Navnløs - Nameless

di Morrigan_Ohlin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Lammelse - Paralysis ***
Capitolo 2: *** II. Regn - Rain ***



Capitolo 1
*** I. Lammelse - Paralysis ***


I. Lammelse - Paralysis
 
 
Il primo pensiero che mi afferra è l’abissale, terrificante certezza di essere morta.
Mi colpisce con una forza talmente inaspettata da svegliarmi.
Non so cosa abbia dato origine a quest’idea, dato che non credo di esserne io la fonte: o almeno, questo è quello che penso notando la luce che filtra attraverso le imposte semichiuse della mia camera. Potrebbe essere il fatto che dovrei smettere di leggere manuali di psicologia spicciola prima di andare a dormire, oppure dovrei imparare a gestire le mie posizioni notturne in modo da evitare di perdere sensibilità nelle gambe. Niente di insolito, in ogni caso.
Mi metto seduta, stirando la schiena, come al solito.
Come al solito, il gatto salta giù dal letto, con uno sguardo che comunica allo stesso tempo rimprovero e soddisfazione nel vedermi ancora respirare.
Come al solito, il cane, ancora sdraiato come una pelle d’orso, emette uno dei suoi grugniti, avvisandoci che sì, anche lui è sveglio, anche lui ha fame, anche lui è vivo.
Normale, confortante routine.
Scendo dal letto, mentre, i contorni della camera vanno delineandosi nel loro squallido vuoto… oppure, nella loro rassicurante assenza di stimoli, a seconda dei punti di vista.
C’è un certo calore nella luce biancastra e lattiginosa che viene da fuori: un calore malato, ma comunque soddisfacente. Qualcosa che mi fa ancora credere nell’esistenza di un sole, là fuori, che imperterrito sorge senza intoppi. Mi piace l’idea che esista un ordine prestabilito, nonostante il mio disordine; che vi sia un equilibrio, nonostante il mio costante penzolare dal lato sbagliato del mio baricentro.
I pensieri mattutini sono i peggiori, l’ho sempre sostenuto: e forse, sono tali perché più veritieri. Un po’ come i deliri prima del sonno, le follie silenziose che nessuno ascolta a parte il retro della mia mente, sempre così accondiscendente e prolifica quando si tratta di pensieri stupidi.
Il gatto si avvolge come un nastro di velluto nero attorno alle mie gambe nude, incurante del mio procedere strascicato verso il bagno. È una presenza che sarebbe ingiustificabile, se non fosse così perdutamente innamorato di me; così come il cane, perdutamente innamorato di me e delle stoviglie sporche che dimentico sempre sul tavolo della cucina.
Lo sfrigolio della lampadina del bagno decreta la mia condizione, implacabile. Sono un essere umano o qualcosa di molto simile, pronto ad onorare ed arricchire la sua gloriosa madrepatria attraverso il suo impiego perfettamente ordinato e ripetitivo; salvo poi nascondere l’onta della sua esistenza in un circolo di sedie ed alienati, che persone non ben identificate hanno deciso essere talmente simili a me da costringermi a condividere con loro il mio lato più vergognoso.
Come se detti esseri umani potessero trovare le mie esperienze di vita utili o interessanti.
C’è una certa presunzione in questo, una presunzione che non comprendo.
Mi lavo la faccia, e l’acqua fredda mi conferma che, se dipendesse da me, mi nasconderei in una buca nel terreno e lì consumerei i miei giorni contemplando quanto faccia schifo il mondo esterno e quanto faccia schifo il mio mondo interno, e quanto invece sia meravigliosa l’indifferenza che si portano l’un l’altro.
Evito il più possibile di rimirare il mio riflesso nello specchio: non per mancanza d’autostima – o forse sì –, ma piuttosto perché detesto la sua fissità e la vista dei miei capelli arruffati. C’è stato un tempo, secoli orsono, quando ancora condividevo le mie abitudini con qualcuno: e quel qualcuno era solito lodare la mia capigliatura definendola “un ginepraio ideale di borgogna, sangue e biondo Tiziano”. In realtà, io non vi ho mai visto altro che un ammasso di rovi marziani, il genere di capelli che hanno le persone che mangiano poco e si lavano spesso.
Mi è stato detto che tendo ad essere troppo severa con me stessa: ma i professoroni in questione hanno dimenticato che tale è il mio giudizio nei confronti della quasi totalità del genere umano. Come potrei minare quelle che sono le mie più radicate abitudini?
Mi hanno chiamata in tanti modi, e “misantropa” è uno degli aggettivi più altisonanti e gentili che mi abbiano mai affibbiato: ma non credo di detestare la razza umana. È piuttosto un fastidio, un bisogno repentino ma gestibile di grattarla via come una crosta – ed è questo il problema! Perché si ostina a rimanerti attaccata, nonostante tu gratti, e gratti, e applichi creme decantate da pubblicità tanto miracolose quanto inconcludenti.
È solo una lieve repulsione, quella che lentamente uccide ma che al contempo tiene in piedi un rapporto precario.
Parlo così, ma in realtà non ho idea di cosa sia un rapporto, precario o stabile che sia.
Non ne ho idea, perché tutto ciò che potrei annoverare nella lista dei miei rapporti umani si è rivelato un misero ammasso di nomi e sostantivi. Se prima potevano mantenere una parvenza di struttura, come abbozzi di un quadro impressionista, alla fine si sono rivelati per quello che erano: un guazzabuglio di colori chiassosi messi insieme senza nessuna consonanza.
Devo dire che apprezzo l’arte visuale, ma non quando questa si applica in maniera così sconsiderata al campo emotivo.
Alle volte, come ora, mi domando se mi sento sola: ma lo sguardo arcigno che lo specchio mi rivolge basta a darmi una risposta più che esaustiva.
«Basta cazzate.», mi impone lo specchio, con voce perentoria.
Sei un’adulta.
Sii produttiva.
Sii felice.
Sii normale.
Il gatto mi guarda interdetto, e ne ha tutte le ragioni.
Sento un leggero bruciore al braccio sinistro, che senza nessuna sorpresa vedo essere solcato da tagli irregolari e sangue bruno e rappreso.
Anche se mi sforzassi, non riuscirei a ricordarne l’origine: forse ho rotto un bicchiere, forse ho tradotto fisicamente un ricordo scomodo, forse il gatto ha deciso di sfogare sul mio braccio la frustrazione che cova nei confronti del mondo, che non l’ha mai amato per via del suo perenne raffreddore. In ogni caso, il risultato è piuttosto interessante e mi obbliga all’ennesima doccia.
Mi spiace solo per il cane, che mi guarda speranzoso dalla porta semiaperta, senza osare entrare in bagno come se fosse un tempio: la sua colazione dovrà attendere ancora un po’.
Sotto il getto d’acqua caldo, posso dimenticare di nuovo di essere viva.
 
 
*
 
 
 
 
 
 
Erano le ore 7:30 sulla East Coast, dove il sole sorgeva prima, gli scrittori si rifugiavano in cerca di un nascondiglio e Lars Christensen tastava alla cieca il comodino in cerca degli occhiali.
L’eco della sveglia non si era del tutto spenta, che già la moglie lo rimproverava di essere ancora a letto.
«Lars, in nome del cielo, sei un insegnante! Devi dare il buon esempio!»
L’uomo bofonchiò qualcosa in risposta, sottovoce, inforcando gli occhiali.
Elizabeth era già in piedi, fasciata da un elegante tailleur che esaltava la sua figura sensuale, e pettinava con una grazia affettata i lunghi capelli biondi. Lars si chiedeva spesso come sua moglie riuscisse ad avere tutte quelle energie, nonostante il lavoro e il costante sforzo di mantenersi perfetta: ma finiva sempre per scrollare il capo, senza capirla fino in fondo ed accettando il fatto che fosse lei il motore della famiglia.
Era sempre stato così.
Scese dal letto e prese a vestirsi, dandole le spalle.
«Sai, Liz, pensavo che potremmo andare al lago nel week-end…», propose nel mentre, schiarendosi la gola, ma non ricevette risposta.
Si voltò, ma la moglie era già scesa al piano di sotto, senza un rumore.
Lars rimase un istante in silenzio, in ascolto dei suoni della casa: le tazze di ceramica posate sul tavolo della cucina, i passi pesanti di suo figlio nelle scale, il vento autunnale che fischiava tra le tegole del tetto. Era un passatempo che lo rilassava, in un certo senso: almeno finché non si rendeva conto che stare in silenzio ed ascoltare era l’unica opzione che aveva. E allora la consapevolezza della sua condizione lo opprimeva.
Sospirò, infilandosi il maglione grigio che, inerte come un corpo addormentato, lo attendeva penzolando dallo schienale di una sedia. Si sporse verso lo specchio da toeletta della moglie, ravviando i capelli dall’indefinibile castano biondastro, nel tentativo di darsi un’aria quantomeno professionale. Al solito, questi gli ricaddero sulla fronte, con suo sommo disappunto.
Era stato un bell’uomo, da giovane, e sospettava che fosse stata questa la causa primaria che aveva spinto Elizabeth tra le sue braccia: ma a guardarsi in quel momento, quella mattina di Ottobre alle soglie del quarantaduesimo anno, tra le rughe sottili agli angoli degli occhi verdastri e quella più marcata tra le sopracciglia rade, gli pareva di essere lo stanco fantasma di se stesso.
Raddrizzò gli occhiali dalla montatura sottile, con un gesto oramai divenuto abitudinario.
Lars, in nome del cielo, sei un insegnante.
Già, lo era, in nome del cielo.
Diede un’occhiata alla fotografia appesa accanto allo specchio: lui ed Elizabeth, sorridenti e sorpresi da qualche parte nel Vermont. Di quel giorno di tanti anni prima ricordava solo la luce avvolgente e il sorriso di sua moglie, che danzava spensierata tra le foglie cadute.
Dubitava di aver mai visto quel sorriso sul volto di lei, prima di quel momento – o dopo.
Uscì dalla camera, richiudendo la porta alle sue spalle ed intrappolandovi dietro i suoi ricordi.
Nulla di buono veniva dal lasciarsi andare alla contemplazione di vecchie foto.
Nulla di buono.
 
 
«Jacob, finisci la tua colazione.»
Il ragazzo sollevò appena lo sguardo dal cellulare, lanciando a sua madre uno sguardo carico di rimprovero. «Non ho dieci anni.», replicò, acido.
La donna non ribatté, limitandosi a sorseggiare il suo caffelatte e a guardarlo dall’altro capo del tavolo. Ventidue anni di bionda pigrizia cronica, ecco cos’era Jacob Christensen.
Alla sua età, mai e poi mai avrebbe accettato di frequentare uno come lui. A nulla valevano le richieste, le implorazioni, le minacce: le uniche occupazioni di Jacob erano portare a zonzo i suoi ottantaquattro chili e spendere in modi discutibili il denaro che, a detta sua, guadagnava facendo favori a certi amici suoi. Null’altro.
Elizabeth fece spallucce, alzandosi per riporre la tazza vuota nel lavello.
Notò appena il marito salutare la famiglia, sedersi accanto al figlio e versarsi il caffelatte rimasto.
«Dunque, Jacob,», esordì Lars, rivolgendosi al ragazzo biondo, che non alzò neppure la testa.
«Ricordati di andare al supermercato per quel colloquio, ho parlato col direttore e…»
«Non credo ci andrò.», lo interruppe Jacob, in tono piatto.
A Lars andò quasi di traverso il caffelatte.
«Come… Come sarebbe a dire “non credo ci andrò”?», proruppe contrariato, tossicchiando. «Non sarebbe ora che ti trovassi un lavoro? Eh?»
Il ragazzo incrociò le braccia sul petto, squadrando il padre con aria di sfida.
«Ma io ho un lavoro.»
«Un vero lavoro, Jacob!»
«Lars, non alzare la voce.»
L’uomo ignorò la moglie, alzandosi in piedi.
«Jacob, è ora di finirla con questa storia.», continuò, col tono più autoritario che gli riuscì di trovare. «Tu oggi andrai al supermercato, farai il colloquio e…»
«No.»
Jacob lo guardava con una superiorità mista a sufficienza: gli si poteva leggere in faccia quanto considerasse suo padre patetico e privo di importanza.
«Invece andrai!», esclamò Lars, ora decisamente alterato. «È ora che tu la smetta di fare il parassita in casa nostra!»
«Lars, piantala!», gridò la moglie, prendendogli un braccio.
Anche Jacob si alzò, guardando il padre negli occhi: era quasi alto quanto lui.
«Altrimenti?», lo sfidò. «Che hai intenzione di fare, buttarmi fuori?»
Non diede all’uomo il tempo di replicare: girò i tacchi ed uscì dalla cucina, sbattendo la porta.
Lars rimase ad ascoltare i suoi passi avviarsi verso l’uscio e poi sul vialetto, fino a scomparire del tutto. Si voltò verso la moglie, che gli lasciò il braccio e gli piantò in viso una stilettata gelida.
«Complimenti, Lars.», sibilò la donna. «Lo hai fatto di nuovo.»
L’uomo si tolse gli occhiali, passandosi una mano sul volto.
«Dio santo, Liz, non è possibile che tu gliele dia tutte vinte…», disse, e in risposta la moglie si voltò e uscì dalla cucina, ad ampie falcate. Lars la seguì.
«Dimmi, cosa avrei dovuto fare?», le domandò, esasperato.
Lei lo ignorava, dandogli le spalle mentre si infilava le scarpe dal tacco alto.
«Ha ventidue anni, non studia, non lavora, niente!», continuò l’uomo.
«Gli ho trovato la possibilità di fare qualcosa, e ancora non basta! Cosa devo fare? Eh? Cosa?»
Elizabeth prese la borsa e la giacca dall’appendiabiti, le chiavi dal gancio accanto alla porta e finalmente, con un profondo sospiro di insofferenza palese, lo degnò di uno sguardo pregno di disprezzo.
«Non sta a me insegnarti ad approcciarti con tuo figlio.», disse, e con queste parole uscì di casa, chiudendo la porta in faccia al marito.
Fuori, le foglie cadute si agitavano in vortici convulsi, contro il cielo grigio.
 
 
 
*
 
 
Il Circolo Sociale sorgeva accanto al parco comunale come un maldestro monumento alla tristezza.
Più di un abitante di Grastonville lo considerava squallido e deprimente, nonostante gli sforzi del sindaco e dei volontari per renderlo un luogo accogliente e confortevole: e nessuno aveva una tale lusinghiera considerazione più di chi vi lavorava.
Vigeva una gerarchia ferrea all’interno del Circolo.
Al gradino più basso coloro che, in teoria, avrebbero dovuto beneficiarne: gli Alcolisti del lunedì, i Pervertiti del martedì mattina, i Disabili Generici quando capitava, gli Autistici Collaborativi del giovedì e il più ampio gruppo degli Alienati Indefiniti del venerdì pomeriggio. Sopra di loro, i volontari, angeli mancati che tentavano di mettere a tacere i loro personali sensi di colpa aiutando quei poveri sventurati, e gli psicologi che, menomati della possibilità di prescrivere, sottostavano al regime del Circolo come animali mansueti. Su tutti regnava con intransigente inflessibilità il dottor Kendrick, giovane e brillante psichiatra di appena trentasei anni. Non che presenziasse spesso alle riunioni, s’intende: aveva uno studio importante ad Augusta – non si poteva certo pretendere che un uomo del suo calibro perdesse tempo in un paesucolo come Grastonville! –, e faceva la sua comparsa soltanto di rado, soprattutto quando si trattava di giudicare se uno psicologo fosse idoneo o meno a far parte del Circolo.
Era uno di quei giorni straordinari, quel venerdì, quando Lars, titubante come se stesse entrando in un luogo sacro, fece ingresso nel Circolo per la prima volta dopo aver fatto domanda. Ad attenderlo, il dottor Kendrick in persona, elegantissimo ed impeccabile nel suo completo dall’aria costosa e col volto sorridente rasato di fresco. Odorava a distanza di successo e soddisfazione, come chi è abituato ad ottenere ciò che vuole senza sforzo: per questa ed altre ragioni Lars si sentì decisamente a disagio quando lo psichiatra gli tese la mano, per stringerla con vigore.
«È un piacere averla qui, dottor Christensen.», lo salutò Kendrick, affabile.
«Il piacere è mio, dottore.», replicò Lars, dissimulando la tensione.
Esaurite le formalità, lo psichiatra lo invitò a seguirlo.
«I pazienti sono già arrivati e la stanno aspettando.», disse, mentre attraversavano il corridoio dalle pareti imbiancate di fresco, rallegrate (o meglio, rese meno spoglie) dagli orribili quadri prodotti nell’ultima seduta di art therapy degli Alcolisti.
Kendrick si voltò a guardare il collega, soppesando con una certa commiserazione i suoi occhiali dalla montatura sottile, quei suoi abiti così tremendamente provinciali e l’andatura a tratti incerta: ma accennò comunque un sorrisetto.
«Sono certo che se la caverà egregiamente con loro.»
Lars annuì, più che altro per dare forza a se stesso.
Era risaputo che sostenere una seduta con gli Alienati Indefiniti fosse la prova più difficile per i nuovi arrivati: non perché questi fossero violenti o poco collaborativi, ma piuttosto perché Kendrick li teneva particolarmente in considerazione. Riabilitare gli Indefiniti, dare un nome alle loro psicosi spesso prive di una definizione, era il suo maggior vanto: per questo controllava personalmente le prime sedute dei nuovi psicologi, per accertarsi che nulla interferisse con il suo schema di diagnosi – terapia – guarigione assolutamente perfetto.
«Dunque, eccoci!», annunciò quando furono arrivati dinnanzi ad una porta chiusa, dipinta di un brillante azzurro cielo.
«C’è qualcosa che dovrei sapere prima di vederli?», domandò Lars, a bassa voce.
Il dottor Kendrick gli diede una pacca sulla spalla, con un risolino. «Nulla di cui deve preoccuparsi, stia tranquillo.», lo rassicurò.
Forse anche per la differenza d’età, Lars trovava quell’atteggiamento estremamente irritante. Si domandò se Kendrick fosse o meno uno psicopatico, e si sorprese essere particolarmente incline a rispondere affermativamente.
Lo psichiatra aprì la porta, distogliendo il collega dai suoi pensieri, e lo invitò ad entrare.
Lars obbedì.
La stanza era ampia e piuttosto spoglia, fatta eccezione per alcuni armadi contro le pareti e le sedie, quattordici in tutto, disposte a cerchio. Tranne un paio, erano tutte occupate. I pazienti si erano voltati a guardarlo, studiandolo silenziosamente con deliberata curiosità, come per metterlo sotto esame: tutti tranne una ragazza vestita di nero che, notò Lars, era rimasta immobile, a capo chino e col volto coperto da un mare di capelli rossi.
Si sentì afferrare per le spalle, e il dottor Kendrick lo presentò allegramente a quell’improbabile platea.
«Buongiorno a tutti! Questo signore è il dottor Christensen. Sarà lui a seguirvi d’ora in poi.»
Gli diede nuovamente una pacca sulla spalla, con un sorrisetto.
«Se supera la sua prima seduta, ovviamente.», aggiunse, sottovoce affinché solo Lars lo sentisse.
Qualcuno lo salutò, timidamente, e fu con più sicurezza che Lars prese posto su una delle sedie libere.
Kendrick fece altrettanto, incrociando le gambe con baldanza.
«Credo che un po’ di presentazione aiuterebbe a sciogliere il ghiaccio, non trova, dottore?», suggerì lo psichiatra. Lars annuì, per poi rivolgersi ai pazienti. La presenza di Kendrick lo innervosiva, ma decise di non lasciarsi vincere dalla sua influenza.
«Dunque… Come vi ha già detto il mio collega, il mio nome è Lars Christensen.», esordì, tentando di imprimere gentilezza e allo stesso tempo sicurezza nel suo tono. «E sono molto lieto di aver la possibilità di lavorare con tutti voi. Sono certo che…»
Una donna di mezza età, con la permanente e due penetranti occhi azzurri, alzò una mano.
«Lei non è americano, vero?», gli domandò, in tono inquisitorio.
Lars rimase un istante interdetto, non aspettandosi una domanda simile: ma sorrise alla paziente, nel risponderle.
«Sono nato ad Augusta, ma i miei genitori erano di Skagen, in Danimarca.»
La donna batté le mani, emozionata come una bambina.
«L’ho capito subito, sa? Perché anche i miei erano europei, norvegesi, dottore, di Bergen, e dico, si vede subito che lei non è del Maine, sono proprio contenta, dottore!»
«Sì, sì, molto commovente.», la interruppe Kendrick, tamburellando le dita sul bracciolo della sedia, visibilmente irritato. «Adesso Helga, calmati e siedi composta come gli altri.»
La donna obbedì, ricomponendosi, ma non perse la lucentezza che le si era accesa negli occhi.
Lars provò una certa simpatia nei suoi confronti.
«Bene, sarei molto lieto di sentire cosa avete da dire.», riprese, acquisendo scioltezza. «Parlatemi di voi, liberamente.»
Fu così che, con più o meno riserve, i pazienti iniziarono a raccontarsi: alcuni più ritrosi di altri, ma tutti molto più collaborativi di quanto Lars si aspettasse. Erano un gruppo estremamente eterogeneo: dalla signora Helga, che diceva di poter conversare col figlio morto durante la Guerra del Golfo, fino al macellaio che collezionava compulsivamente ossa di coniglio. Era come sentir parlare un serraglio di disturbi più o meno manifesti, che rendevano ansiosi, visionari o semplicemente bizzarri gli esseri umani che li ospitavano. Ascoltare veniva facile con loro, e di rimando la disponibilità di Lars dava loro fiducia, facendoli quasi orgogliosi delle loro patologie che li rendevano così degni di attenzione.
Ci volle quasi un’ora affinché i racconti dei pazienti si fossero esauriti.
Lars era estremamente compiaciuto, e fu con soddisfazione che constatò che solo una paziente non aveva ancora preso la parola: la rossa che non lo aveva guardato appena entrato, che stava ancora a capo chino, le braccia incrociate. La studiò meglio, con una certa curiosità: pareva di statura media, sebbene la posa leggermente incurvata la facesse apparire più piccola; ma sicuramente erano i capelli il suo tratto più degno di nota, una cascata di onde ramate arruffate come una criniera che le scendevano fino al centro della schiena.
Si sporse verso Kendrick, chiedendogli il nome della ragazza.
Lo psichiatra scosse la testa.
«Non vuole essere chiamata per nome.», gli rispose, sottovoce. «Credevamo fosse affetta da mutismo selettivo, dato che non diceva una parola se interpellata col suo nome di battesimo. Quindi, ho dovuto dargliene un altro per comunicare con lei.»
Ignorò lo sguardo stranito di Lars e si rivolse direttamente alla ragazza, in tono disinvolto.
«Coraggio, Ginger, non vuoi partecipare alla nostra chiacchierata?»
Lei alzò lentamente la testa, e i capelli le ricaddero sulle spalle. Non poteva avere più di ventidue, ventitré anni.
Lars poté finalmente vederla in viso, e la trovò di una bellezza straziante e terribile. Non per una qualche disarmonia nei suoi lineamenti, che anzi valutò essere piuttosto gradevoli: bensì, per alcuni dettagli che, sul suo volto, facevano quasi impressione. Come la sua pelle, di un pallore insalubre, che, tirata sulle ossa degli zigomi e della mascella, in alcuni punti si faceva quasi traslucida, in altri arrossata come per una febbre. Oppure le sue labbra, carnose e dal disegno elegante, ma screpolate e poco curate; o ancora le ombre violacee delle occhiaie, che le davano un’aria spettrale.
Sembrava una donna di fine ‘800, che moriva lentamente consumata dalla tisi mentre un pittore implacabile eseguiva il suo ritratto. Eppure, nonostante la sua aria fragile e malaticcia, lo sguardo che scoccò a Kendrick fu assolutamente risoluto, mentre le sue labbra si torcevano in un ghigno sarcastico.
«La sua fantasia mi sconcerta ogni volta, dottor Kendrick.», esclamò, beffarda.
Poi si rivolse a Lars, che ancora la guardava rapito.
«Credo che farebbe meglio a sciogliere questo allegro consesso, dottore, dato che nulla verrà dalla sottoscritta.»
L’uomo si riscosse.
«Suvvia, non dire così.», fece, accomodante. «Trovo che, come tutti, anche tu abbia sicuramente qualcosa da dire che valga la pena ascoltare.»
La ragazza inclinò la testa di lato, guardandolo divertita.
«Dottore, non le consiglio di tentare di nutrire il mio ego.», replicò. «Ho da un bel pezzo superato il bisogno infantile di appagamento.»
Il suo tono era volutamente indisponente, come se stesse trattenendosi dal ridere.
«Nondimeno,», ribatté Lars, cordialmente. «ritengo che, in quanto essere umano, la condivisione sarebbe per te d’aiuto…»
Lei sogghignò.
«Quanto è aristotelico. E ingenuo.»
«Perché dici questo?»
«Cosa le fa pensare che io sia come gli altri?»
Raccolse le gambe sulla sedia, circondandole con le braccia: le sue mani, con le loro dita sottili e affusolate, parevano esser state plasmate nella cera.
Rivolse allo psicologo uno sguardo penetrante, come se volesse ipnotizzarlo.
«”Chiunque tragga piacere dalla solitudine, altro non è che una bestia selvatica o un dio”.», declamò, solennemente. Lars conosceva la citazione, ma rimase comunque di stucco: nessuno l’aveva preparato all’eventualità che la sua prima seduta si sarebbe rivelata sede di una disquisizione filosofica.
«Dunque, se ciò è vero,», replicò l’uomo, incrociando le braccia sul petto. «Tu cosa sei? Una divinità o una bestia?»
La ragazza sbuffò, rovesciando la testa all’indietro.
«E lei, dottore? Lei che cos’è?»
«Sono piuttosto certo di poter venire considerato nel novero degli esseri umani.»
Lei rimase in silenzio un istante, poi si alzò in piedi, bruscamente: i suoi occhi trasudavano un disprezzo feroce, che ferì intimamente Lars, ma gli angoli della sua bocca erano sollevati in un sorrisetto sarcastico.
«Ma certo!», proruppe, in tono stridulo. «Ci si poteva aspettare altra risposta da uno come lei?»
L’uomo la guardò stupefatto, ma senza scomporsi. «Cosa intendi con “uno come lei”?»
La ragazza scoppiò in una risata fredda, di pura derisione.
«Oh, per favore!», esclamò. «Non si vede allo specchio la mattina? Non ha la percezione di se stesso, lì, su quella sedia, che si racconta cazzate esattamente come noi altri rifiuti?»
Gli puntò un dito contro.
«Io li conosco, quelli come lei.», continuò, implacabile. «Voi psicologi diventati tali perché non potevate permettervi una laurea in psichiatria, voi patetici padri di famiglia, grigi e tristi, che vi disperate perché non sapete neppure parlare con i vostri figli… E allora, che fate? Cercate conforto nella spazzatura come noi, tanto per sentirvi superiori, tanto per sentire qualcosa
Lars era impallidito, ma non replicava, deciso a vedere fino a che punto sarebbe arrivata: ostentava imperturbabilità, ma le parole di lei gli si conficcavano nella carne come coltellate.
«Tutti uguali, tutti voi. Vi fate schifo per quello che non siete mai riusciti a fare, perché siete sempre stati dei codardi: ma anziché cambiare qualcosa fate finta di niente, che vada tutto bene… Lavorate come schiavi per gente che detestate, diventate fanatici di una squadra o di un dio, e non toccate più vostra moglie perché vi siete dimenticati come si fa…»
Il tamburellare delle dita di Kendrick si fece nervoso, sul legno del bracciolo.
«Ginger, adesso basta.», sbottò, spazientito. «Siediti.»
Lars gli fece segno di lasciarla continuare, mentre la ragazza, lanciata nella sua invettiva, non dava segno di averlo sentito.
«Siete esseri ridicoli, ridicoli. Cosa pretendete di insegnarci? A vivere? Voi? Ahahah!»
Scosse la testa, guardando Lars con una compassione simulata.
«Cosa pretende di insegnarmi, dottore?», gli domandò, avvicinandosi a lui e riducendo la voce ad un sussurro. «Lei non sa vivere. Lei non sa fare niente. A parte mentire a se stesso.»
Lars si alzò di scatto, cogliendola di sorpresa: la superava di tutta la testa e, per la prima volta, sotto il suo sguardo fattosi gelido, la ragazza ammutolì. Erano talmente vicini che, se si fosse chinato, le avrebbe potuto sfiorare la punta del naso.
«Allora vattene.», le ordinò l’uomo, glaciale.
Rimasero immobili per qualche istante, in una sfida silenziosa di volontà opposte, mentre l’aria nella stanza si caricava di tensione e gli astanti attendevano col fiato sospeso. Fu la ragazza a cedere: distolse lo sguardo da lui, interrompendo il contatto, e senza una parola gli voltò le spalle.
Lars rimase a guardarla mentre si dirigeva verso la sua sedia vuota, e non protestò quando passò oltre, per sedersi in fondo alla stanza accanto alla finestra che dava sul parco. Solo in quel momento, quando lei si volse risolutamente verso il vetro appannato per la condensa, lo psicologo seppe di aver vinto. Tornò a sedersi, e fu con un sorriso sereno che si rivolse ai pazienti.
«Dunque, sono molto contento che questa seduta si sia svolta nel migliore dei modi.», disse, come se nulla fosse accaduto. «Spero che ciò di cui abbiamo discusso oggi aiuti a creare un clima di fiducia e rispetto reciproco. Giusto, dottor Kendrick?», domandò poi al collega, che lo guardava sottecchi, le sopracciglia corrugate come se fosse impegnato a valutarlo.
«Ma certo, ma certo.», concordò, distrattamente, concentrato sul altri pensieri.
Non era mai capitato che uno dei nuovi riuscisse a gestire “Ginger” e i suoi attacchi di cattiveria.
Se Christensen aveva avuto intenzione di sorprenderlo, c’era riuscito in pieno.
Fuori dalla finestra, sotto lo sguardo contrariato della ragazza, il cielo si scioglieva nella pioggia, lieve come il pianto segreto di un uomo vecchio e stanco.
 
 
*
 
*

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Capitolo 2
*** II. Regn - Rain ***


II. Regn - Rain


«Devo ammetterlo, mi ha stupito, dottor Christensen.», disse Kendrick, le braccia dietro la schiena mentre guardava fuori dalla finestra. «E le assicuro che capita molto di rado.»
Anche Lars era affacciato al vetro, e non si voltò a guardare il collega nel rispondergli.
«La ringrazio, dottore.»
Fuori, gli Indefiniti stavano uscendo dal Circolo, in un drappello colorato di ombrelli sotto la pioggia: parevano bambini fuori da scuola, ansiosi di lasciarsi la lezione alle spalle, che si godevano quello sprazzo di libertà tra risate scroscianti e passi frettolosi.
«Quella ragazza…», fece Lars, dopo un istante di silenzio. «Come l’ha chiamata, Ginger…»
Il collega ridacchiò, scuotendo lentamente la testa.
«Non pensi troppo a ciò che le ha detto.», ribatté, dandogli un colpetto sulla spalla. «Le prime volte è così gentile con tutti. Anzi, le faccio i complimenti per come le ha tenuto testa.»
«Borderline?»            
«È stata a lungo anche la mia ipotesi. Ma, stranamente, è uno di quegli eccentrici casi umani che si lasciano mangiare vivi dal senso di colpa.»
Lars non replicò, mentre il suo fiato si trasformava in condensa, appannando il vetro.
«Tengo molto a tutti loro.», continuò Kendrick, con una nota di tenerezza nella voce. Ed era vero: provava un attaccamento particolare nei confronti degli Indefiniti, con le loro patologie bizzarre, lo stesso affetto compassionevole che suscitano i randagi al bordo delle strade.
Si volse verso Lars, rivolgendogli un sorriso sbilenco. «Almeno so di lasciarli in buone mani.»
Lo psicologo accennò un ringraziamento, per poi tornare a guardare fuori. Gli Indefiniti erano quasi tutti scomparsi, come disciolti dalla pioggia o sublimati nella nebbia leggera che avvolgeva il terreno. Un Ottobre in piena regola.
«Molto bene.», esclamò Kendrick, sfregandosi le mani. «Ora devo proprio andare. Ho molto lavoro da sbrigare.»
Tese una mano verso Lars, e strinse la sua con entusiasmo. «È stato un piacere.»
Uscì dalla stanza, e non appena l’eco dei suoi passi scomparve, Lars si trovò in un limbo silenzioso.
Lasciò vagare lo sguardo lungo le pareti, su quei libri abbandonati sugli scaffali, sulle sedie disposte secondo un’orbita irregolare. Ne prese una e vi si sedette, lentamente, come se temesse di disturbare il silenzio con un movimento troppo brusco: intrecciò le dita sotto il mento, chinato in avanti, e così rimase, meditabondo. La luce biancastra che proveniva dalla finestra alle sue spalle disegnava sul pavimento un’ombra irregolare e distorta, dai contorni quasi animaleschi.
Ginger. Che soprannome banale.
Si tolse gli occhiali, sfregandosi lentamente gli occhi come se improvvisamente si sentisse molto stanco. Kendrick poteva tentare di rassicurarlo quanto voleva, con quella sua parlantina affettata da direttore di banca: non si sarebbe mai aspettato nulla di simile. Non un tale accanimento, non una simile cattiveria gratuita: non da una creatura all’apparenza così delicata, quasi friabile.
Lei non sa vivere. Lei non sa fare niente. A parte mentire a se stesso.
Quelle parole gli risuonavano nella mente con una forza tale da fargli credere di udirle davvero, in un riverbero crudele che si agitava da una parete all’altra, amplificato.
Inforcò nuovamente gli occhiali, alzandosi bruscamente e facendo cadere la sedia. Il rumore che ne scaturì parve assordante, squarciando l’aria come un tuono. In tutta fretta, rimise in piedi la sedia caduta, vergognandosi profondamente come se qualcuno lo stesse osservando: poi prese la giacca e l’ombrello, abbandonati in un angolo accanto alla porta, ed uscì, quasi correndo.
 
*
 
 
La carezza leggera della pioggia sul mio viso è qualcosa di simile ad un battesimo.
Chiudo gli occhi, reclinando la testa per meglio riceverla, ascoltando il suo scrosciare su di me come una cascata di note struggenti.
Alle mie spalle, il Circolo – il mondo antropico – pare talmente irreale… Un brutto disegno a china su un foglio umido. In questo momento esistiamo solo noi, io e il cielo, io e gli alberi del parco che si stringono attorno a me con i loro lenti, profondi sospiri.
Se ascolto con attenzione, posso udire la linfa scorrere sotto la loro corteccia.
Sento le foglie cadute cantare un peana d’addio ai rami abbandonati.
Sento le nuvole rincorrersi, con strida di gabbiani.
Non temo il freddo che già si fa strada nelle mie ossa.
Non temo l’umidità, che mi costringerà a giorni e giorni di bronchite. Dimentico di avere un corpo di carne, e non di muschio e terriccio.
È uno dei miei rari momenti di idillio, che mi fanno sperare ancora in una possibile redenzione.
Uno dei brevi istanti che mi rendono lieta di esistere.
 
 

La pioggia batteva insistente sull’ombrello di Lars, che, uscito dal Circolo, con passo svelto si dirigeva verso la strada.
Abitava poco lontano, ma l’idea di dover camminare con quel tempaccio non gli sorrideva affatto. Stringendosi nella giacca, svoltò a destra, seguendo il marciapiede e costeggiando il parco e gli alberi che, strappati alla natia foresta poco distante da Grastonville, in quel momento apparivano particolarmente minacciosi.
Aveva mosso qualche passo, quando qualcosa tra i tronchi attirò la sua attenzione.
Si fermò, per guardare meglio, e vide un’inconfondibile figura in nero, che, immobile, gli dava le spalle.
Era senza ombrello e la pioggia scorreva impunemente sul suo capo fulvo.
“Ginger”.
Lars non ci pensò due volte e corse verso di lei: non poteva stare così, si sarebbe presa un malanno!
A breve distanza da lei si fermò: rimase un istante alle sue spalle, indeciso sul da farsi. La ragazza non dava segno di averlo sentito: aveva il capo reclinato verso il cielo, una mano posata sul tronco di un albero, e ne carezzava lentamente la corteccia, come presa da un sogno diurno.
Lars si schiarì la gola. «Ehm… Ginger? Perdonami, non voglio disturbarti, ma…»
Lei non rispose né reagì in alcun modo.
Lars si avvicinò ancora, sicuro che il suoi passi incerti sul manto di foglie l’avrebbero fatta sobbalzare: ma questo non accadde, e lei rimase nella stessa posizione, senza un fremito.
«Ti verrà la febbre a star sotto l’acqua in questo modo…», insisté l’uomo, e allungò una mano per sfiorarle una spalla.
Il suo gesto spezzò l’incantesimo.
La ragazza emise grido soffocato e si voltò di scatto, come se si fosse bruciata: la sorpresa nel trovarsi Lars di fronte fu tale che quasi cadde all’indietro.
«No, ti prego, non fare così…», la implorò l’uomo, avanzando di un passo verso di lei mentre la ragazza indietreggiava.
Nei suoi occhi vi era un miscuglio tremendo di panico e odio disumano, mentre lo guardava ansante come un animale terrorizzato.
«Volevo solo ripararti.», continuò Lars, tentando di calmarla.
«Non mi tocchi mai più!», gridò lei, incespicando.
Lars alzò una mano, in segno di resa.
«Va bene, non ti tocco, va bene.», sussurrò. «Ma voglio solo aiutarti. Te lo giuro, solo questo.»
Lei si fermò, gli occhi ridotti a due fessure.
«Non ho bisogno di nessun aiuto.», sibilò. «Se ne vada, dottore.»
«Non posso farlo.», replicò l’uomo. Tese l’ombrello verso di lei, riparandola, incurante della pioggia che iniziò a riversarsi sul suo capo. «E tu non devi fuggire per forza.»
La ragazza incrociò le braccia: i suoi occhi si spostavano rapidamente dall’ombrello sopra la sua testa al volto di lui, alle gocce di pioggia che gli rigavano gli occhiali. Poi, sbuffando, si avvicinò lentamente a Lars, che, ben attento a non toccarla, sistemò l’ombrello in modo da riparare entrambi.
«Così va meglio.», constatò, sorridendo. Studiò per un istante la ragazza, i riccioli bagnati sparsi sulle sue spalle come alghe lasciate dal mare sulla battigia: a vederla così, fradicia e tremante per il freddo, gli parve simile ad un cucciolo abbandonato. Provò la tentazione di abbracciarla, per scaldarla col calore del suo corpo: ma si trattenne. «Ti accompagno a casa.»
Lei si strinse nella giacca fradicia e rabbrividì, mentre tornavano sul marciapiede.
Lars notò la cosa e si tolse la sciarpa di lana grigia che portava al collo.
«Tieni questa.», le propose, porgendole la sciarpa. «Almeno non prendi freddo alla gola.»
La ragazza lo guardò con le sopracciglia aggrottate, sospettosa.
«Coraggio, prendila.», insisté l’uomo, divertito, come se parlasse ad un animaletto riottoso. «Non c’è bisogno di guardarmi così, è solo una sciarpa.»
Lei si morse il labbro inferiore e, titubante, la prese e se la avvolse attorno al collo. La sistemò con cura anche attorno al mento e sulla bocca, per meglio ripararsi dalla brezza pungente: e l’odore di lui, non contaminato da fragranze dozzinali e commerciali, le solleticò le narici.
Era inaspettatamente gradevole, e per qualche motivo le ricordava il profumo dei mirtilli appena colti.
Mormorò un ringraziamento, la voce attutita dal tessuto.
«Figurati, non c’è problema.», la rassicurò Lars. «Dove abiti?»
La ragazza indicò una biforcazione, proprio davanti a loro. Qualche macchina passava in quel momento, fendendo l’asfalto in tutta fretta come per sfuggire ad un invisibile inseguitore.
«Sempre dritto fino a Jackson Street, poi subito a sinistra.», rispose lei, in tono asettico ed evitando con ostinazione lo sguardo di Lars mentre attraversavano la strada.
Era palese che fosse in preda ad un conflitto interiore, e pur rimanendo sotto l’ombrello tentava di mantenersi il più possibile distante dall’uomo.
«Se ciò che è accaduto al Circolo ti mette a disagio, puoi stare tranquilla.», disse lui, senza guardarla direttamente. «Non è successo nulla per cui dovresti preoccuparti.»
«La fa semplice, dottore.», replicò lei, adombrandosi.
Lungo il marciapiede sfilava un viavai di esseri umani di ogni sorta, che, protetti da ombrelli variopinti, si affrettavano ai loro doveri quotidiani con stampato in volto il marchio della routine. Donne dall’aria afflitta con in braccio sacchetti di carta ricolmi, adolescenti più o meno coscienti di essere nel fiore degli anni, anziani con il loro carico di tempo sulle spalle che guardavano il mondo col medesimo disprezzo che portavano verso loro stessi: un’umanità tragica, che sotto la pioggia assumeva una lucentezza singolare, un odore più autentico.
«E non capisco perché lei è così gentile con me, dopo quello che le ho detto.», continuò la ragazza.
«Certamente non è stato piacevole.», ammise Lars, evitando una pozzanghera. «Ma credo sia stato terapeutico per te, e questo è l’importante.»
Lei non replicò, lo sguardo concentrato a terra.
«Anche se devo essere sincero,», continuò Lars, lanciandole un’occhiata d’intesa. «Il nome che ti ha dato il dottor Kendrick è davvero orribile.»
Studiò un istante la reazione della ragazza, gioendo internamente nel vederla sorridere appena, seminascosta dalla sua sciarpa.
«È un uomo con troppa ambizione e nessun sentimento, non trovi?»
Lei annuì, in silenzio.
Percorsa che ebbero l’intera via, piegarono a sinistra, verso un quartiere di prefabbricati dall’aria linda e modesta. I loro passi sul marciapiede parevano quasi non far rumore, come se attraversassero una dimensione parallela sospesa tra la nebbia e le nubi.
«Non ti chiederò quale sia il tuo vero nome, comunque.», continuò Lars. «Né perché tu non vuoi sentirti chiamare con esso. Non adesso, almeno.»
La ragazza si voltò a guardarlo, bloccandosi improvvisamente.
«Perché no?», gli domandò, in tono sospettoso.
Lui approfittò della pausa per togliersi gli occhiali appannati e pulirli con un fazzoletto.
«Non voglio trasformare questa piacevole passeggiata in una seduta.», replicò, sorridendo e inforcando nuovamente gli occhiali.
«Tuttavia dovrò chiederti come preferisci che io ti chiami.»
Lei parve stupita e lo guardò come se avesse pronunciato un’eresia.
«Solo per comodità.», aggiunse Lars, in tono rassicurante. «Qualcosa al quale rispondi volentieri.»
La ragazza distolse lo sguardo, tirandosi la sciarpa fin sul naso: Lars notò che aveva le dita arrossate per il freddo, e la pelle attorno alle unghie era come mangiucchiata.
Rimasero in quella posizione, l’uno davanti all’altra e immobili sotto l’ombrello, per un minuto che parve eterno: poi la ragazza tornò a guardarlo, puntandogli in viso quei suoi occhi dal colore sporco, indefinibile. Mormorò qualcosa, ma a voce talmente bassa che l’uomo non intese una parola.
«Perdonami, ma non ti ho sentito.», le disse, arrischiandosi ad avvicinarsi impercettibilmente a lei.
La ragazza lo guardò ancora, con espressione indecifrabile: poi si alzò sulle punte, sporgendosi verso l’orecchio destro di Lars. Lui si chinò appena, per paura anche solo di sfiorarla, ignorando il solletico che i capelli della ragazza gli procuravano, carezzando la pelle nuda del suo collo.
«Ho detto, lo scelga lei, dottor Christensen.», sussurrò lei, per poi ritrarsi immediatamente e nascondere di nuovo il viso nella sciarpa grigia.
L’uomo sorrise, incurvando leggermente gli angoli della bocca. «Se è questo che desideri.»
La ragazza annuì.
«Abito lì.», lo informò poi, indicando il penultimo caseggiato, a breve distanza da una pensilina degli autobus.
Percorsero in silenzio i metri che li separavano dall’abitazione, entrambi concentrati sui propri pensieri. La pioggia parve aumentare la sua forza quando raggiunsero il numero 23, portata da folate di vento gelido che li fecero rabbrividire.
Eppure, neanche una volta si sfiorarono.
Arrivati che furono, la ragazza estrasse da una tasca della giacca un mazzo di chiavi e ne infilò una nella toppa della porta.
Dall’interno della casa si sentiva chiaramente provenire l’abbaiare festoso di un cane di grossa taglia.
«Si chiama Thor.», disse lei, senza che l’uomo avesse posto alcuna domanda. «Anche lui è scandinavo.», aggiunse, voltandosi a guardare Lars. «Come lei.»
L’uomo sorrise. «Sono certo che almeno di lui ti fidi.»
«Sì.»
Si tolse la sciarpa dal collo, porgendogliela senza una parola: poi gli diede le spalle e girò la chiave, socchiudendo la porta con l’intenzione di entrare.
«Astrid.»
La ragazza si fermò, sulla soglia, per poi voltarsi a guardarlo perplessa.
«Come ha detto…?», domandò.
«Astrid.», ripeté Lars. «È il nome con cui ho scelto di chiamarti. Ti piace?»
Lei rimase un istante sovrappensiero, la mano destra infilata tra lo stipite e la porta: finché gli rivolse uno sguardo più benevolo di quanto avesse fatto in tutto il pomeriggio.
«Sì. Mi piace.»
Lars dovette contenere la sua felicità.
«Perché questo nome?»
Lui fece un sorrisetto. «Ogni cosa a suo tempo.», rispose, enigmatico.
Ma alla ragazza parve bastare.
«Le consiglio di sbrigarsi.», mormorò, indicando alle spalle di lui il cielo sempre più scuro. «Sta per arrivare una tempesta.»
Lars guardò dove lei aveva indicato, e quando si voltò verso la porta la trovò chiusa.
La ragazza era scomparsa, come inghiottita silenziosamente dalla casa.
Sentì tirare il chiavistello all’interno, e si rammaricò di non averla potuta salutare.
Fece dietrofront e tornò sul marciapiede: prima di allontanarsi, però, si voltò verso il numero 23, simile ad una casa delle bambole dalla vernice bianca scrostata, abbandonata al bordo della strada. Credette di vedere una figura alla finestra, con un animaletto – probabilmente un gatto – in braccio: la guardò scostare appena le tende, per sbirciare fuori, prima di decidersi a lasciarla alle spalle e andarsene.
Sopra la sua testa, oltre l’ombrello, oltre il crescente ticchettio della pioggia, legioni di nere nubi temporalesche si inseguivano senza sosta nel cielo di Ottobre.
 
*

 

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