FavX

di CossNiehaus
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'Attacco Atomico Mondiale ***
Capitolo 2: *** Speranza ***
Capitolo 3: *** Non ero sola ***
Capitolo 4: *** Occhi che parlano ***



Capitolo 1
*** L'Attacco Atomico Mondiale ***


Venni scaraventata conro la parete della mia camera da letto con una forza mai provata prima, come se una fortissima folata di vento trapassò le mura di casa mia per farmi diventare un tutt'uno con la parete.

Sentii la pelle lacerarsi trapassata dai vetri della finestra, i muscoli ledersi, le ossa spezzarsi e poi il sangue che mi bagnava, scaldandomi l'intero corpo come una doccia calda in pieno inverno.

Prima di perdere i sensi caddi a terra e shockata mi guardai attorno vedendo tutti i mobili e le mie cose sparse per terra, rotte. C'era un fumo fittissimo per tutta la stanza che mi face tossiere forte, mi mancava il respiro. Ognuno sembrava l'ultimo. Appena riuscii a calmarmi udii delle urla provenire da fuori, chiedevano aiuto, urlavano nomi, supplicavano di non morire. Provai una forte fitta al petto e un dolore assordante alla testa. Poco dopo calò il silenzio.

Risucii a trascinare il mio corpo fino alla finestra per vedere cosa aveva scatenato quell'inferno in una normale giornata di gennaio.

Vomitai sangue, mi sollevai e guardai al di fuori assistendo allo spettacolo più macabro della natura. La strada sottostante era stata completamente rasa al suolo. Le macchine erano solamente dei cubicoli carbonizzati ed indecifrabili. Le persone al loro interno, polvere.

Fuori non c'era nessun corpo, da dove venivano quindi quella urla? C'era qualche supersite? Decisi di alzarmi per controllare se mio padre e mia madre stavano bene, se così si poteva dire.

Mi sollevai in piedi faticosamente, le gambre mi dolevano molto, avevo una gamba rotta ma non ci badai al momento. Sollevai lo sguardo e rimasi a fissare una finestra del palazzo di fronte al mio che era rimasta intatta per metà. La fissai e la rifissai. Non potevo credere ai miei occhi, era un'allucinazione provocata dallo spavento? Mi stropicciai gli occhi con una mano ed ebbi la risposta. Non era frutto della mia immaginazione; la sagoma di una mano era dipinta sulla finestra. Ci dev'essere stato qualcuno affacciato a quella finestra e le sue ceneri vennero impresse su di essa.

Preferii pensare che non era effettivamente ciò che i miei occhi videro.

Mi diressi verso il salotto, dovre avrei dovuto trovare i miei genitori.

Sul divano trovai due corpi neri adagiati su di esso.

La mia vista si appannò e caddi a terra, priva di sensi.

 

 

 

Tutti abbiamo un nome, ci viene donato alla nascita. Non si sà bene perchè proprio quel nome piuttosto che un altro. Ci viene dato e basta, forse perchè era il preferito di nostra madre, perchè era quello di un nostro parente deceduto inaspettatamente, perchè si accostava bene con il nostro cognome, perchè era quello di una star di Hollywood, perchè lo aveva scelto nostro fratello, perchè andava di moda o perchè in qualche lingua antica aveva un significato speciale.

Ma alla fine cosa sono dei nomi, se non che delle lettere accostate l'una accanto all'altra allo scopo di comporre una parola che ti identificherà fino alla fine della tua vita?

Io avevo un nome, prima dell Attacco Atomico Mondiale avvenuto il 2 gennaio del 2049. Questa data diventò la mia ragione di sopravvivenza. Ero riuscita a sfuggire alla morte che caratterizzò quel giorno. Guarii le mie ferite, grazie anche alle mie conoscenze basilari sulla medicina. Avevo 20 anni, ero una studente della J. Hopkins di Washington ed ero abbastanza preparata su come curare i miei danni.

Ma le mie conoscenze erano ancora limitate, per questo pagai perdendo la vista all'occhio destro. Le ore di oculistica le detestavo con tutta me stessa, infatti venni bocciata all'esame. Lo coprii con una fascia nera, come per nascondere un mio fallimento professionale.

Nella capitale degli Stati Uniti non era rimasto nessuno.

 

Forza: fòr·za/ sostantivo femminile. Qualsiasi causa capace di modificare lo stato di quiete o di moto di un corpo; se applicata a un corpo non rigido ne causa la deformazione.

Fu questa la causa della desertificazione di tutti gli U.S. E pure io ne rimasi vittima; con la differneza che le bombe atomiche non mi polverizzarono l'intero corpo come successe al resto della gente, ma solo il cuore.

Non credo nel destino, nemmeno in un Dio, e giustifico la mia presenza dopo l AAM pura fortuna. Un insieme di circostanze che, mescolate tra di loro, hanno fatto sì che io rimanessi in vita.

Non ero più un persona, l'umanità che avevo era stata portata via col mio cuore. Non piansi mai, non sorrisi mai, non mi impaurii mai. Ero asettica. Ero pietra: fredda, statica, inumana.

Prima di prendermi il privilegio di nominarmi l'unica superstite passarono due mesi, dove passai ogni giorno a cercare qualcuno graziato dalle circostanze, come me.

Di una cosa ero certa, non potevo essere l'unica al mondo. Qualcuno era stato causa di quella carneficina, e doveva pagare.

Forse era questo il compito di noi sopravvissuti; riprendere il mondo nelle nostre mani e portare tutto alla normalità. Anche se non sono ancora sicura di quale sia la normalità.

Capii che la fortuna girava dalla mia parte quando in una delle mie trasferte giornaliere nelle periferie della città trovai un fuoristrada integro e con le chiavi al suo interno.

Ne avevo trovate di automobili funzionabili, ma le chiavi erano sparite con i loro propietari.

Lui, invece, era sopravvissuto a tutta quella devastazione con le chiavi al suo interno. Lo ripulii dalla polvere, era una Range Rover bordeaux targata California. Ruppi il vetro posteriore ed entrai nel veicolo. Si accese ed esultai dalla gioia. Sarei dovuta andare alla ricerca di qualche distributore di benzina integro; pensai a quelli posizionati fuori dalle zone abitate.

Era giunta l'ora di mettermi in viaggio per cercare tutti i sopravvissuti e ritrovare la speranza. Tornai a Washington, alla mia abitazione riarrangiata, e preparai il borsone con i pochi oggetti che mi sarebbero serviti in quell'impresa: una Beretta 92 e una Storm Compact trovate casualmente in una delle mie escursioni, una cartina perchè le reti telefoniche erano saltate ed internet era inaccessibile, acqua, cibo e degli accendini, per accendermi falò la notte.

Partii una mattina di primavera. Non sò in che mese, giorno e nemmeno anno. Avevo perso la cognizione del tempo, e sarebbe stato saggio da parte mia contare i giorni dall' AAM.

Avevo paura, tanta paura, perchè ero solo una ragazza e non mi ero mai trovata ad affrontare un'impresa tale. Avrei trovato dei nemici e degli ostacoli durante il mio percorso, e avevo la sensazione di non potercela fare. Solo in quel momento capii che stavo rinascendo. Perchè provai, dopo tantissimo tempo, una sensazione. Iniziavo a provare sentimenti, e questo riaccese una piccola fiammella nel mio cuore.

Ero tornata, ora sapevo cosa dovevo fare: ricomporre tutti i supersititi e creare un gruppo, con un unico scopo. Scoprire i responsabili e riprendere nelle nostre mani la Terra.

 

 

Il mio nome è FavX, e presto scoprirete il suo significato.

Avrei potuto chiamarmi Hanna, Taylor, Lana o in qualsiasi altro modo. Ma non avrebbero avuto alcun significato per me, e per la persona che ero diventata.









Note dell'autrice:
Spero che questo capitolo vi abbia intrigato e vi sia piaciuto.
Non sono molto esperta nella scrittura, ma un giorno mi è venuta in mente una storyline carina e ho deciso di basarci una storia.
Se volete, lascaitemi pure una recensione. Positiva o negativa che sia, accetto consigli da tutti :)
Buona vita, e al prossimo capitolo :')

-Coss

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Capitolo 2
*** Speranza ***


Inserii le chiavi nel blocchetto d'accensione della mia Range Rover e le girai, accendendola. Rilasciai la frizione dolcemente e contemporaneamente spinsi sull'acceleratore per dirigermi verso l'ignoto. Chiusi gli occhi e presi un respiro profondo per poi rilasciarlo, facendogli portare tutte le preoccupazioni lontane da me. Riaprii gli occhi, posizionai una mano sulla manopola delle marce e l'altra la ferrai saldamente al volante. Rilasciai tutta la frizione e partii.

Il fuoristrada aveva poco meno di metà serbatoio, e dovevo assolutamente trovare un distributore, il prima possibile. Presa dalla preoccupazione di essere abbandonata dall'unico mezzo che mi permetteva di spostarmi, provai a distrarmi vedendo se la radio funzionava.

Effettivamente non mi ero mai chiesta se, oltre che alle reti telefoniche e ad internet, pure le radio erano state interrotte.

Dopo qualche colpetto sul dispositivo questo partì. Si sentiva un ronzio tipico di una radio fuori segnale. Mi fece tornare in mente quell'inverno dove mia cugina Emily volle portarmi ad un parco divertimenti, ma ci ritrovammo sperdute in mezzo al nulla, dove non c'era alcun segnale e la radio emetteva lo stesso lamentio.

La spensi, rassegnata dall'idea che avrei dovuto subirmi ore ed ore in macchina con nemmeno l'ombra di qualche nota musicale. E posso giurare che mi sarei ascoltata anche il gruppo musicale più rivoltante al mondo, pur di far tacere il silenzio.

Queste furono le mie prime tre emozioni dopo tanti mesi: paura, voglia di ascoltare un po' muscia e rabbia, tanta rabbia, perchè non potevo farlo.

Prima dell'Attacco Atomico Mondiale non passava giorno dove non ascoltavo anche solo un paio di canzoni. La musica per me era vita, speranza, un modo ben riuscito per farmi staccare anche solo per tre minuti e mezzo dall'ansia pre esame che caratterizzava la mia vita da universitaria. Non volevo e non potevo permettermi di andare fuori corso, io venivo da una famiglia non del tutto adagiata, e i miei genitori avevano fatto i salti mortali per assicurarmi un fondo monetario adeguato per sostenere i miei anni di studio e specializzazione. Quei soldi erano frutto di anni di sacrifici e rinunce, uno ad uno, e meritavano di essere utilizzati nel migliore dei modi.

Ricordo che quando venni a conoscenza del buon esito del mio test d'ingresso di medicina svenni dalla felicità tra le braccia di mio padre, e una volta riacquistati i sensi feci una promessa a lui e a mia madre. Quando sarei diventata medico, nello specifico chirurga, avrei regalato loro la vita adagiata che si erano privati per me.

La mia promessa era ancora valida, anche se la mia famiglia non c'era più. Avrei lottato con tutta me stessa per portare alle persone un lieto fine, e la giustizia che ognuno di essi meritava di avere.

Presi questo giuramento con grande responsabilità, ne valeva la mia stessa vita.

Presa dai miei pensieri mi ritrovai nei pressi di Richmond, a circa due ore dalla capitale. La macchina era ormai agli sgoccioli e l'ansia si impossessò di me. Ed ecco la quarta sensazione, il peggior nemico dell'uomo: l'ansia.

E l'ansia si sà, va a braccetto con le paranoie che tengono in borsa il panico. E se la borsa si rompe è difficile aggiustarla a dovere.

Si fermò. La mia Range Rover percorse fino all'ultimo centimetro che le era stato permesso fare. Presa dalla rabbia sbattei un pugno deciso sul cruscotto, sbloccando l'airbag che mi proiettò sul sedile. Chiusi istintivamente gli occhi, strizzandoli più che potevo, come se la forza che impiegavo per serrarli più era intensa e più mi avrebbe protetta.

Quell'evento mi fece ritornare a qualche giorno prima, quando ero ancora priva di qualsiasi sentimento, perchè mi ricordò il momento in cui l'onda d'urto della bomba mi scaraventò inaspettatamente, tanto quanto quell'airbag, contro il muro.

Scesi dall'automobile e decisi di continuare a piedi, nel giro di poco sarei arrivata a Richmond e avrei di sicuro trovato un'altra automobile. O almeno, lo speravo con tutta me stessa. E ecco una quinta sensazione: la speranza.

 

Era da quando avevo dodici anni che non vedevo Richmond. Nonostante la devastazione che la rase al suolo riuscii comunque a riconoscere certi luoghi e quindi ad orientarmi.

Da lontano scorsi il vecchio orfanatrofio di Sant' Agata, famoso perchè un giorno ci fece visita il Papa. Non ricordo quale, se c'era una cosa che non m'interessava erano le religioni e tutto ciò che ci girava attorno.

Cercai prima di tutto delle provviste di acqua, perchè la mia stava per terminare, e non sarei stata certa di trovarne nelle città sucessive.

In circa un ora trovai solamente una bottiglia di Chardonnay e due litri di acqua. Presi il ritrovamento del vino come un'invito spudorato ad ubriacarmi, e forse lo avrei accettato. Poco dopo trovai anche dei medicinali, mi sarebbero serviti in caso di necessità.

Dopo aver bevuto qualche sorso d'acqua mi sentii subito rigenerata; decisi quindi di andare alla ricerca di un'automobile.

Quando trovai la bottiglia di vino notai poco distante una bicicletta integra. Non lo sò il perchè, ma mi venne in mente una persona alticcia pedalare a zig zag per la strada. Un tempo questo pensiero mi avrebbe fatto ridere, ero molto stupida. Ma prima che ciò potesse accadere i miei pensieri conclusero la scena con l'immagine della bomba cadere sulla città, e della povera persona venire cancellata dall'esistenza. Maledissi me stessa, per non essere stata in grado di guardare avanti dopo tutto quel tempo.

Presi la bicibletta e pedalai alla ricerca di un mezzo. Non dimenticavo mai la mia missione, quindi ad ogni 500 metri circa urlavo più che potevo, per farmi sentire da qualche essere vivente.

Presi un forte spavento quando udii un suono provenire dall'interno di un negozio. Mi fermai di colpo e rimasi a guardarlo fissa. Dopo qualche secondo urlai nuovamente se qualcuno riusciva a sentirmi, che ero venuta in pace e di darmi un qualsiasi segno.

Subito dopo udii un altro suono, simile ad un lamentio, sofferente.

Capii che era vero ciò che sentii; scesi dunque di fretta e furia dalla bicicletta e corsi verso l'entrata. Nel farlo provai una forte fitta alla gamba. L'osso si era sistemato, ma non era del tutto riparato, quindi spesso e volentieri di faceva sentire.

Ignorai i miei dolori ed entrai nel negozio.







Note dell'autrice:

Ed ecco qua il secondo capitolo, spero vivamente di avervi fatto sorgere un po' di suspance e voglia di scoprire il prossimo capitolo, dove vi avviso che ci sarà una tenera sorpresa.

Coss_

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Capitolo 3
*** Non ero sola ***


 

Guardandomi attorno appurai che si trattava di un negozio di animali, e subito mi balenò nella testa che i versi che sentii potevano essere di qualche povero animale sopravvissuto. Nella sala principale non c'era anima viva; provai quindi ad oltrepassare una porta che teneva sopra di essa un cartello con scritto "VIETATO L'ACCESSO AI NON AUTORIZZATI", era aperta per metà.

Sulla soglia della porta udii distintamente un'altro verso, quella situazione angusta mi spaventò, sentivo le gambe tremare.

Facendomi coraggio, entrai, e rimasi a bocca aperta.

Mi pianse il cuore quando vidi accasciato a terra un cane, mangiato dalla fame. Mi affrettai a raggiungerlo. Non conoscevo l'anatomia degli animali, ma decisi di abbattere le barriere per provare, in ogni caso, a fare un'analisi completa su quali fossero i punti critici che avrebbero portato il cucciolo a cattiva sorte da lì a poco tempo. Non aveva ferite, non aveva infezioni sospette. Era solo terribilmente affamato. Coccolai l'animale delicatamente e presi la dura decisione di dargli un po' di cibo della mia scorta. Non ero mai stata una persona avara; nonostante i soldi girassero poco in famiglia se mi capitava di condividere ciò che avevo lo facevo più che volentieri. Restai restiva all'idea, ma non resistii, e feci mangiare al piccolo una scatoletta di carne e dell'acqua.

Dopo essersi nutrito alzò il suo bel musetto stropicciato e mi abbaiò fragilmente. Era un cucciolo di Border Collie, credo che fu da quel momento che iniziai ad amare i cani, prima ero sempre restiva.

Caricai il cagnolino sulle mie spalle e mi diressi alla bicicletta continuando la ricerca. Quando avevo promesso che avrei dato a tutti i sopravvissuti un lieto fine non mi riferivo solo alle persone, ma anche agli animali. Valevano quanto noi, e anzi, valevano di più. Perchè l'uomo si era dimostrato un animale spregevole, egoista e insensibile.

Verso sera non trovai nessuna macchina, ma mi sorpresi nel vedere in lontananza un distributore di benzina integro. Trovai due taniche e le riempii. Ancora oggi mi chiedo come ci riuscii, ma raggiunsi prima che facesse completamente buio la mia Range con il Border in groppa, lo zaino con le provviste e due taniche nelle mani.

 

Il giorno dopo ci dirigemmo verso Atlanta.

La capitale era divisa da Altanta da circa 10 ore di automobile non stop. Io, in quel tempo, arrivai a metà strada.

Il cucciolo si stava riprendendo e decisi di dargli un nome. Ma non uno qualunque, uno significativo. Mi venne in mente una mattina particolarmente soleggiante e profumata. La primavera ne era responsabile.

Lui, o meglio, lei era Dakota, che nella lingua antica dei Sioux significava 'amico'. Lei era stata la mia prima ragione di affetto e amore dopo tutto quel tempo. Era stata un toccasana per la mia depressione, se così si poteva definire. Amai quando, dopo essersi ripresa, mi leccò la mano e si fece coccolare.

Mi sentii umana dopo un periodo fin troppo lungo.

Diretta verso Atlanta decisi di vedere se la radio prendeva ancora.

Il solito ronzio partì negli speaker. Imprecai, ma prima di spegnerla percepii un "aiuto" mischiato al rumore. Cercai di concentrarmi per averne la certezza, ma non udii più niente e spensi la radio.

Continuai a pensarci per il resto della giornata.

Verso pomeriggio feci una sosta per permettere a Dakota di fare i suoi bisognini, e a me i miei.

Mi guardai attorno, deserto.

Presi dallo zaino l'acqua e ne bevvi un paio di sorsi, poi ne versai un po' nel mio palmo e feci bere anche la mia amica.

Salita in macchina provai nuovamente ad accendere la radio.

Percepii di nuovo nella confusione generale un' "aiuto" pronunciato dalla stessa voce di prima, accompagnato da un' "vivo".

Il segnale venne nuovamente perso.

Accesi il veicolo e continuammo la notra strada, mantenendo la radio accesa in caso la voce avesse ancora parlato.

Con il macinare dei kilometri constatai che più mi avvicinavo ad Atlanta più la voce si distingueva dal rumore, e in più credo che sentii una nuova parola, ma indistinta.

 

Ad Atlanta avrei trovato vita, ne ero certa, certissima. Accelerai e verso sera giunsi a destinazione.

Fu la prima volta che visitai quella città, quindi non vi so dire se era un bel posto o meno. Ma di una cosa ero convinta, era grigia, cenere.

Quel mondo stava diventando fin troppo monotono.

La Terra era diversa da quella che tutti sono soliti immaginare: aveva perso qualsiasi colore, qualsiasi profumo, qualsiasi suono che ci offriva ad ogni sole sorto e ad ogni luna calata.

Mi interrogai diverse volte riguardo a queste mancanze della natura, quando il ciclo normale della vita avrebbe ricominciato a lavorare?

Mi inoltrai nella città ed alzai il volume della radio, non c'erano dubbi, per la prima volta udii chiaramente la voce pronunciare disperatamente "Aiuto.. sono vivo.. e - e mi trovo.. a - ad Atlanta, all'ospedale di Hamilton, qualcuno mi risponda, v-vi prego", una scossa attraversò il mio corpo: non ero sola.

 

Raggiunsi l'ospedale più veloce che potei, sciesi sall'automobile, corsi e percepii la gamba fare i capricci, la ignorai ed entrai nell'edificio in catafascio. Urlai con tutta la voce che mi era permesso usare, e mi diressi nel cuore dell'Hamilton.

Lo trovai accovacciato su una poltrona mentre che implorava aiuto alla ricetrasmittente, era un ragazzo sulla trentina, biondo con la carnagione chiara.

Mi fermai sulla soglia della porta, sentendo il cuore battermi all'impazzata, un'assolo di batteria scatenato, e fissai il giovane.






Note dell'autrice:
Dal prossimo capitolo conoscerete il primo nemico che FavX con i suoi nuovi compagni dovrà affrontare. E anche chi ha dato alla luce 'Attacco Atomico M.

Mi raccomando bedda gente, ditemi cosa ve ne pare se vi va :')

Al prossimo capitolo!

Coss

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Capitolo 4
*** Occhi che parlano ***


 

Gli cadde la radiolina dalle mani, ma non se ne accorse, stava ignorando tutto attorno a lui, il suo sguardo era proiettato su di me. Mi scrutò da capo a fondo senza tralasciare un minimo centimentro e dal retro della sua schiena svelò un pugnale, puntandomelo.

Rabbrividii alla vista di quell'arma così affilata e appuntita. I bagliori della luce provenienti dalla finestra riflettevano su di essa e mi disturbavano la vista, se mi avrebbe attaccata lo avrei scoperto troppo tardi, e questo mi preoccupava.

"Cosa sei?" mi interrogò, impassibile.

Provai una sensazione di disagio, era da così tanto tempo che non sentivo voce al di fuori della mia. Sgranai gli occhi e provai a rispondergli, ma pure quest'ultima cosa mi venne difficile da fare.

La mia bocca non collaborava.

Prima di rispondere mi soffermai sulla sua domanda. Cosa significava quel 'cosa sei?', era palese che ero una persona, un'essere umano.

Decisi quindi di fare il suo stesso gioco, per comprendere meglio le sue intenzioni.

"Potrei farti la stessa domanda, rispondimi prima te" sentenziai con un tono che non ammetteva repliche.

Il suo pugnale rimase immobile senza spostarsi di un centimentro.

Feci un passo in avanti per togliermi il bagliore riflesso sugli occhi di dosso, ma il ragazzo scetticamente scosse l'arma con enfasi per intimorirmi. Mi armai di determinazione e ne feci un'altro.

A poca distanza da lui mi fermai, e con lo stesso tono autoritario di prima conclusi ,"dimmelo".

Il giovane abbassò di poco il coltello e rispose "un'essere umano.".

Compreso che non aveva altro da aggiungere risposi a mia volta.

"Lo sono anche io, potrei essere altro?", il giovane non parlò e questo stuzzicò la mia curiosità.

Riponendo l'arma na posto si separò dalla poltrona e si diresse verso l'uscita dell'ospedale, lo seguii.

Tirai un sospiro vedendo che nel seguirlo non mi minacciò nuovamente.

Se avesse voluto che non lo facessi mi avrebbe già fatto assaggiare la lama del suo coltello,ed era l'ultima cosa che volevo in quel momento.

Camminava velocemente e lo persi un'attimo di vista. Questa cosa mi impaurì come quando, da piccola, vidi un ragno sul soffitto della cucina. Lo tenni d'occhio per assicurarmi che non si muovesse da lì, ma poco dopo mi distrai e quando notai che non era più al suo posto era troppo tardi. Assistetti al suo atterraggio sul mio braccio e scoppiai in un urlo assordante sventolanto il mio povero braccio nel tentativo di scaraventare via il mostriciattolo.

Aumentai il passo, ma quando lo raggiunsi lo sorpresi con un piccolo pettirosso tra le mani.

Rimasi stupita nel vedere quella piccola creatura, era così sana ed energica, cercava in tutti i modi di scappare, era il primo animale che vedevo dopo la mia Dakota.

Guardai il giovane e sul suo sguardo si dipinse un'espressione minacciosa. Teneva quel maledetto pugnale premuto contro il petto dell'uccellino e capii subito i sui malati propositi. Poco prima si era definito un'essere umano e ora stava per compiere un gesto simile? Feci per replicare a tutto tono, quando mi precedette "Sta a te decidere.". Ero confusa, cosa voleva da me quella persona? Anche se fosse stata una trappola nessuno avrebbe perso la vita quel giorno, e nemmeno in quelli a venire. Gli innocenti dovevano vivere.

Con determinazione prelevai dalla tasca del mio giubbotto la Beretta e la puntai addosso a quel pazzo, minacciandolo "Fallo e ti ritrovi anche tu un buco nel torace", tolsi la sicura. Il pettirosso stava soffrendo, e io con lui assistendo a quella scena violenta. Volevo mettere fine a quella scena cruenta. Stavo per sparare, iniziai a fare pressione sul grilletto con l'indice.

 

 

 

Tirani un enorme sospiro quando lasciò la creatura, sorridendomi.

Abbassai l'arma da fuoco, e attesi spiegazioni.

"Rispondo alla domanda che mi hai posto prima. Sì, potresti essere altro ma no, non lo sei. Dall'Attacco molte persone sono rimaste in vita, ma poche non ne sono rimaste lese, e noi facciamo parte di quelle poche. Devi sapere che molta gente sopravvissuta ha mutato il loro DNA per via delle radiazioni, ma non si tratta di semplici deformazioni corporee. Non si era mai vista una reazione simile prima d'ora: la loro pelle è diventata scura, bruciata dal fuoco ardente dell'esplosione che si è inciso nel loro codice genetico. Loro non hanno occhi per vedere, e questo è un punto a nostro favore perchè hanno perso la cosa che li accomuna a noi. Sto perlando dell'umanità. Loro mangiano qualsiasi cosa gli capiti a tiro se hanno fame, e di certo non si farebbero scrupoli se si trovassero di fronte una bella ragazza o un vecchio indifeso. Devi stare attenta; hanno dei sensi accurati. Dalle fonti che sono riuscito a raccogliere queste persone vengono chiamate Menmod, non sò altro".

 

 

Quella sera decisi di andarmene da quel posto.

Grazie al fascino convincente che riesco a donare alle mie parole ogni tanto riuscii a convincere il giovane, che diceva di chiamarsi Caleb, a venire insieme a me alla ricerca di quelli 'come noi'. Era un ragazzo molto accorto, e mi rassicurava sapere che al mio fianco ci sarebbe stato anche lui.

Dakota fece subito amicizia con lui, e questo mi fece molto piacere. Durante il viaggio verso la prossima destinazione lei si addormentò sulle sue gambe, provai tenerezza.

Guidai tutta la notte mentre gli altri dormivano, non chiesi il cambio a Caleb. C'era il pensiero di ciò che mi disse qualche ora prima che mi teneva sveglia. Ci pensai quasi ossessivamente, a volte lo facevo talmente troppo che sentivo delle fitte allo stomaco colpirmi. Di solito mi venivano quando mi chiedevo dove fossero tutte queste persone, effettivamente non le avevo mai viste.

 

Verso l'alba mi lasciai andare godendomi il sole spuntare da dietro le colline sopprimendo il buio, e con lui pure i miei pensieri. Era piacevole il calore che percepivo quando i suoi raggi mi accarezzavano la pelle.

Lungo la strada notai a qualche kilometro da me una tenda piazzata nel mezzo di un campo. Più mi avvicinavo e più capivo che quel posto poteva essere abitato. Una corda era legata a due alberi secchi fungendo da stendipanni e un falò era stato spento evidentemente da qualche ora.

Accostai la macchina e svegliai i miei compagni di viaggio.

"Ma è ancora l'alba" si lamentò Caleb riuscendo a mala pela ad aprire gli occhi. Mi era dispiaciuto svegliarlo, si vedeva che stava dormendo con gusto. La mia cagnolina invece fu felice di vedermi quando aprì gli occhi. Si stiracchiò e mi balzò addosso leccandomi la guancia, quanta energia che emanava.

Scesi dal veicolo e posizionai le mie pistole in due apposite fondine che creai alla bene e meglio. Caleb confuso chiese spiegazioni, gli dissi ciò che avevo visto. Se quel posto non era abitato da Menmod avremmo potuto trovare dei nuovi alleati che magari ci avrebbero dato maggiori informazioni riguardo le persone modificate, o meglio ancora dei responsabili di quell'inferno.

Ci incamminammo verso l'accampamento.

Notai che Cal non possedeva una pistola, decisi quindi di dargli una delle mie. Volevo fidarmi della persona che avevo davanti, ma la prudenza prima di tutto. Non mi ero mai fidata totalmente della gente prima dell'Attacco e di sicuro non avrei iniziato ora. Gli diedi quella che aveva solo due colpi disponibili.

Rimase meravigliato dal mio gesto e a sua volta mi pose uno dei suoi pugnali.

"Così siamo pari" disse giustificando il suo dono.

Strinsi l'arma e gli feci cenno di continuare a camminare.

A pochi metri dall'abitacolo ci nascondemmo dietro a degli arbusti per accertarci che non ci fosse stato nessuno nei paraggi.

Era davvero faticoso tirare delle conclusioni con un solo occhio funzionante.

Ci avvicinammo ancora di più mimetizzandoci ancora tra i cespugli circostanti.

Il silenzio regnava, mi voltai verso Cal per vedere se riteneva anche lui che il posto era sicuro, annuì con un gesto del viso.

Con passo felpato ci avvicinammo alla tenda, appoggiai un'orecchio sul tessuto.

Silenzio.

"Questo posto è pulito, proviamo ad entrare nella tenda".

Feci per entrare quando Caleb mi bloccò dal braccio "prima io", rimasi confusa.

Si spiegò subito dopo "Io non ho nulla da perdere in questa partita, te invece si. Hai un compito ben preciso da portare a termine e io mi fido di te. Se qualcuno sarà al suo interno colpirà prima me e tu potrai salvarti. Quindi, prima io e poi te".

Riconobbi l'umiltà dell'uomo e ne fui grata, sapere che avevo un'amico che teneva a me in quel caos di mondo mi dava ancora più speranza.

 

Entrò e rimase per un'attimo sulla soglia dell'entrata, poi fece cenno con la mano di entrare.

Entrai, e mi fece cenno col dito di non far rumore.

Non capii; poi guardandomi meglio attorno notai una giovane ragazza accovacciata su un'ammasso di coperte che dormiva, tenendo una lancia di legno appuntita stretta a sè, quasi fosse un peluche.

I capelli corvini e mossi le contornavano il viso, la sua pelle era abbronzata ma le sue labbra erano comunque in risalto dal resto del viso.

Mi incantai a guardarla, o meglio, ammirarla quando Cal mi sussurrò "credi che stia dormendo veramente?".

Mi svegliai dallo stato di trance e riosservai la ragazza. Apparentemente dormiva, ma non ne ero certa. Mi avvicinari a piccoli passi verso di lei per cercare di capire.

Con un balzo rapido la giovane si precipitò su di me scaraventandomi contro un tavolo, mi lasciai cadere perdendo quasi i sensi.

Caleb corse verso la ragazza per fermarla ma lei lo seminò scappando da un'uscita secondaria. Riacquistai nel giro di pochi secondi i sensi e raggiunsi Cal che stava inseguendo la bruna.

Ma la botta risultò nemica, non riuscivo a correre e mi fermai guardandomi la scena dell'inseguimento.

Cal riuscì ad acciuffare la fuggitiva e ne fui fiera, senza il suo aiuto non avrei concluso nulla.

Tornarono entrambi indietro, lei aveva i polsi legati dalla cinta di lui che nel frattempo la teneva stretta a sè senza darle modo di muoversi,

"non parla" mi informò il mio amico.

Mi avvicinai alla ragazza per scrutarla meglio, era sana, le domandai il suo nome ma non rispose. L'avvicinai a me "ti ho chiesto come ti chiami, non intendo farti del male".

Non volle far crollare il muro che costruì, ma con me questo gioco non funzionava. Avrebbe potuto non aprire bocca, ma io li notai i suoi occhi.

Urlavano paura e rabbia. Non la biasimavo, anche io nei suoi panni mi sarei comportata così. Appoggiai una mano sulla sua spalla. Se non voleva parlarmi con le parole avrei usato il suo stesso linguaggio. Con l'altra mano le alzai delicatamente lo sguardo verso i miei occhi e lei mi capì.

"Lasciala andare, Cal".

"Sei impazzita? Scapperà" ribattè lui scocciato.

"Prima hai detto che ti fidavi di me, bene, dimostramelo".

Non gli lasciai scelta, fece come gli ordinai ma puntandogli il coltello sulla giugulare nel caso che lei si fosse ribellata.

Le scalcciò la cinta che le stringeva i polsi e alzò la mano libera facendomi capire che ora era completamente libera, libera di fare qualsiasi cosa. Pregai qualche divinità perchè le mie previsioni si rivelassero vere. Se mi sarei sbagliata avremmo rischiato grosso e avrei perso anche la fiducia di Caleb. Non potevo accettarlo.

Passarono diversi secondi e la ragazza rimase al suo posto, ma rimasi sempre sull'attenti; avrebbe potuto scattare all'improvviso come prima nella tenda. Decisi quindi di rompere il ghiaccio.

"Lui è Caleb, il mio nome invece per ora non è affar tuo. Siamo esseri umani e cerchiamo persone come noi. Sono partita giorni fa' da Washington con uno scopo ben preciso: trovare i responsabili di questo inferno e fargli provare quello che noi abbiamo subito per causa loro.

Qualsiasi essere vivente incontreremo sul nostro cammino che potrà essere salvato noi lo accoglieremo, alla fine di tutto questo sarebbe bello ricominciare da capo creando una società priva di cattiveria come quella che ci siamo appena lasciati alla spalle. Per quanto questo possa suonarti come utopia noi ci crediamo fino a fondo. Se vuoi unirti non serva che mi parli, se non te la senti. Stringimi la mano e saprò che potrò contare su di te.".

Lei non cambiò sguardo, mi fissava e mi studiava.

Il suo silenzio mi stava ammazzando, avevo usato le parole giuste per farla sentire al sicuro con noi? Caleb mi guardò preoccupato, temeva da un momento all'altro una brutta reazione della giovane.

Avevo bisogno di una risposta, la guardai nuovamente negli occhi comunicandogli scongiura.

Allungò la mano avvolgendola nella mia, arrossi senza volerlo.

Cal abbassò l'arma e tirò un sospiro, le sorrisi.

La seguimmo verso la sua tenda: prese un borsone e ci inserì accuratamente i suoi effetti personali. Poi, si avvicinò a un piccolo baule e tolse dei fogli ponendomeli poi.

Su di essi vi eran disegnati degli esseri spaventosi. Riuscii a riconoscere i Menmod, da quanto appurai la ragazza li aveva visti e li aveva anche studiati scovando ogni loro caratteristica. Sfogliando le pagine mi soffermai sul disegno di un robot ovale che aveva sul davanti una striscia nera rettangolare e a partire dalle sue estremità partivano due striscie che contornavano l'essere. In cima alla pagina lessi 'Gerak'.

Su di loro c'era ben poco contenuto, ma non lessi nemmeno una parola di quel malloppo. Non in quel momento. Riposi tutto nella tasca interna del mio cappotto e uscii dalla tenda.






Note dell'autrice:
Vorrei ringraziare veramente tanto tutti coloro che stanno leggendo la mia storia, per me è una grande soddisfazione condividerla con voi. SOOO aspetto sempre vostre recensioni, mi piacerebbe sapere cosa ne pensate! Un ringraziamento speciale va invece alla mia sis, ti voglio bene :3 ... Nei prossimo capitolo Fav riscoprirà un sentimento soppresso da tempo, quale sarà questa volta? Ci vediamo al prossimo chapter bella gente.

Coss

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