Due Fratelli

di VaticanCameos221B
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Pirati ***
Capitolo 2: *** Barbarossa ***
Capitolo 3: *** Cocaina ***
Capitolo 4: *** John ***



Capitolo 1
*** Pirati ***


Salve a tutti! Questo è un profilo doppio come ben sapete, ma ora sono solo io a parlare, Mizu. Questa è una storia unicamente scritta dalla sottoscritta e ispirata al legame tra i fratelli Holmes! Spero che possa piacervi *-* a presto!

Disclaimers: I personaggi appartengono a Sir Arthur Conan Doyle, alla BBC, a Steven Moffat e Mark Gatiss, e sono utilizzati senza alcun scopo di lucro e nel rispetto dei copyrights.

Crediti Fan Art: Whimsycatcher.

 

DUE FRATELLI



 

Spodestato. Ero esattamente questo quando nostra madre mi annunciò con i suoi occhi di vetro che saremmo stati ben presto una famiglia “allargata”.  Non sarei stato più il principale, il protagonista al centro del palco, il figlio prediletto, l’unico vero orgoglio della famiglia. Avrei perso la carica, la precedenza, il potere. Messo in disparte come un qualcosa di ormai scontato e noioso.

Allargare.

Più sorrisi, più risate irragionevoli, lacrime - ancora più irragionevoli -, grida, crisi isteriche, voglia di suicidarsi, visite di parenti che speravo fossero da tempo seppelliti sotto quintali di terra e mi chiedo quale razza di stregoneria li tenga ancora in vita. Ostinazione, probabilmente. La costanza con la quale ancora si permettevano a condividere la loro misera esistenza al solo scopo d’irritarmi. 
Confusione, invasione dei propri spazi conquistati a fatica, pannolini, vomito, capricci da compiacere per il nuovo successore. Il “piccolo della famiglia” che avrebbe prontamente violentato la mia tranquillità e l’intera esistenza come un tumore.

Oh, allargare, dicevano, con così tanta inspiegabile e nauseabonda allegria.
Io pensavo invece che saremmo stati più stretti.


Come se le vacanze di Natale non fossero abbastanza raccapriccianti, poco dopo la fine di queste arrivasti tu. Eri poco più che una palla di carne dai folti ricci scuri. Strillavi manco avessi l’inferno in gola. Il ghiaccio e il vetro dei tuoi occhi erano identici a quelli di nostra madre. Me li ricordo ancora i suoi occhi di allora. Erano altrove. Lei ti guardava, ed era come vedere la figura di una donna all’interno di un quadro, nell’immagine di una fotografia. Qualcosa che puoi solo ammirare da lontano e non puoi toccare. La sua felicità era così immensa da sembrare surreale, abbagliante. Ti reggeva tra le braccia ed era come se reggesse l’intero universo. La cosa più bella al mondo. Che sia questo, l’amore? Pensai. Sembrerebbe invidia, la mia, ma non lo era. Non del tutto. Per un attimo provai stupefazione. L’atto di procreazione alla mia giovanissima e inutile età di sette anni non era minimamente contemplato e, da lì al mio avvenire mi sarebbe stato sempre indifferente, privo di gusto e d’utilità. Eppure.

Eppure eccoti. La creazione, la nascita, il capolavoro, l’essere. Un futuro uomo. L’aspettativa, la speranza. Eri tutto ed eri ancora niente. Ma saresti stato qualcosa, qualcosa di stupefacente, la prima sensazione che provai la prima volta che ti vidi. Ironico come la parola stupefacente si sarebbe in futuro ripercossa su di te.

 
«Mycroft, vuoi prendere tuo fratello in braccio?» Mi domandò nostra madre ridestandosi da quella contemplazione divina, con ancora il viso provato dalla stanchezza che non era nulla in confronto a tutta quella forza - quasi sfacciata - che sfoggiava e che non le mancava mai.

«Non credo sia il caso.»

Me ne stavo a debita distanza, affianco a nostro padre che si allontanò per sederle accanto sul bordo del letto d’ospedale mentre sparava una lista di nomi più improbabili ed imbarazzanti senza che nessuno dei due lo ascoltasse.

«Hai paura?» Mi canzonò inclinando il viso di lato. Lo faceva sempre.

«Come potrei aver paura di una palla di grasso di appena quattro chili? Ho paura che mi rigurgiti addosso dicendo addio per sempre ai miei vestiti, questo te lo concedo.»

«Non ti vomiterà addosso, non temere. Per favore, Mike, sono molto stanca, prendilo un po’ in braccio. Tuo padre è così agitato che rischierebbe di farlo cadere.»

«E il problema, esattamente, quale sarebbe?»

Stendeva verso di me quelle sue braccia grassocce e bianche che ti reggevano, ed io avrei dovuto prenderti tra le mie con la stessa allegria di un’ulcera.

«Mycroft.» Tuonò il mio nome e capii che non c’erano più storie da fare.

Ti presi in braccio e non fu né la prima, né l’ultima volta. In futuro non ti avrei sorretto soltanto con le mie braccia, ma anche con le mie spalle, le mie gambe, le mie mani, l’intera mia esistenza. Sei cresciuto in fretta come un’epidemia e ti sei preso tutto. Ti ho concesso tutto. Feci la vergognosa e sconsiderata conclusione che sarei vissuto da quel momento in poi sotto la tua ombra, come quello ormai escluso e privo di ogni considerazione.

Mi sbagliavo.

Non persi mai la mia posizione di alpha. In primo luogo perché non ho mai perso il potere. In secondo, perché ero fondamentale per la tua crescita, ero fondamentale per te. E lo ero anche per nostra madre e nostro padre che alle volte non ce la facevano. Si arrendevano. Mollavano la presa, e toccava a me ripescarti nel mare dei tuoi disastri.

«Che ne dite del nome Sherlock?» Esclamò papà come avesse avuto l’illuminazione del secolo.

«Sembra un nome da femmina!» Sbottai indignato, ma parve piacerti; ti rigirasti tra le mie braccia e accennasti un sorriso sdentato. Eri alquanto brutto, osservai. Un orribile gnomo rosa e grassoccio, che sarebbe diventato il più arrogante degli stronzi, insensibile, impulsivo, orgoglioso, dalle abitudini sconsiderate ed eccezionalmente intelligente. Per l’esattezza, mio fratello.

William Sherlock Scott Holmes.

Un solo nome non ti bastava. Presuntuoso ed egoista fin dal principio.
 

Strano.

La parola “strano” con la quale t’identificavano a scuola era limitativa, poco specifica. Inconclusa. Priva di dettagli. “Un ragazzo fuori dall’ordinario”. Come se la normalità fosse una legge assoluta o una scienza esatta. Il tuo problema non era la stranezza. Tutti siamo strani a modo nostro, tutti abbiamo un lato incomprensibile agli occhi degli altri. Il tuo o meglio, il nostro problema è questo mondo di pesci rossi. Gente incapace di evolversi, osservare, capire. In un continuo vorticare intorno a vecchi ideali, convinzioni. Spaventati dal nuovo, dal diverso e, alle volte, dalla tua intelligenza. Non eri strano. Tu, semplicemente, capivi.

 
«I mie compagni di classe sono stupidi!»

Non era insolito da parte tua subentrare con un fastidiosissimo broncio a sette anni, lamentandoti per ogni cosa che definivi ridicola o noiosa, interrompendo i miei vani tentativi di studiare in silenzio e in solitudine.

«La cosa non mi sorprende, Sherlock. Sono bambini. È nella loro natura essere stupidi. Probabilmente tentavano solo di fare amicizia. Sentiamo, cosa ti hanno detto questa volta?»

Rassegnato, mi riducevo a distaccare lo sguardo dai libri o mi avresti lanciato uno dei tuoi stupidi giocattoli affinché ti dessi ascolto. Quando t’infervoravi, non stavi fermo un istante. Camminavi avanti e indietro, parlando con voce cantilenante, gesticolando con le mani e con le guance che s’imporporavano. Nostra madre ti trovava tenero, io patetico.

«Dicono che sono un idiota perché non sto mai zitto e faccio l’intelligentone solo perché mi piace ricevere i complimenti dalle maestre. Sono loro ad essere stupidi da non riuscire a risolvere un semplicissimo problema di matematica!» Esclamasti dando un calcio al bordo del letto. Sicuramente il problema in questione era senz’altro un esercizio di matematica dell’ultimo anno. Non c’era poi da stupirsi se non tutti riuscissero a risolverlo, tranne te, ovvio. Nostra madre era pur sempre una matematica che rinunciò alla carriera per i figli. Suppongo che il contrario le avrebbe portato più profitti. «E poi…» Affievolivi la voce abbassando lo sguardo e ti contorcevi le dita delle mani quando esitavi. «La mamma di David dice che forse sono autistico. Che cosa vuol dire, Mycroft?»

Quando mi ponevi certe domande dalla risposta così elementare, con quegli occhi cristallini così smarriti e innocenti, ti vedevo per ciò che allora eri veramente. Un bambino. Eri solamente un bambino e avevi dei limiti. Un bambino che doveva continuamente lottare contro se stesso per adattarsi, per essere accettato da chi invece non lo faceva e che a stento, riusciva a vederti né tanto meno a capirti.

«Sherlock, ascoltami bene. Qualsiasi cosa loro dicano su di te, non dargli ascolto. Non ha importanza, credimi. Tu sei esattamente come sei, e devi essere ciò che tu vuoi essere nella vita. Preoccuparsi degli altri e di ciò che loro pensano, non è un vantaggio. Non otterresti nulla. La tua diversità deve essere un vantaggio, Sherlock. Mai il contrario. Mi sono spiegato?»

Benché avessi ancora lo sguardo confuso, sapevo che avevi afferrato il concetto e seppur con un iniziale fatica, imparasti a non importartene e col tempo t’isolasti concentrandoti unicamente sullo studio, diventando in futuro, ciò che adesso vieni a volte definito “una macchina senza cuore”. Io credo che quella macchina, sia invece solo l’involucro che usi per timore che il tuo cuore possa venir infranto. Così, lasci che a ferirlo, stropicciarlo ed infine quasi ad arrestarlo, siano solo le gesta delle tue malsane, deboli e vergognose azioni.

«Da grande voglio fare il pirata!» Esordisti così, mandandomi in confusione.

«Come?» In certi momenti la mia fiducia in te svaniva drasticamente e mi consolava il semplice fatto di rimanere il solo e unico vero intelligente della famiglia.

«I pirata sono scaltri, sono forti, intelligenti e non hanno paura di nulla! Gliela farò vedere io, a quegli stupidi! Gli infilzerò il sedere con la mia spada!» Iniziasti a volteggiare per la camera sventolando la tua ridicola spada di plastica.


Un altro aspetto ironico del tuo voler essere un pirata, è che sarebbe stato un po’ come una metafora della tua vita. Il tuo continuo trarre vantaggio dalle stupidità e le ignoranze altrui, così come le disgrazie, per il semplice esaltare il tuo narcisistico intelletto. In questo, siamo identici.
 
 
 

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Capitolo 2
*** Barbarossa ***


Fuggire. Tipico sciocco comportamento umano al fine d’allontanarsi da situazioni dolorose. Si è come evasi dal carcere. Si annaspa nell’ombra. Soli, terrorizzati. Ci si costruisce da soli un’altra galera, la peggiore di tutte: la propria mente. I propri ricordi. Si pensa che le cose cambieranno, che tutto si sistemerà. Ci si dimentica, prima o poi. I sentimenti appassiranno. Ti accorgerai che il dolore sarà stato solo tempo inutile. Ma non è mai così. Ci si racconta solo altre verità.


La pioggia quella notte non voleva saperne di darsi una calmata. Pensai avesse la tua stessa irritante ostinazione e sfrontatezza. Mamma fu la prima ad accorgersene. Vidi per prima i suoi occhi tremare, dopo, come fosse stata un bicchiere infranto, si rialzò da sola e si ricompose con grazia pezzo per pezzo. Una matematica non può perdere il controllo. I numeri richiedono ordine, compostezza. Regolarità e ragionamento. Le bastò dire: «Sherlock non è in casa. E’ scappato» che nostro padre era già fuori alla porta di casa ed io con lui. Avevi solo dieci anni ed io sapevo dove cercarti. Ti trovavo sempre. Per essere precocemente intelligente alle volte eri così banale. Così scontatamente sentimentale. Mi dispiace costatare che in questo ancora oggi, non sei cambiato.
 
Ti trovai alla riva del Tamigi, accovacciato sotto l’ombra di un peschereccio. Tremavi come una foglia, inzuppato come uno straccio e lurido di fango. M’inginocchiai davanti a te e ti coprii col mio ombrello. Fino all’ultimo continuavi imperterrito a tenere quel fastidioso broncio come se l’intero mondo ce l’avesse con te e non osavi guardarmi in faccia. Melodrammatico.

«Te l’avevo detto, fratellino. Amare è un terribile svantaggio. Ogni cosa ha un inizio e, di conseguenza, una fine. Sapevi che prima o poi sarebbe successo. Che fosse troppo presto, non ha importanza.» Sospirai, mentre ti vidi stringere i pugni e sussultare. «Perché sei venuto qui, Sherlock?» Ti domandai nonostante sapessi già la risposta.

«Volevo fuggire su una nave ed essere un pirata per sempre.» Borbottasti con voce rauca e tremante.

«Eppure sei ancora qui. Perché non l’hai fatto, perché non sei fuggito?»

Ti vidi esitare.

«Ho dimenticato a casa la mia spada, un pirata non può viaggiare senza. Aspettavo che finisse di piovere per recuperarla e dopo me ne sarei andato senza più tornare, perché siete un ammasso di ridicoli bambocci che fanno sempre la cosa più stupida. Voi non capite, non cercate minimamente di farlo! Lui era mio amico, ma a voi la cosa non importava. Lui c’era sempre quando voi non c’eravate. Era intelligente più di chiunque altro. Non dovevo mai adattarmi. Sembrare “normale”. Gli andava bene esattamente com’ero. Lui era felice, riuscivo a vederlo… Ma me lo avete portato via… Potevate fare qualcosa. “Gli adulti sanno sempre cosa fare.”  È questo ciò che dicono sempre. Allora perché non l’avete fatto, perché non l’avete salvato, perché è dovuto morire!?»

Le tue urla squarciarono il rumore assordante della pioggia e vidi il fuoco dei tuoi occhi arrossati dal pianto.

«Era malato. Sopprimerlo era l’unica soluzione.»

Mi accorsi di essere stato troppo d’uro col tono della voce, ma era giusto che tu sapessi, che capissi. Che te ne facessi una ragione. La vita ti avrebbe riservato perdite ben peggiori in futuro. Bisognava che ti facessi gli anticorpi, un’armatura fin da subito.

«Potevate curarlo!» Urlasti maggiormente mentre tutto il tuo corpo veniva scosso.

«Non c’erano cure. Sarebbe stata solo una lenta agonia. Non potevi preferirlo. Tu gli volevi bene, non è vero? Nonostante ti abbia ripetuto più volte di non affezionarti troppo. Sei un ragazzino sveglio, fratellino. Dovresti capirlo.»

Ti vidi sprofondare con la testa fra le braccia con i capelli fradici che ti si appiccavano sul viso. Iniziasti a piangere singhiozzando senza ritegno.

«Non fai altro che ripetermi che affezionarsi, importarsene e soffrire siano svantaggi. Ma non mi hai mai spiegato il perché, Mycroft. Ogni svantaggio avrà i suoi vantaggi. Non mi hai mai detto quali siano i vantaggi nel provare sentimenti. E se ne valessero la pena?»

Non sai quanto fosse irritante il fatto che tu fossi così avanti per la tua età e nello stesso tempo così lento. Quanto fosse frustante il semplice fatto di dover a volte boccheggiare prima di risponderti, di sentirmi per un istante, confuso. In bilico. Sentivo le mie certezze venir meno e non sapevo cosa fare. La sensazione di aver sbagliato ogni cosa con te, temo me la porterò fin dentro la tomba. Ponevi domande la quale risposta avrebbe peggiorato il tuo autismo o non avresti capito. Domande alle quali io stesso non sapevo cosa rispondermi. Così, sviai in parte la domanda.

«Starsene qui sotto la pioggia a singhiozzare non mi sembra un gran bel vantaggio, non trovi? Andiamo a casa, Sherlock. Mamma e Papà sono preoccupati per te.»

Eri troppo affranto per poter camminare, così, per l’ennesima volta, ti  presi sulle mie spalle con l’ombrello a ripararci e ci avviamo verso casa con te che, senza freno, mi inzuppavi la camicia di lacrime e muco.

«Mycroft, mi manca Barbarossa.» Sussurrarti improvvisamente sulla strada del ritorno, tra un singhiozzo e l’altro.

«Lo so, Sherlock. I tuoi piagnistei avvenire ce lo faranno mancare a tutti noi amaramente.»
 

Barbarossa, un setter irlandese. Fu un regalo da parte dei nostri genitori per il mio tredicesimo compleanno. Ancora oggi me ne domando la ragione. «Sei così dissociato e apatico, Mike. Dovresti essere più socievole, attivo! Da grande sarai l’esempio di tuo fratello Sherlock.» Ecco riassunta in breve la mia intera giovinezza con le parole di nostra madre, e forse si spiega il motivo del cane come regalo di compleanno. Nella fantasiosa speranza che potesse rallegrami facendomi diventare un babbeo che fa vocine assurde ed imbarazzanti nel chiamare un ammasso di pelo scodinzolante e puzzolente. Sapevo bene cosa ne sarebbe conseguito se nel prendermene cura avessi permesso ai sentimenti di compromettermi, di affezionarmi. L’essere umano è più che sufficiente come portatore di disgrazie e coinvolgimenti. Un animale non era decisamente necessario.

Subentrasti tu, con la tua invadenza e giovane età. Ti accanisti per avere a tutti costi il diritto della scelta del nome. Così, divenne il tuo “giocattolo” fidato, il tuo migliore amico. Te lo portavi dietro ovunque. Da ogni parte mi girassi in casa, in ogni luogo dove andavamo, era la tua ombra. Sembravate due fratelli tu e quel cane, che invece noi due. Era snervante e disgustoso. Se esiste una dignità nel mondo canino, sono pur certo che Barbarossa l’abbia persa le numerose volte che l’hai travestito da pirata.

«A furia di starci così appiccicato ti dimenticherai come ci si comporta da essere umano e diventerai un animale», ti dissi quando a nove anni ti trovai nella vasca a farvi il bagno insieme, con una stupidissima benda sull’occhio e un veliero giocattolo in mano. Quando parlavo ai nostri genitori di questa tua compulsiva ossessione, riguardo a voler essere un pirata, e che magari fosse meglio far qualcosa a riguardo prima che la cosa avrebbe comportato delle conseguenze, oltre a ridermi in faccia mi rispondevano che ero più io quello a preoccuparli.

«Comportarsi come un animale ha di sicuro aspetti più nobili e intelligenti di molti altri esseri umani.»

Ti sbattei la porta in faccia e me ne andai indignato lasciandoti nelle tue idiozie.

 
Ti ci vollero mesi, forse anni per riprenderti da quella perdita.

All’inizio ci fu l’isolamento.

Non era insolito beccarti in camera, al buio, nei tuoi giorni grigi, avvinghiato a Barbarossa quando era in vita. Non dicevi una parola per giorni. Ti rintanavi in te stesso perché c’era qualcosa che non riuscivi a capire sulla vita, sugli altri o magari eri proprio tu a non capirti. Era tutto troppo incomprensibile o tutto troppo banale per te. Quel setter, molto probabilmente, ti capiva davvero. Anche il suo fare in quei giorni cambiava. La sua presenza come la tua, a stento si percepiva. Ti rimaneva accanto, in silenzio, con la costanza e la pazienza che solo i cani hanno, finché ne avevi bisogno. Anche dopo la sua morte, come svuotato dalla linfa vitale, ti ritrovavo accovacciato sul pavimento della nostra camera. Ci rimanevi per ore. Di notte ti sentivo piangere. Ho sofferto d’insonnia per colpa tua maledicendo l’esistenza della razza canina o addirittura il fatto stesso che i nostri genitori non avessero avuto un’alterativa più costruttiva dal procreare.

Dopo ci furono le complicazioni a scuola.

I primi litigi, le prime risposte insolenti, le prime espulsioni. Rifiutasti ogni proposta di un nuovo cane. Per te, lui era stato l’unico e solo. Credo avessi soltanto paura di soffrire ancora.
 

Sebbene a distanza di anni, d’adulto, riportandoti alla mente quel cane, mi rispondesti: «Non sono più un bambino, Mycroft», per me eri e sarai sempre Sherlock Holmes. L’uomo che dice di non aver cuore perché ha paura di usarlo. Il bambino dagli occhi di vetro che ti guardano sfidanti, a volte con rancore, celando le proprie insicurezze, ma che nell’ombra cerca la mia mano. Ed io quella mano non te l’ho mai negata. Nemmeno quando il dolore alla vista dei tuoi fallimenti, delle tue arrese, cedimenti, era troppo grande da sopportare.


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Capitolo 3
*** Cocaina ***


Nota: In questo capitolo è presente il personaggio Victor Trevor. Se vi fa piacere, immaginatevelo come Tom Hiddleston!



Il vento dell’est. Impossibile sfuggirgli. Ogni cattivo avrebbe rabbrividito prima di essere stato sradicato dalle proprie radici, spazzato via dalla faccia della terra da un tornado inarrestabile. Un vento impietoso e pungente, dove la sua terrificante avvenuta preannunciava sempre l’inizio della luce. La serenità dopo la bufera. Il bene dopo il male. C’era qualcosa nella quale ti rifugiavi e che per te era come il vento dell’est. Creavi la tempesta al fine di essere trascinato via, insieme ai tuoi problemi, lontano dalla tua realtà.
 

«Ti dico che è stata la droga, Mycroft.»

«E come lo sai? Era il tuo compagno di canne?»

Venni a trovarti al college un pomeriggio di primavera. Eravamo seduti su una panchina del parco e discutevamo dell’improvvisa morte di un tuo compagno di corso. Infarto, dicevano. Tu ovviamente non eri della stessa convinzione. Avevi sempre da ridire. Ci avevi visto dell’altro. Avevi visto dove gli altri non sapevano guardare. Alla mia provocazione, mi rivolgesti uno sguardo tagliente, con quell’aria da diciannovenne trasandato e i capelli ricci in rivolta.

«Hanno mentito. È chiaro. Non potevano infangare il buon nome della sua famiglia ed io dimostrerò che ho ragione. Ci riuscirò ad ogni costo così quegli idioti la smetteranno di blaterare!»

«Per l’amore del cielo, Sherlock! Stai per laurearti in chimica. Vuoi concentrati una buona volta sulle cose più importanti e lasciar perdere le tue manie di protagonismo? Vuoi continuare a deludere mamma e papà, è questo che vuoi?» Non mi resi conto di star quasi urlando.

«Beh, se lo facessi, gli rimarrebbe pur sempre il figlio prediletto, il primogenito entrato a far parte del governo inglese.»

«Su come quel ragazzo sia morto, non ci interessa. Non devi dimostrare niente a nessuno. La vita non è il tuo palcoscenico dove sei il solo e unico protagonista. In passato il tuo bisogno arrogante di metterti al di sopra di tutti, ci è costato noiosissime ore di colloqui con i professori e la cosa continua a ripetersi tutt’ora al college, sfortunatamente.»

«Hai paura che ti rubi la parte, non è così? Cosa temi? I riflettori adesso saranno puntati su di te avendo Londra nelle tue mani. Sarai tu ora il vento dell’est che porterà ordine e giustizia in questo paese. Te la ricordi ancora quell’orribile fiaba sui cattivi spazzati via – ovviamente io ero uno di loro - che mi raccontavi da bambino per spaventarmi? Sei sempre stato così antipatico, Mycroft.» Ti vidi scuotere la testa e arricciare le labbra infastidito.

«E tu uno sconsiderato e pomposo fratellino che crede di essere tanto intelligente ma che invece è così lento. E debole

Mi raggelasti nuovamente con i tuoi occhi che un tempo sembravano così stanchi e non seppi mai di cosa. Sostenesti il mio sguardo e sapevo bene che questo preannunciava sempre una sfida.

«Se io sono così lento, vediamo cosa riesci a dirmi riguardo a quel ragazzo laggiù in fondo seduto sull’erba. Giochiamo alle deduzioni, fratellone.» Vidi uno scintillio di provocazione nei tuoi occhi e accennasti un sorriso di spiego.

«Cosa potrei mai dirti di un ragazzo orfano, dalle abitudini maniacali dal modo in cui stende ordinatamente tovaglietta e posate sull’erba e tiene il cibo rigorosamente diviso in scompartimenti in una vaschetta per alimenti, vegetariano solo per esibizionismo dal modo di come mangia disgustato quel panino al tofu e che per altro frequenta il tuo stesso corso? Come faccio a sapere che vi ritroviate in classe senza che tu te ne accorga? Come sempre tu guardi ma non osservi, fratellino. Ti tengo d’occhio, ecco come lo so. I miei occhi sono sempre su di te.»

Ti vidi schiudere le labbra e strabuzzare lo sguardo. Probabilmente mi stavi uccidendo e torturando in mille modi diversi nella tua mente.

«Avvertivo negli ultimi tempi una presenza maglina. Grazie tante fratellone, adesso si spiega il perché. Orfano, dici? Giacché mi osservi, osserverai dunque tutti quelli che mi circondano e magari saprai in parte la storia della loro vita. Ora che fai parte del governo non hai cose ben più importanti da occuparti che pedinare come un maniaco tuo fratello? Ma andiamo al dunque. Deduco che sia orfano dal suo continuo restare al campus anche sotto le vacanze. Infatti, ora sono iniziate le vacanze di primavera, ma lui non lascerà il dormitorio. I suoi genitori sono morti oppure, in alternativa, non ha qualcuno da cui tornare con gioia. Come lo capisco. Vegetariano per esibizionismo? È ovvio. Vuole fare colpo sul ragazzo accanto a lui che fa parte del club: “Salviamo il pianeta”. Ridicoli. Dal modo in cui l’osserva se lo sta letteralmente mangiando con lo sguardo. È un tipo molto insicuro di se stesso. Si passa la mano di continuo sulla fronte fingendo di scostarsi i capelli ma in realtà suda perché la presenza del ragazzo che gli piace lo mette a disagio. Devo continuare o ti basta per sapere che non serve conoscere una persona per capire chi sia?»

Eri in grado di far venire un’emicrania fulminante quando iniziavi a parlare a raffica.

«Chissà come mai gli altri bambini si annoiavano sempre con te a scuola. Non saprei proprio spiegarmelo», commentai sarcastico al solo scopo d’irritarti. «E così, dunque, non tornerai a casa per queste vacanze?»

«No, Mycroft, devo studiare e voi mi distrarreste. L’hai detto tu che devo concentrarmi sulle cose importanti. Saluta mamma e papà da parte mia.» Deviasti lo sguardo come a volermi nascondere qualcosa.

Fuggivi sempre.

«Lo farò.» Sospirai e mi alzai dalla panchina mentre sentivo il tuo sguardo critico puntato addosso.

«Da quando te ne vai in giro sempre con quell’affare?» Indicasti il mio ombrello.

«Beh, sai. Gli acquazzoni come le disgrazie possono accadere in qualsiasi momento. Meglio farsi trovare preparati.»

Ti lascia stare e me ne andai. Sapevo perché ti ostinavi a voler rimanere al college e a non voler tornare a casa per le vacanze. Ti saresti sentito soffocare, impazzire. E non ci sarebbe stato ormai più nessuno in grado di calmarti come Barbarossa. Tu dovevi risolvere un problema. Dovevi dimostrare al mondo come stavano realmente le cose. Risolvere il mistero, il crimine. Se eri fermamente convinto delle reali cause della morte di quel ragazzo, tu l’avresti scoperto ad ogni costo. Ed era proprio questo ciò che allora mi preoccupava. Il prezzo da pagare.
 

Una parte di me, era rasserenata al pensiero che c’era qualcuno a tenerti d’occhio, ed era Victor Trevor, il tuo compagno di stanza. Non ti vidi mai prima di allora affezionarti ad un essere umano. Parlarci quasi civilmente. Riderci insieme, di tanto in tanto. Gradirne la presenza senza provare disgusto. Né tanto meno avevo mai conosciuto una persona in grado di sopportarti senza l’istinto irrefrenabile di scappare su un asteroide lontano, o addirittura di ucciderti. Anche se in futuro la vita mi avrebbe sorpreso ancora una volta. O per meglio dire, mi avresti sorpreso tu.

Dovevo capire fin da subito il motivo per il quale nutrivi tanta simpatia verso questo ragazzo quando lo incontrai fuori dal college la prima volta. Era astuto. “Intelligente sopra la media” per citare le tue parole.

«Sei Mycroft Holmes, non è vero? Il fratello maggiore e altezzoso di William, voglio dire Sherlock.»

Odiavi a morte quando nostra madre usava il tuo primo nome e permettevi a lui di chiamarti così. Deve essere stato proprio un colpo di fulmine.

«Esattamente. E tu devi essere il suo nuovo amico, Victor. Pensa, il primo era fastidiosamente invadente e affettuoso. Decisamente meno alto, più peloso e dalla disgustosa abitudine di leccare le mani. Ringrazio il cielo che mio fratello abbia cambiato le sue preferenze. Sentiamo, come hai fatto a capirlo?»

«Si riconosce sempre un Holmes quando lo s’incontra. Sono unici, impossibile non notarvi. Avete gli stessi occhi, lo stesso modo enigmatico di osservare e di leggere le persone in una sola e rapida occhiata. Fa raggelare il sangue.»

Oh, sì. Il ragazzo era sveglio ed anche sfacciatamente irritante col suo sorriso raggiante e affabile, con quei capelli di un biondo acceso e gli occhi azzurri. Ovviamente non era la sua bellezza ad interessarti, ma il suo modo di essere e di pensare.
 

Diventò in breve tempo la mia talpa. Usai lui per avere tue informazioni. Sapevo che il solo osservarti da lontano non sarebbe bastato. Sembrerei io quello fuori di testa, il fissato, ma non era così. Mi preoccupavo per te. Io mi preoccupo continuamente tutt’ora per te. Non per stupido sentimentalismo. Non sono mica nostra madre. Sapevo solo cosa eri in grado di fare e di farti. Eri la tua stessa rovina e ne avrei avuto la conferma molto presto.

Una sera Victor mi chiamò e mi disse d’incontrarci in un bar fuori dal campus perché doveva parlarmi su qualcosa d’importante che ti riguardava. Erano ancora le vacanze di primavera ed erano passati pochi giorni da quando ero venuto a trovarti. Victor non partì e non tornò dalla propria famiglia trovando una scusa banale per timore di lasciarti solo.

«Sherlock mi preoccupa, Mycroft. Credo stia peggiorando, che stia cedendo totalmente… Sappiamo bene che fa uso di droghe, anche se in quantità ridotte e, per così dire “leggere”. Ma credo che ora ne stia abusando più spesso. Ovviamente lui nega e sa nasconderne le tracce molto bene, ma non può di certo nascondere gli effetti su se stesso. È evidente. Alle volte il suo sguardo è così vuoto, spento. Fa paura. I suoi occhi sono tutto. Tutto. Vederli così mi uccide. Capisci? In alcuni momenti è così calmo e spossato che a stento respira, altre volte invece è così iperattivo che rompe quasi ogni cosa che tocca. Non so cosa fare. Ci sono giorni che non mangia e nemmeno dorme. Lo sento parlare da solo e capita che non si accorga nemmeno della mia presenza. Per via del suo “palazzo mentale”. Conserva ogni cosa nella propria mente e quando gli serve si rintana in se stesso per andarla a cercare come se aprisse un cassetto. All’inizio credevo fosse semplicemente pazzo, poi ho capito. Sherlock non è pazzo, è solo troppo intelligente per questo mondo e anche troppo spaventato per viverci. Non ci credo che sia senza cuore. Probabilmente ha un cuore molto più grande del nostro. Io credo che lui sia più fragile di quanto non voglia far crede. Riesci a capirlo? Ovviamente, ti prego. Dobbiamo stare molto attenti affinché non sappia mai del nostro tenerci in contatto. Sarebbe la rovina. Tutto si perderebbe, io lo perderei. È già così frustrante non riuscire a parlargli alle volte, vederlo allontanarsi e non lasciarsi aiutare. Non poter nemmeno stargli vicino. Io non riesco a sopportarlo. Non riesco.»

C’erano cose in quel momento che avrei voluto dire, ma non ci riuscii. Le parole di Victor spazzarono via ogni mia sicurezza. Mi sentii annientato.

Avevo fallito.

«Se ti ho chiesto d’incontrarci con tanta urgenza è perché temo stia per fare qualcosa di pericoloso. Negli ultimi giorni è ossessionato dalla morte di quel ragazzo… Vuole mostrare a tutti la verità sulla vera causa della morte, dice. Magari si sente in qualche modo in colpa. Una volta credo di averli visti parlare insieme. Mi ha detto che questa notte probabilmente rientrerà tardi, che deve andare in un certo posto ma non ha voluto dirmi quale. Devi trovarlo, Mycroft. Prima che sia troppo tardi.»

Stranamente mi sentii ridicolamente commosso alla manifestazione del suo affetto per te. Eri stato in grado di far affezionare una persona - all’apparenza sana di mente -, al disastro che sei. Pensai che fosse questa la definizione esatta della parola: straordinario.


Ti trovai in una squallida casa abbandonata a circa due chilometri dal campus. Non c’era posto dove non riuscivo a trovarti. Te ne stavi a contorcerti dal dolore su di un materasso lurido, con la luce fioca di qualche candela ad illuminare quell’edificio raccapricciante ed umido. Non dissi una parola appena ti vidi, né tanto meno tu. Mi sedetti accanto a te, poi, affranto, mi presi la testa fra le mani e a fatica sussurrai:

«Che cosa hai fatto, Sherlock?»

Ti vidi annaspare, tutto il tuo corpo si ripiegava su se stesso, la tua fronte era imperlata di sudore, gli occhi in fiamme, la pelle del tuo naso screpolata e macchiata di sangue, come se ci avessi passato sopra della carta vetrata. Non riuscivi nemmeno a parlare tanto i tuoi denti battevano. Dolorante, ti vidi allungare un braccio per porgermi qualcosa. All’inizio non capii finché non lessi tutte le sostanze di cui avevi abusato e stilato una lista su un pezzetto di carta raggrinzito. Per la prima volta in vita mia provai paura.

Mi sorpresi che ancora fossi vivo.

«N-non era previsto… Q-questo… Ho sbagliato le dosi. Volevo solo dimostrare che avevo r-ragione.» Prendesti una pausa prima di continuare, stringendo i denti così forte per soffocare un gemito. «Sapevo fosse la droga, Mycroft. Ne riconosco gli effetti. Q-quel ragazzo… l’avevo visto in compagnia di certi tipi, spacciatori, che non diresti m-mai… mai…» La voce venne meno, i tuoi occhi rotearono e svenisti.
 

Ti risvegliasti un paio d’ore dopo su di un letto d’ospedale. La tua immagine era pressappoco identica a quella di uno spettro. Quando chiamai i nostri genitori per avvertirli, loro sembravano aspettarselo. Come un condannato che non è sorpreso alla vista del patibolo. Mi dissero solo: «Arriviamo subito» di sicuro abbandonando qualche noioso spettacolo teatrale.

«Ben svegliato, fratellino. Il viaggio verso l’inferno l’hai trovato piacevole?»

Ti vidi guardarti confuso intorno, poi, come colpito da una consapevolezza fulminante, strizzasti gli occhi e sospirasti amareggiato.

«Non sono sicuro che questo non sia più l’inferno ora che ti vedo.»

Riuscivi ad essere velenoso e ricolmo di rancore anche dopo aver appena scampato la morte. Ammirevole, in un certo senso.

«Vuoi spiegarmi come stanno realmente le cose, Sherlock?»

«Non è stato un semplice infarto ad uccidere Richard Hamilton. Era un tossico, io lo conoscevo bene, come conosco bene chi gli aveva venduto la droga. A vederli non sospetteresti mai che siano spacciatori. Ragazzi per bene, i classici studenti modello. Dopo la sua morte m’intrufolai di nascosto nelle camere di questi ragazzi per indagare, trovare delle tracce. Nei loro appartamenti trovai numerosi oggetti costosi ovviamente non di loro proprietà, tra cui l’orologio da polso che vidi su Richard. Molti ragazzi non possono permettersi la droga così preferiscono pagare in oggetti di valore. Volevo portare all'attenzione gli effetti sul mio corpo, identici a quelli riscontrati sul ragazzo. I suoi amici avevano visto le sue condizioni prima di morire e avrebbero potuto fare un confronto su di me. Sapevo inoltre che qualcuno gli aveva fatto un tossicologico, ma i risultati sono misteriosamente spariti così come sono state occultate le prove del suo naso palesemente rovinato dall’abuso di droghe e le punture degli aghi. Mi sarebbe servito il tuo aiuto nel recuperare i risultati del tossicologico e confrontarli poi con le analisi del mio sangue.»

«Opportunista come sempre. Complimenti, detective, ha risolto il caso, anche se ha rischiato di lasciarci le penne oh, beh. Ma non è stato un rischio, non è vero? Era intenzionale.»

«Le cose non stanno esattamente così. Mi sono distratto, ho sbagliato le dosi.» Ringhiasti stringendo i lembi del lenzuolo.

«Ma certo. Ti consiglio di fingere di dormire perché mamma e papà stanno per arrivare e a chiunque verrebbe voglia di drogarsi con i piagnistei e la drammaticità di nostra madre.» Mi alzai dalla sedia ma prima di andarmene aggiunsi: «Oh, quasi dimenticavo. C’è un tuo amico fuori che vuole vederti. Un certo Victor. Lo faccio entrare?»

«Non fingere di non conoscerlo, Mycroft. So bene che vi sentite e vedete di nascosto. Credi davvero che non me ne accorga? … fallo entrare.»

Sorrisi e me ne andai.
 

Ti lasciai perdere per un paio di giorni finché non ti fossi realmente ripreso per affrontare la questione. Farti entrare in un programma di recupero sarebbe stato un disastro. Saresti andato maggiormente fuori di senno. Un caos giornaliero. C’era un'unica soluzione e quando ne fui convinto, ti minacciai dicendoti:
 
«Quando avrai voglia di farti, compilerai una lista su ogni cosa che hai preso o giuro che ti rinchiudo in un istituto finché non ti disintossichi, a costo di farti incatenare.»

Suggellammo il nostro patto e col tempo me ne pentii amaramente.
 
 


 

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Capitolo 4
*** John ***


Amicizia. Sentimento privo di una definizione logica e scientifica, che si riscontra in ogni tempo e in ogni luogo come una disgrazia inevitabile. Fatto di fiducia, affetto, complicità. Sacrifici, alle volte, ed io te ne ho visti fare molti, di sacrifici, per un uomo scampato dall’inferno ma bisognoso di ritornarci. Un idiota direbbe che è stato il destino a farvi incontrare, io direi invece che vi stavate cercando da molto tempo.

 
John Hamish Watson. Chirurgo militare, quinto fuciliere del Northumberland. Era un uomo appena rigettato dal campo di battaglia afgano, con una ferita alla spalla e una zoppia psicosomatica quando lo incontrai la prima volta. I suoi occhi erano diffidenti, ma il suo coraggio e la sua lealtà nei tuoi confronti nonostante ti conoscesse appena, erano tipici di un soldato. O di uno sciocco, secondo i punti di vista.

Vidi in lui una speranza, perché da quando andasti a vivere da solo per intraprendere la tua carriera da “consulente investigativo”, il senso di timore non mi abbandonava mai. Nonostante John non avesse accettato i soldi offertogli per controllarti e passarmi informazione su di te, non ne fui totalmente scoraggiato e la cosa col tempo non si rivelò un problema. Lui non ti avrebbe mai abbandonato, anche se glielo avesse impedito il mondo intero.

 
«E così, adesso permetti anche ad un estraneo di toccare le tue cose. John Watson, il tuo compagno d’affitto. Quanti giorni gli dai, prima che faccia i bagagli e preferisca andare a vivere sotto i ponti?» Ti dissi un pomeriggio quando venni a trovarti nel tuo nuovo appartamento a Baker Street.

«Oh, Mycroft. Ho sopportato per anni che sporcassi ogni cosa con le tue sudice mani sporche di crema pasticcera! Dimmi, piuttosto, a quanto ammontava la cifra che gli hai offerto?»

«Un milione di sterline.» Risposi infastidito dalla tua insolenza.

«Mi aspettavo qualcosa di più sostanzioso.»

«Beh, sai. Non posso esagerare se non conosco prima i suoi metodi, se sia un tipo efficiente.»

«Oh, credo che il dottore sarà molto efficiente.» Sorridesti beffardo, sprofondando nella tua poltrona nera.
 
John Watson ti piaceva. Ti piaceva la sua onestà, la sua discreta intelligenza, il suo carattere forte, la sua gentilezza, il suo saper mettere in risalto il tuo impeccabile acume. Ti piaceva perché vi completavate a vicenda. In un certo senso, l’uomo della tua vita. Lui era in grado di capirti per quanto gli fosse umanamente concesso comprendere un folle, narrando le vostre ridicole avventure sul suo blog, diventando entrambi in breve tempo di fama internazionale, da sembrare Batman e Robin, i difensori del crimine. Ossessionati in maniera quasi maniacale l’uno dall’altro nemmeno foste sposati. Lui sapeva tenerti testa, affrontarti. Prenderti a pugni, se doveva. Dire No alle tue debolezze e saperti tirare fuori dalla voragine dove immancabilmente ne sfioravi il precipizio. John Watson era l’uomo che vinceva dove io invece avevo fallito. Il mio “uomo sul campo di  battaglia”, pronto a mettere fine alla tua follia autodistruttiva. O almeno, ci riuscì in parte.

Ma se c’erano aspetti di questa vostra amicizia a confortarmi, c’erano alcuni ad inquietarmi.

John era un uomo che necessitava costantemente di adrenalina, attratto inspiegabilmente da situazioni e persone pericolose e tu eri una di queste. Un uomo che non ha esitato nello sparare a chi stava per indurti al suicidio, nonostante non sapesse ancora chi tu fossi. Se uno sparo vi ha unito, un altro è quello che ha rischiato di dividervi per sempre. La tua mano non tremò quando sparasti a sangue freddo all’uomo disarmato che minacciava di distruggere la vita di John Watson. Avresti sacrificato la tua, per proteggere quella di lui.

«Davvero interessante quel soldato. Per mio fratello potrebbe essere la soluzione, o la rovina definitiva», dissi una volta e non mi sbagliai.
 

Eri un assassino ed io non potevo far nulla. Ti eri macchiato le mani ed io avevo perso lo straccio con cui pulirtele. C’erano tante cose che potevo fare dall’alto del mio potere, cose a volte di dubbia moralità che ho sempre fatto sia per te sia per il paese, ma in quel momento mi sono sentito inutile. Non potevo cancellare il disastro, potevo solo trovare delle alternative per alleviare la tua agonia. Rinchiuderti in una cella sarebbe stato come pretendere di mettere in gabbia un uragano. Le tue esibizionistiche rivolte sarebbero state un trauma giornaliero. Una missione suicida di sei mesi per l’M6 nell’Europa dell’est sarebbe stata invece più appropriata, il tuo girone dell’inferno per scontare i tuoi peccati, e di sicuro non priva di quel tocco di drammaticità che tanto adori.

Stavo per perderti Sherlock. La tua morte mi avrebbe spezzato il cuore ma, come sempre mi accadeva con te, mi sbagliai.
 

«Un esilio più corto di quello che pensavamo ma adeguato visto il livello del tuo disturbo ossessivo compulsivo», dissi quando salii sul Jet che ti avrebbe portato via, ma che atterrò nuovamente ben cinque minuti dopo la partenza, perché questa volta non solo io avevo bisogno di te, ma l’intera Inghilterra.

Moriarty era tornato.

Il virus all’interno dei tuoi dati. La minaccia, il terrore, il pericolo. La sconfitta. Per l’esattezza, il tuo peggior nemico. L’uomo capace di manipolare un’intera nazione, di tenere in mano le redini della tua vita come fossi un burattino. Farti saltare nel vuoto dopo averti infangato una vita intera e infine, indurti ad un’overdose al fine di risolvere il mistero della sua morte che ancora lasciavi ti tormentasse. Benché fossi sicuro, del tuo essere imbottito di droghe ancor prima di salire su quel Jet, probabilmente straziato dalla tua separazione con John e spaventato da ciò che ti attendeva, tutto ciò che m’importava, dimenticando per un istante il tuo problema di salute, era il semplice fatto che la vita mi stesse dando una seconda opportunità, non avendola minimamente contemplata prima.

«Devo tornare indietro. C'ero quasi, c'ero molto vicino!»

«Di cosa stai parlando?» Ti chiesi confuso, esattamente come lo erano John e sua moglie Mary accanto a me.

«Sono stato nel mio palazzo mentale, facevo un esperimento: come avrei risolto il crimine se fosse avvenuto nel 1895. Avevo tutti i dettagli perfetti, ero lì con tutto me stesso, ero immerso!»

Vidi le tue mani tremare e capii.

«Oh, Sherlock. Pensi che qualcuno possa crederti?» Sentii le gambe cedermi e mi lasciai cadere sul sedile dell’aereo.

«No, può farlo io l'ho visto. Il palazzo mentale è un mondo completo nella sua mente.»

L'ingenuità e la fiducia del dottore nei tuoi riguardi era così ridicolamente commovente che mi chiesi quante bugie avrai raccontato anche a lui?

«Il palazzo mentale è una tecnica mnemonica, so cosa può fare e so cosa è impossibile che faccia», sottolineai irritato. «Hai fatto una lista?» Ti chiesi.

«Di cosa?»

«Di tutto Sherlock, di tutto quello che hai ingoiato!» urlai spazientito, mente i ricordi iniziavano a risalire in superficie, rendendomi conto solo allora di quanto fui sciocco in passato da poter pensare che una stupida lista sulle doghe assunte avrebbe potuto migliorare le cose, risolvere il tuo difetto, la tua debolezza. «Abbiamo un accordo io e mio fratello fin dal quel giorno. Dovunque io lo trovi, in qualsiasi vicolo o qualsiasi dormitorio, c'è sempre una lista.»

Come altre volte, mi ritrovai un pezzetto di carta tra le mani. Vidi quanto bastava nella figura improvvisamente irrigidita di John, da capire quanto il senso di stupore e di delusione lo avesse travolto.

«Sherlock, ascoltami. Non sono arrabbiato con te.»

Lo ero con me stesso.

«Ah che sollievo! Ero preoccupato, no aspetta, non lo ero affatto.»

«Sono stato qui per te, sono qui per te e sarò sempre qui per te. È tutta colpa mia.»

«Non ha niente a che fare con te», ringhiasti poco prima di svenire e ricadere nelle profondità di te stesso.
 

John ti rimase accanto mentre eri in quella sorta di trance e vaneggiavi cose senza alcun senso. Ti rimase accanto nonostante fremesse dalla voglia irrefrenabile di picchiarti, o di salvarti. Era chiaramente leggibile dal suo viso da soldato, dai suoi occhi che contavano ogni tuo respiro, o dalle sue mani agitate che si aprivano e si richiudevano. John Watson era il tuo sostegno, la tua spalla. Era ciò che tu accettavi avere al tuo fianco, l’uomo che hai salvato e ti ha salvato, ma in quel momento vedevo solo un uomo che aveva fallito e si domandava perché. Rividi in lui un po’ di me stesso di tanti anni fa.

«Siamo arrivati a questo punto perché gli abbiamo sempre permesso di fare ciò che cavolo gli pareva!» Urlò il dottore, allungando un braccio ad indicarti colmo d’ira. «La cosa non può continuare ad andare avanti di questo passo. Non si fermerà. L-lui… Continuerà a mentirci e a farci continuamente preoccupare finché non si ucciderà, Mycroft.»

«La prego dottor Watson, deve tenerlo d’occhio. Io, ormai… Credevo di aver fatto la cosa giusta, ma mi sbagliavo, ed io non sbaglio mai, tranne quando si tratta di lui. Mio fratello è irrimediabilmente un sociopatico melodrammatico, un assassino ed un drogato.»

«No, lui è molto meglio di così. Lo so. Io, lo conosco.»

«Oh, lo so bene. Non sa invece quanto lo conosca io. Ne rimarrebbe sorpreso, o traumatizzato.» Sorrisi per nascondere la mia amarezza. «Lo farà dottore? Si prenderà cura di lui?»

«Ma certo. Dopo Moriarty sarò il peggiore incubo di questo bastardo di tuo fratello.»

Devo ammettere che il lato furioso e militaresco di Watson, era notevolmente più interessante e divertente di quello del dottore gentile.
 

Quando ti riprendesti, con quell’aria vittoriosa di chi ha appena sconfitto tutti i propri demoni, cercai arrendevole una tua promessa che senza stupirmi, non arrivò. Mi strappasti in faccia quella dannata lista e te ne andasti per ritornare nuovamente ad essere un “ammazza draghi”. Ti chiamai più volte al cellulare ma non mi rispondesti degno della tua arroganza. L’unico modo che avevo per parlarti era quello di presentarmi a Baker Street prima del tuo arrivo. Fortunatamente, ci riuscii.

«Davvero sorprendente fin dove ti hanno spinto i sentimenti questa volta, fratellino. In passato volevi fuggire su una nave per essere un pirata, ora invece sei andato in overdose affinché tu potessi riuscir dire addio al tuo amore perduto. Commovente, o forse dovrei dire deludente

Ti aspettavo seduto alla tua fedele poltrona e questo t’irritò ancor più delle mie parole quando entrasti nell’appartamento e mi uccidesti con il ghiaccio dei tuoi occhi. Iniziasti a muoverti con fare agitato ed impaziente, incerto se ignorarmi o sbattermi fuori di casa, o forse era solo la droga che ti logorava dall’interno.

«Attento, Mycroft. L’ultima volta ti ho quasi spezzato un braccio quando ero fatto, ricordi? Se sei venuto fin qui solo per dirmi che mamma e papà saranno molto arrabbiarti con me, allora non temere. Mi preoccuperò di chiamarli e scusami con loro, anche se molto probabilmente saranno più infuriati dal fatto che abbia interrotto la loro lezione di ballo. Ora, se non ti dispiace, avrei cose ben più urgenti da fare per il bene del paese.»

«Ora basta, Sherlock!» Urlai con quanto fiato avessi in gola e questo catturò la tua completa attenzione. «Sono sempre stato zitto, sempre.»

«Oh, ma per favore!» Mormorasti con aria sardonica.

«No, davvero. Sono sempre stato zitto quando avrei dovuto invece far qualcosa e non lasciare che ti riducessi in questo stato. Che cosa speravo? Che uno come te fosse sincero tutte quelle volte che dicevi di aver smesso, di aver voltato pagina? Credevo forse che farti ingozzare di droghe per alleviare i tuoi drammatici problemi esistenziali e salvarti la vita con una sola lista di ciò che avevi ingoiato, fosse la soluzione? No, sono stato uno stupido, Sherlock. Sì, e immagino che questo ti faccia in qualche modo piacere. Vedermi fallire, abbassare il viso sconfitto. Ma non me ne vergogno, sai perché? Perché l’ho fatto per te. Tutto. Ogni cosa. Potrai anche non credermi, ma è così. Non importa ciò che pensi, non importa nemmeno se sei un dannato egoista che s’interessa solo e unicamente di se stesso, ma sei mio fratello, Sherlock, e ti voglio bene. Te ne vorrò sempre, così come ci sarò sempre per te. Quindi è ora di smetterla, di far qualcosa. Se non vuoi farlo per me, per i nostri genitori, allora fallo per John. Non puoi fargli questo, non credi? Non dopo tutto il male che gli hai causato in passato.»

Mi alzai e ti raggiunsi mentre te ne stavi ancora lì, in piedi al centro della stanza con quegli occhi che non sapevano dove guardare e cosa dirmi.

«Ti chiedo solo questo, di fidarti di me. Questa volta niente e nessuno mi fermerà. Io non perderò con te ancora un’altra volta. Sai quanto io detesta perdere.»

«Anch’io. Deve essere un difetto di famiglia.»

Ti allontanasti e ti sedetti alla scrivania per accendere il tuo portatile, ignorandomi come se non ci fossi. Non mi restava che andarmene. Ti avevo detto tutto ciò che da tempo volevo dirti.

«Mycroft?»

Mi voltai e ti vidi esitare.

«Mi dispiace», sussurrasti appena. «E Grazie
 

Sapevo che le cose dal quel momento in poi sarebbero cambiate e che non sarebbero state facili. Moriarty ti aveva riportato indietro concedendomi una seconda possibilità ed io non l’avrei sprecata. Ti lasciai quando smisi di guardarmi. C’era bisogno del tuo aiuto, come sempre.

Noi avremo sempre bisogno di te.



 

Nota: Ebbene, in 4 capitoli questa storia si conclude! Forse avrei dovuto allungarla un po' di più, ma alla fine credo abbia detto tutto ciò che volevo dire su di loro. È stata una vera e propria impresa immedesimarsi in Mycroft. Se ci penso, mi chiedo come abbia fatto, è una pazzia! Ma infine è quel che ho fatto e spero di esserci riuscita. Inoltre, è stata decisamente la mia prima FF dopo ANNI! Devo ringraziare infinitamente Dragon gio per i suoi preziosissimi consigli la quale senza, questa storia sarebbe stata un fallimento e poi devo ringraziare J_Ari che ha avuto l'infinita pazienza e bravura nel betarla. Grazie davvero OVVIAMENTE, ringrazio dal profondo del mio cuore tutti quelli che hanno recensito, che hanno seguito e messo nei loro preferiti questa piccola Fan Fiction. Spero vi sia davvero piaciuta! 

Mizu.


 

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