Be with you

di Helena Kanbara
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***



Capitolo 1
*** I ***


And if you’ve never felt
your soul torn apart,
you’ve never loved
someone with all your heart.
 
Rosa. Rosa, rosa, rosa.
Pareti rosa, cuscini rosa, lenzuola rosa, vestiti rosa. Non vedevo nient’altro che quello.
Mi voltai sul fianco destro, scalciando malamente il piumone – rosa – nel quale durante la notte mi ero arrotolata come un bruco nel bozzolo. Individuai sul comodino in legno bianco di fianco al letto matrimoniale la sveglia rosa e anche se ancora del tutto intontita dal lungo viaggio che mi aveva condotta ad Austin nel bel mezzo della notte, capii subito di essere lì e non più a Beacon Hills – a casa Stilinski. E a giudicare da tutto il rosa che c’era in giro, decisamente non avevo dormito nella mia cameretta.
Sorrisi immediatamente ripensando al perché, poi mi stesi di schiena e rimasi a fissare il soffitto bianco della stanza di mia sorella Cassandra finché non mi sentii sveglia abbastanza da credere che sarei sopravvissuta fuori da quel caldo e comodo letto. L’orologio segnava le nove del mattino e Cass, dato che non era più lì accanto a me, doveva essere già sveglia. Proprio come mia madre Jenette, intuii dai rumori che mi corsero alle orecchie nel momento in cui mi ritrovai nel bel mezzo del corridoio di casa Carter.
M’immobilizzai per un attimo, terrorizzata – stupidamente – dall’idea che qualcuno potesse scoprirmi mentre andavo a fare visita a Stiles. Mia madre ci aveva proibito di dormire insieme, non di certo di respirare la stessa aria. E poi stavo solo andando a controllare se fosse sveglio o meno, mica avevo intenzione di saltargli addosso come sembravano credere tutte le donne in quella casa. Cioè, oddio, se si fosse presentata l’occasione non me la sarei lasciata scappare, ma…
Scossi la testa, scacciando con violenza quei pensieri inopportuni e deleteri – soprattutto se fatti di primo mattino. Feci scivolare le dita sulla maniglia ed aprii velocemente la porta, entrando nuovamente nella cameretta che non abitavo più da quelli che mi sembravano secoli. L’esperienza di Intercultura alla quale mi era stata data l’opportunità di partecipare mi aveva portata lontana dalla mia città natale e realizzai in quel momento – per l’ennesima volta – fissando ogni singolo oggetto lì presente, di quanto quella parte della mia vita mi fosse mancata nonostante tutto. Poi i miei occhi corsero al letto.
Se solo l’estate prima mi avessero detto che per Natale avrei avuto un ragazzo che ci avrebbe dormito dentro come fosse casa sua, sarei scoppiata a ridere gridando all’assurdità. Ma Stiles era sul serio lì, con la faccia affondata nel cuscino e Randall al fianco.
… un momento. Randall?
Strizzai gli occhi, sperando fosse tutto un sogno. Ma nonostante quanto ci provassi, la figura a macchie del mio alano combinaguai restava sempre lì di fronte alle mie iridi. Dovetti soffocare un urlo infuriato, premendomi le mani sulle labbra. Randall ne aveva combinata un’altra delle sue, avrei dovuto aspettarmelo. Invece impallidii mentre lo raggiungevo a letto e cominciavo a scuoterlo malamente nella speranza che si svegliasse prima che potesse vederlo mia madre. Sicuramente durante la notte aveva trasformato il caldo piumone bianco in un disastro, ergo dovevo liberarmene in fretta e furia prima che Jenette andasse in escandescenze. Contavo nell’aiuto di Cassandra o Stiles, ma prima avrei dovuto svegliare non solo lui ma anche quell’ingrato del mio cagnolone.
«In piedi, dormiglione», borbottai, cercando inutilmente di trascinarlo a terra sulla moquette – dove sarebbe dovuto restare, mannaggia a lui.
Dovetti insistere ancora a lungo, ma alla fine Randy si risvegliò dal suo sonno di bellezza e mi guardò coi suoi intensi occhi marroni. Quelli ai quali non riuscivo mai a dire di no.
«Non provarci», lo redarguii, puntandogli un dito contro prima di indicare con fare perentorio il pavimento. «Giù».
Lo ripetei un paio di volte, ma alla fine i risultati dell’addestramento al quale l’alano si sottoponeva già da un bel po’ di tempo si fecero vedere. Randall infatti si catapultò sulla moquette, portandosi dietro – manco a dirlo – buona parte del piumone. Sbuffai, osservandolo con espressione affranta mentre pensavo al da farsi. Dovevo assolutamente liberarmene, ma prima mi toccava svegliare Stiles. Non me lo feci ripetere due volte prima di infilarmi a letto di fianco a lui.
Oddio, mi era mancato. Riuscii a pensare solo a questo nel momento in cui mi ritrovai di nuovo tra le sue braccia. Da quando mi ero trasferita a Beacon Hills circa tre mesi prima, avevo dormito insieme a Stiles ogni volta che volessi e non poterlo fare allora per volere di mia madre mi stava pesando molto più di quanto avessi creduto. Ormai ero anche fin troppo dipendente dalla presenza di Stiles, il che mi provocò una fitta di dolore al pensiero improvviso di come avrei reagito all’idea di doverlo salutare per sempre quando l’Intercultura fosse finita.
Scossi la testa, decidendo bene di non pensarci. Non potevo rovinarmi le vacanze natalizie in quel modo. Cercai le guance di Stiles, stampandovici sopra un bacio ciascuna. Poi feci altrettanto con le tempie, la fronte, il mento… Mi fermai ad un passo dalle sue labbra, immobilizzata dallo sguardo ambrato di Stiles che mi ritrovai addosso all’improvviso. Era sveglio.
Gli sorrisi e lui mi ricambiò presto, completando ciò che avevo già cominciato e dandomi un bacio sulle labbra.
«Dovresti svegliarmi sempre così», mormorò prima di guardarsi attorno con aria confusa. «Dov’è finito il tuo cane?».
Rabbrividii al pensiero di Randall, poi cercai la sua imponente figura all’interno della mia stanza. Ma sembrava sul serio svanito.
«Non lo so», conclusi infine, tornando a fissare Stiles con occhi dispiaciuti. «A proposito, mi dispiace che tu te lo sia ritrovato a letto. Randy è imperdonabile come al solito».
Stiles sbuffò una risata non troppo convinta, prendendo a giocare distrattamente coi miei capelli lunghi e arruffati dal sonno.
«Penso che mi odi perché non ci sei tu, qui. Stanotte ho provato a tenerlo lontano, ma non ne voleva sapere», raccontò.
«Mi dispiace così tanto. Dobbiamo cambiare queste lenzuola prima che mamma se ne accorga. Mi aiuti?».
Stiles non se lo fece ripetere due volte.
«Ovviamente», annuì, scattando in piedi prima ancora che potessi accorgermene sul serio. «Che facciamo oggi?», domandò poi, prima di indicare il letto con un cenno veloce: «A parte questo, intendo».
Sorrisi, poi lo imitai mettendomi in piedi e cominciando a trafficare col piumone.
«A pranzo stiamo qui, come sempre. Ci saranno i miei nonni materni, il fratello di mia madre con rispettiva moglie e figli, il fidanzato di mia sorella e il compagno di Jenette», dissi, un po’ spaventata all’idea che Stiles dovesse conoscere una così larga parte della mia famiglia.
Io stessa avevo vissuto un’esperienza simile pochissimo tempo prima e sapevo come ci si potesse sentire. Ma Stiles sembrava perfettamente tranquillo mentre, di fronte a me, mi aiutava a liberare il letto dal piumone sporco. Di nuovo, grazie mille, Randall.
«Non mi avevi mai detto che ne avesse uno», mormorò dopo un po’, e capii subito che si riferisse ad Adam Key, l’uomo col quale mia madre Jenette stava provando già da un po’ a rifarsi una vita dopo mio padre.
A Stiles non ne avevo mai parlato, era vero. Avevo speso milioni di frasi su Philip Carter, l’uomo che mi aveva abbandonata per – apparentemente – mettere al primo posto la sua carriera di musicista, salvo poi riapparire nella mia vita pochissimi mesi prima e fare ulteriore luce sui misteriosi poteri di chiaroveggenza che Beacon Hills aveva risvegliato in me. Ma non avevo mai parlato di Adam, ecco perché rimediai subito in quel momento.
«È un tipo a posto», raccontai, ma il resto di quell’elogio mi restò incastrato in gola.
Nel silenzio improvviso della camera, Stiles mollò il lenzuolo e mi cercò con gli occhi color ambra.
«Ma…?», domandò, curioso di conoscere il motivo della mia improvvisa titubanza.
Ma non è mio padre.
Sapevo che non avrei mai avuto il coraggio di dirlo, perciò me ne rimasi zitta con gli occhi fissi sulla coperta. Mi odiavo per quei pensieri inopportuni: Philip mi aveva abbandonata pochi giorni dopo la mia nascita – senza mai interessarsi a me nemmeno per sbaglio – eppure eccomi lì a sperare che potesse far parte della mia vita e tornare insieme a mia madre. L’avevo già perdonato. Ma come fare altrimenti dopo che mi aveva salvato letteralmente la vita?
«Non è niente, tranquillo». Provai a rassicurare Stiles, mettendo su un sorriso falso che lui intercettò senza problemi. Ecco perché – prima che potesse aggiungere qualsiasi altra cosa – cambiai agilmente discorso. «Oggi pomeriggio usciamo. Ti presento un po’ di miei amici».
 
Subito dopo il pranzo della Vigilia, Danielle mi raggiunse a casa e mi travolse in uno dei suoi soliti “abbracci da orso” non appena mi vide. Le accarezzai i capelli rosso Ariel, inspirando a fondo un profumo che credevo già di aver dimenticato. Da quando mi ero trasferita a Beacon Hills non era passato giorno senza che sentissi per almeno due minuti la mia migliore amica, eppure Dani mi era mancata comunque moltissimo. Ci conoscevamo da sempre e il non poterla avere accanto mi pesava, ma per fortuna in California avevo trovato un sacco di persone speciali e la più importante di queste era proprio lì insieme a me.
«Vieni, ti presento Stiles», mormorai, spazzando via una lacrima dispettosa e forzando un sorriso.
Danielle squittì, allegra come suo solito mentre mi stringeva forte le mani e lasciava che la trasportassi in salotto. Era pomeriggio inoltrato ma ancora tutti i miei parenti infestavano la casa in attesa della cena e soprattutto della mezzanotte, che avremmo trascorso insieme ad aprire i regali e scambiarci auguri. Sorrisi, pensando che quello sarebbe potuto diventare senza problemi il Natale migliore di tutta la mia vita.
«Stiles, lei è Danielle. La mia migliore amica», presentai. Dani non se lo fece ripetere due volte e si allungò a cercare la mano di Stiles, il quale gliela strinse dopo essersi messo in piedi. «Danielle, lui è Stiles».
Avrei potuto aggiungere qualcos’altro, ma non lo feci. Niente etichette per Stiles. Tra di noi era meglio così.
«Scommetto che non hai ancora deciso cosa mettere». Pochi minuti dopo le dovute presentazioni, Danielle si voltò a squadrare la maxi-felpa di Bart Simpson dalla quale ancora non avevo osato separarmi.
Le scoccai un sorrisino non troppo convinto: quella bellissima rossa mi conosceva fin troppo bene e la cosa, lo sapevo benissimo, era un’arma a doppio taglio.
«Può darsi…», ammisi in un sussurro, mentre Stiles ridacchiava prima di defilarsi perché anche lui aveva bisogno di prepararsi per uscire.
Non sapevo che piani avessero fatto esattamente i miei amici, ma di sicuro ci saremmo riuniti tutti in qualche caldo bar per passare un po’ di tempo insieme prima di cena. E sinceramente, non avrei potuto chiedere di meglio.
Danielle alzò gli occhi al cielo con aria divertita, poi mi trascinò verso camera mia. Ma ad un passo dalla soglia dovetti fermarla.
«Ehi», ridacchiai, «Ci dorme Stiles, lì».
Dani sgranò i caldi occhi marroni ed io la lasciai crogiolarsi nella sua confusione mentre mi rifugiavo in camera di mia sorella Cassandra. A dire il vero sapevo già perfettamente cos’avrei indossato – aspettavo solo che Danielle mi spronasse un po’ giacché non ero proprio sicurissima della mia scelta – e avevo già provveduto a trasferire l’abito rosso con annessi collant e decolletè nere lì.
«Jenny vi ha divisi perché ha paura che vi possiate saltare addosso». Danielle mi raggiunse all’interno della stanza soffiando quelle parole con aria ancora troppo attonita perché potessi non ridere.
Le chiusi la porta alle spalle, aspettando con calma il momento in cui sarebbe sbottata in pieno stile Shelton.
«Tu vorresti saltare addosso a Stiles!».
Proprio come da piano.
Risi debolmente, non riuscendo a non annuire. Danielle mi conosceva meglio delle sue stesse tasche, era inutile che le nascondessi verità che lei avrebbe letto sul mio viso senza problemi. E a proposito di questo…
«Dani, c’è una cosa importante che devo dirti», mormorai, lasciando da parte il vestito per sedermi sul letto di Cass.
Danielle mi raggiunse a grandi falcate, puntandomi un indice contro.
«Puoi scommetterci, signorina! Ti fidanzi ed io non ne so nulla?».
Sobbalzai a quella domanda. Non ero fidanzata. Non ancora. Ma preferivo decisamente non pensarci.
«Ascoltami, Dani», implorai, cercando di restare tranquilla. Purtroppo, bastava il solo pensiero di ciò che avrei confessato anche a lei per farmi andare in tachicardia. «Siediti qui accanto a me. Devo parlarti».
La mia migliore amica obbedì e subito la sua espressione cambiò. Da incredula ritornò confusa e poi apprensiva.
«Di che si tratta?», mi domandò. «Devo spaventarmi?».
Scrollai le spalle. Forse. Forse sì, avrebbe dovuto spaventarsi. Ma non glielo dissi.
«A Beacon Hills ho scoperto un sacco di cose», raccontai, cercando di nuovo le sue mani con le mie. «Sulla mia famiglia. E su di me».
«Che genere di cose?».
Deglutii a fondo prima di continuare. «Cose soprannaturali. Sono coinvolte strane creature ed improbabili poteri. So che potrebbe sembrarti assurdo, ma è la verità. Ed io non sono pazza, Dani. Il migliore amico di Stiles… è un licantropo. Mio padre e gran parte dei suoi familiari posseggono poteri di chiaroveggenza. Li ho anch’io–».
Le parole continuavano a venirmi fuori con la velocità dell’acqua che scende giù da una ripida cascata, almeno finché Danielle non m’interruppe di scatto.
«Harry», borbottò, stringendomi le mani tanto forte da farmi quasi male. «Sei un po’ fuori tempo per il Pesce d’Aprile».
Tipica reazione.
«Non è uno scherzo, Dani. Ascoltami, per favore», pregai. «Io riesco a prevedere il futuro. Volendo potrei dirti cosa ti regalerà Kyle questa sera. E i miei poteri crescono sempre più. Alle volte mi sembra addirittura di poter leggere i pensieri degli altri».
Ripensai di sfuggita a cosa mi era successo a casa di Victor Daehler, il fratello di Matt. Lui non mi aveva detto nulla eppure io avevo capito subito che fosse perfettamente sincero quando mi diceva di non saperne assolutamente nulla riguardo Matt e i suoi loschi affari col kanima.
Ma a Danielle serviva ancora diverso tempo per metabolizzare.
Mi mollò le mani fredde, sollevando un sopracciglio nella mia direzione con aria scetticissima.
«Davvero? Prova a leggere i miei, allora», sfidò.
Boccheggiai. «Non… Non funziona così a comando, mi dispiace. Non sono ancora tanto brava».
«Certo, certo», Danielle soffocò una risatina incredula e poi si mise in piedi di botto, lasciandomi sola sul bordo del letto, «Fortuna che ti voglio bene, perché in quanto a senso dell’umorismo hai sempre fatto pena».
Fece per allontanarsi da me, ma glielo impedii velocemente afferrandole un polso.
«Danielle», sussurrai, poco prima di catapultarmi lontana da lì. Un’altra volta ancora lasciai che la visione si sovrapponesse alla realtà, pensando intensamente a ciò che volevo vedere. Uno strano brillio mi illuminò le iridi, strappandomi il respiro. Era un anello. «Kyle ti regalerà un anello, Dio mio».
«COSA?».
 
Qualunque componente della mia vecchia comitiva che non avesse lasciato il Texas in occasione delle vacanze natalizie venne invitato all’uscita di quel pomeriggio ed io potei rivederli quasi tutti. Fu un’esperienza meravigliosa e commovente, ma per fortuna riuscii a non scoppiare nuovamente in lacrime e a fare le dovute presentazioni senza rovinarmi il trucco che Danielle aveva steso perfettamente sul mio viso. C’erano quasi tutti i miei amici, ad eccezione dei gemelli Royal, Taylor – la mia migliore nemica – e… Ryan. Ryan Nelson, il biondo-occhi azzurri per il quale avevo avuto una cotta secolare conclusasi l’estate precedente con qualche uscita di poco conto e un misero bacio. Sapevo che non avrei più dovuto pensare a Ryan – non allora che avevo Stiles, non quando lui si era dimostrato tanto stupido da accorgersi di me solo quand’era giunto il momento che lasciassi Austin – ma comunque non potei fare a meno di notare la sua assenza e ne risentii, anche se tenni la cosa per me. Tra me e Ryan la relazione non era mai cominciata: eravamo troppo piccoli e inesperti perché potessimo imbarcarci senza problemi in una storia a distanza e per questo avevo preferito troncare ogni rapporto, ma credevo che fossimo ancora buoni amici e che si sarebbe degnato di uscire per darmi il bentornato in Texas. Ovviamente mi sbagliavo.
Sbuffai disturbata dai miei stessi pensieri, poco prima di abbandonare il bagno del locale a grandi falcate. Ci ero rimasta dentro per fin troppo tempo: era ora di tornare dai miei amici e divertirsi. A ‘fanculo–
«Ryan!».
Completai il mio pensiero ad alta voce, con un urlo stridulo che mi abbandonò le labbra senza che potessi riuscire ad impedirmelo dopo che scoprii fosse proprio nient’altri che Nelson il ragazzo contro cui ero finita non appena fuori dal bagno. Dannazione. Ero la solita fortunella.
«Harriet, oddio».
Gli occhi azzurri e ricolmi di sorpresa di Ryan mi corsero addosso in un lampo, mentre mi lasciava andare i polsi a rallentatore e ne approfittava per regalarmi una delle sue inopportune radiografie. Si soffermò a lungo sul mio viso, poi adocchiò l’abito rosso che infine Danielle mi aveva convinta ad indossare, le gambe coperte solo da un paio di collant neri e infine le decolletè dal tacco alto. Quando si reputò finalmente soddisfatto risalì lentamente con lo sguardo tutta la mia figura, arrestandosi di nuovo sul viso.
«Hai finito?», gli domandai quindi con aria evidentemente scocciata, incrociando le braccia al petto senza preoccuparmi di spiegargli a cosa mi riferissi.
Sapevo che Ryan ne fosse più che consapevole. Difatti non provò nemmeno a negare le sue colpe, passandosi una mano tra i capelli biondi con aria imbarazzata mentre mi chiedeva scusa in un soffio appena udibile.
«Ti trovo bene», mormorò poi, seguendomi verso il tavolo occupato dai miei amici – e Stiles – senza che nemmeno glielo chiedessi.
Arrestai la mia camminata non appena mi resi conto della cosa: non volevo portarlo lì, non volevo che vedesse gli altri, non volevo presentargli Stiles.
«Grazie», lo ringraziai quindi, voltandomi nuovamente a fronteggiarlo.
Stavo utilizzando un tono glaciale, non volevo dargli corda e speravo capisse di come sarebbe stato meglio per lui levare le tende al più presto. Volevo tornare dai miei amici, non starmene nel bel mezzo di un bar affollato a chiacchierare di cose futili con un ragazzo che non avevo mai conosciuto sul serio. Ma Ryan non si era mai dimostrato un tipo alquanto perspicace, e quella Vigilia di Natale lo dimostrò nuovamente.
«Allora, come ti sei trovata in California?», domandò, deciso più che mai a fare conversazione.
«Magnificamente».
«Ne sono felice», sorrise, prima di lanciare la prima delle innumerevoli frecciatine che proprio non vedeva l’ora di dedicarmi, «Avresti potuto chiamarmi, qualche volta. Siamo diventati due estranei, praticamente».
Dovetti trattenere un ringhio. Ormai lo conoscevo fin troppo bene da sapere che quel momento sarebbe arrivato. Ryan voleva indispettirmi e farmi scattare, perché sapeva quanto ne fossi capace e la cosa lo divertiva terribilmente. Ma quella volta non avrei ceduto, non gli avrei dato soddisfazione. Al contrario me ne rimasi tranquilla e glaciale di fronte a lui.
«Avresti potuto chiamarmi anche tu».
Harriet: 1 – Ryan: 0. Fine dei giochi, Nelson.
Dovette sentirsi pienamente sconfitto anche lui, perché sorrise di quei sorrisi falsamente divertiti e poi avanzò velocemente nella mia direzione, tanto da farmi sussultare sul posto.
«Hai ragione», accordò in un sussurro, e prima ancora che potessi rendermene conto la sua mano scivolò sul mio fianco e mi attirò a sé. «Scusami di nuovo».
Mi baciò una guancia e solo allora capii di dovermi fare lontana da quell’abbraccio goffo quanto inopportuno. Puntai le mani a palmi aperti sul petto di Ryan e tentai di districarmelo di dosso, con non pochi sforzi.
«Lascia stare. Ora devo–».
Andare. Questo avrei voluto dire. La verità. Volevo che Ryan mi lasciasse perché dovevo andare, ritornare dai miei amici e soprattutto da Stiles.
Ma prima ancora che potessi riuscire a completare la frase e scollarmi Ryan di dosso, una voce richiamò il mio nome e mi spezzò completamente il respiro in gola. Non era stato Ryan.
Mi voltai a cercare lo sguardo confuso di Stiles e ciò che vidi nei suoi occhi mi strinse immediatamente il cuore in una morsa. Ero stata via secoli e lui mi aveva appena colto in una posizione alquanto fraintendibile con un ragazzo.
«Non volevo disturbare», mormorò, ed io riuscii a pensare solo a qualcosa di molto stupido come oddio mentre lo vedevo voltarci le spalle con aria delusa.
Allora spintonai via Ryan alla velocità della luce e raggiunsi Stiles, chiamando il suo nome in un sospiro.
«Non disturbi nessuno», soffiai, quando le mie dita afferrarono finalmente il lembo della sua felpa. «Ryan se ne stava andando».
Avrei voluto controllare che Nelson mi tenesse il gioco, ma mi ritrovai incapace di distogliere i miei occhi da quelli di Stiles. Alla fine comunque Ryan dimostrò di aver acquistato un minimo di sale in zucca, perché lo sentimmo entrambi annuire prima che decidesse finalmente di defilarsi.
«Sì, è vero. Devo tornare dalla mia ragazza», confermò, poco prima di salutarmi in un sussurro.
Non appena fu sparito dalla nostra visuale, Stiles si liberò della mia stretta sul suo braccio e ritornò al nostro tavolo in assoluto silenzio. Io avrei voluto seguirlo ancora, ma al contrario me ne rimasi immobile al centro del bar, schiacciata da milioni di sensazioni contrastanti.
 
«Pronto».
«Harry».
«Papà».
«Bambina mia».
I primi minuti di quella telefonata tardiva furono un continuo botta e risposta. Almeno finché le ultime due paroline ricolme d’affetto che Philip Carter mi riservò non mi bloccarono completamente con un sorriso plastificato sul volto e le mani strette sul morbido orsacchiotto di peluche che Stiles mi aveva regalato. Era passata la mezzanotte da circa venti minuti ed era ufficialmente Natale. Potevo e dovevo fare gli auguri a mio padre.
«Auguri anche a te», ricambiò subito lui. «Come stai?».
«Qui va tutto bene. Vuoi che ti passi mamma? O Cassandra?».
Non volevo liberarmi di Phil in fretta e furia, anche se dovette sembrargli proprio così, perché lo sentii ridacchiare con aria divertita dall’altro capo della cornetta. In realtà volevo solo che parlasse con Jenny e Cass, che riallacciassero i rapporti e che la mia famiglia diventasse unita come l’avevo sempre sognata.
«Prima voglio parlare con te».
«Dimmi».
«Va tutto bene?».
Sorrisi. «Certo. Mi manca un po’ Beacon Hills». E mi manchi tu, avrei voluto aggiungere. Invece cambiai argomento. «Ma Stiles è qui con me, per fortuna».
«Mi fa piacere che abbia accettato di seguirti in Texas».
«Già, anche a me». Sorrisi di nuovo. «Sei solo?».
«No, tranquilla. Sono con la band».
La band. La sua carriera di musicista. Esisteva davvero.
«Capisco. Qui invece ci sono zio Monty, i nonni e…». Adam. Avrei voluto dire Adam. Il compagno di mia madre. L’uomo che ti sta rubando il posto.
Ma quei pensieri maligni mi tolsero il fiato e le parole, facendomi incespicare in silenzio finché non decisi saggiamente di cambiare versione.
«… Jamie», conclusi quindi in un sussurro, dandomi mentalmente della stupida per ciò che avevo cercato di fare.
In cosa speravo, esattamente? Nella gelosia di Phil? Volevo sul serio vederlo che tornava a reclamare una vita che in fondo non credevo si meritasse a pieno?
«Il ragazzo di Cass?». La domanda improvvisa di mio padre interruppe il corso doloroso dei miei pensieri.
«Ormai è il suo fidanzato, papà», lo corressi. «Te l’ho detto che si sposeranno quest’estate».
«Già. Siete cresciute entrambe, no?».
«Già».
Phil dovette cogliere senza troppi problemi la forte sfumatura di amarezza che colorò il mio tono di voce, perché liberò un timido sospiro e decise che mi avrebbe lasciata andare. Aveva pronunciato una scomoda verità e non poteva pretendere che reagissi bene alla cosa. Sia io che Cassandra eravamo cresciute, e lui si era perso quasi ogni nostro momento. Sapevo bene che non sarei mai riuscita a perdonarglielo.
Mio padre mi rinnovò gli auguri ed io ricambiai, poi mi salutò. Ma prima di mettere fine a quella strana telefonata, provò ad esaudire un altro mio piccolo desiderio.
«Puoi cercarmi Jenny?», domandò, ed io mi mossi verso il salotto affollato di parenti prima ancora che potesse finire di parlare.
Mia madre era sul divano, seduta accanto a Cassandra. Entrambe giocavano coi figli di zio Monty e raramente in quel periodo le avevo viste tanto felici. Adam invece giocava a carte con mio nonno, l’uno di fronte all’altro erano separati solo dal tavolo in legno di noce. Gli dedicai una breve occhiata, sentendomi già tremendamente in colpa per ciò che avrei fatto di lì a poco.
«Mamma», cercai gli occhi sorpresi di Jenette, «c’è papà al telefono».
Adam Key lasciò cadere tutte le sue carte sul tavolo e la sua espressione rilassata divenne all’improvviso di pietra.
 
Mossi le dita sulle guance di Stiles su e giù, dallo zigomo al mento e ritorno. Avevo passato gli ultimi minuti così, con la testa sulle sue gambe e lui che mi accarezzava piano i capelli lunghi lasciati sciolti sulle spalle come quasi sempre. C’eravamo appropriati del divano a due posti di fianco all’albero di Natale e dalla mia comoda posizione potevo vedere le luci intermittenti della serie illuminare il viso di Stiles. Fin dall’incontro con Ryan di quel pomeriggio, qualcosa si era freddato tra di noi. Entrambi avevamo preferito far finta di nulla, ma ancora sentivo come fossimo avvolti da nient’altro che la tipica calma prima della tempesta. Qualunque mio sospetto venne confermato nel momento in cui il mio cellulare prese a vibrare furiosamente, distogliendomi con violenza dalle pigre carezze che stavo riservando a Stiles.
Quando mi vide restare con gli occhi sgranati fissi sul display e capì che non avessi intenzione alcuna di rispondere a quella telefonata, Stiles s’irrigidì e sciolse le dita dai miei capelli.
«Chi è?», chiese poi, incapace di mascherare la preoccupazione nella sua voce.
«Ryan».
Lo sentii nuovamente irrigidirsi e mi misi subito a sedere, facendomi lontana dalle sue gambe mentre il cellulare ritornava finalmente silenzioso. Così come me e Stiles. Ma alla fine fu proprio lui ad interrompere quell’apparente quiete.
«Ci ha provato con te, vero?».
«Non…», mi risolsi a boccheggiare, non sapendo bene cosa dire, «La situazione è un po’ più complicata di così, credo».
Stiles sospirò prima di incrociare le braccia al petto. «Falla semplice, allora».
Se era quello che voleva… «Hoavutounacottaperluiduratadueanni».
Avevo trascinato le parole una dietro l’altra così velocemente che pensai subito Stiles non avesse capito assolutamente nulla di ciò che avevo provato a dirgli proprio come da suo ordine.
Al contrario, vidi una strana espressione distorcergli il viso e capii di sbagliarmi nel momento in cui lo sentii mormorare nient’altro che un sorpreso: «Oh mio Dio».
«Prima che mi trasferissi a Beacon Hills siamo usciti un paio di volte. C’è stato solo un bacio. Poi ho deciso di troncare tutto: non avrei sopportato una relazione a distanza».
Solo allora Stiles, che aveva portato entrambe le mani a coprirsi il viso chiaro, ritornò a cercare i miei occhi scuri. Nei suoi color ambra lessi un’ombra appena accennata di consapevolezza e rassegnazione. Non mi piaceva per niente.
«Però ora l’hai rivisto e ci stai ripensando», concluse.
«NO!», non potei far altro che alterarmi, «Lui sì, però».
La mia negazione decisa sembrò sortire proprio l’effetto da me sperato, perché subito Stiles assunse un’aria più rilassata e smise di evitare il mio sguardo. Prima di riprendere a parlarmi, sbuffò. «Che cretino. Non posso credere che ci provi così con una ragazza fidanzata».
Fid– Il solo pensiero mi bloccò il respiro in gola. Poi, alla sorpresa si sovrappose l’irritazione. Strinsi i pugni, muovendomi a disagio sul divano alla ricerca di un modo diplomatico per dire a Stiles ciò che pensavo sul serio senza ferirlo né finire a litigarci.
«Lui non sa che sono fidanzata», cominciai, molto più tranquilla di quanto mi sarei aspettata. Sentivo però che quella pace non sarebbe durata. «E a dire il vero non lo sapevo neanch’io fino a pochi secondi fa».
Fulminai Stiles con lo sguardo finché non riuscì a captare anche lui il sentore di pericolo imminente. Lo vidi cambiare posizione sul divano, a disagio, prima che cercasse nuovamente i miei occhi con l’espressione più fintamente innocente di sempre stampata in viso.
«Non lo sapevi?», mi domandò con nonchalance.
«Stiles». Bloccai l’invettiva cruenta che avrei voluto dedicargli con un lungo sospiro. Niente litigi, Harriet. Siamo a Natale. «Non puoi dare per scontata una cosa del genere».
Bravissima. Proprio così.
Ero stata gentile e diplomatica: Stiles di sicuro avrebbe capito il mio punto di vista e insieme – come al solito – saremmo riusciti a risolvere quella spinosa situazione che a dire il vero mi infastidiva già da qualche settimana. Dicevo di non aver bisogno di etichette né cose del genere, eppure la mancanza di una definizione al rapporto che avevo con Stiles m’infastidiva e molto.
«Fammi capire. Solo perché non ho chiesto la tua mano e non ti ho giurato amore eterno, allora non stiamo insieme? Una relazione aperta, è questo che vuoi? Così potrai permettere a Ryan di provarci con te ogni volta che tornerai qui in Texas?».
Stiles non aveva capito proprio un cazzo. Sayonara, diplomazia. Ti ho voluto bene. Poco, ma te ne ho voluto.
«Sai che non è questo che voglio!», ringhiai, stringendo i pugni e fregandomene di restare calma.
Ma Stiles non si fece intimidire dalla mia irritazione. Assottigliò gli occhi sulla mia figura e m’intimò in un sussurro di spiegargli cosa volevo, perché intendeva anche lui – e a tutti i costi – risolvere “la situazione”.
Probabilmente fu il suo tono spazientito a riportarmi coi piedi per terra. Fatto sta che deposi immediatamente l’ascia da guerra e mi diedi della stupida. Cosa diavolo stavo combinando? Non volevo affrontare quel discorso in quel modo. Non volevo che io e Stiles finissimo solo ad urlarci in faccia cose che non pensavamo invece di rendere il momento romantico e magico come avrebbe dovuto essere. Proprio come non volevo che lui mi considerasse la sua ragazza così, senza nemmeno combattere un po’. Ma non ebbi il coraggio di dirglielo.
«Non lo so cosa voglio», conclusi semplicemente, tenendo gli occhi lucidi fissi sulle mani che mi stavo torturando nervosamente da un bel po’.
Allora Stiles si limitò a sbuffare. Poi si alzò in piedi, lasciandomi sola sul divano senza pensarci due volte. 
«Sai cosa non so io, invece?», domandò, aspettando che scuotessi il capo prima di continuare, «Perché diavolo tu mi abbia portato qui».
 
Un’altra volta ancora qualsiasi mia paura era divenuta realtà e la situazione c’era sfuggita di mano senza che né io né Stiles potessimo fare qualcosa per impedirlo. Sospirai, cercando di trattenere le lacrime mentre mi dirigevo verso camera di Cassandra nel silenzio assoluto di casa mia. Era quasi l’alba e già da un po’ di tempo i miei parenti avevano tolto le tende, ma io ero rimasta comunque sveglia per aiutare mia madre e mia sorella a sistemare casa al meglio. Randall, ben cosciente della mia immensa tristezza, non mi si era scollato di dosso un attimo. Gli carezzai generosamente la testa continuando a procedere lungo il corridoio. Evitai come la peste la vista della mia stanza, quella nella quale sapevo benissimo ci fosse Stiles. Ci si era rinchiuso dentro subito dopo il nostro litigio e da lì non l’avevo più visto né sentito. Sospirai. Avrei dovuto rimediare ai miei errori, ma ci avrei pensato l’indomani. In quel momento avevo solo bisogno di dormirci bene su. Prima che potessi finalmente mettermi a letto, però, il led del mio cellulare attirò la mia attenzione con la segnalazione di un nuovo sms. Non l’avevo più toccato dalla chiamata inaspettata di Ryan e nell’afferrarlo sentii la paura farsi beffe di me. Cosa avrei fatto se fosse stato ancora lui? Non volevo più sentirlo!
Ma per fortuna scoprii di sbagliarmi. L’autrice di quell’sms tardivo era nient’altri che Danielle Shelton, la mia migliore amica.
Tu devi dirmi tutto riguardo questi tuoi miracolosi poteri, signorina.
Nonostante tutto, dovetti trattenere una risatina divertita. Quel messaggio era la conferma del fatto che la mia visione fosse divenuta – come al solito – realtà. Dani non aveva più alcun motivo per dubitare di me. Ed io, sì, le dovevo un sacco di spiegazioni. Ma anche a quello avrei pensato l’indomani.
Bello l’anello, vero?
Digitai l’sms e lo inviai nel giro di pochissimi minuti. Poi, finalmente, misi da parte il cellulare e mi concessi diverse ore di sonno meritatissimo.
Ed eccomi qua proprio come promesso. So che non vi ero mancata per niente, ma immagino che dovrete sopportarmi comunque perché io avevo davvero bisogno di scrivere qualcosa di leggero come questa raccolta e non ho proprio potuto farne a meno. Senza contare poi che l’idea di lasciare mesi di vuoto tra l’undicesimo capitolo di kaleidoscope e l’epilogo senza informarvi di cosa avessero passato gli Starriet nel mentre non mi entusiasmava granché, so here we are. Spero apprezzerete.
Prima di dileguarmi ci tenevo a fare qualche osservazione, soprattutto per chi non avesse letto kaleidoscope:
  1. Quando Harriet dice “Io stessa avevo vissuto un’esperienza simile pochissimo tempo prima e sapevo come ci si potesse sentire” si riferisce al fatto che pochissimo tempo prima ha conosciuto – dopo la bellezza di sedici anni – la famiglia del padre. E il padre stesso.
  2. Quando invece parla di Philip che le salva la vita non lo dice a caso, perché Mr. Carter la vita gliel’ha salvata sul serio e potrete leggere come nel capitolo 9 di kaleidoscope.
  3. Shelton è il cognome di Danielle.
  4. In quanto a “cosa mi era successo a casa di Victor Daehler”: per scoprirlo vi converrà leggere la scena 2 del capitolo 9 di kaleidoscope.
Penso di aver detto tutto, ma per ogni dubbio sentitevi pure liberi di scrivermi dove vi pare. Il prossimo capitolo arriverà domenica 22.

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Capitolo 2
*** II ***


 
La mattina del venticinque mi svegliai prestissimo e con un forte senso di stanchezza addosso. Mi sembrava di aver dormito poco più di dieci minuti: avevo passato l’intera notte ad agitarmi nel letto – con grande dispiacere di Cassandra – preda di terribili pensieri e rimorsi. Non avrei dovuto dire a Stiles ciò che gli avevo detto. Non avrei dovuto comportarmi tanto male con lui e fargli pesare quel senso d’indefinito che aleggiava attorno al nostro rapporto. Le cose stavano così – almeno per allora – e avrei dovuto imparare a farmele andar bene e basta. In fondo, che bisogno c’era di etichette precise? L’importante era stare bene. Ed io insieme a Stiles stavo benissimo.
Prima che tutti quei pensieri potessero farmi tornare l’emicrania, scattai in piedi. Feci attenzione a non svegliare né mia sorella né Randall, e mi mossi per la casa con passi felpati. Speravo che tutti dormissero ancora per potermi dedicare qualche tempo in completa solitudine, eppure scoprii di sbagliarmi nel momento in cui raggiunsi la cucina e le figure di mia madre e Stiles mi fecero sobbalzare vistosamente.
Jenny sembrava sveglia già da un pezzo, impegnata ai fornelli com’era; Stiles invece sedeva tranquillo all’isola vicino il piano cottura occupato da mia madre e a giudicare dal suo silenzio tombale, non doveva aver abbandonato il mio letto da molto. Sulla soglia della cucina provai l’improvviso impulso di ritornare da Cass, di rifugiarmi in camera sua per affrontare Stiles il più tardi possibile. Eppure mia madre me lo impedì. All’improvviso sollevò gli occhi dalle grosse pentole sul fuoco e cercò il mio viso, riservandomi uno dei suoi soliti sorrisi gentili.
«Buongiorno, piccina», mi salutò; poi i suoi occhi corsero brevemente alla figura di Stiles e a me venne più che spontaneo imitarla.
Fu un errore fatale. Stiles si era voltato proprio in quel momento a controllare che ci fossi proprio io sulla soglia della cucina e nel vedermi lì mi riservò subito un’occhiata indefinita che mi strinse il cuore in una morsa dolorosa. Non mi aveva mai guardata così.
Capii subito di meritarmelo, però, e non osai fare obiezioni. Mi scollai dall’ingresso e misi finalmente piede in cucina, sedendomi di fianco a Stiles dopo infiniti sforzi. Cosa avrei dovuto fare allora?
«C’è il succo d’ananas, se vuoi».
Sorrisi a mia madre, grata di poter avere una distrazione tanto dolce ai miei problemi. Raggiunsi velocemente il frigorifero, recuperando la bottiglia del mio succo preferito prima di ritornare accanto a Stiles. Avrei dovuto mettere fra i denti qualcosa e prepararmi al meglio ad affrontare quell’ennesima giornata festiva, eppure mi resi conto fin da subito di non avere nemmeno un po’ di fame. Era una cosa stranissima per una come me che mangiava volentieri a tutte le ore, ma nessuno osò chiedermi nulla mentre non facevo nient’altro che prendermela col tappo strettissimo della bottiglia. Chi diavolo l’aveva chiusa in quel modo? Non c’era proprio verso che riuscissi ad aprirla, dannazione.
Ma Stiles mi venne in aiuto, come al solito. Avrei dovuto aspettarmelo, eppure non potei far altro che guardarlo con occhi sgranati mentre – in assoluto silenzio – mi sfilava la bottiglia dalle mani e l’apriva senza il minimo sforzo. Sembravo essere io il problema. Che novità.
«G-Grazie», non potei far altro che balbettare nella sua direzione quando mi restituì il succo.
Poi feci finalmente vincere l’istinto. Prima che Stiles potesse ritrarre le sue mani, infatti, mi mossi veloce e ne strinsi una tra le mie. Poi: «Scusa», sillabai nella sua direzione, forte del fatto che Jenny stesse fingendosi fin troppo impegnata con la preparazione del pranzo per dare retta alla nostra riappacificazione.
Sapevo che ci avesse sentiti discutere la sera prima e sapevo quanto volesse vederci chiarire, difatti la scorsi trattenere a malapena un sorrisino soddisfatto nel momento in cui Stiles scosse la testa con aria all’apparenza divertita e ricambiò la stretta della mia mano senza farselo ripetere due volte. Allora sorrisi anch’io.
Il sole era tornato a splendere.
 
«Harry, sei un disastro!».
Schivai appena l’ennesimo schizzo di crema, finendo ad imbrattare ulteriormente il piano in marmo che io e Stiles avevamo deciso di occupare subito dopo l’improvvisa uscita di Jenette e Cassandra. Era quasi ora di pranzo e come ogni anno avrei preparato i miei famosissimi cupcakes natalizi, solo che avevo preferito aspettare di avere casa vuota prima di mettermi all’opera così da non sentirmi il fiato sul collo. Quell’anno però avevo accanto un aiutante speciale, il quale si era dimostrato molto più bravo in cucina di quanto non lo fossi io. Sbuffai, fingendomi infastidita e trattenendo a malapena un broncio infantile.
«Questa è la parte più difficile del processo, non è colpa mia», mi giustificai, cercando inutilmente di riempire gli stampini d’impasto senza che questo strabordasse per gran parte sul marmo.
Stiles non mi tolse gli occhi di dosso nemmeno per un attimo e lo sentii scuotere la testa con aria divertita quando fallii miseramente per l’ennesima volta. Oh andiamo, che bisogno c’era di prendersi tanto fastidio per evitare di sporcare? Alla fine la cucina andava pulita comunque.
«Aiutati con entrambi i cucchiai. Non è un caso che ne stiamo usando due».
Sollevai gli occhi sulla figura di Stiles, osservandolo con un sopracciglio alzato e l’aria estremamente scettica. «Come vuole, chef Ramsay».
Stiles ridacchiò. «A Beacon Hills non mi era sembrato che fossi tanto negata in cucina».
«Ehi!», non potei far altro che stizzirmi immediatamente, «Dovevo fare colpo su di te. Normale che mi fingessi una cuoca provetta».
«Ma sentila!», esclamò Stiles, riservandomi un’occhiata incredula poco prima di scoppiare a ridere.
Non avrei dovuto, ma lo imitai subito. Quella situazione cominciava ad avere dell’assurdo.
«Ora non devi più fare colpo su di me, quindi?».
Provai subito a scuotere la testa con aria convinta, ma qualsiasi mia capacità di movimento si congelò nel momento in cui il freddo del cucchiaio sporco d’impasto raggiunse una delle mie guance. Non appena capii cosa stesse succedendo sul serio, fulminai Stiles con lo sguardo e lui ritirò subito indietro il cucchiaio, lasciandomi la guancia sporca e appiccicosa.
«FAI SCHIFO!», non potei far altro che ululare allora, passandomi una mano sul viso per pulirlo alla bell’e meglio.
Prima che potessi mettere fine a quella piccola guerriglia, comunque, mi passò per la mente un’idea geniale. Perciò, invece di pulirmi le mani su un tovagliolo, le incollai velocemente alle guance di Stiles. Pan per focaccia, Stilinski. Pan per focaccia.
Stiles sgranò gli occhi sulla mia figura, io invece ghignai con l’aria più malefica di sempre.
«Ti odio», sussurrò infine, distraendosi tanto da rendermi facilissima l’avanzata che compii verso il suo viso.
Incollai le mie labbra a quelle di Stiles prima ancora che quest’ultimo potesse anche solo accorgersene, ma nonostante i primi momenti di titubanza, Stiles dimostrò subito – come al solito – di apprezzare quella mia intraprendenza e non ci pensò su due volte a ricambiare il mio saluto. Entrambi ci ritrovammo all’improvviso completamente dimentichi dei cupcakes che stavamo cercando di preparare e piuttosto presi invece da tutt’altro tipo di attività. Molto più piacevole, manco a dirlo.
Fu solo quando mi ritrovai schiacciata contro l’isola della cucina, col corpo di Stiles inequivocabilmente contro il mio, che riacquistai un minimo di lucidità e mi riscoprii all’improvviso bisognosa di ossigeno.
«Io ti odio di più», soffiai quindi infine, dopo essermi fatta lontana – con non pochi sforzi – dalle labbra di Stiles.
Lui scosse la testa e ridacchiò con aria divertita, poi provò come se niente fosse a riprendere da dove c’eravamo interrotti. Ma io ovviamente glielo impedii con uno sbuffo rilassato, piantandogli le mani sporche sul maglione per costringerlo a farsi lontano dal mio corpo. Avevo bisogno di spazio personale se intendevo riacquistare lucidità. Alla fine, chissà come, riuscii nell’impresa.
«Prima il dovere e poi il piacere», mormorai, fingendomi decisa a voler riprendere la preparazione dei cupcakes natalizi.
La voce comunque mi tremolò un po’ sul finale, ma Stiles sembrò non accorgersene. Semplicemente annuì prima di lasciarmi un bacio sulla guancia.
«Aspetterò con ansia questo famoso poi, allora».
 
Stiles atterrò sul mio letto con un tonfo ed io smisi subito di dedicare tutta la mia attenzione a Randall – che reagì con un basso latrato infastidito – per dedicarmi a lui, mentre il mio grosso alano capiva subito che non avrebbe ottenuto più carezze dalla sottoscritta e decideva saggiamente di levare le tende. Lo osservai col sorriso sulle labbra mentre mogio mogio lasciava la mia stanza, ma qualsiasi mio pensiero venne nuovamente spazzato via dalla presenza di Stiles accanto a me.
Dopo aver pasticciato a lungo in cucina ci eravamo ritrovati entrambi più che bisognosi di una lunga doccia calda, poi io – che avevo finito prima – mi ero rifugiata in camera mia ad attendere l’arrivo di Stiles. Mi rifugiai prontamente tra le sue braccia, non potendo fare a meno di riempirmi le narici del suo odore. Aveva qualcosa di diverso. Provai a capire di che si trattasse, ma solo dopo diversi tentativi raggiunsi la soluzione a quell’arcano.
«Sai di cupcakes!», esclamai quindi, tanto forte da far scoppiare Stiles a ridere.
«Anche tu», mormorò poi nella mia direzione, scompigliandomi i capelli come suo solito.
Gli sorrisi, grata di poter ancora sentire il suono vivace della sua risata di pancia. Amavo più di ogni altra cosa vedere Stiles così tranquillo, rilassato e divertito per causa mia.
Lasciai ancora vagare la mente, almeno finché il pensiero improvviso di Danielle non m’interruppe con una risata mal trattenuta.
«Ora siamo sul serio due dolcetti».
A quelle parole – e al ricordo della mia migliore amica che ci definiva proprio così – neanche Stiles riuscì a trattenersi e riprese a ridere. «Danielle è una forza, te l’ho già detto?».
Annuii. Certo che me l’aveva già detto. Grazie al carattere espansivo della mia migliore amica, i due si erano trovati fin da subito più che bene l’uno con l’altra e in pochissimi giorni avevano già legato come se si conoscessero da una vita. Inutile dire quanto fossi felice della cosa.
Nel completo relax di quel momento, lasciai di nuovo che la mia mente corresse a briglia sciolta attraverso i pensieri più disparati, ma quella volta fu un errore perché non ritornò a galla nessuna cosa divertente tanto quanto le precedenti. Al contrario, un quesito che mi assillava già da qualche settimana cominciò a perforarmi il cervello tanto dolorosamente che alla fine fui obbligata a porlo a Stiles.
«Io ti piaccio?».
La voce mi venne fuori in un sussurro quasi incredulo, ma poggiata com’ero contro il petto di Stiles e ad un passo dalle sue labbra, lui colse benissimo la mia domanda e soprattutto ciò che avrei voluto aggiungere senza però avere il coraggio di farlo. Io ti piaccio più di Lydia?
«Che domanda è?».
Non potei fare a meno di chiedermelo anch’io. Ma comunque non mollai. Potevo ignorare il fatto che Stiles si stesse dimostrando allergico alle etichette, ma avevo bisogno di rassicurazioni sulla natura dei suoi sentimenti. Non potevo proprio farne a meno, per quanto fastidioso fosse.
«È una domanda come tante altre», mormorai quindi, facendo spallucce come se niente fosse prima di chiedergli – di nuovo: «Ti piaccio, Stiles?».
«Certo che mi piaci, pensavo fosse evidente».
A quelle parole, un improvviso senso di colpevolezza m’immobilizzò per un attimo. «Non intendevo…».
«So benissimo cosa intendevi», Stiles m’interruppe prima che potessi spiegarmi per bene, intimidita dal suo tono indispettito. «E non dovresti pensarci più. Perché io non ci penso più. Perlomeno, non in quel senso».
Deglutii. «È che ho paura–».
«Non dovresti». Nuovamente venni interrotta. Stiles scosse piano la testa, provando a rassicurarmi mentre mi prendeva il viso tra le mani. «Io sto con te. A prescindere da tutto».
A quel punto non potei far altro che sorridergli, maledicendomi immediatamente per via di tutte quelle inutili e fastidiose paranoie. Sapevo benissimo che avrebbero potuto finire per dividerci – come al solito – ma proprio non riuscivo ad impedire al mio cervello di lavorare così intensamente. Dovevo assolutamente distrarmi. E avevo già una mezza idea sul come farlo.
Compii uno scatto veloce verso le labbra di Stiles, il quale non ci pensò su due volte prima di ricambiare il mio bacio. Purtroppo però, ad un passo dal distrarmi completamente dai miei tremendi pensieri, Stiles sciolse l’unione delle nostre labbra ed io non potei far altro che reagire con un basso mugolio infastidito.
«Io ti piaccio?», lo sentii chiedermi poi a bassa voce, e quella domanda fece sì che sgranassi gli occhi sulla sua figura dalla troppa sorpresa.
Allora era Stiles a fare domande stupide. Tanto che nemmeno mi sforzai di rispondergli, limitandomi ad annuire prima di provare – inutilmente – a rituffarmi sulle sue labbra. Ma di nuovo Stiles mi bloccò.
«Ti piaccio?». Più di Ryan?
Dubitavo che avesse sul serio pronunciato tali parole, ma ero sicura ormai del fatto che le avesse pensate. E a suggerirmelo non era semplicemente la sicurezza che mi donava puntualmente il conoscere tanto bene Stiles. Mi sembrava quasi di rivivere la mia scenetta con Victor Daehler, mi sembrava di stargli leggendo la mente. E temevo con tutta me stessa che i miei poteri fossero diventati già così forti come da previsione di mio nonno e Walter. Ma decisi di non pensarci, in quel momento, e mi limitai ad annuire con aria attonita.
«Voglio sentirtelo dire».
Se Stiles non avesse usato quel tono – quello che puntualmente mi faceva tremare le gambe da quant’era basso e anche inconsapevolmente sexy – lo avrei gentilmente mandato a cagare, imbarazzata dalla confessione che mi stava ordinando di fare. Invece gli sorrisi mentre mi sentivo andare a fuoco, e mi preparai a parlare dopo essermi sistemata meglio contro il suo corpo.
«Mi piaci, Stiles», soffiai infine, sincera come poche altre volte prima d’allora. «Molto più di quanto avrei mai potuto immaginare. Fin dal primo momento in cui i tuoi occhi si sono scontrati coi miei. Mi piacciono i tuoi capelli ora che li stai facendo allungare», vi ci passai la mano attraverso mentre parlavo, «e il tuo nasino», ridacchiai, sfiorandogli il naso in punta di dita, «e le tue labbra…», gli fissai le labbra, carezzandole poi appena appena con l’indice prima di riportare i miei occhi in quelli di Stiles, «E mi piace quando ridi. Mi rendi felice».
Allora calò il silenzio.
Mi rendi felice anche tu. E non immagini nemmeno quanto.
Stiles non l’aveva detto. Ma io avevo sentito tutto comunque.
 
Misi da parte uno dei pennelli di Cassandra ed afferrai il mascara, pronta a completare quello che credevo il trucco più elaborato della mia intera vita. Non potevo dire di essere una make-up artist provetta, ma mi piaceva comunque passare ore davanti allo specchio per farmi bella e potermi concedere un soddisfatto “Niente male, Harry”. Soprattutto quando intorno avevo una creatura meravigliosa come lo era Stiles.
Trattenni un sorrisino a quel pensiero alquanto stupido, tirandomi addosso con quello strambo comportamento le occhiatacce di mia sorella. Cassandra se ne stava al mio fianco, passandosi la piastra tra i capelli nella speranza di renderli ancor più lisci di quanto già non fossero. Era la sera del venticinque e giacché la cena in famiglia aveva già raggiunto la sua fine, entrambe ci stavamo preparando al meglio per uscire in città e divertirci. Cassandra, che aveva già da tempo finito col trucco, puntò gli occhi scuri sul mio viso tanto intensamente da farmi all’improvviso vacillare.
«Cosa c’è?», le domandai quindi, mettendo momentanea fine al processo di “riempiamo di mascara le mie ciglia”. «Ho sbagliato qualcosa col trucco?».
Mia sorella scosse la testa violentemente, come se la mia voce fosse servita a risvegliarla all’improvviso dalla sua trance fitta di pensieri. Posò la piastra in un angolo dello scintillante lavandino in marmo e distolse finalmente lo sguardo severo dal mio viso prima di riprendere a parlare.
«Dimmi tutto di questa storia della chiaroveggenza», ordinò, strappandomi un respiro di troppo. «Come funzionano i tuoi poteri?».
Non mi aspettavo una domanda del genere così all’improvviso, difatti non potei far altro che restare sorpresa dalla sua del tutto nuova curiosità. Pensavo che Cass non fosse sul serio interessata alla parte soprannaturale della mia vita, ma a quanto pareva aveva cambiato idea. Ed io le dovevo delle spiegazioni.
Misi da parte il mascara nero che avevo gentilmente preso in prestito dalla sua trousse, voltandomi a fronteggiare mia sorella prima di risponderle con uno sbuffo di risata. «Non lo so, a dire il vero», ed ero sincera, «Certe volte mi succede di vedere cose durante il sonno, altre mentre sono sveglia. È tutto affidato al Caso, suppongo».
«Ne sei sicura?».
Scossi la testa, poggiandomi di schiena contro il freddo marmo del lavandino. «Ovviamente no. Come non lo sono delle mille altre cose riguardo la mia vita al momento».
Non l’avevo preventivato, eppure la voce mi venne fuori macchiata da un’ombra evidentissima di malessere che subito riempì Cass di senso di colpa. La vidi infatti muoversi a disagio di fianco a me mentre cercava inutilmente di dire qualcosa di rassicurante che potesse rimediare a quella sua involuta gaffe. Prima che potesse incartarsi ancor di più, l’anticipai riprendendo a parlare.
«Penso che i miei poteri vadano ancora calibrati. Voglio dire, raramente riesco a prevedere sul serio il futuro. Più che altro vedo cose pochi attimi prima che succedano, o addirittura nel momento stesso», spiegai. «Nonno dice che è normale. Che col tempo e l’allenamento i miei poteri diventeranno sempre più forti. Penso che in parte sia già successo».
Cassandra aggrottò le sopracciglia scure. «Cosa intendi?».
«Credo di saper leggere i pensieri della gente».
«Co…», la sua replica venne tranciata a metà dalla troppa sorpresa, «Okay, leggi i miei».
Sapevo che me l’avrebbe chiesto. Scossi la testa, provando a dirle che: «Non funziona cos–», ma un’improvvisa visione m’immobilizzò sul posto togliendomi la voce. «Vuoi un cincillà, Cass?».
Non poteva essere tutto frutto del Caso. Ancora una volta, senza che quasi nemmeno lo volessi, ero riuscita ad entrare nella mente di chi mi stava di fianco. Lo capii dallo sguardo spaurito ed incredulo di mia sorella, la quale non poté far altro che annuire con aria greve. Voleva sul serio un cincillà. Ed io dovevo assolutamente parlare con mio nonno Thomas.

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Capitolo 3
*** III ***


 
«Ricordami di non organizzarti mai una festa a sorpresa».
Il suono della mia voce si perse nell’immensità del Pet Shelter di Austin, il negozio per animali nel quale io e Stiles ci eravamo rifugiati durante quel gelido pomeriggio di fine anno. Il ventottesimo compleanno di mia sorella Cassandra era ormai alle porte e a me e James era venuta la pessima idea di organizzarle una festa a sorpresa. Mentre mio cognato si occupava dell’affittare una sala e informare segretamente tutti i parenti, a me e Stiles toccava invece procurarci il nostro regalo, ciò che sapevo benissimo avrebbe reso sul serio felice quella mezza idiota adorabile di mia sorella. Un cincillà.
«Stiles?».
Abbandonai le gabbie lucenti di quei piccoli batuffoli di pelo, spostandomi all’interno del negozio desolato alla ricerca del mio accompagnatore. Avrei giurato che fosse ancora vicino a me ma mi stavo evidentemente sbagliando: Stiles era sparito chissà dove e a me toccava risvegliarmi dall’immensa distrazione che mi aveva colta per ritrovarlo e portare a termine il nostro compito.
«Oh, eccoti qua».
Quando la figura di Stiles mi colpì le iridi stanche, non potei far altro che uscirmene fuori con quell’osservazione stupida. Stiles se ne stava immobile di fronte ad un bel po’ di teche nell’area rettili, aveva gli occhi chiari concentratissimi sugli animali e le mani sicuramente fredde infossate nelle tasche dei jeans. Per un attimo di troppo mi persi a contemplarlo, poi cedetti all’istinto di essergli vicina e lo raggiunsi, scoprendo con fin troppa sorpresa degli sguardi quasi emozionati che stesse riservando ad uno spaventosissimo serpente.
«Non sapevo ti piacessero i serpenti», mormorai difatti quando l’ebbi affiancato, cercando di distogliere velocemente lo sguardo dall’animale che all’interno della teca non faceva altro che sibilare tranquillo e muoversi a malapena.
Non avevo mai avuto un buon rapporto coi rettili in generale, soprattutto se si trattava di serpenti così grandi e terrificanti. Per un attimo la mia mente corse al pensiero di Jackson, trasformato nel kanima, e capii nuovamente di come i rettili proprio non facessero per me. Prima che il dolore di quel ricordo potesse spazzare via tutto il resto, scossi la testa e riportai tutta la mia attenzione sul viso pulito di Stiles.
«Avevo un boa simile a questo, quand’ero piccolo».
Non potei che sgranare gli occhi dalla sorpresa di quell’improvvisa rivelazione. «Dici sul serio?».
«Sì», Stiles liberò una risatina divertita, «Gli davo da mangiare topi».
Ugh. Arricciai il naso da quant’era raccapricciante la scena che mi si presentò alla mente in quel momento.
«Disgustoso», mormorai infine, scacciandola – quella e i conati di vomito imminenti – con immensa stizza.
Ma Stiles non condivideva il mio risentimento, difatti mi riprese con voce stridula e un colpetto decisamente poco giocoso sul braccio. «Non offendere Mr. Pssss. Gli volevo bene».
«Che fine ha fatto?».
Diverso silenzio seguì quella mia domanda lecita dato l’uso del passato da parte di Stiles e l’improvviso dubbio di aver sbagliato a porla s’instillò a fondo nella mia mente. Alla fine, comunque, ricevetti una risposta che come avevo immaginato mi lasciò senza parole.
«Papà l’ha dato via quand’è morta la mamma».
«Oh», fu tutto ciò che mi risolsi a dire allora, incapace di pronunciare anche solo un’altra sillaba o di pensare a qualcosa che non fosse un sentitissimo Merda in loop.
Stiles infossò nuovamente le mani nelle tasche del jeans che indossava, ancor più a fondo. Dondolò nervosamente sulla moquette blu del negozio, poi riportò gli occhi sul boa che aveva di fronte. Non cercò più il mio sguardo, ma continuò comunque a parlarmi. Ed io mi dissi che avrei dovuto farmelo bastare.
«L’aveva comprato lei. Era una patita di rettili ancor più di me».
Deglutii, provando con non pochi sforzi a figurarmi nella testa l’immagine della donna che aveva dato a Stiles la vita e che da quanto avevo appena scoperto amava i rettili molto più di lui. Ma un sorriso amaro mi piegò le labbra macchiate di rossetto all’improvvisa consapevolezza che non sarei mai riuscita a renderle giustizia con la mia sola immaginazione, così povera di dettagli e racconti che mi permettessero di ricostruirla il più fedelmente possibile. Non sapevo quasi niente di lei, e non di certo per scelta mia.
«A tuo padre non piacciono i rettili?», domandai a Stiles all’improvviso, interrompendo bruscamente il silenzio nel quale ci eravamo rinchiusi. Avevo assoluto bisogno di distrarmi.
Stiles fece spallucce. «A dire il vero non lo so. Non ne abbiamo mai parlato. Era una cosa solo mia e di mia madre, capisci? Papà non c’entrava. Quand’è morta non ha nemmeno provato a sostituirla; non in questo campo. Ed io paradossalmente l’ho apprezzato».
Annuii lievemente: sapevo benissimo cosa intendesse. Tanto che non sentii il bisogno di dirglielo.
«Eri troppo piccolo per continuare a mantenerlo da solo, immagino», continuai quindi, evitando l’argomento precedente.
Anche Stiles, quella volta, rispose annuendo. «È stato meglio così. Non ce l’ho con mio padre».
Sorrisi, ricambiando la smorfia poco convinta che Stiles mise su a fine frase. Poi velocemente mi sporsi verso di lui, stampandogli un lungo bacio sulla guancia tiepida. «Grazie per avermelo raccontato».
Il sorriso di Stiles si ampliò ancor di più mentre si voltava a guardarmi e cercava una delle mie mani.
«Grazie a te per avermi ascoltato sproloquiare come al solito», ricambiò, lasciando che le sue dita stringessero forte le mie. «Allora, scegliamo una scimmietta per tua sorella?».
Risi, alzando gli occhi al cielo alla strana definizione che ormai Stiles si era intestardito a dare dei cincillà.
«Andiamo», conclusi poi in un sussurro, trascinandolo di peso nuovamente verso l’area roditori.
 
Non appena l’ennesima bottiglia di birra si palesò di fronte ai miei occhi lucidi l’afferrai, ben contenta all’idea di potermene concedere un altro bicchiere. Cercai di non farmela scivolare tra le dita bagnate dalla condensa sul vetro, mentre facevo la bottiglia vicina al bicchiere quanto bastava a riempirlo quasi per intero. A metà del processo, comunque, gli occhi di Stiles mi corsero addosso e l’intensità del suo sguardo indispettito m’immobilizzò per molto più tempo del previsto.
«Harry», lo sentii mormorare al mio fianco, con la voce bassa e vagamente infastidita. «Finirai per ubriacarti».
«Ehi», lo rimbeccai, mettendo su un broncio infantile. «È solo la seconda».
«È già la seconda, vorrai dire», mi corresse. «Non abbiamo ancora cominciato a mangiare».
Questo detto, Stiles si sporse verso di me e mi liberò le mani dalla bottiglia decisamente troppo piena per i miei gusti. Avrei voluto impedirglielo, ma l’intensità del suo profumo mi stordì tanto quanto bastava a dargliela vinta almeno per allora. Sbuffai, facendo aderire la mia schiena – fasciata da un top sui toni dell’azzurro e del verde – al morbido schienale della sedia. Poi, con aria indispettita, finsi di non apprezzare affatto la visione celestiale che era Stiles quella sera. In occasione del compleanno di Cassandra aveva infatti deciso di indossare una semplice camicia azzurra che però io apprezzavo moltissimo e dei jeans neri che gli fasciavano perfettamente le gambe lunghe e magre. Era bellissimo, ma in quel momento mi sentivo troppo infastidita per dirglielo e dargli una soddisfazione tanto grande. Perciò gonfiai le guance come una bambina dell’asilo ed incrociai le braccia strette sotto il seno, guardandomi intorno nella sala-ristorante che James aveva scelto per l’occasione.
«Sei un rompipalle sempre nei momenti meno opportuni», borbottai, con gli occhi scuri fissi sulle figure vicine e abbracciate di mia madre ed Adam. Un improvviso senso di colpa mi strinse il cuore in una morsa, ma lo scacciai subito voltandomi a guardare un paio delle amiche di mia sorella. «Siamo riusciti ad organizzare tutto questo senza farci sgamare dalla curiosità morbosa di Cass, mi merito di bere e festeggiare».
A quelle mie parole Stiles sbuffò una risata divertita, scuotendo la testa mentre si appoggiava al tavolo coi gomiti lasciati scoperti dalle maniche della camicia che aveva arrotolato fin lì. Cercai di non farmi distrarre troppo dalle sue braccia e di restare fedele alla mia passeggera arrabbiatura.
«Voglio poter festeggiare anch’io, infatti. Senza dovermi preoccupare troppo per te».
A malapena riuscii a nascondere la mia espressione infastidita. Finsi neutralità, piuttosto, stringendo più forte le braccia sotto il seno e serrando stretta la mascella. Mi imposi anche di pensare prima di parlare e di mettere da parte, almeno per quella volta, la mia costante impulsività. Non volevo finire a discutere con Stiles nel bel mezzo di una festa – di fronte a tutti i miei parenti – ma nemmeno fingere che quel suo comportamento iperprotettivo mi andasse bene.
«Chi te l’ha chiesto?», gli domandai quindi, in un sussurro che speravo avrebbe colto solo lui.
A quel mio quesito lievemente piccato, Stiles reagì scuotendo la testa e sbuffando.
«Puoi smetterla di fare la bambina?», implorò, inchiodandomi sul posto con l’intensità del suo sguardo ambrato.
Inaspettatamente, qualcosa nel fondo delle sue iridi riuscì a tranquillizzarmi ancora una volta.
«Che palle che sei», borbottai quindi con aria irrimediabilmente sconfitta. «Reggo benissimo l’alcool, chiedi a Danielle!».
Alzai la voce così tanto sul finale di frase che non ebbi bisogno di sforzarmi ulteriormente per attirare l’attenzione della mia migliore amica.
«Cosa mi dovete chiedere?», domandò infatti lei con un’aria vagamente confusa ad imbrattarle il viso tondo e truccatissimo.
Stiles al mio fianco scosse la testa nella sua direzione fingendo che non fosse nulla e provando a liquidare il tutto con un veloce cenno della mano, ma io non avevo alcuna intenzione di lasciar cadere lì il discorso e perciò mi passai le mani sui pantaloni colorati che mi fasciavano le gambe prima di ordinare a Danielle: «Di’ a Stiles che reggo bene l’alcool!».
Per un attimo, Dani mostrò di essere stupita da quella richiesta improvvisa, poi però tornò improvvisamente in sé ed annuì ripetutamente.
«Io dopo quattro birre comincio a barcollare, lei è ancora fresca come una rosa», raccontò a Stiles, il quale non provò più nemmeno per scherzo ad impedirmi di rifornire il mio bicchiere di birra.
«Fa’ come ti pare, piccola testarda», borbottò semplicemente, distogliendo lo sguardo dalla mia figura mentre io ridacchiavo di gusto tra me e me.
«Non mi ubriacherò, papi, sta’ tranquillo».
 
«Sei ubriaca».
Barcollai nella direzione di Stiles, o comunque verso l’ombra sfocata che i miei occhi stanchi ed appannati avevano deciso di concedermi di vedere quella sera. Era ormai tardi e la cena che avevamo organizzato in onore dei ventott’anni di Cass stava quasi per terminare: nell’attesa che la torta venisse tagliata dai camerieri del ristorante che James aveva scelto con immensa cura, gran parte degli invitati s’era riversata all’esterno per prendere una boccata d’aria, sgranchirsi un po’ le gambe, fumare o scattare selfie in santa pace.
Ad un passo da Stiles, i tacchi degli stivaletti che avevo scelto di indossare per l’occasione scivolarono su qualche sassolino dispettoso, ma invece di preoccuparmi della caduta imbarazzante e dolorosa che ero riuscita miracolosamente ad evitare – solo grazie alle braccia forti di Stiles – scoppiai a ridere all’idea di quanto sarebbe stata divertente una scena del genere, con me che finivo gambe all’aria di fronte a più o meno tutti i miei parenti. Forse – forse – ero un tantino ubriaca. Ma non assolutamente pronta ad ammetterlo.
«No…», negai infatti, strascicando la voce come la peggiore delle bambine lamentose mentre allentavo la presa sui bicipiti di Stiles solo per sistemarmi meglio tra le sue braccia.
Lui mi lasciò fare, stringendomi forte i fianchi mentre io mi perdevo invece ad osservare il suo viso ad un passo dal mio.
«Sei bellissimo», gli dissi, con un coraggio che sapevo non mi sarebbe mai più stato concesso.
C’era bisogno che l’alcool allentasse i miei freni inibitori perché riuscissi a fare dei complimenti a Stiles senza sentirmi una grandissima cretina: la cosa mi riempì all’improvviso di senso di colpa. Deglutii, muovendomi a disagio sul posto prima di far scivolare la punta delle dita sul viso freddo di Stiles. Lui si lasciò accarezzare le tempie, gli zigomi, il naso e le labbra senza dire una parola ed io semplicemente continuai ad osservarlo senza pensare a nient’altro che non fosse il mio impellente desiderio di poter imparare a memoria ogni dettaglio del viso che amavo tanto oppure la mia strana voglia di poter congelare quel momento magico nel tempo e viverlo per sempre. Wow, pensai, l’alcool mi fa diventare schifosamente romantica.
L’ennesimo intenso brivido di freddo mi riportò però alla realtà con violenza inaudita, facendomi capire che se c’era anche una sola cosa che si sarebbe congelata in quella tarda sera di fine anno, quelle erano le mie braccia nude.
«Sei uscita senza giacca», notò all’improvviso Stiles, neanche fosse stato in grado di leggermi nel pensiero.
Non ebbi bisogno di dire né fare niente: lasciai solo che Stiles mi tirasse più vicina sé nella speranza abbastanza vana di potermi tenere un po’ più calda. Apprezzai comunque moltissimo il suo gesto, rifugiandomi tra le sue braccia mentre un debole sorriso mi piegava le labbra piene.
«Mi sta venendo un sonno…», sbadigliai all’improvviso, col viso ancora nascosto nell’incavo del collo di Stiles, che sentii allora tremare contro di me per via di una risata divertita.
«Ci credo!», esclamò, accarezzandomi lentamente la schiena. «Sembravi voler fare il cosplay di una spugna da quanto alcool hai assorbito». Scoppiò a ridere forte sul finale, ma dovette fermarsi quando indispettita lo colpii davvero poco giocosamente su una spalla.
«Sono ancora abbastanza lucida da farti sputare sangue, Stilinski», borbottai con aria minacciosa contro il suo orecchio, ma non lo spaventai granché perché Stiles mi rispose con l’ennesima risatina tranquilla.
«Riesci a malapena a camminare», rimbeccò, pizzicandomi un fianco con aria dispettosa. «E poi sappiamo benissimo entrambi che non mi faresti mai del male volontariamente».
Trattenni il respiro di fronte all’improvvisa consapevolezza di essere stata sconfitta, ancora una volta, e non sentii il bisogno di aggiungere altro a quell’osservazione sincera di Stiles. Quella che aveva liberato scherzosamente era, in quel momento, nient’altro che la verità.
Buon lunedì, cucciolini. :3
Anche questa raccolta volge al termine – ci manca solo l’ultimo capitolo – e in questo abbiamo vissuto il ventottesimo compleanno di quella svitata di Cass, che si è compiuto il 30 dicembre 2013. Subito dopo ovviamente ci sarà il Capodanno, ma vi dico fin d’ora che non scriverò nulla al riguardo dato che il prossimo capitolo sarà ambientato durante il matrimonio di Cassandra e James e dunque in estate. In quanto al Capodanno, sappiate solo che gli Starriet lo passeranno insieme facendo niente di molto diverso da ciò che hanno già fatto a Natale LOL.
Non penso di avere molto da dire su questo capitolo, se non che nuovamente si riconfermano i meccanismi di questa serie: la gente dice ad Harry di non fare una cosa e lei la fa. Rido.
Che ne pensate inoltre del momento confessioni ad inizio capitolo? Il fatto che Stiles avesse un boa è roba canon – lo rivela a Scott nella 1S – e ho sempre pensato che prima o poi ne avrebbe parlato ad Harriet, approfittandone per metterla al corrente del tipo di rapporto che aveva con Claudia. Sono felicissima di esserci riuscita e spero che apprezzerete anche voi. Per ora, proprio come ha detto anche lei, Harry sa pochissimo sulla mamma di Stiles e non osa chiedere per non risultare invadente, ma muore dalla voglia di conoscerla di più e spero si sia capito.
As always, vi invito a scocciarmi se c’è qualcosa di poco chiaro e cose così. Vi chiedo scusa per essere praticamente sparita, ma il ricevere zero recensioni e/o supporto mi ha scoraggiata non poco tanto che penso di prendermi prima o poi una pausa da EFP perché davvero questa situazione sta diventando demotivante. Tranquilli comunque, perché prima verranno ultimate questa raccolta e
kaleidoscope. Poi si vedrà.
Vi do appuntamento a lunedì prossimo.

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Capitolo 4
*** IV ***


so you can talk to them and let go of everything and even when
you’re at your worst they still like you, they still want to
speak to you and care about you.
 
«Mia nonna mi ha guardata come se fossi una delinquente».
Stiles scoppiò a ridere, reclinando la testa all’indietro contro il tronco del melo che mia madre aveva piantato nel nostro giardino circa un anno prima. Eravamo da poco arrivati ad Austin ed esausti avevamo entrambi deciso di rifugiarci lì dietro per godere di quel poco di frescura che l’ombra del melo offriva. Cullata dal suono dolce della risata di Stiles, mi limitai ad attendere una sua risposta mentre osservavo Randall scorrazzare avanti e indietro sull’erba bagnata dall’estivo sole cocente.
«Come darle torto?», domandò retoricamente Stiles, afferrandomi il mento affinché riportassi i miei occhi sul suo viso. «Con questo faccino qui, sentirti dire parolacce sarà stato un trauma per lei. Pensava fossi un angelo e invece…».
Alzai gli occhi al cielo.
«Sono solo entrata in casa urlando: “Siamo tornati, stronzetti!”, mica ho lanciato bestemmie a vanvera», mi giustificai. «Poi, sinceramente, non mi aspettavo nemmeno di trovarla qui».
Cadde il silenzio e quella pausa mi permise di riflettere a fondo sulla situazione: erano gli inizi di giugno, ero uscita incolume dal mio secondo anno di liceo e Cassandra sarebbe diventata ufficialmente la signora Irvine nel giro di una settimana. Il matrimonio di mia sorella era alle porte e l’intera famiglia in fermento: avrei dovuto aspettarmelo, ma tornando ad Austin insieme a Stiles non avevo immaginato nemmeno per un attimo di potermi ritrovare casa stipata di parenti alle prese con gli ultimi preparativi per la cerimonia.
«Non me l’aspettavo neanch’io, a dire il vero», mormorò Stiles, distogliendomi con mia grande gioia dal ciclo confuso dei miei pensieri. «Ci siamo ritrovati di botto tua nonna di fronte e tu ti sei immobilizzata mentre lei ti guardava come se avesse appena visto un fantasma e tuo zio scoppiava a ridere. È stato esilarante, in effetti».
Sbuffai. «Mezzo parentado a casa e nessuno che si sia degnato di venirci a prendere in aeroporto».
Stiles ridacchiò del mio tono indispettito, pizzicandomi giocosamente un fianco lasciato scoperto dal crop top rosa pallido che avevo deciso di indossare nella vana speranza di poter scampare all’afoso caldo texano.
«Guarda il lato positivo», mi incoraggiò poi a bassa voce, ghignando divertito. «abbiamo avuto più tempo da passare da soli».
Sollevai un sopracciglio con aria scettica. «Io e te passiamo già fin troppo tempo da soli, Stiles. Quando siamo qui mi sembra di poter morire all’idea di doverti stare lontana per forza. Non ci sono abituata».
«Neanch’io».
Distolsi gli occhi stanchi dal viso di Stiles, abbassando lo sguardo sui fili d’erba sfortunata ai miei piedi che presi a strappare nervosamente dal terreno. «Immagina quando dovrò tornare qui per sempre…».
«Ehi», Stiles mi sfiorò velocemente una guancia, «Non roviniamoci la vacanza. Riesci a non pensare troppo a tutto per almeno un giorno, scimmietta?».
«Smettila di chiamarmi così», borbottai, sollevando gli occhi sul viso di Stiles alla velocità della luce.
«Non posso. Non mi dimenticherò mai di quella volta che ti sei arrampicata addosso a me manco fossi un albero di banane solo perché c’era un ragno sul pavimento».
«Sono entomofobica, Stiles!», strillai, rifilandogli una meritatissima pacca sulla spalla.
Stiles comunque non reagì, si limitò semplicemente a squadrarmi con un sorrisetto poco rassicurante stampato in viso.
«Buono a sapersi, perché hai un grillo tra i capelli», mormorò poi con nonchalance estrema, esattamente un attimo prima che il panico facesse di me la sua preda.
All’improvviso avrei voluto nient’altro che poter essere al sicuro in casa mentre lontana dalla natura maledicevo l’estate e tutti gli insetti inutili che portava con sé. Se fossi stata solo un minimo più coraggiosa e meno schiava di quella mia fobia mi sarei controllata i capelli per liberarli del nemico: al contrario me ne rimasi ferma immobile di fronte a Stiles mentre lo fulminavo col peggiore dei miei sguardi.
«Toglimelo, per favore», riuscii a sibilare solo alla fine, tanto piano che Stiles si perse quella mia preghiera accorata e mi costrinse ad urlare come un’ossessa: «STILES!».
«Ah, non urlare! Non c’è niente, scherzavo!».
Un’esplosione di colori mi accecò gli occhi, accompagnata dal sanissimo sentimento di rabbia che sciolse la trance e mi spinse ad assalire Stiles.
«Sei un bastardo».
 
Un paio di dita lunghe e ormai fin troppo conosciute dalla mia pelle mi si strinsero sul braccio nudo, arrestando all’improvviso la mia corsa veloce. Alle prime luci della sera, casa mia era ancora stipata di gente, ma non ebbi bisogno di chiedermi chi fosse nemmeno per un attimo.
Stiles mi costrinse contro il muro foderato di carta da parati a fantasia floreale, impedendomi qualsiasi tipo di replica con un bacio che mi tolse il respiro. Dopo il suo scherzetto nient’affatto divertente in giardino l’avevo evitato come la peste, preferendo di gran lunga aiutare le donne di casa con gli ultimi preparativi del matrimonio incombente. Ma sapevo bene che quella situazione non sarebbe potuta durare a lungo. E infatti…
Stiles affondò le dita tra i miei capelli mentre io ricambiavo il suo bacio irruento, anche se avrei preferito riuscire a tenere maggior fede alla mia arrabbiatura. Ma non potevo chiedere tanto al mio cuore innamorato e lo sapevo benissimo, ecco perché lo lasciai fare finché non mi mancò del tutto il respiro.
«Non ho intenzione di perdonarti, stavolta», soffiai, lontana dalle sue labbra tentatrici ma ancora fin troppo vicina perché potessi ragionare lucidamente.
Stiles mi sorrise, facendo scivolare le mani sui miei fianchi larghi poco prima di afferrarli con una smania che raramente gli avevo visto addosso. Boccheggiai. Se intendeva farsi perdonare così…
«Mi hai già perdonato». Rifletté qualche secondo. «piccola».
Come, prego?
Gli spinsi le mani sul petto, nella speranza vana di poterlo fare lontano da me. Ma Stiles era troppo forte ed io troppo debole, in tutti i sensi.
«Stai diventando troppo sicuro di te», sussurrai, improvvisamente timorosa del fatto che uno qualunque dei miei parenti avrebbe potuto trovarci avvinghiati nel bel mezzo del corridoio. «Non–».
Di nuovo Stiles riuscì a troncare qualsiasi mia replica: gli bastò cercare le mie labbra con le sue affinché la mia mente si svuotasse completamente di tutto ciò che non riguardava la sensazione delle labbra di Stiles sulle mie e delle sue mani sul mio viso, sul mio collo e poi giù lungo la schiena, i fianchi e ritorno. In presenza di Stiles mi annullavo, con lui e per lui. E non esisteva nient’altro.  
Gli tirai dispettosamente qualche ciocca di capelli, stringendoli forte tra le dita e guadagnandomi un basso gemito che mi fece sorridere soddisfatta tra un bacio e l’altro.
«Sei ancora arrabbiata con me?».
Stiles cercò il mio orecchio per sussurrarci quelle parole contro, carezzandomi il lobo mentre le sue dita abbandonavano i miei fianchi per risalire lungo il profilo del mio crop top. Fermò l’avanzata ad un passo dal mio seno, facendo aumentare ancor di più l’intensità dei miei respiri.
Deglutii, chiudendo gli occhi nell’attesa di una carezza che sapevo già non sarebbe arrivata. «Tantissimo».
«Cosa posso fare per farmi perdonare?».
Riaprii gli occhi al suono di quella domanda impertinente, cercando di riacquistare il controllo di me stessa e dei miei muscoli. Sciolsi le dita dai capelli lunghi di Stiles, scendendo lungo il collo e le spalle larghe fino a giungere ad un passo dalla meta: il cavallo dei suoi bermuda. Arrestai le mie carezze lì, costringendolo alla stessa tortura che stava riservando a me coi timidi tocchi che dispensava al profilo del mio seno. Gli sollevai la canotta quanto bastava ad infilarci le dita sotto e accarezzare appena appena la sottile striscia di peluria che partendo dal suo ombelico spariva poi all’interno dei pantaloni. Il punto oltre il quale non intendevo scendere.
«Smettila di fare il coglione», gli ordinai, quando mi reputai almeno in parte sazia dei suoi lunghi sospiri eccitati.
Stiles annuì col viso contro i miei capelli.
«Non lo farò più», deglutì un attimo, «te lo prometto».
Sorrisi, ben consapevole di tutto il potere che avevo su Stiles in quel momento. Da predatore era diventato preda, i ruoli si erano invertiti ed era ora che la tortura finisse – per entrambi.
«Lo spero per te», mormorai. Poi mi districai dalla sua presa, spingendogli le mani sul petto quanto bastava a riprendere respiro.
E me ne andai, lasciandolo solo e sconvolto nel bel mezzo del corridoio di casa mia.
 
Mi lasciai colpire dall’ennesimo abito da cerimonia esposto nelle vicinanze dei camerini, mettendomi alla ricerca della taglia giusta per me mentre Stiles mi seguiva all’interno della boutique con aria lievemente annoiata. Mancavano meno di quattro giorni al matrimonio di mia sorella ed io, famosa per ridurmi sempre all’ultimo anche con le cose più importanti, ero ancora alla spasmodica ricerca di un abito da indossare in onore dell’occasione.
«Una parte di me vorrebbe che tu non vedessi il mio vestito fino all’ultimo. L’altra invece sa benissimo che non siamo noi due a doverci sposare e se ne frega».
Mi feci lontana dagli ultimi stand che avevo deciso di controllare, con le braccia ricolme di vestiti e l’aria stanca. Avevo girato milioni di negozi d’alta moda alla ricerca dell’abito perfetto senza però trovare niente che mi convincesse sul serio: sapevo fosse troppo tardi per mettersi a fare la schizzinosa, ma non volevo comunque che mia madre spendesse soldi per un vestito che poi non avrei più indossato. Dovevo fare una scelta ragionevole e ragionata, ma decisi mentre mi dirigevo verso i camerini che quella sarebbe stata l’ultima boutique nella quale avrei messo piede. Mi conveniva quindi trovare qualcosa di davvero carino.
«Non potevo venire qui solo con mia madre e Cass: loro mi direbbero che sono bellissima anche se decidessi di indossare un vecchio sacco di patate», continuai a straparlare tra me e me – tipico di quand’ero nervosa – senza nemmeno curarmi dell’evenienza che Stiles potesse non starmi più né seguendo né ascoltando. Ecco perché prima di riprendere con quel discorso senza senso mi voltai a cercare la sua figura magra e slanciata: «Tu invece mi dirai cosa pensi anche stando zitto: mi basterà leggere l’espressione del tuo viso. O la tua mente».
Quelle ultime parole – e il tono fintamente minaccioso col quale le avevo pronunciate – sembrarono finalmente smuovere Stiles dalla trance silenziosa nella quale era caduto, procurandogli un visibilissimo brivido.
«Mi spaventi, quando fai così», spiegò, torturandosi nervosamente il retro del collo prima di muovere l’ennesimo passo nella mia direzione. «Mi sento scoperto su tutti i fronti».
Alzai gli occhi al cielo, stringendomi al petto la pila di vestiti prima di dare a Stiles le spalle e riprendere ad avanzare in direzione dei camerini. «Scherzo, lo sai. Non uso su nessuno il mentalismo».
«Ma ti sei comunque allenata per migliorarlo».
«Certo che sì», concessi, voltandomi a guardare Stiles un’altra volta ancora. «Nessuno sa quando e quanto potrebbe servirmi. Non voglio più sentirmi debole. Ma ciò non vuol dire che comincerò ad usare i miei poteri su chiunque, sta’ tranquillo».
Stiles sospirò e nel silenzio che cadde mi presi tutto il tempo che mi serviva per riflettere sul significato delle parole che c’eravamo scambiati, sulla sua apparente preoccupazione riguardo i miei poteri sempre più forti – una preoccupazione che capivo perché era anche mia. Solo un anno prima non avrei mai potuto immaginare di dover scoprire così tante cose sul mio conto, non mi vedevo portatrice di poteri di chiaroveggenza né tantomeno in grado di leggere i pensieri altrui a comando. Eppure era successo, quella era la mia vita e stavo finalmente imparando a conviverci. Dopo quasi un anno ogni tassello sembrava aver ritrovato il suo posto ed io avevo acquistato un nuovo – e forse migliore – equilibrio.
«Sono tranquillo. Mi fido di te».
Ricercai la figura di Stiles alla velocità della luce: lo trovai poggiato contro lo stipite della porta del camerino che avevo infine scelto, intento a riservarmi uno degli sguardi per i quali sarei stata capace di fare qualsiasi cosa – quegli sguardi che erano solo suoi e che probabilmente avevano quell’effetto deleterio solo su di me. Poi recepii le sue parole – Mi fido di te – e non sorridergli mi venne impossibile.
«Anch’io. Ecco perché sei qui», mormorai, dando le spalle a Stiles per dedicarmi alla scelta del primo vestito che avrei indossato. «Aspettami fuori e preparati a fare al meglio il tuo lavoro di giudice». Feci per chiudermi la porta alle spalle, ma Stiles la bloccò con un piede facendomi sobbalzare dall’estrema velocità con la quale si era mosso. «Cosa c’è?»
Cercò i miei occhi, ancora. «Sei sicura di volere che aspetti fuori? Non è che hai bisogno di aiuto con la zip o…».
Dovetti sforzarmi per non scoppiare a ridere. Per Stiles ogni scusa era buona. Scossi la testa, spingendolo fuori dal camerino quanto bastava a chiudermi la porta alle spalle. E poi cominciai a spogliarmi, libera da occhi indiscreti e fin troppo deconcentranti.
 
Schiacciata all’improvviso da un cumulo di emozioni inaspettatamente intense, mi strinsi le braccia al petto, lasciando che la pelle mi si riempisse di pelle d’oca al contatto con gli strass bianchi che adornavano la parte frontale del vestito che anche grazie all’aiuto di Stiles avevo scelto di indossare durante uno dei giorni più felici della vita di mia sorella Cassandra.
Inspirai, nella speranza piuttosto vana di riuscire a calmare il tumulto che mi aveva presa di botto mentre poggiavo la schiena contro il freddo muro del ristorante. Dopo la cerimonia in chiesa ci eravamo tutti riuniti lì ed era stato un continuo ridere e ballare, almeno finché una violenta consapevolezza non mi aveva colpita allo stomaco. Mia sorella era una donna sposata, ora. Era adulta. Mai come in quel momento i nostri undici anni di differenza mi pesarono tanto.
«Puoi piangere, se vuoi».
Il respiro mi si mozzò nuovamente in gola a quelle parole. Cercai velocemente lo sguardo apparentemente inespressivo di Stiles: se ne stava di fronte a me, con gli occhi fissi sulla mia figura tremante e le mani infossate come quasi sempre nelle tasche del pantalone scuro ed elegante che aveva scelto di indossare per l’occasione. Sospirai.
«Non…», provai a spiegargli, ma quella mia replica non trovò mai fine.
Non voglio piangere? Non posso? Non ci riesco? Cosa avrei sul serio voluto dire a Stiles? Non lo sapevo neanch’io.
«Mia sorella è la signora Irvine, ora», dissimulai quindi.
Stiles annuì, facendomisi più vicino contro il muro del ristorante. Era una calda giornata di inizio giugno e l’aria estiva illuminava il suo viso privo di sfumature. «La cosa ti sconvolge tanto?».
«Non so nemmeno perché», borbottai, fissandomi le braccia nude come se all’improvviso fossero la cosa più interessante del mondo. «È come se avessi realizzato a pieno solo ora, a cose fatte e finite. È assurdo, ho sempre saputo che Cass e Jamie avrebbero finito per sposarsi».
«Magari non ti aspettavi che succedesse così presto. Per te, intendo. O credevi che sarebbe andata diversamente. Va bene essere sconvolti. Sono sicuro che lo sei in positivo, ed è normale».
«Certo che lo sono in positivo! Sono contenta per Cass. Hai visto come sorrideva? Non credo di averla mai vista così felice in vita mia», osservai, quasi incredula – inspiegabilmente. «Solo che è tutto così strano…».
Non guardavo più Stiles in viso, eppure lo sentii comunque ridacchiare al mio fianco e immaginai l’espressione sul suo volto senza alcuna difficoltà. «È normale, Harry».
No. No che non era normale. Come niente nella mia vita da circa un anno a quella parte.
Presi un profondo respiro, chiudendo brevemente sugli occhi sullo spiazzo erboso nel retro del ristorante.
«Mio padre l’ha accompagnata all’altare, Stiles», mormorai infine, quando riuscii a sentirmi almeno un po’ di più padrona delle mie sensazioni. «Quando parlavamo dei nostri matrimoni lo facevamo sempre convinte del fatto che quella navata l’avremmo percorsa da sole, come siamo sempre state. Ultimamente avevamo preso a sperare che potesse accompagnarci Adam. Ma Philip…».
Di nuovo, le parole mi morirono in gola e nel giardino assolato cadde un silenzio fin troppo rilassato. Nella calma del momento mi presi tutto il tempo di cui avevo bisogno per ripassarmi nella mente l’immagine di mio padre avvolto in un completo scuro ed elegante – senza occhiali da sole né una delle sue solite giacche di pelle – mentre percorreva la navata centrale della cattedrale di Austin con mia sorella sottobraccio. Ancora stentavo a crederci.
«La vita ci sorprende sempre quando meno ce l’aspettiamo», osservò Stiles all’improvviso, e il tocco delle sue dita sul mio braccio nudo mi riportò bruscamente alla realtà.
Una realtà nella quale mi toccava assolutamente fare i conti con la sincerità delle sue parole. La vita ci sorprende sempre quando meno ce l’aspettiamo, era vero.
Trasferendomi a Beacon Hills il settembre prima mai avrei potuto immaginare di poterci trovare una seconda famiglia, un ragazzo che amavo, parenti che nemmeno sapevo di avere, rapporti persi e potenzialità sempre state nascoste. Ma era successo, tutto, e non mi pentivo di nulla. Per quanto improvviso e inaspettato fosse stato. Come un fulmine a ciel sereno.

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