Ma perché mi circondo di queste persone...»

Andy rise e richiamò la barista (era considerabile una barista?) ordinando un qualche tipo di alcolico che non conoscevo, mentre io osservai diffidente una chioma di capelli rosso acceso arrivare da dietro le spalle di Frank, un'espressione vagamente seccata disegnata sul volto.

«Frank, ti cerco da un'ora! Oliver vuole vederti, e di Thomas ancora niente notizie, dobbiamo fare qualcosa»

Frank si voltò a guardarla, mentre i suoi lineamenti si trasformarono del tutto, abbandonando ogni accenno di sorriso e assumendo una strana professionalità, che non ero abituato a vedergli addosso. Non che mi fossi abituato alle sue espressioni, ovviamente. Appena uscito da qui mi sarei semplicemente dimenticato di tutti, come sempre, senza problemi.

«E invece ora non facciamo proprio niente, Hayley. Non rischierò la vita di qualcuno di voi per recuperare un idiota. Sono passati tre mesi»

La ragazza, Hayley, sospirò e scosse la testa. «E' in ogni caso una tua scelta, come vuoi...»

«Esattamente. Sei qui solo per questo?»

«No, Oliver deve vederti. E la squadra di Alex non è ancora tornata. Sono usciti due giorni fa»

Aggrottai la fronte con confusione, senza perdermi una parola. Ok, avevo detto che non volevo sapere niente, ma ciò non significava che non fossi curioso e che non potevo ascoltare, no?

Vidi Frank irrigidirsi ancora di più, un'espressione piuttosto nervosa e apprensiva sul volto. «Non sono rientrati? Gli avevo detto di non stare fuori più del necessario...»

Hayley si morse il labbro, stringendo al petto i fogli ingialliti che aveva in mano. «Vuoi che mandi fuori qualcuno...?»

Frank strinse e schiuse i pugni, rilasciando un lungo sospiro, mentre i suoi occhi per un attimo persero focus, riempiendosi di altri pensieri. «No,» disse alla fine, «aspettiamo fino a domani»

Hayley annuì piano, insicura, ma non disse altro. Si limitò a lasciare i fogli tra le braccia di Frank, mormorando un «Scartoffie per te» poi, mentre fece per andarsene, sollevò gli occhi verdastri su di me, aprendosi all'improvviso in una gran sorriso di denti straordinariamente bianchi. «E tu devi essere Jared, giusto?»

Preso alla sprovvista, mi accigliai e aprii la bocca per correggere il nome, ma lei ignorò il tentativo e sorrise sornione, mordendosi un labbro per non ridere e indicandosi la pancia con un movimento vago della mano. «Johann mi ha parlato di te. Era molto interessata alla tua cicatrice sugli addominali», detto questo si voltò e sparì, ancheggiando nei suoi attillati pantaloni beige.

Io, rigido come uno stecco, sbarrai gli occhi e guardai Frank, che aveva appena rubato il bicchiere a Andy. «Io voglio andare via da questo posto. Ti prego»

Lui bevve un sorso, si prese un istante per guardare la mia espressione sconvolta, poi scoppiò a ridere.

Andy, per tutta risposta, gli tirò una gomitata nelle costole e si riprese il bicchiere.

 

 

 

 

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Sì. Sì, è vero, sono una persona orribile.

L'avevo sospesa, non caricavo da febbraio, avete il diritto di insultarmi. Ma non riuscivo a legare particolari della trama, e ho avuto bisogno di un po' tempo per organizzare le idee e distrarmi con altro. E nonostante tutto, eccomi qui, con un capitolo insulso che ho scritto di notte, ma giuro che prima o poi le cose diventeranno un po' più interessanti, ma siccome tutta la situazione è molto complicata, persino io ho difficoltà a scrivere senza fregarmi da sola.

C'è una ragione se Frank si comporta così, se non vuole lasciarlo andare. Giuro che un giorno avrà tutto senso.

Spero di aggioranare presto questa volta, magari senza aspettare cinque mesi, ma ripogo buone speranze (?) Grazie per aver letto ed avermi sopportato, ci si vede!

Bye,

_Ashes

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