Bleeding out (for you)

di aturiel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lonliness in your smile ***
Capitolo 2: *** Darkness in your mind ***
Capitolo 3: *** Emptyness in your soul ***
Capitolo 4: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Lonliness in your smile ***





01. Lonliness in your smile

 
I'm bleeding out
Said if the last thing that I do
Is to bring you down
I'll bleed out for you
So I peel my skin
And I count my sins
And I close my eyes
And I take it in
And I'm bleeding out
I'm bleeding out for you (for you)”


La rabbia di un secondo e Alan vide Gilbert prendere la bottiglia che aveva in mano e sfracellarla contro il muro al suo fianco. Schegge di vetro volarono ovunque, tintinnando sul pavimento e graffiando i suoi piedi nudi. Poi ci fu un urlo quasi animalesco e tutto tacque.
Alan scattò in avanti, sfilando dalle dita tremanti dell'altro ciò che rimaneva della bottiglia di vetro e accogliendo il suo corpo fra le braccia. Dov'era finita tutta la sua forza? Dov'era la violenza? La rabbia era scoppiata in un attimo e, nello stesso arco di tempo, se n'era andata. Ora tutto ciò che rimaneva di Gilbert era fra le calde dita di Alan, e sarebbe toccato a lui metterne a posto i pezzi.
Ed eccolo lì, Gil: il capo chino sulla sua spalla, le braccia deboli, gli occhi aperti contro il suo maglione, le gambe che cedevano e nessuna memoria del motivo per cui si fosse sentito così arrabbiato. Un attimo prima era tranquillo, quello dopo gli era parso di scoppiare. Aveva quindi dovuto esternare ciò che era di troppo nel suo animo e ridurlo a brandelli, strappandolo e gettandolo via come fosse un foglio di carta. L'unica cosa che lo manteneva in piedi erano le braccia accoglienti di Alan che, premuroso, di nascosto allontanava con la punta delle scarpe le schegge da vicino i suoi piedi.
«Vado a dormire» sussurrò improvvisamente Gilbert, la cui voce uscì leggermente soffocata dalla stoffa su cui aveva appoggiato il viso.
«Su, vai» gli rispose Alan.
Gilbert si staccò dal suo abbraccio e, silenzioso, se ne andò a dormire.

Alan era a dir poco imbestialito: il suo compagno di stanza non si svegliava, nonostante lo stesse chiamando da oltre venti minuti, e lui stava per arrivare in ritardo a lezione per colpa sua. Ma era possibile che proprio quando avevano un test decidesse che il letto era diventato il suo migliore amico?
«Dai, Gil! Sono le otto meno un quarto!» gli urlò in un orecchio.
Solo in quel momento Gilbert diede segni di vita ma, invece di scattare in piedi come Alan avrebbe voluto vedergli fare, si raggomitolò ancora più su se stesso. Alan quindi sospirò rassegnato e gli strappò il cuscino da sopra la testa.
«Gilbert, abbiamo matematica fra un quarto d'ora! Datti una mossa o ti lascio qui» gli urlò nuovamente nell'orecchio.
«Lasciami qui» mugolò l'altro, coprendosi gli occhi con le mani.
Alan sbuffò: sì, avrebbe potuto lasciarlo lì, avrebbe dovuto lasciarlo lì, ma sapeva che non l'avrebbe mai fatto. Afferrò i lembi della coperta e lo scoprì completamente. L'altro per tutta risposta lo mandò a quel paese, ma dopo poco si alzò.
Bastarono dieci minuti perché Gilbert fosse pronto e uscisse dal bagno, vestito con uno dei suoi cinque – o erano dieci? – maglioncini larghi neri, i jeans stretti ma non troppo – perché altrimenti gli facevano “soffocare le gambe”, come diceva lui – e le scarpe che avrebbero potuto visitare l'immondizia il giorno seguente. I capelli biondo cenere erano in uno stato pietoso, tutti scompigliati e un po' sporchi, mentre gli occhi azzurro slavato erano contornati dalle solite occhiaie scure che nemmeno dopo tre giorni di sonno consecutivi sarebbero andate via.
Ed ecco a voi, signore e signori, Gil in tutta la sua bellezza, pensò sarcastico Alan.
«Era ora. Su, scendiamo» disse all'amico che intanto aveva iniziato a sbadigliare.

«È ufficiale: quest'anno non lo passo» esclamò Gilbert appena consegnato il test di matematica fra le mani di quell'arpia della Thomson, sedendosi rumorosamente al suo fianco.
Alan alzò le spalle. Tanto diceva sempre così, ma poi i suoi voti erano altissimi: Gilbert era il classico genio che non studia nulla e riesce ugualmente in tutto ciò che fa, e Alan per questo lo invidiava da morire. Lui doveva sempre studiare come un matto per rimediare una dignitosa B.
«Sta' zitto, Gil, che tanto prenderai il massimo come al solito».
Gilbert sorrise a quelle parole, e Alan non poté far a meno di sorridere a sua volta. Era bello Gil, quando sorrideva; pareva quasi che illuminasse tutto ciò che lo circondava, che le sue occhiaie scomparissero, che gli occhi azzurri che sembravano sempre vacui e vuoti diventassero dolci e caldi. I suoi capelli in pessimo stato passavano addirittura in secondo piano e anche il tuo corpo eccessivamente magro non era più importante, quando piegava le sue labbra piene e carnose all'insù. Era un vero peccato che lo facesse raramente.
«Oggi pomeriggio che fai, Al?» gli chiese improvvisamente Gilbert, guardando un punto imprecisato di fronte a sé.
«Cosa vuoi che faccia, Gilbert? Me ne starò chiuso in camera» rispose sconsolato Alan.
Il fatto era che sia lui che Gilbert erano restati invischiati fino all'anno precedente con un gruppo di ragazzi – fra l'altro ben poco raccomandabili – di un anno più grandi di loro e, ora che quelli si erano diplomati, si erano trovati improvvisamente senza alcun rapporto sociale che non fosse quello fra loro, cosa che si stava facendo sempre più difficile da sopportare.
«Potremmo chiedere a qualcuno di andare a fare un giro» disse l'altro, mantenendo sempre lo sguardo distante.
«Potremmo, sì» rispose Alan, anche se sapeva che, alla fine, non si sarebbero mossi da quel buco che era il loro appartamento in affitto.
Se solo Gilbert fosse più semplice da gestire... pensò Alan con un sospiro.

Erano le cinque del pomeriggio e Alan era, come previsto, sdraiato sul letto che leggeva un libro mentre al suo fianco Gilbert strimpellava la sua chitarra. Non si rivolgevano la parola da quasi due ore e mezza, ma a nessuno dei due pesava questa situazione e, anzi, Alan era quasi felice del silenzio fra loro. Allo stesso tempo, però, avrebbe desiderato sentire la voce di Gilbert uscire – roca ma sottile – da quelle labbra carnose che si ritrovava e, invece di ascoltarlo passare le ore a mettere di fila accordi senza un vero senso, cantare qualcosa di bello. Infatti era più di un anno e mezzo che Gilbert non intonava una singola nota accompagnato dalla sua chitarra, senza un motivo valido.
Ad Alan mancava terribilmente sentirlo cantare, seduto sull'angolo del letto a gambe incrociate e con il suo fido strumento poggiato sulle ginocchia, e gli mancava sentirlo bisbigliare durante le lezioni, canticchiare al mattino, urlare sotto la doccia. Non c'era mai stata una vera ragione per cui avesse smesso di farlo, ed era proprio di questo che Alan non si capacitava: era convinto che Gilbert fosse tenuto in vita dalla sua stessa voce e da quella chitarra con le corde usurate, che fosse solo questo a donargli un precario equilibrio. Perché, quindi, non cantava più? Non c'era stato nessun trauma, nessun impegno che lo tenesse occupato così a lungo, nessuna noia, nessun problema di salute... e allora perché?
«Sono stanco».
Il flusso di pensieri di Alan venne bruscamente interrotto dalla voce di Gilbert, ma allo stesso tempo fu proprio la sua voce – come sempre nella sua vita, d'altronde – a dare una risposta a tutto: la stanchezza. Gilbert era stanco, non faceva che essere stanco, non riusciva a far altro che stramazzare sul letto alla fine di ogni giornata come se avesse vissuto una vita intera e non solo poco più di diciotto anni.
«Vai a dormire, allora» gli consigliò Alan, spostando lo sguardo su di lui. Era davvero stanco, non stava mentendo: gli occhi erano annebbiati, le occhiaie terribilmente scure e le membra deboli.
«Vado».

 
****

Alan sentì un rumore provenire dalla camera da letto adiacente alla propria, e sembrava il suono di qualcosa che andava in pezzi.
No, non di nuovo, pensò, non riuscendo a frenare, nemmeno nei suoi pensieri, il suo disappunto.
Si alzò e andò nella stanza accanto. Non c'erano bottiglie a terra rotte in mille pezzi, e nemmeno Gil era ridotto a un ammasso di cocci; in compenso la porta-finestra era aperta. Alan, preso da un momento di panico, si catapultò fuori pensando al peggio, ma tirò un sospiro di sollievo quando di fronte a lui si stagliò la figura spigolosa e accartocciata di Gilbert, con un'espressione simile a quella di un bambino che ha appena commesso una marachella e una sigaretta incastrata fra l'indice e il medio.
«Mi è caduto il posacenere» esclamò vedendolo sveglio, evitando il suo sguardo.
«Non importa», rispose.
E non importava davvero.

Ventidue gennaio, data da ricordare: Gilbert aveva indossato per la prima volta in dieci anni, da quando Alan lo conosceva, una maglia di colore diverso dal nero. O meglio, non era esattamente una maglia, ma una camicia, bianca per l'esattezza. E in realtà il nero c'era pure nel suo outfit – come si era ostinato a chiamarlo lui –, e si trovava nella giacca e nei pantaloni; ma, secondo Alan, quella camicia elegante era già un traguardo.
«Non ho voglia di andare alla premiazione» esclamò ad un certo punto Gilbert, spazientito.
«Dai, tanto durerà solo un'oretta. Non sarà nulla di tragico» rispose Alan. Quindi si avvicinò all'auto del professore che li avrebbe accompagnarti, preceduto di poco da Gilbert.
E non sbuffare, stronzo.
Possibile che Gilbert non avesse voglia di andare ad una premiazione? Manco si trattasse di un approfondimento di chissà quale materia noiosa. Insomma, era arrivato primo al concorso di matematica a livello nazionale, e lui riusciva a sbuffare per la premiazione?
Alan, perso in quei pensieri, posò distrattamente gli occhi sulla figura dell'amico di fronte a lui. Quello si era fermato improvvisamente e aveva allungato la mano verso il cespuglio vicino a cui stava passando.
Quel gesto sorprese Alan che, incuriosito, chiese: «Che guardi, Gil?»
«Che fiore è?» chiese l'altro sottovoce.
Alan gli si affiancò, sorprendendosi per gli occhi spalancati come quelli di un bambino di Gilbert. Perché Gil era così: un attimo prima sembrava indolente verso il mondo intero, quello dopo si stupiva di fronte alla bellezza di un fiore.
«Una camelia, una camelia bianca» rispose, e lo fece sorridendo.
«Tu sai che significa, la camelia?» chiese quindi Gilbert, vedendo il leggero ricciolo che le labbra dell'amico avevano formato, vedendola.
«Sacrificio» rispose solo, omettendo ciò che invece avrebbe voluto rispondere realmente, preso da un attimo di pudore e imbarazzo, ma anche da un molto meno nobile desiderio di vendetta.
Fedeltà, e profondo affetto, e devozione.
Gilbert, a quella risposta, spostò lo sguardo dal fiore al suo viso. I suoi occhi azzurro slavato incrociarono i suoi, perforandoli con la loro profondità e intensità. Sembrava volesse accusarlo, sembrava fosse arrabbiato per quel suo dire secco, per la violenza di quella singola parola che aveva provocato in lui, di certo, un senso di colpa. Ma poi sorrise, e lo fece pieno di calore e dolcezza, come fosse un bambino a cui avevano appena offerto una caramella.
Lui vuole il mio sangue e io, come uno stupido, gli offrirò la gola, si ritrovò a pensare, rassegnato. D'altronde era sempre stato così, e a lui andava bene.
Sorrise anche Alan e, insieme a lui, entrò nell'auto del professore.

«Boh».
Alan quasi si strozzò con la propria saliva.
«Come, scusi?»
La voce basita e irritata del professore risuonò. Stranamente era meno rumorosa quella del silenzio che invece si era improvvisamente creato nell'aula.
«Ho detto “boh”» ripeté di nuovo Gilbert, con lo sguardo rivolto verso un punto imprecisato del paesaggio che si intravedeva fra le foglie degli alberi del giardino, fuori dalla finestra accanto a cui il ragazzo era seduto.
Alan era immobile, gelato al suo posto e impossibilitato a parlare. Cosa gli stava prendendo?
«Quindi, alla domanda “a cosa sta pensando che lo distrae?”, lei risponde con “boh”?» domandò ancora una volta il professore, che sembrava quasi non riuscisse a capacitarsi di ciò che stava succedendo. Non era mai accaduto che qualcuno si mostrasse così indolente nei confronti di una insegnante: la loro scuola era la migliore del Paese e, proprio per la serietà che richiedeva, Alan non aveva mai assistito a un evento del genere, come anche i tre quarti dei presenti. Era come quando qualcuno faceva una battuta di pessimo gusto nel momento sbagliato: tutti iniziano a ridacchiare poco convinti e imbarazzati, finché uno – il più pronto di spirito – non riusciva a cambiare argomento. Ma la cosa che più lo stupiva non era tanto la situazione in sé, quanto più che a rispondere in modo così sgarbato fosse stato Gil, il suo coinquilino, il suo migliore amico.
Gilbert staccò lo sguardo dall'orizzonte. I suoi occhi vacui e apparentemente distanti si inchiodarono con improvvisa durezza sul viso dell'insegnante. Le occhiaie parevano diventate delle conche nere sotto le sue palpebre inferiori, le lunghe ciglia talmente bionde da parere bianche proiettavano un'inquietante ombra sulle sue gote scavate. Poi mosse le labbra – quelle labbra carnose e sempre piegate in una smorfia infantile – e parlò: «Vuole sapere a che cosa stavo pensando realmente? Stavo pensando che voglio fuggire dalla mia pelle stretta e trasparente, diventare un'ombra nera, un coltello che di notte martoria la carne delle persone che amo e odio. Stavo pensando alla morte, al sangue...» si interruppe un attimo, spostando il suo sguardo su Alan, poi proseguì: «Stavo pensando alle camelie, quelle bianche».
Quindi si alzò e uscì dalla classe, sotto gli occhi di tutti, spalancati dalla paura e dal ribrezzo.
Ad Alan ci vollero circa cinque secondi per imitarlo ed inseguirlo, preoccupato, ignorando gli occhi di tutti i loro compagni di classe puntati sulla schiena e le urla del professore.

Dove sei?
Era solo questo ciò che la mente di Alan riusciva a concepire, in quel momento. Quello e una lacerante preoccupazione, la paura che Gilbert, nell'istante in cui sarebbe esploso – perché, Alan n'era certo, quella frase in classe era solo il preludio di uno scoppio molto più violento –, non l'avesse avuto accanto.
Corse per i corridoi deserti, sbirciando in tutte le aule vuote, nelle camere, nelle finestre, nei balconi. Solo all'ultimo gli venne in mente di guardare nei bagni, e fu proprio in uno di questi che lo trovò, ben dieci minuti dopo.
Appena lo vide disse solamente due lettere, con un tono più vicino alla constatazione che alla sorpresa: «Al».
«Tutto bene?» chiese. Ma la preoccupazione stava iniziando pian piano a scemare: non c'era sangue sulle pareti, le sue nocche erano intatte, l'ambiente ancora integro. Forse per quella volta non li avrebbero espulsi.
Gilbert non disse nulla, si limitò a sorridere in modo strano, quasi amaro.
Vedendo che l'altro non dava segni di volergli rispondere, Alan propose: «Dai, torniamo in classe, Gil».
«No».
Risposta secca, perentoria.
Che ti succede, Gil? A che pensi?
Non fece però in tempo ad avanzare le sue ipotesi che l'altro gli si avvicinò e posò un braccio sulla sua spalla, come se volesse appoggiarvisi. Alan era stupito, ma allo stesso tempo avrebbe voluto abbracciarlo per dargli un qualche conforto, senza però osare aumentare il contatto, temendo che l'altro si allontanasse bruscamente. Fu Gilbert ad avvicinarsi ulteriormente, portando da una parte anche l'altro braccio sulla sua spalla e dall'altra le labbra morbide a poco più di mezzo centimetro di distanza dal suo orecchio.
E sussurrò: «Sacrificio».
Alan sentì un brivido lungo la schiena. Non sapeva cosa aspettarsi, ora: cosa voleva Gilbert da lui? Un sacrificio? Oppure voleva lui stesso sacrificarsi per lui? Non lo comprendeva, non lo aveva mai fatto e non aveva nemmeno la presunzione di dire che, un giorno, ci sarebbe riuscito. Era in balia dei suoi crolli, dei suoi sorrisi insensati, dei suoi capricci da bambino. E anche della sua rabbia, soprattutto di quella.
Men che meno sapeva di cosa fosse in balia in quel momento, quando Gilbert spostò le labbra e le appoggiò sulle sue.
Sacrificio. Suo? Mio?
Alan, dopo un attimo di tentennamento, aprì timidamente la bocca, lasciando che la lingua dell'altro vi si inoltrasse senza incontrare resistenza. Le labbra di Gil erano calde, quasi febbricitanti. E morbide, terribilmente morbide. Non si era accorto di desiderarle fino a quel momento, fino a quel piccolo istante in cui, seguendo chissà quale istinto, l'amico aveva deciso per lui, com'era sempre successo.
E faceva troppo caldo, in quel bagno sporco di una scuola fredda e asettica, e faceva troppo caldo in mezzo al muro piastrellato su cui appoggiava la schiena e il corpo spigoloso di Gilbert.
Sacrificio?
Alan prese improvvisamente il controllo della situazione: scivolò da sotto il corpo di Gilbert, sopraffacendo facilmente la sua forza che, senza la rabbia, era quasi nulla. Invertì le posizioni.
Lo guardò negli occhi per un secondo cercando una scintilla, un qualcosa che gli facesse capire che doveva smettere, che avrebbe dovuto poi nuovamente raccogliere ciò che lui stesso si era fatto, ma non la trovò: le palpebre erano socchiuse, le ciglia più lunghe che mai, l'azzurro slavato del suo sguardo incredibilmente lucido e vivo.
Avvicinò senza alcuna delicatezza le labbra a quelle di Gilbert, socchiuse e protese verso di lui. Socchiuse per il desiderio, protese per la fame.



 
Note autrice:
La storia partecipa al contest indetto dal forum Disegni e parole

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Capitolo 2
*** Darkness in your mind ***



 
When the day has come
But I've lost my way around
And the seasons stop and hide beneath the ground
When the sky turns gray
And everything is screaming
I will reach inside
Just to find my heart is beating.”

Alan si svegliò, per una volta non di soprassalto ma per il peso di un corpo eccessivamente leggero sul ventre. Girò il volto e incrociò l'immagine del viso addormentato di Gilbert: i suoi capelli crespi pungevano la sua pelle nuda, le labbra socchiuse pareva la stessero baciando delicatamente.
Era strano e quasi imbarazzante per lui trovarsi nudo accanto a quello che per dieci anni era stato un amico – un fratello! –, ma in fondo nulla era cambiato: il loro rapporto si era semplicemente evoluto. Erano come quelle falene che, per poter sopravvivere al veleno dell'aria e al colore nero che spargeva nel loro mondo, erano diventate nere loro stesse.
Si erano visti nudi da ragazzini al mare, nella doccia al mattino, negli spogliatoi ogni settimana, cosa c'era di diverso nel piegare, contrarre, rilassare, arcuare i propri corpi?
Conoscevano bene l'odore della loro pelle sudata, cambiava tanto averne imparato anche il sapore?
Eppure ora tutto era avvolto da una strana atmosfera, e avere il viso di Gilbert così vicino al ventre lo preoccupava, quasi avesse paura che l'altro potesse improvvisamente destarsi e, con un sorriso dolce, affondare i denti nella sua carne per divorarlo.

Fu un leggero morso all'orecchio a svegliare Alan, quel mattino.
«Buongiorno».
Gilbert non gli rispose, ma sorrise e si diresse, ancora completamente nudo, verso la doccia. Alan avrebbe voluto seguirlo, vedere come l'altro avrebbe reagito, ma non lo fece e invece restò ancora un poco nel letto, godendosi il calore che le coperte gli donavano.
Sentiva uno strano batticuore, un tepore dolce e delicato gli attraversava le membra ancora un po' intorpidite dal sonno. Era questo ciò che si provava dopo aver passato la notte con una persona cara? Una persona che... si amava?
Alan rise fra sé e sé: no, non amava Gilbert, per nulla. Ne aveva paura, lo infastidiva, non lo capiva e n'era attratto. Però era felice, almeno per quel momento, e forse lo sarebbe stato per altro tempo ancora.
Ad un tratto Alan sentì provenire dal bagno la voce di Gilbert. Inizialmente pensò che lo stesse chiamando, ma dopo un po' si accorse che non era affatto così. Si alzò a sedere, non curandosi del freddo che iniziava a pungere la sua pelle, improvvisamente scoperta. Ed eccola, la sua voce: a tratti roca e profonda, a tratti quasi stonata, in alcuni momenti come uno strillo, in altri dolce e delicata come quella di un bambino. Voce eclettica e indefinibile, voce che graffiava le orecchie dell'ascoltatore e la gola del cantante, una voce che Alan non sentiva in quella veste da più di un anno e mezzo.
Si alzò di scatto e corse verso il bagno. Gilbert era con il collo piegato all'indietro per sciacquarsi i capelli, la bocca era socchiusa per cantare, ma si chiuse quando Alan entrò nella doccia senza preavviso e schiacciò il corpo bagnato del ragazzo contro le mattonelle. Lo baciò.
«Gil» sussurrò con voce roca, a qualche millimetro dalle sue labbra.
L'altro sorrise e colmò la distanza fra loro, attirandolo a sé con le sue dita affusolate.
Sono forse in Paradiso?

Entrambi avevano ricevuto solo una nota disciplinare; in fondo non era andata neppure così male.
Alan era seduto in classe, ma il suo compagno di banco non c'era: Gilbert, a causa di quella sua uscita da perfetto malato mentale, quella mattina si era beccato una seduta obbligatoria dallo psicologo, e Alan non riusciva proprio a non ridere, al pensiero. Sapeva che l'amico si sarebbe inventato una storia pazzesca per sfuggire all'analisi mentale, e sapeva anche che l'avrebbe fatto così bene che il povero individuo che si era trovato ad essere il suo psicologo non se ne sarebbe nemmeno accorto. D'altronde Gilbert aveva un viso così inespressivo che era impossibile capire quando mentiva.
E poi non aveva bisogno di uno psicologo: insomma, si stava riprendendo, giusto? Aveva ricominciato a cantare, erano quasi due settimane che non aveva i suoi attacchi, e le sue occhiaie non erano più tanto nere. Stava andando tutto bene, loro stavano andando bene: parlavano come prima, ridevano più di prima e, rispetto a prima, facevano del salutare e piacevolissimo sesso. Alan era forse ancora più attratto da Gil, e ormai non riusciva più ad addormentarsi se non aveva la sua testa bionda e spettinata appoggiata da qualche parte sul suo corpo. La sua bocca si stava trasformando, come in un cliché romantico, in dolce droga, e lo stesso discorso valeva per le sue dita lunghe e un po' troppo magre – come tutto di lui, d'altronde. Che stesse cadendo rovinosamente nel vortice dell'amore adolescenziale? Anche questo, al solo pensiero, lo faceva ridacchiare: fra tutti proprio un ragazzo fuori di testa, con problemi nella gestione della rabbia, dai sentimenti confusi e dai pensieri violenti e autodistruttivi doveva beccarsi, vero?
Ma d'altronde si trattava di Gilbert, non di uno qualsiasi. Poteva farcela, o almeno sperava di farcela.
Potevano riuscirci, ad essere felici. Anche solo un po'.

Una risata roca e soffocata proruppe fra le labbra di Gilbert.
«Ma sul serio le hai detto così?» chiese di nuovo Alan, con la mascella spalancata.
«Sì» rispose sorridendo, come se non avesse davvero avuto l'idea peggiore e più allucinante del secolo. Sì, perché Gilbert era davvero riuscito a dire alla sua nuova psicologa che la risposta che aveva dato all'insegnante era stata tutta un trucco, una scusa per permettere a lui e ad Alan di svignarsela e andare a fare “porcherie” → così diceva di averle confessato – nel bagno, indisturbati.
«Tanto deve mantenere il segreto professionale» sorrise di nuovo Gilbert, tentando, senza nemmeno impegnarsi troppo, di rassicurarlo. «Avresti dovuto esserci. Ci saremmo divertiti, ne sono sicuro» aggiunse poi, con il solito sguardo da bambino che ha appena trovato il suo nuovo passatempo preferito.
«Lo sai vero che lo avrà detto ai professori cinque minuti dopo che sei uscito dal suo studio?» sussurrò Alan che ancora non riusciva a credere che il suo migliore amico, che aveva sempre reputato un genio, fosse in realtà così stupido.
«No invece» esclamò, raggiante «perché poi le ho detto che mi sentivo sporco e in colpa. Cioè, non è questo che dicono i ragazzini che hanno problemi con la loro sessualità? Ora passerò come un povero gay emarginato con poca autostima e altrettante poche certezze che non riesce ad accettare ciò che è. Ma questo grazioso ragazzo gay ha riposto la sua fiducia nella sua psicologa».
Alan sospirò, un po' per il sollievo, un po' per la rassegnazione.
Forse non è del tutto stupido. Solo un po'.
«E quale sarà la prossima mossa?» domandò quindi, con malcelata curiosità.
Gilbert si voltò nella sua direzione, guardandolo con aria innocente e sorniona, come quella di un gatto. «Descriverle nei minimi dettagli ciò che faremo fra circa due minuti».
Alan alzò un sopracciglio, non capendo: «Ovvero?»
Non ci fu bisogno di nessuna risposta, perché le labbra morbide di Gilbert si erano già attaccate alla pelle del collo scoperto di Alan e ora, piano, la stavano succhiando e mordendo con tutte le intenzioni di farvi nascere un bel livido violaceo. Nel frattempo le mani correvano alla cintura.

 
****
 
Il temporale non aveva intenzione di smettere. La pioggia cadeva da ore, da ore si andava a infrangere sui vetri dell'unica finestra della loro camera, e da ore produceva un ticchettio insopportabile ed esasperante che lo stava mandando fuori di testa.
Gilbert era sdraiato accanto a lui, eppure lo sentiva distante come non mai. I suoi occhi, infatti, erano concentrati sul bagliore sinistro e attraente della lama di un coltellino svizzero che aveva trovato per caso, e le sue dita continuavano imperterrite a percorrerne i contorni. Sembrava indeciso se premere più forte i polpastrelli sul metallo, sembrava chiedersi se avrebbe avuto il coraggio di farlo.
Alan avrebbe dovuto strappargli quell'aggeggio dalle dita, dirgli che si sarebbe potuto far male. Eppure era anch'egli caduto nella malia della lama, e soprattutto della nuova lucentezza che gli occhi di Gilbert avevano acquistato.
Ad un tratto, però, Gilbert impugnò con decisione il coltello e si mise con uno scatto felino a cavalcioni sul suo ventre. La sua pelle pallida, quasi del tutto scoperta, riluceva alla luce della Luna, i suoi occhi mandavano bagliori ogni volta che un fulmine accendeva il cielo dietro le finestre.
È bellissimo, non riuscì a non pensare Alan.
L'attimo dopo il ragazzo sopra di lui gli portò la lama alla sua gola e, con la punta, gli punse la pelle. Alan gelò. Non riusciva a parlare, gli occhi gli si spalancarono, le mani presero a tremare per la botta improvvisa di adrenalina. Gilbert l'avrebbe ucciso? Avrebbe aperto la sua gola, un po' come succedeva in tutte le sue fantasie violente? Cosa sarebbe stato, poi, di lui? Alan si diede dello sciocco: come poteva preoccuparsi di cosa sarebbe accaduto a Gil se l'avesse ucciso? Era diventato così servile e inetto? Aveva annullato tanto la propria vita per lui che, ora, anche la propria morte passava in secondo piano?
«Gil, cosa stai facendo?» trovò la forza di sussurrare.
L'altro sorrise, nella notte. I suoi denti bianchi brillarono, e anche i suoi occhi lo fecero. Poi premette la lama sul collo di Alan. Non lo fece con forza, ma abbastanza perché un sottile taglio si aprisse e ne sgorgasse un rivolo di sangue scuro.
Alan sentiva il proprio cuore battere come un tamburo, talmente tanto da sovrastare, nelle sue orecchie, il suono dei tuoni che rombavano fuori dalla loro stanza.
Gilbert, sempre sorridendo, si abbassò su di lui, socchiuse le labbra e baciò il taglio appena fatto. Quindi iniziò a leccare il sangue che si era andato a diramare lungo le clavicole di Alan, percorrendo con la punta umida della lingua il sentiero che, come un sottile filo rosso, aveva macchiato la sua pelle.
E Alan, sotto di lui, con i sensi annebbiati si perdeva.

Alan si massaggiò per l'ennesima volta la fronte. Aveva un mal di testa terribile, e il sonno arretrato che aveva accumulato nelle ultime notti di certo non lo aiutava a concentrarsi. Era arrivato quasi al punto di trovare insopportabile anche il solo suono di voci estranee: il professore con la sua spiegazione lo tediava terribilmente, le risate dei compagni di classe lo irritavano, i passi che risuonavano per i corridoi lo confondevano.
Gilbert entrò nella stanza con la sua nuova conquista fra le dita: una sigaretta rollata in malo modo e un accendino di un improponibile colore giallo fluorescente che, accanto alla sua figura completamente nera e spettrale, quasi stonava.
Solo lui potrebbe entrare i classe con in mano una sigaretta e un accendino in bella vista.
Gilbert si sedette accanto a lui, lo guardò per qualche secondo e, dopo essersi accertato che effettivamente c'era qualcosa che non andava, decise di non parlare e di indirizzare i suoi occhi altrove. Non era un gesto di indifferenza – Alan lo sapeva bene –, quanto più di rispetto, e mentalmente lo ringraziò.
Alan per i dieci minuti successivi sentì ogni tanto le occhiate dell'altro che lo scrutavano come a voler capire quale fosse il problema senza però dover chiedere al diretto interessato. Ad un certo punto Gilbert prese una decisione: infilò sigaretta e accendino nella tasca della felpa nera che indossava, allungò piano una mano verso la sua coscia e chiuse gli occhi. Alan alzò lo sguardo dagli appunti di fisica che da circa un'ora stava studiando senza capirci nulla e lo portò al profilo di Gilbert e alle sue palpebre che tremavano leggermente.
Poi Gilbert iniziò a cantare. Piano, sottovoce, soffocando le parole per non farsi sentire da altri se non da lui, con una lentezza quasi insostenibile e una delicatezza che non aveva mai mostrato prima di allora; e il mal di testa scomparve, così come tutto ciò che c'era attorno a loro.

«Al, devo parlarti».
Alan si voltò improvvisamente, cercando di riempire affannosamente il vuoto che all'improvviso s'era andato a formare nel fondo del suo stomaco. Non sapeva cosa aspettarsi – non ne aveva la minima idea! –, ma il tono serio dell'altro lo fece preoccupare e immaginare più o meno ogni possibile catastrofe.
«Dimmi».
L'altro non voleva incrociare il suo sguardo, e si vedeva.
«Vorrei provare a cantare da qualche parte, in un locale magari».
Alan spalancò gli occhi, non del tutto certo che ciò che aveva appena sentito non fosse frutto della sua sola immaginazione.
«Non mi guardare così» esclamò l'altro con insolita decisione e forza, dopo aver incontrato per un secondo l'espressione sconvolta di Alan. Poi continuò: «Cioè, è che sento come se qualcosa mi schiacciasse lo sterno e i polmoni ogni volta che respiro, e mi sento soffocare. Tu lo sai cosa divento, quando soffoco. Ed ecco, io non voglio più soffocare, voglio stare bene».
Alan non sapeva cosa dire. Era così sorpreso, così felice per ciò che stava succedendo che, dopo averlo sperato per quasi due anni, ora che stava davvero accadendo non riusciva a spiccicare mezza parola.
Non ottenendo risposta, Gilbert prese un'ulteriore manciata di coraggio e fece di tutto per incontrare con i suoi occhi quelli di Alan. Ne intensificò la forza com'era solito fare quando stava per mettere in pratica qualcosa di assolutamente insensato o inaspettato e disse, quasi sottovoce: «Vorrei che mi aiutassi, a cantare intendo».
«Sì» sussurrò in un soffio a sua volta Alan. «Sì, cazzo se lo farò» esclamò poi, lasciandosi andare a una felicità che non gli era familiare. Ma nel farlo nemmeno si rese conto di aver appena valicato i confini che la sua relazione con Gilbert gli imponevano, e si dimenticò per un secondo di come l'altro fosse fatto: si sporse verso di lui e lo abbracciò, afferrando il suo viso con forza e poi baciandolo con trasporto. L'improvviso contatto con il suo corpo, così bello e familiare, lo mandò su di giri. Iniziò quindi ad abbassare le mani verso il suo bassoventre, aprendogli la cerniera dei pantaloni e iniziando a toccarlo, senza curarsi della pressione sempre più decisa che le dita dell'altro facevano contro le sue spalle, quasi a volerlo spingere via ma senza trovare il coraggio né la forza. Il corpo di Gilbert rispondeva, e questo era sufficiente.
Andò avanti finché il suo sperma non si sparse, macchiando il letto e la sua mano, ancora stretta attorno al suo sesso. Solo allora alzò lo sguardo sul viso di Gilbert.
Alan si accorse troppo tardi di ciò che aveva fatto, e la conferma di un suo errore la ebbe proprio negli occhi di Gilbert che, spauriti e infastiditi, lo guardavano di nuovo con quel vuoto che per tanto tempo li aveva abbandonati: le mani del giovane si allontanarono di scatto da lui.
Lo spinse via, strappando il filo fra loro e, l'istante dopo, Gilbert andò in pezzi. Ma, a differenza di tutte le altre volte, non si appoggiò mai a lui.

Non si parlavano da giorni, e la cosa si stava facendo insopportabile.
Gilbert aveva iniziato ad allontanarsi da lui quasi senza motivo, e decisamente senza motivo aveva anche smesso di trascorrere del tempo nel loro appartamento. Al mattino si vegliava presto – proprio lui che non faceva altro che dormire! –, mentre subito dopo le lezioni scompariva per tornare solo a tarda notte.
Però tornava.
Alan non sapeva come affrontarlo, non riusciva a comprendere quale fosse il perché di quel comportamento: sapeva di aver violato in qualche modo Gilbert, forzando il suo corpo a gesti che l'altro non desiderava, ma allo stesso tempo non aveva la capacità di staccarsi da lui, né fisicamente né mentalmente. Era diventato quasi un'ossessione, un desiderio implacabile e impossibile da contrastare: voleva avere il suo corpo pieno di spigoli fra le dita, sentirlo fremere e tremare sotto le sue mani, voleva i suoi occhi spalancati mentre lo baciava, le sue labbra morbide vicine; voleva il suo calore, i suoi rari sorrisi, i suoi capelli sporchi e le occhiaie scure sotto i suoi occhi. E la sua voce, soprattutto la sua voce.
Si avviò verso il bar poco fuori scuola per prendere un caffè nella speranza di riprendersi un po' dalla sonnolenza che da giorni ormai lo dominava. Aprì la porta, facendo suonare le campanelle attaccate sul soffitto e portando a ruotare gli occhi di tutti i presenti verso di sé. Istintivamente cercò lo sguardo penetrante e vuoto di Gil, ma non trovandolo si andò a sedere nell'angolo più lontano dall'ingresso.
Trascorse poco tempo che una cameriera venne a prendere l'ordinazione: era minuta e sottile come un giunco, i lineamenti affilati ma le labbra carnose e protese in avanti, sempre pronte a dare un bacio.
Gli assomiglia, gli assomiglia tantissimo, si trovò a pensare suo malgrado, facendo danzare lo sguardo lungo tutto il suo corpo mentre, meccanicamente, chiedeva un caffè.
La aspettò fuori fino alla fine del suo turno, un po' come si faceva una volta. Il freddo gli pungeva la pelle e gli attraversava le ossa, costringendolo a muoversi continuamente per non gelare del tutto. Per fortuna ci volle solo mezz'ora perché uscisse dal bar. Lui la fermò, iniziò a parlarle affabile, tirando fuori una dolcezza finta e una gentilezza che non gli apparteneva; riuscì a convincerla a fidarsi di lui, quindi l'accompagnò a casa dove Annie – questo era il suo nome – lo fece salire.
Viveva da sola, lavorava per mantenere i suoi studi al college e sognava di diventare psicologa; parlava in continuazione, non fermava un solo secondo la sua bocca carnosa e lui, che non riusciva più a sopportarla, dopo poco la baciò.
C'erano state volte con Gilbert in cui avrebbe voluto donargli una dolcezza che non possedeva, in cui sapeva che avrebbe potuto venerare il suo corpo; c'erano state volte con Gilbert in cui si era perso completamente nel suo odore e nella sua pelle, ma in quel momento Gil non era lì. Il suo corpo se ne rese conto solo quando fu dentro di lei, e la sua mente poco dopo, quando si accorse che quelle labbra erano troppo grandi per il suo viso, quando vide i seni che sporgevano e ballavano sul suo petto, quando tutti gli spigoli di Annie si trasformarono in curve per il piacere. Improvvisamente si arrabbiò e spinse più forte, cercando Gilbert in un corpo che solo gli assomigliava, che pareva una forma di lui più annacquata e diluita, meno intensa e sporca.
Si svuotò di sperma e di anima, quella sera e, appena arrivato a casa, anche del cibo che aveva ingurgitato a cena.

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Capitolo 3
*** Emptyness in your soul ***




You tell me to hold on
Oh you tell me to hold on
But innocence is gone
And what was right is wrong”

Per la sesta notte consecutiva Alan sentì la porta chiudersi dopo le 03:00. Inizialmente aveva pensato, come le volte precedenti, di rimanere nel letto fingendo di dormire, ma appena sentì un tonfo si alzò di scatto e corse nella stanza adiacente.
Gilbert era sdraiato per terra e stava cercando di alzarsi in piedi, senza però riuscirci. Alan per un attimo dimenticò completamente ciò che era successo nei precedenti sei giorni, lo afferrò per un braccio e lo tirò su. Era una strana sensazione averlo nuovamente fra le braccia, sentire ancora il suo odore pungente per quanto coperto quasi del tutto da quello dell'alcool e del fumo. Lo abbracciò solo per un secondo, ma gli parve di tenerlo stretto da una vita.
«Si può sapere che hai combinato?» gli chiese sottovoce, quasi per paura di disturbarlo.
In risposta gli giunse solo un mugugno roco e una mano che gli artigliava con decisione una spalla per sorreggersi. Alan quindi lo trascinò fino nel suo letto, aiutandolo a stendersi; stava per andarsene a dormire nella sua stanza, quando una mano gli afferrò un braccio, chiaro segno che Gilbert desiderava che restasse. Si sdraiò al suo fianco, cercando di non toccare troppo il suo corpo per paura che si ritraesse, ma fu proprio Gilbert che, poco dopo, si accoccolò come un bambino accanto a lui, appoggiando il capo sul suo petto.
«Muori» lo sentì biascicare poco prima che si addormentasse.
Alan sorrise senza motivo e, con un braccio appoggiato mollemente sulla sua schiena, cadde in un sonno senza sogni.

Quel giorno era in programma la foto di classe – l'ultima della loro vita alle superiori, per fortuna. Tutti avevano un aspetto quanto meno decente, tutti avevano tentato di accostare due colori che stessero vagamente bene insieme, alcuni addirittura avevano indossato una camicia. Tutti, certo, ad esclusione di Gilbert.
D'altronde cosa si poteva pretendere da qualcuno in quello stato? La sera prima aveva esagerato, e le sue occhiaie lo dimostravano, senza contare poi la pelle ancora più pallida del solito e i capelli sporchi in un modo improponibile, ben nascosti sotto un cappello di lana perché non si vedessero troppo. Sì, per lo meno si era impegnato a vestirsi: la felpa nera che indossava – una delle tante – era pulita e i jeans – ovviamente dello stesso colore – erano i suoi preferiti, quelli strappati sulle ginocchia. Era un vero peccato che ogni centimetro della pelle che sbucava dai vestiti fosse o ricoperto di lividi veri e propri o talmente pallido che, al freddo, faceva apparire lividi anche il colore delle vene che traspariva sotto di essa.
Alan non aveva ancora capito cosa fosse successo la notte prima, se pensare che la loro relazione – qualunque cosa fosse – fosse stata restaurata, se da quel momento avrebbe potuto ricominciare a parlare con Gilbert, se avrebbe potuto toccarlo. Nel dubbio si teneva alla larga da lui, sperando che, se la risposta fosse stata positiva, allora fosse stato l'altro a muoversi per primo.
Il fotografo che stava di fronte a loro aveva disposto la maggior parte dei ragazzi su delle sedie, altri – i più bassi – seduti per terra, e infine i più alti sul fondo. Gilbert si trovava nell'estremo sinistro dell'inquadratura ed era proprio dietro la schiena di Alan che, in quel momento, si sentiva bruciare come se al posto del suo coinquilino ci fosse un fuoco che gli corrodeva le carni. Non si toccavano, ma Alan sentiva una certa tensione fra loro, tale che il loro silenzio pareva forzato e imbarazzante senza esserlo davvero.
«Sorridete!» urlò quindi il fotografo, mettendosi dietro l'obbiettivo.
Alan sospirò velocemente, cercando di mettersi in posa, quando una mano gelida si posò sulla sua spalla. Si voltò di scatto e incontrò il viso pallido di Gil illuminato da un sorriso dolce, con gli occhi talmente stretti da parere chiusi. Ma non fece in tempo a girarsi di nuovo che sentì la macchina scattare.
Prevedeva già come sarebbero usciti, in quella foto: Alan con uno sguardo adorante e sorpreso diretto al viso di Gilbert, e quello che invece sorrideva serafico verso l'obbiettivo, con le palpebre abbassate per nascondere gli occhi che detestava.
Una perfetta sintesi del nostro rapporto, pensò Alan, sorridendo amaramente come si era abituato ormai a fare. Quell'amarezza era però solo apparente: non c'era nulla di meglio per lui che avere di nuovo l'affetto di Gilbert e, in quel momento, della foto non gli importava proprio nulla.

Alan non riusciva a capire, la sua mente proprio non ci arrivava.
Aveva incominciato a sospettare che il cervello di Gilbert si stesse pian piano friggendo, che tutti quei punti di Q.I. lo avrebbero fatto andare, prima o poi, fuori come un balcone, ma a volte la consapevolezza e l'amore lacerante che provava per lui non bastavano a fargli ignorare quanto fosse stupido, in fondo.
«Quindi hai deciso che lascerai la scuola, e a quattro mesi dagli esami».
«Stai diventando noioso, Al» disse lui di tutta risposta.
Alan sospirò, quindi cercò di ficcare un minimo di sale in zucca al suo coinquilino: «So che tu non te ne fai nulla della scuola, so che sei un genio e tutto quello che ti pare, ma a questo punto perché aspettare fino ad adesso? Mancano quattro mesi e poi tutto sarà finito, e magari non avrai buttato nel cesso gli ultimi quattro anni della tua esistenza».
«Ogni secondo che trascorro fra quelle mura è sprecato, forse anche più delle sedute dalla psicologa, che almeno mi divertono» rispose lui, portandosi una sigaretta alle labbra.
Alan rimase in silenzio.
«E poi vorrei cantare» aggiunse in un mormorio, come se avesse paura che qualcuno lo sentisse.
Nemmeno questa volta Alan rispose, ma il suo silenzio palesava solo ciò che il suo cuore gli urlava, ovvero il desiderio di avvicinarsi a quella testa bacata che si trovava ad amare – sì, proprio amare, nonostante tutto – e abbracciarla. Non poteva permettersi di forzarlo, non poteva permettersi di trovarsi di nuovo lontano da lui.
«Non sono tuo padre, fa' quel che credi» si ritrovò quindi a dire, afferrando a sua volta una sigaretta e accendendola con fare noncurante, anche se dentro di sé c'era un mare in tempesta.
Il silenzio che li aveva accompagnati per anni di convivenza in quel misero buco li trovò ancora una volta, e ad Alan non pesò per nulla: bastarono infatti due minuti scarsi perché Gilbert appoggiasse, come un bambino, la testa bionda sul suo grembo.
E io... io che farò?, era questa la domanda che nella sua testa continuava a rimbombare insistente. Perché Gilbert il genio avrebbe potuto fare qualsiasi cosa nella vita, avrebbe trovato i soldi comunque – anche se avesse deciso di diventare una puttana, tanto il bel visino ce l'aveva – e con i soldi anche qualcuno da ammaliare com'era successo ad Alan. Ma lui? Lui era un misero e mediocre studente, la cui unica forza stava nel proteggere e sostenere un ragazzo che si comportava da bambino e che aveva la fastidiosa mania di rompersi al primo tocco come una rosa di cristallo. Quando se ne sarebbe andato, a scuola cosa avrebbe fatto?
Sacrificio.
Alan sorrise tra sé e sé, quindi si disse che non importava: la cosa fondamentale era la felicità di Gilbert – che tanto meritava dopo tutto ciò aveva passato –, non la sua.

«Mi passi quella cartellina verde, per favore?» chiese ad un tratto Gilbert, seduto per terra.
«Agli ordini, capo» rispose scherzoso Alan, porgendogliela.
Era di buon umore, si vedeva: avevano fatto l'amore due volte quel pomeriggio ed entrambi incominciavano ad essere stanchi e soddisfatti, e Gilbert quando era stanco e soddisfatto componeva musica e cantava con quella sua voce dolce e cristallina. Alan adorava l'assenza di turbamento che quel suono vibrante e sereno portava in tutta la stanza, e ancor di più adorava il sorriso che aveva stampato sulle labbra mentre cantava. Il rischio che si spezzasse in quei momenti era vicino allo zero.
Gilbert aveva scritto ormai qualcosa come quindici pagine di testi, quasi il triplo di spartiti e, di tanto in tanto, nella noia faceva qualche schizzo veloce, cosa che non poteva che rendere Alan doppiamente felice visto che ciò che tratteggiava con la matita raffigurava sempre il suo volto. Ogni tanto decorava quei frettolosi disegni con delle camelie, ma poi ne distorceva i contorni fino a renderle qualcos'altro, quasi come se avesse paura che Alan vedesse quel fiore e si infastidisse.
Alan, però, non ne era affatto infastidito, anzi.
Avrebbe voluto allungare le mani e portarle a toccare la sua carne ancora una volta, avrebbe voluto affondare di nuovo il naso fra i suoi capelli, sfiorare le sue labbra morbide dalla piega infantile, avrebbe voluto mordere la sua pelle, annusare il suo odore e sentire i suoi gemiti di piacere ancora e ancora. Non era ancora sazio di lui, e non lo sarebbe mai stato, n'era certo. Tuttavia non voleva distogliere Gilbert dal suo lavoro e fargli perdere la concentrazione: era giunto alla conclusione che la sua musica – accompagnata dalla sua voce cristallina e limpida – era importante per lui quanto il suo corpo.
D'altronde continuava a chiedersi come facesse un essere umano a comporre così tante canzoni e melodie in poco tempo. Sembrava una macchina talmente era veloce, ma i suoi testi tradivano una fragilità e un'umanità che un semplice ammasso di cavi e metallo non avrebbe mai potuto avere. Ogni tanto provava a strimpellare qualche accordo, unendo ciò che aveva scritto sugli spartiti alle parole, quindi cancellava, riscriveva e ci riprovava finché un sorriso soddisfatto non gli spuntava sul viso.
Alan avrebbe trascorso ore in quel modo, in silenzio in un angolo della stanza ad osservarlo fare ciò a cui teneva di più, a notare i contorni frettolosi dei suoi ritratti e delle camelie che tentava di nascondere, a cogliere di sfuggita quei sorrisi sereni che piegavano le sue labbra morbide. Sì, si sarebbe accontentato di stare in disparte, lontano dal suo sguardo concentrato sui fogli che aveva tutti intorno a sé, lontano dal suo corpo e dal suo odore, lontano dalle sue labbra e lontano da lui.
Ma ci sarebbe stato, e l'avrebbe guardato sorridere.
Sacrificio.

 
****

Alan spalancò gli occhi nel buio.
Tastò con le dita le lenzuola alla sua destra dove ci sarebbe dovuto essere il corpo di Gilbert, trovandole gelide e vuote. Quindi ruotò il capo verso sinistra e guardò l'ora: la sveglia segnava le 04:23.
Si alzò dal letto; il freddo pungeva la sua pelle quanto mille aghi acuminati e ciò lo spinse ad afferrare la prima felpa trovata ai piedi del letto.
Si diresse verso il soggiorno, dove trovò la veranda spalancata. Le tende per la forza del vento invernale svolazzavano impazzite come le ali di una farfalla colta di sorpresa da una tempesta di neve. Alan corse per chiudere le finestre quando, nel buio, vide i contorni di una figura alta e slanciata, distinguibili solo per la luce tremula di una fiammella.
Era Gilbert.
Alan uscì fuori, facendo fatica a tenere gli occhi aperti per il forte vento e per le lacrime che il freddo faceva sgorgare. Ogni tanto vedeva le spalle del ragazzo tremare di brividi profondi, ogni tanto lo vedeva allungare le dita sopra la fiamma per percepirne il calore, ogni tanto scorgeva delle scintille cadere di sotto.
Si avvicinò a Gilbert per tentare di capire cosa stesse facendo, ma senza farsi vedere, con la paura che l'altro si allontanasse. Afferrava dei fogli da una pila accanto a lui e uno a uno li bruciava, gettandone poi le ceneri nel vuoto. Alan, in silenzio, intravide anche che cosa c'era scritto, su quei fogli: a malapena riuscì a trattenere un gemito quando la fiamma dell'accendino mostrò che si trattava di spartiti.
Fece un passo indietro ma inciampò nel tappeto del soggiorno, cadendo per terra come uno sciocco. Gilbert si voltò di scatto. I suoi occhi azzurri brillarono, illuminati solo da quella misera fiammella guizzarono nel buio e si piantarono sul viso di Alan. Ad un primo sguardo parevano quelli di una belva feroce, ma ne bastava un secondo per vedere che negli angoli cadevano lacrime che nessuna fiera avrebbe mai mostrato. E luccicavano, quelle lacrime, anche più degli occhi stessi. Luccicavano come cocci di vetro.

Alan non diceva una parola da ore, e Gilbert non si scomodava a riempire il vuoto creato dal suo silenzio.
Mancava poco tempo e Alan sarebbe dovuto andare a scuola, quindi aveva iniziato a preparare lo zaino ficcandoci dentro libri e quaderni a caso, senza guardare nemmeno la copertina. Non sapeva perché si stesse comportando così, per quale motivo la sua lingua si rifiutasse di parlare a Gil nonostante lo vedesse lì, con la schiena nuda appoggiata alla parete fredda della stanza e il viso stanco.
Le occhiaie avevano nuovamente preso possesso del suo volto, al contrario la luce n'era fuggita.
Gilbert gli tirò uno spintone, poi un altro, un altro ancora. E piangeva mentre lo faceva, come se non potesse smettere ma, allo stesso tempo, arrabbiandosi con se stesso per quelle lacrime. Alan accettava i suoi colpi che, in fondo, non gli facevano male.
Perché aveva distrutto gli spartiti? Un intero giorno di lavoro, decine e decine di canzoni erano andate letteralmente in fumo.
Gilbert gli diede un altro spintone, quindi incominciò ad urlare. Era scoppiato di nuovo, era da tanto che non gli succedeva. Alan sentiva, quasi facessero parte del proprio corpo, le corde vocali dell'altro tendersi fino allo spasimo, la sua voce diventare roca, la sua vista annebbiarsi. Quindi gli si avvicinò e lo sorresse, impedendogli di cadere per terra e, allo stesso tempo, offrendogli una spalla su cui piangere e su cui soffocare quel grido che era incapace di trattenere.
Gilbert gli morsicò più volte la pelle, con forza, senza riuscire a fermare le lacrime.
Alan non poteva far altro che ricordare ciò che era successo quella notte, non riusciva a scacciare dalla mente le immagini del ragazzo distrutto, le sue lacrime, il dolore sordo. Ormai ciò che stava vivendo in quel momento gli sembrava un sogno irreale rispetto a ciò che era accaduto di notte. Le loro due vite – quella notturna e quella diurna – che fino a quella sera avevano mantenuto distaccate, ora avevano iniziato a mescolarsi e a divenire un unico confuso insieme, un grumo di dolore e pazzia, dolcezza e affetto.
Dopo un po' Gilbert si era calmato, ma le lacrime continuavano a scendere, inesorabili.
«Perché hai distrutto tutto?» gli chiese Alan, cercando il suo sguardo.
Fra un singhiozzo e l'altro, così simili a quelli di un bambino, rispose: «Mi fa schifo. La mia musica, le mie parole. Tutto mi fa schifo».
Alan aveva quindi afferrato il viso di Gilbert e l'aveva portato all'altezza del suo. Continuava a piangere, e se ne vergognava. Non voleva lo vedesse in quello stato, ma non riusciva a sfuggire dalle dita di Alan che ancora gli afferravano il volto.
«Non fanno schifo, le tue canzoni» gli disse serio, sapendo di non stargli mentendo.
Gilbert a quelle parole sorrise, ma in modo triste: «Hai ragione. Sono io, il problema. Io, io, IO!».
Si strappò dalle braccia di Alan e si sporse verso il vuoto. Mancava poco che cadesse, quando Alan lo afferrò da dietro e lo tirò via.
Alan sapeva che non aveva voluto realmente morire, che era stato tutto frutto di quella parte di lui che lo portava inesorabile alla distruzione, ma non per questo si sentiva meno triste. Se non ci fosse stato lui, Gilbert ora sarebbe morto, il suo corpo martoriato accasciato sull'asfalto, il suo sangue sparso a terra e la sua bellezza fredda e sporca infranta senza alcun riguardo, perduta per sempre.

I giorni continuavano a susseguirsi senza che nulla cambiasse nella loro routine: di giorno Gil componeva musiche, buttava giù testi, suonava e cantava senza fermarsi nemmeno per mangiare, ma di notte prendeva il suo maledetto accendino e bruciava ogni cosa, spargendone le ceneri nell'aria.
Alan non sapeva cosa fare: da una parte avrebbe voluto che Gilbert smettesse di notte di bruciare la sua musica, dall'altra avrebbe ancora più preferito che smettesse di bruciare se stesso durante il giorno, sprecando ore e ore di lavoro che non avrebbero portato a nulla. La sua voce infatti incominciava a stancarsi, le sue dita erano piene di tagli più o meno profondi causati dalle corde della chitarra, le sue occhiaie sempre più scure e i sorrisi rarissimi. Sembrava che qualcosa lo divorasse da dentro, un qualcosa che gli stava risucchiando ogni luce. Tutto in lui era grigio e pallido, e ormai anche i suoi testi iniziavano a ripetersi e a diventare sempre meno pregnanti e interessanti, fino a che, Alan n'era certo, si sarebbero definitivamente esauriti, insieme alle forze di Gilbert.
La musica di Gilbert, proprio quella che Alan pensava lo stesse salvando, stava invece diventando la sua malattia, ma, pur di non vederlo di nuovo affacciarsi nel vuoto, pur di non vedere più le sue lacrime disperate e sentire i suoi morsi sulla pelle, aveva smesso di opporre alcuna resistenza alla sua bramosia di creare qualcosa di nuovo a tutti i costi e se ne stava seduto in un angolo, ad ascoltare e basta.
Le canzoni che creava mentre il Sole era ancora alto nel cielo, però, non erano nulla in confronto a quelle che aveva iniziato a creare di notte. E Alan sapeva bene che erano quelle che componeva al buio e con le dita ancora sporche della cenere dei suoi spartiti quelle che realmente rispecchiavano il suo essere.
Alan si sedette in un angolo del divano, affianco a Gilbert, ancora scosso da singhiozzi che ormai sempre lo trovavano non appena aveva compiuto la sua opera di distruzione. Non trascorse molto tempo, però, prima che si calmasse e si alzasse da quel posto sicuro che erano le sue braccia per avventurarsi nella sua camera da letto.
Tornò con un'enorme scatola di cartone sigillata. Prese il suo coltellino svizzero e l'aprì, rivelando un basso. Alan non aveva idea di come l'avesse comprato, con quali soldi e con quale tempo, e nemmeno sapeva se fosse o meno capace di suonarlo, ma non gli chiese nulla, rimanendo solo a guardare.
Gilbert non tentò di adoperarlo, né di strimpellare qualcosa – anche perché non aveva alcun amplificatore e nemmeno avrebbe potuto usarlo nell'appartamento in cui si trovavano, visto che erano in affitto e già un paio di volte il proprietario aveva minacciato di buttarli fuori di casa per i loro “schiamazzi” –, ma restò lì, a sfiorarne le corde con le dita sottili, immaginando di suonarle.
Prese poi una penna nera e iniziò a scrivere freneticamente sugli spartiti, seguendo una melodia che aveva in testa e che non poteva neppure provare.
Quello che sembrava un Paradiso si era tramutato in Inferno. Ma d'altronde era sempre stato così, con Gil. L'unico problema era che ormai vi era caduto anche Alan e difficilmente sarebbe riuscito ad uscirvi.
Sacrificio, ancora e ancora.

Sì alzò dal letto e posò le dita sul corpo tiepido di Gilbert, accoccolato al suo fianco. Si stava trasformando di nuovo in una piacevole abitudine, la sua presenza, ma questa volta Alan aveva messo da parte ogni pensiero che lo riconducesse all'idea che la loro storia sarebbe finita in modo positivo, l'unica cosa che si concedeva di sperare era che almeno durasse.
Aveva preso un impegno con se stesso, e avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per rispettarlo: lui era la camelia bianca che Gilbert aveva preso dolcemente fra le dita quell'unico giorno in cui aveva indossato una camicia bianca, lui era tutto il profondo affetto, la devozione e la fedeltà che Gilbert potesse mai sognare di ricevere. Gli avrebbe mostrato la gola in segno di resa e sottomissione, gli avrebbe permesso di graffiarla con la punta di un coltello, di affondarci i denti o, cosa ancora più intima, di baciarla con trasporto.
Avrebbe sanguinato per lui, si sarebbe sacrificato per proteggere quello che, ormai si era rassegnato all'evidenza, era la persona che più aveva amato e amava al mondo, la persona che sarebbe stata la sua unica dipendenza e ossessione.
Proprio mentre accarezzava la schiena di Gil, proprio mentre osservava le ossa sporgenti delle scapole, proprio mentre la luce illuminava la sua pelle candida, proprio mentre lo guardava lì, immobile e completamente in sua balìa, capì che avrebbe rinunciato al suo futuro per lui. Che cosa sarebbe infatti stata la sua vita senza quel fragile fiore di vetro fra le dita? Si sarebbe sentito inutile e inetto, avrebbe perso il suo scopo e il suo amore, non solo per Gil, ma anche per se stesso.
Si avvicinò al suo orecchio e, sereno, gli sussurrò che sarebbe andato ovunque fosse andato anche lui, che se avesse abbandonato la scuola, lo avrebbe fatto anche lui, che se avesse deciso di gettarsi nel vuoto, se non fosse riuscito a impedirglielo allora l'avrebbe seguito.
Quindi si addormentò e cadde in un sonno senza sogni né angosce.

Alan non riusciva a smettere di tremare, le dita tendevano spasmodiche la carta a righe che aveva trovato sul comodino.

 
So che non è da me lasciare biglietti, né fare scenette melense inutili e scontate.
Se si fosse trattato di qualcun altro, me ne sarei andato e basta, ma si tratta di te.

Alan strinse con più forza il foglietto, quasi fino a strapparlo.
 
Ho detto che voglio lasciare la scuola, ma non ti ho detto che voglio anche lasciare l'appartamento, la città e qualsiasi cosa mi leghi a questo posto. Se voglio smettere di soffocare, devo essere completamente libero da vincoli. Mi capisci, no?

Alan lesse ciò che c'era fra le righe: fra tutti i vincoli sapeva di essere il più forte. Ecco cosa mancava, in quella lettera: Devo liberarmi di te, Al, perché sei un vincolo, il più soffocante di tutti.
 
Non so dove andrò, nemmeno per quanto tempo starò via. D'altronde non ho mai creduto ai 'per sempre', perché dovrei iniziare adesso?
Volevo solo farti sapere che sto bene, che starò bene. E voglio che anche tu stia bene, perché non riuscirei a perdonarmi di essermene andato senza essere sicuro che tu non sia più felice così.
Sì, ne sono convinto, tu sarai più felice, senza di me.

Alan rise amaramente, lasciando che le lacrime che si erano accumulate negli angoli dei suoi occhi cadessero silenziose sul foglio. Era stato egoista fino all'ultimo, mostruoso fino alla fine, un alto inutile cliché usato solo per giustificare se stesso. Perché no, non sarebbe stato più felice, non lo sarebbe più stato senza di lui. Ma che ne sapeva Gilbert, d'altronde? Non aveva mai visto la sua devozione, il suo amore bruciante, il suo sacrificio. Che ne poteva capire, lui, dell'amore? Era un mostro che a malapena si reggeva in piedi di giorno e che di notte esplodeva in attacchi violenti contro se stesso e tutto ciò che lo circondava. E anche la sua musica era mostruosa, di giorno perché inetta e vana, di notte perché silenziosa e muta.
 
Me ne vado, Al, ma non è un addio, questo posso promettertelo. Un giorno o l'altro tornerò, ti troverò con una bella ragazza al fianco e un sorriso soddisfatto su quella brutta faccia che ti ritrovi e ti offrirò una birra. E tu farai fatica a riconoscermi, perché ormai mi avrai dimenticato.

Dimenticarlo, sì, come se fosse possibile dimenticare il suo corpo magro e spigoloso, il suo calore e le sue mani fredde, i suoi capelli sempre scarmigliati, le sue labbra carnose e i suoi occhi spenti. E le sue ciglia, e le sue dita, e il suo sorriso, e tutto quanto. Come se fosse possibile dimenticare dieci anni della propria vita.
 
Ti voglio bene, Al, e grazie di tutto.

Gil

Alan finì di leggere le ultime righe, trovando la conferma che tutto ciò che c'era stato fra loro nella mente di Gilbert non era stato altro che qualcosa riassumibile in un “ti voglio bene”. Prese quindi il foglio e iniziò a strapparlo ancora e ancora, fino a che non divenne una manciata di coriandoli a Carnevale nelle mani di un bambino. Ma subito dopo se ne pentì e si chinò per terra a raccogliere ogni frammento, a cercare affannosamente di rimettere tutto a posto, di trovare di nuovo la scrittura spigolosa di Gilbert, spigolosa come lui.
Lo voleva lì, dannazione quanto lo voleva. E sapeva che gli avrebbe permesso di commettere su di lui di nuovo tutte le torture che gli aveva fatto subire i quei dieci anni pur di averlo vicino. Avrebbe dato la sua stessa carne per poterlo vedere, accarezzare, abbracciare, baciare.
Ma ora, nella loro casa, prima sempre piena della sua voce, c'era solo il silenzio, spezzato a malapena dai singhiozzi di Alan che, dentro di sé, non faceva altro che pensare a una parola: sacrificio.

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Capitolo 4
*** Epilogo ***



When the hour is nigh
And hopelessness is sinking in
And the wolves all cry
To feel they're not worth hollering
When your eyes are red
And emptiness is all you know
With the darkness fed
I will be your scarecrow.”
 
Due anni dopo.

Alan iniziò a salire le solite scale, a percorrere i soliti corridoi e a lasciar vagare lo sguardo lungo i soliti spazi.
Quel mattino aveva avuto il suo primo colloquio di lavoro ed era andato uno schifo, quindi aveva deciso di tornarsene nel suo appartamento malmesso per riposarsi e, perché no, farsi una birra in compagnia di Sé e, se avesse deciso di partecipare, anche di Se stesso.
Alan, davvero è il momento di fare ironia?, si riprese mentalmente, continuando a salire i gradini.
Arrivò finalmente davanti alla porta, ma una sorpresa lo attendeva: una busta bianca sporgeva da sotto l'uscio, invitante. Alan l'afferrò incuriosito, quindi entrò in casa e, senza nemmeno curarsi di togliere le scarpe, la aprì.
Si trattava di una locandina in bianco e nero, dominata da candidi disegni minimali dai contorni spigolosi che, in qualche modo, infastidivano Alan. Ma non furono quelle immagini a farlo rimanere fermo sul posto, improvvisamente congelato, come non fu a causa loro se iniziò a tremare profondamente e con violenza, tanto forte che dovette reggersi al tavolo.
Nel nero della pagina si delineava il profilo affilato di un ragazzo molto giovane, con i capelli spettinati e le labbra da donna, un profilo che Alan conosceva così bene che sarebbe riuscito a disegnarlo ad occhi chiusi. In quella foto sembrava estremamente sicuro di sé, con quello sguardo puntato fisso di fronte a sé, con la linea della bocca decisa e determinata; pareva aver perso tutta la debolezza e la fragilità che lo caratterizzavano, che l'angelo perduto che era avesse ritrovato la strada e, con essa, anche la forza interiore che gli era sempre mancata.
Solo ad una seconda occhiata Alan si accorse, appena riuscì a staccare gli occhi da quel viso così familiare eppure, allo stesso tempo, così diverso, di una breve didascalia con la data – 21 ottobre –, l'ora e il luogo del concerto. Sì, perché il suo Gil avrebbe tenuto un concerto e, anche se si trattava di un piccolo locale, Alan non poté fare a meno si sentirsi in qualche modo orgoglioso di lui. Si sentì improvvisamente un fratello maggiore, un padre che si è appena reso conto di quanto il proprio bimbo sia cresciuto, e provò una tenerezza immensa, accompagnata da una buona dose di rimorsi e nostalgia.
Negli ultimi due anni aveva capito i suoi errori, ma non si era dimenticato di Gilbert e nemmeno era riuscito a superarlo. Aveva fallito, da quel punto di vista, ma forse ora la sua vita avrebbe ripreso a scorrere, a correre.

Il locale era semivuoto, non erano presenti più di quindici persone e, a dire il vero, Alan ne comprese anche il motivo: le pareti di quella sorta di bar erano spoglie e negli angoli s'intravedevano macchie di umidità, a malapena nascoste da pesanti tende scure e quadri dalla dubbia bellezza, senza contare poi il volto arcigno della donna dietro al bancone. Eppure era lì che Gilbert avrebbe suonato e, anche se non sarebbe stato un granché come debutto, era pur sempre un inizio. E poi ad Alan non importava dove avrebbe cantato, a lui interessava solo che l'avrebbe fatto.
Avrebbe voluto dire di essere felice di trovarselo di nuovo di fronte dopo due anni, ma la verità era che l'unica cosa che sentiva in quel momento era un grumo di emozioni che nemmeno lui avrebbe saputo definire. Di certo era inclusa la paura, e anche eccitazione, ansia, malinconia, nostalgia. Afferrò la birra che la donna gli aveva appena passato, da dietro il bancone, e nel farlo si accorse di star tremando visibilmente.
Chiuse gli occhi, cercando di scacciare ogni pensiero e ritrovare le motivazioni che l'avevano spinto fin lì a sedersi in quello squallido locale, davanti a quella donna, fra altre persone che non conosceva nemmeno e che probabilmente si trovavano lì per caso.
Fu un singolo accordo proveniente dalla sua sinistra a scuoterlo improvvisamente. Un accordo cristallino ma frettoloso, probabilmente suonato per un veloce soundcheck, ma paradossalmente bastò solo quello a fargli riconoscere la mano che lo stava suonando.
Spalancò gli occhi e lo vide, lì, in piedi in quell'angolo di locale, senza che nessuno lo stesse realmente guardando, nessuno tranne lui. Non era cambiato di una virgola, aveva sempre gli stessi capelli scompigliati, lo stesso viso da bambino, le stesse spalle un po' curve in avanti, i vestiti neri, i movimenti da gatto. Era sempre pelle e ossa e aveva l'aria di uno che da un momento all'altro sarebbe potuto cadere a terra senza più alzarsi. Gli occhi erano abbassati sul suo basso, le ciglia chiare li coprivano, e Alan iniziò a sperare con tutto se stesso che li alzasse e lo vedesse, che venisse da lui e lo baciasse, che gli sorridesse.
All'improvviso iniziò a parlare nel microfono, presentando se stesso e le sue canzoni, ma la sua voce non riuscì a farsi strada nelle orecchie distratte di quelle quindici persone. Alan avrebbe voluto possedere il potere di far concentrare le menti attorno a lui su quel ragazzo che, un po' timido ma allo stesso tempo deciso, aveva iniziato a parlare. Per fortuna, però, quel potere Gilbert lo possedeva già, e non aveva alcun bisogno di Alan per metterlo in pratica.
Iniziò a suonare, e note profonde e laceranti iniziarono a rimbombare nel cuore e nelle orecchie di Alan, provocando in tutti gli ascoltatori una sensazione a metà fra il disagio e il fascino nei confronti di quella canzone, tanto che trenta occhi – assieme ad altri due, quelli della donna dietro al bancone – si voltarono verso di lui. Era Gilbert, quella musica, Alan lo sapeva, era lui in tutto e per tutto. Aveva spremuto il suo essere in quell'insieme di note, ma fu solo quando incominciò a cantare che si rese conto che, oltre a se stesso, aveva aggiunto anche qualcos'altro.
Alan capì. Quella canzone era solo per lui, era tutto ciò che Gilbert poteva offrirgli, un riconoscimento, un “grazie” smozzicato, un bacio leggero sulle labbra, un abbraccio. E allo stesso tempo lo stava come schiaffeggiando, rimproverandogli tutto ciò che gli aveva sputato in faccia, tutto il suo sacrificio, tutta la sua ossessione mascherata da amore, che solo dopo due anni aveva saputo riconoscere come tale. Entrambi avevano sanguinato, entrambi si erano smarriti nell'altro, entrambi erano diventati una camelia bianca per l'altro e solo ora che Alan l'aveva capito, solo ora che Gilbert era stato pronto a mostrarglielo avrebbero potuto stare insieme davvero, solo ora avrebbero potuto dare un nome a ciò che li legava.
Alan si alzò senza riuscire a trattenersi, si avvicinò al punto in cui Gilbert stava suonando e gli si mise davanti, in modo che lui non potesse far altro che guardarlo. Non ci furono incertezze nella sua voce o nelle sue dita appena incrociò il suo sguardo, anzi, il suo canto divenne più intenso e le sue note ancor più precise, come se volesse dimostrargli che, anche senza le sue braccia pronte a sorreggerlo, era riuscito a non cadere, a non perdersi. Era lì, in tutta la sua forza e consapevolezza, a fissarlo dritto negli occhi con una sicurezza che mai Alan avrebbe pensato di trovare in lui.
Poi Gilbert sorrise, e tutto il miscuglio di sensazioni che Alan sentiva nello stomaco si sciolse improvvisamente, sommergendolo. Una lacrima, poi un'altra e un'altra ancora rotolarono sul suo volto, mentre le sue orecchie e il suo cuore si riempivano con ciò che la voce roca di Gilbert cantava.

I’m bleeding out for you (for you) 
I’m bleeding out for you (for you) 
I’m bleeding out for you (for you) 
I’m bleeding out for you






 

Note autrice:
Dunque, prima di arrivare alle vere e proprie “note autrice”, vorrei spendere due parole per spiegare come è nata questa storia. È nata qualche mese fa, probabilmente intorno a ottobre/novembre, in un momento in cui avevo moltissima voglia di scrivere, moltissime idee ma zero tempo. Avrò scritto i primi due paragrafi così, con una trama ben precisa in testa e tanta voglia di svilupparla, ma poi, tutto d'un colpo, l'ispirazione è sparita e, con essa, la mia vita ha preso una piega non proprio positiva. Questa storia è il frutto di tutte le frustrazioni di quest'ultimo periodo, di tutta la rabbia, la tristezza e i sentimenti negativi che ho provato; è una sorta di luogo in cui mi sfogavo, senza riportare ciò che mi è accaduto ma utilizzando invece ciò che ho sentito. È per questo, infatti, che ci sono tanti paragrafi che sembrano quasi staccati fra di loro, è per questo che le storie di Alan e Gilbert sembrano quasi dei racconti ad episodi. Infatti l'unico modo che mi è sembrato adatto per combattere la mia mancanza d'ispirazione è stato scrivere esattamente ciò di cui avevo voglia in quell'istante, senza tener troppo conto della trama.
Ora veniamo alle note più pratiche.
Il titolo, le citazioni all'inizio di ogni capitolo e il testo della canzone che suona Gilbert nella conclusione sono tratti dalla canzone “Bleeding out” degli Imagine Dragons. A differenza delle altre volte, non consiglio di ascoltare quella canzone come sottofondo perché non c'entra molto, la melodia, però il testo mi è stato utilissimo per portare avanti il racconto.
La storia ha preso largamente ispirazione da “La signora delle Camelie” di Dumas. Non c'è una vera e propria riproposizione dei meccanismi e degli intrecci di quest'opera, ma credo di averne inserito molte tematiche, in particolare per quanto riguarda il legame che c'è fra Alan e Gilbert, anche se ho reso il tutto un po' – tanto lol – più “malato”. Poi ho utilizzato anche il significato delle camelie bianche (non quello della protagonista dell'opera di Dumas, però), come viene riportato anche all'interno della storia stessa. Inoltre ho ripreso alcuni momenti della storia originale per far andare avanti la trama (Gilbert che decide di andarsene lasciando un biglietto, per esempio, e proprio del biglietto ho ripreso alcuni concetti che usa anche la protagonista dell'opera).
Infine vorrei spiegare un meccanismo che ho scelto nella narrazione: quasi tutti i capitoli sono composti da una parte in corsivo, tre paragrafi scritti normalmente, un salto temporale (che indica l'inizio della seconda parte del capitolo) e lo stesso schema. Questo perché ho voluto descrivere ciò che accadeva durante la notte in corsivo, come a dire che si tratta di una sorta di “vita parallela”, più oscura e in qualche modo più sporca rispetto a quella che invece vivono durante il giorno. Nell'ultimo capitolo prima dell'epilogo, invece, queste due parti si mescolano, perché quella notturna ha preso il sopravvento su quella diurna, senza quindi più esserci motivo di una vera separazione. Nell'epilogo invece non ho tenuto conto di questo perché... beh, è un epilogo xD.
Questa storia, inoltre, ha partecipato anche a un contest "The Path of Your Pack", di cui ho utilizzato i prompt “confondere Inferno e Paradiso” e “fragile come il vetro”.
Inoltre vorrei aggiungere che ho preso spunto da altri prompt di un altro contest, a cui però, per l'ispirazione ballerina e il poco tempo, non ho potuto poi, alla fine, partecipare, ma che comunque cito ugualmente per correttezza: "Slash is love, yaoi is life".
La dicitura “[Racconti di Mezzanotte]” è stata presa da una mia raccolta su Wattpad dove avevo messo tutte le shot già pubblicate su EFP, e mi piaceva molto come titolo, anche perché ho in mente di usare, come “prompt comune” il tema della notte.
Inoltre la storia è stata scritta per il contest fiume indetto da Sango sul forum di EFP, chiamato "A mille ce n'è... di slash da narrar!".

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