Sick Rhymes

di Blablia87
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Il gioco ha inizio ***
Capitolo 3: *** Sette e otto e nove ***
Capitolo 4: *** Nature ***
Capitolo 5: *** Polvere negli ingranaggi ***
Capitolo 6: *** Routine ***
Capitolo 7: *** Uno, due, tre e quattro ***
Capitolo 8: *** Fratelli ***
Capitolo 9: *** Vincoli ***
Capitolo 10: *** Vicoli ***
Capitolo 11: *** Azioni e reazioni ***
Capitolo 12: *** Istinti ***
Capitolo 13: *** Tre e quattro e cinque e sei ***
Capitolo 14: *** Azioni e reazioni ***
Capitolo 15: *** Bisogni ***
Capitolo 16: *** Priorità ***
Capitolo 17: *** Addii e rime ***
Capitolo 18: *** Morire ***
Capitolo 19: *** Passato, presente, futuro ***
Capitolo 20: *** Un altro giro di giostra ***
Capitolo 21: *** Victor ***
Capitolo 22: *** Uno, due, due e mezzo e tre ***
Capitolo 23: *** Tocca a Sherlock ***
Capitolo 24: *** Notte ***
Capitolo 25: *** Luci ed ombre ***
Capitolo 26: *** Doni dal passato ***
Capitolo 27: *** Tre piccoli indiani ***
Capitolo 28: *** Un Sempre in un Mai ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Paura.
Se qualcuno avesse chiesto a John H. Watson quale parola associasse – d’istinto – alla sua Determinazione, lui avrebbe risposto, sicuro, “paura”.
Non la sua, no.
Quella negli occhi di sua sorella, mentre voltava la testa verso di lei in cerca di aiuto tentando di togliersi di dosso quello che fino a pochi attimi prima aveva sempre considerato uno dei suoi migliori amici.
L’unico Omega in famiglia era stato un lontano zio materno e nessuno, nemmeno lo stesso John, aveva mai pensato che potesse succedere a lui.
Per questo avevano organizzato una grande festa, e per questo la torta per il festeggiato (che durante la foga di quei momenti finì a terra, dimenticata) recava una bella lettera scarlatta sopra la candida panna di copertura: “A”.
Era dovuto intervenire il padre di John – denti scoperti e occhi neri come la pece - per riuscire finalmente ad allontanare l’Alpha diciottenne che stava cercando con tutte le forze di arrivare al collo di suo figlio.
Lo aveva aiutato a rialzarsi, gridando a tutti di andare via.
John si era piegato sulle ginocchia e aveva rimesso quel poco che aveva mangiato, scosso da un misto di conati e singhiozzi.
Il padre aveva poi ordinato ad Harry, sua sorella, di accompagnarlo a casa badando a che nessuno gli si avvicinasse più del dovuto lungo il tragitto, ed era salito in macchina.
Mezz’ora dopo aveva fatto ritorno nel loro appartamento di Lewisham con un’aninima busta di carta stretta tra le mani.
Se qualcuno avesse chiesto a John H. Watson quale parola associasse – pensandoci con più calma – alla sua Determinazione, lui avrebbe risposto “amaro”.
L’amaro dello Snubber che aveva inghiottito per la prima volta quel giorno, e regolarmente ogni sei mesi per i successivi diciannove anni della sua vita.
Non aveva più pianto, John, ma si era fatto una promessa.
Nessun Alpha sarebbe mai più arrivato vicino al suo collo quanto Adam Prince, fino a quella mattina qualcuno che avrebbe potuto tranquillamente definire suo fratello, improvvisamente divenuto “il nemico”.
 
William Sherlock S. Holmes, invece, accolse la sua Determinazione – due anni dopo – con la più totale indifferenza.
Non era mai nato meno di un Beta (comunque molto rari e decisamente lontani nella genealogia) dalla sua famiglia, e a suo avviso non c’era niente da festeggiare in un semplice processo chimico di attivazione ormonale.
Ogni ragazzo (e ragazza) si Determinava, il giorno del suo sedicesimo compleanno. Niente di più banale, ai suoi occhi.
Non ci fu nessuna festa, quindi, solo un piccolo pacchetto da parte di suo fratello Mycroft contenente la guida per preparare il suo esame per il passaggio a Plus.
Solitamente quel tipo di prova veniva svolta alla fine del ciclo di studi, quindi al volgere del ventitreesimo anno di età per gli Alpha (la cui formazione terminava con la laurea), e delle scuole superiori per i Beta.
Praticamente nessun Omega giungeva a termine della propria formazione scolastica, per via dell’emarginazione o della troppa attenzione che subivano a scuola, a seconda dei contesti e del momento del ciclo nel quale si trovavano.
Molti Omega semplicemente rimanevano a casa, in attesa dell’età fertile e di un Alpha che si prendesse cura di loro per il resto della vita.
“Cosa ti fa credere che andrò a fare questo stupido esame?” Aveva domandato Sherlock alzando un sopracciglio e sventolando in direzione del fratello maggiore il manuale.
“Sei perfettamente in grado di sostenere quell’esame anche adesso. Non vedo perché attendere.” Aveva risposto Mycroft, asciutto.
“Non hai capito. come al solito, la domanda: cosa ti fa credere che andrò mai a dare questo stupido esame?” aveva ripetuto Sherlock, sillabando le parole.
“Me lo fa credere il fatto che la società si aspetta che un Alpha del tuo livello diventi un Plus e governi, come ogni altro Alpha Plus del mondo, la società stessa.”
“Noioso. Gli Alpha comandano, i Beta gestiscono gli incarichi amministrativi, gli Omega crescono i figli… - aveva cantilenato, contando con le dita i tre tipi di caste – NO.IO.SO. Perché le persone non possono scegliere cosa fare della propria vita?”
“Perché altrimenti regnerebbe l’anarchia, Sherlock.” Aveva risposto il fratello, alzando gli occhi al cielo.
“Ne abbiamo parlato almeno mille volte.”
“Beh, questa sarà l’ultima volta che ne parleremo” Sherlock aveva lanciato il libro ai piedi del fratello, e si era lasciato cadere sul divano con un sonoro sbuffo.
“Non ho nessuna intenzione di dare l’esame, né di farmi valutare da individui con un quoziente intellettivo certamente inferiore al mio. Non sarò mai un Plus, non diventerò mai il capo di qualche azienda multimilionaria e no, prima che tu possa chiederlo, non ricoprirò mai qualche carica di rilievo nel governo inglese come te. Basta un Holmes, in politica.” Sottolineò le ultime parole con una smorfia disgustata.
Mycroft si era chinato a raccogliere il libro.
“E, di grazia, è possibile sapere cosa pensi di fare della tua vita?” Aveva chiesto, con un accento ironico.
“Una cosa semplicissima e del tutto incomprensibile per tutti voi, a quanto pare: viverla.”
 
Angolo dell’Autrice:
Ho amato l’Omega!verse fin dalla prima ff nella quale sono incappata su questo meraviglioso AU. Non essendo ben chiara l’esatta conformazione di questo universo, si trovano storie dalle matrici più disparate: mondi nei quali gli Omega sono dei reietti, altri in cui sono quasi “sacri”, altri ancora nei quali esistono regole rigide a governare tempi per la riproduzione e Legami. Omega come “schiavi sessuali”, Omega come semplici incubatrici, Omega che possono lavorare, Omega ridotti in catene… Insomma, ce sono tutte le varie sfumature possibili ed immaginabili (ed io, per assurdo, le amo TUTTE).
Detto questo, mi sono accorta di non riuscire a prescindere, nella scrittura di questa storia, dall’amore che mi lega all’opera “Il mondo nuovo” (Brave New World) di Aldous Huxley.
Questa storia sarà quindi un ibrido tra i due universi. Ad esempio la divisione tra Plus e Minus è mutuata da Huxley, come lo sarà, in futuro, l’accenno al Soma (in BNW una droga capace di sedere pensieri e preoccupazioni in chi l’assume.)
Spero di riuscire a rendere giustizia a questo universo, e che gli appassionati del genere non mi lancino pietre (sono una dei vostri! XD) Pubblico primo e secondo capitolo assieme, visto che il primo è meramente introduttivo.
Grazie a tutti, as usual.
B. 

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Capitolo 2
*** Il gioco ha inizio ***


Gregory Lestrade, Beta Plus, ispettore di Scotland Yard, mani in tasca e cappotto pensante addosso, si chinò in avanti per riuscire ad avanzare nonostante il vento gelido.
Pochi passi dietro di lui, Sally Donovan, sergente Beta Minus, teneva il passo continuando a dimostrare il suo profondo disappunto per la scelta del suo superiore attraverso profondi sospiri.
“Perché dobbiamo sempre rivolgerci a lui? Non siamo in grado di risolvere niente da soli?”
Domandò nuovamente, proseguendo una discussione che si era protratta per tutto il tragitto in macchina e interrotta solo nel momento in cui erano scesi dall’auto.
Parte delle sue parole scomparvero, mangiate da vento, ma all’uomo ne giunse una parte sufficiente a farlo voltare con aria spazientita verso di lei.
“Te l’ho già spiegato, Donovan. E lo sai anche tu. Ci sono casi per i quali ci serve, il suo aiuto.”
“A lei non sembra strano che un Alpha vada in giro per scene del crimine ad analizzare macchie di sangue e tracce di saliva?!” Rispose lei, alzando il tono di voce in modo da essere certa che riuscisse a sentirla.
“Vuoi sapere cosa ne penso davvero?” domandò Lestrade, voltandosi a guardarla e camminando per un breve tratto all’indietro. “Penso Dio grazie. Chi se ne frega se è un Alpha, e se il suo posto dovrebbe essere in cima alla piramide. A me serve molto di più su una scena ad interrogare un sospettato, che non in Parlamento a votare una legge che non migliorerà la mia vita in alcun modo. Sai cosa migliora le mie giornate, invece? I criminali. Dietro le sbarre.”
Concluse, accompagnando le parole con un’espressione del volto che significava: non ammetto repliche.
Pochi secondi dopo l’uomo si fermò davanti ad un portone verde scuro, mentre la donna – portandosi al suo fianco - ribadiva un’ultima volta la sua più totale contrarietà incrociando le braccia sul petto.
Lestrade bussò tre volte usando il pesante batacchio al centro della porta, appena sotto il numero civico “221b” in ottone dorato, e rimase in attesa.
“Arrivo!” Rispose dall’interno una voce allegra. Qualche attimo, ed un’anziana signora dall’aria gioviale comparve sull’uscio.
“Signora Hudson.” La salutò l’ispettore, accennando un rapido inchino.
“Lestrade!” La donna si aprì in un sorriso sincero. “Cosa vi porta qui a quest’ora?” Domandò curiosa. “Ah, lavoro.” Sospirò, mettendo a fuoco la figura del tenente Donovan, ancora a braccia conserte ed espressione ostile ben dipinta sul viso.
La signora si scostò dall’ingresso tanto da permettere il passaggio dei due poliziotti.
“Grazie. Lui è…” iniziò l’ispettore, mettendo piede nell’ingresso e gettando uno sguardo alle scale di fronte a lui.
“Di sopra, sì.” Il tono di voce della donna tradiva una certa preoccupazione.
Come Omega Minus, oltretutto non più giovanissimo, provava un buon grado di apprensione per tutto ciò che poteva rivelarsi potenzialmente pericoloso. E avere Scotland Yard in casa una media di quattro volte al mese poteva sicuramente considerarsi, almeno per i suoi parametri, più che sconsigliabile.
Ad ogni modo doveva al suo inquilino l’esistenza (relativamente) tranquilla che conduceva, dopo anni bloccata in un Legame forzato e malsano, e era quindi incline a perdonargli molte cose, compresa l’assidua frequentazione con quell’ispettore dai capelli argentati ed i modi gentili.
“Grazie.” Lestrade iniziò a salire le scale, seguito con una certa riluttanza dal sergente Donovan.
Le due donne si scambiarono un rapido cenno di saluto, e la signora Hudson sentì la scia della poliziotta virare sensibilmente verso un tono acido non appena messo piede sul primo gradino.
Deve proprio detestarlo, povero caro. - pensò l’anziana, avviandosi verso la porta del suo appartamento - Speriamo solo che non sia successo nulla di grave!
Scosse la testa, si avvolse nuovamente il grembiule attorno alla vita e tornò alla sua ricetta di cucina.
 
“Chi è di turno oggi?” Lestrade venne accolto da quelle parole con ancora un piede in bilico sull’ultimo gradino, e alzò lo sguardo sull’uomo voltato spalle alla porta intento a guardare fuori dalla finestra.
Con una mano teneva scostata la tenda, e nell’altra stringeva ancora il violino che con tutta evidenza stava suonando fino a qualche attimo prima.
“Anzi, non dirmelo. Posso sentire la scialba e inutile scia di Anderson fin qui. – continuò, voltandosi e piantando gli occhi azzurri in quelli della donna che aveva appena messo piede nella stanza, appena un passo indietro rispetto al suo superiore – Oltre che addosso al sergente Donovan, chiaramente.”
La donna divenne paonazza e aprì la bocca, pronta a ribattere.
Lestrade allungò una mano verso di lei, indicandole di tacere.
“Non abbiamo tempo per questo, adesso.”
“Certo che no. Se aveste tempo da perdere stareste provando a fare uno dei vostri spettacoli di cabaret che tanto amate chiamare “indagini”.” Il sorriso ironico dell’uomo si fece più ampio non appena percepì la scia della donna farsi più acre.
“Dovresti aprire le finestre, strambo, qui dentro non si respira.” Lo rimbeccò lei, prima che Lestrade potesse intervenire nuovamente.
“Mi dispiace, non è colpa mia se il tuo olfatto è abituato solo ad una pallida imitazione di feromoni.”
“ADESSO BASTA.” Lestrade aveva fatto un passo in avanti, portandosi completamente davanti alla collega e interrompendo il contatto visivo tra loro.
“Sherlock, vieni o no?” domandò.
“Certo che vengo, che domande.”
L’uomo recuperò velocemente cappotto e sciarpa dal divano alla destra della porta, superò i poliziotti ed iniziò a scendere le scale.
“Allora, cosa offre di buono oggi Londra ed i suoi infaticabili malviventi?” Chiese in tono allegro, fermandosi a metà della scalinata e voltandosi in loro direzione.
“Omicidio.” Commentò Donovan, asciutta.
“Con contorno di assurdità.” Aggiunse Lestrade.
“Eccellente. SIGNORA HUDSON! NON MI ASPETTI PER CENA!” Gridò Sherlock, spalancando la porta d’ingresso.
“Come dici caro?” Chiese la donna, affacciandosi dalla porta della cucina.
“Stavo dicendo: niente cena, stasera. Il gioco è iniziato!”

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Capitolo 3
*** Sette e otto e nove ***


Sherlock Holmes era passato davanti a Philip Anderson - Beta Minus e membro della squadra forense di Scotland Yard, intento ad indossare la tuta azzurra come da protocollo - senza degnarlo di uno sguardo.
Aveva distrattamente ascoltato i suoi richiami (poi urla) e ancor più distrattamente aveva immagazzinato l’informazione che Lestrade, come sempre, si fosse intromesso per calmare la situazione.
Tutta la sua attenzione era diretta al corpo senza vita che vedeva oltre la porta in fondo al corridoio dove si trovava.
Seduto a capotavola della sua abitazione al centro di Londra, l’ormai cadavere Signor Marston – Alpha Minus, amministratore delegato di un’azienda di medie dimensioni -  giaceva con il viso riverso sulla tovaglia.
Il tavolo, ad eccezione di un bicchiere, era completamente vuoto.
“Allora, che ne dici?” Domandò Lestrade, fermandosi sulla porta d’ingresso della sala.
 Sherlock si avvicinò al tavolo. Prese il bicchiere e lo annusò, posandolo subito dopo.
Spostò quindi la testa dell’uomo di lato, per vederne il viso.
Tornò in posizione eretta, rapido, e lanciò un sguardo furente verso l’ispettore.
“Dio, Lestrade! Neanche Anderson può essere idiota fino a questo punto! Il bicchiere sa di mandorle amare, e quest’uomo ha pupille dilatate e tracce di schiuma e sangue sulla bocca. È…”
“Cianuro.” Terminò per lui un uomo in tuta protettiva, comparendo al fianco di Lestrade.
Era più basso dell’ispettore, e doveva essere almeno diece anni più giovane. I capelli, biondo cenere, erano corti e diligentemente pettinati da un lato. Gli occhi, blu, si erano posati su Lestrade, al quale lanciò un rapido cenno di saluto.
“Oh, ciao John!” lo accolse l’ispettore con un sorriso sincero. “Dov’è finito Mike Stamford?”
“È un po’ incasinato con la storia della ristrutturazione, sai…” rispose l’altro, entrando nella stanza e avvicinandosi al corpo.
Superò Sherlock senza guardarlo, e lui assunse per un attimo un’espressione oltraggiata.
“Ah già, è vero. Tu? Hai trovato una nuova sistemazione?” Domandò Lestrade, rimanendo fermo sull’uscio della stanza.
“Mhm, no, in verità. Per fortuna il matrimonio sarà solo tra un paio di settimane, e Mike mi ha concesso di rimanere fino al loro rientro dal viaggio di nozze. Ho ancora un po’ di tempo.”
L’uomo si chinò ad osservare il volto del cadavere, alzando poi gli occhi su Sherlock per qualche secondo.
“Comunque ha ragione lui. Chiunque sia.” Disse, valutando con un certo grado di fastidio quanto quell’uomo in abiti civili stesse contaminando la scena del crimine. “È palese che si tratti di avvelenamento da cianuro. Dopo l’autopsia saprò dirti l’ora esatta della morte, ma per adesso potrei azzardare un…”
“Tre ore.” Lo anticipò Sherlock.
John lo osservò accigliato, in silenzio.
Anderson chiamò Lestrade dal corridoio, e l’Ispettore rimase immobile per qualche secondo, indeciso sul da farsi. Ad un secondo richiamo, l’ispettore si voltò a guardare cosa stesse succedendo. Poi, girandosi di nuovo verso la sala da pranzo, decise che il male minore fosse fare le dovute presentazioni e sperare che tutto andasse per il meglio.
“John, lui è Sherlock Holmes. Ogni tanto ci aiuta con le indagini.”
“Ogni tanto?” Rispose Sherlock, sarcastico.
“Ok, ci aiuta spesso. Sherlock, lui è John Watson, aiuto coroner. Vado a vedere cosa vuole Anderson. Fa’. Il. Bravo.”
Puntò un dito verso Sherlock, accompagnando il gesto con un’occhiata eloquente.
Dopo di che, sparì oltre la porta.
I due rimasero immobili qualche secondo, poi John si chinò nuovamente sul corpo.
“Aiuto coroner.” Ripeté Sherlock, portandosi le mani dietro la schiena e osservando l’uomo iniziare a scrivere degli appunti su un taccuino scuro.
“Così pare.” Rispose lui, distratto.
“Non esce molto dall’ospedale, quindi.” Continuò Sherlock.
“No, in effetti non lo faccio spesso.”
John si allontanò dal cadavere e passò nuovamente davanti a Sherlock, diretto alla piccola valigetta metallica che aveva lasciato davanti alla porta.
Si chinò, la aprì e ne estrasse alcune buste di plastica per reperti.
Si infilò i guanti e tornò vicino al corpo.
“Lei non ha scia.” Disse Sherlock, atono, osservando l’uomo raccogliere un campione di saliva.
“Sì, pare proprio che sia così.” Rispose l’altro, continuando il suo lavoro.
“Neanche… la più piccola scia.” Ripeté Sherlock, ostinato.
John alzò un attimo lo sguardo su di lui, serio.
“Non è un po’ scortese annusare gli sconosciuti?” Domandò, tagliente.
“Non si tratta di annusare. Le scie si percepiscono, sempre. Fanno parte della nostra biologia.”
“Evidentemente la mia biologia è debole. Lo ammetto, sono un Beta Minus di infima qualità. Adesso possiamo tornare a pensare al cadavere di quest’uomo?”
Per un attimo calò il silenzio, e John raccolse qualche ciuffo di capelli.
“Come ha fatto a ingannare i controlli?” Sherlock aveva abbassato il tono di voce, e si era fatto più vicino. “Diplomi falsi?”
John sentì le mani tremare, ed il campione di capelli cadde sul tavolo.
“Mi stia a sentire, razza di…” Qualcosa, nella sua mente, ancestrale come l’essenza stessa della sua natura, gli disse che non avrebbe dovuto parlere ad un Alpha in quel modo. John si bloccò un attimo, giusto il tempo di ricordare a se stesso chi avesse scelto di essere.
“…borioso bastardo.” Ringhiò, voltandosi ed incollando gli occhi a quelli di Sherlock. “Non so chi lei sia, ma so per certo chi IO sia. Sono un medico. Ed un ex militare. Ho terminato gli studi al Bart’s, e prestato servizio nel Quinto Fuciliere Northumberland. Ho passato tre anni in Afghanistan, sono un veterano del Kandahar e dell'Helmard. Cosa le fa pensare che abbia bisogno di ingannare qualcuno per fare il lavoro che ho scelto di fare?!” sibilò, lo sguardo carico di furia. “Vuole parlare di scie? Bene, parliamo di scie. Cosa ci fa un Alpha con una scia così densa su una scena del crimine? Aveva bisogno di distrarsi dal suo sicuramente faticosissimo lavoro dirigenziale?!”
Sherlock arricciò l’angolo della bocca in un abbozzo di sorriso, mentre John continuava a tenere ostinatamente gli occhi nei suoi, carico di rabbia.
In quel momento Lestrade comparve nuovamente sulla soglia della stanza.
John tornò velocemente alle sue mansioni, mentre Sherlock rimase ad osservarlo.
“Ok, che fosse cianuro lo aveva capito anche Anderson, lo ammetto.” Iniziò l’ispettore, tossicchiando nervosamente. Sherlock alzò gli occhi al cielo.
“Perché diavolo sono qui, allora?” Domandò, spazientito.
“Abbiamo pensato ad un suicidio, all’inizio. Sotto il bicchiere, però, abbiamo trovato questo.”
L’ispettore estrasse un foglio dalla tasca del cappotto, e lo passò a Sherlock.
“Ho litigato fino ad ora con Anderson e Donovan per riuscire a farmelo ridare.” Ammise, sospirando.
John – curioso - si portò istintivamente al fianco di Sherlock, e lui gli lanciò una rapida occhiata prima di iniziare a leggere il contenuto del biglietto.
“Sembra… una filastrocca, o qualcosa del genere.” Osservò John, cercando conferma nell’altro, che annuì.
 
Sette e otto e nove
ora il buio è in ogni dove!
E se il buio ancora dura
possiam solo aver paura...
...che soltanto può la luce
ammazzare chi deduce
!”
 
Lesse Sherlock, ad alta voce.
“Dov’è il resto?” Chiese, guardando Lestrade.
“Resto, quale resto?” Rispose l’ispettore.
“Il resto, maledizione! Sette, otto e nove. Dov’è il resto?”
“Ma di che diavol-“
“I numeri.” Si intromise John. “Sette, otto e nove. Dove sono i numeri prima?”
Sherlock si voltò verso di lui, un’espressione sorpresa ben chiara sul viso.
“Non… non ci sono numeri prima.” Rispose Lestrade. “Per questo sei qui, per capirci qualcosa!”
“Sono un sociopatico ad alta funzionalità Lestrade, non un indovino!” Sbuffò Sherlock in direzione dell’ispettore, e John lo guardò ad occhi spalancati.
Un Alpha - Plus, con molta probabilità - che si definiva un sociopatico (ammettendo una "tara" nella sua natura di essere "perfetto e superiore") sovvertiva praticamente ogni singola regola sociale vigente, quasi più di un Omega che aveva terminato gli studi e intrapreso una carriera lavorativa assumendo inibitori (vietati per legge) e fingendosi un Beta.
“Perfetto, quindi siamo in un vicolo cieco.” Sospirò Lestrade. “Speriamo almeno che l’autopsia possa dirci qualcosa in più.”
John sembrò ricordarsi solo in quel momento il suo ruolo, e si allontanò rapidamente da Sherlock per tornare a raccogliere campioni.
“Ok, vi lascio ai vostri noiosi compiti.” Annunciò Sherlock, piegando il biglietto e mettendoselo in tasca.
“Ehi!” Protestò l’ispettore. “Quella è una prova, Sherlock, se solo…”
“Tranquillo, devo solo fare qualche ricerca. Riavrai la tua prova domani mattina.”
Sherlock si alzò il bavero del cappotto e fece per uscire dalla stanza.
Si fermò poco prima di superare Lestrade, e si voltò verso John.
“221b Baker St.” Disse.
“Come, scusi?” domandò John, alzando gli occhi dal bicchiere che stava imbustando.
“221b di Baker St. È dove vivo. Ho sentito che a breve sarà privo di un appartamento dove vivere, ed io stavo giusto cercan-“
“No, grazie.” Lo interruppe John.
L’ultima cosa che gli serviva era un Alpha con il quale condividere un appartamento.
Assumeva inibitori da quasi vent’anni, ininterrottamente, e come medico sapeva perfettamente che primo o poi il suo organismo si sarebbe assuefatto alle sostanze e il loro effetto sarebbe svanito. Il solo pensiero che potesse accadere con un Alpha nelle vicinanze lo fece rabbrividire.
Sherlock fece qualche passo verso di lui, e si chinò in modo che quanto stava per dire fosse udibile solo a loro due.
John sentì la scia di Sherlock in tutta la sua forza, carica e densa. Era speziata, e gli ricordò i profumi esotici che aveva conosciuto durante le missioni all’estero. Nessuna traccia acidula, segno del suo buon umore. Si scoprì a ringraziare mentalmente tutti gli spacciatori di Londra per la sua dose semestrale di inibitori – che non soltanto azzaravano la sua scia – ma permettevano al suo corpo di non avere alcun tipo di reazione di fronte a stimoli così forti.
“Continui ad assumere Snubber, per il bene di entrambi, e non avrà assolutamente nulla da temere: la nostra convivenza sarà più che tranquilla.” Gli sussurrò Sherlock. “Ci pensi su, potrebbe essere divertente!” Aggiunse, questa volta a voce alta, allontanandosi di nuovo. “A volte suono il violino di notte, e potrebbe capitare che passino giornate intere senza che le rivolga la parola. Valuti.” Terminò, superando Lestrade ed uscendo dalla stanza con un generico “Buona serata!”
John lanciò uno sguardo confuso verso Lestrade.
Lui, semplicemente, annuì sospirando.
“Sì, John. Fa sempre così.”

Angolo dell'autrice:
ho poco da aggiungere, relativamente a questo capitolo (fatti salvi i ringraziamenti d'obbligo a tutte/i voi, che mi avete riempito di gioia con i vostri commenti e stupita inserendo la storia - veramente in tantissime/i - nelle seguite. GRAZIE!) se non che dovevo trovare il modo di inserire Mike Stamford come "mezzo del destino" per far incontrare i nostri due protagonisti. Nella serie era la casualità rappresentata da un uomo seduto su di una panchina, in questo caso è il fato che si manifesta in un turno di lavoro "sul campo" al quale mandare il suo collega. Ma il risultato non cambia: se mai Sherlock e John dovranno dir grazie (o maledire) qualcuno per aver fatto incrociare i loro cammini, quell'uomo sarà sempre e solo Mike Stamford (almeno per me XD)
Vorrei aggiungere una nota sulla filastrocca, ma facendolo svelerei troppo degli sviluppi sucessivi, quindi mi riservo di condividerla con voi a "filastrocca ultimata." 

Ancora una volta (e come sempre) grazie a chi ha letto fin qui.
Siete la mia forza e la mia fonte di ispirazione.

B.

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Capitolo 4
*** Nature ***


“Allora, cosa ci faceva un Alpha su la scena del crimine?”
Domandò John qualche ora dopo, portandosi un boccale di birra alla bocca.
Greg aveva faticato non poco a convincere quell’uomo schivo e riservato a vederlo come un amico - oltre che uno dei tanti ispettori che si presentavano presso l’obitorio in cerca di risposte - ma non se ne era mai pentito, da allora. Proprio come lo aveva descritto Mike Stamford presentandoli la prima volta, John era uno degli uomini più eticamente corretto e moralmente integro che avesse mai incontrato.
“Scende ogni tanto a vedere che vita trascorrono i reietti della società, per poi tornare alla sua carica pubblica con rinnovata spocchia?”
“Dai, John, quali reietti!” Protestò Lestrade, guardandosi intorno preoccupato.
“Nessuno in questo pub ci sta ascoltando, Greg, tranquillizzati.” La voce di John si era ammorbidita, ed anche il suo sguardo, mentre osservava l’ispettore aprirsi in un sorriso imbarazzato.
“E comunque non venirmi a dire che la situazione vissuta dai soggetti Omega in questa società non rasenti la schiavitù.” John diede un altro sorso, e per un attimo parve ingoiare la sua amarezza assieme alla birra.
“Che ne puoi sapere. Magari a loro piace rimanere a casa a far figli.” Disse Lestrade, alzando le spalle. John per poco non si strozzò, ma decise che continuare il discorso avrebbe fatto virare la serata su toni decisamente poco amicali.
Considerando che Greg era una delle poche persone che avrebbe potuto definire suo amico e che sapeva non avesse nessun tipo di pregiudizio verso gli Omega, prese un respiro profondo e giudò la conversazione lontano da loro e dalla vita che erano costretti a condurre.
“Allora. Stavamo dicendo… l’Alpha.” Si zittì, in attesa che Greg cogliesse il suo invito a raccontare.
“Ah, sì. Sherlock.” Gli occhi dell’ispettore tradirono un malcelato sollievo. “Come ho detto, ci aiuta spesso con i casi più difficili.”
“Il suo lavoro non gli piace?” Domandò John, alzando una mano in direzione della cameriera ed indicandole con un sorriso il suo bicchiere vuoto.
“In relatà…credo che ritenga quello, il suo lavoro. Si è auto definito “Consulente Investigativo”, o qualcosa del genere.” Greg finì velocemente la birra rimasta e approfittò per unirsi alla richiesta di un nuovo giro.
“Cosa?!” John sgranò gli occhi, sorpreso.
“Sì, beh… È un po’ strano, come Alpha.” Lestrade estresse il portafoglio dalla tasca e appoggiò un paio di banconote sul tavolo, in attesa delle bibite. “Questo giro lo affro io. Sono stanco che sia sempre tu ad offrire.”
John sorrise. Ogni tanto, si disse, posso lasciare che gli altri facciano qualcosa per me. Non necessariamente questo mi rende passivo.
Quel termine gli rimbalzò nella testa.
Passivo. Come ogni Omega dovrebbe essere sempre di fronte ad un Alpha, alle volte anche al cospetto di un Beta.
Passivo, come non era mai stato in vita sua, neanche nelle – rare – storie che aveva avuto in passato, sempre con altri Omega, sempre fingendosi Beta, sempre trattandoli con amore e riguardo, come sentiva che ogni essere umano avesse il diritto di essere trattato.
Ma ogni volta, alla fine, la necessità di un Legame, o la scia troppo forte di un Alpha, gli avevano portato via i suoi compagni, e con loro poco a poco la certezza che tutti gli Omega odiassero – come lui – l’idea di dover dipendere da qualcuno.
Delle volte si trovava a chiedersi se non fosse lui, quello sbagliato.
Anche quella sera, mentre la cameriera - Omega Minus ancora non in età da riproduzione – posava davanti a loro due nuovo boccali ricolmi di birra, si domandò se in fondo non avesse ragione Greg, scacciando subito dopo l’idea con un brusco movimento del capo.
“Dalla scia si direbbe senza Legame.” Buttò lì, mentre Lestrade finiva di seguire la cameriera con gli occhi. “Ma forse è arrivato il momento che tu pensi al tuo!” Rise, mentre l’ispettore diventava paonazzo.
“Ma no, sono ancora giovane io!” Rispose, ridendo a sua volta. “Tu invece? Quando pensi di accasarti?”
John riflettè un attimo sulla possibilità di dire a Lestrade ogni cosa: che in realtà era un Omega, e che il suo Legame non sarebbe mai avvenuto, per nulla al mondo, dato che l’unico modo per averne uno sarebbe stato quello di cedere ad un Alpha, cosa che non avrebbe fatto mai, per nessuna ragione.
“Quando troverò la persona giusta.” Rispose invece, semplicemente.
“Comunque, tornando a Sherlock. Sì, non ha Legame.”
“Strano, per uno con il suo aspetto e la sua scia.” Constatò John, mordendosi la lingua poco dopo. Non era certo un’affermazione da Beta, ma Lestrade non parve farci caso.
“Fosse la scia il problema!” Scoppiò a ridere l’ispettore, le guance arrossate dalla birra.
“Penso che tu sia in assoluto la prima persona alla quale Sherlock non abbia dato dell’idiota, se non peggio.” Greg scosse la testa divertito, bevendo un altro sorso.
John ripensò velocemente al breve scambio che avevano avuto in assenza dell’ispettore.
Quell’uomo aveva capito la sua natura in un attimo, mentre il resto del mondo la ignorava quotidianamente da quasi vent’anni.
Straordinario. Si ritrovò a pensare, maledicendosi subito dopo.
Un Alpha. Solo un altro, comunissimo, maledettiso Alpha. Ecco su cosa doveva concentrarsi.
“È sveglio.” Rispose, sovrappensiero.
“Più che sveglio, è un vero fenomeno, se vuoi il mio parere!” Lestrade si lasciò andare contro la spalliera della sedia. “Donovan e Anderson lo detestano, trovano strano che un Alpha non voglia fare carriera ma si diverta a stare sulle scene del crimine. Ma sai che ti dico?” Greg diede sbattè una mano sul tavolo, sorridendo, evidentemente alticcio. “Se sono finiti dietro le sbarre criminali del calibro di Sylvius e Merton è solo merito suo, quindi chi se ne frega se è un Alpha, se non vuole legami perché “i sentimenti sono un difetto chimico della parte che perde”, se mangia a malapena o se è uno stronzo. Ringrazio Dio che Sherlock Holmes ami dar la caccia ai “cattivi” invece di governare il Paese. E questo è quanto.” Concluse, finendo la birra rimasta nel bicchiere.
John rimase ad osservarlo qualche secondo, aggrottando le sopracciglia.
“Cosa… che cos’era quella cosa sui sentimenti?” Domandò.
“Mhm?” Greg gli lanciò uno sguardo opaco, sorridendo.
“Adesso. Hai detto che non vuole legami perché i sentimenti sono…?” riprovò John, paziente.
“Ah sì. Un difetto chimico, dice lui. Se ne tiene lontano, a quanto ho capito. Penso che ritenga che tutto ciò che non è razionale non sia buono.” Concluse, inclinando poi la testa da un lato come a dire “hai capito, adesso?!
“Quindi non cerca un Legame.” Ripeté John.
“Se non fosse che non ne esistono per gli Alpha, penso che si imbottirebbe volentieri di Snubber. Uh!” saltò su, portandosi una mano davanti alla bocca. “Un ispettore che nomina qualcosa di illegale in un luogo pubblico. Male, molto male!” Sussurrò, chinandosi verso John.
“Va bene Greg, è decisamente ora di andare a casa.” Commentò lui, alzandosi e aiutando l’ispettore a mettersi in piedi.
Mentre uscivano dal locale, accolti da un vento gelido, John si schiarì la voce e buttò una rapida occhiata verso Lestrade.
“Quindi… Ehm. Dove ha detto che vive…?” domandò, tossicchiando.
Lestrade si aprì in un enorme sorriso.
“Vieni, ti faccio vedere.” Disse, avviandosi con passo incerto lungo la strada.

Angolo dell'autrice:
Intanto grazie, come sempre, a tutti/e. Siete tantissimi, davvero un numero impressionante, a seguire la storia, e questo mi rende felice e mi terrorizza allo stesso tempo. XD
In molte avete anche commentato e da questi scambi sono nate nuove idee e sviluppi, quindi spero di riuscire a mantenere questo flusso di pareri e confronti, perché lo adoro ed è anche utile per la scrittura.
Per quanto riguarda il capitolo... cosa dire.
John non sarebbe mai finito a Baker St. solo perché Sherlock lo aveva proposto su la scena di un crimine.
Un Omega sotto inibitori a casa di un Alpha? Come minimo c'era bisogno di qualche "rassicurazione", e il nostro caro Greg gliene fornisce un paio senza neanche rendersene conto. Chiaramente neanche questo sarà sufficiente, ma almeno il nostro dottore inizia a valutare la possibilità. 
Tra un paio di capitoli si tornerà all'indagine vera e propria, ma sto procedendo con calma. Vorrei riuscire a descrivere uno sviluppo lento delle dinamiche tra i vari personaggi, perché altrimenti mi sembrerebbe una forzatura.
Grazie a chi anche oggi è arrivato fino a qui.

Alla prossima!
B.

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Capitolo 5
*** Polvere negli ingranaggi ***


“Vive… qui.” Lestrade mosse lentamente l’indice della mano destra verso il portone, accompagnando il gesto con un fischio prolungato.
John alzò un sopracciglio, appuntandosi mentalmente di non chiedere mai più in futuro all’ispettore dove si trovasse un dato luogo durante una delle loro serate al pub, per scongiurare il rischio di ripetere nuovamente la sfiancante camminata che avevano appena compiuto.
Non era stata tanto la distanza percorsa a risultare sfinente, per il medico, quanto lo sproloquio infinito sulle doti accezionali dell’Alpha che aveva dovuto subire durante il tragitto.
Quando finalmente Lestrade si era fermato, John aveva immagazzinato così tante nozioni su quell’uomo da aver quasi la sensazione di conoscerlo (anche se non era del tutto sicuro che alcuni avvenimenti che Greg aveva raccontato non fossero nati dalle birre bevute.)
“Perfetto. Grazie. Sei stato gentilissimo.” John posò una mano sul braccio teso del commissario ed esercitò una piccola pressione come invito ad abbassarlo.
“Dovresti venire a vivere qui.” Continuò Lestrade, ignorandolo. “Sarebbe divertente.”
John alzò gli occhi al cielo. “Sì, Greg. Prenderò seriamente in considerazione la cosa. Per questo ti avevo chiesto di ricordarmi dove avesse detto di vivere anche se… - scosse la testa in modo rassegnato – mi sarei accontentato anche di un semplice appunto su un foglietto.”
Greg si girò a guardarlo, confuso.
“Ma se devi venire a vivere qui, tanto vale venire direttamente qui, no?” Domandò, chiaramente incapace di compiere i passi intermedi di un ragionamento logico.
Il punto di partenza e di arrivo, nel suo processo mentale, si erano fusi assieme.
“Sì, hai ragione.” John gli rivolse un sorriso rassegnato “Ma sono le due del mattino, e non credo sia il caso di bussare adesso. Sei d’accordo?” Chiese, parlando lento in modo accondiscendente.
“Mhm.” Commentò l’altro, allontanandosi dalla porta.
“Andiamo, chiamiamo un taxi. Ti riaccompagno a casa.”
John appoggiò una mano sulla spalla di Greg e la strinse leggermente.
Sentì la scia dell’ispettore diventare zuccherina, segno che il gesto lo aveva rilassato.
Per un attimo si trovò a pensare a quanto strano fosse che la natura avesse dotato Alpha e Omega di feromoni potenti, lasciando ai Beta solo una piccola scia innocua.
Probabilmente erano proprio loro i più fortunati. Non avevano posizioni di comando, non erano potenti. Ma potevano essere liberi, più di quanto nessun Alpha od Omega sarebbero stati mai.
John accompagnò dolcemente Lestrade verso il bordo del marciapiede, allontanandosi un po’ dal portone, ed estrasse il cellulare per chiamare un taxi.
Alle loro spalle un’ombra scura li superò, fermandosi quasi subito e tornando su i suoi passi.
John percepì chiaramente la scia, riconoscendola. Chiuse gli occhi ed emise un sospiro.
“Sherlock!” salutò Greg, voltandosi verso l’uomo alle sue spalle ed alzando una mano.
“Lestrade.” Rispose quello, avvicinandosi, nella voce un misto di sorpresa e vago divertimento.
“Dottore.” Terminò, puntando gli occhi su John.
“Signor Holmes.” Gli concesse lui, continuando a guardare dritto davanti a sé.
“Che succede? Problemi col cadavere? Siete riusciti a farvelo scappare?” Domandò ironico Sherlock, e John non riuscì a resistere a girarsi verso di lui per lanciargli un’occhiata furente.
“Ma no! John voleva sapere…” incominciò Greg, ricevendo in cambio una leggera gomitata.
La sua scia si macchiò di una leggere nota amara, tornando neautra un secondo dopo.
“Volevo sapere se c’erano stati sviluppi con le sue analisi sul biglietto.” Concluse il medico, veloce.
Sherlock lo guardò per qualche secondo, muovendo velocemente gli occhi sul suo viso, e John ebbe l’istinto di voltarsi e scappare. La sola idea gli fece rovesciare lo stomaco, tanto che in tutta risposta assunse la migliore postura militare della quale fosse capace.
“Perché non salite?” Chiese Sherlcok, girandosi ed avviandosi verso il portone.
“Non mi sembrano argomenti da affrontare al freddo.” Infilò la chiave nella serratura, facendola scattare.
Greg fece l’occhiolino a John, e gli diede una leggera spinta in direzione della porta.
Ringhiando sommessamente (aveva imparato a farlo al liceo quando, osservendo con attenzione i suoi compagni Beta per riuscire a fingersi nel miglior modo possibile uno di loro, si era reso conto che quasi tutti lo facevano, in momenti di pericolo, o fastidio) seguì l’Alpha oltre la porta.
 
Entrati nel salotta al primo piano, Sherlock scoparve velocemente in quella che doveva essere la sua camera da letto, bofonchiando un rapido “torno subito.
Lestrade si era lasciato cadere sul divano, allargando le braccia sullo schienale, e aveva reclinato leggermente la testa all’indietro.
John aveva buttato una rapida occhiata alla cucina a vista, notando con un certo spaesamento  il tavolo pieno di strumenti da laboratorio, compreso un microscopio.
“Che accidenti combina qui dentro quell’uomo?” sussurrò in direzione di Greg, che si limitò ad alzare un sopracciglio e ad assumere un’espressione che significava “te l’avevo detto”.
Sherlock riemerse dalla camera da letto senza più cappotto e sciarpa, e si diresse a grandi passi verso la poltrona di pelle alla destra del camino, acceso e scoppiettante.
Si sedette, accavallando con un movimento fluido le gambe.
“Dottore, prego, si sieda.” Disse, indicando con un rapido gesto della mano la poltrona in stoffa davanti a lui.
John la osservò per qualche secondo.
Tutto, nella stanza, aveva l’odore dell’Alpha, e non era qualcosa di cui sorprendersi.
Incredibile era invece l’intensità. Forte, denso, sembrava quasi palpabile. Sedersi su una poltrona impregnata fino a quel punto da una scia così forte lo metteva a disagio.
Sherlock sembrò intuire i suoi pensieri, perché si alzò e diresse verso la finestra alle sue spalle, aprendola.
Tornò quindi a sedersi, con movimenti lenti e misurati.
“Allora, scoperto qualcosa dall’autopsia?” domandò, tenendo gli occhi fissi sul viso di John.
Lui aspettò ancora qualche secondo, poi si sedette sulla poltrona, mentenendosi in punta.
“No, nulla. Ad esclusione del cianuro, chiaramente. Nessun segno di costrizione, nessun’altra sostanza sospetta, ad una prima analisi. I risultati completi sul sangue li avremo domani nel pomeriggio, ad ogni modo.”
Sherlock annuì, congiungendo le mani tra loro e portandosele sotto il mento.
“Tu? Scoperto qualcosa?” chiese Lestrade dal divano, la voce impastata dal sonno che evidentemente iniziava a prendere il posto dell’euforia da birra.
“Mhm. No.” Sherlock si alzò di scatto, passando accanto a John e dirigendosi in cucina.
Il medico si voltò per seguirlo con lo sguardo, rimanendo seduto.
“Niente, neanche la più piccola traccia.”
Sherlock tornò dalla cucina con il foglio in mano e andò a consegnarlo a Lestrade, che lo asservò per qualche secondo, confuso, prima di riuscire a realizzare cosa fosse e allungare una mano per prenderlo.
“Forse era solo il suo biglietto di addio.” Azzardò John, e l’Alpha si voltò a guardarlo.
“Un biglietto d’addio particolare, direi.” Gli rispose, asciutto, tornando verso la poltrona.
“Sette e otto e nove, ora il buio è in ogni dove! E se il buio ancora dura, possiam solo aver paura. Che soltanto può la luce, ammazzare chi deduce!” recitò John, e Sherlock alzò l’angolo della bocca in un rapido sorriso.
“Ottima memoria, dottore.” Disse. John sentì la scia dell’uomo davanti a lui cambiare. Curiosità. Soddisfazione.
“Grazie. Ne serve molta per riuscire a ricordare tutti i termini medici con i quali infarciscono i manuali.” Rispose, azzardando un sorriso a sua volta.
Sherlock annuì, sovrappensiero.
“Già che si trova qui, vuol provare a dare un’occhiata a quella che sarebbe la sua stanza, se decidesse di accogliere il mio invito?” Propose poco dopo, scuotendosi dai pensieri nei quali si era immerso per qualche momento.
John lanciò uno sguardo a Lestrade, trovandolo ad un passo dall’addormentarsi.
“Va bene. Una cosa veloce, altrimenti dovrò portarlo in spalla fino al taxi.” Disse, e Sherlock emise uno sbuffo, simile ad breve risata.
Si alzò e gli fece strada verso le scale che conducevano al piano di sopra.
La stanza, l’unica del piano, era perfettamente arredata, anche se spogli di ogni orpello. Chiaramente l’Alpha non la utilizzava mai, tanto che la sua scia era appena percepibile in quell’ambiente.
John si trovò a pensare che anche avesse accettato l’invito, quella camera non sarebbe mai stata veramente sua. Gli inibitori gli permettevano di condurre una vita normale, ma lo privavano anche di una parte fondamentale di se stesso: una scia, e con lei il diritto di reclamare qualsiasi cosa come sua.
“Se deciderai di trasferirti non metterò mai piede quassù. Non che sia un grosso sacrificio, non lo faccio comunque mai.” Disse a bassa voce Sherlock alle sue spalle, mentre John passava una mano sul materasso ancora incelofanato. Il passaggio al “tu” non fu percepito come un pericolo da nessuno dei due. Era sicuramente più naturale del “lei” formale che si erano rivolti fino a poco prima.
“Perché mi hai chiesto di venire a stare qui?” Domandò John, voltandosi verso di lui.
“A quanto ho capito stai per perdere il posto dove vivi e…”
“No, il vero motivo.” Lo interruppe, serio.
Sherlock fece vagare gli occhi sul suo viso, soffermandosi su ogni piccola piega dai muscoli facciali del medico.
“Non ho mai conosciuto un Omega che fosse riuscito a fare quello che hai fatto tu.”
John valutò se rispondere che era un Beta, e che si stava sbagliando, ma decise di lasciar pardere. Era chiaro che quell’uomo sapesse, e da quanto Greg gli aveva raccontato lungo la strada per andare da lui, mentire sarebbe servito a poco.
“Sono piuttosto rari anche gli Alpha come te.” Commentò quindi.
“Sì, lo so.” Sherlock emise un lungo sospiro. “La natura determina, la società ordina. Non lo trovi assurdo?”
“Lo stai davvero chiedendo a qualcuno che per le nostre regole dovrebbe già essere sposato da anni e aver partorito almeno due volte?” chiese ironico John, voltandosi nuovamente verso il letto e assumendo un’aria disgustata. “Non sono un maledetto utero.” Terminò, più rivolto a se stesso che non a Sherlock.
“Ed io non voglio passare la mia vita confinato dietro ad una scrivania. Piuttosto la morte.”
Aveva proferito queste parole con una tale gravità, che John provò quasi pena per lui.
“Siamo simili, quindi. Per questo mi vuoi qui?”
“Siamo la polvere negli ingranaggi. Mal vista, pericolosa. Da eliminare. Quelli come noi hanno sempre bisogno di qualcuno che gli guardi le spalle.”
“Soprattutto se si divertono ad andare in giro per scene del crimine e ad inimicarsi tutta la rete criminale di Londra, dico bene?” Rise John, rendendosi conto solo in quel momento, con stupore, che fosse la prima volta in vita sua che si trovava da solo con un Alpha senza sentirsi minacciato.
“Ad ogni modo mi occorre davvero un coinquilino. Mio fratello mi ha tagliato i fondi, data la mia “testardaggine nel mantenere uno stile di vita inadeguato”, come dice lui.  Ma fino ad oggi non avevo incontrato nessun possibile candidato: condividere casa con un Alpha è fuori discussione. Un Beta? Noioso. Un Omega? Pericoloso. Ma tu… Non sei nessuno dei tre, sei semplicemente un uomo che ha deciso di vivere la propria vita, esattamente come me.”
Sherlock si fermò un attimo, e John sentì un peso – che fino a quel momento non si era accorto di avere - abbandonargli il petto. Fu come se la fatica di anni vissuti tra bugie e maschere  fosse improvvisamente sparita, lasciandolo solo, libero di essere davvero se stesso di fronte a qualcuno.
“Sei un medico militare, poi. Uno bravo?” Riprese Sherlock.
Molto bravo” Rispose John, sottolineando con malcelato orgoglio la prima parola.
“Hai visto molti feriti, quindi. Morti violente.”
“Certo, sì.”
“Un bel po’ di guai, scommetto.”
“Abbastanza per tutta la vita.” John aveva iniziato a fremere. Qualcosa, ben nascosto nella sua anima, si era messo in moto.
“Quello che ti propongo è di uscire dal laboratorio. Di venire sul campo. Senza timore. Senza preoccuparti della tua scia.” Sherlock si era avvicinato di qualche passo, e John si ritrovò del tutto avvolto dal suo odore, ma non ci badò. L’adrenalina aveva iniziato a scorrergli nelle vene, e si era appena ricordato cosa lo avesse spinto ad arruolarsi, oltre alla voglia di fuggire e al desiderio di aiutare gli altri (soggetti Omega, soprattutto, che nelle zone di guerra erano i più dimenticati ed i primi a venir sacrificati).
“Ti propongo pericolo. Guai. Ma anche la quantità di adrenilina che un Omega non vedrebbe mai in tutta la vita. Che ne dici?”
John ingoiò a fatica la saliva, sentendo un grumo di impazienza risalirgli lo stomaco.
“Oh, dio, sì.” Esalò, e Sherlock sembrò molto soddisfatto della risposta.
Annuì compiaciuto, e si girò in direzione della porta.
“Molto bene allora. Puoi iniziare a portare qui le tue cose anche domani. Adesso pensiamo a Lestrade. Ho come il sospetto che si sia addormentato sul mio divano.”
“Il nostro.” Lo corresse John, affiancandosi a lui.
“Come?” Sherlock lo osservò accigliato.
“Dico: il nostro divano.” Ripeté l’altro.
“Assolutamente, dottore. Il nostro divano.” Sherlock cominciò a scendere le scale, sorridendo con aria divertita. “E dato che adesso è nostro, credo che tocchi a te annunciare all’ispettore che non abbiamo nessuna intenzione di farcelo dormire sopra.” 


Angolo dell'autrice:
Ok, alla fine pare che John si sia convinto. XD
Complici le parole di Greg al pub e uno Sherlock che lo descrive semplicemente come un uomo e non per la sua categoria, il nostro medico si è capitolato.
In fondo in questo AU era necessario che John avesse dubbi e paure, ma non potevo del tutto stravolgere il suo carattere.
Il "ho detto pericoloso, ed eccoti qui" doveva funzionare anche qui, anche se coadiuvato da rassicurazioni varie e dalla sensazione di aver trovato un luogo dove (ed un uomo davanti al quale) poter essere se stesso senza mentire costantemente.
È vero, John tende ad isolarsi. Ma qualcosa deve pur averlo spinto ad arruolarsi, oltre che alla voglia di aiutare. Ho pensato che il suo bisogno di adrenalina (sopratutto in gioventù), fosse una "risposta" esasperata al suo odio verso l'idea di essere passivo che gli spettava.
E quindi... eccoli qui.
Sherlock "gentile" tanto da aprire la finestra nasce da una mia idea di lui. Con John, in qualche modo, Sherlock è sempre stato "carino". Non parlo di non dargli dell'idiota, figurarsi. XD Ma già nella scena da Angelo, ad esempio, lo si può vedere comunque "educato" (soprattutto nel Pilot). Non vuole mangiare, ma sa che John ne ha bisogno, quindi gli dice di prendere tutto ciò che desidera dal menù. Avrebbe potuto evitare di farlo, come avrebbe potuto non aprire la finestra, ma l'ha fatto.
Secondo poi, il suo apprezzamento per John aumenta dopo aver capito che è stato lui a sparare al tassista, così come il suo modo di approcciarsi a lui si ammorbidice da quel momento. Diciamo che per me il "sei un Omega ma te ne stai qui a fare la tua vita" può essere una situazione analoga: hai vinto la mia stima, ti tratterò "un po' meno peggio (che non si può proprio sentire! XD) rispetto agli altri.

Ok, ho terminato questa folle disquisizione.
Come sempre GRAZIE. Davvero.

PS: 
Ancora un capitolo "d'assestamento", e torneremo sulla scena di un crimine!  ^_^

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Capitolo 6
*** Routine ***


Era passata ormai una settimana dal trasferimento di John al 221b di Baker St. e, a parte una breve telefonata per sapere come si stesse trovando a condividere l’appartamento con Sherlock, l’ispettore Lestrade non si era più fatto vivo.
Si era stabilita – fin da subito e con una strana naturalezza – una forma di routine tra i due coinquilini.
John aveva capito sin dal primo giorno che il cibo (dall’acquisto al cucinarlo) sarebbe stato una sua mansione. Sherlock sembrava capace di digiunare per giorni interi, se non gli si ricordava di sedersi a tavola e non lo si forzava a mangiare almeno un paio di bocconi.
Il frigo, originariamente vuoto (fatta eccezione per alcuni campioni anatomici che John aveva deciso di ignorare senza fare domande), era adesso atto a svolgere il suo compito, cosa che aveva sollevato non poco la Signora Hudson.
Continuava a portare al piano di sopra il the, ogni pomeriggio alle cinque in punto, ma non spattava più a lei l’incarico dei pasti di Sherlock, pasti che puntualmente doveva buttare quasi per intero. Per questo, e per la sua indole dolce e materna, aveva accolto John con gioia, aiutandolo a pulire e sistemare la sua camera.
Sherlock, da canto suo, si era limitato a prendere l’abitudine di aprire le finestre del salotto ogni volta che usciva (o uscivano) di casa - gesto che John apprezzava molto, pur non avendolo mai espresso a parole -  e a tenere la porta della sua camera da letto ben chiusa.
Nonostante questo la sua scia pereava comunque ogni angolo della casa, ma a John non dispiaceva. Gli inibitori facevano egregiamente il loro lavoro e quell’odore, per lui – privato della sua funzionalità ormonale – era un semplice profumo. Un buon profumo, oltretutto, anche se ogni volta che formulava questo pensiero lo estirpava sul nascere, bloccando quasiasi tipo di “elucubrazione” sull’Alpha che non lo riguardasse in quanto persona ma in veste di soggetto predominante.
Quella mattina, come le ultime quattro, John trasferì le uova strapazzate dalla padella ad un piatto e lo mise sul tavolo della cucina, accanto al microscopio sul quale Sherlock era chinato.
“C’è qualcosa di paradossale, in un Omega che si preoccupa di far mangiare un Alpha.” Disse, convinto che l’altro non potesse sentirlo: era già accaduto almeno un paio di volte che si fosse rivolto al suo coinquilino – concentrato in uno dei suoi studi – senza che questi avesse dato segno di averlo sentito.
“Pensavo odiassi l’idea che qualcuno si prendesse cura di te.” Rispose invece l’altro, inaspettatamente, e John sussultò per la sorpresa.
Sherlock lanciò uno sguardo infastidito al piatto, poi alzò gli occhi sul medico.
“Non sto dicendo che mi dispiaccia, infatti.” Tossicchiò lui. “Sono sempre stato io a provvedere ai miei pasti. E a quelli di chi avevo vicino.” Aggiunse, senza saper bene il perché.
“Compagni.” Disse Sherlock. Un’affermazione, più che una domanda.
“Beh, sì. Compagni.” Rispose John, provando l’improvviso impulso di girarsi e iniziare a sistemare la cucina, ma riuscendo invece a mantenere gli occhi saldi in quelli seri e chiari del suo interlocutore.
“Omega?”
“Omega.” Confermò, annuendo.
“Tu…? Mai avuto compagni…?” Chiese John, più come mezzo per capire se fosse davvero sicuro rimanere in quella casa con Sherlock, che per una reale curiosità.
“Mhm, no.” Sherlock si alzò dallo sgabbello dove era rimasto seduto fino a quel momento e prese il piatto, andando a posarlo vicino ai fornelli.
“Le relazioni non sono esattamente la mia area.” Aggiunse, lanciando una breve occhiata a John, fermo immobile alla sua sinistra.
“Neanche mangiare, a quanto pare.” Disse John, guardando il piatto abbandonato, ancora pieno.
“Mangiare rallenta i miei processi mentali.” Rispose Sherlock, asciutto, tornando davanti al microscopio.
“È un’affermazione assurda, da un punto di vista medico.” Cercò di insistere John, ottenendo in cambio un lungo silenzio: Sherlock era tornato ai suoi esperimenti.
Rassegnato, si girò verso i fornelli, iniziando a pulire.
“Da quando prendi inibitori?” La domanda lo colse alla sprovvista, e John sentì il bicchiere che stava pulendo scivolargli dalle dita. Lo riprese appena prima che si infrangesse nel lavandino.
“Da sempre.” Rispose, onesto. Più sinceri erano l’uno con l’altro su quegli aspetti della loro vita, più facile e meno potenzialmente pericolosa la convivenza si sarebbe prospettata.
“Ho preso la prima compressa il giorno della mia Determinazione.” Aggiunse, per rendere chiaro il concetto.
“Mai avuto un Calore, quindi.” Chiese Sherlock senza nessuna inflessione nella voce.
“Mai avuto uno.” Confermò John, continuando a lavare piatti e bicchieri.
“Prima o poi gli inibitori smetteranno di funzionare.” Continuò l’altro.
“Sì, lo so. Non preoccuparti, quando accadrà non ho nessuna intenzione di rimanere in questa casa. Anzi, al primo segnale di riattivazione della scia, sparirò.”
Rimasero in silenzio per qualche secondo, e a John sembrò quasi che Sherlock stesse valutando i vari scenari possibili di un eventuale azzeramento improvviso degli inibitori.
La sua scia si era intensificata, diventando intensa, pungente. Virava verso quei sentori ogni volta che Sherlock si trovava assorto nei propri pensieri, aveva notato il medico.
“Non ho mai nutrito il minimo dubbio, su questo. Se ti avessi ritenuto un potenziale pericolo, non ti avrei mai chiesto di trasferirti qui.” Sherlock aveva pronunciato l’ultima frase con tono sicuro, e a John venne quasi da ridere.
Un Omega un pericolo per un Alpha? Il suo coinquilino doveva davvero avere idee strane su come girasse il mondo.
“A proposito di questo… -  John si era voltato di nuovo verso il tavolo – ti ringrazio per avermi proposto di venire a stare qui. Non sapevo davvero come fare.”
Sherlock, chino sul microscopio, mosse con la mano una delle manopole e con l’altra fece un gesto simile ad un saluto, come a dire “nessun problema.”
“Mi serviva un coinquilino per dimezzare le spese.” Disse, atono.
“Ancora non mi hai detto come hai fatto a capire che non ero un B-Minus.” Provò John: ogni volta che aveva provato a prendere l’argomento Sherlock aveva sempre cercato di svicolare, riuscendo con enorme maestria a cambiare sempre argomento.
Lo vide sospirare, e capì che si era arreso. Alzò gli occhi dal vetrino e li diresse in un punto imprecisato alle spalle di John.
“Tanto per iniziare… - cominciò Sherlock – nessun Beta, neanche il più biologicamente misero, avrebbe una scia pari a zero. Certo, molti ne hanno di quasi inesistenti – cosa che ti ha permesso di dar luogo alla tua copertura senza destare sospetti – ma c’è sempre, per quanto labile. Diciamo che ho un ottimo olfatto. Secondo poi, nessun Beta passerebbe davanti ad un Alpha ignorandolo come hai fatto tu. Non hanno niente da temere da noi, né motivi per odiarci, per cui sono sempre cordiali, ad un approccio iniziale. Persino Donovan, la prima volta che mi ha visto, è venuta a darmi la mano. Gli inibiltori, infine, erano l’unica spiegazione possibile ad una scia annullata completamente. Non esistono Snubber per Beta, non ce ne sarebbe motivo, né per Alpha, e questo, ammetto, è sempre stato un mio grande cruccio. Tolte le altre opzioni, ne rimaneva solo una.”
“Accidenti!” si lasciò sfuggire John, e Sherlock sembrò confuso per qualche secondo. “Vent’anni a fingermi un Beta e tu hai capito tutto in venti secondi. Incredibile.”
“La gente è stupida, John. Guarda, ma non osserva. Riceve o non riceve input olfattivi, e non si ferma mai a chiedersi cosa vogliano dire o meno. Sembra che l’unico momento nel quale si ricordano dell’importanza delle scie altrui sia quello nel quale vanno in Calore o sono a Caccia.
Assurdo. Ci facciamo governare e schiavizzare dalla nostra anatomia e biologia quando si tratta di procreare, e quasi ci dimentichiamo di usarla come si deve il resto del tempo.” Sherlock arricciò il naso, in una perfetta esemplificazione dell’espressione di massimo disgusto che un volto possa assumere.
“Scommetto che nessun tuo commilitone si è mai domandato perché non avessi neanche un accenno di scia.” Continuò, sottolineando le parole come prova lampante di quanto aveva appena affermato.
John scosse la testa. “No, mai, in effetti.”
“E immagino che i controlli periodici sullo stato di salute dei soldati non siano pensati per scoprire se un Omega si aggiri di nascosto tra le loro fila.”
“Penso che il concetto di partenza sia che nessun Omega si infilerebbe spontaneamente in una squadra piena di Alpha iper eccitati  e schiavi dell’adrenalina. Quasi nessuno si reca più a scuola dopo la Determinazione per non correre rischi, figuriamoci il resto.” Per un attimo John si rivide a terra, le mani sul viso a protezione, mentre Adam Prince cercava in tutti i modi di arrivare al suo collo per affondare i denti nella sua ghiandola e reclamarlo. Lo stomaco gli si contorse, e dovette girarsi per evitare che Sherlock gli leggesse in faccia lo sgomento che ancora provava.
“Ad ogni modo, no, gli esami erano prettamente esami del sangue, e finalizzati sempre alla mera constatazione del nostro stato di salute generale. Mai un prelievo di saliva. E, ad ogni modo, anche se li avessero fatti, la possibilità che andassero a centrare l’esatto giorno di assunzione dello Snubber sarebbe stata infinitesimale.”
“Due possibilità su 365.” Conteggiò Sherlock.
“Se pensi che ho fatto solo tre analisi del sangue in cinque anni di servizio!” A John venne da ridere, e Sherlock alzò gli angoli delle bocca in un sorriso.
“Questo a riprova che le persone,  così come le organizzazioni statali e militari, non sono altro che un cumulo di inetti.”  Concluse, tornando a dedicarsi allo strumento di fronte a sé.
John terminò di sistemare e si diresse verso la sua camera. Il suo turno in obitorio sarebbe iniziato fra meno di un ora, e adesso abitava decisamente più distante dal posto di lavoro.
“John!” la voce di Sherlock riecheggiò lungo le scale.
“Che c’è?” domandò, continuando a salire.
“Il mio telefono squilla!” Urlò Sherlock.
“Quindi?” John si era fermato a pochi gradini dal suo pianerottolo, e si era voltato verso l’appartamento di sotto.
“Rispondi! È Lestrade!” Gridò ancora l’altro, con il tono infastidito di chi doveva esprimere un concetto per lui ovvio.
“E perché non rispondi tu!” Domandò John, iniziando comunque a tornare su i suoi passi.
“Troppo tardi, ha smesso di suonare.” Commentò Sherlock quando John si affacciò in cucina con aria interrogativa.
“Ma si può sapere perché non hai risp-“
“Richiamalo, per favore. Potrebbe essere importante.” Rispose Sherlock, lapidario, senza alzare gli occhi del microscopio e indicando a John il cellulare con un rapido cenno della mano.
“Ti giuro che non capisco.” Protestò lui, andando comunque a prendere il telefono.
Un paio di gesti veloci, e si portò l’apparecchio all’orecchio.
“Ehi Greg. Sì, sono John. Sherlock è… - si voltò a guardarlo, ancora placidamente indaffarato nei suoi esperimenti, e per un attimo fu tentato di dire “un idiota” – occupato. Vuoi dire a me?”
Non sentendo più nessun suono provenire dal suo coinquilino, Sherlock alzò gli occhi dal microscopio e lo guardò con aria interrogativa.
“Ok, capisco. Io stavo per andare a lavoro, ma se mi dici che Mike è già lì, magari potrei venire direttamente là anch’io, insieme a Sherlock… che ne dici? Ok, va bene. Arriviamo.”
Sherlock si era alzato, e attendeva con impazienza che John chiudesse la telefonata.
“Allora?” Domandò, irrequieto.
“Allora…pare che abbiamo bisogno di te per una morte sospetta nella zona 6.”
Sherlock si aprì in un sorriso entusiasta.
“Eccellente!” disse, dirigendosi velocemente verso la sua camera. “Preparati, John, non c’è un attimo da perdere!”
 
Dopo una vita passata a prestare attenzione costante che nessun Alpha – mai, neanche come semplice invito a fare o non fare qualcosa – potesse in qualche modo dargli anche solo il più piccolo ordine (eccezion fatta per i suoi superiori, durante la permanenza nell’esercito), John Watson si trovò a correre verso la sua camera da letto senza rendersi conto che, facendolo, stesse ubbidendo a quello che fino a poco tempo prima - per i suoi standard - avrebbe visto come un comando e quindi, in quanto tale, intollerabile.


Angolo dell'autrice:
Con questo capitolo si concludono quelli di "assestamento". Erano necessari, al fine di non forzare troppo alcune dinamiche, spero che non li abbiate trovati noiosi. Sappiamo tutti qual è la quotidianità di Baker St, ma non per questo potevo far omettere ai personaggi alcune informazioni, né potevo descrivere una scena casalinga senza accennare almeno un po' a come ci si fosse potuti arrivare. 
Diciamo che da adesso la storia entrarà nel vivo, e poste le fondamenta di questo rapporto, lo potrò far evolvere di conseguenza. 

Grazie mille a tutte/i come sempre, non ho più parole per esprimervi la mia gratitudine!

Un abbraccio,
B.


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Capitolo 7
*** Uno, due, tre e quattro ***


Molly Rogers – Omega Plus, casalinga e vedova da lungo tempo – giaceva sul proprio letto matrimoniale in una grottesca imitazione di una donna placidamente addormentata.
Immobile sopra le coperte, in camicia da notte, le mani strette sul ventre.
Sul comodino una confezione semivuota di sonniferi.
Quando Sherlock e John entrarono nella stanza, trovarono Anderson intento a raccogliere e catalogare gli ultimi reperti, mente l’ispettore Lestrade seguiva ogni suo movimento con occhi attenti.
“Greg.” Lo salutò John, fermandosi sulla porta.
Sherlock proseguì all’interno della stanza, lanciando un sorriso rapido e palesemente falso verso l’uomo della scientifica, che ricambiò con un ringhio sommesso.
“Vedo che il nostro arrivo era già stato annunciato!” Trillò Sherlock, allegro, mentre John alle sue spalle scuoteva la testa e si portava una mano sul viso.
“Sherlock…” lo chiamò a mezza voce, e lui si voltò sorpreso in sua direzione.
“Che c’è?” domandò.
“C’è una donna morta su quel letto.” Sibilò il medico, accompagnando le parole con un’occhiata eloquente.
“Mhm.” Mugugnò Sherlock, e John ebbe la netta sensazione che non fosse riuscito a captare il senso di quello che gli aveva appena detto. Sospirò e scosse la testa.
“Niente Sherlock. Continua.”
Fece segno con la mano di andare oltre, ed Anderson gli lanciò uno sguardo furente.
“Non bastava l’Alpha a inquinare le nostre scene del crimine?” soffiò in direzione di Lestrade.
L’ispettore fece per rispondergli ma John lo anticipò, con voce calma e pacata.
“Non sto inquinando la scena, sono fuori dalla stanza. Vedi?”
Sherlock alzò l’angolo della bocca in un abbozzo di sorriso.
“Pensavo ne avessimo già parlato.” Disse Lestrade in direzione del suo sottoposto.
“Non ne parleremo mai abbastanza.” Mugugnò quello, così tanto a bassa voce che John riuscì a malapena a sentirlo.
“Bene, dopo il solito momento “Sherlock non sei il benvenuto” direi che potremmo tornare al caso.” Riprese Sherlock, allegro, avvicinadosi al letto.
“John, entra. Mi serve il tuo parere.”
“Abbiamo già il parere del coroner. Stamford è appena andato via.” Sbuffò Anderson. “Adesso abbiamo anche un “consulente medico legale”?” La sua voce era così carica di disprezzo che John entrò nella stanza più per rivendicare il suo diritto di essere lì che per assecondare la richiesta di Sherlock.
“Stamford non lavorano con me.” Rispose atono lui, senza alzare gli occhi dal cadavere. “John.” Lo chiamò nuovamente, facendogli cenno di avvicinarsi.
Il medico passò davanti ad Anderson chiedendogli con gli occhi di spostarsi quel tanto da permettergli il passaggio.
Lui, incrociando le mani sul petto, fece un passo indietro guardando accigliato verso Lestrade, che gli intimò con gli occhi di tacere.
“Direi… “ John guardò prima la confezione di sonniferi, poi la donna. “Che ad una prima analisi si potrebbe propendere per la morte per assunzione elevata di sostanze narcotiche. Certo morire ingerendo benzodiazepine è molto difficile… voglio dire, in commercio non si trovano più i barbiturici, i medicinali di adesso hanno risvolti mortali solo se assunti in dosi massicce…”
Si chinò ad aprirle le palpebre, osservando con aria attenta le iridi.
Sherlock, piegato a sua volta sul viso della donna, alzò gli occhi su di lui e si fermò qualche secondo a guardarlo.
“Doveva davvero avere la ferma intenzione di farla finita, per sdraiarsi ad attendere la morte per ore.” Sussurrò il medico, richiudendole dolcemente gli occhi.
“Mi sembra normale che volesse morire.” Commentò Anderson, alle sue spalle.
“E perché mai?” domandò John, voltandosi.
“Come perché.  Omega. Senza compagno. Avrà pensato che la sua vita non servisse più a niente.” Rispose lui, asciutto.
John sentì il suo viso rispondere a quelle parole prima della sua stessa coscienza. Percepì chiaramente la sua espressione mutare, diventando seria, pronta a contorcesi in una maschera d’ira.
“Grazie per il tuo - inutile come sempre - input, Anderson.” Intervenne Sherlock, riportando alla realtà John con la sua voce. Rimase fermo, aspettando di vedere le spalle del suo coinquilino abbassarsi, segno che fosse tornato in sé. Appena le vide rilassarsi, si voltò verso Lestrade.
“Allora, un secondo suicidio. Dov’è?” domandò, allungando una mano verso l’ispettore.
“Non…” cominciò.
“Mi domando perché ti ostini a chiedere il mio aiuto, se poi ogni volta devo minacciarti per ottenere le prove che mi occorrono per risolvere i vostri casi.”
Lestrade sospirò, avviandosi verso la porta. “Non è così semplice, Sherlock, lo sai.” Mormorò, facendogli cenno di seguirlo nel corridoio dell’appartamento.
“Ogni volta è una lotta riuscire a convincere Donovan e Anderson a non andare dai miei superiori a denunciare quello che succede sulle nostre scene del crimine, quando ci sei.” Continuò, alzando la voce quando fu sicurò che l’uomo della scientifica non potesse sentirlo.
“Non capisco.  Arrestare i colpevoli non è la vostra missione?” domandò Sherlock, voltandosi a guardare John che li seguiva ad un paio di passi di distanza.
“Sì, certo. Ma… ci sono delle regole, Sherlock, ed io con te le infrango tutte, sempre.” Lestrade si era bloccato davanti all’ingresso della cucina.
“Le regole sono noios-“ commentò Sherlock, entrando nella stanza e bloccandosi a osservare con aria rapita la parete bianca sopra i fornelli.
“Sherlock? Tutto ok?” Domandò John, affiancandolo e seguendo la traiettoria del suo sguardo.
“Accidenti…” esalò.
Lettere scarlatte occupavano tutto il muro, allungandosi in brevi lacrime di vernice ancora fresca, a giudicare dal colore lucido e dall’odore.
“Meraviglioso…” Sherlock si avvicinò fino al poter toccare con un dito la pittura.
Abbassò la mano e si strofinò le dita, sovrappensiero, iniziando a leggere.
 
“Uno, due, tre e quattro,
ha gli artigli come un gatto.”
 
“Meraviglioso?” Gli fece eco John, alzando un sopracciglio.
“Certo!” esclamò l’altro, voltandosi e afferrandolo per le spalle. “Non capisci?!”
John fece istintivamente un passo indietro, trattenendo il respiro.
Sherlcok sembrò ricordarsi solo in quel momento che il contatto fisico, soprattutto così irruento, avrebbe potuto (e sicuramente lo stava facendo) dar fastidio all’uomo di fronte a lui. Lasciò la presa, mantenendo comunque uno sguardo entusiasta.
“Un serial killer John!” cinguettò, avviandosi verso Lestrade, e superandolo. “Deve essere Natale!” Urlò, iniziando ad avviarsi lungo il corridoio, diretto alla porta d’ingresso.
“Tutto qui?!” Gli gridò dietro l’ispettore. “Davvero Sherlock?! È per questo che ho discusso un’ora con Anderson e ho intimato a Donovan di rimanere in ufficio?!”
“Avrai presto mie notizie!” fu l’unica risposta che ottenne da Sherlock, prima di vederlo sparire oltre la porta.
Anderson si affacciò nel corridoio e lanciò un’occhiata piuttosto eloqente ai due uomini rimasti. Io lo avevo detto, sembrava dire con lo sguardo.
Lestrade sospirò profondamente, scuotendo la testa.
“Dimmi almeno che a casa è normale.” Disse con tono rassegnato, voltandosi a guardare John.
“Credo che non ci sia neanche la più piccola traccia di normalità, in quell’uomo.” Commentò lui, di rimando.
“Se dovesse scoprire qualcosa fammelo sapere, per favore. Sarebbe capace di non chiamarmi anche se avesse il colpevole seduto in salotto.”
John annuì, e diede una pacca amichevole sulle spalle di Lestrade.
“Per quanto può valere, secondo me sei molto bravo nel tuo lavoro, Greg.” Disse, iniziando ad avviarsi a sua volta.
“Vado a lavoro. Appena ci farete arrivare il corpo e avremo fatto l’autopsia ti farò sapere qualcosa, va bene?”
L’ispettore annuì, iniziando a muoversi anche lui, diretto mestamente verso la camera da letto.
“Sono contento che tu sia andato a stare da lui, John. Dio solo sa se non ha bisogno di un freno.” Sorride, e sparì oltre l’ingresso della stanza.
John uscì dall’appartemento e scese in strada, guardandosi intorno in cerca di Sherlock.
“Non posso crederci. Mi ha lasciato qui.” Realizzò quando non lo vide. Sospirò e si avviò verso la strada principale, in cerca di un taxi che lo portasse al Bart’s.
Non fece in tempo a fermarsi sul ciglio del marciapiede, che una berlina nera con i vetri oscurati si fermò davanti a lui.

L'angolo dell'autrice:
Abbiamo quindi la nostra seconda scena del crimine! E con essa la certezza che qualcosa leghi questi due casi. ^_^
Ho poco da aggiungere a quanto detto nel capitolo, ma come sempre ne approfitto per ringraziarvi tutte/i.
Grazie in particolare a chi trova sempre il tempo di lasciare un commento, amo questi confronti! :)

Alla prossima!
B.
 

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Capitolo 8
*** Fratelli ***


Il finestrino posteriore si abbassò lentamente, con un vago ronzio.
Una scia molto forte – sicuramente Alpha, e per alcuni tratti stranamente familiare - lo avvolse mentre con aria corrucciata si abbassava per capire chi ci fosse all’interno e cosa volesse da lui.
“Dottor Watson.” Una voce fredda, senza inflessione, lo chiamò da dentro l’auto.
“In persona. Lei chi è?” Domandò John, arretrando di un passo e preparandosi alla fuga o al combattimento, a seconda dell’entità della possibile minaccia. “Perché conosce il mio nome, e come sapeva di trovarmi qui?”
“Sono un amico di Sherlock Holmes.” Rispose la voce, ignorando i suoi quesiti e senza scomporsi. “Se fosse così gentile da salire in macchina, potremmo discutere di alcuni aspetti della vostra neonata convivenza, ed intanto recarci a lavoro da lei.”
“Cosa accadrebbe se dicessi “no grazie”?” Chiese John, tornando in posizione eretta.
“Niente.” Rispose l’altro. “Lei arriverebbe in ritardo e questa conversazione verrebbe semplicemente posticipata a stasera, al suo rientro a Baker St., temo.” Fu la risposta che ottenne.
“Come… Al diavolo…” John sospirò e aprì lo sportello della macchina, stringendo con una mano il cellulare nella tasca del suo cappotto.
Quasi senza rendersene conto cercò sulla rubrica il numero di Sherlock, pronto a far partire la chiamata in qualsiasi momento avesse giudicato la conversazione pericolosa o disdicevole.
Si accomodò sul sedile, lanciando un’occhiata interrogativa all’uomo in abiti eleganti seduto di  fianco a lui e chiudendo lo sportello.
“Molto bene. Eccomi qui. Adesso può dirmi che sta succedendo?” chiese, mentre la macchina si metteva in moto e ripartiva.
“Non si preoccupi per il finestrino, lo tenga pure abbassato, se preferisce.” Rispose lo sconosciuto, osservando le dita di John muoversi nervosamente sul pulsante.
“Non ho bisogno che resti abbassato.” Commentò lui, e l’uomo accolse le parole con un sorriso obliquo, quasi ironico.
“Non ho parlato di bisogni, dottore, ma di preferenze.” Rispose. “Anche se in una società come la nostra si mescolano spesso, non trova?”
John azionò il pulsante e osservò il vetro salire lentamente.
“Allora possiamo dire che preferisco decidere io cosa fare o meno.” Rispose, con voce dura.
L’altro lo osservò per un attimo con aria vagamente compiaciuta.
“Non avevo alcun dubbio.” Si girò tra le mani il manico scuro di un ombrello il cui puntale premeva contro la moquette chiara che rivestiva il pavimento del veicolo. “Non le avrebbe mai chiesto di andare a vivere con lui, altrimenti.” Aggiunse, vagando con lo sguardo fuori dal finestrino.
“Chi è lei, esattamente?” Domandò John voltandosi meglio verso di lui, e riuscendo solo in quel momento a capire perché avesse trovato la sua scia familiare. Assomigliava a quella di Sherlock, ma più opaca, priva di quella punta briosa che stava iniziando a conoscere bene.
“Come ho detto, sono un amico di Sherlock.” Rispose l’uomo, continuando a rimanere girato verso l’esterno.
“Ha anche un nome, oltre al ruolo di “amico di Sherlock Holmes”?” chiese John, a voce bassa e senza inflessioni. Aveva imparato con gli anni a non mostrare nessun tipo di emozioni davanti a gli estranei, soprattutto se potenzialmente pericolosi.
Mostrarsi impauriti, o agitati, in determinate situazioni sarebbe stato molto più pericoloso per lui che svelare apertamente la propria natura.
“Immagino che lui mi definirebbe il suo “arcinemico”.” Rispose l’altro, senza scomporsi. John sentì un vago tono di fastidio, e lo immaginò arricciare in naso con aria nauseata.
“Ancora non so il suo nome.” Insistette. “Né perché mi trovi qui.”
“Il mio nome è Mycroft, e le basterà sapere questo, per ora.” L’uomo si era voltato verso di lui, e adesso lo osservava con attenzione. “E il motivo per il quale si trova qui, è che volevo parlarle.”
“Accidenti, due informazioni perfettamente inutili e vaghe a due domande precise. Non mi stupisco che siano gli Alpha come voi a occuparsi della politica.” Esternò tagliente John, senza abbassare lo sguardo.
L’uomo abbozzò un sorriso divertito.
“Invece c’è qualcosa di stupefacente in un Omega con un percorso di vita come il suo.” Rispose, e John dovette impegnarsi con tutte le forze a mantenere il suo volto impassibile.
“Non capisco di cosa stia parlando.” Commentò, fingendo noncuranza.
“Ma certo che capisce.” Continuò l’altro senza scomporsi. “Non è stupido. Anzi, tutt’altro. È per questo che ora abita Baker St. Ed è per questo che si trova qui.”
“È possibile sapere cosa vuole da me? Senza giri di parole e sottointesi, magari.”
“È molto semplice. Voglio che se ne vada dal 221b. Oggi stesso.” Rispose l’uomo, senza cambiare espressione né scia. Fino a quel momento, John non era riuscito a captare una sola variazione ne suo odore.
“Cos… “ iniziò, sentendosi avvampare di rabbia. Quell’ Alpha sconosciuto credeva davvero di essere in diritto di ordinargli una cosa simile?
“Lei assume inibitori.” Continuò l’altro. John fece per ribattere, ma lui fu più veloce. “È palese che non cerchi un Legame.”
“Certo che non ne cerco uno!” affermò il medico, senza più cercare di negare: aveva l’impressione che con quell’uomo non sarebbe servito.
Sherlock gli aveva parlato della sua condizione? Gli aveva promesso che non si sarebbe mai dovuto preoccupare della sua natura, se fosse andato a vivere da lui. Possibile che avesse tradito la parola data in così poco tempo? Qualcosa, dentro di lui, gli suggeriva che no, non lo aveva fatto. Perché avrebbe dovuto, soprattutto con un uomo che - per stessa ammissione di quest’ultimo - riteneva un nemico?
“Non vedo come questo possa riguardarla in qualche modo!” Il tono di voce si stava alzando, e John trovava terribilmente fastidioso notare la sua alterazione a confronto della più totale assenza di mutamento nell’altro.
“Io mi preoccupo costantemente per Sherlock. La sua presenza non gli fa bene.” Mycroft era rimasto in silenzio per qualche secondo, per essere certo che l’informazione fosse arrivata correttamente al suo interlocutore.
“Lo incoraggia a mantenere uno stile di vita assolutamente inappropriato. Pericoloso. Avvallerei la sua permanenza presso di lui solo se lei fosse disponibile a cercare di persuaderlo a intraprendere un Legame. Lo stato attuale delle cose lo porteranno alla rovina.”
Concluse, spostando gli occhi sul manico dell’ombrello.
“Solo perché ha scelto di vivere da uomo e non da essere appartenente ad una stupida casta?!” John era certo che se la sua scia fosse stata percepibile, adesso sarebbe stata del tutto acida. “Chi crede di essere per… oh.” Si interruppe, osservando la consapevolezza dell’identità di quell’uomo prendere forma davanti ai suoi occhi. “È suo fratello!”
L’uomo alzò lo sguardo, vagamente sorpreso. Un attimo dopo, era tornato alla sua solita espressione vacua.
“Le ha parlato di me, quindi?” domandò, e per la prima volta John riuscì a percepire un lieve mutamento nel suo tono di voce.
“Sì. Mi ha detto che gli ha tagliato i fondi solo perché ha deciso di vivere la sua vita.” Sputò fuori, caustico.
“Sherlock deve capire che il suo ruol-“
“Ruoli!” rise John, una risata vuota e cupa.
“Mi sta accompagnando a lavoro. Mi ha chiamato dottore, perché è quello che sono. Pensa che svolga male i miei ruoli? Pensa che sarei più utile in sala parto, a mettere al mondo un nuovo potenziale padrone del mondo, o più probabilmente un infelice condannato a stare a capo chino per tutta la vita?!” Aveva stretto i pugni così tanto da ferirsi i palmi.
“Qui non si parla di lei, ma di Sherlock. La sua mente…”
“La sua mente è eccelsa. È lo dimostra ogni giorno. Lo chieda all’Ispettore Lestrade, di Scotland Yard. O…”
“La sua mente è debole, dottore. Più di quanto lei creda. Vivere la sua vita non l’ha protetto dalle sue fragilità. DEVE tornare sotto la mia tutela.” Il tono dell’uomo si era alzato, e John poté finalmente percepire un cambiamento anche nel suo odore.
Era aspro, ma con una nota dolce. Rabbia. Preoccupazione.
“Non me ne andrò da Baker St. E se lo farò, sarà per scelta mia, tutt’al più di Sherlock.” John osservò il Bart’s comparire dietro la curva che la macchina aveva appena fatto.
“Posso però assicurarle che vigilerò affinché non accada niente a nessuno dei due.” Il tono di voce di John indicava che per lui la discussione era da ritenersi chiusa, e l’uomo al suo fianco tacque a sua volta, tornando a guardare fuori dal finestrino.
La macchina si arrestò davanti all’ingresso principale, e John lanciò un’ultima occhiata a Mycroft prima di posare una mano sulla maniglia e aprire lo sportello.
“Camera da letto. Quarto cassetto del comò.” Disse lui, rassegnato.
“Come, scusi?” John, ormai sul marciapiede, si voltò verso l’interno della macchina.
“Vada a vedere cosa Sherlock nasconde lì, se vuole avere un’idea di chi sia mio fratello veramente.” Rispose lapidario l’uomo, mantenendo lo sguardo oltre il vetro.
John chiuse lo sportello e rimase ad osservare in silenzio la macchina allontanarsi.
Quando fu completamente fuori dalla sua vista, estrasse il cellulare di tasca e compose rapidamente un messaggio, avviandosi verso l’ingresso.
 
[To: Sherlock Holmes][11:58 am]
Dove sei? Dobbiamo parlare. J.


Angolo dell'autrice:
"E alla fine arriva Mycroft", si potrebbe dire.
Gentile e disponibile come sempre, tra l'altro senza grandi pretese, come suo solito.
Se nella serie propone a John di pagarlo per passargli notizie sul fratello, qui gli dice in poche parole "o servi per un Legame, o te ne devi andare." Insomma, ingerenze da nulla. XD
Spero di essere riuscita a trasmettere la personalità di Mycroft (decisamente complessa) in queste poche righe. Spero anche che averlo descritto come un uomo capace di mantenere immutata la propria scia (oltre che le espressioni facciali) possa aiutare in tal senso e non risulti forzato o ridicolo.

Come sempre mille grazie a tutti, a seguire siete ormai così tanti che è l'ansia e la gioia si mescolano insieme, e i commenti sono sempre più belli e partecipati. Non saprei cosa fare, senza i vostri feedback!

Un abbraccio a tutti/e! 
B.

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Capitolo 9
*** Vincoli ***


Terminata l’autopsia, John si diresse alla stanzetta attigua alla sala mortuaria e si sistemò davanti al computer, pronto a trascrivere gli appunti vocali che Mike Stamford aveva fatto durante l’analisi autoptica.
Finalmente libero da camice, guanti e cuffietta, cercò nella tasca dei pantaloni il cellulare, trovandolo ancora come lo aveva lasciato: il suo messaggio a Sherlock risultava correttamente consegnato, ma non visualizzato.
Il medico sospirò e posò il telefono sulla scrivania, di fianco allo schermo del pc.
Se Sherlock non si fosse fatto vivo prima, si prospettava una serata piuttosto movimentata, a casa: non poteva ignorare quanto successo su quell’auto, e aveva bisogno - un bisogno forte al punto da fargli rivoltare lo stomaco – di sapere che non era stato lui a rivelare la sua condizione al fratello. Stranamente, in quel momento, a preoccuparlo era più questa eventualità che non il fatto stesso che qualcun altro conoscesse il suo segreto. Mycroft non lo aveva minacciato, anzi, alla fine era apparso quasi rassegnato, e John non percepiva alcun pericolo reale ed immediato provenire da lui. Ma se avesse scoperto che era stato Sherlock a tradire la sua fiducia, avrebbe abbandonato Baker St. in fretta, non prima di avergli fatto scoprire quanto forte fosse in grado di colpire un Omega reduce dell’esercito.
Continuava comunque a pensare che non fosse possibile: Sherlock gli aveva parlato raramente del fratello, solo un paio di volte dal suo trasferimento, ma sempre in modo totalmente spregiativo. Era più probabile che fosse stato lo stesso Mycroft a indagare sulle frequentazioni del fratello al fine di tenerlo costantemente monitorato o, come aveva detto lui stesso, “sotto la sua tutela.” Ad ogni modo, aveva bisogno di togliersi quel tarlo dalla testa il prima possibile. In più le ultime parole di Mycroft avevano acceso qualche interruttore nella sua mente, ed anche se non riusciva a mettere a fuoco chiaramente di che cosa si trattasse, John sentiva che Sherlock gli stesse realmente tenendo nascosto qualcosa.
Una bussata leggera contro il vetro che separava la stanzetta dalla sala autopsie lo strappò ai suoi pensieri e lo fece sobbalzare sulla sedia. Si voltò do scatto, vedendo Mike Stamford fargli un cenno con la mano come a chiedergli se potesse entrare.
John annuì, facendo un respiro profondo e lanciando un’ultima occhiata al cellulare, ancora muto.
“Ehi, scusa. Non volevo spaventarti, sembravi un po’ assente!” Esordì Stamford entrando nella stanza. Viso sorridente e paffuto, il Beta Plus si sistemò gli occhiali sul naso e si avvicinò alla scrivania con passo dondolante.
“Insomma sei ufficialmente passato alle indagini sul campo!” continuò in tono allegro, andandosi a sedere davanti a John.
“A quanto pare…” Rispose lui, abbozzando un sorriso.
“Deve essere davvero un bel tipo, questo Holmes, per averti convinto a farlo!” L’espressione di Mike evidenziava un maldestro tentativo di ammiccamento.
John scosse la testa con aria divertita.
“Lo so cosa stai insinuando, Mike, e la risposta è no.”
L’uomo esplose in una risata sincera.
“E dai John! Da quanto ci conosciamo? Se sono capitolato io – disse, mostrando a John l’anulare sinistro ben stretto in un fedina argentata – puoi farlo anche tu!”
“Ti ringrazio per il tuo interessamento, ma la risposta è sempre no.” Tagliò corto John, mantenendo comunque un tono gentile.
Mike sbuffò e si mise a sedere più comodamente.
“Va bene, come vuoi. Ma se cambiasse qualcosa voglio essere il primo a saperlo!”
“Senza dubbio. Ma non vivere nell’attesa di questa notizia.” Rise John, iniziando ad aprire sul computer il programma di trascrizione.
“Che ne pensi di questa storia?” domandò distrattamente, portandosi un auricolare all’orecchio destro. Le cuffie erano collegate al piccolo registratore usato durante l’autopsia.
“Non saprei… non vedo niente che possa indicare qualcosa di diverso da due suicidi. Certo la storia del biglietto, poi la scritta sul muro… È impossibile pensare che non siano collegati, no?” Mike si era alzato e si era diretto alla macchinetta del caffè automatica posta su un piccolo tavolinetto ad un angolo della stanza.
“Magari una setta, che so.” Versò la bevanda ancora fumante in due tazze e ne portò una a John.
“Grazie.” Sorrise quello, allungando una mano. “Magari è davvero un serial killer, come ha detto Sherlock…”
“E come fa? Voglio dire… come convinci qualcuno a ingurgitare una dose letale di qualcosa senza lasciargli nessun segno fisico? Tracce di sedativi nel sangue non ce ne sono, almeno per il primo caso. Per la signora Rogers non lo sapremo mai, visto che è morta proprio in conseguenza di una dose di tranquillanti. Voglio dire…”
“Tu pensi sia possibile che un Omega si uccida perché rimasto privo del suo Alpha?” Chiese John improvvisamente,  mentre le parole di Anderson sulla scena del crimine gli riaffioravano alla mente.  “Pensi che ci siamo Omega che ritengano che la loro vita non valga niente, senza un compagno ed un Legame?”
“Non lo so, J. Davvero.” Mike sembrò perdersi per qualche secondo nei suoi pensieri. “Da quando ho incontrato Alexia ho iniziato a sperare che ci sia qualcosa che ci leghi al di là di… beh, lo sai. Degli ormoni. Non voglio pensare che stia con me solo perché ho un odore compatibile col suo. Non solo per quello, almeno. Ma… in realtà non potrei dire con certezza che l’amerei lo stesso se non lo avesse, o fosse diverso… e forse questo vale, a maggior ragione, per lei.”
Mike diede una sorsata al suo caffè, a disagio. “Non lo so, è complicato. Ma alla fine importa davvero perché ci si innamora di qualcuno?”
John rimase un attimo con la mano sospesa sulla tastiera, riflettendo sull’ultima frase di Mike.
Cosa l’aveva attratto degli Omega con i quali era stato? Non certo la scia. Gli interessi, a volte. L’aspetto fisico. Li avrebbe amati ugualmente, se avessero avuto un viso diverso, o un trascorso di vita differente?
“Immagino che tutti i nostri gesti e decisioni siano sempre in parte vincolati e indirizzati da qualcosa…” commentò a bassa voce.
“Forse ci si dovrebbe semplicemente accontentare di vivere il più serenamente possibile. Se qualcosa o qualcuno ci rende felici, o meno infelici del solito, dovremmo tenerli vicini senza farsi troppe domande.”
“La vita di coppia ti ha reso più saggio, vecchio mio.” John alzò lo sguardo su Mike e gli sorrise.
“Più saggio e più grasso.” Rispose quello, e la sua risata allegra rimbalzò sulle pareti della stanza. “Ok, abbiamo divagato anche troppo. Ti lascio al tuo lavoro, vado a sterilizzare gli strumenti.” Annunciò quindi, avvicinandosi alla porta.
“Ricordati di imbustare tutto, o ci toccherà usare i guanti da forno un’altra volta!” Gli urlò John, ma Mike era già scomparso oltre la vetrata.
Il medico scosse la testa con aria divertita, e spinse il pulsante di avvio sul registratore.
 
Un paio d’ore dopo i risultati dell’autopsia erano stati trascritti e correttamente inseriti nella banca dati. John si lasciò andare contro lo schienale,  allungando le braccia sopra la testa.
Chiuse gli occhi, facendosi cullare dal suono ritmico della pioggia contro i vetri del laboratorio.
L’immagine di Mycroft Holmes che gli suggeriva di guardare nella cassettiera del fratello riemerse dietro il buio delle palpebre, e gli fece contrarre i muscoli della mascella.
Cosa gli nascondeva Sherlock? Davvero poteva esserci qualcosa in camera sua in grado di fargli cambiare totalmente opinione su di lui?
Sospirò, tornando a sedersi in modo normale. La vibrazione improvvisa del telefono lo fece trasalire.
Si lanciò sull’apparecchio, senza rendersi realmente conto di quanta foga ci avesse messo.
In risposta al suo messaggio di ore prima, Sherlock aveva inviato qualcosa di totalmente sconnesso. Una serie di lettere a caso.
 
[From: Sherlock Holmes][03:09 pm]
hebcalbekdelp
 
John corrucciò la fronte.
Iniziò a scrivere un nuovo messaggio per dire al suo coinquilino che non riusciva a capire cosa intendesse, ma un nuovo messaggio da parte di Sherlock lo bloccò.
Nessun testo, solo l’invio della posizione.
John cliccò sulla mappa, che si aprì su uno dei quartieri della zona 3 più malfamati.
Una sensazione di irrequietezza gli serrò lo stomaco.
Qualcosa non andava, in quel messaggio. E se Sherlock gli aveva inviato la sua posizione, doveva essere necessariamente per farsi raggiungere.
Con un senso di angoscia crescente che non riusciva a spiegarsi, John corse a recuperare il suo cappotto dall’appendiabiti di fianco alla porta e uscì correndo dalla stanza.
Passò velocemente davanti a Mike, intento a parlare al telefono, e non si fermò a salutarlo.
“Ehi John, ma che…” Provò a richiamarlo il patologo, ma lui era già fuori dalla porta dell’obitorio.
Il posto indicato sulla mappa era a circa dieci minuti di taxi dal Bart’s, ma John non provò nemmeno a cercarne uno. Sotto una pioggia scrosciante, con la paura - della quale non avrebbe saputo spiegare il motivo ma che sentiva fosse giustificata - che gli risaliva in gola a fiotti, iniziò semplicemente a correre più forte che poteva.
Come quando era in missione, e i nemici aprivano il fuoco.
Correva, John Watson, e intanto con una mano continuava a tenersi il telefono premuto contro l’orecchio con la speranza – che sapeva essere totalmente vana – che Sherlock prima o poi rispondesse.

Angolo dell'autrice:
Chiedo scusa per il ritardo nella pubblicazione. Era mia intenzione aggiornare ieri, ma la febbre alta mi ha tenuta lontana dal pc e della mia capacità di capire dove fossi e come mi chiamassi. (Non che oggi vada molto meglio... XD)
Avevamo detto basta capitoli "introduttivi", ma di questo sentivo particolare bisogno per uno "snodo" importante che avevo bisogno di John compisse (o meglio, un pensiero che doveva arrivare a formulare), e cioè che comunque c'è qualcosa che ci guida nella scelta di chi amare, sempre. E che forse, anche se ai suoi occhi sarebbe come "cedere" al suo ruolo, se la sua felicità risiedesse nel vivere al fianco di qualcuno, anche di un Alpha, magari potrebbe non essere così terribile, se in cambio gli donasse serenità. Certo non è arrivato a svolgere per intero il ragionamento, ci mancherebbe, ma il seme doveva essere piantato. XD 
Nella mia versione Mike a Sherlock non si conoscono "di persona", e questo perchè solitamente il coroner se ne va prima che arrivino tutti gli altri agenti (della scientifica, o altro), e considerendo che Lestrade convoca Sherlock sulle scene sempre tempo dopo il ritrovamento dei corpi, ho immaginato non si siano mai incontrati.

Che altro dire...
Grazie a tutte/i come sempre per i commenti, è sempre un piacere confrontarmi con voi. ^_^ 
Inutile ripetere quanto siano di sprone e sostegno le vostre parole. :)

Al prossimo capitolo (spero giovedì, se la febbre mi permetterà di scrivere un po' in questi giorni)!
B.

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Capitolo 10
*** Vicoli ***


Quando finalmente svoltò per l’ultima volta, trovandosi esattamente nella piccola strada secondaria che era segnata sul suo cellulare, John arrestò la sua corsa, portandosi le mani sulle ginocchia e chinandosi ad ingoiare grosse boccate d’aria.
Sentiva il cuore battere con forza contro lo sterno, talmente veloce da non riuscire a percepire praticamente nient’altro.
Alzò la testa per guardarsi intorno. Il vicolo sembrava deserto, fatta eccezione per alcuni cassonetti dell’immondizia talmente pieni da avere i coperchi sollevati.
John provò ad avviare l’ennesima chiamata al cellulare di Sherlock, tornando in posizione eretta e riuscendo a regolarizzare un po’ il respiro.
Il suono ovattato di una vibrazione giunse da vicino ad uno dei cassonetti, ed il medico si avvicinò alla fonte del suono sperando di non trovare quello che pensava.
Bastò un’occhiata, per capire che fosse il telefono di Sherlock. John si ripose il suo in tasca e si chinò a raccoglierlo.
Il vetro si era scheggiato, e la scocca in metallo era ammaccata in più punti. Doveva essere finito in terra con forza.
John iniziò a guardarsi intorno, veloce, muovendo la testa in tutte le direzioni. Non riusciva a sentire niente, la testa ancora ovattata dalla pressione sanguigna.
“Sherlock!” Provò ad urlare, senza ricevere alcuna risposta.
Si rigirò il telefono tra le mani, cercando di sbloccarlo, ma sullo schermo continuava a lampeggiare la griglia di puntini che avrebbe dovuto unire per poterlo fare.
“Maledizione!” sibilò rabbioso, serrando gli occhi e scoprendo i denti.
Si portò una mano al viso e provò a respirare profondamente. Aveva bisogno di pensare. Un indizio… gli sarebbe bastato un indizio.
Poco lontano, sulla strada principale, due bambini passarono ridendo. Non avevano alcuna scia, ma stavano fantasticando di come sarebbero state, una volta Determinati.
“La mia saprà di liquirizia!” Gridò il primo, gonfiando il petto. “Vero mamma?” domandò poi, girandosi verso la donna che camminava pochi passi dietro di loro.
“Certo amore, liquirizia e cannella.” Rispose la donna ridendo, voltandosi un attimo a guardare John prima di scomparire oltre il muro del vicolo.
“Scia…” mormorò lui, annuendo con convinzione. “Ok, sì, la scia.”
Chiuse gli occhi e cercò di concentrarsi.
Non aveva mai fatto una cosa del genere prima, e il pensiero gli fece rivoltare lo stomaco per un secondo. Cercare di rintracciare un Alpha per il suo odore era un’ammissione palese del suo ruolo di Omega, per quanto menomato dagli inibitori. Il solo fatto di sapere di poterlo fare, nella sua mente prendeva la forma della più vile rappresentazione di prostrazione verso la propria natura che avesse mai messo in atto.
Rimase fermo, rigirandosi il telefono di Sherlock tra le mani. Alla fine si arrese alla sensazione di paura che si stava facendo largo tra i suoi polmoni, più forte di ogni reticenza. Era praticamente certo che Sherlock avesse bisogno di aiuto, rinunciare a cercarlo solo per una questione di principio - per quanto di fondamentale importanza, per lui – sarebbe stata una scelta che non gli avrebbe più permesso di guardarsi in faccia con serenità.
“La scia di Sherlock, quindi.” Sussurrò, serrando gli occhi e facendo un profondo respiro.
“La scia di Sherlock.” Ripeté ancora, cercando di metterla a fuoco.
“Cosa mi ricorda, la scia di Sherlock.” Aveva bisogno di visualizzarla chiaramente, in modo preciso, e di renderla così presente ai sensi da riuscire ad isolare ogni altro odore.
“Cannella, pepe, arancia, peperoncino…” elencò, cercando di richiamare alla mente profumi che conosceva da molto più tempo ma che gli ricordavano per alcuni tratti l’odore che stava cercando. “Garofano, gelsomino, rosa…” Aggiunse, chiudendo ancora più forte gli occhi e cercando di fare il vuoto sensoriale intorno a sé. “Vaniglia, patchouli…”
Mise a fuoco la poltrona di Sherlock, a casa. Il profumo che le rimaneva addosso, tra la testiera ed i braccioli, quando l’uomo si alzava per uscire, o iniziare a suonare il violino.
Pensò alla vasca da bagno, posta contro il muro confinante con la camera da letto di Sherlock. L’odore del bagnoschiuma che si mescolava a quello proveniente dalla stanza attigua.
Qualcosa, una piccola nota agrumata dalla venatura familiare riuscì a farsi largo tra gli altri input olfattivi, e John capì di esserci riuscito: l’aveva trovato.
Si agganciò con tutte le sue forze a quella piccola traccia, iniziando a muoversi di conseguenza al suo intensificarsi. La seguì oltre il vicolo, svoltando un paio di volte prima di sentirla prendere forma in modo più sostanzioso.
Girò in una strada ancora più piccola, due pareti di mattoni rossi senza finestre.
Doveva mancare poco, davvero poco, perché adesso percepiva la scia di Sherlock con la stessa intensità con la quale la sentiva a casa quando si trovava nella sua camera da letto e il detective era al piano di sotto.
“Sherlock!” John smise di sondare l’aria e riniziò ad usare tutti i sensi. Fu come se intorno a lui fosse esplosa una bolla d’aria: i rumori della strada gli risalirono le gambe, le braccia, il viso. Sentì la forza dei suoi denti serrati, la stanchezza dei muscoli tesi delle spalle.
“Sherlock!” Gridò di nuovo, iniziando a correre verso il fondo della strada, che si apriva sulla destra in un cortile senza uscita.
Il suono sordo di un colpo andato a segno, seguito da un rantolo, lo prepararono a quanto stava per vedere ancor prima che avesse girato l’angolo.
Riuscì a malapena a mettere a fuoco la figura di un uomo chino su Sherlock, che era sdraiato al suolo e tenuto premuto a terra con entrambe le braccia dall’altro.
Senza arrestare la corsa, John si gettò sull’uomo, facendolo barcollare all’indietro e cadere a terra. Un attimo, il tempo di capire cosa fosse successo, e l’aggressore era di nuovo in piedi, pronto a scagliarsi contro il medico, che intanto si era andato a posizionare tra lui e Sherlock.
John allargò le gambe e si preparò all’impatto mentre Sherlock, ansimando, riuscì a rimettersi seduto, alzando uno sguardo spaventato verso il medico.
Preparato al colpo, John riuscì a deviare con una mano il pugno che l’assalitore aveva caricato e gli bloccò il braccio tra il suo ed il fianco, dopo di che roteò lievemente il senso contrario.
Il rumore della spalla dell’uomo che si disarticolava fu il segnale per il medico che poteva lasciare la presa. L’uomo si accasciò a terra, per poi rialzarsi con movimento incerto. Guardò John, ed il medico allargò nuovamente le gambe, pronto ad un nuovo scontro.
Invece, lo sconosciuto gettò uno sguardo a lui, poi a Sherlock, ed infine sparì velocemente nel vicolo.
Il detective, ancora incapace di riprendere fiato in modo corretto, osservò le spalle di John abbassarsi ed alzarsi al ritmo delle ondate di adrenalina che lo stavano attraversando, e sentì qualcosa far male all’altezza del petto. Era un dolore sordo, pulsante, che riconobbe immediatamente, atterrito. Cercò di rimettersi in piedi prima che il medico potesse girarsi, ma non fece in tempo. La mano tesa di John comparve sotto ai suoi occhi, e Sherlock rimase a guardarla in silenzio per qualche secondo.
“Chi diavolo era quello?” Domandò il medico. In tutta risposta, Sherlock gli diede un colpo sulla mano per allontanarla, e si rimise il piedi con movimenti lenti, con uno sbuffo di dolore.
“Che accidenti sta succedendo? Che ci facevi qui?”
“Quante domande idiote!” Sbottò Sherlock, riuscendo finalmente a raggiungere la posizione eretta e alzando uno sguardo infastidito verso John.
“Dio santo, Sherlock… “ Il medico mosse gli occhi sul viso tumefatto dell’altro, e la sua espressione si fece seria. “Dobbiamo andare in ospedale, potresti aver-“
“Non se ne parla.” Fu la lapidaria risposta di Sherlock.
“Già ti sei fatto scappare un potenziale elemento risolutivo per l’indagine, mandando in fumo un intero pomeriggio di indagine, non mi farai perdere altro temp-“
“Un potenziale che? Aspetta un attimo… MI sono fatto scappare? IO?” John scosse la testa, sorridendo con aria incredula. “Perché tu lo stavi per atterrare e trascinare in commissariato, dico bene?” Aggiunse, guardandolo.
“Non ho detto questo.” Sherlock alzò gli occhi al cielo e si passò il dorso di una mano sul labbro inferiore, gonfio e sanguinante.
“Quando mi sono reso conto di non potercela fare da solo ti ho inviato la mia posizione, e mi aspettavo ch-“
“Ma perché diavolo non mi hai aspettato!” Chiese John, alzando le mani e le spalle in un gesto interrogativo.
Sherlock abbassò gli occhi e si passò le mani sui pantaloni sporchi, cercando di togliersi il sangue dalle dita.
“Non pensavo dovessi metterti a parte di ogni mio movimento. Non credevo avessimo un Legame.” Disse, tagliente, continuando a guardarsi gli abiti.
“Ed anche in quel caso saresti tu a dover chiedere il permesso per fare qualcosa, non io.” Terminò, atono.
Alzò uno sguardo su John, mantenendo la testa inclinata verso il basso.
Il medico sgranò gli occhi e socchiuse la bocca. Per qualche secondo sembrò sul punto di ribattere. Poi deglutì un paio di volte, stringendo le labbra e serrando la mandibola. Abbassò gli occhi, allontanandoli da quelli di Sherlock. Girò la testa verso destra, annuendo tra sé e sé e passandosi velocemente la lingua sul labbro inferiore, prima di parlare nuovamente.
“Ok.” Disse, in tono asciutto.
“Va bene. Ho capito.” Guardò per un attimo Sherlock, il tempo di imprimersi bene nella mente per chi si fosse abbassato a seguire una scia come un Omega qualunque. Un errore che non avrebbe dovuto commettere mai più.
“John.”
“Non…” John scosse la testa e alzò una mano in un gesto ammonitore. “Non. Azzardarti.”
Detto questo assunse la migliore postura militare della quale fosse capace, e si allontanò con passo marziale dal cortile.
Dopo qualche passo si accorse di avere ancora nella tasca del cappotto il cellulare di Sherlock. Lo lasciò a terra e continuò a camminare, senza voltarsi.
Poco più in là, Sherlock fece un profondo respiro, chiudendo per un attimo gli occhi.
Si portò le labbra tra i denti, sentendo il sapore metallico del sangue farsi intenso e poi attenuarsi fino a sparire.
Aveva bisogno di arrivare a casa.
Di sdraiarsi a letto.
E di Soma.

Angolo dell'autrice:
Tra una tachipirina e l'altra sono riuscita a tirar giù un capitolo, quindi pubblico "in tempo" (sono tre capitoli avanti a quello che via via pubblico, e lo faccio solo quando ne ho scritto un altro, questo è il mio patto con me stessa su questa storia ^_^)

Sherlock non è stato affatto gentile, c'è da dirlo. Ma le sue parole sono frutto di un meccanismo di difesa, e lo si capirà meglio con l'andar avanti della storia. Per adesso possiamo solo ringraziare che John non abbia terminato il lavoro dell'uomo misterioso XD 
Parlando di Soma, invece, spiegherò meglio nei prossimi capitoli di cosa si tratti, ma fa parte dei dettagli che ho preso da "Il mondo nuovo".
Quando avrò mostrato la mia idea di Soma, nelle note lascerò scritto cosa fosse nell'idea di Huxley (per chi non avesse letto il libro, chiaramente. :)

Ho amato molto scrivere questo capitolo, perché ho potuto descrivere l'odore che penso abbia Sherlock in questa storia, e un altro piccolo strancio di quotidianità attraverso le immagini che John richiama alla mente per rintracciarlo.
A tal proposito, vi lascio con un "giochetto" (avere 39 di febbre costantemente per tre giorni fa questo ed altro XD): c'è un profumo al quale mi sono ispirata, quando ho fatto pensare a John quegli odori (mi serviva per rendere la sensazione "reale", mentre la scrivevo). Qualcuna riesce ad indovinare quale sia? :D (In realtà non so se sia possibile, ma vabbè. XD)

Grazie come sempre a tutte/i, a seguire la storia siete sempre di più ogni giorno (e data la febbre ho temuto fossero allucinazioni), e ogni commento è una gran gioia per me.

Lo so, sono monotona, ma è la verità! ^_^

A presto,
B. 
 

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Capitolo 11
*** Azioni e reazioni ***


Appena varcata la soglia del 221b, Sherlock venne raggiunto da una irrequieta signora Hudson. La donna aveva addosso il grembiule da cucina, odorava di prodotti per la pulizia e impasto per i biscotti, e aveva l’aria di essere mortalmente angustiata per qualcosa.
“Dica, signora Hudson, ma sia breve. Ho bisogno di riposare.” Le disse, sbrigativo.
“Buon Dio!” esalò la donna, guardando con occhi sgranati i profondi tagli sul volto di Sherlock. La sua scia, diventata acuta, si svincolò dal buon odore di cucinato e pulito, ondeggiando come un accusa muta tra loro due.
“Dovrebbe fare più attenzione!” continuò, cercando di tornare ad un tono di voce normale.
“Mi ha bloccato all’ingresso per questo, signora Hudson? Per le sue solite, inutili, raccomandazioni?”
La donna assunse un’aria offesa per qualche secondo, poi sembrò tornare padrona dei propri pensieri e delle intenzioni che l’avevano spinta fuori dalla sua cucina non appena sentito l’aprirsi della porta.
“No, no…” cominciò, portandosi una mano tremante sotto al mento. “Volevo dire che è passato John poco fa, e che mi è sembrato piuttosto… teso. È uscito nuovamente dopo un paio di minuti, e volevo solo chiedere se avesse idea di cosa gli fosse successo…” La donna si interruppe un attimo, guardando nuovamente il viso tumefatto di Sherlock, e l’uomo poté distintamente vedere un pensiero – errato - prendere forma negli occhi di lei.
“Ma forse a questo punto è meglio lasciar perdere. Neanche lei mi sembra… come dire. Particolarmente in forma.” Continuò la donna, con voce incerta.
Sherlock le lanciò un’occhiata ammonitrice, a metà tra un rimprovero e un’intimazione a tacere, ed iniziò a salire le scale, in silenzio.
La signora Hudson si aggrappò al corrimano, guardandolo.
“Deve averlo fatto davvero arrabbiare per farsi ridurre così!” Disse, a voce sufficientemente alta da essere certa che la sentisse. “Certo che anche lei, signor Holmes… Avrebbe almeno potuto provare a difendersi!”
In tutta risposta, la donna sentì la porta dell’appartamento al piano di sopra chiudersi con uno schianto. Il suono rimbombò per tutte le scale.
“Cielo…” commentò la donna tra sé e sé, avviandosi lenta verso i suoi alloggi. “Neanche una settimana di convivenza, e già sono ai ferri corti… Di questo passo non si legherà mai, quell’uomo!” La donna sospirò, e si chiuse la porta alle spalle.
Guardò l’orologio, poi il bollitore sul fuoco. Con aria sconsolata, ripose nella credenza le due tazze preparate per Sherlock e John, e si sedette con aria mesta di fronte alla propria.
 
John appoggiò il libro che aveva appena preso dallo scaffale sulla mensola in marmo sotto la finestra, poi mise entrambe le mani sul ripiano e si diede una spinta, sedendocisi. Si sistemò il più comodamente possibile ed inspirò profondamente, trovando pace nel familiare odore di carta e umidità che sentì farsi largo nei propri polmoni.
La biblioteca universitaria del Bart’s. Quante ore aveva passato in quell’esatto punto, appollaiato sul davanzale di marmo dell’immensa vetrata che campeggiava in fondo alla sala lettura, schiena curva sui libri e fianchi appoggiati al vetro gelido. Nottate intere passate a ripetere a bassa voce pagine su pagine di manuali medici. Nozioni e nomi recitati come una preghiera laica, sacra a suo modo, ogni esame dato una medaglia d’onore al suo non aver chinato il capo.
John appoggiò la fronte alla finestra, guardando fuori. I viali interni dell’ospedale erano deserti. Solo un medico, camice bianco che sbucava dal cappotto, stava sfidando il freddo e la pioggia per fumare una sigaretta.
John non avrebbe saputo dire con esattezza perché il suo primo istinto, dopo essere passato velocemente a Baker Street per prendere un paio di vestiti asciutti, fosse stato quello di tornare a quella finestra. Forse aveva a che fare con il ricordare chi era stato, e chi fosse. Non voleva pensarci troppo, ad ogni modo. Perché ammettere che fosse quello il motivo, sarebbe stato come ammettere che le parole dell’Alpha lo avevano colpito più duramente di quanto desiderasse credere.
L’uomo in cortile spense la sigaretta e si avviò all’entrata.
John lo seguì con gli occhi, con una certa invidia che prendeva posto nel suo petto.
Era tornato dalle missioni all’estero con una forma severa di stress post traumatico. Non era mai riuscito a capire se fosse dovuto alle scene raccapriccianti alle quali aveva dovuto assistere, soprattutto ai danno di soggetti Omega, o se dipendesse dal fatto che - anche assumendo regolarmente inibitori - non era mai stato del tutto tranquillo che avrebbero fatto effetto per tutta la durata della sua permanenza lontano dall’Inghilterra (finendo col domandarsi costantemente cosa sarebbe successo se avessero smesso di funzionare durante una missione, o al campo, in mezzo ai suoi commilitoni), e quindi aveva vissuto per anni con una forma di tensione emotiva bassa ma costante e, in parte, logorante. Qualunque fosse stato il motivo, al suo rientro a Londra non era riuscito a svolgere il mestiere di medico ospedaliero, lavoro che aveva sempre immaginato di fare una volta congedato. Troppi sconosciuti, troppe ore da trascorrere bloccato nello stesso posto. Il suo unico amico ai tempi dell’università, Stamford, gli aveva quindi suggerito di unirsi a lui, e John aveva accettato. Non avrebbe dovuto interagire con troppe persone, e avrebbe comunque potuto mettere a frutto quanto studiato in campo medico.
Il dottore si chiuse la porta alle spalle, scomparendo dalla vista di John, che sembrò ridestarsi dai suoi ricordi.
Sospirò, e recuperò il libro che aveva scelto. Conosceva molto bene quel volume, lo aveva letto più e più volte, quando era solo una matricola.
 
“Determinazione e suoi fattori scatenanti. Si nasce, o si diviene?”
 
recava scritto in oro la copertina rossa ormai logora.
Era uno studio (ormai piuttosto datato) atto ad analizzare se la Determinazione in Alpha, Beta o Omega avesse solo spiegazione genetica o se risentisse in parte di stimoli esterni ricevuti nella prima infanzia.
John aveva sempre trovato l’idea - se pur solo accennata nel testo e mai dimostrata con le analisi - che alla nascita tutti avessero potenziale uguale e indistinto, piuttosto rincuorante.
Per questo aveva letto il testo più e più volte, imprimendosi nella mente tutti i passaggi che accennavano a quella possibilità. Gli studi più recenti avevano totalmente eliminato i fattori ambientali come possibili intercause delle diverse Determinazioni, ma John aveva continuato a trovare in quel testo una “carezza emotiva” che non voleva abbandonare. Era un uomo adulto ormai, e sapeva perfettamente quanto acerba e imprecisa fosse la natura dello studio che stringeva tra le mani. Ciò nonostante aprì il libro ed iniziò a leggere, con un sorriso lieve a incurvargli le labbra e le parole di Sherlock sempre più lontane dalla mente.
 
 
Sherlock si passò la compressa turchese tra le mani un paio di volte. Lanciò un’occhiata alla confezione quasi vuota, e si appuntò mentalmente di farsene dare altre da Molly Hooper – Beta Minus con una forma di devozione che non aveva mai capito del tutto nei suoi confronti, impiegata nella farmacia del Bart’s - alla prima occasione buona. Si portò la compressa alla bocca e la boccò tra le labbra, ricoprendo con le camicie la scatola blu e bianca posta sul fondo del cassetto prima di richiuderlo.
Con passo veloce si diresse in cucina, e lasciò cadere in un bicchiere la compressa, che tintinnò al contatto col fondo in vetro. Aprì il rubinetto dell’acqua, e attese che divenisse abbastanza fredda. Riempì il bicchiere e tornò verso la camera da letto, richiudendosi la porta alle spalle.
Quando l’azzurro della pasticca si fu completamente disperso nel bicchiere, Sherlock si sedette sul letto e diede una bella sorsata.
 
Mezzo grammo per un riposo di mezza giornata, un grammo per una giornata di vacanza, due grammi per un'escursione nel fantasmagorico Oriente, tre per un'oscura eternità nella luna.” [1]
 
Bisbigliò, ricordando le parole che era solito sussurrargli nell’orecchio l’uomo del quale con quella pasticca voleva dimenticare voce e viso.
Scosse la testa e bevve fino in fondo. Lasciò andare il bicchiere sul comodino, senza badare al fatto che si fosse rovesciato.
Si lasciò cadere all’indietro sul materasso, e chiuse gli occhi.
 
“L’Oriente…” riuscì a dire, mentre un’onda di intorpidimento gli risaliva il corpo e rallentava pensieri e respiro.
La sua scia si azzerò quasi totalmente, diventando bassa e costante.
Sentì il formicolio risalirgli la gola e sorrise appena, in attesa di vedere cosa avrebbe visto dall’altra parte.
La sensazione in mezzo al petto di un’ora prima, l’uomo, la sua voce, il suo viso, John, tutto scomparve in una bolla di aria rarefatta e tempo rallentato.
Sherlock emise un piccolo sospiro flebile, poi più nulla.
 
***
 
Il parquet scuro e lucido sembrava attraversato da tante piccole gocce di luce dorata.
Vibravano appena, al tempo dal battito del suo cuore.
Socchiuse gli occhi e si sistemò meglio sul pavimento, facendo aderire la schiena contro il vetro dello specchio alle sue spalle.
Le sbarre in legno per gli esercizi si rincorrevano lungo le pareti chiare, e seguì il loro mutare di altezza e lunghezza con gli sguardo morbido, quasi carezzandole.
La sala da ballo era completamente vuota, come sempre d’altronde, e lui respirò a pieni polmoni l’odore di cera e borotalco, beandosi del silenzio che sentiva attorno.
Non era mai stato l’Oriente, per lui, no. Solo una piccola stanza di una scuola di ballo, sempre deserta. Lì aveva sempre potuto abbandonare i suoi pensieri, alle volte il suo cuore, senza curarsi di nient’altro se non della sensazione dell’aria che gli riempiva i polmoni ad ogni profondo respiro.
Accarezzò lentamente il legno sotto di sé, sentendolo freddo e liscio sotto le dita.
Due grammi non erano più sufficienti per un distacco prolungato dalla realtà, ma sapeva che aumentare la dose avrebbe potuto arrecare gravi problemi al suo sistema nervoso centrale, e non poteva permetterlo in alcun modo. Il suo hard disk andava preservato, era la maledizione benedetta che gli aveva recato in dono la natura, ancor prima della sua Determinazione.
Sherlock girò la testa verso destra, piano, lento, incontrando i suoi occhi nello specchio basso che percorreva tutta la stanza. Occhi azzurri, liquidi, incorniciati da un volto di bambino. Chissà perché aveva sempre avuto l’aspetto dei suoi otto anni, in quei viaggi sintetici offerti dal Soma. Se lo chiedeva ogni volta, seduto nello stesso punto della sala, per dimenticarlo poco dopo, un altro pensiero cancellato da un’ondata di serenità artefatta.
Il Soma, che il governo passava agli Omega che ne facevano richiesta sotto forma di medicina senza effetti collaterali, in realtà un potente euforizzante atto a cancellare preoccupazioni ed ansie, malviste in soggetti tanto preziosi eppure considerati estremamente fragili.
Il Soma, che aveva iniziato ad assumere insieme a… un'altra onda di pace posticcia, e il nome si dissolse nel blu delle iridi che lo fissavano attente dall’altra parte dello specchio.
Gli sorrise, si sorrise, e chiuse di nuovo gli occhi, facendo un altro profondo respiro. Qualcosa, un odore nuovo, si fece largo tra le sue narici, e Sherlock cercò di catalogarlo, ingoiandone enormi sorsate.
Ricordava la menta che da bambino sua madre coltivava sul terrazzo, le arance che suo fratello lo obbligava a mangiare alla fine di ogni pasto.
Aveva un tono di lavanda, lieve, simile al profumo dei maglioni leggeri di suo padre in primavera, quando li riprendeva dall’armadio per le domeniche a casa.
Gli richiamava alla mente un volto, ma appena riusciva a mettere a fuoco un dettaglio lo perdeva nell’oblio della sua mente annebbiata.
Arance, e c’era il biondo scuro di qualche ciuffo di capelli.
Menta, ed il verde delle foglie diveniva il blu profondo di un paio di occhi seri.
La lavanda aveva ancora la forma di lana intrecciata, ma non riusciva a ricordare se fosse qualcosa di suo padre.
Rallentò il respiro, lasciando andare l’ultimo dettaglio sbiadito di un sorriso accennato e di una mano intenta a porgere un piatto pieno di cibo.
Il profumo scomparve, e con lui il colore dei ricordi.
Tornò il silenzio, il freddo del parquet, lo sfarfallio delle luci.
Sherlock aprì gli occhi e si fissò i piedi, dita all’insù, nudi con i talloni contro il pavimento.
Erano ancora piccoli, come piccole e più piene erano le mani che stava allungando per toccarli.
Qualcosa di freddo gli lambì la pelle, impregnandogli i vestiti.
Si guardò intorno, vedendo dell’acqua uscire dalle fughe del parquet.
Rimase immobile ad osservarla zampillare, incapace di provare sentimenti di paura o tensione. Era mai successo prima? Non riusciva a ricordare. L’acqua continuò ad aumentare, arrivando in poco tempo a coprirgli totalmente le gambe. Sherlock lasciò galleggiare le braccia in superficie, vedendola alzarsi sempre più di livello. Quando l’acqua arrivò a lambirgli il mento, si guardò un’ultima volta allo specchio, scoprendosi di nuovo adulto.
Non si sorrise, ma sorrise al volto che vide affiorare accanto al proprio nel riflesso.
Gli sembrava di… Si conoscevano?
L’acqua gli entrò in gola e nel naso, e il Soma portò via anche quell’ultimo pensiero.
No, non ricordava ci fosse mai stata dell’acqua, prima…
Il tempo di un ultimo sguardo, e sprofondò nel buio.
 
“Maledizione, Sherlock!” La voce giungeva ovattata e sdoppiata, come attraverso un muro di vibrazioni. Provò a prendere fiato, ma il freddo, sotto forma di un getto costante d’acqua, non gli permise di espandere i polmoni quanto avrebbe voluto.
“Che… dove…” provò, portando in avanti una mano, ancora incapace di aprire gli occhi, e andando a sbattere contro qualcosa di liscio e umido.
“Tu sei pazzo. Completamente pazzo!” Una spinta contro il petto lo fece tornare indietro, sotto la cascata d’acqua che ormai percepiva chiaramente picchiare sulla sua testa.
“Cosa…” tossì, portandosi nuovamente in avanti, e riuscendo a fatica ad aprire gli occhi.
La prima cosa che mise a fuoco fu il rubinetto argentato della vasca, davanti a sé. Poi, spostando leggermente in basso lo sguardo, riuscì a capire cosa lo tenesse premuto verso il bordo, direttamente sotto il doccione ancora aperto: la mano di John, che premeva con forza ma senza violenza contro il suo petto. La manica del suo maglione era completamente intrisa d’acqua, ed era diventata scura e pesante.
“Che diavolo…” esalò, alzando gli occhi sul viso di John, e sorprendendosi nel trovarlo contratto in un’espressione tesa.
“Sei forse impazzito? Soma, Sherlock? Davvero?!” Domandò John, serio, dandogli un’ultima spinta leggera e lasciandolo andare. Si alzò in piedi, ed il detective poté notare che anche i pantaloni, all’altezza delle ginocchia, erano bagnati.
“Come accidenti… sei entrato in camera mia?!” Ringhiò Sherlock, cercando di rimettersi in piedi, ma scivolando sul fondo sdrucciolevole della vasca. “Con che diritto…”
“Non rispondevi, maledizione! Quando sono tornato a casa ho trovato la signora Hudson quasi morta dalla paura! Era salita per portarti la cena, e ti ha trovato in camera tua, totalmente incosciente!” Si difese John, scuotendo la testa con aria sbigottita. “Ho provato a svegliarti, ma non reagivi! Quanta ne avevi assunta?! Tu-“
“IO” Sherlock riuscì a mettersi in piedi ed uscì dalla vasca con movimento lento e traballante. “IO decido cosa fare della MIA vita, e TU, TU non devi provare neanche a pensare di INTROMETTERTI!” Gli soffiò contro, portandosi a pochi centimetri dal suo viso e scoprendo i denti.
John deglutì, combattendo l’istinto di arretrare, e rimase immobile, senza staccare gli occhi da quelli dell’altro.
“TU puoi fare tutto ciò che vuoi della tua vita, Sherlock.” Rispose, calmo, osservando con la coda dell’occhio le labbra di Sherlock abbassarsi appena sui denti. “Ma questo… questo non ha senso. Non… non per te.” Concluse, aspettando di vedere quale sarebbe stata la reazione che le sue parole avrebbero ottenuto.
“Non sai niente di me. Di cosa abbia o non abbia senso, per me.” Sherlock fece un passo indietro e smise di ringhiare, la continuò a mantenere gli occhi saldi in quelli dell’altro.
“Non azzardarti mai più a interferire. MAI PIÙ.” Concluse, girandosi per uscire dalla stanza. Il pavimento era ricoperto da un sottile strado d’acqua, e le sue gambe ancora malferme, per cui dovette appoggiarsi alla parete per raggiungere la porta.
“Ed io che ti ho difeso.”
Sussurrò John, dietro di lui, scuotendo la testa e mordendosi un labbro.
“Scusa?” Domandò Sherlock, fermandosi sulla soglia ma senza girarsi indietro.
“Ed io che ti ho pure difeso.” Ripeté l’altro, a voce più sostenuta. “Con tuo fratello, quando è venuto a dirmi che non eri la persona che credevo che fossi.” John sospirò, sottolineando con con il tono di voce quanto trovasse la cosa tristemente ironica.
“Mycroft ha fatto… COSA?” Sherlock si era voltato completamente, e adesso il suo sguardo era attraversato da un sordo furore.
“Mi ha accompagnato al Bart’s, questa mattina. Ha detto che me ne sarei dovuto andare da qui, che la mia presenza non ti fa bene. E forse non aveva tutti i torti, a giudicare da questo.” Disse, accennando con la mano al bagno e all’acqua che ancora scorreva nella vasca.
“Questo non ha niente a che vedere con te, John.” La voce di Sherlock si era abbassata, e il viso era tornato alla solita espressione distaccata. “Assolutamente niente a che vedere con te.”
“Neanche i miei soppressori hanno a che vedere con te… però sai che li assumo.”
“È diverso.” Rispose Sherlock, sbrigativo.
“Perché? Perché tu hai potuto dedurre tutto di me, mentre io ho bisogno che tu mi parli di te, per conoscerti?” Chiese John, abbassandosi a chiudere l’acqua. Il silenzio prese il posto dello scrocio costante, e i due rimasero immobili per qualche secondo.
“No. Perché che io assuma o non assuma Soma non cambia assolutamente niente al fine della tua incolumità. Ed io non ho bisogno che la gente sappia di me più di quel che voglio far conoscere. Non mi spaventa la solitudine, John. La solitudine ti protegge.”
“Lo so bene.” Rispose l’altro. “Dio solo sa se esiste qualcuno che lo sappia meglio di me. Ma sai una cosa? Quando mi hai chiesto di venire qui, e mi hai detto che sarei potuto essere me stesso, in questo posto… beh, è stato incredibile scoprire quanto fosse stato ingombrante il peso del silenzio fino a quel momento. Con gli altri, alle volte anche con me stesso.”
“Non capisco.” Rispose Sherlock, secco.
“Sto solo dicendo…” John si guardò intorno, in cerca delle parole adatte. “Sto solo dicendo che puoi essere te stesso, con me. Se ti va. Non giudicherò mai, giuro. Magari potrò avere qualche “sussulto” da medico, o preoccuparmi, ma-“
“Non ho bisogno che qualcuno si preoccupi per me.” Sherlock si voltò verso il corridoio, fermandosi dopo un paio di passi. “Ma credo di aver capito cosa stai cercando di dire. Ad ogni modo mi sarei svegliato da solo fra circa venti minuti.” Disse, senza girarsi. “Assumo solo dosi controllate di Soma. Ma…” John vide la testa di Sherlock inclinarsi da un lato, e immaginò che stesse cercando di trovare le parole adatte. “Ma grazie comunque, John. Visto come ti ho trattato in quel vicolo avresti potuto tranquillamente lasciarmi in camera in preda a quella che ritenevi una possibile overdose. Ma immagino che l’istinto del medico sia più forte di ogni cosa, giusto?” Concluse, voltando appena la testa di lato, quanto bastava affinché John potesse distinguere il leggero sorriso che gli stava increspando le labbra.
“Il mio giuramento mi obbliga a salvare anche gli Alpha boriosi e stronzi, sì.”
Confermò John, con una punta di soddisfazione nella voce.
Sherlock annuì, e si riavviò verso la sua camera senza aggiungere altro, lasciando dietro di sé una scia lievemente dolciastra.

Note:
[1] Frase tratta dall'opera "Il mondo nuovo" di Aldous Huxley che descrive le diverse capacità del Soma a seconda della quantità assunta.

Il soma, nel romanzo come in questa storia, è una droga.
 
Nell'opera di Huxley è una sostanza euforizzante, priva di qualsiasi effetto collaterale sgradevole (se non quello di accorciare la vita di qualche anno), prodotta in forma di compresse da mezzo grammo, aggiunta alle bevande e - quando necessario per sedare situazioni di disordine pubblico - spruzzata nell'aria come aerosol.
 
Attraverso il soma, distribuito gratuitamente dallo Stato a tutti i cittadini sin dall'infanzia, ed il condizionamento cerebrale pre- e post-nascita, viene realizzato l'ideale utopico di un mondo in cui in nome della stabilità sociale viene bandita qualsiasi forma di sofferenza, a partire da quella generata dai vincoli familiari e amorosi, non più previsti nella società descritta nel romanzo.

Nella mia idea (e nella storia) è qualcosa di simile, ma pensata per essere somministrata su richiesta (dell'Omega stesso o del suo Alpha) ai soli soggetti Omega, al fine di render loro più "sopportabile" la propria condizione qualora la ritenessero troppo dura. È una droga a tutti gli effetti, e ha risvolti potenzialmente più pericolosi rispetto a quelli descritti nel libro (che chiaramente chi governa tende a minimizzare, per ovvie ragioni.) Va da sé che un Alpha (come nessun altro, in realtà) dovrebbe assumerla, in quanto potenzialmente letale e altamente distruttiva nel lungo periodo.
Insomma, Sherlock doveva avere i suoi problemi di dipendenza anche qui, chiaramente, ma non volevo che fosse la solita morfina o eroina. AU diverso, dinamiche diverse, droghe diverse. ^_^

Angolo dell'autrice:
Inizialmente i due pezzi separati dall'asterisco dovevano essere due capitoli diversi, ma mi sembrava ingiusto separarli, quindi ho finito col pubblicarli assieme, anche per rendere il capitolo un po' più sostanzioso.
Non so se sia per via della settimana di febbre alta, con tutto quello che ne è conseguito a livello fisico (e mentale), o se per altri fattori (vari), ma oggi pubblico con un po' di titubanza. Mi sta nascendo qualche dubbio sulla storia, temo di non riuscire a darvi quello che ci si aspetterebbe da una Omega!verse. Procedo molto lenta, me ne sto rendendo conto, e forse chi legge un AU come questo si aspetta ben altro. Non so.

Ad ogni modo spero che il capitolo vi sia piaciuto, e come sempre vi ringrazio per aver letto fin qui. :)
Un saluto a tutte/i. ^_^

B.
 

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Capitolo 12
*** Istinti ***


“Allora, pensi di potermi dire adesso cosa diavolo stessi facendo in quel vicolo?”
Domandò John un’ora dopo, posizionando un piatto contenente una fetta di pizza da asporto davanti agli occhi di Sherlock, seduto in poltrona.
L’altro guardò con aria nauseata il cibo, e scostò il piatto con una mano.
“Avanti. Mangia. Già a cose normali dovresti fare pasti più regolari. Dopo aver assunto Soma, poi-“  iniziò il medico, riposizionando la pizza esattamente sotto il naso di Sherlock.
“Dopo aver assunto Soma, John, bisogna reintegrare i liquidi, non necessariamente ingerire cibo dall’aspetto dubbio.”
“Oh per l’amor del cielo.” John prese il piatto e lo posò con gesto stizzito sulle gambe di Sherlock. “Mangia e basta.”
Prese quindi il suo piatto dalla cucina e andò a sedersi sulla poltrona di fronte a quella dell’Alpha.
Da quando si era trasferito Sherlock non si era più seduto lì, e con un tacito accordo mai espresso a parole, quella era diventata “la poltrona di John”. Non aveva il suo odore, non avrebbe potuto, ma gli piaceva pesare che, in qualche modo, portasse una sua traccia impressa sulla stoffa, tra le pieghe del tessuto.
Era un pensiero consolante, e lo faceva sentire ancor più “a casa”.
Sherlock alzò il trancio di pizza e se lo fece ondeggiare davanti agli occhi, assumendo un’aria stomacata. Lanciò un’occhiata supplichevole a John, che di tutta risposta diede un bel morso alla sua fetta, masticandola con aria soddisfatta.
“Ho capito…” si arrese Sherlock, sospirando. Si portò la punta tra i denti e ne staccò un piccolo pezzo, iniziando a rigirarsela lentamente in bocca.
“Stavamo dicendo… Il vicolo.” Lo incoraggiò John, accompagnando le parole con un gesto della mano. “Chi era quel tizio? Perché eri lì?”
“La mia rete me lo aveva indicato come presente sulla scena del secondo suicidio.” Rispose semplicemente Sherlock, dando un altro piccolo morso alla pizza, cercando di non farsi vedere.
“La tua cosa?” chiese John, lanciandogli un’occhiata divertita: era chiaro che il cibo gli stesse piacendo, anche se non l’avrebbe mai ammesso.
“Rete, John. La mia rete. Beta reietti, per lo più.” Ripeté l’altro con tono annoiato.
Il medico smise di mangiare, facendosi serio in volto.
“Reietti.” Ribadì, per essere sicuro di aver capito bene.
“Sì. Esatto. Beta. Emarginati. Gli Alpha hanno una rete sociale molto forte, è raro che qualcuno possa finire in disgrazia. Gli Omega hanno quasi sempre un familiare prima, un Alpha dopo, a prendersi cura di loro. I Beta, invece…Beh, può accadere che per vari motivi si ritrovino ai margini della società. Non li si vede spesso in giro, tendono a nascondersi e ghettizzarsi, ma sì, esistono.”
John rimase in silenzio, soppesando le parole di Sherlock.
“Ho sempre pensato che fossero loro i più fortunati, tra tutti…” sussurrò poi, più rivolto a se stesso che a l’altro.
“E perché mai?” Il detective parve genuinamente sorpreso. “Agli occhi di chi governa sono poco più che numeri, meccanismi senz’anima che mandano avanti la macchina dello Stato, mantenendola operativa e ben oleata. Sono sostituibili, ed è raro che un Alpha scelga un Beta come compagno. Non hanno praticamente alcun appoggio, nel momento in cui dovessero trovarsi soli e senza lavoro.” Sherlock diede un altro piccolo morso alla pizza, e posò gli occhi su John, trovandolo assorto nei propri pensieri.
“Ne ho sempre fatto una questione di scie e libertà di scelta individuale…” Cercò di spiegare il medico, alzando gli occhi sul viso del coinquilino.
“Non mi sorprende. Hai passato la vita a nascondere il tuo odore e la tua Determinazione, è più che comprensibile che per te sia il primo metro di valutazione della qualità di vita di chi ti è accanto. Ma non esiste solo questo, John. Non siamo mera usta [1], per quanto ai più piaccia crederlo, per dare una giustificazione ai propri istinti.”
Sherlock attese di vedere il medico rilassare i muscoli delle spalle, e lo osservò lasciarsi andare con un sospiro profondo contro lo schienale.
“Inizio a pensare di non aver mai capito niente…” mormorò John mestamente, spostando il piatto dalle gambe al bracciolo della poltrona, dove lo lasciò in equilibrio precario.
“Non dubitare di nulla è il mezzo più sicuro per non sapere mai niente.” Recitò Sherlock, ripescando dalla propria memoria un aforisma di Multatuli, scrittore olandese di metà ottocento che aveva sempre apprezzato. “Non mi sembri il tipo di persona che non ha mai messo in dubbio niente. Sono sicuro che ti sei fatto più domande sulla nostra realtà tu, di chi dovrebbe farlo per amministrarci.”
“Ciò non toglie che per una vita mi sono dato solo risposte sbagliate, a quanto pare.” John si alzò in piedi, ed il piatto ondeggiò pericolosamente.
Si portò due dita all’attaccatura del naso, e chiuse gli occhi con un sospiro profondo.
“Non importa, adesso. Dimmi di quell’uomo.” Disse a Sherlock, mantenendo gli occhi chiusi per qualche secondo e respirando lento aria e odore del detective. Ogni sfumatura gli sembrava più acuta, più netta, da quando aveva dovuto seguirne la scia tra i vicoli, e senza neanche rendersene conto riprese a catalogarne i vari aspetti. Sherlock era stato crudele, in quel cortile, e non avrebbe mai più provato a seguire il suo odore per ritrovarlo, ma sentiva la necessità di continuare ad immagazzinare quante più note possibili.
Sherlock rimase a osservarlo con interesse, guardando attento il petto dell’uomo di fronte a lui alzarsi e abbassarsi regolarmente. Combatté l’impulso di intensificare la propria scia per vedere se avrebbe ottenuto un mutamento nella frequenza dei respiri dell’altro, e si voltò verso il caminetto, osservando il fuoco danzare attorno ai ceppi ardenti.
“Come dicevo… - Sherlock si schiarì la voce, portandosi una mano chiusa a pugno davanti alla bocca – la mia rete mi aveva segnalato quell’uomo come presente nei pressi dell’abitazione della donna. Un paio di loro mi hanno detto che lo avevano visto gettare qualcosa tra i rifiuti, qualche strada più avanti. Ho controllato: c’erano due bombolette spray all’interno del cassonetto che mi avevano indicato.”
John spalancò occhi e bocca e si girò verso Sherlock.
“Mi stai dicendo di aver trovato un indizio fondamentale e di non averlo segnalato alla polizia?!” Domandò, sgomento.
“Ma quale importante! Quell’uomo era importante!” Rispose secco l’altro, alzandosi di scatto e aggirando la poltrona.
“Certo che lo era! È un omicida!” John era assolutamente allibito, e il suo tono di voce tradiva sorpresa e disappunto. “Conoscevi l’identità del killer e hai deciso di seguirlo da solo?! Ma perché?! È assurdo!”
Sherlock lanciò uno sguardo con la coda dell’occhio a John, immobile con le braccia lungo i fianchi, palmi in su.
“Non è il killer, John. È solo una pedina. Ma non nascondo che ci sarebbe tornato utile, se non fosse scappato.” Rispose semplicemente, chinandosi a recuperare il violino dalla propria custodia.
“Non era… come sarebbe non era l’assassino? Ha scritto lui o no quella frase?!”
“Certo che sì.” Sherlock si appoggiò il violino alla spalla e imbracciò l’archetto.
“Ha scritto quella frase ma non è l’assassino.” Ripeté John, per essere certo di aver capito bene.
“Ancora una volta, sì, John. Proprio così.”
Una sinfonia lenta e triste iniziò a spargersi per la stanza.
“E questo te l’hanno detto i tuoi Beta.” Continuò John, osservando il braccio di Sherlock muoversi al ritmo della melodia e della sua scia, improvvisamente stemperata.
“Questo me lo hanno detto i fatti.” Si limitò a rispondere l’altro, facendo un passo verso la finestra senza smettere di suonare.
“Ed i fatti sarebbero?” Domandò John, pazientemente, tornando a sedersi sulla sua poltrona e riappoggiando il piatto sulle gambe.
“Che era solo un Beta in cerca di un po’ di soldi per procurarsi una dose di Soma. Uno dei tanti reietti di cui parlavamo. Troppo impulsivo, troppo poco lucido, per essere uno che si siede al capezzale di una donna e aspetta che muoia per delle ore.”
“Quindi doveva essere un diversivo.” Commentò il medico, sistemandosi meglio sulla seduta e dando nuovamente un morso alla sua pizza.
“Doveva essere un capro espiatorio, in caso ce ne fosse stato bisogno.”
I due rimasero in silenzio per qualche secondo, e tra loro ci fu solo la musica malinconica di Sherlock.
“Lo hai già detto a Greg?” Domandò poi John, rompendo il silenzio.
Sherlock fece cenno di no con la testa, un movimento minimo, quanto bastava a render chiara la risposta senza staccarsi dallo strumento.
Per alcuni minuti, nessuno dei due parlò più.
Fu Sherlock a riprendere la parola, e fu come se la sua domanda sgorgasse da un filo di pensieri che non aveva mai abbondonato.
“Hai seguito la mia scia, in quel vicolo, vero?” Chiese, senza voltarsi e senza fermare la musica.
John, che nel frattempo si era lasciato andare contro lo schienale e aveva chiuso gli occhi, si sentì avvampare.
“Io…” cominciò, senza sapere bene cosa dire.
“Notevole.” Lo bloccò l’altro, senza tradire alcuna emozione nella voce e nella scia.
“Non avrei dovuto dirti quella cosa. È stato meschino.” Buttò lì, quasi con noncuranza, e si sorprese a scoprire di star trattenendo il fiato, dopo averlo detto.
Lasciò uscire tutta l’aria e sperò che John non se ne fosse accorto.
“Non importa. Hai ragione, in fondo. Siamo praticamente due estranei. Non devi dirmi dove vai.” Rispose l’altro, tornando a chiudere gli occhi.
Sherlock continuò a suonare per alcuni minuti, seguendo con la musica il filo dei propri pensieri. Alcune immagini di quanto aveva visto durante l’ultima assunzione di Soma emersero insieme alle note e, ancor prima di capire perché, si trovò a chiedere a John: “Hai mai pensato a come sarebbe la tua scia, se non assumessi inibitori?”
“Liquirizia e cannella.” Rispose il medico di getto, pensando ai due bambini nel vicolo, e gli venne da ridere.
Il detective smise di suonare, e si voltò verso di lui con un sopracciglio alzato.
“No, no, lascia perdere, era una sciocchezza!” Gli disse John. “In verità non lo so proprio. Non c’ho mai pensato. Tu come pensi sarebbe?” Domandò, senza pensarci.
Sherlock lo osservò per qualche secondo, indeciso se rispondere o meno. Alla fine imbracciò nuovamente il violino e tornò a rivolgersi alla finestra.
“Arance, menta e lavanda.” Rispose, con tono distaccato.
John succhiuse la bocca per la sorpresa, e rimase immobile a osservare il coinquilino ondeggiare insieme alle note che erano tornate a riempire la stanza.
“Davvero?” Disse, ma Sherlock non diede segno di voler aggiungere altro. “Beh… ok. A me sta bene. Adoro la menta e la lavanda. Dovrei farmi fare un profumo così, che ne dici?” Chiese, cercando di smorzare la tensione che sentiva essersi creata.
“Sarebbe assurdo.” Rispose secco l’altro, alzando di poco il suono del violino.
“In effetti.” John si lasciò andare di nuovo contro lo schienale, e chiuse gli occhi.
“Sei andato a colpo sicuro al quarto cassetto della mia cassettiera, quando mi hai trovato. Ho visto che è stato l’unico cassetto che hai aperto. Mycroft?” Chiese quindi il detective, dopo qualche altro minuto di silenzio.
“Mhm mhm”, annuì l’altro, senza muoversi dalla sua posizione. La musica lo stava rilassando, e non voleva rischiare di perdere la sensazione di pace che sentiva muoversi lungo le vene.
“Come ti è parso?” Continuò Sherlock, voltandosi verso John senza fermare la musica.
Lo osservò aggrottare le sopracciglia e schiudersi in un sorriso, mantenendo le palpebre abbassate.
“Mi sembra che essere boriosi sia un tratto familiare.” Cominciò lui, aprendo un occhio per guardare in direzione del detective, che si affrettò a tornare viso alla finestra.
“Ma mi sembra anche genuinamente preoccupato per te. E non ha tutti i torti. Il Soma può essere molto pericoloso, e-“
Sherlock alzò ancora il tono della musica, fino a coprire del tutto la voce del medico.
John lo guardò per qualche secondo, corrucciato. Alla fine si arrese.
“OK!” Gridò, cercando di farsi sentire. “HO CAPITO!”
Sherlock tornò a suonare con più calma, e John chiuse di nuovo gli occhi.
Arance, menta e lavanda, pensò, cercando di immaginarla. Ancora concentrato sul mettere a fuoco la propria potenziale scia, non si accorse che la stanchezza di era fatta prepotente su i suoi occhi. Si addormentò con l’immagine del proprio odore che finalmente reclamava qualcosa per lui: lo vide avvolgere come una carezza la poltrona sulla quale era seduto e, lento, spingersi poco più in là, verso l’uomo che l’aveva “creato”. Sorprendentemente, non provò paura, né vergogna, solo curiosità per quella scia quasi reale che vedeva muoversi per la stanza, tra loro.
Sherlock, nuovamente girato verso di lui, osservò il sorriso leggero che stava nascendo su le labbra del medico e virò la musica su toni più morbidi, improvvisando una nenia. Quando si rese conto, dopo svariato tempo, di star praticamente suonando al ritmo del respiro ormai lento e regolare dell’altro, si fermò, lasciando cadere lo strumento su la poltrona. Serio, un’epressione tesa sul volto, superò il salotto e andò a chiudersi in camera sua.

[1] Usta: odore caratteristico che gli animali selvatici lasciano sul terreno e che è seguito dai cani da caccia.
Non essendo esattamente un termine di uso "comune", ho preferito lasciarvi la nota. ^_^ 

Angolo dell'autrice:
Per prima cosa, GRAZIE. Un grazie enorme, gigante, a tutte voi. Mi avete riempito di parole meravigliose, di mp, di commenti splendidi. Non mi sarei MAI aspettata tanto in risposta al mio piccolo sfogo, e davvero... non so come rendervi a parole quanto bello sia stato leggervi, nessuna esclusa.

Detto questo... eccoci qui. Un altra piccola parte di questa società si scopre, un piccolo passo avanti viene fatto da Sherlock (anche se, appena se ne rende conto, molla tutto e fugge. Direi che comunque ci possiamo accontentare. XD) 
In questo caso credo che sia il gesto (anzi, il paio di gesti che compie) siano dovuti ad una parte di "istinto" che è comunque presente dentro di lui per quanto non lo voglia né vedere né accettare. Sherlock è straordinario, ma resta comunque un Alpha in presenza di un Omega, e alcuni comportamenti potrebbero essere visti come "ancestrali", anche in assenza di scia dell'altro. C'è anche da dire che sicuramente in un contesto come questo il detective faticherebbe non poco (ed infatti fatica) a distinguere cosa sia dettato dell'istinto puro, e cosa da una sua eventuale e "spontanea" attrazione per John, qualunque siano i fattori che la potrebbero determinare.
Insomma, abbiamo fatto un piccolo passo avanti, che però si porta dietro una valanga di problemi più grossi e domande più complesse... come dire: siamo messi bene. XD
Quindi, al solito... armatevi di taaaanta pazienza. Intanto nel prossimo capitolo torneremo su la scena di un crimine. 

Come sempre grazie mille per aver letto fin qui. Mi permetto di mandare un abbraccio a tutte. Così, anche se sono ancora "parzialmente infettiva." XD

B.

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Capitolo 13
*** Tre e quattro e cinque e sei ***


Un enorme cigno bianco nuotò lento in direzione della riva. Uscì dal lago agitando le ali per liberarle dall’acqua ed emise un paio di versi acuti, muovendo qualche passo in direzione del gruppo di persone che si erano radunate intorno al punto più isolato del Round Pond, il bacino artificiale nella parte ovest dei Giardini di Kensington.
Un altro paio di cigni lo seguirono, rispondendo ai suoi richiami.
“Sciò! Sciò!” Il sergente Donovan - capelli in disordine e viso tirato e stanco di chi è stato buttato giù dal letto da una telefonata improvvisa nel cuore della notte - allargò le braccia ed iniziò a muoverle cercando di allontanare gli uccelli il più possibile dal nastro di delimitazione della scena del crimine che stava cercando di sistemare.
“Perfetto, ci mancavano solo queste stupide bestie!” Sbuffò, facendo qualche passo nella loro direzione e continuando ad muoversi scompostamente. “ANDATE. VIA!” Gridò, mentre alle sue spalle venivano sistemate le ultime luci artificiali. Un suono metallico, un lieve ronzio, ed una luce potente illuminò il terreno dietro di lei.
I cigni si allontanarono in modo disordinato ed in direzioni diverse, spaventati dal chiarore improvviso. La donna si passò una mano tra i capelli, cercando di scostarli dal viso, e tornò verso il nastro. Si chinò per recuperare il rotolo finito a terra e lanciò uno sguardo al terreno che stava delimitando, riuscendo finalmente a vederlo in modo distinto.
“Cristo santo…” esalò, bloccandosi.
L’ispettore Lestrade, in piedi al di là del cordone di sicurezza insieme ad altri agenti, si passò una mano sul viso ed indugiò con le dita sulla fronte per qualche attimo, massaggiandosela con movimenti ripetitivi e circolari. Un poliziotto, dall’aspetto una giovane recluta, corse più velocemente possibile oltre in nastro e cadde in ginocchio vicino al sergente Donovan, scosso dai conati. Dopo aver smesso di vomitare si lasciò andare a terra, seduto. Cercava in ogni modo di non guardare il corpo che giaceva vicino alla riva, lambito dall’acqua, ma più provava a far vagare il suo sguardo altrove, più qualcosa lo spingeva a tornare con gli occhi su tutto quel sangue e pezzi di carne che una volta dovevano essere stati il viso dell’uomo a terra.
Donovan finì di legare il nastro ai pali che avevano piantato lungo il perimetro, e lo superò, affiancandosi a Lestrade. Si portò una mano alla bocca, cercando di non respirare con il naso e di filtrare l’aria attraverso le dita, ma il sangue era talmente tanto che le sembrava di riuscire a masticarlo.
Un fiotto di nausea le risalì la gola, ma lo ricacciò indietro, deglutendo più volte.
“Era decisamente meglio quando non si vedevano così… così tanti dettagli.” Boccheggiò. “Ha già chiamato Sherlock Holmes?” Domandò al suo superiore, con voce flebile.
“Ho mandato un agente a Baker Street.” Rispose lui, annuendo.
“Chiunque sia stato, deve essere completamente pazzo.” Affermò la donna, lasciando andare lo sguardo lungo l’intera scena del crimine. “Questo va oltre l’essere deviati.”
“Greg.” La voce di Mike Stamford li chiamò da oltre il nastro. Un agente lo aveva fermato e si era voltato in attesa dell’autorizzazione da parte dell’ispettore.
“Mike! Ok, Ross, fallo passare. È il coroner.” Lestrade fece un cenno con la mano al poliziotto, e quello annuì, alzando il nastro per permettere al medico legale di passare.
“Dio del cielo!” Si lasciò scappare lui, una volta arrivato abbastanza vicino. “Direi che posso fare la mia analisi preliminare anche da qui!” Aggiunse, osservando il corpo con occhi spalancati.
“Non lo dubito. Ma ho comunque bisogno che gli controlli le tasche.” Disse l’ispettore, avvicinandosi e appoggiandogli una mano sulle spalle.
“Ah, sì, giusto, la solita storia che nessuno può toccare il corpo prima del medico legale.” Sospirò Mike, avvicinandosi al cadavere e chinandosi su di lui. Si infilò i guanti di lattice e gli sbottonò il cappotto, cercando nelle tasche interne.
“Ecco qui.” Disse, estraendo un piccolo portafoglio di pelle scura e passandolo a Lestrade che, indossati i guanti a sua volta, lo prese ed aprì in cerca dei documenti.
“Thomas Rogers, impiegato della Sede Postale Centrale.” Lesse l’ispettore, portandosi la patente dell’uomo agli occhi e avvicinandosi ad uno dei fari.
“Ma cos’ha che non va la gente di questa città?!” Anderson - sguardo assonnato e un accenno di barba sul viso - appoggiò la valigetta per terra, al di là del nastro, e si chinò per superarlo.
“Bizzarro che sia tu a chiederlo.” Lo apostrofò Sherlock da poco lontano, con tono vagamente divertito. Era appena sceso da una volante, e si stava dirigendo verso il perimetro della scena del crimine affiancato da John.
L’uomo si limitò a ringhiare sommessamente, recuperando l’attrezzatura e lanciandogli uno sguardo torvo mentre si avvicinava.
Mike Stamford tornò in posizione eretta con un movimento goffo, aiutandosi poggiando le mani sulle ginocchia, e si fermò ad osservare l’uomo al fianco di John Watson con interesse. Erano decisamente una coppia strana, visti così, l’uno di fianco all’altro. La rappresentazione in carne ed ossa di un ossimoro, si sarebbe potuto dire. John, non molto alto, con un fisico ben proporzionato ed i capelli biondi tenuti in perfetto ordine dal taglio militare. Sherlock Holmes alto, esile al limite del poco salubre, con i capelli scuri agitati da un mare in tempesta di riccioli disordinati. Al medico legale venne da sorridere, nonostante lo scenario raccapricciante ai suoi piedi. Non aveva mai visto il suo amico camminare con tanta sicurezza come in quel momento, mentre il detective alzava il nastro per entrambi e attendeva che John lo superasse per farlo a sua volta.
“Mike.” Lo salutò John, aprendosi in un sorriso. Il coroner fece un cenno con la mano e gli andò incontro, sollevato dal potersi allontanare un attimo dal corpo steso a terra.
“Ti presento Sherlock Holmes.” Continuò il medico quando furono abbastanza vicini da poter procedere con le presentazioni. “Sherlock, lui è Mike Stamford, il…”
“Il medico legale.” Concluse per lui il detective, stringendo sbrigativamente la mano dell’uomo di fronte a lui per poi superarlo senza aggiungere altro.
“Sempre prima sulle nostre scene, eh, Alpha?” Sibilò Anderson, passandogli accanto pronto ad iniziare il lavoro di repertazione.
“Sta’ fermo.” Lo bloccò Sherlock, in tono perentorio. “Non. Muoverti. Non respirare, se possibile. Non provare neanche a pensare.”
“Ma che diav-“ ribatté l’altro, guardando prima Lestrade e poi Mike, che si era voltato e stava osservando la scena con un sopracciglio alzato.
“Non ti preoccupare, fa sempre così, ma non è poi così male quando impari a conoscerlo.” Gli sussurrò John, stringendogli rapidamente un braccio come a rassicurarlo, prima di affiancarsi a Sherlock e mettere a fuoco per la prima volta la scena del crimine nella sua interezza.
“Cristo Santo.” Si lasciò sfuggire dalle labbra, portandosi una mano alla tempia e massaggiandola con movimenti regolari, sovrappensiero.
“Una chiamata anonima.” Disse Lestrade, affiancandosi ai due. “Sul mio cellulare.” Specificò poi, cercando nella tasca del cappotto il pacchetto di sigarette che poche ore prima aveva acquistato imponendosi di non iniziarlo prima dell’ora di pranzo.
John lo osservò con la coda dell’occhio portarsi la sigaretta alla bocca ed accenderla, ma decise di non intervenire. Sapeva perfettamente che il suo amico stava tentando di smettere di fumare da qualche mese, ma sapeva distinguere senza ombra di dubbio quando qualcosa lo turbava al punto da fregarsene dei passi avanti fatti. Ed in quel caso, ne aveva tutte le ragioni.
“Bene, direi che la causa della morte è piuttosto lampante.” Cominciò Sherlock, avvicinandosi con attenzione al cadavere. “Da quanto potrebbe essere morto?” Domandò, voltandosi verso John e lanciando un’occhiata anche a Mike, ancora alle spalle del medico.
“Non è ancora in rigor mortis.” Affermò John, avvicinandosi e tastando un polso e poi il braccio dell’uomo a terra.
“La rigidità completa si ottiene tra le dodici e le ventiquattro ore…” Intervenne Mike. “Ma fa terribilmente freddo, qui fuori. L’ora della morte potrebbe falsata. E poi…”
“E poi sarebbe stato meglio se fosse rimasta almeno una piccola parte della testa.” Disse John, deglutendo un paio di volte mentre spingeva lo sguardo oltre l’ultimo punto riconoscibile del collo dell’uomo. “Il rigor mortis inizia sempre da mandibola e nuca , sarebbero stati un buon indizio… se ci fossero ancora.”
Sherlock annuì, facendo un passo indietro per poter vedere la scena nel suo complesso.
“È…” iniziò.
“Ti prego, non dire bellissimo.” Lo supplicò John, alzandosi.
“A suo modo trovo lo sia, sì. Ma in questo caso stavo per dire “strano”.” Gli rispose il detective, inclinando la testa da un lato.
“Beh, diciamo che non capita di sicuro tutti i giorni di trovare un uomo con la testa fracassata a colpi d’ascia in un parco pubblico, se è questo che intendi.” Lestrade lanciò il mozzicone oltre il nastro e tornò a voltarsi verso il corpo. “E di sicuro è la prima volta nella mia carriera che vedo usare come pennarelli sangue e materia cel… Dio, non riesco neanche a dirlo.” Concluse, scuotendo la testa.
“Perché non torni in ufficio e cerchi di far rintracciare il numero dal quale hai ricevuto la chiamata, se la nostra scena del crimine ti disturba tanto?” Lo apostrofò Sherlock, girandosi a guardarlo con un sopracciglio alzato.
“Guarda che è decisamente più normale essere a disagio davanti ad una cosa simile che non allegro come sembri essere tu.” Intervenne il sergente Donovan, una smorfia di disgusto ben dipinta sul volto.
“Mi dispiace se gli omicidi vi creano dei problemi. Pensavo foste della sezione crimini violenti, ma forse mi sono perso qualcosa.” Rispose Sherlock con una lieve inflessione canzonatoria nella voce.
“Ma davvero dobbiamo farci deridere da quest-“ Incominciò Anderson, ma venne fermato da un gesto della mano di Lestrade.
“Non mi interessa se ritieni che abbia lo stomaco troppo debole. Probabilmente è vero. Adesso quello che mi serve è trovare questo bastardo e chiuderlo nella cella più isolata della prigione più lontana del Paese. Va bene?” Domandò l’ispettore, guardando Sherlock.
“Certo.” Annuì lui, tranquillo. “È quello che sto cercando di fare.”
“Perché “strano”?” Intervenne John, avvicinandosi al detective.
“Mhm?” Domandò lui, continuando a spostare gli occhi sul corpo e sul terreno attorno a lui.
“Hai detto che è “strano.” Io direi macabro, orribile, malato… Ma strano…”
“Il modus operandi.” Rispose Sherlock, girando intorno al cadavere e avvicinandosi al punto in cui l’accetta era rimasta conficcata in ciò che rimaneva del viso. “Ha totalmente cambiato metodo. I serial killer non lo fanno praticamente mai, o comunque è un mutamento lento, protratto nel tempo. Solo ieri uccideva con veleno e sonniferi, ed oggi riduce la testa di un uomo a brandelli a colpi di scure?”
“Magari sono più d’uno.” Provò Mike.
“Magari ha usato un’altra persona anche per questo, come per la scritta sul muro.” Aggiunse John.
“Aspettate un attimo, quale altra persona per la scritta sul muro?!” Domandò Lestrade, spostando gli occhi da Sherlock e John e viceversa.
“Niente di importante.” Rispose il detective, guardando il medico con un’espressione di rimprovero.
“Niente Greg. Una sciocchezza.” Sospirò John, voltandosi verso l’ispettore. “Te ne parlerò dopo.” Lo rassicurò, abbozzando un sorriso e sentendosi leggermente in colpa.
Lestrade sospirò rumorosamente e annuì con poca convinzione.
“Comunque no. È sempre la stessa mano. Lui ama vederli morire, ne sono certo. È un esibizionista, non lascerebbe a nessuno la parte divertente.” Riprese Sherlock, tornando a guardare la scritta vicino a quel che rimaneva della testa dell’uomo, fatta col suo sangue.
“DIVERTENTE.” Ripeté Donovan, con tono scandalizzato.
Sherlock la ignorò, voltandosi a guardare il lago. Il vento ne increspava l’acqua, facendola arrivare a poca distanza dalle lettere rosso scuro, dense e cariche di grumi. Le parole erano piccole e fini, tracciate quasi sicuramente con un dito.
 
Tre e quattro e cinque e sei,
fossi in te io scapperei.
 
Lesse Sherlock ad alta voce.
“Comunque con questo dovrebbe aver chiuso il cerchio, no?” Chiese John, e Sherlock si girò lanciandogli un’occhiata interrogativa.
“Tre e quattro e cinque e sei”… “ Recitò il medico. “Il primo messaggio iniziava con i numeri sette, otto e nove, quindi…” Concluse, meno sicuro di quanto non fosse stato poco prima.
Sherlock sembrò riflettere sulle parole dell’altro per qualche secondo, e mantenne gli occhi fissi nei suoi per tutto il tempo, tanto che John iniziò a sentirsi leggermente a disagio.
“Fame?” Domandò infine il detective con tono serio, sbattendo un paio di volte le palpebre, come ad allontanare un pensiero troppo pesante, e cominciando ad avvicinarsi a John.
“Scusa?” Rispose lui, spaesato.
“Sono le cinque del mattino. La nostra cena, ormai diverse ore fa, è consistita in un pezzo di pizza da asporto. Ho chiesto se hai fame.” Ripeté l’altro, leggermente spazientito.
“Io…” John si voltò verso Greg, che osservava Sherlock con occhi sgranati. “Forse un po’, sì, ma… non mi sembra propriamente il momento.”
“Qui abbiamo finito, abbiamo visto tutto quello che c’era da vedere. Ho bisogno di riflettere, e tu di nutrirti. Dai, andiamo.” Concluse con naturalezza, avviandosi verso il nastro e tenendolo alzato in attesa che John decidesse di superarlo.
Il medico lanciò un’occhiata di scuse all’ispettore, che fece segno in modo rassegnato di andare, e passandogli accanto diede una rapita pacca sulle spalle a Mike, che gli sorrise facendo l’occhiolino.
Anderson, mormorando fra sé e sé, infilò i guanti e iniziò il suo lavoro.
“Se non servo più, andrei anch’io…” Disse il coroner solo qualche attimo dopo, guardando Sherlock e John allontanarsi e sparire inghiottiti dall’oscurità del parco.
“Sì, certo. Ti faccio avere il corpo prima possibile.” Gli rispose Lestrade, facendo un passo verso di lui.
“Che ne pensi?” Gli domandò Stamford, a voce bassa, chinandosi a raccogliere la borsa da lavoro.
“Che prima fermiamo questo squilibrato, meglio è.” Rispose Greg.
“Ma no! Di John e quell’uomo. Voglio dire, a me sembrano affiatati. No? E poi non l’ho mai visto tanto a suo agio con qualcuno. Mi piacciono.” Concluse il coroner, accennando un sorriso.
“Non saprei… Ma se va bene a John, va bene a me.” Disse l’ispettore, sbrigativo, voltandosi a guardare l’uomo della scientifica che aveva cominciato a scattare le foto.
“Quello sempre.” Annuì Mike, portandosi al di là del perimetro di sicurezza.
“Ci vediamo in laboratorio.” Terminò, ricevendo in risposta da Lestrade un semplice cenno con la mano, dato che si era già voltato e stava tornando controvoglia verso il corpo per dirigere l’operato dei suoi uomini.

Angolo dell'autrice:
"Fame?" Perché diciamocelo, Sherlock sceglie sempre i momenti migliori per fare proposte del tutto inappropriate.
E quindi eccolo qui, il nostro terzo omicidio. Decisamente più cruento (e per la gioia di CreepyDoll, abbiamo avuto la scritta col sangue XD) e "disturbante". Il killer cambia modo di agire ma non rinuncia a lasciare in giro pezzi della sua poesia macabra. 
La cosa si sta facendo più "pericolosa" anche per lui, che è passato dal commettere omicidi "puliti" e in luoghi chiusi, ad un'esecuzione in piena regola in un luogo aperto e di pubblico accesso.
Chissà se ha ragione John, e con questo "il cerchio si chiude".

Come sempre vi ringrazio per aver letto. Un grazie particolare a chi ha inserito la storia in una delle tre categorie (a seguirla siete ormai più di settanta, ho un brivido ogni volta che vedo quel numero crescere!) e a chi trova sempre un po' di tempo per lasciare una parola nei commenti. Ne escono fuori spunti di discussione utilissimi e, come ormai avrò ripetuto fino allo stremo, adoro confrontarmi con voi. 
Se voleste farmi sapere come state trovando la storia (mi rivolgo a chi non ha ancora espresso il suo parere ^_^) mi farebbe davvero piacere.

A partire dal prossimo capitolo ne avremo due/tre molto incentrati sul rapporto Sherlock/John. :)

Un saluto a tutte/i e a presto!
B.

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Capitolo 14
*** Azioni e reazioni ***


“Allora. Qual è il piano?” Domandò John quando furono abbastanza lontani dalla scena del crimine, lanciando un’occhiata veloce a Sherlock che camminava lento accanto a lui, sguardo serio e scia immobile.
“Mhm?” Domandò quello, dando l’idea di averlo sentito a malapena.
“Il piano. Immagino tu mi abbia trascinato via per iniziare una delle tue “indagini parallele”, dico bene?” Ripeté John, alzando un sopracciglio.
“Pensavo di aver espresso in modo abbastanza chiaro il motivo per il quale ce ne stavamo andando.” Rispose l’altro, assumendo un’aria sorpresa.
“Mi stai dicendo che tu, Sherlock Holmes, l’uomo capace di dimenticarsi di mangiare per giorni sta andando davvero a fare colazione?!” Chiese John, senza riuscire a trattenere lo stupore. “Sul serio?” Domandò nuovamente, e Sherlock si lasciò scappare un lungo sospiro, alzando gli occhi al cielo.
“TU, stai per fare colazione.” Rispose, calcando il più possibile la voce sulla prima parola. “IO, devo pensare.” Concluse, continuando a camminare e mantenendo lo sguardo dritto davanti a sé.
“Non vedo il legame tra le due cose.” Ammise John dopo un po’, mentre uscivano attraverso uno dei cancelli del parco. “Tra il mio pasto e il tuo dover pensare, dico.”
“Non tutti i collegamenti tra cose e persone sono semplici linee rette, John.” Rispose Sherlock, attraversando la strada ed aumentando il passo. “Ma una cosa resta una costante, nelle esperienze che ognuno di noi compie quotidianamente.”
“E sarebbe?” Il medico aveva velocizzato l’andatura a sua volta, e si era portato nuovamente accanto al detective.
Sherlock si bloccò, girandosi a guardarlo. John si fermò a sua volta, ricambiando lo sguardo con aria interrogativa.
Il detective scattò quindi in avanti, cercando di colpirlo al viso con una mano. Il medico si piegò di lato, istintivamente, e deviò il colpo con il dorso della sua.
“Sei impazzito?!” Gli domandò quindi, tornando il posizione eretta, ricevendo in cambio un sorriso compiaciuto.
“Quello che non cambia mai, dottore, è che ad ogni azione corrisponde una reazione.”
Disse, allegro, girando velocemente su se stesso e riprendendo a camminare.
“Certo.” Sentì dire alle sue spalle. “Adesso è decisamente tutto molto più chiaro.”
Pochi passi coperti con una leggera corsetta, e John era nuovamente al suo fianco.
“Certe persone sono come catalizzatori.” Gli disse Sherlock, accennando un sorriso in direzione della caffetteria che era appena comparsa dietro l’ultimo angolo che avevano svoltato. Un cartello, rosso e dorato, recava la scritta “Aperto 24/24”.
“Non hanno reazioni proprie, ma con le loro azioni ne creano negli altri.” Continuò il detective, fermandosi davanti alla porta a vetri bianca. “Tu, John, sei il mio “fattore accelerante”. La mia mente lavora perfettamente anche in tua assenza, sia chiaro. Ma poi dici quella determinata frase, in quel dato momento e… ed è come se mi aiutassi a pensare più in fretta.”
Sherlock aprì la porta ed entrò, mantenendola aperta per far entrare John a sua volta.
“Davvero?!” Chiese il medico, seguendo l’altro che, dopo un rapido cenno di saluto alla donna dietro il bancone, si stava dirigendo verso uno dei tavoli liberi.
“E quando lo avrei fatto, ad esempio?” Domandò scettico, accomodandosi su una delle panche color pastello.
“Nella camera da letto della signora Rogers, ad esempio. Quando hai detto che per morire in quel modo ci sarebbe voluta molta determinazione e delle ore.” Rispose Sherlock, semplicemente, passando a John entrambi i menù sul tavolo. “Questo mi ha permesso di capire praticamente subito che l’uomo visto fuori dall’appartamento della mia rete non avrebbe potuto essere l’assassino. Oppure…” Il detective si voltò a richiamare l’attenzione di uno dei camerieri, che si avvicinò lento al loro tavolo. “Poco fa, quando hai asserito che quello doveva essere l’ultimo omicidio, perché chiudeva il cerchio della numerazione.” Sherlock alzò lo sguardo sul ragazzo che era arrivato a prendere l’ordinazione e gli rivolse un sorriso sbrigativo. “Un caffè, per favore. E per il signore…” Si girò verso John, che aveva appena aperto il menù ma non aveva fatto in tempo a leggere ancora nessuna pietanza.
“Un caffè andrà benissimo anche per me.” Sospirò. “E una fetta di torta di mele, se disponibile.” Aggiunse, passando i menù con un sorriso al cameriere, che si limitò ad annuire, serio. Prese i menù e lanciò un ultimo sguardo a Sherlock, veloce, arrossendo leggermente.
John percepì distintamente la scia del ragazzo - sicuramente Omega e non molto lontano della completa maturità sessuale - acuirsi mentre si allontanava, e si trovò ad arrossire in risposta a quella reazione ormonale non sua, vergognandosene un attimo dopo.
Alzò gli occhi su Sherlock, pregando che non si fosse accorto di nulla, e si sorprese a sperare che non avesse fatto caso neanche al comportamento del giovane cameriere.
Trovò il detective intento a comporre velocemente un qualche messaggio sul telefono, apparentemente ignaro di ogni cosa attorno a lui, e si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo.
Sherlock alzò gli occhi dallo schermo, assumendo un’aria interrogativa.
“Tutto ok?” Chiese, muovendo lo sguardo sul volto dell’altro.
John ringraziò mentalmente gli inibitori per aver azzerato la sua scia che, ne era sicuro, se non fosse stata tenuta sotto controllo dai farmaci adesso avrebbe mostrato mille sfaccettature diverse, nessuna delle quali di suo gradimento.
“Sì. Tutto bene.” Rispose, fin troppo velocemente, tanto che Sherlock intensificò il suo sguardo, sicuro a quel punto che qualcosa non andasse.
“Sono solo un po’ stanco, tutto qui. E piuttosto turbato da quel che abbiamo visto poco fa.” Cercò di giustificarsi, sporgendosi poi in avanti sul tavolo e fingendo di leggere cosa Sherlock stesse digitando. “A chi scrivi?” Domandò, sperando di riuscire finalmente a far distogliere al detective gli occhi dal suo viso.
Sherlock gli lanciò un ultimo sguardo, serio, poi tornò a dedicarsi al telefono.
“Lestrade. Mi faccio mandare le generalità dell’uomo.” Rispose, finendo di digitare e appoggiando infine il cellulare sul tavolo.
“Allora, come procediamo?” Domandò John, sentendo un misto di preoccupazione ed eccitazione iniziare a risalirgli lungo le vene.
“In nessun modo preciso. Parliamo del caso. Basterà.” Rispose Sherlock, con noncuranza, lasciandosi andare contro lo schienale della propria sedia.
“Ok. Iniziamo con ordine, allora.” Acconsentì John, mentre con la coda dell’occhio seguiva i movimenti del loro cameriere, in piedi accanto al bancone. Non riusciva a trovare un solo motivo razionale per farlo, ma sentiva di doverlo osservare. Di dover essere “pronto”, quando sarebbe tornato. La cosa lo disturbava profondamente, ancor più dato che non riusciva a trovare una buona giustificazione a quell’impellenza, ma non era in grado di sottrarsi comunque a quella parte del suo istinto che lo stava praticamente obbligando a non perdersi un solo gesto del ragazzo.
“Sì. Partiamo dalle basi.” Sherlock aprì il tovagliolo di carta che aveva davanti a sé, piegato in una forma che lo faceva assomigliare vagamente ad un fiore, ed estrasse una penna dalla tasca interna del cappotto.
“Direi che le basi sono le vittime.” Disse, iniziando a tracciare una griglia sul tovagliolo con mano ferma. “Anthony Marston, Alpha Minus.” Sillabò, trascrivendo il nome sul tovagliolo.
“Molly Rogers, Omega Plus.” Continuò John, segnando “due” con le dita, come a tenere il conto.
“E…” Iniziò Sherlock, mentre il suo cellulare emetteva un trillo acuto. “Thomas Rogers, Beta Minus.” Scrisse, dopo aver letto il messaggio di risposta di Lestrade.
“Direi che almeno su un punto possiamo già avere una certezza: non è una questione di “ceto”.” Sentenziò il detective, dopo aver dato un’occhiata d’insieme ai nomi sul tovagliolo.
“No, direi di no. Però le ultime due vittime hanno lo stesso cognome.” John si spinse in avanti e sfiorò i due nomi con la punta dell’indice sinistro. “Casualità?” Domandò.
“Nulla è casuale, John.” Rispose Sherlock, tracciando una linea a collegare i due nominativi.
Il cameriere, alle sue spalle, finì di riempire il vassoio con le tazze ed il pezzo di torta per John, ed iniziò ad avvicinarsi, seguito per tutto il tragitto dagli occhi attenti del medico. Quando fu praticamente arrivato, John riuscì a percepire chiaramente la sua scia farsi alta e dolciastra, tanto da superare l’aroma del caffè bollente e delle mele calde.
Il dottore si trovò a trattenere il fiato ancor prima di rendersene conto, e abbassò lo sguardo mantenendolo tenacemente sul tovagliolo sul quale Sherlock stava prendendo appunti.
L’altro, da conto suo, non sembrò far caso all’invito olfattivo più che palese che stava ricevendo, né al fatto che le mani del giovane stessero tremando leggermente, mentre gli posava davanti la sua tazza fumante.
Razionalmente John provava molta compassione per il ragazzo: molti Omega lavoravano, prima della maturità sessuale completa, nei periodi lontani dal Calore. Era un modo per poter conoscere un Alpha col quale creare un Legame, e comunque permetteva loro di mantenersi in mancanza di qualcuno che lo facesse al posto loro. Svolgevano quasi sempre lavori sottopagati, o comunque dove fosse possibile sostituirli senza grossa difficoltà, perché solitamente chi lavorava lo faceva per periodi di tempo molto limitati e non sempre era sicuro che potesse presentarsi a lavoro il giorno successivo. Quel ragazzo stava provando in tutti i modi a mantenersi professionale, ed era palesemente in imbarazzo per la reazione che il suo corpo stava avendo alla presenza di quell’Alpha che, a quanto poteva vedere, era accompagnato, benché mantenesse una scia libera e forte.
Ciò nonostante i suoi ormoni stavano scegliendo per lui, e non poteva far altro che cercare di farsi notare. Tutto questo John lo capiva, e una parte di sé era profondamente dispiaciuta per la situazione e per il fatto che sapeva bene che essere rifiutati da un Alpha libero era sempre dura da accettare, per un Omega in cerca di Legame. Malgrado questo, sentiva il bisogno quasi fisico che quel ragazzo si allontanasse dal tavolo il prima possibile. Avevano bisogno di pensare, dovevano… Loro… Sherlock e lui stavano…
Il cameriere posò caffè e torta davanti a lui, e John si sentì mancare l’aria per qualche secondo. Boccheggiò, cercando di incamerare ossigeno, e gli fece cenno che poteva andare, senza guardarlo in viso.
“John.” La voce di Sherlock, leggermente allarmata, sembrò rompere la bolla d’aria rarefatta che sentiva premere attorno alla testa, e finalmente riuscì a respirare in modo adeguato.
“Tutto bene?” Chiese il detective, con espressione tesa, osservando con la coda dell’occhio il cameriere allontanarsi in fretta.
“Sì…” Rispose, deglutendo un paio di volte saliva ed aria.
“Scusa, credo di…” John si guardò intorno, cercando di trovare le parole adatte. “Forse dovrei andare a lavoro. Per aiutare Mike con quel corpo, sai. “ Provò, la voce che diventava più sicura col passare dei secondi.
“Sì, certo.” Gli rispose Sherlock, serio, continuando a guardarlo in volto ma ricevendo in cambio solo un’occhiata veloce di gratitudine mista a qualcosa che sul momento non riuscì ad interpretare del tutto.
“Fatti incartare la torta. Così puoi mangiare mentre vai.” Gli suggerì il detective.
“Sì. Ottima idea.” Rispose sbrigativo il medico, alzandosi e prendendo il piatto. “Mi dispiace. Continuiamo questa cosa stasera a casa, che ne dici?” Domandò, riuscendo in fine a mettere gli occhi in quelli di Sherlock.
“Nessun problema.” Rispose lui, atono, prendendo la sua tazza e avvicinandola alle labbra.
“Ok, allora. A dopo. Ti chiamo se scopriamo qualcosa durante l’autopsia.” Concluse il medico, iniziando a dirigersi verso il bancone.
Sherlock, rimasto solo al tavolo, fece un respiro profondo, chiudendo gli occhi. Solo in quel momento un odore leggero, appena percettibile, superò quello del caffè, entrandogli nei polmoni.
Non si era mai interessato delle scie altrui, se non per fattori lavorativi, e quella, poi, era così debole, limitata, acerba, impoverita, che non avrebbe potuto accendere l’attenzione di nessun Alpha del pianeta. Era sparita nel tempo di un respiro, così come era comparsa, improvvisa, indesiderata, inappropriata, impossibile.
Eppure c’era stata. Era esistita, per quel secondo. Una scia di arance, menta e lavanda.
Si voltò in cerca di John, ma era già sparito.
Non c’era nessun errore, ne era certo. Quello era l’odore di John Watson. Una scia senza implicazioni sensuali, senza niente oltre se stessa, ma che per lui (ed anche per John, ne era sicuro) significava una cosa sola: fine dei giochi.

Angolo dell'autrice:
La domanda nasce spontanea: cosa è successo? E come fa l'odore di John ad essere esattamente come lo aveva immaginato Sherlock durante il suo "viaggio" indotto dal Soma? 
La risposta è molto più semplice (e logica) di quanto possa sembrare, tanto che sono sicura che molte di voi avranno già elaborato (o lo faranno adesso) qualche teoria a riguardo, teorie sicuramente esatte.
Non era mia intensione creare qualcosa di complesso anche al di fuori delle indagini vere e proprie, e questo perché di base, parlando di ormoni e simili, più una cosa è lineare più è credibile, almeno a mio avviso.

E quindi eccoci qui, alla prima presa di coscienza vera e propria da parte di John (e di Sherlock) che qualcosa non sta andando come previsto. Diciamo che per entrambi è la prima vera esperienza di contatto prolungato con qualcuno potenzialmente "appetibile" dal punto di vista ormonale, e per primo è toccato a John vivere in modo piuttosto intenso una reazione a tutto quello che questo comporta.
Sarebbe interessante sapere se il medico si sia accorto di aver emesso un minimo di scia, o se la sua fuga sia stata dovuta solo all'essersi reso conto di star praticamente reagendo come un Omega reclamato... (La domanda la lascio volutamente in sospeso.)

Che altro aggiungere, se non i soliti ringraziamenti di rito (e d'obbligo, visto la vostra gentilezza continua nel leggere, seguire, commentare...)?

GRAZIE A TUTTE/I! :D

A presto! ^_^
B.

 

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Capitolo 15
*** Bisogni ***


“Pensavo avessi smesso.” Disse una voce piatta alle sue spalle, e Sherlock non poté far altro che alzare gli occhi al cielo. Inspirò una grossa boccata dalla sigaretta che teneva tra le dita e si voltò verso il fratello, soffiando con voluta lentezza il fumo in sua direzione.
“Molto maturo.” Fu la risposta di Mycroft, che non poté esimersi dall’assumere un’espressione di disappunto.
“Cosa ci fai qui? Non è neanche l’alba.” Domandò Sherlock, tornando a rivolgergli le spalle. “Spuntino notturno?” Aggiunse, sogghignando.
“Divertente.” Fu il commento dell’altro, mentre copriva con passo lento e misurato gli ultimi metri che lo separavano dal fratello.
“Mi verrebbe da chiedere cosa faccia tu, in una caffetteria, a quest’ora. Ma immagino che sia compito di un buon Alpha prendersi cura del suo Omega.” Lo schernì il maggiore, accennando un sorriso compiaciuto.
“Non essere ridicolo.” Commentò Sherlock, caustico, buttando a terra la sigaretta e schiacciandola con la suola delle scarpe. “John non è qui.”
“Oh, ma c’era. È uscito meno di mezz’ora fa.” Ribatté Mycroft, senza scomporsi.
“È lui che cercavi? Ti sei ricordato qualche altro aneddoto sulla mia vita che vorresti raccontargli?” Sherlock si voltò verso di lui e gli lanciò uno sguardo carico d’astio.
“Più di accennargli alla tua dipendenza, non saprei davvero cos’altro fare.” Rispose il maggiore, estraendo dalla tasca del cappotto un portasigarette argentato.
“Pensavo avessi smesso.” Gli fece il verso il detective, con tono canzonatorio.
“Mi adeguo alla compagnia.” Disse l’altro, portandosi la sigaretta alla bocca e cercando l’accendino.
Sherlock allungò una mano e fece scattare il suo, che si stava rigirando tra le dita da quando aveva acceso la sua.
Mycroft diede un paio di boccate e poi soffiò il fumo in alto, tirando indietro la testa.
“Grazie.”
“È sempre un piacere aiutarti a farti del male. Anzi, perché non entriamo? Vorrei offrirti un pezzo di torta.” Rispose Sherlock, tagliente.
“La gente non capisce il nostro modo di scherzare.” Commentò il maggiore, a bassa voce.
“Non sto scherzando.” Disse il detective, senza nessuna inflessione nella voce.
“No. Infatti.” Mycroft si portò nuovamente la sigaretta alla bocca e diede un'altra boccata. “Neanche io.”
“Che cosa vuoi, Mycroft.” Sherlock si voltò completamente verso il fratello. “Non ho tempo per queste idiozie.”
“Sì, ho saputo del cadavere a Kensington. Non mi piace questa storia.”
“Quale, esattamente? Un Holmes che si muove tra tracce di sangue e pezzi di cervello, o il fatto che qualcuno abbia potuto deliberatamente ammazzare un uomo in uno dei parchi cittadini che, se non sbaglio, dovrebbero essere sorvegliati dalle tue telecamere?”
“Non mi piace che qualcuno sappia esattamente che quello è uno dei punti ciechi del circuito di sorveglianza.” Iniziò Mycroft, gettando a terra a sua volta il mozzicone di sigaretta. “E ancor meno mi piace che mio fratello giri tra sangue e parti anatomiche sparse.” Concluse, una leggera intonazione di tensione nella voce.
“Desolato che il mondo non giri come vorresti, fratello caro. Comunque era il contenuto della scatola cranica ad essere sparso. Il resto delle “parti anatomiche” era tutto al suo posto.” Sottolineò Sherlock, accennando un sorriso divertito.
“Trattengo a stento l’entusiasmo.” Ribatté Mycroft, facendo fare un mezzo giro sul puntale al suo ombrello.
“Come sai odio ripetermi, ma per te farò un’eccezione: cosa ci fai qui, Mycroft?” Sibilò Sherlock, spazientito. “Non ho nessuna intenzione di tornare a casa. Né di “rivedere le mie priorità.” E, nel caso avessi deciso di ampliare verso altri lidi le tue del tutto inopportune manie di controllo sulla mia vita no, non ho neanche nessuna intenzione di Legarmi al dottor Watson. Né ora, né mai.”
Il maggiore dei fratelli Holmes sospirò rumorosamente, continuando a rigirarsi il manico dell’ombrello tra le mani.
“Ho chiesto al dottore di controllare nei tuoi cassetti.” Commentò dopo qualche attimo, senza nessuna inflessione nella voce.
“Ne sono stato informato.” Rispose Sherlock, senza scomporsi. “Se può esserti di qualche giovamento, ha anche già assistito ad uno dei miei “viaggi”.” Aggiunse poi.
Mycroft si voltò ad osservarlo alzando un sopracciglio, una leggera aria di sorpresa sul volto.
“Hai fatto presto a mostrare il tuo lato migliore, quindi.” Disse. “E la sua reazione è stata…?”
“Mi ha gettato nella vasca da bagno e ha aperto l’acqua.” Rispose l’altro, con noncuranza. “Piuttosto antipatica come reazione, a mio parere.” Concluse.
“Non ne dubito. Dev’essere fastidioso svegliarsi da un viaggio sintetico sotto una cascata d’acqua.”
“Decisamente.” Confermò Sherlock, estraendo il cellulare dalla tasca e controllando l’ora.
“Si è fatto tardi. Mi perdonerai se ti abbandono per dedicarmi a quella “stupida inclinazione malata”- come ti piace chiamarla - che io definisco “la mia vita”.” Aggiunse, facendo qualche passo in direzione della strada.
“È decisamente un tipo interessante, il tuo coinquilino.” Gli disse Mycroft, rimanendo immobile ma alzando la voce quel tanto da essere sicuro di essere sentito.
“Stai forse per dirmi che lo approvi, sperando che solo per questo decida di cacciarlo di casa?” Chiese il detective, voltandosi a guardare l’uomo impettito alle sue spalle.
“Sto solo dicendo che forse, e ripeto forse, la sua presenza al tuo fianco non è poi così deleteria. Voglio dire… ti ha svegliato da uno dei tuo “viaggi”, e invece di venire sbranato e lasciato sul marciapiede davanti casa, ti sei preoccupato persino che mangiasse. Perché non eravate qui per te, dico bene? Tu non mangi, durante un caso.”
Mycroft gli rivolse un sorriso ironico che sembrava dire: “non puoi negare, ti ho colto con le mani nel sacco.”
“Oh, taci!” Gli rispose Sherlock, tagliente, scoprendo i denti. “Per quanto ne sai potrebbe essere stato lui a decidere di venire a mangiare qualcosa.”
“Ancora meglio!” Rise l’altro, senza allegria. “In quel caso saresti stato tu a decidere di assecondare una richiesta dalla quale non avresti tratto alcun giovamento, se non quello di fargli un piacere.”
“Fottiti.” Ringhiò Sherlock, la voce ridotto un rauco sussurro. “Ad ogni modo, entro stasera sarà fuori da Baker Street. Spero ne potrai godere, una volta tornato dietro la tua inutile scrivania.” Sputò fuori, velenoso, ogni parola un grumo di disprezzo. “Sii felice, Mycroft. Ancora una volta non mi riavrai con te, ma potrai gioiare nel sapermi il solito reietto.” Detto questo si voltò e si allontanò a passo svelto, le mani in tasca e la testa leggermente piegata in avanti per sfidare il vento gelido che si stava alzando.
Mycroft, ancora fermo nello stesso punto, sospirò e scosse la testa.
“E tu, ancora una volta, non hai capito niente, Sherlock.” Sussurrò, avviandosi quindi lentamente verso l’auto nera col motore acceso che lo aspettava subito dietro l’angolo.
 
Praticamente sdraiato sulla propria poltrona, le lunghe gambe stese fin quasi a lambire quella di fronte, Sherlock si appoggiò il violino contro il petto, pizzicando le corde con le dita.
Il suono sordo che sentiva vibrare lungo lo sterno lo aiutava a tenere la mente libera, come un metronomo di legno e carne nato dall’unione tra il suo corpo e lo strumento.
Aveva bisogno di pensare. Di concentrarsi sul caso. Di vagliare ogni aspetto, rivivere ogni momento, catalogare ogni indizio. Ma più di tutto, aveva bisogno di abbandonare la sensazione di nausea che non lo aveva lasciato un solo secondo dal suo rientro a casa.
Non avrebbe saputo dire esattamente per quanto tempo era rimasto fermo sulla porta, lasciando vagare lo sguardo per la stanza, mai tanto ordinata come negli ultimi giorni.
John si occupava di sistemare, quando poteva, e quando la stanchezza o il lavoro gli portavano via le forze, non mancava comunque mai di raccogliere i giornali che Sherlock lasciava sparsi sul pavimento, e di dare una veloce spazzata.
Lo aveva osservato, mentre compiva quei gesti semplici, ed era rimasto ogni volta sorpreso di come, pur svolgendo compiti che solitamente venivano visti come di appannaggio esclusivo degli Omega coinvolti in un rapporto, John li compisse senza perdere per un solo attimo il suo distintivo aspetto di “uomo libero”.
Aveva passato buona parte della sua vita a tenere a distanza gli Alpha, e a scegliere con cura le (poche) persone delle quali fidarsi, ma questo non gli impediva di cucinare per entrambi o di rassettare, anche davanti a lui. C’era più forza in quei piccoli gesti che nella scelta stessa di assumere inibitori e vivere liberamente la propria vita, e Sherlock non riusciva ad impedirsi, ogni volta, di seguire con gli occhi il suo coinquilino, per poi fingersi occupato non appena questi si voltava in sua direzione.
Era quindi rimasto lì, immobile sull’uscio, immaginando come sarebbe stata la sua vita dopo aver detto a John che non era più il benvenuto.
Sicuramente il medico avrebbe capito, anzi, probabilmente sarebbe salito a radunare le sue cose ancor prima che fosse lui a doverglielo chiedere, ma nonostante questo non riusciva a smettere di pensare che, in poco più di qualche giorno, si era abituato alla sua presenza nell’appartamento in un modo che non pensava possibile e che no, non avrebbe voluto vederlo andar via. Si rendeva conto che questo andava contro ai patti, alla logica, come era completamente cosciente che convivere con un Omega in pieno possesso dei propri ormoni avrebbe aperto la strada a degli scenari non solo “scabrosi”, ma persino pericolosi, per entrambi.
John doveva andarsene, non c’erano altre soluzioni. Ma, quando finalmente era riuscito a muoversi nella stanza ed aveva raggiunto la sua poltrona, lasciandocisi cadere sopra, si era reso conto che più del dover dire al medico che non avrebbero potuto più vivere assieme, iniziava a temere che non avrebbe avuto neanche quella possibilità. Forse non sarebbe semplicemente mai tornato a Baker Street. Forse, non avrebbe avuto l’occasione di vederlo un’ultima volta.
John era scappato dalla caffetteria perché si era accorto che stava accadendo qualcosa alla sua scia? Non poteva dirlo con certezza, ma sicuramente qualcosa lo aveva spaventato. Poteva essere legato a quel ragazzo? Alla scia di piena disponibilità che gli aveva rivolto? Sherlock lo trovava impossibile. Una reazione del genere per un motivo simile avrebbe significato che John provava qualcosa nei suoi confronti, che si era sentito minacciato dall’Omega in quel locale, e Sherlock non riusciva a vederla in alcun modo come una prospettiva plausibile. Per rendere la cosa possibile il medico, sotto inibitori, avrebbe dovuto provare scientemente qualcosa per lui, essendo privo delle reazioni “normali” di un qualunque Omega. Ma aveva ripetuto più volte di non essere in cerca di un Legame, ed in caso la scelta non sarebbe comunque mai ricaduta su di lui, Alpha. Sarebbe stato davvero troppo pensare che John avesse preso in considerazione una cosa simile.
Sherlock sospirò, facendo nuovamente vibrare le corde del suo violino.
Aveva sempre considerato i sentimenti un limite, ancor più dopo quello che era successo ai tempi delle scuole superiori. Qualcosa che ti si aggrappa addosso, come una malattia, portandoti via ogni cosa.
Quando lasci che qualcosa ti cresca dentro, quando dai a qualcun altro il compito di respirare al posto tuo, l’unica cosa che puoi ottenere è di perdere tutto.” Aveva scritto qualche giorno dopo il loro addio su uno spartito, prima di comporre l’ultima sonata a loro dedicata.
Non era stato un amore come quelli che, pochi anni dopo, avrebbe coinvolto quasi tutti i suoi compagni. No. Era stato qualcosa di totalizzante, di sbagliato. Non solo per il loro essere entrambi Alpha. Non solo per il fatto di essere due adolescenti con famiglie problematiche, che si sentivano oppressi nel loro ruolo appena acquisito nella società. Era stato infelice da ogni punto di vista. A partire dal Soma per arrivare al sesso, non c’era stato un solo aspetto di quel rapporto che non lo avesse lasciato ferito e sanguinante quando, per scelta di entrambi, era volto al termine.
Per anni Sherlock aveva tenuta ben chiusa quella parte della sua vita, lasciandola relegata ad un angolo della sua mente che visitava raramente, e solo dopo aver assunto Soma in quantità tale da non ricordarsene al risveglio.
E adesso, seduto in quello che fino a qualche giorno prima aveva definito sempre con orgoglio il suo salotto, sentiva che riuscire a riemergere dall’esperienza di averne fatto, anche se per poco, il loro, non sarebbe stato affatto semplice.
Il solo pensiero era destabilizzante, e Sherlock lanciò con un gesto di stizza lo strumento verso la poltrona di John.
“La poltrona di John.” Ripeté, dando voce al fugace pensiero che aveva avuto, e gli venne da ridere.
Nessuno, neanche Mycroft, sarebbe potuto entrare in quella stanza e dedurre che in quell’appartamento abitava anche un’altra persona. Niente, tecnicamente, poteva dirsi di John, tranne i suoi effetti personali, al piano di sopra.
Eppure…
“Maledizione!” Imprecò a mezza voce, alzandosi e cominciando a muoversi in cerchio per la stanza, con passi lenti.
Il killer. Devo pensare al killer.” Si ripeté, avvicinandosi al divano e lasciandocisi cadere sopra.
Alzò le gambe e si sdraiò, congiungendo le mani sotto al mento e chiudendo gli occhi.
“Ok allora, dal principio.” Sussurrò, serrando ancor più forte le palpebre e iniziando a mettere a fuoco la scena del primo crimine.
Ricostruì, dietro il buio dei suoi occhi, la sala da pranzo del signor Marston, riposizionando tutto esattamente come lo aveva trovato. Cancellò con un colpo di mano Lestrade, che nel suo ricordo era nuovamente fermo sulla porta, e posizionò il biglietto dove avrebbe dovuto essere: sotto il bicchiere alla destra dell’uomo chino sulla tovaglia.
Quando fu soddisfatto della scena ottenuta, di guardò attorno, allargandola nei confini. Accanto a quella stanza riprodusse la camera da letto di Molly Rogers, e la separò con un muro di vetro trasparente dalla cucina della vedova.
Infine, sotto ai suoi piedi, ricreò una piccola parte del lago artificiale, osservandolo allargarsi e riempire gli ultimi spazi bianchi lasciati nella sua mente. Visto così, il colpo d’occhio era quasi bello. Sembrava che qualcuno avesse portato un pezzo dei giardini di Kensington all’interno di un’abitazione dalla bizzarra distribuzione spaziale.
Sherlock si guardò attorno per qualche secondo, ritenendosi in fine soddisfatto.
Ricreò la sagoma dell’uomo del vicolo accanto alla scritta in cucina, e quindi incominciò a muoversi tra le varie scene, osservando nuovamente ogni particolare.
“Comunque con questo dovrebbe aver chiuso il cerchio, no?”
Le parole di John lo colsero di sorpresa, e si girò verso l’uomo disteso a terra, con un’accetta conficcata nel volto.
Il medico stava leggendo la scritta fatta con sangue, postura eretta e testa inclinata da un lato.
Dopo qualche secondo, si voltò verso Sherlock, accennando un sorriso.
“Cosa ci fai, qui?” Domandò il detective, avvicinandosi. Poteva percepire la sua scia anche da quella distanza, e si bloccò non appena la sentì farsi più intensa.
“Non capisco.” Rispose John, semplicemente, corrucciando la fronte.
“Non dovresti essere qui. Non ho richiesto la tua presenza.” Provò Sherlock, senza riuscire a impedire che l’odore dell’altro gli riempisse i polmoni ad ogni respiro.
“Mhm.” Commentò il medico, facendo spallucce. “Magari sono qui per quella storia dei “catalizzatori”.” Disse.
“No, sei qui perché c’è un bug nel mio hard disk.” Rispose Sherlock, tagliente, dandogli le spalle. “Devi andartene. La tua scia mi distrae.” Aggiunse, tornando verso la camera da letto della signora Rogers.
“Scia? Quale scia? Io assumo inibitori, non ho alcuna scia.” Commentò il medico, seguendolo.
“Sì che ce l’hai, l’ho sentita chiaramente nella caffetteria, oggi, e…” Voltandosi Sherlock trovò John così vicino che ebbe l’istinto di arretrare.
“Non ho scia.” Ripeté quello, meccanicamente, accennando un sorriso innaturale.
“Se avessi una scia, sarebbe un bel problema.” Continuò, senza inflessione nella voce.
“Infatti lo è. E te ne dovrai andare, per il bene di entrambi.” Rispose Sherlock, girandosi a guardare la donna stesa sul letto di fronte a loro.
“Di entrambi?” Domandò John, sorpreso. “Non capisco.”
“Non è importante che tu capisca. È così e basta.” Disse il detective, muovendosi verso la cucina e, le spalle all’altro.
“Sherlock!” Lo richiamò il medico, con voce spaventata.
“Non ho tempo, adesso.” Rispose il detective, avvicinandosi all’uomo del vicolo.
“SHERLOCK!” Urlò John, un terrore cieco ben chiaro nella voce.
“Mi chiedo perché mi ostini a immaginarti qu-“ Cominciò Sherlock, spazientito, voltandosi indietro.
La scena che si presentò ai suoi occhi lo pietrificò, mentre sul suo viso si dipingeva un’espressione atterrita.
John se ne stava premuto contro la parete di fianco al letto della signora Rogers, con lo sguardo disperato dell’animale braccato, mentre un uomo senza volto lo teneva fermo, immobilizzandolo con una mano stretta con forza attorno al collo.
Un atro gruppo di sagome scure, con volti sfuocati ma denti ben visibili, si stava avvicinando ai due, ringhiando sommessamente. In pochi attimi erano tutti attorno a John, che stava cercando con tutte le forze di divincolarsi dalla presa.
Se avessi una scia, sarebbe un bel problema.” La frase riecheggiò nella testa di Sherlock, mentre riapriva gli occhi, mettendosi a fatica a sedere sul divano.
Un conato gli risalì in gola, mentre metteva a fuoco, senza volerlo veramente, l’immagine di quegli uomini che si gettavano su John.
Se davvero la sua scia si stava svegliando, dopo anni di inattività totale, non c’era un solo posto in tutta Londra nel quale sarebbe potuto essere al sicuro.
Sherlock si alzò in fretta dal divano e recuperò il cappotto appeso di fianco alla porta.
Probabilmente quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe visto John Watson, ma anche in quel caso (anzi, soprattutto in quel caso) sentiva il bisogno di controllare che stesse bene.
 
Angolo dell’autrice:
Capitolo tutto incentrato su Sherlock e la sua reazione a quanto successo nella caffetteria (e non solo.)
Dal capitolo scopriamo che il nostro detective ha avuto una storia, in precedenza, ad esempio. Ho volto volontariamente lasciare la cosa appena accennata, per due motivi: perché è qualcosa che voglio sviscerare pian piano, a piccoli pezzi (avevo già iniziato a parlare di questo nel capitolo sull’assunzione del Soma, forse qualcuna se ne sarà accorta ^_^), proprio come appare nei pensieri di Sherlock, e perché sto meditando di fare una OS (legata a questa long) che mostri e racconti proprio quel rapporto. La cosa mi intriga per molti aspetti e motivi, ma non vi aggiungo altro perché rischierei di lasciarmi sfuggire qualcosa di troppo.
Scopriamo poi che Sherlock inizia a scendere a patti con una realtà che è sempre più palese: ha degli istinti di protezione verso John. Questo non gli impedisce di pensare che il medico se ne debba andare, anzi, in qualche modo rende quella prospettiva ancora più reale e “ineluttabile”. Ciò nonostante compie qualcosa che per una come lui è davvero un gran passo in avanti: decide di assecondare il suo istinto. “John può essere in pericolo, John ha bisogno di me, questo pensiero è mutuato dagli ormoni ma va bene lo stesso: devo cercarlo e assicurarmi che stia bene.” Tutto il resto è secondario. Così secondario da uscire da un Mind Palace completamente sistemato per poter pensare al caso, e andare a cercarlo.
Questo capitolo, come il prossimo e quello dopo, sono stati molto complicati da scrivere, per me. Si parla di istinti, di paure, ma anche di cambiamento. Trascrivere dei sentimenti così complessi non è facile, anzi. Farlo cercando di non snaturare personaggi in parte “non miei” lo è ancor meno. Spero di star facendo tutto al meglio, e che la storia continui ad incontrare il vostro favore.
 
Come sempre grazie a tutte/i per aver letto fin qui, e a chi lascerà un commento su questo capitolo. ^_^
 
Un saluto a tutte/i e…
Alla prossima!
 
B.

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Capitolo 16
*** Priorità ***


John unì le mani a coppa sotto il rubinetto, e attese che l’acqua divenisse sufficientemente fredda. Quando vide formarsi sul metallo cromato una piccola patina gelata, raccolse quanta più acqua possibile e si portò le mani al volto. Ripeté l’operazione più volte, fino a quando non si sentì meglio. Ad occhi chiusi, i capelli intorno al viso completamente bagnati, allungò una mano in cerca dell’asciugamano, e tentò di sistemarsi nel modo migliore possibile.
Quando ebbe finito di asciugarsi, si aggrappò con entrambe le mani al lavandino e fissò la sua immagine, riflessa nello specchio sopra di esso.
Il volto che vide rispondere al suo sguardo era teso, tirato, ma riusciva ancora a scorgere qualcosa di familiare nei suoi occhi.
Non è successo niente. Pensò per l’ennesima volta, studiando con attenzione quale reazione spontanea facesse nascere sul suo viso quel pensiero. È stato un attimo di stanchezza. Un secondo di poca lucidità.
 
          Aveva pensato (senza trovare una spiegazione valida) al suo comportamento nella caffetteria durante tutto il percorso verso il Bart’s, compiuto volutamente a piedi mangiando distrattamente e controvoglia un po’ della torta che si era fatto incartare, prima di buttarla, quasi intera, in un cestino. Il suo stomaco, contratto, non era riuscito a far entrare più di quella misera porzione, ed un mal di testa lancinante non lo aveva abbandonato per tutta la durata della camminata.
Era partito dal collo, come se una parte della sua muscolatura avesse improvvisamente smesso di funzionare - diventando rigida e tesa - ed era esploso nella sua completezza dopo circa una ventina di minuti.
Era stato come sentire qualcosa di denso farsi strada lungo le vene, e per qualche secondo aveva fatto fatica persino a respirare e deglutire. Da che aveva memoria, non aveva mai provato un malessere tanto forte.
Arrivato all’altezza del Bart’s si era bloccato improvvisamente, mentre un pensiero gli attraversava la mente come una lama. Lo Snubber. Potevano essere quelli i primi sintomi dell’inattivazione degli inibitori? La possibilità lo aveva pietrificato. Mancava quasi un mese al Calore successivo, quindi non avrebbe corso un pericolo “immediato” di grave entità, almeno dal punto di vista meramente riproduttivo, ma se gli inibitori stavano davvero smettendo di funzionare, la sua scia sarebbe stata evidente anche alla persona meno attenta.
Le soluzioni, in quel caso, erano poche. Anzi, si riducevano ad una sola: la fuga.
Assumere altro Snubber prima della fine della copertura semestrale era impensabile: non erano progettati per essere assunti con più frequenza, e se davvero avevano smesso di svolgere il proprio lavoro, non aveva alcun senso assumerne altri. Se invece quanto successo era dovuto a qualche altro fattore, ingerire una pasticca prima della data prevista avrebbe aperto le porte ad uno scenario molto pericoloso: una serie di effetti collaterali di varia entità, che andavano dalle “semplici” convulsioni al coma irreversibile.
Totalmente assorto nei propri pensieri, non si era accorto della presenza alle sue spalle finché non si era sentito poggiare delicatamente una mano su una spalla.
Lo spavento era stato tale che il suo primo istinto era stato quello di voltarsi repentinamente ed assumere la posizione di guardia, pronto all’eventualità di doversi difendere da un attacco. Aveva alzato le mani a protezione del collo, e distribuito il peso sulle gambe in modo adeguato, indietreggiando.
“Ehi!” Aveva esclamato Mike, facendo a sua volta un passo indietro, alzando le braccia in segno di resa. “Sono disarmato, giuro!” Aveva aggiunto con un sorriso, osservando John rilassare il corpo e abbassare i pugni.
“Cavolo, ho rischiato seriamente un cazzotto, eh?” Aveva chiesto il coroner, grattandosi la testa con un movimento involontario atto a scaricare la tensione.
“Dio.” Aveva esalato John, buttando fuori l’aria che aveva trattenuto fino a quel momento e scuotendo la testa. “Mi hai fatto morire di paura!”
“Per essere un militare in congedo, ti spaventi facilmente.” Lo aveva canzonato Mike, sorridendogli. “Che diavolo ci fai già qui? Ti immaginavo intento ad addentare qualche panino in uno dei quei locali aperti tutta la notte!” Aveva aggiunto poi, mentre entrambi si dirigevano verso l’ingresso dell’obitorio, adesso affiancati.
“Era una caffetteria, in realtà.” Aveva risposto John, sovrappensiero.
 “Uh, romantico!” Aveva commentato Mike, ricevendo in cambio un’occhiata truce.
“E dai, John! Sto scherzando! È solo che ti vedo diverso da quando vivi con lui, e-”
“Specifica diverso.” Lo aveva interrotto John, fermandosi, la voce lievemente velata di preoccupazione.
“Beh, diverso. Più…sicuro, sai. Cose così. Ti vedo anche meno chiuso in te stesso. E va bene, amico, davvero. Te lo meriti… “ Si era fermato qualche secondo, cercando le parole. “Qualunque cosa sia, ecco.”
“Tutto qui?” Aveva domandato John, ed il coroner aveva assunto un’aria interrogativa.
“Nel senso… non vedi altri cambiamenti in me? Più… essenziali.” Aveva specificato quindi.
“Non mi pare. Cosa dovrei vedere?”
“Niente. Sto… sto assumendo degli integratori per intensificare un po’ la mia scia, sai…” Aveva mentito John, pronto a captare ogni reazione, anche appena percettibile, sul volto dell’altro.
“Cosa?” Mike era scoppiato in una breve risata. “Ma sei impazzito? Lo sanno tutti che quelle stronzate non funzionano. Ti farai venire un tumore o qualcosa di simile!” Aveva risposto, scuotendo la testa.
“Insomma non noti nessun cambiamento in me. Neanche minimo?” Aveva nuovamente domandato John, facendoglisi più vicino.
“Con tutto l’affetto, John, la tua scia è come al solito: al limite dell’assenza. Cioè, non fraintendere…sono certo che se affondassi il naso nell’incavo del tuo collo la percepirei, ma ho evitato di farlo in tutti questi anni e ho intenzione di continuare su la strada intrapresa. Spero mi perdonerai.” Aveva risposto l’altro, ridendo nuovamente.
John non era riuscito a trattenere un sorriso di sollievo. “Per l’amor del cielo, ho un brivido solo al pensiero!”
“Insomma assumi integratori, sembri più sicuro di te e più sereno, ma niente di tutto questo dipende dalla tua nuova abitazione e dal tuo nuovo coinquilino, giusto?” Aveva chiesto il coroner in tono malizioso, una volta smesso di ridere.
“È un Alpha, Mike. Gli Alpha non hanno storie con i Beta.” Aveva risposto John, riprendendo a camminare.
“Questo non è del tutto vero. Può succedere che un Alpha scelga un Beta come compagno. E comunque qui stavamo parlando di te, non di lui.” Aveva specificato Mike.
“Stavamo parlando del niente.” Era stata la risposta di John, fermandosi davanti alla porta del bagno.
“Va’ avanti. Mi do una rinfrescata e ti raggiungo.” Aveva aggiunto poi, appoggiando la mano sulla maniglia.
“Ok. Fa’ con calma. Non ci hanno ancora portato il corpo.” Mike gli aveva fatto l’occhiolino e si era allontanato in direzione dell’obitorio, sventolando una mano in segno di saluto.
Appena entrato in bagno, John aveva abbandonato l’espressione distesa assunta fino ad un attimo prima. Era scomparsa dal suo volto, come una maschera caduta a terra. Si era diretto al lavandino, e aveva aperto il rubinetto.
“Non è successo niente.” Aveva sussurrato, unendo le mani a coppa e mettendole sotto il getto, aspettando che l’acqua diventasse sufficientemente fredda. “Assolutamente niente.”
 
        John si guardò un’ultima volta allo specchio. Non si sentiva ancora del tutto sereno, ma decise comunque che fosse giunto il momento di tornare alle proprie mansioni, cercando di ignorare quanto successo. Si sistemò i capelli con un rapido gesto della mano, ed uscì dal bagno.
 
***
 
Sherlock aveva provato a contattare telefonicamente John per tutta la durata del suo viaggio in taxi verso il Bart’s.
Una parte della sua mente continuava a ripetergli che fosse del tutto normale non ricevere risposta: se il medico si era davvero recato a lavoro, non avrebbe potuto avvicinarsi al cellulare per tutto il tempo dell’analisi autoptica del corpo.
Ma qualcosa, all’altezza del petto, seguitava a tirare e scavare, come a volergli aprire una voragine tra costole e polmoni.
Non c’era niente, assolutamente niente di razionale in quel bisogno denso, palpabile, di saperlo lontano da altri Alpha. Era puro impulso, svincolato da ogni logica.
Ciò nonostante non aveva alcuna intenzione di ignorarlo, in alcun modo. Non avrebbe potuto. Premeva contro lo sterno e riempiva ogni suo respiro,  era quasi impellente. Non era possibile fingere semplicemente che non ci fosse.
“Basterà un attimo, il tempo di capire che sta bene, e tutta questa assurdità potrà finire.” Pensò non appena arrivato a destinazione, scendendo dal taxi senza curarsi di avere indietro il resto - piuttosto sostanzioso - che gli spettava.
Si guardò intorno in cerca di indicazioni per la sala mortuaria, e non appena trovò la scritta “Obitorio” su uno dei cartelli posti di fianco all’entrata, iniziò a seguire la piccola riga nera che partiva dalla targa, giungendo fino alla porta a vetri.
Aspettò che questa si aprisse ed iniziò a camminare lungo il corridoio, illuminato dalla luce innaturale e fredda dei neon.
Poggiò delicatamente una mano sulla striscia di vernice scura, sfiorandola mentre camminava.
Continuò a procedere in avanti lungo la corsia, fin quando non si trovò di fronte ad una scalinata piuttosto ampia, che iniziò a scendere aumentando il passo.
L’odore di disinfettante, una volta terminata la discesa, era così forte da azzerare ogni sua capacità olfattiva, tanto che dovette fermarsi qualche secondo per cercare di recuperare un minimo di odorato. Il sentore di sterilità era assordante, ai suoi sensi, e Sherlock si stupì di quanto fosse debilitante perdere improvvisamente una parte così importante di sé. Era come essere divenuti ciechi, di una cecità bianca e luminosa.
Probabilmente quello era uno dei motivi per i quali John aveva scelto quel lavoro. Avvolto da una bolla di vuoto sensoriale, poteva sentirsi protetto molto più che in qualsiasi altro posto.
Sherlock scosse la testa e riprese a camminare, mantenendo indice e medio della mano destra sulla riga nera segna percorso.
Dopo qualche secondo, in fondo al corridoio, comparve una porta con vetri satinati e telaio di metallo lucido. Una targhetta gialla, in alto, segnalava il suo essere arrivato a destinazione:
“Obitorio – Accesso vietato ai non autorizzati”, recava scritto a lettere nere e lucide.
Percorse gli ultimi passi in modo veloce, sentendo il cuore iniziare ad accelerare i battiti. Era il momento della verità: se John non fosse stato a lavoro, avrebbe dovuto per prima cosa telefonato a Mycroft per chiedergli aiuto (prospettiva che lo infastidiva notevolmente) e poi si sarebbe dovuto impegnare in prima persona a cercarlo, fino a quando non l’avesse trovato. Il pensiero lo disturbava, in modo intimo e profondo, ma era sceso a patti - durante il viaggio in taxi - col fatto che quella sarebbe stata l’unica cosa da fare, in quel caso. Andava contro ad ogni sua idea, era assolutamente una reazione da “Alpha Legato” (e quindi esagerata e fuori luogo, ai suoi occhi), ma sapeva che non avrebbe potuto far diversamente. Si conosceva bene, così come conosceva (e sapeva riconoscere, come ignorare, all’occorrenza) le proprie debolezze: non sarebbe mai riuscito a tornare a casa senza prima aver saputo dove fosse John, e senza essersi accertato personalmente che stesse bene.
Con un sospiro profondo, si preparò a spingere il maniglione della porta.
“E sia.” Sussurrò, appoggiandosi con forza contro la barra di plastica dura. Inaspettatamente, non accadde nulla. Il maniglione non si abbassò, e la porta rimase chiusa.
“Maledizione.” Sibilò, scoprendo i denti. Fece un passo indietro, iniziando a guardarsi intorno in cerca di un campanello, o un pulsante.
Niente. Il muro intorno all’ingresso era completamente liscio, e riluceva sotto la luce fredda.
Doveva esserci un modo. Come faceva la polizia a consegnare un corpo, se non aveva modo di annunciarsi?
“Sherlock…?” Una voce di donna, incerta, lo chiamò dal corridoio, alle sue spalle. “Che ci fai… voglio dire, perché sei qui…?”
L’uomo si girò verso la ragazza dai capelli castani e la carnagione pallida che si stava avvicinando con passo titubante, due grosse tazze di caffè da asporto strette tra le mani.
“Molly.” Il detective le rivolse un rapido sorriso, vuoto di allegria e leggermente teso. “È un piacere incontrarti.” Aggiunse, sforzandosi di risultare cortese.
“Che succede…?” Domandò lei, la voce ridotta ad un sussurro carico d’imbarazzo, tenendo gli occhi bassi. “Se è per i farmaci che sei qui-“
“No, niente affatto.” La interruppe Sherlock. “Sono qui per far visita… ad un amico. Ma non riesco ad entrare.” Le spiegò, lanciando un’occhiata eloquente alla porta d’ingresso dell’obitorio.
“Un… Un amico?” Ripeté lei, alzando su di lui un rapido sguardo incredulo, prima di tornare nuovamente a guardare a terra.
“Sì.” Confermò Sherlock, sorridendole di nuovo, questa volta con più convinzione. “John Watson. Lo conosci?” Domandò.
La donna sembrò ancor più sorpresa, ma fece cenno di sì con la testa.
“Certo che lo conosco… sto portando il caffè a lui e al dottor Stamford... la loro macchinetta si è rotta…” Rispose, alzando appena i due contenitori fumanti, come a dar conferma alle proprie parole.
“Eccellente!” Esclamò Sherlock, ancor prima di rendersene conto. Se Molly Hooper stava loro portando da bere questo significava, per prima cosa, che John era davvero arrivato al Bart’s. Secondo poi, presupponeva una certa normalità nella sua conduzione di vita lavorativa, pensiero che riuscì finalmente a placare il senso d’ansia che Sherlock si era portato tenacemente aggrappato al petto fino ad un attimo prima.
“Vuoi… vuoi che gli dica che sei qui…?” Domandò la donna, bloccandosi una delle tazze tra petto e braccio ed iniziando a cercare con la mano ora libera la chiave della porta nella tasca del camice.
“No, non importa. Avevo solo bisogno di assicurarmi che stesse… bene, ecco. L’ultima volta che l’ho visto mi era sembrato un po’… debole. Ho pensato non si sentisse molto bene.”
Cercò di giustificarsi Sherlock, alzando le spalle come a dire “niente di importante”.
Molly lo guardò nuovamente con stupore.
“È la prima volta che ti sento dire di essere… Preoccupato per qualcuno.” Commentò poi, con voce flebile, avvicinandosi alla porta e inserendo la chiave nella toppa.
“Non sono preoc-“ Incominciò Sherlock, schermendosi.
“Se vuoi puoi andare nel emiciclo. Tanto hanno finito, con il corpo. Da lì si vede tutta la sala mortuaria, puoi sederti e aspettare che gli dica che sei qui.” Lo interruppe Molly, facendo girare la chiave e dando una leggera spinta alla porta, che si aprì senza opporre resistenza.
Qualcosa, in una parte della mente di Sherlock, gli suggeriva di andarsene, chiedendo a Molly di non dire niente a John della sua presenza al Bart’s. Era la cosa più logica da fare, date le premesse: il medico stava bene, e non c’era alcun bisogno di continuare ad alimentare il proprio istinto di protezione verso un uomo al quale avrebbe dovuto chiedere si andarsene dalla loro abitazione entro poche ore. Invece, senza aggiungere altro, annuì impercettibilmente in direzione della donna, e la seguì nel corridoio oltre la porta a vetri.
Fecero qualche passo e si fermarono di fronte ad una porta di legno scuro, senza targhe.
Molly fece timidamente cenno con la testa a Sherlock di entrare.
“Porto i caffè e dico a John che ci sei…” Disse, la voce ridotta ad un sussurro.
Sherlock annuì.
“Grazie Molly. Davvero.” Le disse, regalandole un rapido sorriso, questa volta senza sforzo.
“Figurati…” balbettò lei, arrossendo violentemente. “Mi piace rendermi utile. Lo sai…” Terminò, rincominciando a camminare. Sherlock percepì distintamente la sua scia farsi dolce, per divenire amara poco dopo. Era chiaro che a quella donna piacesse, e molto. Non c’era bisogno di ricorrere agli ormoni, per capirlo. Gli passava da anni un medicinale per Omega senza nessun tipo di prescrizione, nella sola speranza di riuscire a vederlo anche solo qualche minuto la volta successiva. Mai, prima di allora, il detective si era sentito in qualche modo colpevole di usare l’attrazione della donna nei suoi confronti come scorciatoia per ottenere quello che gli serviva. Ma in quel momento, guardandola allontanarsi, provò per lei una forma di dispiacere. Era una Beta Minus timida, schiva, remissiva fino all’eccesso. Non avrebbe mai trovato un Alpha disposto a prenderla con sé, e a sua volta non sarebbe mai stata capace di prendersi cura di un Omega, anche del più docile.
Era impacciata, ma non stupida (come molti, scioccamente, la ritenevano), Molly Hooper. Aveva un’intelligenza emotiva molto ben sviluppata, Sherlock aveva potuto rendersene conto in più di un’occasione, durante i loro rapidi incontri.
Fu proprio sull’onda di quella consapevolezza che il detective aprì la porta dell'emiciclo, domandandosi se il suo strano ed inaspettato attaccamento nei confronti di John Watson potesse essere risultare palese alla donna, e quindi anche ad un qualunque sguardo esterno.
Molly non era comunque un buon metro di giudizio a riguardo: troppo attenta agli altri per non notare ogni sfumatura, troppo interessata a Sherlock per non trovare strano il suo essere lì in cerca di un “amico che sembrava non stare molto bene”.
L’uomo fece un respiro profondo ed entrò nella sala.
Alla sua destra una fila di panche in lagno scuro correva lungo l’intera lunghezza della stanza, dalla forma semicircolare. A sinistra si apriva una enorme vetrata, che consentiva di avere una visuale parziale ma molto ampia della sala mortuaria posta al piano inferiore.
Sherlock si avvicinò al vetro, poggiandoci entrambe la mani, e lanciò un’occhiata attenta alla stanza sotto di lui.
Al centro si trovava il tavolo per le autopsie, adesso occupato dal cadavere di Kensington, accuratamente coperto con un lenzuolo bianco.
All’altezza della testa la copertura assumeva una forma rientrante, rendendo chiara la mancanza di quella parte del corpo, e quindi l’identità della vittima.
Sherlock osservò le pieghe dei tessuto con interesse, cercando di immaginare che aspetto dovesse avere ora il cadavere, accuratamente pulito e ricomposto, per quanto possibile.
Un'ombra si mosse al fianco del tavolo, ed il detective si trovò a seguire con lo sguardo Mike Stamford avviarsi con passo lento verso la vetrata che divideva quella stanza da quella attigua.
Attraverso l’apertura di vetro tra i due ambienti, Sherlock riuscì a mettere a fuoco John, intento a digitare velocemente qualcosa sul computer, con aria assorta.
Suo malgrado, sentì lo stomaco contorcersi in un misto di tensione e piacere. Il primo pensiero che gli attraversò la mente fu che il medico stava bene, fortunatamente.
Poi, in un secondo momento, iniziò a rifletter su quanto interessante fosse poter osservare qualcuno da una posizione simile, con la consapevolezza di non essere visti. Ancora più particolare era poter vedere John nel suo ambiente, intento a fare il proprio lavoro.
Quell’Omega che adesso stava facendo cenno al suo collega di entrare, era in un luogo ed in una posizione che non gli competevano in alcun modo, stando alle regole della società. Eppure era lì, con un sorriso sul viso, protratto in avanti verso un amico che gli stava raccontando qualcosa aiutandosi con ampi gesti delle mani.
Una specie di miracolo della volontà, un tributo alla forza d’animo.
Sherlock si avvicinò al vetro il più possibile, cercando di capire cosa si stessero dicendo. Vide Mike far segno di no con la testa, e John scoppiare a ridere, lasciandosi andare contro la sedia.
Per un attimo una fitta gli attraversò lo sterno, e l’istinto primario fu quello di andare da loro e far allontanare Stamford il più possibile da John. Era palese che fossero gli ormoni risvegliati dalla presenza del medico e dalla loro costante vicinanza a parlare, lo capiva perfettamente, adesso, ma questo non gli impedì di provare una forma di possessività tale che si trovò a scoprire i denti prima ancora di rendersene conto.
John e Mike si voltarono all’unisono verso l’interno della sala mortuaria, e Sherlock fece un passo indietro, convinto che, in qualche modo, lo avessero potuto sentir ringhiare. Era impensabile, ad una tale distanza, ma ciò nonostante si trovò lontano dal vetro, con il cuore in gola. Dopo qualche secondo, appena riuscito a calmare i pensieri ed il respiro, si avvicinò di nuovo, cautamente, vedendo Mike dirigersi verso la porta dell’obitorio seguito da John, che si richiuse alle spalle quella della stanzetta dalla quale erano appena usciti.
Molly. Doveva aver bussato per annunciare la sua presenza, ecco perché si erano girati verso la sala mortuaria.
Stamford fece segno alla ragazza di entrare, e lei lo superò gettando un veloce sguardo in alto, verso Sherlock.
Il detective vide John sorridere gentilmente alla donna, avvicinandosi per prendere il suo caffè, e osservò il suo volto cambiare espressione mentre Molly gli diceva qualcosa, tenendo basso lo sguardo. Il medico corrugò la fronte, assumendo un aria incredula, e accennò un sorriso incerto verso di lei, voltandosi poi verso Mike, che aveva già alzato la testa verso l'emiciclo e stava accennando un saluto in direzione del detective.
Sherlock mosse appena la mano in risposta, continuando a tenere gli occhi fissi su John, che alla fine si voltò anch’egli verso di lui.
Il medico mantenne uno sguardo interrogativo per qualche secondo, poi si aprì in un veloce sorriso, che gli rilassò il volto. Insieme ai lineamenti di John, Sherlock sentì sciogliersi la morsa di tensione che gli aveva chiuso lo stomaco poco prima, e ricambiò il sorriso con uno dei suoi: spigoloso e rapido, ma sincero.
John disse qualcosa a Molly, poi a Mike, che annuì con aria allegra. Infine si diresse alla porta ed uscì dalla stanza, mentre i due si dirigevano con passo lento, affiancati, verso l’uscita posta dall’altro lato rispetto a quella dalla quale poco prima era entrata la donna ed ora era uscito il medico. Molly, prima di seguire Mike oltre la porta, lanciò un ultimo sguardo in alto, cercando gli occhi di Sherlock, ma non li trovò: l’uomo si era già rivolto all’interno, verso l’ingresso dalla stanza, in attesa che John lo raggiungesse.
 
Angolo dell’autrice:
Per prima cosa, e come sempre, grazie a tutte/i. Siete sempre di più a leggere, ad aggiungere alle seguite e alle preferite, a commentare, ed io non posso che esserne felice.
 
Detto questo, veniamo al capitolo, dove c’è di tutto e di più. XD
 
Per prima cosa John. Che abbiamo scoperto non aver capito di aver prodotto una scia, nella caffetteria, ma che sente che qualcosa non va, e che la cosa deve legarsi necessariamente a quell’aspetto (palese in questo senso la domanda che pone a Mike, pur camuffando la sua paura ed anzi, fingendo che sia l’esatto contrario di quella reale). E poi c’è Sherlock, che fa talmente tante cose pur non facendone quasi nessuna, che ho dovuto rileggere il capitolo per riuscire a ritrovarle tutte (ma a voi succede di dimenticare quello che avete scritto? Io delle volte mi ritrovo proprio a dire: “ma davvero ho scritto questa cosa?” XD Vabbè).
Intanto sa che tutto ciò che lo sta muovendo, in questo momento, è istinto puro, e non razionalità. Ciò nonostante non può evitare di farlo. Resta lucido, in alcuni momenti si rende anche conto che è davvero tutto “oltre”, ma è anche un uomo che, a mio avviso, ha una forte comprensione e conoscenza di sé (sentimenti a parte, quelli ha scelto volutamente di perderli, dopo la prima esperienza fallimentare), tanto da riconoscersi anche quella che lui vede come una debolezza, ma che ai nostri occhi dovrebbe essere un pregio: sa di non essere in grado di tornare a casa senza sapere cosa ne sia stato di John. Non potrebbe farlo, e in parte la scelta di continuare a cercarlo è anche egoistica: “fino a quando non lo avrò trovato, non potrò dedicarmi ad altro. Lo so. Ormoni o meno, questo è. Quindi lo faccio.”
Poi c’è la questione Soma, che è appena accennata, ma c’è. Sherlock ha quasi finito il Soma, tanto che nel capitolo dedicato a questo aspetto, si ripropone di passare da Molly. Ma quando ha la possibilità di prenderlo, ci rinuncia subito: il punto focale si è spostato (e lo vedremo meglio alla fine del prossimo capitolo), e non se n’è neanche accorto. (Che pazienza che ci vuole. XD) In teoria il Soma potrebbe fargli dimenticare John e l’ansia che prova. Ma lui non prende in considerazione questo aspetto.
C’è poi tutta la parte nell’emiciclo. I pensieri su John, e la gelosia. Per assurdo Sherlock si riconosce in modo chiaro di essere preda degli ormoni nell’unico momento in cui non è possibile che questi siano la causa di quel che prova: John è lontano (anche avesse una scia, che poi non ha), ed è chiaro che stia bene, che non sia in pericolo. La sua “ansia” da protezione dovrebbe essersi esaurita, come infatti è. Ma la gelosia, invece… XD E qui abbiamo un’altra dimostrazione del fatto che Sherlock si conosce molto bene, ma fa fatica ad orientarsi quando si entra in quella zona. XD
 
Ok, ho scritto un capito nel capitolo, e mi dispiace. Ma questo in particolare è stato complicato da tirar giù (non so neanche bene perché), e mi sentivo di aggiungere queste cose (anche se so che è superfluo! In teoria, se scritto decentemente, dovrebbero saltar fuori dal testo, queste cose. XD)
 
Un saluto a tutte,
alla prossima!
(Che potrebbe slittare a domenica, o persino a martedì prossimo, dipende dal lavoro. Mi scuso già da ora per l’eventuale ritardo!)
 
B.

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Capitolo 17
*** Addii e rime ***


 
John bussò un paio di volte, in modo leggero, affacciandosi nell’emiciclo subito dopo, mantenendosi con il corpo fuori dalla stanza. Razionalmente – se ne rendeva perfettamente conto - non aveva alcun senso l’essersi annunciato in quel modo, ma gli era sembrato un buon modo per prepararsi mentalmente e fisicamente al trovarsi nuovamente in un piccolo spazio assieme al detective, dopo quanto successo nella caffetteria.
“Ehi.” Esordì, sorridendo in modo impacciato in direzione di Sherlock. “Che ci fai qui?” Domandò poi, aprendo un po’ di più la porta. “Avevo detto che ti avrei chiamato io, ci fossero state novità.”
Il detective, immobile al centro della stanza, chiuse gli occhi per un secondo, prendendo un respiro profondo. Nessuno stimolo olfattivo lo raggiunse, e lo cosa lo tranquillizzò più di quanto immaginasse.
“Mi annoiavo.” Mentì, tornando con lo sguardo sul viso del medico. “Ho pensato che se fossi stato abbastanza fortunato da arrivare in tempo mi avreste fatto assistere all’autopsia.” Aggiunse, facendo qualche passo indietro e andando a sedersi su una delle panche di legno.
“Questo era totalmente fuori discussione, lo sai, vero?” Chiese John, finendo si aprire la porta e facendo qualche passo verso l’interno.
Non sapeva fino a che punto Sherlock si fosse accorto del suo disagio, quella mattina, e la cosa lo agitava. Non voleva dover fornire spiegazioni in merito al suo comportamento, ancor meno considerato che non aveva neanche lui un’idea precisa di cosa lo avesse provocato.
“Sì… Lo so.” Annuì Sherlock, assumendo una posizione rigida e dirigendo lo sguardo oltre il vetro.
“Perché sei qui?” Insistette il medico, andandosi a sedere all’altro capo della panca, mantenendo una certa distanza tra loro. “Veramente, intendo.” Specificò, intrecciando le dita delle mani e appoggiandole sulle gambe, anche lui rivolto verso la vetrata.
“La tua scia si è riattivata, questa mattina.” Buttò fuori Sherlock, cercando di mantenere un tono distaccato. Il suo odore, però, si alzò e iniziò a vibrare, spezzandosi in tante fragranze e sentimenti diversi.
John strinse con più forza le dita tra loro, tanto che i polpastrelli divennero bianchi, mentre il dorso delle mani andava arrossandosi.
“Lo sapevo.” Sibilò, sentendosi avvampare di rabbia e vergogna. “Me lo sentivo che era successo qualcosa. Maledizione!”
Si alzò di scatto, iniziando a muoversi per la stanza in modo circolare, con movimenti scomposti.
Sherlock, sguardo ostinatamente fisso davanti a sé, seguì con la coda dell’occhio il medico, mordendosi il labbro inferiore in un automatismo che lo accompagnava sempre, quando doveva seguire il filo di un pensiero particolarmente complesso.
“Hai assunto Snubber dopo essertene andato?” Chiese, atono.
“Dio, certo che no! Non si può assumere un’altra dose mentre si ha in circolo quella precedente.” Rispose l’altro, con voce roca.
“Quanto manca al Calore?” Continuò Sherlock, come se non lo avesse sentito.
“Che importanza ha? Un mese, ad ogni modo.” John si era fermato, e adesso osservava il detective con aria interrogativa.
“Quindi non hai assunto nuovamente inibitori.” Ripeté Sherlock, quasi distrattamente.
“No. Se lo avessi fatto probabilmente adesso sarei in un altro reparto di questo ospedale, se non sdraiato in uno dei lettini al piano di sotto.” Sottolineò, indicando oltre il vetro.
Sherlock sentì lo stomaco contrarsi a quelle parole, ma cercò di ignorare il suo - del tutto indesiderato - istinto di protezione che continuava a manifestarsi.
“Eppure non hai scia, al momento.”
“Sì, così pare. L’ho chiesto personalmente a Mike, appena arrivato, e ha confermato.”
“Hai chiesto a Stamford se la tua scia era ancora azzerata?!” Sherlock alzò uno sguardo incredulo su di lui.
“Certo che no, non sono matto!” Controbatté John, rimanendo immobile. “Ma avevo bisogno che qualcuno mi confermasse che fosse tutto ok. Non mi sono accorto della scia, alla caffetteria, ma… Beh, sono stato piuttosto male venendo qui. Ho avuto paura che fossero gli inibitori.” Ammise, voltandosi verso l’obitorio. Sentiva la paura premere sui muscoli del suo volto, pronta a deformarne i tratti, e non voleva che Sherlock lo notasse.
I due rimasero in silenzio per qualche secondo, John viso alla vetrata, Sherlock con occhi fissi sulla sua schiena.
“Cosa è successo in quella caffetteria, John?” Domandò quindi il detective, sforzandosi di far uscire le parole nel modo più distaccato possibile.
“Non lo so.” Rispose l’altro, scuotendo la testa. “Io davvero non lo so.” Ripeté, appoggiando una mano contro il vetro freddo.  “Forse gli inibitori si stanno inattivando poco alla volta, ad intervalli irregolari… Io…” Si fermò un attimo, prendendo un respiro profondo e combattendo l’istinto di raccontare a Sherlock dei pensieri che aveva avuto relativi al ragazzo che li aveva serviti. “Ad ogni modo non ha molta importanza. Andrò via da Baker Street oggi stesso.” Disse invece, dopo qualche secondo di silenzio. “Sei venuto per questo, non è vero?” John girò la testa in direzione di Sherlock, che si affrettò a spostare lo sguardo lontano da lui.
“Sono venuto per questo, sì.” Ammise, la voce percorsa appena da un flebile sussulto. John sentì la sua scia velarsi, farsi salata. Tristezza. La parola esplose nella sua testa con la stessa forza di un’esplosione. Sherlock, anzi, l’Alpha (si corresse mentalmente, iniziando a prepararsi al distacco imminente, cercando di ignorare il dolore sordo che iniziava a sentire premere contro i polmoni ed incendiare ogni respiro) era triste di dovergli chiedere di andarsene. Sì, la cosa era andata decisamente oltre i limiti che si erano dati.
“E per assicurarmi che stessi bene.” Aggiunse Sherlock, richiamandolo con la sua voce dai suoi pensieri.
“Non ti dovrebbe importare il mio stato di salute, fisica o mentale che sia.” Disse John, girandosi completamente in sua direzione. “Non ho bisogno di un Alpha che mi controlli.”
Un sorriso amaro increspò un angolo delle labbra di Sherlock.
“Ed io non ho bisogno di perdere tempo prezioso per le indagini per venire a controllarti.” Rispose. “Ciò nonostante-“
“Eccoci qui.” Terminò per lui John, addolcendo leggermente il tono di voce.
“Questo non era previsto…” Aggiunse, appoggiandosi con la schiena alla vetrata alle sue spalle.
“No invece. Era previsto, ed è per questo che abbiamo deciso già dal primo momento cosa fare se fosse accaduto.” Lo corresse il detective.
“Avevo previsto che gli inibitori avrebbero smesso di funzionare, prima o poi.” John chiuse gli occhi per qualche secondo, inspirando profondamente. “Non che…”
“Che?” Lo incalzò Sherlock, tornando con gli occhi su di lui.
“Non che mi sarebbe dispiaciuto dover andar via.” Ammise il medico, lasciando uscire l’aria con lentezza dalla bocca. “Ad ogni modo… È stato… Interessante, finché è durato.” Aggiunse, sorridendo appena. “Devi concedermi qualche ora, per portar via le mie cose.” Terminò, tornando ad assumere un tono di voce sicuro ed una postura rigorosa, militare.
“Certo. Starò lontano da Baker Street tutto il pomeriggio. Promesso.” Sherlock si alzò, passandosi le mani sul cappotto, distrattamente, come a sistemarlo. Fece un passo verso John, e allungò una mano verso di lui.
“Grazie di tutto, dottor Watson. È stato un piacere conoscerla.” Disse, voce seria e scia nuovamente immobile.
“Sono io a dire grazie. Per avermi mostrato che c’è un intero mondo oltre le mie idee su di esso.” John stinse con forza la mano attorno a quella dell’altro. Qualcosa, in mezzo al petto, bruciava e a doleva sempre più forte, ma si impose di ignorarla. Sapeva perfettamente che da quel rapporto, comunque lo si fosse potuto definire, non sarebbe potuto nascere niente di buono per lui. Lasciarlo andare era, oltre che anche la volontà di Sherlock, la cosa migliore, per entrambi.
Il detective ricambiò la stretta per qualche attimo, dirigendosi poi verso la porta, senza voltarsi o aggiungere altro.
Una volta uscito si avviò a passo svelto lungo il corridoio, imponendosi di non fermarsi per nessun motivo. Solo una volta finito di salire le scale lasciò la presa sulla sua scia, tenuta sotto controllo da quando aveva detto addio a John fino a quel momento. Il sentore di sale e agre che si liberò era talmente forte da risultare fastidioso al suo stesso olfatto. Sherlock meditò per qualche secondo di recarsi da Molly, nella farmacia dell’ospedale, ma infine decise di non farlo. Per anni aveva affidato al Soma in compito di sedare, nascondere, cancellare. Ma non voleva niente di simile, in quel momento. Per la prima volta voleva sentire, sentirsi. Studiare con occhio critico e analitico quelle emozioni che non credeva più di possedere, e che un Omega appena conosciuto aveva invece fatto riemergere. Conoscerle, capirle, voleva dire essere in grado di controllarle ed estirparle. Il Soma sarebbe stato solo un palliativo, non una cura efficace.
Alzò quindi il bavero del cappotto e uscì dall’ospedale.
     Dopo circa dieci minuti di camminata, il cellulare vibrò nella tasca del soprabito. Il primo pensiero che - fugace - gli attraversò la mente fu che si trattasse di John, e si vergognò per questo non appena il suo nome prese forma nella sua mente. Doveva pensare a lui come ad un capitolo chiuso. Metabolizzarlo e relegarlo in uno dei posti più lontani della sua memoria, non sperare che lo contattasse.
Estrasse il telefonino dalla tasca con un gesto rapido, sbloccandolo con un movimento fluido.
Sullo schermo era presente un solo messaggio.
 
[From: unknown number][11:39 am]
 
Uno, due e tre,
che bell’Omega hai con te.
Quattro, cinque e sei,
è il Legame che vorrei.
Sette, otto e nove,
sul suo corpo adesso piove.
Dieci, e zero, e dopo mille,
sono vuote le pupille.
Mille, e cento e ancora zero,
resterà soltanto un cero.
 
Sherlock sentì un brivido salirgli lungo la schiena, mentre rileggeva una seconda volta il contenuto del messaggio appena ricevuto.
“Cazzo.” Imprecò a mezza voce.
Con un movimento rapido inoltrò il messaggio a Mycroft.
 
[To: Mycroft][11:41 am]
Rintraccialo. ORA.
 
Scrisse subito dopo, come spiegazione del primo sms.
Cercò poi il numero di John in rubrica e si portò il telefono all'orecchio, sperando di sentire la sua voce rispondere dall'altro capo.

Angolo dell'autrice:
Capitolo breve, ma non mi andava di lasciare la storia ferma troppo a lungo (fino a martedì, forse giovedì), quindi ho deciso di pubblicare quanto era già pronto.

L'ho riletto, ma ammetto che dopo otto ore di corso BLS-D (primo soccorso e defibrillazione) passate a spostare e praticare il massaggio cardiaco ad un manichino alto e pesante il doppio di me potrebbe essermi scappato qualcosa. XD
In compenso adesso potrei praticare la manovra di Heimlich e la respirazione bocca a bocca (e tutte le sue varianti) anche ad un riccio, penso. XD

Ho letto tutti i vostri commenti, e vi ringrazio tanto di averli lasciati! Domani prometto di rispondere a tutte, vecchi e nuovi commenti che siano. ^_^
Come giustamente suggerito da Koa (alla quale anticipo i miei ringraziamenti), evito di analizzare in questo spazio quanto accaduto nel capitolo (in effetti nell'ultima nota avevo avuto la sensazione di aver esagerato, anche prima che lei me lo confermasse nel suo commento XD).

Come sempre grazie a tutte/i per aver letto.
Spero di aggiornare prima di giovedì, ma davvero non posso assicurarlo.

B.
 

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Capitolo 18
*** Morire ***


John rimase immobile qualche secondo.
Sherlock era appena uscito dalla stanza, e ancora non riusciva a pensare in modo lucido a quanto appena successo.
Solo la sera prima si era addormentato sulle note del violino del suo coinquilino e adesso, meno di ventiquattr’ore dopo, non aveva più nulla. Sapeva che i patti erano quelli, ed era stato felice di trovare qualcuno che la pensasse come lui. Non cercava un Legame, non voleva un Legame.  Eppure, in quella stretta di mano che sanciva il loro addio, aveva sentito scivolargli via dalle dita un po’ della sua sicurezza. Si era affacciato nell’incredibile vita di quell’uomo, l’aveva condivisa con lui per un periodo breve ma che adesso gli sembrava distanziare quello che aveva vissuto fino a una decina di giorni prima come uno spartiacque dal quale non c’era ritorno.
Aveva attraversato lo specchio [1], e adesso era un riflesso mutato del sé che era stato per una vita intera.
Fece un paio di passi e si lasciò cadere su una delle panche di legno, portandosi il viso tra le mani.
Aveva bisogno di riflettere un attimo, con calma. Di riprendere in mano le sue sicurezze. Di pensare a dove andare, una volta lasciato l’appartamento di Baker Street. Ma più di ogni altra cosa, aveva bisogno di togliersi da naso, dai vestiti, dalla pelle l’odore dell’Alpha. Lo aveva respirato per giorni, si era abituato a sentirlo con sé in ogni momento della giornata passato nel loro appartamento. Ma adesso lo percepiva bruciare su ogni millimetro di pelle, incendiargli i polmoni ad ogni respiro. Non era questione di reazione ormonale. Era qualcosa di più intimo, se possibile. Aveva a che fare con il lutto per qualcosa che non era neanche esistito,  e quindi impossibile da elaborare. Era collegato ad un viso, ad una persona, e non al suo “ruolo”.
Seduto immobile nell’emiciclo pieno della scia salata, triste, di Sherlock, ma vuoto della sua presenza, John Watson prese coscienza di aver perso qualcuno che amava, in qualche modo, avere nella propria vita. Che l’aveva migliorata, senza sforzo, senza bisogno di parole o gesti eclatanti. E che allontanarsi fosse l’unica cosa possibile da fare non gli sembrò, al momento, di nessuna consolazione.
Intanto, al piano di sotto, nella saletta attigua alla camera mortuaria, il suo cellulare continuava a vibrare, senza che nessuno potesse sentirlo.
 
Sherlock imprecò a mezza voce, chiudendo l’ennesima chiamata verso John e cercando un nuovo numero sulla rubrica.
Si portò l’apparecchio all’orecchio iniziando a tornare verso il Bart’s.
Dopo qualche squillo la telefonata venne accettata. Per un paio di secondi, Sherlock non riuscì a sentir altro che un brusio di voci, incomprensibili.
Poi, lontana ed ovattata, si sentì la voce di Greg ordinare di sedersi.
“Lestrade!” Provò Sherlock, a voce alta. “LESTRADE!” Gridò, quando non ricevette alcuna risposta al primo tentativo.
“Spero sia importante, Sherlock, sto per iniziare la conferenza stampa sul caso Kensington.” Rispose dopo poco l’ispettore, a voce bassa. “Ho detto seduti! Inizieremo tra un attimo!” Lo sentì poi ripetere, rivolto quasi sicuramente alla folla di giornalisti che doveva avere di fronte.
“Questa cosa è venuta a galla, e ora siamo in un bel casino!” Aggiunse, rivolto nuovamente al detective.
“Sì, gli inconvenienti degli omicidi all’aperto.” Tagliò corto lui. “Ho bisogno di una volante al Bart’s. Adesso.”
“Cosa?! Che è successo?! Dammi un secondo che esco da questa maledetta conferen-“
“Resta dove sei e fa’ il tuo lavoro, per l’amor del cielo. Chissà cosa mai potrebbe inventare la stampa se un ispettore di Scotland Yard sparisse da un incontro con i giornalisti senza dare spiegazioni. Manda semplicemente una pattuglia. Ho bisogno che sorveglino John.”
“John? Che diavolo sta succedendo?” Dal tono di voce dell’ispettore traspariva tutta la sua preoccupazione.
 
“Piantala di perdere tempo prezioso con domande inutili, e manda una volante da John! Fallo e basta! ADESSO!” Sherlock chiuse la telefonata con un gesto stizzito. Lasciò cadere il cellulare nella tasca esterna del cappotto e rimase immobile qualche secondo, cercando di calcolare il percorso più breve per tornare all’ospedale. Un taxi? No, avrebbero rischiato di rimanere fermi ad un semaforo o, peggio, imbottigliati nel traffico. Metro? Ancora una volta la possibilità di perdere tempo prezioso era la più probabile: se fosse appena passata e avesse dovuto aspettare quella successiva? Se ci fosse stata fila ai tornelli? Chiuse gli occhi, portandosi indice e medio delle mani alle tempie. Doveva pensare. In fretta. Una mappa della città dall’alto si formò sotto le palpebre abbassate, e Sherlock la ridusse al quartiere dove si trovava in quel momento e la zona che ospitava il Bart’s. Poi visualizzò una linea rossa che collegava i due punti. Lui a John.
Il tempo di riaprire gli occhi e prendere un respiro profondo, e Sherlock iniziò a correre, seguendo il proprio percorso mentale.
 
Qualcuno bussò alla porta dell’emiciclo, e John sobbalzò visibilmente, riemergendo dai propri pensieri.
“Avanti.” Disse, a voce sufficientemente alta da essere sentito, ma senza urlare.
Per qualche secondo ci fu silenzio. Poi, nuovamente, il suono di nocche contro il legno.
“Ho detto avanti!” Ripeté John, alzandosi e avviandosi con passo lento verso la porta.
“Mike, se sei tu giuro che non è divert-“ Continuò, posando una mano sulla maniglia.
In quel momento la porta si spalancò, e John non fece in tempo ad alzare gli occhi sulla persona dall’altra parte: in una frazione di secondo si trovò a terra, con le mani dello sconosciuto premute contro le spalle.
L’impatto della testa contro il pavimento gli annebbiò per qualche attimo la vista. Istintivamente portò le mani in avanti, ancorandosi alla giacca dell’uomo (poteva vederlo chiaramente, adesso, anche se il cappuccio calato sul viso e il dolore pulsante che sentiva avvolgergli la testa gli permettevano di mettere a fuoco solo le labbra ed il mento) per tenerlo il più lontano possibile da sé.
Aveva un odore acre, ma non forte a sufficienza per identificarlo come Alpha. Era un Beta, senza dubbio, e l’intensità anomala della sua scia era data, quasi sicuramente, dall’assunzione di qualche droga. John incamerò tutte le informazioni in pochi secondi. Durante gli anni nell’esercito aveva imparato che una rapida analisi del contesto e del nemico alle volte era l’unica cosa in grado di fare realmente la differenza in caso di pericolo.
Un Beta sopra di lui poteva voler dire tante cose, ma sicuramente ne escludeva una: pericolo di venir morso. Poteva quindi smettere di concentrarsi a cercare di proteggere il collo, e dedicarsi all’atterrare, in qualche modo, l’uomo.
John piegò leggermente le braccia, preparandosi a darsi una spinta con i reni per cercare di spostare di lato l’aggressore. Prese un respiro profondo, e si preparò ad irrigidire gli addominali bassi. Inaspettatamente, l’uomo sopra di lui staccò le mani dal suo petto e si alzò leggermente, prima di ricadere con le ginocchia sullo sterno del medico.
John sentì i polmoni svuotarsi totalmente di ossigeno, e per qualche secondo rimase immobile, impossibilitato a far qualsiasi cosa che non fosse tentare di riprendere fiato.
Vide l’aggressore cercare qualcosa nella tasca della giacca, e tutti i suoi recettori del pericolo iniziarono a gridargli che doveva alzarsi, o sarebbe stato troppo tardi. Abbassò un braccio, cercando di afferrare la manica della giacca dell’uomo, e con l’altra tentò di arrivare al suo viso. Non aveva bisogno di tanto, sarebbe bastato un colpo ben assestato al mento, per poter tentare di toglierselo di dosso. In quel momento l’aggressore estrasse quel che stava cercando dalla tasca, e John capì che non c’era più tempo.
Guardò con occhi sgranati l’assalitore portarsi una siringa alla bocca, e liberarla con i denti dal cappuccio protettivo.
“MIK-“ tentò John, nonostante il peso dell’uomo gli impedisse di respirare e di emettere poco più di un rantolo.
“Sta’ fermo, Omega!” sibilò l’uomo, e John cercò affannosamente di capire dove avrebbe tentato di colpirlo. I bersagli erano molteplici, e tutto dipendeva dal contenuto della siringa, ma non c’era tempo per un’analisi più specifica. L’unica minaccia concreta che riusciva a mettere a fuoco in quel frangente era un arresto cardiaco da iniezione di adrenalina, quindi optò per il piegare le braccia contro il petto, riparando in cuore.
 “Lo aveva detto, che lo avresti fatto.” Sussurrò l’uomo, aprendosi in un sorriso malato.
Il tempo di immagazzinare l’informazione apparentemente senza senso appena ricevuta, e John sentì un dolore lancinante lacerargli la pelle, poco sotto il viso.
L’uomo, adesso del tutto chino su di lui, gli premeva con tutta la sua forza l’ago in profondità nel lato destro del collo. John spalancò la bocca per il dolore e la sorpresa, mentre l’aggressore finiva di spingere con lo stantuffo il contenuto della siringa e si rialzava velocemente, lasciandolo libero di respirare.
John allargò i polmoni in spasmodica ricerca di ossigeno, ed allo stesso tempo sentì la pelle iniziare ad andare a fuoco. Non era semplice dolore, era qualcosa che andava oltre. Era come se qualcuno gli avesse incendiato ogni singolo capillare, ogni millimetro di pelle, ogni cellula di ossigeno che stava respirando.
Il medico si contorse, arcuando la schiena. L’uomo, adesso in piedi accanto a lui, lo sentì rantolare. Attese qualche attimo, guardando John spostarsi su di un lato e vomitare. Poi uscì dalla stanza, lentamente, togliendosi il cappuccio non appena superata la porta e riponendo la siringa - ormai vuota - nella tasca del cappotto.
John rimase in posizione fetale, scosso dai conati, per qualche secondo. Poi, lentamente, il bruciore iniziò a scemare. A fatica, ancora preda dei tremori, il medico cercò di mettersi in ginocchio. Si ancorò con un braccio ad una delle sedute di legno, e provò e mettersi seduto, ricadendo in terra poco dopo, al termine di sforzi inutili. Le gambe non sembravano ancora rispondere correttamente, ed i tremori gli impedivano di far forza in modo utile sulle braccia.
Si trascinò quindi fino al punto più lontano dalla porta dell’emiciclo, e si lasciò cadere spalle alla parete. Per circa un minuto fu come essere morti. John lo pensò un paio di volte, mentre un vuoto sensoriale lo avvolgeva. Non provava più dolore, ma non riusciva neanche più a vedere, o a sentire, suoni od odori che fossero.
Poi, all’improvviso, i sensi si riaccesero tutti insieme, in un’esplosione percettiva che gli fece nuovamente salire un conato lungo la gola.
Più di tutto, un odore nuovo si imponeva adesso prepotentemente alla sua attenzione, e John cercò di muovere la testa per allontanarlo. Era forte, pungente, e sembrava voler a tutti i costi rimanergli ancorato addosso.
John tossì un paio di volte, poi bloccò il respiro, sperando che scomparisse.
Ma quando riprese fiato, qualche secondo dopo, l’odore era ancora lì, immobile.
Il medico alzò a fatica una mano e si portò il dorso contro il naso, per schermarsi. Inaspettatamente, l’emanazione si fece ancora più forte.
“Che diavolo…” Sussurrò John, lasciando ricadere il braccio.
“Ok, calmati.” Si disse, provando a chiudere gli occhi e a prendere un paio di respiri profondi.
Sentì il suo cuore rallentare, e la tensione alleggerirsi un po’.
L’odore, attorno a lui, mutò. Divenne più dolce, più morbido.
Gli ricordava qualcosa, adesso. Aveva a che fare con Sherlock, con il suo violino. Con la sua voce che elencava tre cose.
Arance.
Menta.
Lavanda.
“Cristo!” esalò John, cercando di mettersi in piedi.
La scia tornò immediatamente agre, e il medico ebbe la sensazione, per qualche attimo, di star per perdere la propria lucidità mentale. Una parte di lui continuava a pensare che no, non era possibile. Un’altra, più razionale, gli stava ripetendo ormai da qualche secondo che quell’odore non se ne sarebbe mai più andato. Non avrebbe potuto.
Era il suo odore.
John sentì le lacrime, bollenti, premere contro i suoi occhi. Bruciavano di paura, di terrore, ma anche di rabbia. Una rabbia sorda, carica di disperazione.
Il medico ingoiò un paio di boccate d’aria, sentendo la sua scia divenire un sapore, sulla propria lingua, e ricacciò indietro le lacrime.
Poco lontano, nel corridoio, lo raggiunse il suono di passi affrettati.
John si alzò facendo appello a tutte le sue forze, e si appoggiò alla parete con gambe tremanti.
Se era quell’uomo che tornava per finire il lavoro, non si sarebbe fatto trovare impreparato.
“John Watson!” si sentì chiamare, e la cosa lo lasciò interdetto.
Ancora instabile sulle proprie gambe, cercò comunque di prepararsi a dover fuggire.
“John Watson!” Ripeté la voce, ormai ad un passo dalla porta.
I passi si fermarono, ed il medico riuscì a sentire solo qualche bisbiglio.
Trattenne il fiato, lanciando uno sguardo con la coda dell’occhio alla propria destra, oltre la vetrata dell’emiciclo, in cerca di un possibile aiuto. La sala autopsie era vuota, e John si lasciò sfuggire un sospiro.
I sussurri finirono, e per qualche secondo ci fu solo silenzio. Poi, inaspettatamente, un poliziotto si affacciò nella sala, pistola dritta davanti a sé.
Guardò John, poi ciò che aveva rimesso sul pavimento, e di nuovo il medico, mentre un altro agente si affacciava cautamente a sua volta, affiancandolo.
“È lei John Watson?” Domandò il primo, facendo un passo avanti.
La sua scia, benché fosse un Beta Minus, colpì John come uno schiaffo. Il medico si appiattì contro la parete, incapace di muoversi in altro modo.
“È lei John Watson?” Chiese nuovamente l’uomo, facendo un ulteriore passo verso il centro della stanza.
“Andate via…” riuscì a dire John, la voce ridotta a poco più di un sussurro.
“Sta bene? Cosa è successo?” Continuò l’agente, ignorando la sua richiesta.
“Andate via!” Ripeté John, con voce lievemente più ferma. Più l’uomo rimaneva nella stanza, più quella si saturava del suo odore che, anche se misero, al momento premeva come una lama contro i polmoni del medico.
“Per favore…” Provò, odiandosi per il tono supplichevole che stava usando.
“Signore, se è successo qualcos-“ Continuò il poliziotto, preparandosi a fare un altro passo verso John.
“Non lo avete sentito? Ha detto di andare via.” Una voce, alle sue spalle, fece girare di scatto l’agente. “Lestrade, richiama i tuoi uomini. È tutto ok.” Aggiunse la voce, sottolineando in modo particolare il nome dell’ispettore, in modo che i due uomini capissero con chi, evidentemente, era al telefono.
L’agente si girò un’ultima volta verso John, lanciandogli un’occhiata che sottointendeva che quella fosse la sua ultima possibilità di chiedere aiuto.
Il medico distolse lo sguardo, abbassandolo. Aveva riconosciuto la voce alle spalle dell’agente ancor prima che la scia, e adesso sentiva un disperato bisogno di correre quanto più possibile lontano da quell’odore, e da Sherlock, fosse possibile.
Il poliziotto affiancò il detective e gli lanciò uno sguardo serio, prima di superarlo e tornare su i suoi passi. Sherlock sentì distintamente la voce di Lestrade, attraverso le loro radioline, comunicargli di far rientro alle centrale. Chiuse quindi la telefonata con l’ispettore, ed entrò nella stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
“No.” Implorò John, attaccandosi ancor più con le spalle contro la parete. “ Ti prego, Sherlock, vattene.” Sussurrò, incapace di alzare lo sguardo o impedire alla scia del detective di riempire ogni suo respiro.
“Che cosa è successo?” Gli sentì domandare, mentre il suo odore mutava di intensità, diventando carico di preoccupazione.
“Non lo so…” Ammise John. “Ma so che devi andare via.” Aggiunse, alzando uno sguardo mesto sul detective.
Si sorprese nel trovarlo con i capelli appiccicati alla fronte per il sudore, e con un’espressione tesa sul viso.
Doveva aver corso, e molto, e John pensò che non lo aveva mai davvero visto prima di quel momento. Era come vederlo sotto un’altra luce, come se fosse completo, adesso, non più un’entità dotata di un corpo e di una scia, ma un qualcosa che era integro solo nella combinazione di entrambi.
John sentì nuovamente un fiotto di nausea risalirgli lo stomaco e bruciargli in gola. Non voleva nessun pensiero come quello, non voleva – al momento - alcun pensiero.
“Sherlock…” Iniziò, piegandosi sulle gambe e cercando di trattenere gli spasmi che i conati gli stavano dando. “Per favore…Per l’ultima volta…”
“Mycroft.” La voce del detective era dura, inflessibile. “Manda una macchina al Bart’s. Adesso.”
Sherlock spense il cellulare e lo ripose nella tasca del cappotto.
“Andiamo.” Disse, avvicinandosi a John. Il medico sentì le gambe cedere, e si lasciò cadere a sedere sul pavimento.
“No.” Rispose, con voce tremante.
“Andiamo John.” Ripeté Sherlock, facendo un passo indietro e cercando con la mano la maniglia della porta, socchiudendola.
“Non puoi rimanere qui. Non con quella scia. Sei lontano dal Calore, quindi per adesso non ci sono grossi problemi, ma dobbiamo andarcene.”
“No.” Ribatté il medico, sottolineando l’affermazione con un movimento del capo.
“Per favore.” Sherlock si era piegato sulle ginocchia e aveva abbassato la voce. Anche la sua scia, in parte, si era abbassata. “Ti giuro che troverò un modo per rimettere le cose come prima, ok?”
“Un uomo… lui… mi ha iniettato qualcosa.” Spiego John, a fatica, indicandosi il collo.
Sherlock aggrottò la fronte. “La scia si è riattivata per questo?” Domandò.
Il medico fece cenno di sì con la testa.
“Ok. Allora è davvero momento di andare. Troverò chi ti ha fatto questo e sistemeremo ogni cosa ma, se vuoi che il tuo segreto resti tale, adesso devi alzarti.” Sherlock si avvicinò a passo svelto verso John, e lo afferrò, aiutandolo a mettersi in piedi. Il medico sentì la propria lucidità assottigliarsi ad ogni respiro, e cercò di allontanare il detective con movimenti scomposti.
“Andrà meglio John. Te lo prometto. Non sei in Calore, stai solo ricevendo troppi input olfattivi. O meglio, adesso questi attivano delle risposte, cosa che prima non accadeva. Non è grave, dobbiamo solo andar via di qua. Ed io non ho nessuna intenzione di sfiorarti o farti del male in alcun modo, va bene?” Disse, ancorando i propri occhi in quelli del medico. “Va bene?” Ripeté. John annuì appena.
“Perfetto. Metti questo.” Sherlock si tolse con un movimento fluido la giacca e l’avvolse attorno al medico, che lo guardò senza capire. Il calore della lana e l’odore di Sherlock erano così forti che gli sembrava di essere ubriaco.
“Così copriamo la tua scia. Dovessimo incontrare qualcuno mentre usciamo.” Spiegò Sherlock, aiutando John a muovere i primi passi lungo la stanza. “Quando saremo a casa potrai farti una doccia, e cercheremo di togliere ogni traccia della mia scia, ok? Possiamo chiedere alla signora Hudson se puoi farla da lei, così non sarai costretto a stare al piano di sopra. Per adesso sopporta, lo so che non è il massimo ma è tutto quello che abbiamo.”
“Pensavo…” biascicò John, ancora confuso. “Di non aver più una casa.”
“Diciamo che le priorità sono cambiate.” Rispose Sherlock, secco. “E almeno fino al Calore, non c’è nessun pericolo reale per nessuno dei due. E comunque al momento abbiamo problemi più gravi della tua scia.” Concluse, aiutando John a superare la porta dell’emiciclo ed iniziando a muoversi lungo il corridoio.
 
Una volta saliti sulla macchina di Mycroft, che li attendeva oltre l’ingresso dell’ospedale con i motori accesi, John iniziò a sentire l’aria mancare. L’auto era satura dell’odore del maggiore degli Holmes e, unita a quella di Sherlock, gli sembrò divenire quasi un’entità densa, palpabile, immobile al centro di ogni suo respiro.
Il detective lo osservò rantolare, annaspando in cerca di ossigeno, e si voltò verso il fratello.
“Sarebbe bastata la macchina.” Sibilò, carico di astio.
“Se mi avessi detto qual era il problema, sta’ sicuro che non sarei venuto.” Rispose Mycroft, lanciando uno sguardo verso il medico.
“Che sta succedendo?” Domandò con distacco, ma Sherlock riuscì comunque a notare una piccola inflessione nel suo tono di voce.
“È quello che devo scoprire.” Sherlock si voltò verso John che, ad occhi chiusi e respiro affannoso, cercava di rimanere lucido.
“John.” Lo chiamò.
“John.” Tentò di nuovo, e questa volta il medico socchiuse gli occhi per guardarlo.
“Lo so che… lo so che lo troverai assurdo, ma appoggia il tuo viso sulla mia spalla, va bene?” Cominciò il detective, che con la coda dell’occhio vide il fratello alzare un sopracciglio, sorpreso.
“Respira la mia scia. Se ti avvicini puoi isolare quella di mio fratello e concentrarti sulla mia.” John lo guardò con aria interrogativa.
“È familiare, la conosci. È più facile per te controllarti. Ed io so farlo perfettamente. Il tempo di arrivare a Baker Street. È la cosa più logica da fare.” Spiegò.
Il medico lanciò uno sguardo verso Mycroft, che annuì. A fatica, con uno sforzo che gli mozzò il poco fiato che aveva, si girò da un lato, appoggiandosi alla spalla di Sherlock.
Il primo istinto del detective fu quello di piegarsi a sue volta, andando a nascondere il viso nell’incavo del collo di John. Invece, con un sospiro profondo, tornò a voltarsi verso il fratello.
“Lo hai rintracciato?” Chiese, ascoltando il respiro caldo del medico infrangersi contro il colletto della sua camicia.
“No. Pare sia più furbo del previsto, il tuo serial killer.”
“Già.” Rispose Sherlock, voltando appena la testa in direzione di John. “Non riesco a capire cosa voglia.” Ammise, serrando per qualche secondo gli occhi. “Perché avrebbe dovuto fargli questo. Cos’è che mi sfugge!” Sibilò, con rabbia. “Lo minaccia di morte, e poi…”
“E poi lo condanna a morte. La peggiore, per lui.” Rispose Mycroft, semplicemente, girandosi verso il finestrino.
Sherlock rimase immobile, osservando il volto del fratello rimanere impassibile per tutta la durata del viaggio, intento a seguire i propri pensieri e a tenere il più possibile bassa e sotto controllo la propria scia.
Non si era mai soffermato a riflettere a lungo su i comportamenti di Mycroft. Li aveva sempre visti, semplicemente, come rivolti a mantenere integra la società ed il suo ordine ed in seconda istanza a denigrare le sue scelte di vita. Eppure in quel momento, mentre notava il suo gesto di gentilezza nei confronti di John, non obbligato né richiesto, non riuscì a pensare altro che gli era grato di essere lì per lui. Per loro. E che aveva ragione: il killer aveva condannato John ad una vita alla quale il medico, senza ombra di dubbio, avrebbe preferito la morte.
 
Angolo dell’autrice:
Poi non dite che non vi penso, eh!
Mi sono uccisa per scrivere questo capitolo, e pubblicarlo, in tempo! XD
Tra l’altro è in assoluto il più lungo dall’inizio della storia, quindi spero che vi possa tener compagnia in modo adeguato fino al prossimo, che non so quando potrò pubblicare (comunque sicuramente prima di lunedì prossimo, almeno che non accadano tragedie particolari e non si presenti anche da me un Beta armato di siringa XD)
 
As usual grazie a tutte/i per aver letto, e un doppio grazie a chi ha commentato e commenterà.
 
Un saluto ed un forte abbraccio!
 
B.

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Capitolo 19
*** Passato, presente, futuro ***


Scesi dalla macchina, John – ancora malfermo sulle gambe e sorretto da Sherlock – riuscì finalmente a respirare.
Complice un vento forte, il medico percepì i propri polmoni espandersi e saturarsi di ossigeno, riuscendo finalmente a diluire, almeno in parte, l’odore del detective.
Dopo un paio di boccate si sentì in grado di camminare da solo, e si scostò di qualche centimetro da Sherlock.
“Va molto meglio, adesso.” Sussurrò, rivolto più a se stesso che non al detective.
Sherlock rimase fermo qualche attimo, osservando il medico reclinare indietro la testa e chiudere gli occhi, avido di aria.
La scia del medico era priva di qualsivoglia inflessione, segno del suo essere relativamente tranquillo.
Riuscire a capire cosa provasse John attraverso il suo odore era un’esperienza nuova per Sherlock, e non riusciva a distaccarsi in nessun modo dalla necessità impellente che sentiva di doverlo respirare, catalogare, comprendere. Per lavoro era ricorso spesso all’olfatto, ma niente, prima di quel momento, aveva attirato la sua attenzione con tanta forza. Gli era perfettamente chiaro cosa stesse succedendo, ma in quel preciso momento - il vento che si insinuava tra le pieghe della sua camicia e gli faceva ricadere con violenza i capelli sulla fronte - non gli importava. Era fuggito per anni da questo: dall’ineluttabile forza degli ormoni.
Dalla trappola che racchiudevano, riconoscibile solo una volta al suo interno. Capiva ogni sfumatura del proprio comportamento, e ne era spaventato. Allo stesso tempo, però, l’idea di girarsi dall’altra parte, o di fare un passo lontano da John non sembrava attuabile.
“Le scie degli altri sono le sirene di Ulisse. Cantano, e tu dimentichi chi sei.” Gli aveva detto Mycroft una volta, quando – ancora troppo piccolo per averne una propria – era andato da lui a cercare risposte.
Sì, le scie erano questo: un richiamo. Ma lui sarebbe stato capace di legarsi all’albero maestro della propria volontà, come sempre.
“Stai tremando.” La voce di John lo richiamò dai suoi pensieri.
“Cosa?” Domandò, confuso.
“Tremi. Fa freddo qui fuori, e hai dato a me il tuo cappotto.” Spiegò John, guardandolo con la coda dell’occhio, la testa ancora rivolta in alto. “Entriamo.”
Sherlock annuì appena, e si diresse verso la porta d’ingresso.
“Signora Hud-“ chiamò, a voce alta, una volta nell’ingresso.
“No.” Disse John dietro di lui - scuotendo energicamente la testa - bloccandolo.
“Pensavo avessimo detto che ti saresti lavato da lei.” Sherlock si voltò a guardarlo con aria interrogativa.
“Sto meglio adesso, voglio andare di sopra.” John superò il detective e si diresse verso le scale.
“John sopra è saturo del mio odore.” Il detective allungò una mano per fermarlo, ma il medico si portò velocemente sul primo gradino, voltandosi poi verso di lui.
“Vorrà dire che apriremo le finestre.” Sibilò.
“Non è la scelta più indicata, al momento.” Ribatté in detective, con voce calma.
“Nessuno deve sapere della mia condizione, Sherlock. Nessuno.” John alzò un angolo della bocca nell’imitazione di un ringhio, come aveva imparato a fare anni addietro per sottolineare il proprio disappunto per qualcosa.
“Cari!” La voce della signora Hudson interruppe il loro contatto visivo, facendoli voltare entrambi verso la porta del suo appartamento.
“Che succede?” Domandò la donna, facendo scorrere uno sguardo preoccupato da l’uno a l’altro.
“Niente signora Hudson, ci perdoni se l’abbiamo disturbata.” Disse John, lanciando a Sherlock un’occhiata eloquente.
Un comando. Sarebbe bastato un solo ordine impartito con voce sufficientemente sicura, per costringere il medico a fare quanto voleva che facesse. Quanto era più logico facesse. Sherlock lo sapeva perfettamente.
Ciò nonostante, sospirò chiudendo gli occhi per qualche secondo.
“È tutto a posto signora Hudson, volevo solo farle sapere che eravamo rientrati.” Mentì, guardando poi a sua volta John con un’espressione di chiaro disappunto dipinta sul volto.
“Volete che vi prepari il pranzo?” Chiese la donna, ancora immobile sulla porta.
“Non ce n’è bisog-“ Iniziò John, ma la sua voce venne coperta da quella di Sherlock.
“Grazie, sarebbe perfetto se la lasciasse fuori dalla porta una volta pronta.” Il detective accennò un sorriso di ringraziamento e superò John sulle scale, iniziando a salire al piano di sopra.
Il medico rimase immobile qualche secondo, incerto se ribadire che non era necessario che venisse loro cucinato qualcosa. Alla fine ringraziò a sua volta la donna e seguì il detective al piano superiore.
 
Quando John mise piede nell’appartamento, trovò tutte le finestre del salotto spalancate. Un vento gelido spostava le tende e faceva volare qua e là alcuni ritagli di giornale.
“Sherlock?” Chiamò, non sentendo alcun rumore. Si affacciò in cucina, trovando aperta anche la piccola finestra che dava sul cortile interno del palazzo.
“Bagno.” Lo informò il detective, la voce ovattata dalla distanza e dalla porta chiusa.
John sentì il rumore dell’acqua che iniziava a scorrere, e si avvicinò all’apertura tra la cucina ed il corridoio.
Con sorpresa constatò che il detective aveva aperto anche la sua stanza, della quale adesso poteva intravedere qualche scorcio, ed anche lì aveva provveduto a far cambiare aria.
Il medico si appoggiò alla porta del bagno e bussò un paio di volte.
“Non essere ridicolo.” Rispose Sherlock, dall’interno. “Entra e basta!”
John sentì il suo stomaco torcersi, e fece istintivamente un passo indietro. Era chiaro che Sherlock non lo avesse fatto di proposito, ma non poté esimersi dal sentirsi combattuto tra l’entrare per sua volontà ed il farlo perché richiesto da lui.
“John.” Lo chiamò il detective, aprendo la porta del bagno e affacciandosi sul corridoio.
“Che succede?” Domandò, osservando accigliato il volto dell’altro.
“Niente… spostati.” Rispose frettolosamente il medico, finendo di aprire la porta ed entrando nel bagno.
L’acqua stava scorrendo, riempiendo lentamente la vasca. Il vapore, caldo, ondeggiava sulla superficie e da lì saliva, riempiendo la stanza.
“Non c’era bisogno che mi preparassi il bagno.” Soffiò John, trovandolo più difficile che mai.
“Lo so.” Rispose Sherlock, alle sue spalle, con voce distaccata. “L’ho fatto e basta.”
“Ok. Penso tu possa uscire, adesso.” John si tolse il capotto e glielo porse, senza voltarsi.
“Se hai bisogno chiama.” Rispose Sherlock, pentendosene un attimo dopo. Prese il soprabito e fece per uscire.
“Ho una scia, Sherlock. Non sono in Calore.” Disse John, con voce tesa. Il suo odore virò verso note agri, a sottolineare il suo disappunto per tutto quello che stava accadendo.
Il detective sembrò sul punto di dire qualcosa, poi, in silenzio, uscì e chiuse la porta alle sue spalle.
Appena rimasto solo, John si portò le mani al viso. Non riusciva a pensare lucidamente: ogni frammento di concetto che gli attraversava la mente sembrava scheggiarsi, dividersi, venir filtrato. Cosa era davvero suo? Quali propositi venivano dalla sua natura risvegliata, quali da una sua reale intenzione? Il senso di colpa che sentiva premere contro il petto per aver trattato in modo ingiustamente rigido Sherlock era reale? O era la sottomissione di un Omega risvegliato verso un Alpha? Chi era? Cos’era?
Gli venne da vomitare, e si inginocchiò davanti alla tazza, ancorandosi con forza e disperazione al bordo.
Ancora una volta sentì le lacrime bruciare e premere per uscire, ma le ricacciò indietro, insieme alla paura crescente che sentiva bloccargli i movimenti, serrargli i muscoli in una morsa. Era un soldato. Un medico. Se lo ripeté più volte, mettendosi nuovamente in piedi, scosso dai tremori. Come soldato avrebbe combattuto. Come medico, avrebbe trovato un modo per riportare tutto come prima.
Raggiunse con passi malfermi la vasca, e si lasciò cadere al suo interno, completamente vestito.
Il calore dell’acqua lo avvolse, facendolo sentire subito meglio. L’odore di Sherlock, rimasto su i suoi vestiti, si sciolse, lambendogli il viso un’ultima volta prima di svanire nel vapore.
Solo in quel momento, libero da ogni cosa che non fosse se stesso, John sentì che c’era ancora speranza. Poteva ancora essere la persona che era stata fino a quella mattina.
L’ultimo sentore di Sherlock si dissolse, portato chissà dove dalla nuvola calda che si era sparsa per la stanza.
E John si sentì solo, maledicendosi un attimo dopo per averlo anche solo pensato.
Un paio di respiri profondi, e tornò a concentrarsi su di sé. Aveva bisogno di pensare. Di ricordare. Di stringere l’immagine che aveva di sé così forte da farne un bastone che potesse sorreggere il peso di quanto stesse accadendo.
 
Sherlock lasciò cadere il cappotto sul divano e si sdraiò, allontanandolo il più possibile con i piedi dal sé.
L’odore di John era talmente forte da aver reso-  nella parte interna del soprabito - il suo quasi impercettibile. Dopo anni di soppressori, non c’era da stupirsi che la scia si fosse manifestata con tanta forza. Le cose – pensò il detective chiudendo gli occhi – si sarebbero assestate nel giro di qualche ora, al massimo un paio di giorni. Poi John avrebbe preso possesso della sua nuova condizione, e sarebbe stato capace di controllarla, almeno in parte. Sia come intensità di scia, che come capacità di relazionarsi con lui e - se non fossero riusciti a capire cosa gli fosse stato inoculato e quindi di trovare un modo per neutralizzarlo - suo malgrado, con il resto del mondo.
Il telefono vibrò nella tasca del cappotto, e Sherlock si diede una spinta per mettersi seduto e riuscire a raggiungerlo.
Osservò per qualche secondo il nome di Lestrade lampeggiare sullo schermo, indeciso se rispondere o meno.
Alla fine ritenne che il male minore fosse parlargli, scongiurando così l’eventualità che si presentasse a Baker Street con una pattuglia.
“Lestrade.” Rispose, atono, lasciandosi ricadere all’indietro.
“Si può sapere cosa cazzo sta succedendo?!” Il tono di voce dell’ispettore era alto, teso, e Sherlock lo immaginò in piedi, una mano a sorreggere il telefono e l’altra che passava nervosamente tra i capelli.
“Non capisco.” Rispose il detective, voltando la testa verso la porta del corridoio, per assicurarsi che John non stesse arrivando.
“COME SAREBBE A DIRE “NON CAPISCO”?!” Greg stava urlando, adesso, e la sua immagine mentale di Sherlock assunse una colorazione scarlatta sul viso. “Prima mi fai mandare una volante, poi mi chiami per far rientrare i miei uomini, nel frattempo mi chiama Mike Stamford per dirmi che John è sparito ma il suo cellulare e la sua giacca sono ancora in ufficio. CHE STA SUCCEDENDO?! Dov’è John?!”
“John è qui, Lestrade. Calmati.” Rispose il detective, sentendo un sospiro di sollievo provenire dall’altro capo del telefono.
“Cosa mi state nascondendo?” Chiese Lestrade, rassegnato. “Cosa, Sherlock.”
“Niente, davvero. John mi aveva scritto dicendo che gli era sembrato che un uomo lo stesse seguendo. Io ti ho chiesto di mandare una volante a controllarlo. Ma era un falso allarme, John ha la febbre alta e non ragiona in modo lucido. Per questo siamo tornati a casa in fretta.”
Spiegò, continuando a tenere sotto controllo i rumori provenienti dal bagno.
“Così in fretta da non prendere la giacca?” Domandò Greg, poco convinto.
“Gli ho dato la mia.” Tagliò corto Sherlock. “Ad ogni modo prevedo di tornare al Bart’s nel pomeriggio. Prenderò il cellulare e la giacca, e ti farò chiamare da lui in serata. Va meglio così?”
“Perché non posso parlargli adesso?” Chiese Lestrade, ma la voce tradiva già il suo essersi arreso.
“Perché sta riposando. Come ho detto, ha la febbre molto alta. Ha anche vomitato, nella sala dell’emiciclo.” Rispose.
Sentì la porta del bagno aprirsi, e si portò in posizione corretta sul divano.
“Adesso devo andare.” Concluse, chiudendo la telefonata ancor prima di sentire se Greg dall’altra parte stesse per aggiungere qualcosa.
John, avvolto accappatoio ben chiuso sopra i vestiti bagnati, si affacciò nel salotto.
“Come va?” Domandò Sherlock, fingendo disinteresse.
“Meglio.” Rispose il medico, facendo un passo nella stanza. “Grazie.” Aggiunse subito dopo, con un certo sforzo.
“Non devi ringraziarmi.” Disse il detective, alzandosi.
“No, devo. Voglio dire… lo avrei fatto anche in una situazione diversa, quindi non è perché… Quindi voglio farlo e basta.” Rispose John, avviandosi verso la porta d’ingresso. “Vado di sopra.”
“Un attimo solo, fammi prima fare una cosa.” Sherlock mosse qualche passo verso di lui, e John si ritrovò premuto contro la parete a fianco dalla porta ancor prima di aver capito di essere indietreggiato.
Sherlock lo guardò per qualche secondo, continuando poi nel suo percorso verso la cucina.
Il medico scosse la testa, maledicendosi per quel gesto così palese di paura.
“Che fai?” Domandò quindi, cercando di smorzare il silenzio dell’appartamento che adesso sentiva opprimente.
Sherlock riemerse dalla cucina con una siringa tra i denti e una piccola cassetta rossa tra le mani.
“Che diavolo…” Iniziò John, guardandolo con occhi sgranati poggiare la scatola sul tavolino da caffè davanti al divano ed aprirla, posando la siringa poco distante.
“Se vogliamo capire cosa ti hanno somministrato, ho bisogno di un campione del tuo sangue.” Spiegò in modo sbrigativo il detective, facendo cenno a John di sedersi.
“Sangue e saliva, per la precisione.”
Il medico rimase immobile qualche secondo, osservando Sherlock estrarre dalla cassetta tutto l’occorrente per un prelievo.
“Che accidenti te ne fai di tutta questa roba?” Chiese, andandosi a sedere sul divano, di fronte al coinquilino ancora in ginocchio intendo a preparare tutto quanto necessario.
“Esperimenti.” Fu la lapidaria risposta che ottenne. “Ok, pronto?” Domandò Sherlock, avvicinandosi a lui.
John annuì appena, cercando di controllare il ritmo del suo respiro mentre il detective si accovacciava accanto a lui e lo aiutava ad alzare la manica dell’accappatoio per poi stringergli attorno al braccio il laccio emostatico.
“Non serve che ti controlli, John, anche se mi arrivasse qualcosa di simile ad un invito olfattivo da parte tua, so perfettamente che sono gli ormoni a parlare, non tu.” Disse Sherlock, inserendo con attenzione l’ago in vena e allentando il laccio.
“Ciò non toglie che la cosa mi crei un certo disagio.” Rispose John, osservando la siringa riempirsi poco alla volta di sangue. “Questo non sono io.” Aggiunse, con un sussurro.
“Come abbiamo già avuto modo di dire, non siamo solo il nostro odore. Non sarai mai solo quello.” Il detective appoggiò dell’ovatta nel punto dove l’ago era penetrato e lo estrasse.
John rimase in silenzio ad osservarlo spingere il sangue il una fiala e sigillarla, per poi riporre ogni cosa nella cassetta.
“Ancora un attimo di pazienza, e sarai libero di andare.”
“Nel senso che mi accorderai il tuo benestare a salire nella mia stanza?” Rispose John, in tono seccato.
“Non essere ridicolo, lo sai benissimo che non era questo quello che intend-“ Disse Sherlock, alzando gli occhi su di lui, e trovandolo inaspettatamente con un sorriso divertito sul volto.
“Per un attimo ho creduto fossi serio!” Esalò il detective, alzando leggermente un angolo della labbra in un’imitazione tirata di una risata.
“Hai ragione tu, non siamo solo la nostra scia. Devo solo imparare a ricordarlo.” Gli disse John, aprendo poi la bocca per facilitare il lavoro di Sherlock che si stava avvicinando con un tampone.
Sentì l’ovatta premere sotto la lingua e nell’interno dalla guancia, poi Sherlock la estrasse con attenzione e la inserì in un’altra provetta, tagliando l’eccesso di impugnatura e richiudendola.
“Perfetto. Vado a Bart’s ed incomincio ad analizzare i campioni.” Disse quindi, andando a chiudere la cassetta.
“Mangia prima qualcosa. La signora Hudson avrà quasi finito di preparare. Se tutto ciò che hai in corpo è il caffè di questa mattina…” Iniziò John, e Sherlock lo guardò con aria soddisfatta.
“E qui abbiamo un’altra prova che gli ormoni ci condizionano solo in parte.” Gli rispose, iniziando ad infilare il cappotto.
“Non capisco perché abbiano dovuto farmi una cosa simile.” Disse John, voce bassa, voltandosi a guardare il detective finire di chiudersi il cappotto e tirar su il bavero.
“Non lo so, ma lo scoprirò. E faremo tornare tutto come prima.” Sherlock sentì l’odore di John risalire dalla fodera, e sporgersi oltre il collo del soprabito, arrivando fino a lui. Trattenne a stento l’istinto di respirare a pieni polmoni, chinandosi invece a recuperare la cassetta.
“Ti farò sapere se ci sono novità.” Disse, avviandosi alla porta. “Ah, no, non hai il telefono con te.” Aggiunse, fermandosi.
John aggrottò la fronte, e solo dopo qualche secondo riuscì a ricordare dove lo avesse lasciato.
“Prendi questo. Userò il tuo, in caso.” Sherlock tolse con pochi gesti il blocco al telefono e cambiò le impostazioni in modo che non richiedesse più alcun tipo di autorizzazione per l’accesso.
John allungò un mano e prese il cellulare di Sherlock.
“Ok, grazie. La mia password è “Aldous”.” Disse. “Era uno scienziato. Ha scritto un trattato sulle cause della Determinazione che ho sempre adorato.” Aggiunse, anticipando la domanda che il detective stava per fare.
“Aldous.” Ripeté Sherlock, memorizzando l’informazione. “Ok. Ci sentiamo più tardi.” Terminò, uscendo ed iniziando a scendere le scale.
John sentì la voce della signora Hudson dire qualcosa, quella di Sherlock rispondere ed infine la porta d’ingresso aprirsi per poi richiudersi.
Sentendo i passi della donna sulle scale, John si alzò in fretta dal divano e si diresse velocemente in bagno.
Pochi secondi dopo, la signora si annunciò bussando in modo leggero alla porta aperta dell’appartamento.
“Sto per entrare nella vasca, signora Hudson!” Urlò John, per essere certo che lo sentisse. “Lasci pure tutto sul tavolino!”
“Va bene caro!” Gli fece subito eco la donna. “Vuole che chiuda le finestre? Prenderà freddo!”
“No, grazie, lasci pure tutto così!” Rispose il medico, avvicinandosi alla porta.
“Forse ha ragione lei…” sentì dire alla donna. “C’è un odore strano qui dentro, meglio lasciarle aperte. Per qualsiasi cosa mi trova di sotto!” Concluse, avviandosi verso le scale.
John attese qualche attimo - il tempo di essere certo che la donna fosse arrivata al piano di sotto - ed uscì, diretto verso il tavolo.
Sorrise osservando quante cose la signora Hudson fosse riuscita a preparare in così poco tempo. Prese i piatti per Sherlock e li mise nel frigorifero.
Poi prese il vassoio con i suoi, e salì al piano di sopra.
 
***
 
John, steso sul letto, ascoltò il suo stesso respiro riempirsi della sua scia e svuotarsene poco dopo.
Solo in quel momento, dopo aver, per l’ennesima volta, spinto fuori il fiato, si rese conto che probabilmente adesso la stanza era satura del suo odore. Doveva essere sul letto, attorno a lui. Ma anche sul legno dell’armadio, sulle tende chiare, sull’imbottitura della piccola sedia coperta dei suoi vestiti ancora umidi.
Poteva dire, dopo una vita intera, che qualcosa fosse suo, che portasse impresso sopra la sua traccia.
Era un pensiero rincuorante e spaventoso insieme. Tutto quello era suo, adesso, e allo stesso modo niente lo sarebbe stato più del tutto: le sue emozioni, ad esempio. La scia le avrebbe mostrate prima di lui, prima delle sue parole, del suo viso, della sua stessa comprensione, alle volte.
Il Calore, poi? Non riusciva neanche a pensarci. Non ne aveva mai avuto uno, ma sapeva bene che riduceva i soggetti Omega ad una completa dipendenza - e, quasi sempre, sudditanza – nei confronti dell’Alpha ai quali erano Legati. Questo nel migliore dei casi. Lo scenario peggiore prevedeva una tale violenza fisica e psicologica che gli fece contorcere lo stomaco. Se Sherlock non avesse trovato una cura, in fretta, all’arrivo delle prime avvisaglie del Calore si sarebbe trovato solo, senza un posto dove stare e alle prese con uno stravolgimento del proprio corpo mai vissuto prima.
John si lasciò andare di lato, chiudendosi in posizione fetale. Nutriva grande fiducia nelle capacità del detective, ma allo stesso tempo non riusciva a non pensare al fatto che se lo avevano lasciato vivo doveva esserci un motivo, che al momento sembrava sfuggire persino a lui.
“JOHN!” La voce della signora Hudson riecheggiò per le scale, arrivandogli attenuata e lontana.
Il medico si alzò con una certa fatica, ed aprì la porta della sua stanza, mantenendosi all’interno.
“SÌ!” Urlò a sua volta, sentendo le parole aprirsi contro le pareti e rotolare nella tromba delle scale.
“C’È UN UOMO CHE CERCA SHERLOCK!” Rispose la donna.
“Sherlock non c’è.” Disse John, scendendo fino al pianerottolo del piano di sotto, per non dover continuare a gridare.
“Lo so, ma insiste per salire ugualmente!” Rispose lei, con voce spazientita.
“Come si chiama?” Domandò John, rivolto alla donna.
“Trevor.” Gli rispose invece una voce maschile, tranquilla. “Sono un vecchio compagno di liceo di Sherlock.” Aggiunse, con tono allegro.
“Ok, mi dia un attimo.” Disse John, entrando in salotto per recuperare il telefono di Sherlock, che aveva lasciato sul divano. Compose il numero del proprio cellulare, e si portò il telefono all’orecchio. Dopo qualche secondo, una voce metallica rispose che l’utente cercato non era momentaneamente disponibile e John riattaccò lasciandosi sfuggire un sospiro irato.
Tornò quindi verso le scale, valutando le varie possibilità: se il signor Trevor era stato un compagno di liceo di Sherlock, poteva essere un Beta, come un Alpha. Le probabilità che fosse un Omega - e quindi fosse per lui completamente sicuro lasciarlo salire - erano basse, se non assenti, considerando anche il fatto che il presentarsi da solo presso un vecchio amico, per un Omega ormai ben oltre l’inizio dell’età fertile, avrebbe sottointeso una capacità ed una forza di volontà che Sherlock aveva riconosciuto solo a lui, come primo ed unico.
Beta, quindi, nella migliore delle ipotesi. Alpha, nella peggiore. Ad ogni modo il Calore era ancora lontano, e forse, se fosse riuscito a tenerlo alla giusta distanza e a rimanere molto vicino ad una finestra, non si sarebbe accorto della sua scia.
“Non può ripassare più tardi?” Provò comunque.
“Ho un impegno molto importante nel pomeriggio, e sono in partenza!” Rispose l’uomo.
“Lascio una cosa per Sherlock e me ne vado, promesso!” Aggiunse, in tono quasi supplichevole.
John trovò strano il cambio di registro repentino della sua voce, ma pensò che se avesse iniziato ad aver paura di incontrare un estraneo già da quel momento, la sua vita – in caso Sherlock non fosse riuscito a trovare un modo per azzerare gli effetti dell’iniezione che aveva subito – si sarebbe ridotta ad una misera fuga da ogni cosa, nella disperata ricerca di un posto sicuro dove rintanarsi e vivere il resto dei propri giorni (sempre che fosse riuscito, da solo, a nutrirsi durante i Calori quel tanto da poter sopravvivere).
Sulla scia di quel pensiero angosciante, si affacciò alla ringhiera, dando quindi un volto alla voce dell’uomo in piedi di fianco alla signora Hudson: doveva avere qualche anno meno di lui, cosa che avvalorava l’informazione che fosse un vecchio compagno di Sherlock. Gli occhi, scuri ma di un colore imprecisato per via della distanza e della poca luce, apparivano allegri, come il sorriso che si stava schiudendo sulle sue labbra. I capelli, evidentemente corti, erano nascosti quasi del tutto dalla falda di un largo cappello.
“Salga.” Acconsentì il medico, con un sospiro. “Signora Hudson, sia gentile, faccia un the. E provi a contattare Sherlock.” Aggiunse poi, rivolto alla donna, sottolineando la richiesta in modo che risultasse chiaro all’uomo che aveva iniziato a salire che la signora li avrebbe raggiunti nel giro di poco tempo e che Sherlock sarebbe stato informato della sua presenza nell’appartamento. Chiaramente ogni tentativo della donna di rintracciare il detective sarebbe stato vano, ma non era la cosa importante, al momento. John spense il cellulare ed entrò nel salotto, avvicinandosi alla finestra più lontana dall’ingresso, vicina al caminetto.
Qualche secondo dopo, l’uomo entrò nella stanza, fermandosi pochi passi oltre la porta.
Osservò l’ambiente con sguardo allegro, fermando infine gli occhi su John.
“Victor Trevor.” Disse, sorridendo. La sua scia, entrata con lui, confermò le teorie del medico: Alpha. John si avvicinò di più alla finestra, appoggiando una mano sul davanzale con finta noncuranza.
“Dottor John Watson.” Rispose, cercando di mantenere voce ed odore rilassati e calmi.
“Dottore.” Ripeté l’altro, senza muoversi. “Non sapevo che esistessero Omega arrivati tanto in alto nella scala educativa.” Aggiunse poi, continuando a sorridere.
“Non…” Iniziò John, istintivamente, bloccandosi poco dopo. Era evidente che la sua scia fosse comunque percepibile, se l’uomo aveva detto una cosa simile. Tentare di negarlo sarebbe stato inutile.
“Forse è per questo che Sherlock l’ha scelta.” Riprese Trevor, prima che il medico potesse aggiungere qualcosa. “Perché l’ultima volta che abbiamo parlato di Legami ed Omega, se non ricordo male, mi disse che erano inutili. Entrambi.” Sottolineò, alzando le spalle.
“Non abbiamo alcun Legame.” Disse John, sputando fuori le parole con rabbia.
“Vedo.” Rispose quello, allegro. “Infatti non ha la scia di un Omega legato.” Concluse, apparendo per un attimo confuso. “Ad ogni modo… ero passato solo per salutare. E per lasciare questo.” Estrasse dalla tasca interna del cappotto scuro un piccolo pacchetto avvolto da una carta rossa. “Niente di che, qualcosa che ha dimenticato a casa mia durante il nostro ultimo incontro.” Spiegò, appoggiandolo sul tavolo di fronte al divano.
“Glielo può dare lei?” Chiese quindi, voltandosi nuovamente verso John.
“Certo.” Quasi ringhiò lui, e la cosa strappò un altro sorriso all’uomo.
“Bene. Grazie dottore.” Disse poi, chinandosi lievemente in avanti, nell’imitazione di un inchino.
Alzò un braccio e scostò la manica del cappotto, controllando l’ora.
“Si è fatto davvero molto tardi. Ho una persona che mi aspetta, e non posso fare tardi.” Lanciò un ultimo sguardo per la stanza. “Si scusi per me con la signora, ma non posso fermarmi per il the.” Terminò, portandosi una mano al cappello e sollevandolo appena. [1]
John sentì la rabbia risalirgli come lava bollente attraverso le vene, e serrò i pugni. Un attimo dopo sperò che l’uomo non l’avesse notato, odiandosi poi per aver pensato una cosa tanto pavida.
“Arrivederci!” Lo salutò allegro lui, girandosi velocemente su se stesso e dirigendosi verso le scale.
John rimase immobile, ascoltando i suoi passi farsi sempre più lontani. La porta d’ingresso si aprì e si richiuse, e solo in quel momento il medico si accorse di aver trattenuto il fiato per tutto il tempo dell’allontanamento dell’uomo. Si sporse appena dalla finestra, e lo vide percorrere con passo lento Baker Street, sparendo poco dopo in Melcombe Street.
Si avvicinò quindi, lentamente, al pacchetto che aveva lasciato. Lo sollevò, sentendolo flettere da una parte, rimanendo rigida dall’altra. Se lo rigirò tra le mani, muovendo qualche passo per la stanza, ascoltando l’eco delle parole dell’uomo premere contro la sua testa. Calde, pulsanti.
 
L’ultima volta che abbiamo parlato di Legami ed Omega, mi disse che erano inutili. Entrambi.
 
Il medico scagliò con violenza il pacchetto verso la parete. Questo sbatté con un rumore sordo contro la carta da parati, e cadde dietro al divano.
Era praticamente prigioniero in casa con un Alpha che riteneva quelli come lui inutili, pensò.
Non pericolosi, come aveva sempre detto. Inutili. Superflui.
Doveva andarsene.
Non poteva uscire, nelle sue condizioni, ma allo stesso tempo non poteva, non voleva rimanere in quell’appartamento un solo attimo in più.
Era in trappola.
La parola esplose nella sua mente, cancellando ogni traccia di razionalità.
Qualcosa, nella sua testa, cercava di dirgli di fermarsi a riflettere, di analizzare meglio cosa sapesse o meno di Sherlock, cosa gli avesse visto fare, o dire, da quando lo conosceva.
Ma tutte quelle parole scomparvero al cospetto di una sola, che apparve improvvisa, coprendo tutte le altre, e a John sembrò l’unica soluzione possibile per poter uscire, in tutti i sensi, da quella condizione.
Snubber. Tanto da ottenere un risultato.
Non importava quanto pericoloso potesse essere: era, in quel momento, l’unica cosa che gli sembrava capace di permettergli di andarsene.
In un modo, o nell’altro.
 
Note:
[1] Lo saprete benissimo, ma comunque sottolineo che è un gesto che un uomo solitamente rivolge ad una donna, in segno di saluto.
 
Angolo dell’autrice:
Ho poche cose da dire riguardo al capitolo, se non che:
  • mi è dispiaciuto dover descrivere Victor così (perché di solito mi sta simpatico!)
  • tutto, tutto, TUTTO in questo capitolo ha un perché ben preciso.
Non aggiungo altro!
 
Grazie, grazie, grazie a chi legge, a chi ha aggiunto la storia in una qualche categoria (continuate a farlo e la cosa mi riempie di gioia!), e soprattutto (come sempre) a chi trova un po’ di tempo per lasciare una parola sul capitolo e permettermi/ci un confronto.
Da adesso la storia avanzerà a ritmi sostenuti, e i capitoli saranno sempre piuttosto lunghi.
Spero di riuscire a mantenere un ritmo di aggiornamento (e una sintassi XD) decente!
 
Un saluto a tutte/i,
a presto!
 
B.
 

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Capitolo 20
*** Un altro giro di giostra ***




Molly Hooper aprì la porta del laboratorio cercando di fare meno rumore possibile e si avvicinò al banco degli strumenti con passo incerto, una tazza di caffè caldo ben stretta tra le mani.
Sherlock, chino sul microscopio, alzò un attimo gli occhi su di lei, abbassandoli nuovamente sulle lenti un attimo dopo.
La donna poggiò il recipiente di cartone accanto allo strumento, ed il detective le rivolse un rapido gesto di una mano, in segno di ringraziamento.
“Cosa… Cosa fai?” Domandò Molly, con voce insicura, sporgendosi a leggere i fogli carichi di appunti e formule chimiche che Sherlock aveva sparso per il bancone di legno chiaro.
“Esperimento.” Le rispose lui, sbrigativo, aggiustando con gesti misurati la messa a fuoco.
La donna rimase ad osservare le dita affusolate muoversi con delicatezza attorno alle manopole del microscopio, quasi trattenendo il respiro.
“John?” Chiese poi, notando che Sherlock aveva stretto la presa su i selettori non appena udito quel nome.
“John?” Le domandò a sua volta il detective, alzando la testa per guardarla.
“Come sta? Mike… Mike mi ha detto che non si è sentito molto bene e… e che è tornato a casa con te. A casa vostra…” Rispose lei, sottolineando con un tremore nella voce l’ultima parola.
“John sta bene.” Tagliò corto Sherlock, tornando a dedicarsi al microscopio.
Tra i due cadde il silenzio, ma la donna non accennò a muoversi. Dopo una decina di secondi, il detective le lanciò uno sguardo fugace con la coda dell’occhio, trovandola ferma, rigida, ostinatamente voltata verso di lui.
Sherlock alzò la schiena, sbuffando.
“Molly, che succede?” Domandò, con voce tagliente. “Sono occupato. Grazie per il caffè, ma adesso, se non ti dispiac-“
“È che non sembravi il tipo…” Lo interruppe lei, avvampando. La sua scia divenne salata, e Sherlock aggrottò le sopracciglia, confuso. Tristezza? Perché mai avrebbe dovuto esprimere tristezza?
“Non sembravo cosa?” Chiese, osservandola ondeggiare lievemente.
“Il tipo di persona che… beh che avrebbe creato un Legame con qualcuno…” Molly fece un paio di passi indietro, in direzione della porta.
“Dio, che assurdità!” Sbottò Sherlock, alzando gli occhi al cielo. La donna arrossì con ancora più intensità, ed il detective sospirò, cercando di calmarsi.
“Non ho un Legame.” Iniziò, tentando di rendere la propria voce atona e distaccata, in uno sforzo di pazienza. “Dovresti sentirlo da sola, dalla mia scia.” Le fece presente, sottolineando la frase con un’alzata di sopracciglio. “John ed io non abbiamo alcun tipo di rapporto, se non quello di dividere lo stesso appartamento. Adesso, però, devi scusarmi, ma devo proprio tornare al mio esperimento. È di vitale importanza che lo termini il prima possibile.”
Sherlock rimase con gli occhi sul viso della donna, in attesa di un suo cenno di assenso.
Lei, alla fine, annuì appena, abbassando lo sguardo.
“Grazie per il caffè.” Ripeté il detective, addolcendo la voce. “Sei stata davvero gentile.” Le concesse, sperando che bastasse a convincerla a lasciarlo solo.
Molly accennò un sorriso, mantenendo lo sguardo fisso a terra.
“Se… se hai bisogno di me sai dove trovarmi.” Disse infine, voltandosi verso la porta e raggiungendola senza aggiungere altro.
“Certo. Grazie.” Le confermò Sherlock, chinandosi nuovamente sulle lenti del microscopio.
Sentì la donna uscire e si fermò un attimo, ascoltando il silenzio e tentando di ritrovare la giusta concentrazione. Chiuse gli occhi, respirando il modo lento e profondo. Poi tornò a chinarsi sul microscopio.
Sotto di lui, sul vetrino, le molecole di Snubber - tonde, grandi, satolle di particelle Determinate - stavano esplodendo una ad una sotto l’attacco di alcune cellule che il detective non riusciva ad identificare. Ad ogni rottura dei legami dell’inibitore veniva rilasciata, liberata, una particella Om+ (il nome che i biologi avevano dato agli elementi caratterizzanti i mutamenti chimico-fisici nei soggetti Omega, elementi su i quali agivano poi gli inibitori), che andava ad unirsi alle altre ai bordi della piastra. Quanto rimaneva dello Snubber veniva fagocitato e smaltito da altre cellule, anch’esse non classificate, che seguivano le prime con un ritardo di qualche secondo.
Sherlock osservò rapito la precisione con la quale agivano le due unità biologiche.
Non era qualcosa di improvvisato, ma di altamente sofisticato. Qualunque cosa avessero iniettato a John, agiva selettivamente su le molecole di Snubber, rendendole inefficaci prima e del tutto metabolizzate e assenti dopo.
Non aveva idea della vita media di questi elementi estranei, ma finché fossero rimasti nel corpo del medico, nessun inibitore, neanche assunto in quantità massiccia, sarebbe servito a qualcosa.
Sherlock si lasciò andare contro lo schienale della sedia, e si portò le mani su gli occhi, facendole scivolare poi verso le tempie.
Doveva pensare, in fretta. Trovare qualcosa che riuscisse ad eliminare quelle cellule.
“Devo isolarle.” Iniziò ad elencare, visualizzando i passaggi necessari per una prima analisi. “Poi moltiplicarle ed infine iniziare ad attaccarle con vari agenti, sperando di trovarne uno che riesca a colpirle senza danneggiare altre parti.” Annuì, convinto, alzandosi.
Sarebbe stato un lavoro lungo, faticoso, e con una probabilità di riuscita molto bassa. Ma doveva provare. Lo aveva promesso.
Prese la piastra di vetro e si voltò, in cerca di coperchio. Doveva chiuderla e spostarsi in una stanza con strumenti più potenti.
La porta, alle sue spalle, cigolò sui cardini, aprendosi.
Sherlock inspirò profondamente, tentando di rimanere calmo.
“Molly, ti ho già detto che-“ iniziò, bloccandosi nel momento stesso in cui la scia del visitatore giunse fino a lui.
Appoggiò il contenitore sul bancone e si voltò.
“Lestrade.” Constatò, con aria vagamente sorpresa. “Sei venuto a controllare che non ti avessi mentito, durante la nostra ultima telefonata?” Chiese, canzonatorio, estraendo il cellulare di John dalla tasca della sua giacca, appoggiata allo schienale di una sedia vicina a quella sulla quale era stato seduto fino a poco prima. “Come vedi, ho recuperato davvero la sua roba.”
L’ispettore alzò gli occhi al cielo, portandosi una mano alla fronte e massaggiandosela con movimenti circolari di indice e medio.
“Un genio.” Disse, ironico. “Sei un fottuto genio. Riconosci i criminali con uno sguardo. Ma non ti accorgi che il cellulare di John è spento.”
“Cosa?” Il detective si girò il telefono tra le mani, premendo infine il pulsante centrale. Niente. Lo schermo rimase scuro. “Oh.” Commentò, sorpreso. “Dev’essersi scaricato.” Alzò le spalle in un gesto di noncuranza, e ripose l’apparecchio nel cappotto.
“Certo, meraviglioso. “Deve essersi scaricato”, dice lui, tranquillo. Ho provato a chiamarti per un’ora!” Lestrade lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, rassegnato.
“Non vedo perché continuare a chiamare, dopo la prima volta.” Lo rimbeccò Sherlock, con tono di sufficienza. “Non è logico.”
“Io… Va bene, lasciamo stare!” L’ispettore serrò gli occhi, cercando di calmarsi. “Ne abbiamo trovata un’altra. Un’altra vittima del nostro killer. Vieni?”
Sherlock si voltò verso la piastra, ancora da chiudere.
“Io… “ Iniziò, incerto su cosa fare.
“Sherlock, ho già perso troppo tempo. Vieni o no?” Lo incalzò Lestrade, irritato.
“Ok. Facciamo così: dammi l’indirizzo. Finisco una cosa qui e ti raggiungo.” Rispose il detective, iniziando a radunare i fogli sparsi sul bancone.
“Cosa?!” Rispose l’altro, assumendo un’aria sorpresa. “Che accidenti hai da fare, che sia più importante di una scena del crimine e di un serial killer?!” Chiese, tra lo spazientito e l’incuriosito.
“Niente che ti riguardi. Dammi quell’indirizzo e sparisci. Sarò lì entro venti minuti dal tuo arrivo.” Ringhiò Sherlock, girandosi.
Lestrade sospirò, mandando indietro la testa.
“E va bene. Come sempre, hai vinto tu. Dammi un pezzo di carta, che ti scriv-“
“Dimmelo e basta. Me lo ricorderò.” Lo interruppe il detective, chiudendo la piastra e voltandosi.
“69 di Paget Street.” Gli disse l’ispettore, bloccandolo con una mano mentre lo stava superando, diretto alla porta. “Che sta succedendo? Dico davvero, Sherlock. Se ha a che vedere con questo caso, devi dirmelo.” Aggiunse, guardandolo negli occhi.
“Niente che ti riguardi.” Ripeté Sherlock, in un sibilo. “Niente che possa intralciare le indagini, se è questa la tua paura. E adesso, se vuoi scusarmi…” Terminò, divincolandosi dalla presa dell’altro senza grossa fatica e dirigendosi alla porta.
“Paget Street!” Gli ricordò Lestrade, affacciandosi nel corridoio che Sherlock stava percorrendo a passo svelto.
“Ho capito!” Gli rispose l’altro, irritato. “Il 69 di Paget Street! Va’ lì e fa’ il tuo lavoro, invece di preoccuparti inutilmente per il mio!” Aggiunse, girando l’angolo e sparendo alla vista dell’ispettore che, preso un profondo respiro, si incamminò verso l’uscita, sconsolato.
 
 
Emily Brent - Beta Plus, impiegata di banca – sembrava una bambola di pezza, abbandonata con braccia e gambe molli su la poltrona a fiori del suo salotto.
“Avete toccato qualcosa?” Chiese Sherlock, rimanendo sulla porta, immobile.
“No, niente.” Disse Lestrade, dritto di fianco al corpo, guardando l’altro strizzare gli occhi in segno di riflessione.
“Quindi la siringa è sempre stata lì.” Constatò il detective, concentrandosi sull’ago, ben chiuso nel suo cappuccio protettivo.
“Sì. Ed il biglietto era stretto tra le sue mani.” Rispose l’ispettore, indicando la donna.
“Ripetimi come c’era scritto.” Sherlock fece un passo indietro, inclinando la testa da una parte, guardando la scena nel suo insieme.
“Sei e sette e otto e nove, vorrei tanto essere altrove! Anima nera, sguardo di morte, lacrima di tenebra nella notte.” Lesse l’altro, guardando la foto scattata con il suo cellulare prima che la scientifica catalogasse il reperto e lo portasse via.
“Poetico.” Commentò Sherlock, distrattamente.
“Come sempre.” Lastrade lanciò un’occhiata al viso della vittima, contorto in una maschera di dolore.
“Più del solito.” Rispose Sherlock, muovendo gli occhi per la stanza, vigile. “A quanto pare John si sbagliava…” Aggiunse, più rivolto a se stesso che all’altro.
“Scusa?” L’ispettore si avvicinò alla porta, attento a non toccare nulla nella stanza.
“Non ha finito.” Disse il detective, con tono ovvio. “Sta facendo un altro giro di giostra.”
“Non capisco.” Ammise Lestrade, cercando di seguire la traiettoria dello sguardo di Sherlock.
“Non è un cerchio. È un otto.” Il detective fece un passo in avanti, occhi bassi.
“Ancora non capisco.” Ripeté l’altro, abbassando a sua volta la testa.
“Non è importante, ora. Sai cosa lo è?” Sherlock gli rivolse un sorriso beffardo, al quale Lestrade rispose con un cenno negativo del capo. “Che l’ha spostata.”
Il detective entrò nella stanza, e si portò vicino alla poltrona, abbassandosi fino a toccare con la punta di due dita la moquette ai piedi della donna.
“Tracce di vomito. Qui.” Disse, indicando prima a terra e poi l’angolo della bocca della vittima.
“Era stesa a terra. Ha agonizzato. Tremori, rigidità…” Iniziò ad elencare.
“Rigidità?” Chiese Lestrade, avvicinandosi a sua volta.
“Le hai guardato braccia e gambe? Che ha detto Stamford a riguardo?” Chiese Sherlock, alzandosi.
“Che deve avergliele rotte, in qualche modo.” Rispose l’ispettore, lanciando uno sguardo alla piega innaturale degli arti.
“Non ha segni visibili, almeno su le braccia.” Sherlock alzò la manica della camicia bianca della donna, fin sopra il punto di rottura.
“I segni possono comparire anche successivamente.” Tentò Lestrade, ricordando le parole del medico legale.
“Vero.” Gli concesse Sherlock, senza scomporsi. “Ma per me vomito e - si inginocchiò, chinandosi sulla siringa - odore di mandorle, vogliono dire una cosa sola: acido cianidrico.”
“Odore di mandorle?!” Lestrade si abbassò a sua volta ai piedi della donna. “Cazzo!” Esalò.
“Ed acido cianidrico, più vomito, ci porta ad una soluzione inferiore ai cinque, sei grammi,  che sarebbero immediatamente letali. Cosa che a sua volta ci conduce a…?” Chiese Sherlock, alzando gli occhi sull’ispettore.
“A?” Rispose quello, confuso.
“Dio, John ci sarebbe arrivato subito. Alle convulsioni, Lestrade. Cefalea, ansia, vertigine, bruciore alla bocca e alla faringe, dispnea, tachicardia, nausea, vomito, ipertensione, diaforesi e dolore ai muscoli, all’inizio. Ed infine convulsioni, paralisi, coma, ipotensione.”
“Stai dicendo che le convulsioni le hanno rotto gambe e braccia?!” Lestrade assunse un’aria scettica, mettendosi in piedi.
“Hai mai visto qualcuno in preda alle convulsioni?” Chiese Sherlock, alzandosi a sua volta. “È esile. Arriverà a stento a cinquanta chili. O se le è procurate da sola, o gliele ha procurate lui tenendola ferma contro il pavimento, ed in quel caso vedremo comparire i lividi a breve. Ad ogni modo, questo non cambia i due fattori determinanti di questa scena del crimine.”
“E sarebbero?” Domandò Lestrade, incrociando le braccia.
“Ma davvero ti pagano, per il tuo lavoro?” Sherlock si allontanò dalla donna, tornando verso la porta, mentre l’ispettore assumeva un’espressione offesa.
“Le ha dato una quantità di veleno sufficiente ad ucciderla, ma non immediatamente. Ha lasciato che soffrisse per minuti interi. E dopo l’ha spostata e messa su questa poltrona. Deve esserci un motivo, se la voleva esattamente lì. E quella siringa? È messa in evidenza in modo quasi teatrale. Sembra dirci “Non impazzite per capire cosa sia successo, ve lo dico io”.” Sherlock riprese a muovere gli occhi per il salotto. “In più è tornato al suo vecchio modus operandi. Non è progredito, è regredito.”
“Inizio a pensare che agisca senza una reale logica.” Lestrade emise un sospiro, scuotendo la testa.
“C’è sempre una logica. Contorta, magari. Malata. Ma c’è. Sempre.” Gli rispose Sherlock, immagazzinando più particolari possibili dell’ambiente, per poterci lavorare successivamente.
“Io non riesco proprio a vederla…” Ammise l’ispettore.
“Non ha finito di giocare con noi. Ci sta portando in giro. Siamo le sue marionette.” Commentò il detective, sovrappensiero.
“Perfetto, adesso sì che sono tranquillo.” Lestrade sciolse le braccia e si portò le mani al viso, stropicciandosi gli occhi, frustrato.
“Mai detto che dovessi esserlo.” Fu la risposta che ottenne, e l’ispettore annuì, aumentando l’intensità dei movimenti.
Sherlock diede un’ultima occhiata alla siringa, e la cosa lo riportò con la mente a John, premuto contro la parete dell’emiciclo, una piccola goccia di sangue lenta che gli scendeva lungo il collo. Focalizzò poi la sua mano far cadere il proprio cellulare su quella tesa del medico, seduto sul divano. Il pensiero subito successivo fu che non avrebbe potuto contattarlo, in caso di necessità: il suo telefono era morto.
“Ok, fa’ venire i tuoi uomini a prendere il corpo. Ho visto a sufficienza.” Disse il detective, alzando la manica del cappotto per guardare l’ora. Le cellule, isolate, avrebbero avuto bisogno di tutta la notte per moltiplicarsi in numero adatto a poter continuare gli esperimenti, quindi poteva tornare a casa, arrivando in tempo per la cena e per controllare che il medico mangiasse in modo adeguato.
“Tutto qui?” Chiese Lestrade, alzando un sopracciglio.
“Per adesso. Ci lavorerò sopra questa notte.” Sherlock alzò il bavero del cappotto ed infilò le mani in tasca.
“John come sta?” Domandò l’ispettore, mentre estraeva il cellulare per chiamare la centrale.
“Non lo so. Ma spero stia meglio, voglio che mi dia una mano ad analizzare questa scena.”
Lestrade si bloccò, alzando uno sguardo sorpreso sul detective.
“Ti ho davvero sentito usare la parola “aiuto”?!” Domandò, incapace di trattenere lo stupore.
Sherlock si accigliò, sembrando non capire. Qualche attimo dopo, un lampo di consapevolezza gli attraversò gli occhi, e l’ispettore lo vide irrigidirsi.
“Sì. Io parlo e lui ascolta. In silenzio.” Cercò di spiegare il detective, con tono di voce più alto del solito.
“Certo.” Gli concesse Lestrade, tornando a dedicarsi al cellulare. Sentì uno sbuffo, poi i passi di Sherlock allontanarsi per il corridoio, fermandosi un attimo per recuperare la giacca di John che aveva abbandonato all’ingresso al suo arrivo. Infine, udì la porta dell’appartamento aprirsi e chiudersi, e non poté trattenere un sorriso soddisfatto.
Sorriso che si spense subito dopo, quando il sergente Donovan rispose dall’altro capo e, voltandosi, si trovò nuovamente al cospetto del viso contratto dal dolore della donna accanto a sé.
 
L’ingresso di Baker Street era immerso nel silenzio e nella penombra.
Dall’appartamento della signora Hudson non proveniva alcun rumore. La donna, con molta probabilità, doveva essere uscita per fare la spesa.
Sherlock iniziò a salire le scale, lentamente, poggiando una spalla contro il muro, quasi a frenare ulteriormente i propri passi ed il loro rumore, nel caso il medico stesse dormendo.
Arrivato sul pianerottolo, si affacciò nel salotto, trovandolo deserto. Le finestre, ancora aperte, avevano cancellato ogni traccia di John, facendo rimanere nella stanza solo un vago accenno dell’odore del detective.
Sherlock si sporse in cucina, vuota e silenziosa come il resto della casa.
Tornò quindi verso le scale, poggiando un piede sul primo gradino della rampa che saliva fino alla camera del medico.
La scia di John, confusa - agre, salata e amara insieme – lo travolse, lasciandolo per qualche secondo senza fiato. Una tale miscela di odori dipingeva solo scenari negativi, e Sherlock iniziò a correre ancor prima di aver pienamente capito perché lo stesse facendo.
“John!” Lo chiamò, quando ormai era arrivato alla sua porta e aveva già abbassato la maniglia.
Non ottenne nessuna risposta, e la porta non si aprì, chiusa evidentemente dall’interno.
“JOHN.” Ripeté, questa volta in modo imperativo, provando ancora una volta a spingere contro il pomello di metallo.
Sherlock sentì qualcosa cadere a terra, e infrangersi contro il pavimento. Una scheggia colorata arrivò ai suoi piedi, scivolando sotto la porta.
Il detective lasciò andare la maniglia e fece un paio di passi indietro, mettendosi con la spalla destra in direzione della porta. Un attimo, il tempo di analizzare la forza necessaria, e si lanciò in avanti. Il legno dello stipite dal lato della serratura cedette con uno schianto, e la porta si aprì verso l’interno, sbattendo contro la parete.
Sherlock quasi cadde nella stanza, e si portò in avanti, cercando di bilanciare con il busto e le braccia la forza in eccesso.
Una volta sicuro sulle proprie gambe, alzò uno sguardo per la camera.
L’armadio era aperto, ed i vestiti erano accatastati di fianco alle ante. Un borsone militare - apparentemente vuoto - giaceva per metà fuori e per metà dentro al guardaroba, afflosciato tra il legno ed il pavimento. Pezzi della lampada che John teneva sul comodino erano disseminati per la stanza, alcuni fino a fuori la porta, come quello che era arrivato ai suoi piedi poco prima.
Ed infine c’erano le pillole. Una ventina, tra quelle ancora nel flacone rovesciato sul comodino, e quelle finite a terra.
Sherlock socchiuse le labbra, incapace di respirare normalmente, cercando febbrilmente John con gli occhi senza riuscire a trovarlo, ad un primo sguardo.
Infine lo vide, ginocchia contro il petto, premuto nel piccolo spazio tra il letto e la parete.
Lo stava guardando con occhi sgranati e rossi, le labbra secche ed un lieve tremore lungo tutto il corpo.
“CHE DIAVOLO HAI FATTO?!” Ruggì Sherlock, raggiungendolo e quasi avventandosi su di lui.
John rimase immobile, stringendo solo un po’ più forte le braccia attorno alle gambe.
“CHE HAI FATTO?!” Ripeté il detective, bloccandogli le spalle con le mani.
“Voglio solo andare via da qui.” Gli rispose il medico, flebile.
“Quante, John. QUANTE!” Chiese Sherlock, stringendo la presa con ancora più forza.
“CINQUE!” Gli gridò in faccia John, al colmo della paura e della tensione, cercando di divincolarsi dalla presa.
“Sei impazzito?!” Sherlock lo tirò su di peso, aiutandosi con la parete dietro di lui.
“Tu adesso vomiti. Tutto. CHIARO?” Gli disse, le parole come affondate in un ringhio sordo.
“Non servirebbe.” Rispose il medico, a fatica, guardandolo negli occhi. “Le ho assunte due ore fa. A quest’ora avrei dovuto essere libero. O morto.” Spiegò, cercando di contrastare l’istinto di far ugualmente quanto gli era stato ordinato.
Sherlock socchiuse gli occhi, cercando di capire se mentisse o meno. Poi, l’immagine delle molecole di Snubber distrutte dalle cellule inoculate affiorò alla sua mente, e gli venne quasi da sorridere.
Lasciò le spalle di John, e fece un passo indietro, accorgendosi solo in quel momento di quanto accelerati fossero il suo respiro ed il suo battito cardiaco.
“Sei forse impazzito?” Domandò, cercando di mantenere bassa la voce quanto più possibile. “Ti ho detto che troverò una soluzione. Ragionevole. Sicura. Non questo!” Aggiunse, indicando con un ampio gesto del braccio la stanza.
“Non voglio niente da te.” Sibilò John, serrando i pugni.
“Si può sapere che ti prende?!” Sherlock lo guardò con aria interrogativa, cercando di riprendere fiato e calmarsi.
“Cosa prende a te!” Lo rimbeccò il medico, sorridendo amaramente. “Da quando aiuti gli Omega, dato che li consideri esseri inutili?”
“Ma che stai dicendo?! Quando mai mi hai sentito dire una cosa del genere?!” Sherlock alzò le mani, scuotendo la testa. “Ascolta, lo so che sei sconvolto. Che stai cercando qualcuno al quale dare la colpa, ma non sono io. E adesso abbiamo anche un altro problema, c’è stato un nuovo omic-“ John, lento, malfermo sulle gambe, si staccò dal muro e si portò a pochi passi da Sherlock, che si bloccò, rimanendo immobile.
Rimasero così, occhi negli occhi, qualche secondo, mentre le loro scie si mescolavano, diventando mutevoli, cangianti.
“Dimmi che non ci ritieni tutti spazzatura.” Disse John, calmo, ostinatamente ancorato agli occhi degli altri, anche se tutto il suo corpo gli diceva di allontanarsi il più possibile.
“Se ti ritenessi spazzatura, non saresti qui.” Rispose il detective, osservando le sue labbra muoversi nel riflesso delle iridi dell’altro.
“Che non ritieni nessuno di noi, spazzatura.” Aggiunse il medico, riuscendo a smettere di tremare.
“Sono un reietto, John. Un emarginato che si fa aiutare da altri esclusi. Pensi che potrei mai considerare qualcuno un rifiuto? Forse qualcuno ai piani alti, non certo un Omega.”
Rispose, atono, continuando a sostenere lo sguardo dell’altro.
“Saresti capace di mentire anche guardando negli occhi qualcuno, non è vero?” Domandò John, sorridendo senza traccia di allegria.
“Sì.” Confermò Sherlock. “Certo, ne sono capace. Come chiunque altro. Ma non lo sto facendo, non adesso.” Terminò, senza aggiungere altro.
Rimasero ancora qualche attimo immobili, John incerto se credere o meno alle parole del detective. Alla fine rilassò le spalle, abbassandole, ed insieme a loro la sua scia.
“Allora raccontami di Victor Trevor.”
 
Angolo dell’autrice:
Sono riuscita a caricare l’immagine a inizio capitolo! XD Non ci credo!
 
Non ho molto da aggiungere, il capitolo è relativamente breve ma carico di avvenimenti e scoperte (piccole e grandi, scientifiche e sul killer, “sentimentali” e non), e penso che parli sufficientemente bene da solo. (Almeno lo spero! ^_^) Ammetto che la parte biologica è "pura invenzione ", e che il neurobiologo molecolare che ho in casa l'ha definita "possibile" solo in un AU come questo, sogghignando anche un po'. Volevo comunque che fosse chiaro cosa fosse successo a John, quindi... Eccoci qui XD
 
Ho finalmente diviso i prossimi avvenimenti in capitoli sommari, e posso dirvi che ne mancano circa sette, tutti da scrivere ma già buttati giù su carta negli aspetti principali. Questo quando scrivo significa una sola cosa: storia che vedrà sicuramente una fine, rallentamenti o meno.
Sono felice, perché fino a quando non raggiungo questo livello di chiarezza c’è sempre una certa possibilità (remota, ma c’è) che non sia un percorso che troverà una conclusione. ^_^
 
Grazie come sempre a tutte/i voi! A chi legge, a chi aggiunge (abbiamo sforato quota 90! *O*), a chi, soprattutto, è fedele commentatore di ogni capitolo.
Grazie, grazie, grazie.
 
Alla prossima!
B.

PS: mi ricollego ad una cosa detta in un commento da BlackStone, e chiedo anche a voi: se aveste una scia, come sarebbe? :)

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Capitolo 21
*** Victor ***


La luce calda dei lampioni filtrava attraverso le finestre, frazionandosi sul pavimento in piccoli quadrati luminosi, morbidi.
Sherlock, una sigaretta ancora spenta ben stretta tra le labbra, si lasciò andare contro lo schienale della poltrona, voltandosi verso il caminetto acceso.
John, seduto sul divano, attese in silenzio che l’altro decidesse di dare inizio al proprio racconto. Aveva tenuto fede alla sua parte del patto, mangiando fino all’ultima briciola della cena che la signora Hudson aveva preparato loro, come il detective aveva chiesto. Era giunto il momento che Sherlock facesse altrettanto, raccontandogli di Victor Trevor.
Lo scatto dell’accendino sorprese il medico, che rimase immobile a guardare la fiammella avvicinarsi alla carta, incendiandola assieme al tabacco in un brillio fugace.
“Ti ha toccato?” La voce di Sherlock, calma, lenta, riempì il salotto, e per un attimo sembrò renderlo ancor più buio di quanto non fosse.
“Non ha fatto un solo passo oltre la porta.” Gli rispose John, sentendosi improvvisamente a disagio.
Sherlock continuò a mantenere gli occhi sul camino, insieme ai lampioni di Baker Street, unica fonte di illuminazione presente al momento nella stanza.
“Avrebbe dovuto?” Domandò il medico, sforzandosi di assumere un tono di voce ironico.
“Avrebbe voluto.” Fu la risposta del detective, secca. “Probabilmente. Non abbastanza da farlo, evidentemente.”
Il medico si mosse, a disagio, cercando di assumere una postura rigida, come quelle che aveva imparato durante la carriera militare.
“Sherlock.” Non era un richiamo, né un’invocazione. Il suo nome gli era semplicemente scivolato tra le labbra. Aveva a che fare con ciò che era accaduto in camera sua, e allo stesso tempo non ne aveva affatto.
“D'accordo. Chi è Victor Trevor, mi chiedi.” Il detective lasciò uscire il fumo, lentamente, attraverso una stretta fessura della bocca. “Potrei dire che è tante cose diverse. Ma immagino che tu mi stia domandando chi sia per me. Bene. Per me non è altro che un ricordo che sbiadisce sempre più ad ogni assunzione di Soma.”
Un ceppo nel camino schioccò, rompendosi in un’esplosione di scintille.
Sherlock ne seguì una con gli occhi, guardandola spengersi sul tappeto ai suoi piedi, lasciando al suo posto una piccola macchia scura.
“Ma penso che neanche questo risponda alle tue domande. Per cui ti dirò cosa è stato, per me.”
La scia del detective si appannò, e John ebbe l’istinto di farglisi più vicino. In risposta a questo stimolo, premette la schiena con più forza contro lo schienale del divano, come ad aggrapparcisi.
“È stato un mio compagno di liceo. Più grande di me di un anno. Per qualche tempo è stato un mio coinquilino, o per meglio dire io sono stato il suo. Abitai da lui per un mese, dopo la morte di sua madre. È stata anche la persona che mi ha iniziato all’uso del Soma, durante i lunghi pomeriggi estivi di quella convivenza.”
Lo stomaco di John si contorse, e si sorprese a scoprire di aver serrato la mandibola con forza.
“Immagino si possa dire che sia stato una persona importante, per me. Molti lo potrebbero definire “il mio primo amore”. Una sciocchezza. Non c’è mai stato amore, in quello che facevamo. Solo bisogno.”
Sherlock aspirò una lunga boccata di fumo e la spinse nei polmoni, trattenendo il respiro fino a sentirli bruciare.
“Bisogno?” Domandò John, voce bassa, quasi vergognandosi di quanto riusciva a scorgere tra i silenzi dell’altro.
“Ogni nostro gesto è mosso da bisogni. Anche il più apparentemente disinteressato, altruistico. Siamo nati pieni, saturi di necessità, fin dal primo vagito. La vera differenza sta nel capirlo, e accettarlo.” Il detective lanciò nel fuoco quel che rimaneva della sigaretta, e si voltò verso il medico. “Non c’è amore, né misericordia, nell’uomo. Tu più di altri dovresti saperlo. Ogni giorno sezioni corpi martoriati, vittime innocenti della barbarie altrui. Per una vita ti sei dovuto nascondere, perché la tua natura richiama i peggiori istinti, negli altri.”
“Hai detto che non siamo solo scia ed istinto.” Rispose John, ricambiando il suo sguardo.
“È vero. Siamo molto peggio.” Sherlock tornò a guardare il camino.
“Penso ci sia stato un momento in cui, guardandolo, abbia pensato che potesse essere l’amore di cui tanto si discute, di cui tanto si scrive, studia e legge.” Sussurrò poi, chiudendo gli occhi.
“Era perfetto: due Alpha. Nessun capo, nessuno schiavo. Solo due ragazzi che volevano scappare da una realtà familiare che odiavano, e ai quali era stata data una possibilità irripetibile: farlo davvero.”
Dietro le palpebre serrate del detective prese forma l’immagine di un funerale.
Rivide Victor, chino sulla bara aperta della madre, viso duro, nessuna traccia di dolore.
Vorrei tanto essere da un’altra parte.” Gli aveva sussurrato, quando Sherlock si era avvicinato per chiedergli se avesse bisogno di qualcosa. “Vorrei essere a casa mia. Con te.”
“Stai con me.” Sillabò il detective, seguendo con le proprie le labbra di Victor, che vedeva muoversi nel suo ricordo. “Solo io e te. Avremmo tutta casa mia a disposizione.”
“Sherlock.” Lo richiamò John, ed il detective spalancò gli occhi, sorpreso.
“Victor ti ha detto che l’ultima volta che parlammo di Omega e Legami, definii inutili entrambi.” Continuò quindi Sherlock, atono.
“È vero. L’ho fatto.” Ammise, e John sentì un dolore sordo iniziare a premere contro il petto.
“Ma suppongo non ti abbia detto cosa stesse accadendo, in quel momento. Mi stava cacciando di casa.” Aggiunse, ed il dottore riuscì a sentire la sua voce esitare.
“Dopo un mese nel quale gli avevo permesso di…” La scia di Sherlock esplose di rabbia, e John iniziò a tremare, cercando istintivamente con gli occhi la porta d’ingresso, pronto a fuggire al piano superiore.
“Vedi, ci sono vari problemi, con le persone molto intelligenti.” Riprese il detective dopo qualche attimo di silenzio. “E Victor lo era. Incredibilmente. Più di me, per certi aspetti. Il primo problema è che si annoiano facilmente.” Sherlock abbassò la voce, e con lei il suo odore. “Il secondo è che tendono a ritenere gli altri semplici suppellettili, un modo per lenire il tedio. Il terzo, è che sanno come raggirarti, se servi loro per raggiungere un dato fine.” Sherlock ispirò l’aria calda e acre del camino, piegando un lato delle labbra in un sorriso obliquo.
“Non tutti.” Disse John, ed il detective si girò a guardarlo con aria interrogativa.
“Non tutti sono così. Tu non lo sei.” Spiegò meglio il medico, serio.
“Dio.” Sherlock scoppiò in una risata vuota di allegria. “Cosa pensi che sia, io?” Domandò, e John rimase in silenzio, aggrottando le sopracciglia.
“Pensi che sia una specie di eroe? L’Alpha che si sottrasse alla sua Determinazione, e con questo alla sua natura? John, sei un soldato. Un medico. Non esistono eroi. E se anche esistessero, io non sarei uno di loro.” Il detective si alzò, diretto verso la custodia del violino, appoggiata sotto la finestra alle spalle della sua poltrona.
“Uso le persone costantemente. È il mio lavoro. Posso fingermi accomodante, addolorato, interessato, ma non temere: nessuna, nessuna di quelle emozioni sarà mia davvero. Sono mezzi. Strumenti del mestiere.”
“Immagino allora che anche ordinarmi di vomitare lo Snubber assunto faccia parte di una recita. Che per te rientri nel compiti del “buon coinquilino”.” Lo canzonò John.
Sherlock si bloccò, chino sullo strumento, e per un attimo parve perso.
Poi, riscuotendosi, estrasse il violino e tornò a sedersi sulla poltrona.
“È diverso.” Commentò, gelido.
“No, non lo è.” Lo rimbeccò John, incrociando le braccia sul petto. “Ad ogni modo… finisci di raccontare.” Aggiunse, addolcendo la voce.
“Non c’è molto da raccontare. Tutto, di quel mese, avrebbe dovuto farmi capire cosa stesse succedendo. Tutte le attenzioni, l’interesse… sparirono non appena varcai la porta di quella casa. E dio solo sa quante volte Mycroft ha provato a farmi cambiare idea. Non c’è una sola cosa, fatta allora, che oggi rifarei. Nessuna. Ma tant’è: al termine di tutto, fui messo alla porta con una risata.”
Sherlock rivide il viso di Victor aprirsi in un sorriso divertito.
Davvero pensavi sarebbe durata?” Gli aveva domandato, scuotendo la testa carica di capelli scuri. “Siamo Alpha, Sherlock, per l’amor del cielo! Io voglio un Legame, un Omega da sottomettere e comandare! Sei stato un buon sostituto, lo ammetto, ma siamo seri… quanto mai sarebbe potuta andare avanti?”
Sherlock strinse le dita sulle corde fino a ferirsi.
I Legami e gli Omega sono inutili…” Aveva protestato lui, citando una frase che Victor aveva spesso ripetuto all’inizio del loro rapporto, per rassicurarlo del fatto che non se ne sarebbe andato. Che sarebbero stati loro la famiglia che non avevano più o sentivano di non avere.
Sì, ma sono divertenti!” Erano state le ultime parole dell’altro.
La scia di Sherlock esplose in un insieme di dolore e rabbia.
John lo osservò premersi al petto il violino con la disperazione di un naufrago ad un pezzo di legno.
“Sì, ho detto che gli Omega ed i Legami sono inutili. Ad oggi, ritengo i secondi ancora tali.” Soffiò fuori, a fatica, lasciando andare la presa sulla tastiera. “Per quanto riguarda i primi, non ho mai pensato a loro in alcun modo, prima di incontrarti. Certo, li ritengo un pericolo, in quanto potenzialmente capaci di privarmi della mia lucidità mentale. Ma… quello che ho detto, quando l’ho detto, è stata solo una risposta istintiva all’affermazione di Victor di lasciarmi perché indegno persino di ricoprire il loro ruolo in un rapporto.” Le ultime parole lasciarono le sue labbra assieme ad un respiro, e Sherlock si sorprese di averle pronunciate davvero. Per anni si era rifiutato persino di pensarci.
La sua scia assunse un tono basso, che John non aveva mai sentito. Nel silenzio, respirò ad occhi chiusi, attento. Vergogna. Sherlock ne era saturo, come il suo odore. Il medico si alzò dal divano, e si avvicinò alle poltrone, lasciandosi cadere su la sua con un tonfo.
Sherlock alzò su di lui uno sguardo interrogativo, ed in cambio ottenne un sorriso incerto.
“Suoneresti per me?” Gli domandò John, indicando il violino.
Il detective rimase immobile per qualche secondo, muovendo gli occhi sul viso adesso disteso dell’altro.
“Per favore.” Aggiunse il medico, senza provare alcun disagio all’idea di poter apparire remissivo. Voleva davvero che Sherlock suonasse, che la musica cancellasse dalla sua scia quella nota che così poco sembrava appartenergli.
Il detective annuì, poggiandosi sulla mentoniera.
Una melodia dolce iniziò a riempire la stanza, e John si rilassò.
Avrebbero altre occasioni per parlare dei motivi che potevano aver spinto Victor Trevor fino a Baker Street, alla luce di quel passato che ora conosceva, anche se solo in parte. Adesso dovevano solo calmarsi, e riposare.
Mentre Sherlock si alzava - continuando a suonare - diretto alla finestra, John lanciò un’occhiata al divano.
Non riusciva a capire cosa avesse condotto alla loro porta quell’uomo. Ma una cosa la sapeva: il suo regalo era esattamente dove doveva essere. Ai loro piedi, tra la polvere. Dimenticato.
 
Angolo dell’autrice:
Inizialmente questo doveva essere solo l’inizio del capitolo (ed infatti, è molto breve).
Poi mi sono scontrata (a forte velocità e senza cinture di sicurezza XD) con la fatica immensa che ho fatto per scriverlo.
Il perché è presto detto. Non ho mai visto Sherlock come qualcuno pronto a raccontare il proprio passato con leggerezza. Non l’ho mai visto una persona che si lascia andare a confidenze, soprattutto così private. Quindi mantenere un equilibrio tra “il dire e in non dire” è stato complicato, con l’OOC sempre il agguato (spero di aver vinto io questa sfida! XD)
Vorrei aggiungere mille cose, ma mi ricordo del saggio suggerimento di Koa e taccio, sperando che possano trasparire più o meno intensamente dal testo.
 
Grazie mille a tutte/i come sempre per i commenti, la lettura, la pazienza (XD).
Un abbraccio!
 
B.
 
PS: io personalmente non festeggio, ma ad ogni modo: buona Festa delle Donne, ragazze!
PPS: non prometto aggiornamenti ulteriori, per questa settimana: il 12 compio gli anni e potrei darmi alla fuga per il week end! In caso scusatemi, recupererò prossima settimana che per fortuna farò orario ridotto a lavoro! :D

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Capitolo 22
*** Uno, due, due e mezzo e tre ***


John Wargrave – Alpha Plus, giudice della Corte Penale di Londra – ingoiò un singhiozzo e alzò uno sguardo supplichevole sul volto dell’uomo in piedi di fronte a lui.
“Pe…perché…?” Domandò ancora una volta, mentre una lacrima silenziosa gli solcava la guancia destra, poco sotto la tempia dove il suo ospite inatteso teneva premuta la volata di una pistola.
“Quante volte dovrò spiegartelo, ancora?” Sbuffò quello, alzando gli occhi al cielo. “Non è niente di personale nei tuoi confronti. Semplicemente, tu sei il migliore che ho trovato. Anzi, lasciatelo dire: rasenti quasi la perfezione.” Un sorriso compiaciuto gli increspò le labbra, che umettò con un rapido movimento della lingua. “Adesso, se non ti spiace…” Concluse, indicando all’uomo la pistola che gli aveva stretto alla mano sinistra, con vari giri di nastro adesivo rinforzato.
“Come ho detto, se sparo io, sei morto di sicuro. Se lo fai tu… hai cinque possibilità su sei di cavartela. Mi sembra un valido motivo per scegliere questa strada, non credi?” L’uomo si chinò sul giudice, portandosi con un orecchio all’altezza della sua bocca. “Avanti, dimmi di sì...” Sembrò supplicare, prima di soffocare una risata. “Naturalmente se provi a sparare a me, ci sono altrettante possibilità che il colpo fallisca… e allora non mi limiterò a darti una morte rapida e dignitosa… “ Sussurrò, con voce melliflua. “Anche se forse, per quello, è già troppo tardi.” Aggiunse, osservando compiaciuto l’alone umido che si stava allargando sui i pantaloni dell’uomo, lambendo la stoffa della poltrona sulla quale era seduto.
Il giudice annuì, debolmente. Con mano tremante si portò l’arma verso la tempia opposta a quella tenuta sotto tiro dallo sconosciuto, che come vide poggiarsi il metallo contro la pelle dell’uomo si allontanò, continuando a tenerlo sotto tiro.
“Vuole che conti, giudice?” Domandò, con finta reverenza.
Wargrave fece cenno di no col capo, e serrò gli occhi. Per un attimo, il salotto della sua villa alla periferia di Londra cadde nel silenzio più assoluto. Poi, con un’esplosione, la parete bianca alle spalle del giudice si macchiò di un rosso vivo, pulsante.
L’uomo rantolò per qualche secondo, poi fu di nuovo silenzio.
 
“Ops…” Commentò lo sconosciuto, ondeggiando in modo infantile da un piede all’altro.
“Forse erano cinque possibilità su sei di morire…” L’uomo appoggiò un dito alle labbra ed assunse un’espressione pensierosa, per poi aprirsi in un sorriso allegro. “Ad ogni modo… Ormai è tardi.”
Accennando un passo di danza aggirò la poltrona dove il giudice giaceva ormai privo di vita, estraendo con un gesto plateale il fazzoletto ricamato che portava nel taschino della giacca dal taglio sartoriale che indossava. Con molta attenzione, dopo averlo inumidito con la saliva, iniziò a creare una scritta, facendola riemergere dal sangue.
A lavoro terminato, si allontanò di qualche passo per osservare compiaciuto il risultato finale.
Bianca, candida, immersa in un contorno molle e purpureo, era perfettamente visibile una nuova rima:
 
Uno, due, due e mezzo e tre,
Jim Moriarty è qui per te. [1]
 
L’uomo ripose il fazzoletto nel taschino, e recuperò il proprio cellulare dal cappotto che aveva lasciato su una delle sedie della sala da pranzo.
Completò il messaggio e lo inviò, dirigendosi quindi verso l’uscita, accompagnando i propri passi con un fischiettio allegro.
Nello stesso momento, dall’altra parte della città, il cellulare sul comodino di Gregory Lestrade vibrò, svegliandolo.
 
***
 
La signora Hudson bussò con risolutezza alla porta, e John sobbalzò, svegliandosi.
Per qualche secondo si guardò attorno spaesato, cercando di capire dove fosse. Poi, dopo un paio di tentativi, mise a fuoco la poltrona di Sherlock, molto più vicina di quanto non la ricordasse. Girò la testa verso la porta, tentando di alzarsi, e solo in quel momento si accorse di avere il proprio cappotto sulle gambe. Confuso, lo scostò con un movimento impacciato, mentre la donna bussava nuovamente.
“Un… un attimo!” Provò, con voce impastata.
“Mi dispiace disturbare, ma c’è l’ispettore Lestrade! Dice che è urgente!” Nonostante la porta chiusa, la preoccupazione della signora era palese.
“Ok, arrivo!” Le rispose John, guardandosi attorno. “Sherlock?” Chiamò, certo che non avrebbe ricevuto risposta: le finestre erano socchiuse e la scia del detective opaca. Doveva essere uscito da almeno un paio d’ore.
Con passo incerto si avvicinò alla porta, la testa ancora ovattata e pulsante e gli occhi appannati.
“Sherlock non c’è.” Disse, poggiandosi al legno con la testa ed una mano. “Se è lui che cerca gli dica di provare a chiamarlo al cellulare.”
“John!” La voce di Greg lo colse di sorpresa, facendolo arretrare. “Che sta succedendo? Perché non apri?!”
Il medico lanciò uno sguardo per la stanza, in cerca di una via di uscita.
“John!” Lo chiamò nuovamente Lestrade, e John sentì la signora Hudson dirgli che se avessero avuto ancora bisogno di lei l’avrebbero trovata al piano di sotto. I suoi passi lungo le scale furono per un attimo l’unico suono udibile.
“Sto iniziando davvero a preoccuparmi, adesso.” La voce dell’ispettore, dall’altra parte della porta, si era fatta bassa. “Per favore, John. Mi conosci! Fammi entrare e dimmi cosa c’è che non va.”
“Non… non posso Greg. Per favore, va’ via.” Il medico si portò una mano al viso, passandosi le dita sugl’occhi, prima di fermarle sulle labbra in un gesto preoccupato.
“John.” Tentò ancora l’ispettore. “Per favore. Sei mio amico, e se hai bisogno di aiuto devi solo parlarmene.”
“Perché sei qui?” Domandò il medico, dopo un lungo sospiro.
“Abbiamo un'altra vittima. Ed un possibile sospettato, finalmente!” Rispose Greg, nella voce un tremito impaziente. “Ero venuto a prendere Sherlock, ma ormai sono qui e non me ne vado fino a quando non mi dici cosa diavolo sta succedendo.”
“Hai cose più importanti alle quali pensare, adesso. Ne parleremo un’altra volta, promesso.” John fece un passo verso la porta, cercando di pronunciare le parole nel modo più credibile possibile.
“Al momento sulla scena del crimine c’è quasi tutto il Dipartimento. Posso rimanere qui fuori delle ore, se necessario. Mi basta un telefono, per lavorare.” Lestrade si appoggiò alla porta, lasciandosi andare volutamente con una certa forza, in modo che fosse chiaro che non si sarebbe mosso.
“Dio, perché devi essere anche tu così?” John alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa.
“Così come?” Chiese l’ispettore, senza capire.
“Testardo.” Rispose il medico, incapace di trattenere un accenno di sorriso. Aveva sempre saputo che Greg tenesse a lui, ma non aveva mai avuto modo di vederlo in modo tanto chiaro come in quel momento.
“Non riesco a immaginare un solo buon motivo per dover continuare questa conversazione separati da una stupida porta. Sono preoccupato, John. Molto.”
“Anche io.” Sibilò lui, abbassando gli occhi.
“Pensavo mi ritenessi un amico.” Iniziò Lestrade.
“Non provarci. Non farlo.” Lo interruppe John, iniziando a sentire la frustrazione per la situazione trasformarsi in rabbia. “Lo sai che sei una delle poche persone che definirei tale. Lo sai.”
“E allora dimmi cosa ti impedisce di aprire questa maledetta porta!” Anche la voce dell’ispettore, adesso alta, faceva trasparire un certo nervosismo crescente. “Sherlock ti ha fatto qualcosa?” Azzardò.
“Dio, no!” Si lasciò sfuggire il medico, con troppa convinzione.
“Riguarda il caso?” Tentò nuovamente il poliziotto.
“Riguarda me, Greg. Solo me.” Specificò John, marcando con forza l’ultima parola.
“Bene. Allora voglio che ti sia chiaro che qualunque cosa ti stia succedendo, tu abbia fatto, o tu stia pensando di fare, non cambierà di una sola virgola la mia opinione su di te. Ok? Non me ne vuoi parlare? Va bene. Come vuoi. Ma ricordati che puoi chiamarmi. Sempre.” Si arrese l’ispettore, staccandosi dalla porta. “Vado al Bart’s a vedere se Sherlock è lì…” Lo informò, prima di voltarsi verso le scale.
Lo scatto della maniglia lo sorprese, e Greg tornò a guardare la porta, adesso socchiusa.
“Grazie.” Sussurrò, con un sospiro di sollievo.
Tornò indietro, e appoggiò una mano sul legno, spingendolo quanto necessario per potersi affacciare nella stanza.
Vicino alla finestra di fronte all’ingresso, John se ne stava immobile, con aria tesa e sguardo lucido. Lestrade aggrottò la fronte, senza riuscire a capire quale fosse il problema.
Lanciò un’occhiata lungo la stanza, trovandola nelle stesse condizioni di sempre. Tornò quindi sul medico, aprendo la porta fino al punto da riuscire ad entrare.
“Non… Non capisco.” Ammise, assumendo un’espressione confusa.
John, allora, in silenzio fece un paio di passi verso di lui, fermandosi quando ritenne la distanza sufficiente a far arrivare a Greg il suo messaggio olfattivo. Sentiva il cuore esplodere nel petto, in un misto di paura, ansia e vergogna, sentimenti che portavano con loro una rabbia sorda, cieca, che si mescolava a tutti gli altri odori in una scia complessa, forte.
Dopo qualche secondo di silenzio, Greg prese un respiro profondo, e riuscì finalmente a capire.
John lo osservò schiudere le labbra, e sgranare gli occhi. Si preparò con tutte le sue forze a sentire le ultime parole di quello che, ne era sicuro, sarebbe presto uscito da quella stanza rinnegando ogni loro rapporto di amicizia.
“Razza di idiota…” Sibilò Lestrade, ed il medico sorrise, con amarezza. Ne era certo, che sarebbe andata così.
Greg coprì la distanza tra lui e John con pochi passi, quasi correndo, tanto che l’altro non fece in tempo a capire cosa stesse succedendo, né a cercare di proteggersi.
In un attimo si trovò avvolto dalle braccia di Lestrade, premuto contro il suo petto e con la punta del mento dell’ispettore che spingeva contro una spalla.
“Sei un idiota, John Watson.” Ripeté Greg, con un sorriso tirato. “È per questo che ho rischiato di perdere uno dei miei più cari amici?”
John, naso schiacciato contro il tessuto rigido della giacca dell’altro, riuscì solo ad emettere un singhiozzo strozzato, carico di ogni sensazione che non stava riuscendo ad esprimere.
L’ispettore ammorbidì la presa e fece un passo indietro, tenendo le mani sulle spalle del medico.
“Perché diavolo non me lo hai detto?” Chiese, nella voce qualcosa che assomigliava vagamente ad una ferita.
“Pensavo… Non lo so, che non avresti capito.” Provò John, senza esserne davvero sicuro. Perché aveva trovato l’idea di parlare a Lestrade di tutto questo tanto insopportabile? Non riusciva a ricordarlo, in quel momento.
“Mike lo sa?” Continuò Greg, lasciandolo andare.
John fece cenno di no con la testa, abbassando lo sguardo.
“Dovresti dirglielo.”
“Lo so.” I medico lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, in un gesto sconsolato. “È solo che… dopo tutti questi anni… Temo che si sentirebbe tradito, da una bugia simile.” Ammise, muovendosi verso il divano e lasciandocisi cadere sopra.
“Chi sei non è certo una scia a decretarlo. Non per te, almeno. Cristo John, sei un medico! Un militare! È, è… Incredibile!” Esplose Greg.
“Perché un Alpha nella gerarchia militare ed un Beta medico rappresentano la norma, ma nel mio caso questi traguardi diventano qualcosa di incredibile?” Domandò John, osservando l’altro arrossire.
“E dai, lo sai cosa volevo dire…” Sussurrò Lestrade.
“Sì., Greg. Lo so.” Gli concesse John.
“Non è per forza un male che qualcuno si stupisca di cosa una persona sia in grado di fare. Io mi sorprendo costantemente di quel che Sherlock fa sulle scene del crimine, e per lui praticamente è un vanto essere l’Alpha ammirato per qualcosa che uno come lui non avrebbe mai dovuto fare.” Tentò di spiegarsi meglio l’ispettore.
John rimase in silenzio, riflettendo su quanto l’altro aveva appena detto.
Sì, era vero: Sherlock adorava sottolineare con parole e fatti quanto lontano fosse dai canoni del perfetto maschio Alpha. Per lui non era un problema subire battute sulla sua presenza sulle scene del crimine, o rimanere senza soldi pur di continuare a fare quanto amava con forza e convinzione.
Non lo aveva mai osservato sotto quella luce, e per un attimo fu come vederlo assumere un aspetto del tutto nuovo. Non doveva essere facile, lottare costantemente per la propria libertà, senza potersi nascondere, camuffare. Per il detective non esistevano farmaci, solo la propria testardaggine. E se lo Snubber aveva smesso di funzionare, per lui, da poco meno di ventiquattro ore, Sherlock era una vita intera che lottava per condurre la propria esistenza da uomo libero, al costo di isolamento e derisione.
“Hai ragione. Hai perfettamente ragione.” Bisbigliò John, sovrappensiero, alzandosi dal divano, diretto al piano di sopra in cerca del proprio cellulare.
“Dove vai?” Chiese Greg, seguendolo con gli occhi, senza capire.
“Provo a chiamare Sherlock per sapere dove sia.” Gli rispose John, iniziando a salire le scale. “Hai detto che avete un nuovo corpo ed un nome, lo adorerà.” Aggiunse, immaginando la faccia sorridente del detective nel ricevere la notizia, senza riuscire a trattenere a sua volta un sorriso.
 
***
 
Sherlock osservò le cellule sconosciute radunarsi in un lato della piastra, ad un primo sguardo del tutto inattive. Le particelle di Om+ di John si muovevano, lentamente, lungo le pareti di vetro, spostandole senza che queste reagissero in alcuni modo.
Il detective fece cadere alcune briciole di Snubber frantumato sul vetrino, guardandole sparire – distrutte e metabolizzate - ancor prima di riuscire a compiere il proprio lavoro.
Staccò gli occhi dallo strumento e appuntò su un foglio che l’inattività delle cellule non combaciava con la loro disattivazione. Non rimaneva che scoprire se, e quando, dopo un dato lasso di tempo senza “nutrimento”, gli organismi unicellulari andassero incontro a morte.
Ma per un’analisi del genere occorreva tempo, molto, e loro – Sherlock bloccò per un attimo i propri pensieri, sorpreso di aver usato il termine “loro”, decidendo di ignorare quanto appena accaduto subito dopo - non ne avevano a disposizione così tanto.
John sarebbe andato in Calore nel giro di tre settimane, e ne rimanevano due prima che cominciasse a manifestare i primi segnali.
Sherlock si lasciò andare contro lo schienale dello sgabello, portandosi le mani al viso. Era uscito di casa poco prima dell’alba, dopo una notte passata per la maggior parte del tempo a vegliare sul sonno agitato del medico. Non era servito a niente coprirlo, e mantenere acceso il camino il più a lungo possibile. Cose orribili dovevano star accadendo, oltre la barriera delle sua palpebre chiuse, e Sherlock non era riuscito a pensare ad altro che potesse aiutare John se non riuscire a trovare il modo di farlo tornare chi aveva scelto di essere. Chi era.
Aveva preso il cappotto ed era uscito, non prima di aver aperto le finestre e chiuso la porta, per evitare che la signora Hudson piombasse in salotto senza che il medico se ne accorgesse.
Adesso, quasi tre ore dopo, la stanchezza gli appannava la vista e la fame – ormai pressante - i pensieri, in un’irritante limitazione sensoriale e psichica che mal riusciva a tollerare.
Il cellulare, schermo contro il legno del bancone, iniziò a vibrare.
Il detective allungò una mano e lo afferrò, portandoselo al viso, mantenendo una postura allungata all’indietro sulla seduta.
Il nome di John lampeggiava con insistenza, e Sherlock rispose e si appoggiò l’apparecchio all’orecchio in un unico, fluido, gesto.
“John.” Disse, cercando di nascondere stanchezza e quell’accenno di nausea che la fame gli stava dando.
“Sherlock, dove sei?” La voce del medico, dall’altro capo del telefono, appariva distesa, ed il detective si rilassò a sua volta, rilassando spalle e schiena.
“Al Bart’s. Inutile rimanere a casa.” Rispose, con voce fintamente annoiata.
“Greg è qui. C’è stato un altro omicidio. Ed hanno un sospettato, questa volta.” John tacque, in attesa di un cenno da parte dell’altro.
“Hanno un nome e comunque cercano me?” Sbuffò Sherlock, sentendo il medico trattenere una risata.
“A quanto pare.” John sospirò, divertito. “Gliel’ho detto.” Aggiunse, poi, sottovoce.
“Cosa?” Domandò l’altro, fingendo di non capire.
“Che sono… Insomma, lo sai.” Il medico prese un profondo respiro, che vibrò nelle orecchie di Sherlock come una tempesta.
“E?” Chiese poi il detective, quando la comunicazione tornò silenziosa.
“Mi ha abbracciato.” Disse John, con voce nuovamente alta, chiara, con una piccola traccia di stupore.
L’immagine di Lestrade, a casa loro, con le braccia attorno al medico, ebbe l’effetto di un violento strattone all’altezza del plesso solare, e Sherlock si piegò il avanti, tornando a sedersi normalmente.
“Sherlock?” Lo chiamò l’altro, non sentendosi rispondere.
“Ottimo.” Tossì il detective, chinandosi nuovamente sulle lenti del microscopio. “Direi che è andata bene, no?” Aggiunse, distaccato.
“Sì, sicuramente…” Confermò John, titubante. “Greg passerà a prenderti, se per te va bene.”
“Certo. Mi trova al secondo piano, stanza B3.”
“Tutto ok?” Domandò il medico, dopo qualche secondo di silenzio.
“Sì, tutto bene.” Rispose l’altro, sbrigativo.
“Novità?” Provò di nuovo John.
“Nessuna. Ma troverò qualcosa. Non preoccuparti.” Sherlock si alzò. Non riusciva a concentrarsi a sufficienza, e la cosa lo innervosiva terribilmente. “Adesso devo tornare agli esperimenti.” Tagliò corto, aspettando di sentire il flebile “Ok” di John prima di riattaccare.
Un omicidio. Si sforzò di pensare. Un nuovo omicidio ed un sospettato. Qualcosa che, fino ad un mese fa, avrebbe reso una giornata noiosa, perfetta.
Invece, fermo al centro della stanza, circondato da strumenti di ricerca e silenzio (altra cosa che, in un passato recente, avrebbe rappresentato per lui il massimo della gioia), gli sembrò che qualcosa non andasse. Che mancasse. E, per la prima volta, la solitudine gli apparve sotto la luce grigia di un’assenza.
 
***
 
Lestrade bussò un paio di volte, con forza, prima di entrare.
Sherlock finì di radunare i fogli sparsi sul bancone e li ripiegò, mettendoli nella tasca del cappotto che già aveva addosso.
“O hai trovato molto traffico, o sei diventato incredibilmente lento a guidare.” Esordì, tagliente, accogliendo l’ispettore con uno sguardo ostile più di quanto avesse voluto far trasparire.
“Nessuna delle due. Colpa di John.” Rispose l’altro, sorridendo.
Per un attimo il detective dovette concentrarsi su ogni muscolo facciale, nel tentativo di rimanere impassibile.
“Ho saputo che te l’ha detto.” Commentò, atono.
“Sei stato un buon amico, a cercare di proteggerlo come hai fatto.” Lestrade iniziò a cercare qualcosa nella tasca interna della giacca.
“Non ho amici.” Sottolineò Sherlock, seguendo con attenzione i movimenti dall’altro.
“Certo.” Gli concesse l’ispettore, estraendo un sacchetto di carta bianco, con una certa fatica.
“Ciò nonostante, pare che tu ne abbia ugualmente uno, che ti piaccia o meno.” Aggiunse, lanciandogli la busta.
Il detective l’afferrò al volo, con una mano, senza muovere il resto del corpo. La aprì e ne rovesciò il contenuto sul palmo dell’altra, alzando poi uno sguardo interrogativo su Lestrade.
“Ha insistito che mi fermassi a comprarti qualcosa da mangiare.” Fu la risposta che ottenne.
Sherlock si rigirò gli snack tra le mani, confuso.
“Questo dovrebbe essere cibo?” Domandò, tagliente.
“Secondo John sì. Dice di aver trovato un bel po’ di carte vuote di quegli integratori, a casa vostra, pulendo. Secondo lui ti piacciono, e molto.” Rispose l’altro, allegro.
Il detective strinse le dita attorno alle due piccole confezioni colorate, se le mise in tasca, e senza aggiungere altro si avviò verso la porta.
“No. Ne devi mangiare almeno una, se vuoi venire con noi.” Lo bloccò Lestrade, alzando una mano.
“Voi? Forse dovresti essere tu a mangiare qualcosa, dato che inizi a parlare di te stesso con il plurale maiestatis.” Lo apostrofò Sherlock.
“Plurale che?” Rispose l’ispettore, aggrottando le sopracciglia. “Comunque John mi ha detto di risponderti, in caso ti fossi rifiutato: “ordini del dottore”.”
“Divertente.” Sbuffò il detective, ignorando la mano alzata di Lestrade ed uscendo dalla porta.
“Chi c’è sulla scena del crimine? Anderson? Donovan?” Si informò, continuando a camminare, percorrendo il corridoio a grandi falcate e costringendo l’ispettore ad accelerare il passo per stargli dietro.
“Nessuno. Ho mandato tutti a casa.” Rispose Lestrade, riuscendo ad affiancarlo.
Sherlock si voltò verso di lui, sorpreso.
“Una premura inaspettata, lasciarmi libero di pensare senza che il loro scarso quoziente intellettivo cerchi di cibarsi del mio per assicurar loro un minimo di sopravvivenza.” Disse, iniziando a scendere la seconda rampa di scale.
“Veramente già ieri ti ho fatto venire da solo sulla scena del crimine.” Sottolineò l’ispettore, posando piede sull’ultimo gradino. “Ad ogni modo oggi, non è per te che ho mandato tutti a casa.” Aggiunse, seguendo Sherlock oltre la porta a vetri scorrevole che dava sull’esterno.
“Sei finalmente giunto anche tu alla mia stessa conclusione sulla loro completa inutilità?” Chiese il detective, iniziando a cercare la volante con lo sguardo.
“No. Ho solo pensato che avresti preferito che ci fosse lui, piuttosto che loro.” Commentò Lestrade, poggiandogli una mano su una spalla ed indicandogli con l’altra la macchina, posteggiata poco più in là, in una zona isolata del parcheggio.
Appoggiato alla fiancata, accanto alla portiera aperta, John stava scrutando il cielo plumbeo, schermandosi gli occhi con una mano.
Sherlock socchiuse le labbra, colto di sorpresa.
“Hai permesso che uscisse di casa?” Sibilò, dopo qualche secondo, voltandosi verso l’ispettore. “È pericoloso!”
“Ho permesso? È stata una sua richiesta.” Lestrade allontanò la mano dal detective, portandosela al fianco.
“È vulnerabile, adesso! Potrebbe succedergli qualsiasi cosa, possibile che non te ne renda conto?! Se il killer mandasse qualcun altro a finire il lavoro iniziato?!” Ringhiò Sherlock, e John si voltò verso di loro, attratto da quel suono gutturale giunto fino a lui, spinto dal vento leggero che si stava alzando.
“Allora – Lestrade si portò più vicino a Sherlock, abbassando la voce a poco più di un sussurro – ti consiglio di stargli accanto il più possibile, per accertarti che non accada.” Detto questo, si avviò verso la macchina, alzando una mano in direzione del medico.
Sherlock, ancora immobile, osservò John ricambiare il saluto, per poi girarsi verso di lui con un sorriso incerto. Senza ricambiarlo, si avvicinò alla macchina con passo veloce.
Quando fu abbastanza vicino, gli indicò l’interno dell’auto, con un gesto brusco.
“Sali.” Sibilò, ignorando lo sguardo stupito e ferito che ricevette in cambio.
“Ho detto sali.” Ripeté nuovamente, quando gli fu praticamente accanto.
John, combattendo l’istinto di fare come gli era stato ordinato con tanta veemenza, si irrigidì, rimanendo in piedi fuori dalla macchina.
“John, non sto scherzando.” Sherlock gli toccò un braccio, cercando di farlo spostare.
“Si può sapere che ti prende?!” Chiese il medico, portandosi in avanti per controbilanciare la presa del detective.
Tu stai cercando di farti ammazzare, e chiedi a me cosa mi prenda?” Sherlock gli diede un’altra spinta, leggera, e John si lasciò cadere sul sedile, mantenendo uno sguardo serio sull’altro, che si sedette a sua volta facendolo scivolare all’interno, per poi chiudere la portiera.
Lestrade, davanti, attese che assumessero entrambi una postura corretta e mise in moto, cercando di concentrarsi sul percorso da compiere.
“Non saresti dovuto uscire di casa.” Ringhiò Sherlock, rauco, voltandosi con la testa verso John.
“Da quando decidi tu cosa debba fare o meno?” Lo rimbeccò l’altro, scoprendo i denti a sua volta.
“Da quando hai deciso di suicidarti, con tutta evidenza!” Sherlock ancorò gli occhi a quelli del medico, mantenendosi impassibile.
“Meglio morto che prigioniero.” Rispose l’altro, a denti stretti, ed il detective riuscì a scorgere una fugace ombra di disperazione nel suo sguardo.
“Lo so che adesso ti sembra che non ci sia una soluzione, ma ne verremo fuori. Troverò un modo.” Sherlock abbassò la voce, addolcendola.
“È da ieri che lo ripeti. “Troverò un modo.” Beh, io sto cercando il mio, Sherlock. Perché se il tuo fallisse, sarò sempre io quello che dovrà cercare di sopravvivere.” John smorzò il tono a sua volta, riducendolo ad un sussurro. “Sono prigioniero del mio stesso corpo. Fammi essere almeno libero delle mie azioni e scelte, finché posso.” Aggiunse, staccando infine gli occhi dal detective e girandosi verso il finestrino, abbassandolo appena.
Sherlock rimase immobile qualche secondo, osservando i capelli del medico muoversi spinti dall’aria che entrava dalla piccola fessura del vetro e respirando la sua scia, adesso alta e pungente. Dopo un attimo, in silenzio, estrasse le due barrette dalla tasca, allungandone una verso John, che osservò con la coda dell’occhio la mano tesa del detective.
“Non capisco.” Gli concesse infine il dottore.
“Ordini del medico.” Lo scimmiottò Sherlock, lasciandogli cadere la confezione sulle gambe ed iniziando ad aprire la sua.
John si voltò verso di lui, aspettando di vedere il detective dare il primo morso. Poi, lentamente, iniziò a mangiare a sua volta, accennando un sorriso.  
 
***
 
“Jim Moriarty.” Sherlock ripeté il nome scritto sul muro, lasciando che si imprimesse nella sua mente, passandoselo sulla lingua, lento, come a volerlo assaporare. “Niente su di lui nei vostri archivi?” Domandò, rivolto a Lestrade, senza staccare gli occhi dalla parete.
“Nulla. Neanche una patente, un indirizzo di posta, una richiesta per il passaporto. Quell’uomo è un fantasma, per l’anagrafe cittadina.” Sospirò l’ispettore, lanciando un’occhiata a John, chino sul corpo esanime dell’uomo.
“Vorrei sapere come si possa spingere qualcuno a spararsi, senza che questi usi l’arma per difendersi.” Commentò il medico, infilando i guanti e facendo scorrere in basso il caricatore delle munizioni. “È pieno. Non ha alcun senso!” Con attenzione, infilò in cinque diverse buste di plastica i proiettili rimasti, e in un sesto contenitore il caricatore di metallo.
“Roulette russa.” Disse Sherlock, immobile, ancora spalle alla poltrona.
“Non è così che funziona, la roulette russa.” Rispose John, adagiando le prove nella borsa della scientifica che l’ispettore aveva chiesto venisse lasciata sulla scena.
“Invece sì, se vuoi essere certo di vincere.” Il detective si voltò verso di lui, mantenendo il corpo nella stessa posizione, ruotando solo un po’ le spalle.
“Mi chiedo perché fosse tanto importante che morisse così.” John tornò verso il giudice, girando attorno alla poltrona per poter osservare la ferita con attenzione.
Nel farlo, finì schiena contro schiena con Sherlock, che rimase immobile, senza dar segno di averlo sentito.
“Ha un’idea chiara di chi, dove e come.” Sussurrò il detective, a voce sufficientemente alta da permettere anche al medico di sentirlo.
“Sicuro? A me sembra solo che si diverta a sperimentare.” Rispose l’altro, chino sul foro di uscita del proiettile.
“Se così fosse non avrebbe usato più volte lo stesso metodo.” Ribatté il detective, pronto.
“Tecnicamente, non l’ha fatto. Stando almeno a quanto mi avete raccontato in macchina sull’omicidio di ieri.” John alzò gli occhi su Greg, trovandolo con la testa inclinata da una parte, completamente catturato dal loro scambio di battute.
A disagio, il medico si spostò di lato, staccandosi da Sherlock quel tanto da non sentire più la pressione della sua schiena contro quella di lui.
“Non è questo. Lo sento.” Il detective si avvicinò al muro, alzando una mano fin quasi a toccarlo.
“Lo senti? Da quando sei in sintonia con i pazzi assassini?” Domandò Lestrade, un vago accenno di preoccupazione nella voce.
“Da quando non sono pazzi, Lestrade. Tutt’altro. È sempre un passo avanti a noi. Conosce i nostri numeri di telefono, le zone non coperte dalla videosorveglianza nei luoghi pubblici, sa dove trovarci. Non è un folle. No. È l’esatto contrario.” Disse, assorto, tracciando nell’aria le stesse lettere impresse nel sangue.
“Dio, Sherlock! A sentirti sembra quasi che tu ne sia ammirato!” John smise di analizzare la vittima, e tornò in posizione eretta, guardando con aria accigliata il detective, che gli lanciò una rapida occhiata, prima di tornare a fissare la parete.
“Sembri deluso.” Commentò Sherlock, dopo qualche attimo di silenzio.
“Certo, sì. Lo sono.” Confermò il medico, annuendo con forza. “Quell’uomo sta uccidendo delle persone, maledizione! Con violenza, con… sadismo. Per non parlare di me… E… E tu sembri uno che se se lo trovasse davanti andrebbe a stringergli la mano!” Sbottò John, iniziando a tremare di rabbia e facendo un passo indietro, verso Lestrade, che intanto si era avvicinato a lui.
“Ammiro sempre una mente eccelsa, quando ne trovo traccia. È merce rara. Questo non significa che mi complimenterei con lui per il suo operato.” Rispose Sherlock, calmo.
“Però adesso che non c’è lo stai facendo, giusto?!” John si tolse i guanti con un gesto carico di sdegno, e li lanciò a terra. “Meraviglioso, davvero.” Concluse, voltandosi a chiedere scusa con lo sguardo a Lestrade prima di uscire con passi rapidi dalla stanza.
“Sherlock.” Provò l’ispettore, ottenendo in cambio un gesto della mano che gli intimava il silenzio.
“Non fatico a credere che tu ritenga di non avere amici, visto come tratti quelli che hanno avuto l’ardire di definirsi tali…” Sussurrò quindi, prima di appoggiarsi alla parete vicina alla porta e tacere.
“John non si è mai definito mio amico.” Disse il detective, dopo qualche minuto di silenzio, decidendo che fosse giunto il momento di andare.
“Forse non davanti a te. Ma con me lo ha fatto. Mentre stavamo venendo a prenderti ed ha insistito più volte che mi fermassi per comprarti qualcosa da mangiare. Gli ho chiesto almeno tre volte perché fosse tanto importante. E lui mi ha risposto che lo era perché sei suo amico, e quindi ha il dovere di accertarsi che tu ti prenda cura di te.” Lestrade si staccò dal muro, osservando Sherlock apparire perso per un attimo. “Sai quanto ho dovuto faticare io perché si fidasse di me al punto da definirmi “amico”?” Gli chiese mentre, affiancati, uscivano dalla stanza. “Mesi. Mesi interi Sherlock. E ancora non ha abbastanza fiducia in me da venire a dirmi subito cosa gli succede, o se ha bisogno di aiuto.” Il detective continuò a camminare, in silenzio, apparentemente assorto nei propri pensieri. “Lo so che come al solito saranno parole al vento, con te, ma per favore: provaci, almeno.”
“Provare a far cosa, esattamente?” Domandò Sherlock, sprezzante, dando una spinta alla porta d’ingresso della villa e affacciandosi sul patio esterno.
“A fidarti. Non tutti sono degli inetti, stupidi, inutili individui.” Terminò Lestrade, cercando il cellulare per richiamare sulla scena i suoi uomini, in modo che terminassero la catalogazione dei reperti e provvedessero allo spostamento del corpo.
“Non ho mai detto che John sia inetto, stupido od inutile.” Commentò Sherlock, mentre l’ispettore iniziava a dare disposizioni.
“Allora – disse lui, a bassa voce, coprendo per un attimo con la mano il ricevitore dal telefono – trattalo di conseguenza.”
Sherlock seguì con lo sguardo Lestrade scendere i tre gradini del portico, coprendosi con una mano l’orecchio non impegnato nella conversazione.
Poco distante, appoggiato alla macchina con le braccia conserte, John guardava il cancello d’ingresso, dalla parte opposta della casa.
Sherlock scese i gradini, prendendo a sua volta il telefono. Rapidamente compose un messaggio, inviandolo poco prima di raggiungere il medico.
 
[To: Mycroft][11:56 am]
Jim Moriarty. [2]
 
John, sentendolo arrivare, si voltò verso di lui, con sguardo ostile.
“Non mi interessano le tue motivazioni, o la spiegazione del perché razionalmente tutti noi dovremmo riconoscere in lui un genio, se è di questo che hai intenzione di parlare.” Sibilò, tagliente, la scia pungente come il suo sguardo.
“No.” Disse Sherlock, appoggiandosi a sua volta alla portiera. “Anche se non nego quanto detto prima. Sarebbe sciocco farlo.”
“Sciocco è venire qui a ribadirlo.” Commentò John, dando un calcio ad un pezzo di ghiaia bianca più grande degli altri.
“Sciocco sarebbe credere che se lo trovassi gli stringerei la mano.” Ribatté il detective, lanciando un’occhiata eloquente al medico. “Se lo trovassi lo porterei in laboratorio e mi farei dire cosa ti ha fatto inoculare, a costo di dovergli fratturare accidentalmente qualche osso per riuscirci. Le finestre sono sempre aperte quando non dovrebbero…”
John, confuso, alzò lo sguardo su di lui, senza riuscire a mantenerlo fermo quanto avrebbe voluto.
“Una volta risolto quello… Sì, probabilmente gli stringerei la mano.” Aggiunse il detective, accennando un sorriso.
Il medico annuì, sentendo il suo viso distendersi ancor prima di averlo deciso consciamente.
“Sei un idiota.” Lo apostrofò, con sguardo allegro.
“Sociopatico.” Lo corresse Sherlock, guardando avanti a sé, l’ombra di un sorriso ancora visibile sul viso.
“Ok, vi accompagno a casa e torno qui, sbrighiamoci.” Urlò loro Lestrade, chiudendo la porta della villa e sigillandola con una grossa “x” di nastro adesivo della polizia.
“Ti va di parlare degli omicidi, una volta a casa?” Domandò John, aprendo la portiera.
“Davvero me lo stai chiedendo?” Sherlock si accomodò accanto a lui, richiudendola. “Non riesco ad immaginare un pomeriggio migliore.”
 


Note:
[1] Ho pensato un po’ se scrivere solo le iniziali, JM, o il nome per intero. Poi ho immaginato che se avessi scritto solo quelle, avreste comunque capito tutte di chi stavamo parlando, per cui ho deciso di farlo “firmare” per intero… Che poi, lo ammetto… Mi sembra molto più da Moriarty! (Con quell’ego che si ritrova… XD)
Ok, ora sapete che sì, si tratta proprio di lui. Ma molto ancora deve accadere ed essere svelato! (Risata diabolica).
[2] Anche per questo messaggio ho avuto qualche pensiero. Infine l’ho ridotto all’osso, perché penso che Sherlock e Mycroft non abbiano bisogno di tante parole, anzi. Ritengo che il maggiore degli Holmes sappia esattamente cosa il fratello possa volere (e non volere XD) da lui, e che un semplice nome, per loro, significhi automaticamente “ricerca più informazioni possibili”.
 
Angolo dell’autrice:
 
SORPRESA!
 
Questo capitolo premeva nella mia mente per uscire, tanto che non ho fatto praticamente altro che scrivere per tutta la giornata (sia ringraziato il part time verticale. XD)
Ora, avendolo scritto tutto oggi, in svariate e svariate ore, è assai probabile che porti con sé un po’ di errori (refusi, ripetizioni…)
Nel caso, me ne scuso. Provvederò a correggere (ed a rispondere a tutti i commenti, vecchi e nuovi) non appena avrò un attimo. ^_^
 
Grazie come sempre a chi legge, e a chi decide di dedicare (a volte con estrema costanza, senza mancare un solo capitolo!) alla storia un po’ del suo tempo, commentando. :D
 
Alla prossima!
B.
 
Ps: Vi allego una bellissima immagine che è stata fatta, espressamente per la storia, dalla bravissima loveart7, alla quale vanno i miei più sentiti ringraziamenti. Vedere qualcosa che si è scritto prendere vita sotto forma di immagine è una grande emozione, e non avrei potuto chiedere niente di più.
 

 

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Capitolo 23
*** Tocca a Sherlock ***


“Spiegami ancora una volta come funziona.”
John Watson, posizione rigida ed alta uniforme indosso [1], si fece un passo più vicino a Sherlock, osservando accigliato la poltrona del giudice venir lambita da una piccola onda del laghetto di Kensington.
“Te l’ho già spiegato. Parla. Basterà.” Rispose il detective, lanciandogli un rapido sguardo con la coda dell’occhio.
“Tutto qui.” Ribatté il medico, poco convinto.
“Tutto qui.” Confermò Sherlock, iniziando a muoversi con passi lenti e misurati tra le varie scene del crimine.
“Procediamo con ordine.” Aggiunse poi, qualche secondo dopo, fermandosi davanti al tavolo da pranzo della prima vittima. “Marston. Alpha Minus, amministratore delegato.”
“Avvelenamento da cianuro.” Gli fece eco John, comparendo dall’altra parte della stanza.
Sherlock annuì, recuperando il foglio bloccato sotto il bicchiere accanto alla testa dell’uomo.
“Sette e otto e nove.” Lo precedette John, e lui rimase per un attimo immobile, intento a guardare il viso del medico illuminarsi sotto la luce di un sorriso soddisfatto.
“Sì.” Disse quindi, con voce distratta, scuotendosi ed appallottolando la carta fino a farla sparire tra le dita.
“Questo è strano, non trovi?” John mise una mano nella tasca dei pantaloni, estraendo il foglio che Sherlock aveva appena fatto sparire.
“Cosa, esattamente?” Gli domandò il detective, guardandolo muovere gli occhi tra le righe dalle poesia.
“Sette, otto e nove. Un modo bizzarro di cominciare una conta.” Rispose il medico, alzando gli occhi su di lui. “No?”
Sherlock annuì, distogliendo lo sguardo dall’altro con una certa fatica. Con le mani dietro la schiena si voltò verso destra, diretto alla camera da letto della seconda vittima.
“Evidentemente era per lui necessario che ci arrivasse prima quell’informazione.” Commentò, spostando assorto la scatola dei sonniferi sul comodino con la punta delle dita.
“Quale informazione, esattamente?” Domandò John, raggiungendolo.
“Che il buio è in ogni luogo…” Sherlock aggirò il letto ed attraversò il vetro che separava la stanza dalla cucina.
“O che la luce sarà fatale per chi indaga.” Aggiunse il medico, comparendo alle spalle della sagoma del Beta che li aveva attaccati nel vicolo.
“Molly Rogers, Omega Plus.” Continuò Sherlock, senza dar segno di averlo sentito.
“Casalinga, overdose di narcotici. Uno, due, tre e quattro.” John si voltò verso la parete della cucina, osservando con interesse una goccia di vernice scendere lenta, fino ad adagiarsi sui fornelli.
Una folata di vento improvviso, alto, pungente, fece ondeggiare le tende della camera da letto affianco a loro e - poco distante - la tovaglia della sala da pranzo, che alzandosi scoprì le gambe del Signor Marston.
Sherlock fece un mezzo giro su se stesso, alzando il bavero del cappotto che solo in quel momento gli era apparso attorno. John, avvolto da una copia quasi perfetta del Belstaff Milford del detective, si ritrovò con i piedi nell’acqua, ed osservò incuriosito la superficie del lago aprirsi attorno alla stoffa pesante dei suoi pantaloni.
“Scusa.” Disse Sherlock, chinandosi sul cadavere riverso sulla riva.
“Di cosa?” Domandò il medico, perplesso.
“Sei finito in acqua.” Spiegò il detective, sbrigativo.
“Bene.” John adesso di fianco a Sherlock, si inginocchiò a sua volta sul corpo. “Scusa… Cosa?!” Aggiunse poi, girandosi verso l’altro con espressione confusa.
 “Niente di cui preoccuparsi. Ho per errore fatto materializzare la tua immagine mentale nel lago. Vogliamo andare avanti, adesso?” Il detective, sbuffando, tornò in posizione eretta.
“Aspetta un attimo… hai una mia immagine mentale lì dentro?!” John, adesso indosso solo un paio di jeans ed un maglione, si alzò, impacciato. “Davvero?” Domandò poi, con voce più bassa, sollevando la testa per riuscire a guardare l’altro negli occhi.
“Perché pensi ti abbia chiesto di parlare mentre io mi concentravo, steso sul divano, ad occhi chiusi?” Il detective alzò gli occhi al cielo, mentre John continuava a fissarlo.
“E… com’è?” Chiese quindi il medico, arrossendo. Il detective corrucciò la fronte, confuso. Perché aveva immaginato John fare una cosa simile?
“Non capisco.” Rispose, secco, tornando a concentrarsi sul cadavere ai loro piedi.
“Come mi immagini, intendo.” Specificò l’altro, e Sherlock gli lanciò un’occhiata veloce, trovandolo nuovamente in uniforme, schiena dritta e sguardo fiero.
“Come dovrei immaginarti, per l’amor del cielo? Come sei. Né più né meno.” Mentì, osservando con fastidio il medico inclinare la testa ed assumere un’espressione ironica.
Esattamente come sei.” Ripeté lui, con ancor più convinzione. “Adesso torniamo al caso, se non ti spiace.” Un paio di luci, forti, illuminarono la scena, isolando il corpo in un alone bianco che cancellò tutto il resto. “Rogers, impiegato di banca.” Cominciò, aspettando che John continuasse per lui l’elenco dei dati in loro possesso per quella scena del crimine.
“Beta, ripetuti colpi di accetta alla testa. Tre e quattro e cinque e-“
“Sei.” Terminarono, assieme.
Le luci si spensero, e per un attimo fu tutto completamente buio. [2]
Sherlock sentì la spalla di John premere contro la sua, ed il dorso delle loro mani sfiorarsi appena.
Il tempo di un battito di ciglia, e una piccola lampada da pavimento si accese, illuminando due poltrone, affiancate.
“Sherlock?” Si sentì chiamare.
“Sì, ci sono. Mi ero solo… distratto.” Il detective si voltò a guardare John, immobile e serio, avvicinandosi intanto a passi veloci alla prima vittima.
“Emily Brent, Beta Plus, impiegata di banca. Sei, sette, otto e nove.” Disse, facendo un giro intorno alla poltrona e fermandosi dietro alla sua spalliera. “Iniezione di acido cianidrico.”
“Non immediatamente letale, a quanto mi hai detto.” Aggiunse il medico, togliendosi il cappotto e lasciandolo cadere a terra, dove scomparve lentamente.
“Esatto. Ed infine…” Sherlock mosse un paio di passi alla sua destra, fino a trovarsi alle spalle di un’altra vittima.
“Il giudice Wargrave.” Terminò per lui John, seguendolo nell’altra stanza. “Alpha Plus, Corte Penale di Londra. Colpo di arma da fuoco autoinflitto. Di nuovo uno, due e tre.”
Sherlock annuì. Batté un paio di volte le mani, e i due si trovarono circondati da uno spazio completamente bianco.
“Ricapitoliamo.” Chiese quindi il detective chinandosi sul pavimento candido, tanto chiaro da apparire luminoso.
“Marston, Rogers, di nuovo Rogers, Brent ed infine il giudice Wargrave.” Elencò, mentre i loro nomi comparivano uno sotto l’altro ai suoi piedi, lettere nere in un mare niveo.
“Alpha, Omega, Beta, nuovamente Beta ed ancora Alpha.” Disse a sua volta il medico, mentre ogni Determinazione prendeva forma accanto al nome al quale era collegata.
“Due Rogers.” Mormorò Sherlock, socchiudendo gli occhi. Aveva l’impressione che quel particolare gli ricordasse qualcosa… ma non riusciva a mettere a fuoco in modo chiaro cosa fosse.
“E due Alpha, come due Beta. Un solo Omega.” Aggiunse John, con voce incerta. “Ha senso, per te?”
“Ne ha per lui… Quindi ne ha per me.” Gli rispose il detective, distrattamente, muovendo gli occhi tra un nome e l’altro.
“Ho visto il tuo Omega, S. È interessante.” Una voce allegra - alle sue spalle - lo colse di sorpresa, e Sherlock si voltò di scatto, cercando John con gli occhi. Al posto del medico, intento a guardare con aria divertita l’uniforme che aveva addosso, Victor Trevor proruppe in un lungo fischio ammirato. “Accidenti, mi dona questa cosa!”
“Non ho tempo per questo, adesso.” Ringhiò il detective, muovendo la mano in segno di fastidio. “Sparisci.”
Victor si guardò intorno, con aria preoccupata. Incassò la testa nelle spalle, e chiuse gli occhi, come in attesa di un colpo.
“Pare invece che tu mi voglia qui!” Disse dopo qualche secondo, divertito, quando si accorse che non era accaduto niente.
“Io non ti voglio, né qui né in nessun posto.” Sherlock, occhi scuri e denti scoperti, lasciò scivolare le parole attraverso un ringhio gutturale.
“Eppure sono qui.” Fu la risposta – semplice - dell’altro, che alzò le spalle con noncuranza, aprendosi in un sorriso. “Perché sono qui, S.?” Domandò quindi, lanciando un’occhiata ai nomi scritti sul pavimento.
“Perché sei venuto a casa nostra, ecco perché.” Sherlock serrò violentemente i pugni, facendo uscire con forza l’aria dal naso in respiri corti e affannosi.
“Tu dici?” Rispose Victor, portandosi l’indice sinistro alle labbra. “Mi sembri agitato, S. Forse è per questo che pensi a me solo dopo aver assunto una buona dose di Soma e ti sforzi di dimenticare ogni cosa che mi riguardi?”
“Sherlock?” La voce di John, lontana, si sparse nell’aria, scomparendo.
Victor alzò la testa, guardandosi attorno. “La cena è servita!” Disse poi, sorridendo, tornando ad osservare il detective.
Sherlock sentì il pavimento smottare sotto i suoi piedi, ed allargò le gambe per non perdere l’equilibrio.
“Sherlock!” La voce del medico - ovattata - si scheggiò, cadendo a terra sotto forma di prismi aguzzi.
“Buon appetito.” Disse Victor, facendo schioccare la lingua, il viso contorto in una maschera di derisione.
Un velo rosso di pura ira appannò gli occhi del detective - ingoiando ogni traccia di raziocinio - e Sherlock scattò in avanti,  cieco di rabbia.
 
Ci fu uno schianto, poi il rumore di vetri rotti.
Infine, la scia.
Quella di John, alta, affilata, carica di terrore.
Sherlock la respirò a pieni polmoni, sentendola frizionare lungo la gola, aggrapparsi agli angoli dei suoi occhi, della sua bocca.
“Sher…” Rantolò il medico, cercando di inserire due dita tra la propria gola e le mani del detective, premute con forza sotto il suo mento.
“Avvicinati un'altra volta a noi…” Gli ringhiò in faccia Sherlock, così vicino da far mischiare i loro respiri creandone uno, unico, carico della sua rabbia e della paura del medico.
“Sherl…” Provò di nuovo John, cercando di muoversi, ma il peso del detective lo spingeva con forza contro il pavimento.
Non voleva respirare l’odore dell’altro, perché la risposta ad uno stimolo così forte sarebbe stata quella di completo asservimento, cosa che in quel frangente sarebbe potuta essergli fatale. Allo stesso tempo aveva la necessità, il bisogno, di incamerare almeno un po’ di ossigeno, o avrebbe finito col soccombere comunque.
Ad ogni modo Sherlock non stava provando a morderlo, si rese conto dopo qualche attimo. La  testa del detective era praticamente sopra la sua, tanto da far sfiorare le loro fronti. Non era stato quindi il suo avvicinarsi al divano, dopo un paio di tentativi falliti di chiamarlo, ad aver fatto scattare la frenesia che vedeva chiaramente negli occhi neri e vuoti dell’altro.
John rovesciò indietro la testa, tentando di aprire il più possibile le vie aeree.
Staccò le mani da quelle di Sherlock, appoggiando la destra al braccio del detective mentre con l’altra saliva fino a sfiorargli il viso.
Gli appoggiò l’indice ed il medio sulla guancia, premendo appena.
Cercò poi di calmarsi, provando ad abbassare la propria scia su segnali meno pericolosi.
L’aria filtrava a fatica attraverso la bocca socchiusa, ma provò comunque a rilassarsi.
Sentì il peso di Sherlock farsi più forte contro il proprio petto, mentre lasciava che i muscoli allentassero la loro tensione.
“Ehi.” Lo chiamò, ottenendo il cambio un ringhio sommesso. “Sherlock. John.” Riuscì a dire, ingoiando la scia dell’altro ed insieme a lei l’istinto di lasciar andare tutto.
Il detective si bloccò appena, sbattendo un paio di volte gli occhi.
“Ehi.” Sussurrò di nuovo, osservando il detective rispondere al richiamo con brevi movimenti oculari. Per un attimo i loro occhi si incrociarono, ed il medico ebbe la sensazione che dietro tutto quel buio Sherlock riuscisse di nuovo a riconoscere qualcosa.
Ad ogni battito di ciglia, John vide le iridi dell’altro farsi più chiare, il suo sguardo più presente. Gli occhi virarono al marrone, poi ad un verde scuro, paludoso, infine al loro consueto colore.
Quando - con l’ultimo chiusura delle palpebre - Sherlock tornò lucido, fu per lui come riuscire a respirare nuovamente dopo una lunga apnea.
Un’enorme quantità di informazioni sensoriali esplosero nella sua testa e si guardò attorno spaesato, prima di riuscire a mettere a fuoco John, viso rosso ed occhi lucidi, premuto da tutto il suo peso contro il pavimento, tra il tavolino rovesciato e le schegge di vetro dei loro bicchieri infranti.
“Cosa…” Balbettò, lasciando andare la presa attorno al collo del medico e spostandosi di lato, incurante dei vetri che gli ferivano le mani mentre, con gesti strascicati, si spingeva a sedere più lontano possibile dall’altro.
John rotolò sul fianco, riuscendo finalmente a prendere una buona boccata di ossigeno. I polmoni bruciavano, così come occhi e gola. Tremante, si tirò su, puntellandosi sui gomiti per cercare di raggiungere la posizione seduta.
La scia di Sherlock, un misto di terrore e agitazione, lo travolse, riempiendogli naso e bocca.
A fatica, spostò il peso sul gomito destro, girandosi quel tanto da riuscire a guardare il detective.
Sherlock, occhi spalancati e respiro strozzato, lo stava fissando espressione atterrita.
Mai, da quando lo aveva conosciuto, aveva immaginato che qualcosa potesse spaventarlo a tal punto ed ora, osservandolo premersi con le gambe contro la seduta del divano, gli sembrò che non fosse nemmeno lui.
C’era qualcosa, in quello sguardo, che lo spinse a chiamarlo, nonostante il cuore continuasse a martellargli nel petto e sentisse ancora la pressione delle sue dita attorno alla gola.
“Sherlock.” Sussurrò, senza nessuna inflessione nella voce. Non era una domanda, né un monito, o un’accusa. Era il suo nome, sospeso tra di loro come una corda che poteva spezzarsi come stringersi tanto da avvicinarli, o al punto da strozzarli.
Il detective, il respiro ridotto ad una serie di singhiozzi scomposti, provò a guardare John negli occhi, scoprendo di non riuscire a farlo.
Aveva rischiato di fargli male, molto, e sapeva che avrebbe potuto non rendersene conto fino a quando non fosse stato ormai troppo tardi.
Ogni cellula del suo corpo, come quella di ogni Alpha, era nata con un’inclinazione alla violenza, alla furia più sorda.
Per questo aveva sempre tenuto a distanza chiunque potesse avere su di lui la capacità di azzerare la sua volontà e, per lo stesso motivo, non riusciva a pensare ad altro in quel momento che ad allontanarsi il più possibile da lì.
Aveva bisogno di capire cosa fosse successo.
Come fosse passato dal ringhiare ad un Victor parto della propria mente al tenere con tutte le forze John schiacciato contro il pavimento.
Aveva bisogno di aria, di acqua.
Aveva bisogno che John se ne andasse, gli urlasse contro, uscisse di casa.
I sensi di colpa non erano mai stati qualcosa alla quale aveva dato peso, ma adesso sentiva l’impulso di espiare le proprie colpe, nonostante non riuscisse a capire perché le avesse compiute e perché avessero su di lui presa tale.
La scia di Sherlock mutò, si abbassò, poi crebbe e virò di intensità, un diverso sentore per ogni pensiero che gli stava attraversando la mente.
John lo osservò muovere gli occhi -  perso - davanti a sé, in cerca di una spiegazione razionale che non riusciva a raggiungere.
Quello sguardo richiamò al medico un altro, simile, visto molti anni prima.
Non apparteneva ad un Alpha, ma ad un Omega. Un ragazzo, chino con le lacrime agli occhi su un’immagine di sé che non riconosceva.
Si rivide in lui, nella sua paura di essersi perso. Riconobbe in quel silenzio piegato su se stesso la disperazione di chi sta cercando un motivo.
Sherlock chiuse gli occhi, pronto a darsi una spinta per mettersi in piedi e sparire oltre la porta della propria camera.
A metà del movimento, si sentì afferrare per la manica della camicia e spingere indietro.
Aprì gli occhi, confuso, lasciandosi cadere con le spalle contro la seduta del divano.
John lasciò andare la presa, e si sedette accanto a lui, spalla contro spalla.
Per qualche secondo rimasero immobili, ognuno con il proprio respiro scoordinato e il proprio odore come unico mezzo di dialogo.
Alla fine fu Sherlock a girarsi verso John, continuando comunque a tenere gli occhi lontano da quello dell’altro.
“Non capisco.” Ammise, sentendo le parole prendere faticosamente forma sotto i movimenti impacciati della propria lingua. Non era del tutto sicuro di averne mai pronunciate di tanto sincere, prima di allora, e quel pensiero si frazionò in mille altri, troppi, per prendere forma compiuta.
“Va tutto bene.” Sussurrò il medico, lasciando andare all’indietro la testa contro il cuscino del divano. “Davvero.” Aggiunse, voltandosi verso di lui. “Parlami. Spiega.”
Sherlock scosse la testa, incapace di trovare le parole adatte a raccontare quanto fosse successo. Bloccato. Non abituato a chiedere scusa. A sentire di doverlo fare.
“Ok.” John scostò con i piedi il tavolino, allungando le gambe. “Allora fa’ comunque una cosa per me. Vuoi?” Chiese, aspettando in silenzio che l’altro annuisse, lento.
“Resta.”
 
***
 
Thomas Raffles - Beta Minus, addetto alla pulizia vetri dello Zoo di Londra – timbrò il cartellino, trattenendo uno sbadiglio con il dorso della mano.
Lanciò un’occhiata all’orologio all’ingresso dell’aria dipendenti, osservando la lancetta dei minuti spostarsi sul 12 con un movimento secco. Le cinque di mattina in punto.
Si cambiò con calma, solo nello spogliatoio, una piccola radio portatile ed il suo suono metallico come unica compagnia.
Chiuse la tuta da lavoro ed infilò gli stivali di gomma.
Bloccò la radiolina alla cintura dei pantaloni, e si diresse verso la stanza dell’attrezzatura.
Prese il carrello delle pulizie e si avviò lungo il corridoio, in direzione della struttura di esposizione marina.
Con calma ed attenzione pulì ogni vetro dell’Acquario, passando poi alla zona degli animali tropicali.
Una volta finito uscì dal complesso, incamminandosi verso l’enorme area degli animali polari.
Le vasche, in quella zona, erano state create per una doppia fruizione da parte del pubblico: le si poteva osservare dall’alto, esternamente, dove erano state ricreate delle zone di terraferma sulle quali gli animali potevano fermarsi e riposare, e dal basso, scendendo in un piano interrato, in modo da poterli vedere nei loro momenti di attività acquatica.
Come ogni mattina, Raffles scese le scale che conducevano alla zona visitatori con passo allegro.
Adorava la vasca degli orsi polari, la più grande di tutte. Circolare, era visibile all’interno per circa la metà del suo diametro, attraverso un enorme vetrata. Iceberg imponenti erano stati riprodotti con cura, e li si poteva scorgere in tutta la loro bellezza subacquea. Volendo, si poteva seguire il loro profilo fino alla superficie, salendo attraverso una rampa di scale fino ad una piattaforma rialzata che aggettava sulla vasca.
Era raro, a quell’ora, trovare gli orsi in acqua. Ciò nonostante, c’erano state mattine nelle quali aveva pulito accompagnato dallo sguardo attento e curioso di quelle bestie maestose.
La prima cosa che notò, non appena il metallo della vasca lasciò il passo alla parte trasparente, fu il rosso.
Le striature di rosso che ballavano nell’acqua, quasi fossero piccoli animali intenti a muoversi in branco.
L’uomo appoggiò una mano al vetro, lasciando cadere a terra gli strumenti. Continuando a premere il palmo contro la superficie fredda, iniziò a muoversi lungo la vasca.
La seconda cosa che vide, poco dopo, fu la scritta.
Nera, chiara, spiccava contro il candore dell’acqua ed il purpureo di quelle macchie che vi si agitavano dentro ad ogni suo movimento.
 
Quattro, cinque e sei,
dì qualcosa se ci sei!
 
Tocca a Sherlock. [3]
 
“Ma che diavolo…” Imprecò a mezza voce, aggrottando la fronte. “Che scherzo idiota!” Aggiunse, guardandosi intorno.
“C’è qualcuno?!” Urlò poi, ricevendo in risposta solo l’eco della propria voce, prima di tornare a voltarsi verso la vasca.
Fu allora che lo vide. L’uomo. Il corpo.
Tenuto ancorato al fondo da un peso, una corda stretta attorno alla caviglia destra.
Emerse da dietro la scritta, come se prima le lettere lo avessero reso opaco, sfocato.
Sembrava osservarlo con aria di rimprovero, gli occhi spalancati immobili e vuoti, la bocca socchiusa in un espressione sorpresa.
“Cristo!” Esalò Raffles, chinandosi in avanti e appoggiandosi con le mani al vetro.
L’uomo nella vasca, busto nudo trafitto da varie ferite ed capelli ondeggianti attorno al viso, dondolò avanti e indietro con forza, mentre l’acqua si increspava ed alzava, lasciando spazio all’enorme maschio di orso polare che si era appena lasciato cadere al suo interno.
L’addetto osservò con orrore l’animale muoversi verso il corpo con grosse bracciate.
Quando gli fu sufficientemente vicino, con il muso gli toccò un fianco, facendo uscire altro sangue dalle ferite, che andò a sommarsi alle altre striature rosse presenti.
“Dio, dio, dio…” Raffles cadde all’indietro mentre l’orso, con una zampata, apriva nuovi squarci nella carne dell’uomo.
Con un gesto disperato, l’addetto riuscì a mettersi in piedi, inciampando un paio di volte mentre correva in direzione del più vicino segnalatore di pericolo, di fianco alla gabbia dei leoni.
Ruppe il vetro con un pugno, ignorando il dolore ed i tagli, ed abbassò la leva con le ultime forze rimaste, prima di sentire le gambe cedere del tutto e di accasciarsi a terra, tremante.
La sirena iniziò a suonare, accolta con agitazione dagli animali.
Il silenzio venne riempito da ogni forma di verso e rumore, che si unirono al suono assordante dell’allarme.
Dopo circa trenta secondi, una delle guardie notturne arrivò correndo.
“Che succede?!” Domandò, chinandosi sull’uomo.
Raffles, incapace di raccontare l’orrore, riuscì solo ad alzare un dito in direzione della vasca.
Il poliziotto si portò la ricetrasmittente fissata alla spallina della giacca alla bocca, chiedendo rinforzi. Poi, pistola ben ferma tra le mani, si avviò con passo attento verso il luogo che gli era stato indicato.
 
Circa venti minuti dopo, Lestrade – sveglio da poco, pronto per la sua abituale doccia mattutina - venne raggiunto dalla telefonata concitata di uno dei suoi uomini del turno di notte.
Meno di un’ora più tardi l’Ispettore, con quattro dei migliori poliziotti della sua divisione, suonò il campanello di Backer Street.
 
***
 
“Non se ne parla.” Sherlock si lasciò cadere sulla poltrona, incrociando le braccia contro il busto.
“Avanti, cosa mai può accadermi?” John, vestaglia ben chiusa sul pigiama scuro, guardò il detective e poi Lestrade, immobile sulla porta dell’appartamento.
“Vediamo… potresti morire, ad esempio. O venire rapito. O, per quanto la cosa potesse apparirmi assurda ed altamente improbabile fino a pochi minuti fa, finire in una vasca dello zoo di Londra legato ad un piombino.” Elencò il detective, agitando le mani davanti a sé.
“Sarà con due dei miei uomini migliori.” Tentò ancora l’Ispettore, ricevendo in cambio un’occhiata di derisione.
“I tuoi uomini migliori.” Ripeté Sherlock, arricciando le labbra in un sorriso. “Considerando che ti ho sentito affermare più volte che Donovan e Anderson sono due persone competenti… Forse l’opzione “mangime per animali” non è neanche da considerarsi la peggiore.”
“Sherlock.” Lo richiamò John, con tono ammonitorio.
“Ancora non ho capito perché l’autopsia non possa farla Stamford.” Disse il detective, voltandosi verso John, immobile accanto a Lestrade, e socchiudendo gli occhi.
“Perché domani si sposa, Sherlock.” Spiegò per l’ennesima volta l’Ispettore, portandosi due dita all’attaccatura del naso.
“È la seconda volta che lo dici. Quello che non capisco è cosa gli impedisca di lavorare oggi, dato che si sposa domani.” Cercò di spiegare Sherlock, alzando gli occhi al cielo ed assumendo il tono di voce di un adulto intento a spiegare qualcosa ad un bambino piccolo.
“Perché si sposano nella città natale di lei, a trecento chilometri da qui.” Sospirò John, cercando di non perdere la pazienza.
“Sono partiti tre ore fa.” Aggiunse Lestrade, cercando di calmarsi.
“Non mi interessa, troppo pericoloso. Trova qualcun altro.” Sherlock si voltò verso in caminetto, accavallando le gambe. La discussione per lui era conclusa.
“Bene. Se è questo che pensi…” John si diresse alla porta, superando l’Ispettore. “Greg, il tempo di cambiarmi e possiamo andare.” Gli disse, avviandosi verso il piano di sopra.
“Cosa credi di fare?!” Gli urlò dietro Sherlock, incapace di nascondere del tutto il tono ansioso che permeava la domanda.
“Niente di straordinario.” Urlò John a sua volta, e la sua voce riecheggiò lungo le scale.
“Solo il mio lavoro. Adesso preparati e va’ a fare il tuo!” Terminò, aprendo la porta della sua camera e richiudendosela alle spalle.
“Lo farai ammazzare.” Sibilò Sherlock, serio, voltandosi verso Lestrade.
“Sto cercando di fare in modo che a nessuno di voi due succeda niente.” Rispose l’Ispettore, calmo, avvicinandosi all’altro.
“Bene, allora dirotta anche gli sforzi che stai facendo per me su di lui. Non mi servono due agenti di guardia. Mandali tutti e quattro al Bart’s con John.” Sherlock si alzò dalla poltrona, diretto verso la sua camera.
“Non posso.” Rispose Lestrade, seguendolo con gli occhi.
“Certo che puoi. Fino a prova contraria sei tu a dare ordini. Ed io e te siamo più che sufficienti su una scena del crimine.” Lo rimbeccò il detective, con tono sbrigativo.
“Per una volta, una, Sherlock, potresti semplicemente fidarti di me?” L’ispettore sospirò, lento. “Non sai ancora tutto e… credimi, quegli agenti servono anche a te.” Aggiunse, abbassando il tono di voce.
“All’obitorio, due dentro la stanza con lui e due fuori, a monitorare il corridoio. Queste sono le mie condizioni. Non ne accetterò altre.”
“Dio.” Lestrade lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. “Non avrei mai pensato di vederti un giorno contrattare per la sicurezza di un’altra persona. Giuro.”
Sherlock lo guardò appena, accennando un sorriso e tornando a voltarsi verso la sua camera da letto. “Affare fatto?” Chiese quindi, rimanendo immobile, in attesa di una risposta.
“Qualcuno l’ha mai spuntata, con te?” Domandò l’Ispettore, scuotendo la testa.
“Lo prendo con un “sì”.” Sentenziò Sherlock, iniziando a muoversi.
“Ad ogni modo… sì, qualcuno l’ha spuntata con me.” Gli rispose, prima di sparire oltre la porta della sua stanza.
“Dev’essere davvero straordinario, per essere riuscito a farti fare qualcosa contro la tua volontà!” Gli gridò dietro Lestrade, prima di andarsi a sedere sul divano, sconsolato, in attesa che i due si preparassero.
Sherlock, fermo oltre la porta, chiuse gli occhi, tornando per un attimo al pomeriggio del giorno prima.
“Resta.” Gli aveva detto John, senza alcun timore nella voce.
E lui era rimasto. Loro, erano rimasti. Vicini, in silenzio, fino a quando la fame e la stanchezza non si erano fatte troppo forti, costringendoli a staccarsi, a tornare al mondo.
Ad un certo punto non c’era più stato neanche lo stimolo olfattivo. Si erano mescolati, ed azzerati. I pieni ed i vuoti del loro odore uniti, appianati.
Sì, qualcuno l’aveva avuta vinta, con lui. Gli aveva chiesto di restare. E lui lo aveva fatto.
 
***
 
“Videocamere?” Domandò Sherlock, passando un dito sul suo nome, distratto.
“Gli apparecchi erano accesi, ma su i nastri non è stato registrato nulla. Secondo i nostri tecnici ha disattivato l’intero circuito. A distanza, probabilmente, dato che i pannelli si trovano nel gabbiotto della sicurezza e le guardie notturne non si sono accorte di niente.”
Lestrade, appoggiato alla parete del lungo anello attorno alla vasca, rilesse ancora una volta il messaggio, sentendo un brivido salire lungo la schiena.
“Tocca a Sherlock.” Sillabò, a voce alta. “Hai capito adesso perché volevo degli agenti anche per te?” Chiese poi, sospirando.
“Sarebbero stati inutili. Non è una minaccia.” Commentò il detective, indietreggiando di un passo per guardare la scritta nel suo insieme.
“Certo, come potrebbe esserlo. D’altro canto c’era solo un uomo morto ancorato al fondo della vasca…” Sospirò l’altro, alzando gli occhi al cielo.
“No, Lestrade. Non è una minaccia, è un invito.” Ribadì Sherlock, iniziando a muoversi verso le scale, diretto alla zona rialzata.
“Un invito?” Ripeté l’Ispettore, confuso.
“Ha finito il suo lavoro, per adesso. Ora tocca a me.” Gli spiegò il detective, salendo a due a due i gradini. “Sta a me muovere. È una partita a scacchi, e lui ha messo in pausa l’orologio.” Terminò, arrivando al ballatoio e sporgendosi in avanti sul parapetto.
“Dì qualcosa se ci sei.” Canticchiò il detective, osservando lo specchio d’acqua sotto di loro.
“Non avrai intenzione di giocare con questo folle, vero?” Chiese Lestrade, affacciandosi a sua volta.
“Direi che non posso tirarmi indietro, dato che la mia presenza è stata espressamente richiesta.” Rispose Sherlock, iniziando a muovere gli occhi lungo i bordi dei finti iceberg.
“Come caleresti un uomo in un posto del genere?” Domandò l’Ispettore, guardandosi attorno.
“Nel modo più semplice.” Gli rispose l’altro, mimando di sollevare un peso oltre il parapetto. “Lo butterei di sotto. Il peso legato alla caviglia ha fatto tutto il lavoro, non lui. Sempre poi che non l’abbia fatto fare ad uno dei suoi uomini…” Terminò, abbassando lo sguardo sulla griglia del parapetto, in cerca di eventuali indizi.
“Uomini? Non mi pare avessimo mai parlato di uomini.” Lestrade, a sua volta, seguì Sherlock nella sua opera di ricerca.
“Ah, sì. Ci sono degli uomini. Beta. Li ha usati in almeno due casi: per la scritta in casa di Molly Rogers, e per l’iniezione a John.” Buttò lì il detective, con noncuranza.
“Cosa?!” Lestrade tornò in posizione eretta, assumendo un’espressione sconvolta. “Quando, esattamente, avevate intenzione di dirmelo?!”
“Quando sarebbe stato utile. Non che adesso lo sia, chiaramente.” Rispose Sherlock, con voce tranquilla. “Sono burattini, semplici esecutori.” Aggiunse, iniziando a camminare lungo il ballatoio.
“Meraviglioso. Perché preoccuparsi di arrestarli, allora. Hai ragione.” Sbuffò l’Ispettore, scuotendo la testa.
“Catturare pesci rossi mentre uno squalo minaccia i bagnanti è ridicolo. Uno spreco di energie.” Commentò il detective, serafico.
“No, se i pesci rossi stanno aiutando lo squalo a nascondersi!” Ringhiò l’altro, in risposta.
“I pesci rossi sono quello che sono, Lestrade, niente di più. Piccoli. Inutili. Servono solo a rendere meno chiare le increspature dell’acqua con il loro movimento. E verranno sbranati a loro volta non appena divenuti inutilizzabili. Non darti pena per loro, probabilmente sono già morti.”
Sherlock tornò indietro, superando l’Ispettore, diretto alle scale.
“Magnifico. Altri cadaveri.” Sospirò l’uomo, seguendo il detective al piano di sotto. “Qual è il piano, adesso?” Domandò quindi, quando furono nuovamente davanti alla scritta.
“Andare al Bart’s per avere i risultati dell’autopsia.” Rispose distrattamente  Sherlock, estraendo il cellulare.
“Per quello basta una telefonata.” Lestrade prese a sua volta il telefono, in cerca del contatto di John.
“No.” Rispose Sherlock, secco, scattando una foto alla vasca. “Qui abbiamo finito. Andiamo all’obitorio.”
“Lo sai che non è possibile entrare nella camera mortuaria, fino a quando John sta lavorando, vero?” Lestrade, rassegnato, seguì il detective oltre la porta di uscita della struttura.
“Certo.” Confermò l’altro, lanciandogli un’occhiata che sottolineava l’ovvietà della risposta.
“Quindi cosa avresti intenzione di fare, per tutta la durata dell’esame autoptico?”
“Niente di particolare.” Sherlock alzò il bavero del cappotto e si chinò leggermente in avanti, i capelli spinti contro fronte ed occhi dal vento forte che nel frattempo si era alzato. “Controllare che i tuoi uomini svolgano al meglio il proprio incarico.” Terminò, senza aggiungere altro.
I due camminarono in silenzio fino alla macchina.
“Dovresti dirglielo, sai?” Tossicchiò Lestrade, aprendo lo sportello.
“Ti pregherei di essere più specifico, nelle tue affermazioni.” Rispose l’altro, salendo.
“A John. Dovresti dirgli che ci tieni a lui.” Soffiò fuori tutto insieme l’Ispettore, mettendo in moto e mantenendo lo sguardo ostinatamente rivolto al parabrezza.
Sherlock si voltò a guardarlo con aria oltraggiata.
“Che assurdità stai dicendo?!” Rispose, la voce più alta di quanto avrebbe voluto.
“Dio, come fai a non capirlo? È talmente ovvio!” Lestrade si immise nella carreggiata, accendendo la sirena.
“Ovvio perché sono un Alpha e lui un Omega?” Disse l’altro, alzando gli occhi al cielo.
“No, ovvio perché tu sei Sherlock Holmes, l’uomo più indisponente che abbia mai conosciuto in vita mia, e lui è John Watson, il più incredibile che abbia avuto la fortuna di poter chiamare amico. E che Dio mi aiuti – l’Ispettore scosse la testa, accennando un sorriso sconsolato – ma penso che sareste perfetti, assieme.”
“Non essere assurdo.” Sherlock si voltò verso il proprio finestrino, irritato.
“Non essere testardo.” Lo rimbeccò Lestrade, per poi rimanere in silenzio.
“I Legami sono inutili.” Specificò il detective, continuando a seguire con gli occhi i palazzi susseguirsi lungo la strada.
“E chi ha parlato di Legame.” Sorrise l’altro, svoltando. “Non penso proprio che John permetterebbe a qualcuno di affondare i denti nel suo collo. Ma - aggiunse, immettendosi in un incrocio dopo aver controllato che le macchine si fossero fermate udendo la sirena – penso che potrebbe accettare l’idea di rimanere a Baker Street anche una volta finito tutto questo.”
“Fra meno di tre settimane andrà in Calore, Lestrade. Non potrà rimanere comunque.” Specificò Sherlock, sentendo una morsa fredda e vibrante stringergli il petto.
“Tu vuoi che se ne vada?” Chiese l’Ispettore, lanciandogli uno sguardo veloce con la coda dell’occhio.
Sherlock rimase immobile, mani appoggiate sulle gambe e viso al finestrino, in silenzio.
“Non ci sarà mai nessuno come lui, lo sai?” Tentò ancora Lestrade, timidamente.
Il detective annuì appena, un leggero movimento della testa che si confuse con quelli della macchina.
 
***
 
John, spogliato il corpo dei pantaloni e della biancheria, cercò tracce di fibre ed altro, non trovandone. L’acqua della vasca aveva dissolto, lavato od azzerato ogni traccia, biologica o meno.
Il medico lavò comunque con la pompa l’uomo, lentamente, rispettosamente, aspettando che i fori nel lettino drenassero il liquido.
Prelevò le impronte, campioni di sangue e saliva, ed infine accese il registratore, iniziando l’esame autoptico.
Analizzò ogni ferita, misurandone diametro, lunghezza e profondità.
Praticò quindi l’incisione a Y, partendo dalle clavicole e arrivando fino al petto, per poi scendere verso il basso.
Uno ad uno, elencandoli, iniziò ad estrarre gli organi interni, pesandoli. Giunto allo stomaco, lo trovò particolarmente pesante, e la cosa lo insospettì.
Lo prese e di diresse verso il bancone per i sezionamenti.
Con attenzione, lentamente, praticò un taglio netto, dividendolo a metà.
Qualcosa, al suo interno, si aprì a sua volta, separato dalla lama del coltello, e si sparse nell’aria in una nuvola di fumo bianco.
“Cosa…” Tossì John, spostandosi con un rapido gesto della mano la mascherina a coprire anche il naso. [4] “Che diavolo…”
Nel giro di qualche secondo la sostanza scomparve, ed il medico cercò all’interno dello stomaco tracce di qualsiasi genere, trovando solo un piccolo grumo di materiale non biologico. Lo estrasse con le pinzette, adagiandolo nel contenitore con acqua distillata poco distante. Dopo qualche minuto, il grumo si sciolse, rivelandosi una striscia di nastro adesivo trasparente.
John la guardò, confuso, spostandola dentro un contenitore sterile.
“Non capisco.” Mormorò, guardandola adagiarsi sul fondo della provetta.
Tornato al tavolo operatorio, lasciò una nota vocale sull’accaduto, cominciando nuovamente ad elencare, estrarre e pesare, senza riscontrare altre difformità.
Alla fine passò all’esame del cranio e del suo contenuto.
Una volta terminato, ricucì l’uomo e lo coprì con un lenzuolo, finendo di registrare le ultime analisi mentre si toglieva guanti, camice e mascherina, gettandoli nell’apposito cestino.
Si passò le mani su gli occhi, sentendoli bruciare. La stanchezza della notte passata nell’incapacità di riposare come avrebbe dovuto era tutta lì, nelle palpebre pesanti, nella rigidità del collo, nel gonfiore diffuso che percepiva attorno alla zona oculare.
Le note del violino di Sherlock, al piano di sotto, avevano avuto su di lui l’effetto di amplificare i pensieri, complicati, pesanti, che si stavano affollando nella sua mente, costringendolo a rimanere immobile, occhi aperti e sguardo al soffitto.
Una riflessione, su tutte, gli aveva impedito di riposare: cosa lo avesse spinto a chiedere al detective di rimanere con lui, nonostante lo avesse afferrato e scaraventato a terra solo qualche secondo prima. Sapeva che in parte quella scelta era stata dettata dall’essersi reso conto che Sherlock non lo avesse aggredito con le intenzioni di un Legame coatto, ma allo stesso tempo si conosceva sufficientemente bene per affermare con certezza che chiunque altro, nella stessa situazione, avrebbe ottenuto da lui un occhio nero, o almeno un tentativo violento di ribellione. Invece, non solo aveva provato – riuscendosi - a calmarlo, ma si era sentito in dovere di rassicurarlo che non fosse successo nulla di grave. Ancora più strano - e, ai suoi occhi, preoccupante - era la pace, l’incredibile tranquillità che aveva sentito prendere forza nei suoi respiri durante tutto il tempo nel quale erano rimasti affiancati, in silenzio.
Qualcosa, nella sua testa, gli ripeteva che fosse l’inattivazione dello Snubber e portare con sé tutte quelle sensazioni. Qualcos’altro, invece, premeva affinché ammettesse che, al di là di cosa lo avesse determinato, non si era mai sentito tanto in pace, a casa, in vita sua come in quel momento.
John sbuffò, scuotendo la testa con forza, riemergendo dai propri pensieri.
Aveva bisogno di un caffè, subito. E di mantenersi lontano da Sherlock per qualche ora, per riacquistare la propria lucidità mentale. Forse avrebbe potuto telefonare a Greg, dicendogli che aveva bisogno di più tempo, che voleva fare degli esami aggiuntivi e più approfonditi.
John si passò stancamente una mano tra i capelli e si diresse alla porta, facendo cenno ai due agenti all’interno di lasciarlo passare.
I due uomini si fecero da parte, aspettando che uscisse nel corridoio per seguirlo a loro volta.
“Finalmente.” La voce di Sherlock, bassa, atona, fu la prima cosa che giunse ai sensi del medico, ancor prima della sua scia.
John si voltò verso destra, in direzione delle sedie dove solitamente i parenti attendevano di poter accedere alla sala per le identificazioni.
Greg alzò una mano in segno di saluto, accennando un sorriso.
“Che ci fate qui?” Sospirò il medico, avvicinandosi a loro.
“Davvero lo stai chiedendo, o è una frase fatta? Ad ogni modo ho provato ad aprire l’emiciclo, ma è chiuso a chiave.” Domandò Sherlock, guardandolo.
“Frase fatta.” Confermò John, appoggiandosi al muro di fronte a loro, osservando i lineamenti tirati del detective. Anche lui non doveva aver dormito molto, anzi, non doveva aver riposato affatto. Ancor più pallido del solito, sembrava sul punto di spezzarsi. Come aveva fatto a non notarlo, quella mattina?
“Novità?” Chiese Lestrade, alzandosi.
“Nessuna indicazione su chi possa essere. Niente tatuaggi, o segni particolari. Forse le impronte sapranno dirci di più.” John sospirò, spingendo con ancora più forza la schiena contro la parete.
“Però una cosa posso dirla già da ora: non è stato l’orso ad ucciderlo.”
Sherlock socchiuse gli occhi, in attesa che l’altro continuasse.
“Aveva molte ferite profonde sul corpo. Bordi netti, larghezza esigua, grossa profondità.” Spiegò il medico.
“Coltello.” Rispose il detective, lasciandosi andare contro la spalliera e congiungendo le mani, appoggiandole poi alle labbra.
“Sì, ritengo che siano compatibili con ferite da arma bianca. L’orso ci ha solo “giocato”. I segni delle unghie erano poco profondi.” Annuì John, stropicciandosi gli occhi con un gesto nervoso che il detective seguì attentamente. “Inoltre non aveva acqua nei polmoni. Era già morto prima di finire nella vasca.”
“Quanto meno ha risparmiato a quel poveretto una morte lenta e dolorosa come l’annegamento.” Commentò Lestrade, iniziando a muoversi nervosamente lungo il corridoio.
“Quanto meno si è risparmiato di trascinare per tutto lo zoo un uomo recalcitrante.” Lo corresse Sherlock.
“Già.” John si diede una piccola spinta con i reni, staccandosi dal muro.
“Caffè?” Gli domandò Sherlock, alzandosi.
“Sì.” Rispose il medico, facendo cenno con una mano a Lestrade di unirsi a loro. “Andiamo Greg. Stacca un attimo.”
L’Ispettore guardò prima loro, poi i quattro agenti fermi poco più in là. Infine annuì, indicando ai suoi uomini di precederli.
“Mi domando perché volesse quell’uomo proprio in quella dannata vasca.” Lestrade allungò il passo, avvicinandosi a John e Sherlock.
“Leone ruggente e orso affamato, tale è il malvagio che domina su un popolo povero.” Citò il detective, ed il medico si voltò a guardarlo con aria interrogativa.
“Bibbia. Proverbi. Versetto 28,15. Non che pensi davvero che abbia scelto quel posto in base alle sacre scritture.” Rispose Sherlock, guardando dritto davanti a sé.
“Allora, in cosa consisteva la filastrocca, questa volta?” Domandò John, spostando gli occhi su Lestrade.
Sherlock si voltò verso l’Ispettore, intimandogli con lo sguardo di tacere.
“Le solite cose. Qualcosa sul rispondere…” Mentì Lestrade, ricambiando l’occhiata del detective con una severa. Devi dirglielo, sembrava ordinargli.
“Quattro, cinque e sei, dì qualcosa se ci sei.” Recitò Sherlock, tornando a guardare avanti a sé.
“Mhm.” Commentò John, pensieroso. “Cosa pensate che dovremmo dire? Sempre che sia una richiesta specifica, e non il mero passatempo senza senso di uno psicopatico.”
“Come ho già detto, non è un folle.” Puntualizzò il detective, sentendo il medico irrigidirsi, accanto a lui.
“Pensavo di aver già spiegato come la penso su-“ Sospirò Sherlock, voltandosi verso John e trovandolo con il volto arrossato. “Che succede?” Il detective si fermò, bloccandolo per le spalle e facendolo girare in modo da poterlo guardare bene in viso.
“Niente.” Rispose l’altro. “Ho solo un gran caldo.”
Sherlock gli posò il dorso di una mano sulla fronte. “Non sembri avere la febbre.” Constatò, leggermente confuso.
“È probabile che sia la stanchezza. O la tensione per la mia prima autopsia da solo.” John accennò un sorriso, staccandosi con un movimento gentile dalla presa del detective.
“Prendiamo il caffè, sbrighiamo le ultime formalità con il corpo e vi faccio accompagnare a casa.” Disse Lestrade, allungando il passo.
“Veramente preferirei tornare a piedi.” John si sfilò il maglione, rimanendo in camicia. Sherlock lo osservò tornare, nel giro di qualche secondo, al suo normale colorito. Qualcosa stava iniziando a farsi largo nei respiri del detective. Era solo un vago sentore, ma diveniva più forte ad ogni boccata d’aria.
“Cosa resta da fare, con il cadavere?” Chiese quindi, voltandosi verso Lestrade, che alzò le spalle.
“Devo trascrivere le registrazioni, inviare i campioni ad analizzare e consegnare le impronte alla polizia.” Rispose John, senza capire.
“Bene. Lestrade prenderà le impronte, io porterò i campioni in laboratorio e tu ti occuperai delle registrazioni. A casa.” Sherlock si girò, diretto nuovamente verso la sala mortuaria, e fece segno all’Ispettore di seguirlo.
“Cosa?! No!” Protestò John, raggiungendolo a passo veloce. “NO.” Ribadì, fermando Sherlock con una mano. “È il mio lavoro, non hai il diritto di-“ Le parole gli morirono in gola, premute contro le pareti della laringe come lui a ridosso del muro del corridoio, il viso del detective a pochi millimetri dal suo.
“Sherlock!” Tentò Lestrade, afferrandolo per un braccio, da dietro.
“Sei appena entrato in proestro [5]. Va’. A. Casa. SUBITO!” Sibilò Sherlock, in un sussurro, negli occhi lo sguardo feroce di una bestia che sta proteggendo il proprio territorio.
“È assurdo, mancano ancora due settimane!” Ringhiò John, con voce rotta.
“Va’ a casa, per favore.” Ripeté il detective, cercando di abbassare ed addolcire il tono. “Ti farò avere tutto quello che serve.”
“Ti stai sbagliando.” John appoggiò le mani sul petto dell’altro, dandogli una leggere spinta all’indietro. Sherlock si lasciò allontanare, arretrando di un passo.
“Benissimo. Avrai modo di urlarmi contro stasera, se dovessi avere ragione tu. Adesso, però…” Disse, indicando i quattro agenti immobili poco più avanti.
“Che sta succedendo?!” Lestrade lasciò andare Sherlock e si sporse oltre le sue spalle, per riuscire a guardare John.
“Succede che non è più sicuro per lui rimanere qui.” Spiegò il detective, sbrigativo, iniziando nuovamente a camminare. “Dì ai tuoi uomini di accompagnarlo a Baker Street!” Urlò in direzione dell’Ispettore, allontanandosi in direzione dell’obitorio.
“John, cosa-” Iniziò, ma il medico lo bloccò con un gesto della mano.
Un brivido freddo gli era appena risalito lungo la schiena, esplodendo poi in una bolla di calore non appena raggiunto il collo. Sentì il viso incendiarsi.
Non era stanchezza, né tensione accumulata.
Sherlock aveva ragione. Era iniziato.
“Fammi avere i nastri, in modo che possa trascrivere tutto e farti avere il referto prima possibile.” Riuscì a dire John, imponendosi di mantenere un tono di voce fermo. Si scostò dal muro, assumendo una posizione rigida, militare. Con passo sicuro, sforzandosi di non tremare, si avvicinò ai poliziotti, facendo loro segno di proseguire.
“Passerò personalmente a portarti le registrazioni!” Gli urlò Lestrade, in quelle parole un saluto ed una promessa.
John annuì, girandosi un attimo per lanciargli uno sguardo grato prima di seguire gli uomini lungo le scale, in silenzio.
 
Note:
[1] Seconda puntata della terza serie. Sherlock, in un tribunale, attorniato da donne che nella realtà sta contattando via chat. A suo fianco, John Watson, vestito diversamente dal solito. Più… Bello. Special, scena della cascata. John chiede a Sherlock come sia l’altro sé. Ecco. Ho amato molto queste due scene. E ho voluto far loro omaggio, in qualche modo. Il John della rappresentazione mentale di Sherlock è in alta uniforme, elegante, fiero. Perché, per me, è così che il detective lo vede, anche se forse neanche se ne rende pienamente conto. Un uomo forte. Bello. Un militare, ma non un soldato semplice. Un Capitano.
[2] Ok, mi ero ripromessa di non spiegare più nulla dei capitoli, ma questa volta devo fare un’eccezione: si capisce che quell’attimo è un “vuoto mentale” di Sherlock? :D
[3] “Get Sherlock”, scrive Moriarty in quel della Torre di Londra, prima di infrangere la vetrina con i gioielli reali. Adoro, letteralmente adoro quel pezzo. E dovevo metterlo anche qui. Ora, in seguito alla prima visione di quella puntata (in lingua originale, perché il mio legittimo consorte non vede nulla passato sotto lo schiacciasassi del doppiaggio), abbiamo discusso a lungo su cosa intendesse, letteralmente, Jim. Lui sosteneva che volesse dire “Tocca a Sherlock [essere arrestato]”, io l’ho sempre visto come “Tocca a Sherlock [muovere]”. Per quanto la mia versione del verbo “get” sia palesemente scorretta, la traduzione si prestava a questo gioco, per cui l’ho voluto riportare nel capitolo, nello scambio di battute tra Greg e Sherlock (anche se l’Ispettore pensa che stia per “Tocca a Sherlock [morire]”).
[4] Mi si potrebbe dire: perché diavolo non aveva la mascherina anche sul naso fin da subito? La risposta è semplice, quanto stupida… lavoro per otto ore al giorno con una mascherina sul viso. E vi assicuro che non è umanamente possibile tenerla sul naso per tutto il tempo. Di solito ci si limita a coprire la bocca, per evitare contaminazioni. Ho pensato che John la tenesse come me. E poi… beh, mi serviva che almeno una via aerea fosse vulnerabile. XD
[5] Dato che sono impazzita a dare una spiegazione “scientifica” agli inibitori ed alla Determinazione, mi sono detta che descrivere un “semplice” calore sarebbe stato troppo facile (il masochismo scorre forte in me. XD) Ecco perché sarà diviso in parti. Nello specifico mi sono ispirata alle quattro fasi di quello canino, perché… perché mi sembrava adatto. Ora, il proestro, nei cani, in teoria (ed in pratica) è quello in cui avviene il sanguinamento, che non combacia con la fase di accoppiamento. Chiaramente John non avrà perdite ematiche (ci vuole un limite a tutto, a mio avviso. XD) ma tutta un’altra serie di “avvisaglie”, tra le quali anche quelle che da noi si chiamano “scalmane” (non trovo al momento termine migliore, sono sfinita. Chiedo venia.), che sono solitamente proprie della menopausa (e delle quali abbiamo avuto un accenno nel capitolo.)
 
Angolo dell’autrice:
per prima cosa mi scuso. Questo capitolo è immenso.
Lo so, me ne rendo conto. Mi è costato due giorni di scrittura e, non lo nascondo, una grande fatica. Ma ci stiamo avvicinando alla conclusione e non voglio tralasciare nulla, neanche il più piccolo particolare. Avrei potuto dividerlo e farne almeno tre capitoli, ma non mi andava. Se la lettura dovesse essere troppo pesante, vi prego di farmelo notare. In quel caso provvederò alla divisione. ^_^
 
Detto questo…
Grazie. A tutte/i.  *__*
 
Come sempre risponderò ad ogni commento, vecchio e nuovo, non appena avrò un po’ di tempo. ^_^
 
Un abbraccio forte.
B.

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Capitolo 24
*** Notte ***


John trattenne il fiato, lasciando che l’acqua si richiudesse sopra di lui.
Gli occhi ben aperti, osservò le increspature della superficie muoversi sempre più lentamente, fino a fermarsi del tutto.
Il contrasto tra la pelle in fiamme e l’acqua fredda della vasca si tramutò in una sensazione di formicolio, come se qualcosa si stesse muovendo, freneticamente, sulla sua epidermide.
Si ricordava i bagni gelati. Ne aveva fatti molti, insieme ai ragazzi con i quali era stato, durante i loro calori. Ore intere passate a cercare di far loro trovare sollievo, le dita incociate in una promessa ed il freddo nelle ossa che trovava il motivo per essere sopportato nel vederli star meglio.
Adesso, improvvisamente gettato dall’altra parte, sentiva la paura mordergli lo stomaco, facendolo contorcere.
Aveva promesso a se stesso che mai, mai avrebbe permesso che qualcuno si prendesse cura di lui. Che mai nessuno lo avrebbe dovuto vedere bisognoso, indifeso. Passivo.
Aveva accudito i propri compagni con amore e devozione, ma sapendo che non sarebbe stato in alcun modo un pericolo, per loro. Anche nel momento di massima prostrazione, anche quando la loro stessa natura li aveva resi inermi, fragili.
C’era qualcosa, in quello sguardo di disperata richiesta di un rapporto che sempre arrivava, alla fine, al culmine del Calore, che lo aveva sempre atterrito. Era come specchiarsi nei loro occhi, vedendo un futuro che prima o poi sarebbe arrivato.
E c’era qualcosa di lui, ogni volta che – per aiutarli a rendere sopportabile quella pulsione – si era chinato su di loro per assecondarli, che era rimasto su quei letti disfatti, accanto ai loro corpi tremanti: la consapevolezza che per lui non ci sarebbe stata pietà, né amore, quando la ruota avrebbe girato, riportandolo con violenza alla propria posizione, china e succube.
Un rumore di passi lungo il corridoio - ovattato - giunse alle sue orecchie, e John riemerse per riuscire a capire chi fosse entrato.
Gli uomini di Greg, gentili, avevano accolto la sua richiesta di rimanere appostati fuori dal portone di Baker Street.
John li aveva osservati in silenzio per qualche secondo, due a destra e due a sinistra dell’ingresso, pensando che richiamassero l’attenzione più di un’insegna luminosa.
Se mai il killer avesse avuto qualche dubbio su dove fosse casa loro, adesso poteva dirli dissipati.
“Non c’è modo che ve ne andiate, vero?” Aveva tentato, ricevendo in cambio un rapido segno di diniego col capo.
“Immaginavo.” Aveva sospirato, facendosi poi largo tra di loro. Un nuovo brivido gli aveva attraversato la spina dorsale, esplodendo poi all’altezza del viso. In fretta aveva aperto la porta e salito le scale, ignorando i richiami allarmati della signora Hudson.
Una volta arrivato nel salotto, si era richiuso la porta alle spalle, lasciandosi cadere sul pavimento con un tonfo.
Razionalmente, per esperienza e per i propri studi, sapeva perfettamente che in quella fase niente di grave, quanto meno a livello fisico, sarebbe potuto accadergli. Sbalzi di temperatura, aumento dell’appetito, irritabilità. Questi, di base, i fastidi maggiori del proestro. Ma ciò che gli aveva fermato le gambe ed il respiro, costringendolo sul pavimento, era altro. Era ciò che riusciva a scorgere oltre la tenda di quei pochi giorni di fastidi più o meno lievi.
Era lo spettro della debolezza muscolare, della necessità, della fame, che lo fissava con occhi di fuoco oltre il limite del proprio coraggio.
Quanto sarebbe durata questa prima fase, se il Calore di per sé era giunto con così tanto anticipo? Gli avrebbe dato il tempo di capire, di organizzarsi, di cercare un modo per sopravvivere, o lo avrebbe ridotto ai piedi di Sherlock, implorante, entro poche ore?
Una nausea densa, bruciante, gli aveva corroso la gola, calda come la sua pelle ed il suo respiro.
Con disperazione, a fatica, si era imposto di tornare in posizione eretta, e di andare in bagno.
L’acqua fredda era sempre stata di aiuto, per chi si era trovato ad assistere. Ora, era il turno che badasse a sé, fin quando possibile.
Lento, spalle contro la parete per sostenersi meglio e testa svuotata di ogni ulteriore pensiero, si era trascinato in bagno, chiudendosi la porta alla spalle.
Un altro rumore, più forte. Qualcosa di fragile e pesante che si infrange sul pavimento. Un sospiro irato.
John trattenne il fiato, appoggiando una mano sul bordo della vasca, pronto a scattare in piedi.
“SIGNORA HUDSON!” La voce di Sherlock, perentoria, si sparse per l’appartamento.
John ebbe l’istinto di accucciarsi il più lontano possibile, odiandosi immediatamente per averlo anche solo pensato.
La donna rispose poco dopo, ma il medico non fu in grado di capire cosa stesse dicendo.
“HO BISOGNO DI UNA MANO!” Le rispose Sherlock, prima che un altro tonfo lo facesse esplodere in un ringhio gutturale.
John si alzò, uscendo dalla vasca con attenzione.
“Sherlock?” Lo chiamò, a voce bassa, portandosi vicino alla porta.
“Resta lì.” Fu la sbrigativa risposta che ottenne da uno Sherlock che doveva essersi avvicinato alla porta in fretta, giusto il tempo di proferire quelle poche parole, per poi allontanarsi nuovamente.
L’odore del detective giunse al medico carico di qualcosa che non aveva mai sentito prima.
Era leggero, smussato. Come se la sua scia si fosse stemperata su toni caldi.
John si appoggiò alla porta, ascoltandosi rispondere attraverso il respiro, la pelle.
Non avrebbe dovuto farlo, non c’era alcun motivo per rimanere lì, inspirando entrambi con lentezza ed attenzione. Ma ciò che era venuto fuori da quel contatto fugace portava con sé il bisogno di essere  percepito, e il medico rimase immobile, continuando a ripetersi che niente di male poteva accadere, in quella fase. Che niente di male poteva venire, da quell’odore che era un mosaico di loro due.
“Si può sapere che succede?” Provò il medico, nuovamente.
“Oh cielo!” La voce della signora Hudson, sorpresa e preoccupata insieme, si unì ad un rumore confuso di carta e vetro.
“Mi aiuti a sistemare.” Le disse Sherlock, iniziando a muoversi per la stanza con passi veloci.
“Da dove arriva tutta questa roba?” Domandò titubante la donna.
“Mycroft.” Rispose il detective, aprendo uno sportello con forza.
John si allontanò dalla porta, confuso.
Si avvolse nell’accappatoio, ascoltando i rumori eterogenei che giungevano dalla sala accanto.
“Sherlock?” Tentò ancora, corrucciando la fronte e abbassando il capo in cerca di un senso a quanto stava sentendo.
“Ancora un secondo!” Gli gridò lui, mentre una risata soffocata della signora Hudson accoglieva le sue parole.
“Perfetto.” La voce di Sherlock parve soddisfatta. “Signora Hudson, si ritenga esentata da spesa e preparazione dei pasti per tutta la prossima settimana.” Aggiunse, nuovamente vicino alla porta del bagno.
“Il the?” Domandò la donna, già vicina alla porta d’ingresso.
“Anche dal the. Grazie.” Le rispose il detective, allontanandosi lungo il corridoio per accompagnarla alla porta.
John la sentì cigolare su i cardini, per poi chiudersi.
Solo in quel momento si accorse di aver trattenuto il fiato per tutto il tempo, concentrato a cercare di capire cosa stesse succedendo.
“Ok, puoi uscire adesso.” La voce di Sherlock si fece vicina e poi si affievolì, segno che avesse pronunciato quelle parole attraversando il corridoio, in direzione della propria camera.
John si tolse l’accappatoio, appendendolo con cura al gancio di lato alla porta. Poi si rivestì, indossando gli abiti con i quali era tornato a casa. Si rigirò il maglione tra le mani, indeciso se metterlo o meno. Alla fine decise di lasciar perdere: continuava a sentire un gran caldo, ed in aggiunta a questo, la sensazione dei vestiti sulla pelle era già sufficientemente fastidiosa senza che aggiungesse un altro strato.
Ripiegò quindi il pullover e lo bloccò tra il braccio e il fianco, facendo scattare la serratura.
Titubante, si affacciò nel corridoio, voltando la testa a sinistra, verso la camera da letto di Sherlock, trovandola chiusa.
Mosse qualche passo in direzione della cucina, scoprendo che tutti gli strumenti di lavoro del detective erano stati accantonati in un angolo, lasciando il tavolo completamente sgombro.
“Mi serviva spazio per le buste.” Si giustificò Sherlock, comparendo alla spalle del medico.
Ancora una volta, la sua scia si mostrò addolcita, e John non poté fare a meno di voltarsi verso l’altro con aria interrogativa.
Trovò il detective, sguardo serio e postura rigida, con addosso una tuta grigia di un paio di taglie più grande della sua.
Mai, nelle settimane che avevano vissuto assieme, lo aveva visto con indosso qualcosa di diverso dai suoi abituali pantaloni scuri. L’unica cosa a cambiare giornalmente era il colore della camicia, ed anche in quello le variabili erano solitamente ridotte a tre: nero, viola, bianco.
John socchiuse le labbra per la sorpresa, non riuscendo a capire a cosa fosse dovuto un cambio tanto drastico.
“È l’unica cosa che possiedo che abbia uno spessore del tessuto tale da poter limitare, anche solo marginalmente, il mio odore.” Spiegò il detective, asciutto, superando John ed entrando in cucina.
“Mi sono fatto consegnare una buona scorta di cibo.” Iniziò, aprendo il frigo e mostrando al medico il contenuto. “Frutta, prevalentemente. Hai bisogno di vitamine. Qui, invece – continuò, chiudendo l’elettrodomestico e passando ai pensili della cucina – ci sono gli alimenti in scatola. Carne, legumi, biscotti…” Elencò, continuando a camminare e ad aprire sportelli.
“Sherlock…” John, frastornato, osservava il detective muoversi con perizia chirurgica tra un ripiano e l’altro, mostrando con cura il contenuto di ognuno di essi.
“Sherlock.” Provò di nuovo, quando si accorse che il detective stava continuando a parlare, ignorando la sua voce.
“Sì.” Gli concesse l’altro, fermandosi in prossimità del tinello. “Dubbi?” Azzardò, socchiudendo gli occhi confuso davanti all’espressione spaesata del medico.
“Che… che stai facendo?” John si portò due dita all’attaccatura del naso, scuotendo la testa. “No, aspetta. Intendo dire: perché lo stai facendo?” Puntualizzò, cercando di evitare che Sherlock gli rispondesse che lo stava mettendo a parte di cosa fosse da lui stato acquistato.
“Perché sei in proestro.” Fu ciò che ottenne, con il risultato di fargli rafforzare il movimento del capo.
“Pensavo avessimo detto che me ne sarei andato, una volta che fosse iniziato.” Gli ricordò, facendosi uscire a forza le parole attraverso la gola improvvisamente chiusa.
“Vero.” Sherlock richiuse gli sportelli, dandogli le spalle. “Ma nessuno dei due aveva preventivato la presenza di un killer, in quella dichiarazione di intenti.” Aggiunse, tamburellando con le dita sul ripiano metallico del lavandino.
“Il killer cambia il nostro patto?” Chiese John, alzando gli occhi sulle spalle dell’altro.
“La morte cambia sempre i patti.” Il detective si diede una piccola spinta con le braccia, staccandosi dal ripiano e dirigendosi verso il salotto.
“Fra una settimana, forse anche meno, non riuscirò neanche ad alzarmi dal letto, Sherlock.” John aggirò il tavolo della cucina e lo seguì nell’altra stanza, guardandolo sedersi sulla sua poltrona e accendersi una sigaretta con gesti lenti.
“Non è questo che vuoi. Non è la tua vita.” John si appoggiò con le spalle allo stipite della porta della cucina, sforzandosi di ignorare le ondate di calore che sentiva risalire lungo la schiena.
“Non è neanche la tua.” Sottolineò l’altro, lanciandogli una rapida occhiata prima di rivolgersi con lo sguardo al camino.
“No, non è neanche la mia.” Gli concesse il medico. “Ma è il mio corpo, e per quanto desideri farlo, non posso fuggirgli lontano. Tu puoi. Anzi, devi.” John rimase in silenzio, in attesa che il detective desse segno di averlo sentito.
Sherlock, invece, continuò a tenere gli occhi lontano da lui, portandosi la sigaretta alle labbra.
“Dico davvero.” Insistette John, ascoltando la scia del detective alzarsi appena.
“Lestrade sarà qui a momenti con le tue registrazioni. Ho chiesto che portasse anche tutti i campioni che stavo analizzando al Bart’s. Continuerò gli esperimenti al piano di sotto, nell’appartamento sfitto nella zona interrata. Hai cibo a disposizione, e tutto lo spazio che ti occorre. Spero di trovare una soluzione prima dell’estro, ma se così non fosse, qui potrai avere assistenza adeguata, cosa non possibile, fuori da queste mura. Parlerò personalmente con la signora Hudson, se dovesse essere richiesto il suo intervento.” Sherlock riversò le parole fuori dalla propria bocca velocemente, quasi avesse paura di dimenticarle. Le lasciò a terra, tra di loro, senza voltarsi a vedere quante e quali fossero rotolate fino al medico.
John lo guardò chiudere gli occhi e prendere un profondo, silenzioso, respiro.
La sua scia era tornata smussata, tenue, ed il medico sentì il proprio cuore farsi dolorosamente più spazio nello sterno, carico di un bisogno irrazionale di sedersi accanto a lui, di una promessa che si vergognava anche solo a immaginare.
“Non devo andarmene, quindi?” Sussurrò, la voce più insicura di quanto volesse.
Sherlock socchiuse gli occhi, una lenta voluta di fumo chiaro sospesa tra le labbra ed i capelli.
“Resta.”
 
***
 
Stava mangiato più di quanto si ritenesse capace di fare, spinto da una fame inarrestabile, violenta, che si rinnovava ad ogni morso.
Alla fine si impose di smettere, allontanandosi a fatica dalla cucina, diretto al divano del salotto.
Le tende ondeggiarono, spinte dal freddo vento notturno, e John lasciò che una folata gli scivolasse addosso, sentendo la pelle bruciare a quel contatto.
Indossare solo i pantaloni del pigiama lo aveva aiutato - in un primo momento - a limitare il fastidio, ma il sollievo era durato il tempo di scendere nuovamente dalla propria camera al piano di sotto.
Si sdraiò, lanciando uno sguardo all’orologio sopra il caminetto.
Le tre di notte.
Sherlock era sceso al piano interrato verso le venti, dopo aver sistemato la stanza con l’aiuto di Lestrade.
L’ispettore era rimasto poi con John un paio d’ore, aiutandolo a trascrivere le registrazioni e aspettando che completasse il referto. Si erano lasciati con l’impegno da parte di John di mandare un messaggio ogni sei, otto ore massimo, in modo da poter tenere monitorata la situazione.
Rimasto solo, il medico aveva provato a cercare ristoro facendo un altro bagno freddo, e poi nel cibo, nella speranza che una volta acquietata la fame sarebbe riuscito a riposare almeno qualche ora.
Nei fatti, però, il bisogno di nutrirsi non si era ridotto, così come il bruciore costante della pelle.
Ed ora, immerso nel silenzio di Baker Street, con le sole luci dei lampioni ad illuminare la stanza, John sentì il bisogno improvviso di scendere da Sherlock, di sentire la sua voce.
Non era qualcosa di legato ad una necessità ormonale, no. Aveva a che fare con il silenzio che gli vibrava attorno, e con la notte. Con le luci calde della strada, e le voci lontane di chi stava passando sotto alle loro finestre.
Aveva a che fare con il cuore, ed il suo battergli con insistenza contro la gabbia toracica ogni volta che pensava che a due rampe di scale da lì c’era un uomo chino su un microscopio in cerca di una soluzione per un suo problema.
Riguardava la dispensa piena, e le finestre spalancate. Riguardava gli abiti, quelli cambiati e quelli conosciuti.
Era legato al bavero di un cappotto che veniva alzato, e alla morsa allo stomaco che gli dava pensare agli occhi azzurri che nascondeva allo sguardo del mondo.
Gli ricordava alcune notti, lontano da casa, steso sulla sabbia calda di un luogo ostile, chiedendosi che senso avessero stelle tanto grandi su miserie e uomini tanto piccoli.
Aveva l’odore della notte che entrava con violenza da le finestre, con tutto il suo carico di inspiegabile. Di pace e di cose celate.
John si mise a sedere di scatto, ascoltando il proprio respiro spingere per uscire.
Si portò le mani al viso, puntellandole sulle ginocchia, chino in avanti.
Non c’era più fame, né paura, ma solo un terrore nuovo, adesso, ad occupare ogni suo pensiero.
Quando era successo? Che l’idea di avere un’Alpha vicino non lo aveva più fatto tremare, carico di repulsione? Quando aveva deciso che sì, sarebbe rimasto? Quando aveva scelto di credere?
Lo stomaco si contorse, e John si piegò ancor più su se stesso. Il silenzio iniziò ad apparirgli assordante, quanto il battito del proprio cuore, scoordinato come i passi che si trovò a compiere ancor prima di rendersene conto.
Al buio, solo con i propri respiri, iniziò a scendere le scale, sentendosi immergere ad ogni gradino in qualcosa di profondo, di denso.
L’ingresso, vicino alla porta della signora Hudson, era illuminato solo dalla luce tenue proveniente dalla porta a vetri che, dal sottoscala, conduceva alla zona interrata.
Trattenendo il respiro, John appoggiò la mano alla maniglia, serrando gli occhi prima di spingerla verso il basso.
L’odore di Sherlock lo stravolse, tanto forte da farlo tremare. Doveva essere rimasto chiuso lì dentro per tutte quelle ore, senza uscire. Con passo incerto scese i pochi gradini che conducevano alla stanza, trovandola illuminata da poche candele, quasi tutte raggruppate sul tavolo posto al centro, vicine al microscopio sul quale Sherlock era chino.
Il detective smise di muovere le dita attorno alle manopole dello strumento, alzando lentamente la testa in direzione di John.
“Come fai a lavorare così?” Il medico osservò le ombre prodotte dalle piccole fiamme ballare sui muri vuoti della stanza. “Dovresti tornare di sopra.” Aggiunse, posando gli occhi sul viso di Sherlock per qualche secondo, il tempo di rendersi conto di quanto pallido e stanco apparisse.
“Ho luce a sufficienza. Purtroppo la signora Hudson non è disposta a pagare le bollette dell’elettricità anche per questo ambiente.” Rispose il detective, con voce bassa, quasi un sussurro. “Cosa ci fai qui? Dovresti essere di sopra.” Aggiunse poi, muovendo attento lo sguardo sul corpo arrossato dell’altro, prima di tornare a dedicarsi al microscopio.
“Anche tu. Si gela, qua sotto. Sembra più un posto adatto ad un Omega in proestro, che non ad un Alpha.” Tentò, abbozzando un sorriso.
“Sembra un posto adatto a chi ha bisogno di silenzio. Mentre il nostro appartamento sembra perfetto per chi deve mangiare e farsi un bagno freddo con cadenza regolare.” Rispose l’altro, distrattamente.
“Nostro.” Ripeté John, sorpreso, sottolineando la parola con la voce. “Il nostro appartamento.” Disse ancora, osservando Sherlock lanciargli una rapida occhiata.
“Ci abitiamo entrambi, quindi è corretto definirlo “nostro”.” Sherlock si staccò dalle lenti per appuntare velocemente qualcosa su un foglio.
“Non lo avevi mai definito così, prima.” John si sedette sull’ultimo gradino, osservando i propri piedi nudi alzare un po’ di polvere mentre li allungava avanti a sé, stendendo le gambe. “Novità?”
“No, nessuna. Non capisco davvero perché il Calore sia iniziato tanto presto. Non vedo niente in grado di spiegarlo.” Sherlock si passò nervosamente una mano tra i capelli,  lasciandoli disordinati e scomposti.
John inclinò la testa da un lato, osservando i riccioli scuri dell’altro aprirsi con irruenza attorno al suo viso, pensando se dirgli o meno di quanto successo in obitorio. Non fece in tempo a finire di formulare quella riflessione, che un'altra immagine si impose alla sua attenzione: Victor. Si chiese se avesse mai messo le mani tra i capelli di Sherlock, e se sì, in che modo. Li aveva mai accarezzati? Afferrati con forza?
Il detective lo aveva mai tenuto per mano?
Aveva mai riso con lui? Quest’ultimo pensiero lo attraversò come una lama, e si sorprese a scoprirsene ferito.
Victor lo aveva mai fatto ridere?
Non riusciva a immaginare Sherlock farlo di gusto. Non riusciva neanche a concepire che il suo viso potesse assumere un’espressione simile. Eppure… Eppure, lo aveva fatto, in passato?
Certo che doveva averlo fatto, era assurdo ritenere il contrario.
Lo aveva…
“John.” La voce di Sherlock lo richiamò dai suoi pensieri, facendolo sussultare.
“Sì.” Rispose lui, con voce impastata.
Il detective socchiuse gli occhi, guardandolo con aria seria. “La tua scia.” Disse poi.
“La mia scia?” Ripeté il medico, senza capire. 
“Va’ di sopra.” Il detective si alzò, facendo con calma qualche passo indietro. “Non mi piace la tua scia. Va’ via.” Ripeté, la voce ferma ma bassa, quasi un sussurro.
“Vorresti essere così gentile da spiegare?” John si mise in piedi a sua volta, ignorando la sensazione di calore sempre più forte che sentiva in ogni parte del corpo.
“John.” Un richiamo. Quasi una supplica. Sherlock indietreggiò ancora di un passo.
La sua scia divenne salata, morbida, e John dovette respirarla un paio di volte prima di capire.
Turbamento. Emotività. Eccitamento.
“Smettila. Adesso.” Sherlock non stava più chiedendo, stava ordinando. Con voce roca, a fatica.
“Io?!” Esplose John, prima di riuscire, finalmente, a sentirsi.
Con orrore si accorse che era sua la componente vibrante, quella che stava richiedendo un contatto. Era lui, non Sherlock, ad essere eccitato.
Istintivamente fece un passo indietro, inciampando sul gradino alle sue spalle.
Finì sulle scale, sentendosi andare in pezzi. Dolore, vergogna, fame, caldo, eccitazione, paura, esplosero tutte insieme, lasciandolo senza fiato.
“Non sarei dovuto scendere.” Riuscì a dire, sentendo nausea e lacrime bloccargli la gola.
“È normale che tu senta la necessità di-“ Iniziò Sherlock, con voce calma.
“No.” Lo interruppe il medico, alzando una mano per farlo tacere. “No.” Disse ancora una volta, cercando di mettersi in piedi.
“John.” La voce del detective si perse nel suono frastornante del respiro di John, l’unica cosa che il medico riuscisse a sentire, assieme alla propria vergogna.
“Va bene. Davvero.” Deglutì, girandosi verso la porta. “Non sarei dovuto venire.”
Velocemente, con passo malfermo, uscì dalla stanza, lasciando la porta aperta.
Sherlock sentì i suoi passi lungo le scale. Lo sentì inciampare un paio di volte, e poi continuare a salire, fino alla propria stanza.
Al suono della porta che veniva chiusa, il detective sentì di poter allentare la presa sul proprio autocontrollo, e si voltò verso il muro, portandosi le mani alla testa.
Le affondò nei capelli, appoggiando la fronte contro la parete.
Lo aveva giurato a se stesso, sul cortile della villa di Victor, quel pomeriggio estivo di molti anni prima.
Se lo era ripetuto fino a quando non aveva finito con crederci davvero.
Mai più nessuno sarebbe arrivato tanto vicino a lui da poterlo sfiorare.
Eppure, per quanto si sforzasse di rimanere calmo, per quanto cercasse di spiegare ogni sensazione provata in quel momento (da lui e da John) come una mera risposta ormonale ad una sollecitazione (della stessa natura ed altrettanto semplice) non riusciva a non pensare che rimanere lì, immobili, fosse sbagliato.
Non aveva mai abbracciato nessuno, in tutta la vita.
Era stato Mycroft, in rare occasioni, a stringerlo a sé, da bambino. Casi isolati di affettività sbrigativa, quasi disdicevole, da tener celata agli occhi degli altri.
Eppure qualcosa, nella sua testa, spingeva per convincerlo che tenere John il più stretto possibile vicino a sé fosse l’unica cosa giusta.
Sherlock si staccò dal muro, iniziando a muoversi in cerchio per la stanza.
Ormoni, nient’altro che ormoni. Molecole. Causa ed effetto, continuò a ripetersi.
La scia di John si affievolì, fino a scomparire. Quando anche l’ultima traccia di lui si dissolse,  Sherlock si bloccò, sentendo attorno a sé tutto il freddo che non aveva percepito fino a quel momento.
Tu vuoi che se ne vada? La voce di Lestrade rimbombò nel vuoto che aveva invaso la sua mente nel momento stesso in cui si era immobilizzato.
Sherlock allontanò con un gesto secco del capo il ricordo di quella conversazione.
Molecole. Reazioni.
Tornò a sedersi davanti allo strumento, chinandosi sulle lenti. Aveva bisogno di concentrarsi su quanto stesse accadendo sulla piastra. Aveva bisogno di trovare un risposta ed una soluzione, in fretta. Aveva bisogno di far tornare John quello di prima, allontanando da loro lo spettro di un sentimento artificiale che nessuno dei due desiderava davvero.
Aveva bisogno che John tornasse…
Non ci sarà mai nessuno come lui, lo sai?
“Maledizione!” Sherlock si allontanò dal microscopio con un gesto brusco, dandosi una spinta contro il tavolino per allontanarsi dal piano di lavoro. La sedia grattò contro il pavimento, in un gemito alto e stridulo.
Si alzò, in cerca del cellulare.
In fretta, dita veloci e mani leggermente tramanti, scrisse al fratello.
 
[To: Mycroft][03:41 am]
Novità su Jim Moriarty?
 
Lanciò il cellulare di fianco ai fogli sparsi sul ripiano di lavoro, e riprese a muoversi per la stanza, sfiorando con le spalle le pareti, incurante del fastidio che l’attrito tra il muro e la tuta gli procurava.
Il telefono vibrò poco dopo, e Sherlock quasi vi si avventò sopra.
 
[From: Mycroft][03:46 am]
Ce ne fossero, saresti stato avvertito. John?
 
La parte finale della risposta del fratello ebbe il potere di farlo esplodere.
Aveva chiesto a Mycroft aiuto per poter fare scorta di cibo, e aveva dovuto, necessariamente, accennare al motivo dietro ad una richiesta tanto strana.
Il fratello si era limitato ad inviare una macchina al Bart’s, carica di ogni cosa da lui richiesta.
Nessun ulteriore messaggio tra loro, fino a quel momento.
Ciò nonostante, sapeva perfettamente cosa il maggiore stesse pensando: un Omega alla soglia del Calore in casa, e lui si stava preoccupando che si nutrisse.
Sostanzialmente stava agendo da Alpha. Era anzi andato oltre, arrivando a comportamenti propri di un Alpha legato.
Sherlock riusciva a vederlo, Mycroft, cellulare in mano e lieve sorriso di scherno sulle labbra, mentre digitava con gesti lenti il nome di John.
Un nuovo messaggio in entrata lo colse di sorpresa, ancora intento a cercare un modo adeguato per rispondere al fratello.
 
[From: Mycroft][03:48 am]
Sai che le molecole che determinano un Alpha si chiamano “Om-“?
 
Sherlock rilesse un paio di volte il messaggio, senza capire.
 
[To: Mycroft][03:49 am]
Certo. Dovrebbe avere un qualche senso, questa domanda?
 
Digitò, irato, continuando a muoversi per la stanza.
Lui era un Om-, John un Om+.
Banale, pensò.
Una semplice convenzione scientifica per indicare due soggetti, uno con la molecola della determinazione Omega attiva, ed uno che non la presentava affatto.
Avrebbero potuto chiamarle in altri mille modi, ed il risultato non sarebbe cambiato.
 
[From: Mycroft][03:50 am]
Compatibilità.
 
Sherlock si portò il telefono più vicino agli occhi, convinto di non aver letto bene.
“Compatibilità”, sillabò, incredulo.
Che Dio mi aiuti, ma penso che sareste perfetti, assieme. La voce di Lestrade si fece nuovamente spazio tra i suoi pensieri.
Sherlock si portò la mano libera alla tempie, lasciandosi andare ad un ringhio basso, gutturale.
Non voleva pensare a John, non voleva pensare a Mycroft, ed ancor meno voleva continuare a pensare a quella conversazione con l’Ispettore.
Doveva calmarsi. Solo calmarsi, e tornare in sé.
Spense il telefono, lasciandolo a terra. Si impose di tornare a sedere, e con gesti meccanici tornò a sistemare le lenti in modo da poter continuare i propri esperimenti.
Doveva trovare un modo. Lo aveva promesso. Lo aveva promesso a lui.
Lo avrebbe fatto tornare l’uomo libero che era, e poi lo avrebbe guardato scegliere in piena libertà cosa fare della propria vita.
Qualcosa, all’altezza dello stomaco, iniziò a dolere, ma Sherlock la ignorò.
Non avrebbe mai accettato che John lo cercasse semplicemente per una naturale risposta biologica ai suoi bisogni. Erano migliori degli altri. Consapevoli. Loro… loro erano più di questo.
Il dolore si allargò, fino a far bruciare i polmoni, e far contrarre qualcosa, all’altezza del ventre.
Non aveva bisogno di un Omega. E John non aveva bisogno di una vita da infelice. Cosa avrebbe mai potuto avere, da offrirgli?
La gola si chiuse, ed assieme ai respiri normali scomparve la capacità di Sherlock di rimanere oltre in quella stanza.
Uscì in fretta, bloccandosi poi sul pianerottolo.
Non riusciva a pensare razionalmente a cosa fare. Perché sentiva il bisogno di salire al piano di sopra? Era una necessità sua, o del suo corpo?
Rimase immobile, in penombra, fin quando la stanchezza non fu tale da annebbiare quel poco di resistenza che gli era rimasta.
Lentamente, tenendosi contro la parete, salì fino al primo piano, fermandosi davanti alla porta del salotto. Il silenzio era totale, e Sherlock si perse ad osservare la luce gialla dei lampioni ballare tra le fughe del parquet. La scia di John, proveniente dal piano di sopra, si mescolò al suo respiro, muovendosi assieme alle ombre che si inseguivano molli sulle pareti delle scale.
Il detective chiuse gli occhi, arrendendosi. Alla stanchezza, alla paura. Alla speranza.
Si voltò, lento, muovendo gli ultimi passi in direzione della stanza del medico.
Poi, una volta in cima, si lasciò cadere a terra, appoggiandosi con gentilezza contro la porta.
John era sveglio. Lo sapeva. Lo sentiva. Il suo odore era troppo forte, troppo cangiante.
Tremava, esattamente come lui, in silenzio.
Come lui si domandava cosa fare.
Come lui aveva infine chiuso gli occhi, lasciando che fossero lo scie a parlare per loro.
Ascoltando i loro odori mescolarsi, fino ad addormentarsi abbracciati.


Angolo dell’autrice:
non riesco ad aggiungere molto, a quanto scritto.
Non so neanche io se sono riuscita compiutamente a rendere l’idea di quanto amore e quanta paura ci sia, in queste due persone che si respirano al di là di una porta chiusa.
Spero di sì, lo spero davvero, perché… Beh, perché scrivere questo capitolo è stato un viaggio incredibile, e spero di essere riuscita a portarvi con me, almeno un po’.
 
Grazie a tutte/i, come sempre.
 
B.

PS: vi lascio con un'immagine bellissima, reperita su internet. 
Mi sembra adatta.

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Capitolo 25
*** Luci ed ombre ***


Victor si appoggiò la pasticca tra le labbra, chinandosi poi su Sherlock, sdraiato supino sull’erba.
Il vento estivo, fresco, si mosse tra le fronde degli alberi, creando giochi d’ombra su i loro abiti leggeri.
“Continuo a pensare che non sia una buona idea.” Tentò il ragazzo, appoggiando una mano sul petto dell’altro per tenerlo a distanza, con scarsa convinzione.
Victor gli strinse una mano attorno al polso, dolcemente, facendogli abbassare il braccio.
Appoggiò la bocca sopra quella schiusa di Sherlock, lasciandogli cadere il Soma tra le labbra.
“Mezzo grammo per un riposo di mezza giornata, un grammo per una giornata di vacanza, due grammi per un'escursione nel fantasmagorico Oriente, tre per un'oscura eternità nella luna.” Gli soffiò su una guancia, prima di lasciarsi andare contro al suo petto.
“Vedrai, sarà stupendo.” Aggiunse, le dita a vagare sotto la camicia sbottonata dell’altro.
Sherlock inclinò la testa da un lato, osservando per qualche secondo Victor negli occhi.
Sorrideva, o almeno sembrava tentare di far assumere al proprio viso un’espressione allegra.
Ma gli occhi, scuri, non seguivano il resto dei lineamenti in quella pallida imitazione di un sentimento.
Sherlock lasciò la pasticca sciogliersi sulla lingua, rigirandola lentamente tra denti e palato.
“So cosa vuoi.” Commentò, poco dopo, gli occhi ed il respiro pesanti.
“Certo.” Victor gli sfiorò una guancia, salendo fino ai capelli. “Certo che lo sai.”
“Perché così?” Domandò Sherlock, sforzandosi di mantenere la presa sulla propria coscienza.
“Perché no?” Gli rispose l’altro, negli occhi un brillio ferino.
Sherlock si aggrappò a quell’ultima domanda, cercando una risposta adeguata. Ma, in fondo, non riusciva a trovarne una.
“Sì?” Chiese Victor, scivolando sul suo petto, fino a trovarsi completamente sdraiato sopra di lui, i loro volti alla distanza di un respiro.
“Sempre.”
Sherlock chiuse gli occhi, respirando l’odore dell’altro, portandolo con sé in cerca di conforto.
 
Il detective riaprì gli occhi, lasciandoli vagare per qualche attimo tra le fiamme del camino acceso.
Le dita delle mani, affondate con forza nei braccioli della poltrona, erano divenute bianche, esangui, tanta era la violenza con la quale le stava spingendo contro la stoffa ruvida.
Le campane di St Mary’s, in lontananza, annunciarono l’inizio di un nuovo giorno, richiamando i fedeli alla prima messa del mattino. Sherlock cercò conferma nell’orologio sopra la mensola del caminetto: le sette in punto.
Era rimasto seduto ai piedi della porta di John fin verso le sei. L’odore del medico si era via via affievolito e stabilizzato, indice che avesse infine ceduto al sonno.
Incapace di fare altrettanto, era rimasto ad ascoltare il silenzio che lo circondava, respirandolo assieme alla scia dell’altro. C’era qualcosa, all’altezza del cuore, che non voleva abbandonarlo un solo attimo, fermamente ancorato tra le costole.
Pulsava, infuocato, e gli aveva richiamato alla mente quei pomeriggi assolati di tanti anni prima, quando a farlo tremare bastava un respiro caldo che si spandeva sulla sua pelle.
Odiava sentirsi nuovamente così.
Vulnerabile.
Detestava la spinta alla ricerca dell’altro che si faceva sempre più strada tra i suoi bisogni, azzerando ogni altra cosa.
Alla fine, con enorme fatica, si era allontanato dalla porta, lasciandosi praticamente cadere, gambe deboli e respiro corto, fino al piano di sotto.
Aveva raggiunto la propria poltrona, raggomitolandosi su di essa.
 
“Cosa leggi?” Sherlock si arrampicò sulle gambe dell’altro, fino a portarsi col viso a pochi centimetri dal piccolo libro che Victor teneva davanti a sé, sdraiato pigramente sul pavimento della sua – da pochi giorni loro – camera da letto.
“Un libro giallo. Dovresti leggerlo, ti piacerebbe.” Il ragazzo abbassò il volume, guardando dritto negli occhi Sherlock, adagiato sopra di sé. “Ci sono moltissime morti cruente.” Aggiunse, alzando una mano fino ad ancorarla tra i ricci dell’altro.
“È sempre incredibilmente banale, la motivazione che spinge gli omicidi da romanzo a compiere i loro gesti. La vita vera non è così.” Sherlock  diede un colpo secco con il capo, liberandosi, e si lasciò cadere di lato, al fianco di Victor.
“E com’è, la vita vera?” Gli domandò lui, con sguardo attento, girandosi con la testa nella sua direzione.
“Non tutto nasce e muore con un Legame. Guarda noi.” Rispose Sherlock, serio.
“Noi non abbiamo un Legame?” Lo incalzò l’altro, con un sorriso obliquo sul viso.
“No, noi siamo più di questo. Ci siamo scelti.” Sherlock di diede una spinta con le mani, portandosi in posizione seduta. “Non credi?”
“Credo che adesso dovresti spogliarti.” Victor si alzò con un leggero sbuffo, allungando una mano verso di lui.
 
La porta della camera di John si aprì, con un lieve cigolio.
La scia del medico si sparse per le scale, più forte di quanto non fosse solo poche ore prima.
Dolce, zuccherina, arrivò fino a Sherlock, ancora immobile – ginocchia al petto – sulla propria poltrona.
Il detective allungò le gambe, assumendo una postura composta ed uno sguardo annoiato in direzione della cucina.
I passi del medico, insicuri, lenti, riecheggiarono tra le pareti, insieme al suono dei suoi abiti contro la carta da parati.
“Sherlock?” Tentò, con voce malferma a metà della discesa, nel suo odore tutta l’ansia della notte appena trascorsa, nella quale il detective si rispecchiò.
“Salotto.” Rispose, cercando di non tradire alcuna emozione.
Quanto successo la sera prima era stata un evidente cedimento della loro psiche, troppo stanchi e provati dagli ultimi avvenimenti per potersi controllare adeguatamente. Era necessario tornare in sé, riprendere i propri ruoli.
John, con il viso arrossato e gli occhi lucidi, comparve sulla soglia, vestito con i suoi abiti usuali.
Incapace di sostenere lo sguardo dell’altro, si diresse in cucina, lento.
“Sei troppo vestito.” Constatò Sherlock, osservando il medico alzare una manica del maglione e grattarsi con foga la pelle irritata.
“Mi vesto sempre così.” Gli rispose l’altro, riempiendo il bollitore e posandolo sui fornelli.
“Ti verrà la febbre. Sempre che tu non l’abbia già.” Continuò il detective, seguendolo in ogni movimento.
“Ho già la febbre.” Confermò John, spostando uno degli sgabelli della cucina per poi lasciarcisi cadere sopra.
“Allora spogliati e fa’ una doccia fredda.” Sherlock strinse con forza i braccioli, combattendo l’istinto di alzarsi per portare di peso il medico il bagno.
“Allora trova qualcosa, qualsiasi cosa, per fermare tutto questo!” Lo rimbeccò John, portandosi le mani tra i capelli. “Sto impazzendo, Sherlock. Letteralmente.” Un lungo brivido gli attraversò la spina dorsale e, per un attimo, fu come se tutto il suo corpo avesse preso a tremare.
Sherlock si alzò in piedi, superando la poltrona di fronte a lui con un passo veloce.
Con gesti meccanici spostò il bollitore dalla fiamma e spense il fornello.
Poi si diresse al frigorifero, aprendo il congelatore.
Lasciò cadere l’intero contenuto della forma per ghiaccio in un canovaccio, chiudendolo.
Poi si avvicinò a John, lasciando cadere il sacchetto improvvisato davanti a lui, sul tavolo.
Il medico sollevò il viso dall’incavo delle mani, osservando per qualche secondo lo strofinaccio prima di alzare gli occhi su quelli di Sherlock, in piedi accanto a lui.
“Farsi venire la febbre alta non cambierà quello che sta accadendo. Ti renderà solo bisognoso di cure più in fretta.” Il detective si portò dall’altro capo del tavolo, sedendosi a sua volta.
“Non devi preoccuparti per ieri sera, è nat-“ Iniziò, prima che una mano alzata di John gli intimasse di fermarsi.
“Non è naturale, va bene?” Il medico ancorò i suoi occhi, arrossati, lucidi, febbricitanti, a quelli dell’altro. “Non c’è niente di naturale, in tutto questo.” Si portò la sacca del ghiaccio alla tempia sinistra, sentendosi ribollire al contatto. “C’era qualcosa, nel corpo dell’uomo nella vasca.”
“Henry Blore.” Aggiunse Sherlock, ricordando il nome che aveva loro fornito Lestrade, informandoli che le impronte digitali avevano fornito un’identità al cadavere dello zoo: un Beta Minus, meccanico.
“C’era qualcosa nel suo stomaco. Una specie di… polvere. L’ho respirata.” John si passò il canovaccio all’altra tempia.
“Quando, esattamente, pensavi di dirmelo?!” Ringhiò Sherlock, ed il medico si alzò dalla sedia, indietreggiando di un passo.
“Non capisci che è importante?!” Aggiunse il detective, irato, prima di rendersi conto dell’espressione atterrita dell’altro, in piedi di fronte a lui, una mano – in cerca di sostegno - appoggiata ai fornelli, ancora caldi.
 
Le piaghe sul palmo della mano si stavano aprendo, e Sherlock socchiuse le dita, osservando il fluido che contenevano colargli lungo il polso.
“Guarirà presto.” La voce di Victor, distratta, lo raggiunse dal salotto.
Sherlock, in cucina, spinse con più forza le bruciature sotto il flusso d’acqua, mordendosi un labbro per non gemere.
“Era solo un gioco innocente! Ad ogni modo, se non ti è piaciuto, possiamo anche eliminare le candele dall’equazione, la prossima volta.”
Dopo qualche secondo, il ragazzo comparve alle sue spalle, trovandolo ancora chino sul lavandino.
Gli strinse con forza le braccia attorno al petto, appoggiandosi alla sua schiena.
“Mi dispiace, ok?” Gli disse, appoggiandogli un bacio tra le scapole. “Ti amo.”
Sherlock attese che il dolore si affievolisse, prima di chiudere l’acqua e girarsi verso di lui. “Anche io.” Sussurrò, poggiando la sua fronte contro quella di Victor.
 
“Spostati da lì.” Sherlock scattò in piedi, aggirando il tavolo e afferrando John per un polso, allontanandogli la mano dal ripiano.
“Che stai facendo?!” Tentò di protestare il medico, cercando di sottrarsi alla presa del detective.
“Era accesi fino a poco fa, ti brucerai.” Sherlock allentò la stretta, lasciando John liberò di sfilare la mano.
“Sono appena tiepidi, neanche me ne sono accorto!” Il medico arretrò di qualche passo, verso la finestra. “Lo capisco che tu senta il…bisogno di occuparti di me, ma non devi farlo.” Aggiunse, muovendosi verso il frigorifero. “Posso fare da solo.”
“Cosa, esattamente? Ingerire qualche altra sostanza potenzialmente letale?” Sherlock lo osservò prendere una grossa quantità di frutta e posarla sul tavolo, leggermente malfermo nei movimenti.
“Posso prendermi cura di me. Nutrirmi, lavar-“ Iniziò il medico, addentando una mela.
“A malapena ti reggi in piedi. Non vuoi spogliarti, a costo di far salire la tua temperatura a livelli di pericolo per il tuo organismo. Non sei capace di prenderti cura di te stesso. Non lo stai facendo.” Sottolineò Sherlock, passando distrattamente una mano su i fornelli, come a cercare conferma delle parole dell’altro.
“Allora aiutami.” Soffiò fuori John, tutto d’un fiato, un altro brivido su per la schiena, caldo.
“È quello che sto cercando di fare. Analizzo dati, compro cibo… Ci sto provando.”
“Non mi serve tutto questo, adesso.” Il medico lasciò cadere il torsolo della mela sul tavolo, prendendone un’altra. “Mi servi tu.”
 
“Non mi hai mai detto perché hai scelto proprio me.” Sherlock, occhi socchiusi e bocca impastata, si voltò verso Victor, anche lui con addosso gli ultimi effetti del Soma, assunto qualche ora prima.
“Mhm?” Gli rispose l’altro, portandosi una mano alla fronte.
“Perché io. Tra tutti.” Ripeté Sherlock, cercando di scandire le parole.
“Eri il più vulnerabile.” Victor si girò verso di lui, portandosi su un lato.
“Vulnerabile?” Aveva ripetuto l’altro, cercando di ricordare il significato di quella parola.
“Sembravi aver bisogno di aiuto.” Spiegò Victor, passandogli una mano sul viso, prima dolcemente, poi con forza, fino a stringergli il mento. “Ho pensato ti servisse una mano.”
 
“Io?” Ripeté Sherlock, sbattendo più volte le palpebre, veloce. “John, lo so e lo sai anche tu che sono gli ormoni a parl-“ Iniziò.
“Mi serve… ci serve un piano.” Lo interruppe l’altro, alzando uno sguardo serio su di lui. “Trattami come se fossi un caso. Un cliente.” John terminò anche la seconda mela, e la lasciò cadere accanto all’altra. “Ho un problema. Aiutami ad uscirne.”
Sherlock lo osservò con attenzione prendere il frutto successivo.
Tremava appena, scosso dalle vampate del proestro e dai brividi della febbre, eppure rimaneva immobile, cocciutamente in piedi vicino al tavolo, cercando di mangiare con calma, senza cedere al bisogno di nutrirsi in modo vorace.
“Un piano.” Sillabò il detective, tornando con gli occhi in quelli dell’altro.
“Buongiorno signor Holmes, ho davvero un problema increscioso da sottoporle.” Cantilenò John, abbozzando un sorriso incerto.
Sherlock sentì il cuore stringersi. Per un attimo, uno solo, desiderò la capacità di abbandonare la consapevolezza di saperli schiavi di stimoli che non gli appartenevano. Che quel sorriso fosse per lui, e che John non avesse mai definito tutto questo “un problema increscioso”.
“Faremo del nostro meglio per risolverlo.” Rispose, allontanando la vergogna delle riflessioni appena fatte con un gesto del capo.
“Bene. Ho molta fiducia in lei.” John masticò lentamente l’ultimo boccone, combattendo l’intinto di avventarsi sul resto del cibo rimasto sul tavolo.
Il caldo stava diventando intollerabile, così come il bruciore che sentiva ustionargli la pelle. Il calore era così forte da riuscire a sentirlo nel respiro, e dietro gli occhi.
Fece un paio di passi verso il frigorifero, in cerca d’acqua, ma si bloccò a metà del percorso, immobile in una bolla di azzeramento sensoriale che lo atterrì.
“Sherlock…” Lo chiamò, allungando una mano per riuscire a rimanere in equilibrio.
Il detective si avvicinò rapidamente, portandosi tra lui ed il frigo.
“John?” Sherlock gli appoggiò una mano sulla fronte, preoccupato.
“Non mi sento più le gambe.” Riuscì a dire il medico, a fatica, aggrappandosi con una mano al braccio dell’altro.
“Certo che no, sei bollente. Mi domando come tu riesca a stare ancora in piedi.” Lo rimbeccò Sherlock, affiancandosi a lui e passandogli un braccio dietro la schiena, sollevandolo appena, quel tanto da permettergli di camminare senza gravare con il peso su le proprie gambe.
“Che stai facendo?” Domandò John, voltandosi verso di lui, un sussurro bollente contro il suo collo.
“Attuo il piano che ha richiesto, dottore.” Rispose lui, diretto con passo fermo verso il bagno, tutto il peso di John premuto contro il fianco.
“Bene.” Biascicò John, lasciando che l’odore di Sherlock lo avvolgesse completamente, rilassandolo. “Mi fido molto, di te.” Concluse, facendosi adagiare con delicatezza nella vasca.
Sherlock, mano sulla manopola dell’acqua fredda e sguardo attento sul viso arrossato dell’altro, rimase chinato su di lui fin quando l’acqua non raggiunse un livello tale da coprirgli le gambe e metà del busto.
John, occhi chiusi e respiro corto, schiuse le labbra nel tentativo di dire qualcosa, riuscendo ad emettere solo un breve singhiozzo.
Sherlock chiuse il rubinetto e si tirò indietro, sedendosi sul tappetino ai piedi della vasca.
“Qualche minuto ed andrà meglio.” Sussurrò, allungando una mano a sfiorare la superficie dell’acqua, per assicurarsi che fosse sufficientemente fredda.
John spostò la sua, a pelo d’acqua, sfiorando con il dorso la punta delle sue dita.
Il detective chiuse gli occhi, ascoltando la sensazione della sua pelle a contatto con quella dell’altro, calda, scossa di piccoli fremiti.
Quando era successo? Quando aveva deciso che il suo posto fosse accanto a quell’uomo tanto diverso da tutti quelli incontrati prima? Quando aveva scelto che non gli importasse di rinnegare tutto, persino le sue stesse convinzioni?
 
“Non capisco.” Sherlock sbuffò, lasciandosi andare con forza contro lo schienale del divano.
“Sii più specifico.” Gli rispose Mycroft, alzando gli occhi dal libretto d’opera che teneva stretto tra le mani.
“Non capisco il senso di questa canzone.” Spiegò meglio l’altro, sbuffando.
“Sei troppo piccolo per poterlo fare.” Il maggiore portò indietro la puntina del giradischi, facendo nuovamente partire il brano.
“Dice che è veleno, per lui. Però la vuole. Che la odia, ma non può starne lontano. Che lo sta distruggendo, eppure non chiede altro che di abbracciarla per tutto il tempo. Non ha alcun senso.” [1] Sherlock si raggomitolò in posizione fetale, le ginocchia contro il mento.
“Si chiama amore, fratello caro. Ed è la rovina di tutti noi.” Mycroft aveva lanciato un ultimo sguardo al viso imbronciato del fratello, per poi tornare a seguire il testo sul quadernetto.
 
“Dovremmo trovare una parola d’ordine.” Sussurrò John, ad occhi ancora chiusi.
Sherlock riemerse dai propri pensieri con un leggero sussulto, allontanando la mano dalla vasca.
“Una parola d’ordine.” Ripeté, senza capire il senso di quell’affermazione.
“Sì. Così io potrei farti sapere che qualcosa non va, senza che gli altri ne vengano a conoscenza.” Spiegò John, sollevando per qualche secondo le mani fuori dall’acqua, in un abbozzo di gesticolazione. “Ad esempio ieri avrei potuto dire: Sherlock, ho avuto un… un… melone con il corpo, durante l’autopsia. E tu avresti saputo che qualcosa era andato storto, ma senza che Greg ed i suoi uomini lo capissero.” Biascicò il medico, schiudendo appena gli occhi.
Il colorito del suo volto si stava normalizzando, così come il suo respiro.
“Mi sembra ragionevole.” Gli concesse il detective, alzandosi. “Togliti il maglione e ne cercheremo una adatta.” Aggiunse, portandosi alle sue spalle.
“Mi dovrei spogliare? Perché?” Domandò John, aprendo del tutto gli occhi, confuso.
“Perché se continui a tenerlo addosso, questo bagno sarà inutile. E bisogna essere lucidi, per poter elaborare e poi ricordare una parola d’ordine. Avanti.” Sherlock si sporse verso di lui, aiutandolo a mantenere le braccia alzate e a sfilare il pullover, ormai fradicio.
La scia di John di fece immediatamente più forte, carica di gratitudine e di qualcosa che il detective non riuscì a catalogare.
Sherlock la respirò lento, incapace di allontanarsi. Avrebbe voluto chinarsi e premere con forza il naso contro il collo dell’altro, ma senza ferirlo. Non voleva morderlo, solo…
Solo trovare finalmente pace, con la testa vicina a quella di John. Senza bisogno di imporsi qualcosa, senza fingere che restare così lontani non gli facesse scoppiare il cuore nel petto, e bruciare i polmoni. Che non lo facesse fremere, infelice, all’idea che se avesse potuto, John non sarebbe mai stato tanto vicino.
“Una volta mi sono occupato di un caso relativo a dei cammei del Vaticano.” Sherlock si costrinse a fare un passo indietro e poi di lato, tornando a guardare John – adesso completamente sveglio – negli occhi.
“Vuoi usare “cammei del Vaticano” come parola d’ordine?” Domandò il medico, abbozzando un sorriso divertito.
“Ci si può lavorare su.” Rispose Sherlock, lasciando gli occhi liberi di vagare per la stanza.
“Come va?” Chiese quindi, mantenendosi a distanza da un contatto visivo.
“Meglio.” John si passò le mani sul viso e poi tra i capelli. “Ma adesso ho bisogno di abiti asciutti.”
“Niente di grave, se paragonato ai danni di una prolungata esposizione ad alte temperature.”
Sherlock si avviò verso la porta, lento.
“Dove vai?” John si aggrappò con le mani ai bordi della vasca, cercando di tirarsi su. Ancora debole sulle gambe, ricadde in acqua con un tonfo.
“Che stai cercando di fare?” Il detective si bloccò, voltandosi verso di lui.
“La febbre è scesa. Non ho più bisogno di stare qui dentro.” Spiegò il medico, provando ad alzarsi una seconda volta.
“È vero che l’alterazione era una reazione al tuo esserti coperto troppo, ma questo non significa che tu debba uscire subito.” Sherlock posò una mano sulla maniglia.
“Perché te ne stai andando, adesso?” Domandò John, rinunciando ad un terzo tentativo. Il detective aveva ragione, non era ancora pronto.
“Perché mi pare evidente che tu non abbia più bisogno di me.” Commentò l’altro, aprendo la porta. “Se come dici il Calore è arrivato in anticipo per qualcosa che ti hanno somministrato, questo significa che l’obbiettivo era portarci a questo. Motivo in più per arginare il più possibile ogni contatto, soprattutto dato che nessuno dei due ne sente la reale necessità.”
Concluse, voce bassa e seria, uscendo dal bagno.
John rimase immobile, guardando la porta chiudersi dietro di lui.
“Se ti occorre qualcosa sono di sotto!” Gli urlò Sherlock, già sulle scale, diretto al piano interrato.
Il medico guardò il maglione, scuro, bagnato, abbandonato a terra, poco distante.
E, per una frazione di secondo, si sentì come lui.
Solo, molle. Inutile.
La solitudine che aveva cercato per tutta la vita, nella quale si era avvolto e sentito protetto, non era più sufficiente.
Fu quel pensiero, più di ogni altra cosa, a terrorizzarlo.
Aveva fatto – si era fatto - una promessa, quasi vent’anni prima, e le aveva tenuto fede, almeno fino al momento nel quale aveva conosciuto il detective.
Nessun Alpha come amico, tanto meno come compagno.
Nessuno di loro tanto vicino da correre il rischio di venir morso.
Mai.
Ed ora, immerso per metà in una vasca piena di acqua ghiacciata, si sentì avvampare per la vergogna e la paura.
Perché il pensiero che Sherlock potesse arrivare tanto vicino al suo viso non lo spaventava. Anzi, quegli occhi azzurri gli parvero per un secondo l’unica certezza della sua – nuova – vita.
A fargli paura, adesso, era il rendersi conto di quanto, e quanto profondamente, quell’uomo lo avesse cambiato.
Non era una questione di ormoni, no. Aveva a che fare con loro due, con quello che sentiva premere tra cuore e stomaco. Con quella scia che andava svanendo, lasciando comunque intatto il bisogno di guardare Sherlock lavorare, leggere, studiare, respirare.
“Forse ci si dovrebbe semplicemente accontentare di vivere il più serenamente possibile. Se qualcosa o qualcuno ci rende felici, o meno infelici del solito, dovremmo tenerli vicini senza farsi troppe domande.” Gli aveva detto Mike, e mai come in quel momento le sue parole gli sembrarono cariche di un senso profondo, che andava oltre la semplicità di una frase apparentemente scontata.
Sherlock era uno spartiacque, un solco profondo tra chi era e chi – Calore o meno – non sarebbe stato mai più.
Quanto, di quei pensieri, era dovuto alla sua condizione?
Poco, pochissimo, si rispose, dato che il proestro non era una fase del ciclo tanto avanzata da poter stravolgere totalmente le sue convinzioni.
Fu allora, che capì.
Non era ancora in Calore, almeno non nell’estro conclamato, quando realmente molti dei suoi comportamenti non sarebbero più stati controllabili in modo conscio.
Era una scusa, una giustificazione alla quale si era voluto aggrappare fino all’ultimo per non affrontare una realtà per lui ancor più spaventosa di un killer che lo desiderava fisicamente provato e psichicamente succube.
Aveva infranto un giuramento, e la verità era tutta in quella sensazione dolce e straziante che gli stava aprendo una voragine nel petto.
 
L’Omega che aveva rinnegato tutta la vita la propria natura, era innamorato di un Alpha.
 
***
 
Sherlock scagliò con rabbia il quaderno - sul quale aveva appuntato con perizia fino a quel momento i vari risultati degli esperimenti - contro il muro.
Niente.
Nessuna idea su cosa fossero quelle cellule, nessuna su come riuscire ad arginarne gli effetti.
Si alzò in piedi, portandosi le mani ai capelli.
Aveva bisogno di trovare una soluzione.
Che John tornasse in sé, padrone delle proprie sensazioni, dei propri bisogni.
Doveva capire, chiedere.
Quanto c’era di lui, del suo volere, dietro alla sua scia? Quanto, dietro la sua eccitazione? Al suo farsi respirare dietro ad una porta chiusa?
 
“Gli Omega sono inutili.” Victor sbadigliò, staccandosi da Sherlock, ansimante sotto di lui.
“Quando ti cercano, o ti si concedono, e solo per un bisogno fisico. Che divertimento può mai esserci, nel farsi qualcuno al quale non fa nessuna differenza chi sia a stare con lui?”
Aggiunse, cercando con una mano il pacchetto di fazzoletti sopra il comodino, accanto al letto sul quale erano sdraiati.
“Quindi non sentirai mai il bisogno di creare un Legame?” Domandò Sherlock, allungando una mano per prenderne uno a sua volta ed iniziando a pulirsi.
“I Legami e gli Omega sono inutili, come ho detto. Finché avrò te, non avrò il bisogno di nessun altro.” Victor appoggiò le labbra su le sue, sorridendo contro la sua bocca.
 
Sherlock iniziò a muoversi per la stanza, irrequieto.
Perché all’improvviso era diventato così vitale, sapere?
Non era forse anche ogni sua emozione nei confronti del medico una semplice risposta fisica a delle stimolazioni esterne nate appositamente con lo scopo di far avvicinare due individui con la loro natura?
Era davvero necessario che John gli confermasse quello che già sapeva?
Doveva davvero sentirsi dire in faccia di non essere ricambiato, qualunque fosse la natura di ciò che stava provando, per crederlo?
“Sherlock?” La voce di John, oltre la porta, lo colse di sorpresa. Si immobilizzò, cercando di stabilizzare il più possibile pensieri, respiro e scia.
“John.” Rispose, con voce distaccata, dopo qualche secondo.
“Posso entrare?” Domandò l’altro, titubante.
“È successo qualcosa?” Il detective si avvicinò alla porta, aprendola.
John, pantaloni corti e canottiera verde scuro – probabilmente un ricordo del periodo militare, calcolò Sherlock – fece un passo indietro, sorpreso.
“È successo qualcosa?” Domandò nuovamente il detective, osservando con aria interdetta John prendere fiato a fatica.
“Non c’è abbastanza aria, qua sotto. Non dovresti scendere, se non per particolari urgenze.” Disse Sherlock, mentre l’altro annuiva appena, un lieve ondeggiamento della testa, quasi distratto.
“Che succede?” Provò ancora, iniziando a preoccuparsi.
La scia di John era un misto di paura, imbarazzo e attrazione, e la cosa lo sorprese, lasciandolo interdetto.
“Stavo pensando…” Iniziò John, abbassando gli occhi e deglutendo a fatica un paio di volte, aria e saliva che gli parvero pesare come sassi, mentre scendevano lungo la gola.
Sherlock alzò un sopracciglio.
Voleva andarsene?
Voleva…
“Ok, la faccio breve.” Il medico chiuse gli occhi e prese un respiro profondo. “Prima di non essere più padrone di sceglierlo liberamente…” Iniziò,  cercando infine il viso dell’altro. “Vorresti venire a cena?” Soffiò fuori, nel tempo di un un respiro strozzato.
Sherlock socchiuse le labbra, sorpreso.
“A casa, intendo.” Lo anticipò John, prima che potesse ribattere che uscire sarebbe stato troppo pericoloso. “Vorrei… cucinare per noi due, insomma.” Tentò di spiegare, muovendo le mani ad indicare il piano di sopra.
“Vorresti… cucinare per me?” Domandò il detective, confuso.
“Per noi, sì.” Confermò John, annuendo con forza. “Probabilmente fra qualche giorno, se non qualche ora, non sarò neanche capace di lasciare la mia stanza. Vorrei cucinare, come ho sempre fatto.” Terminò, accennando un sorriso incerto.
La sua scia divenne dolce e zuccherata, e Sherlock sentì una scarica elettrica partire dal petto ed arrivare al ventre. L’odore di John era un invito palese, e lui stava rispondendo.
“Qualcuno al quale non fa nessuna differenza chi sia a stare con lui.” Aveva detto Victor, una volta, e benché sapesse che questo non poteva in alcun modo descrivere John nella sua condizione normale, non poteva affermare con altrettanta certezza che a muoverlo – in quel momento - non fosse il semplice bisogno fisiologico di stare il più vicino possibile ad un Alpha, chiunque fosse.
A fatica, con un dolore sordo che gridava contro il suo sterno, Sherlock fece un passo indietro, scendendo di un gradino verso la stanza interrata.
“Capisco che tu abbia delle necessità.” Iniziò, osservando il viso di John farsi improvvisamente scuro. “Lo capisco, davvero. Ma puoi trovare quanti Alpha vuoi, fuori di qui, per questo.” Aggiunse, cercando di mantenere la voce più ferma possibile. “Se è un Legame quello che pensi ti occorra…”
“Dio.” John scosse la testa, un sorriso amaro sulle labbra. “Perdonami, ho pensato che mi conoscessi a sufficienza…” Gli rispose, nella voce lo stesso tremore che gli percorreva il corpo e l’odore: tristezza.
Vergogna.
“Un Legame.” Ripeté, scuotendo la testa. “È questo che pensi che voglia da te? I tuoi denti nel mio collo? Cristo…” Si interruppe, carico di rabbia. Una lacrima, sola, gli scivolò su una guancia, ma John la raccolse con un gesto collerico della mano. “Io…” Tremò, posando gli occhi in quelli di Sherlock. Poi, incapace di aggiungere altro, si voltò, dandogli le spalle, salendo al piano di sopra, passi veloci e pesanti come lamenti su i gradini di legno.
Il detective rimase immobile, circondato dall’odore della paura, dell’imbarazzo, della rabbia dell’altro.
Si costrinse a respirarlo, nonostante bruciasse ad ogni boccata, come una punizione che meritava di scontare.
Alla fine, incerto, mosse qualche passo instabile verso la porta d’ingresso, lasciando che il freddo pomeriggio londinese lo accogliesse, infreddolito e confuso, come sentiva di dover essere.
 
***
 
John si inginocchiò a terra, spostando il tavolino da caffè con una mano.
Si chinò in avanti, allungando una mano sotto al divano.
Con le dita sfiorò il parquet, alzando la polvere, fino a trovare quel che stava cercando.
Con uno sbuffo, pinzò con due dita la carta da regalo, trascinando il pacchetto verso di sé.
Rimase qualche secondo immobile, in un’atea contemplazione di un mistero dannato [2] del quale non voleva sapere nulla oltre a quel poco che aveva potuto vedere.
Infine prese il regalo e si diresse in camera di Sherlock, lasciandolo cadere sul suo letto.
Se Victor era la persona che Sherlock aveva descritto, se davvero era stato capace di pronunciare parole tanto gravi nei suoi riguardi, bene, non erano poi così diversi e si meritavano a vicenda.  
Il medico uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
Si diresse in cucina, facendo scorta di quante più cose possibili tra quelle non deteriorabili.
Infine, carico di cibo, rabbia e dolore sordo, salì in camera sua.
 
***
 
Circa un’ora più tardi il suo cellulare, faccia a terra contro la moquette della stanza, vibrò.
John, sdraiato prono sul letto, lasciò cadere un braccio al lato del materasso, cercandolo a tentoni, con l’intento di spengerlo.
Dopo un paio di tentativi a vuoto, si sporse oltre il bordo anche col viso, riuscendo infine ad individuarlo e raggiungerlo.
Si portò il telefono vicino agli occhi, premendo il pulsante laterale per lo spegnimento, che ad un primo tentativo gli sfuggì, sbloccando semplicemente lo standby dell’apparecchio.
Lo schermo si accese, mostrandogli l’anteprima del messaggio appena ricevuto.
Confuso, rotolò da un lato, dandosi una spinta per sedersi.
Inserì la password ed aprì l’SMS per intero, rimanendo ad osservarlo, incapace di muovere un solo muscolo, di formulare un pensiero.
 
 
[From: unknown number][5:49 pm]
 
Uno, due e tre,
c’è il tuo Sherlock qui con me.
Quattro, cinque e sei,
separarvi non vorrei.
Sette, otto e nove,
se la cosa ti commuove,
Dieci, e zero, e dopo mille,
hai un problema, come Achille.
Mille, e cento e ancora zero,
alla porta è il messaggero.
 
John sillabò ogni parola, rileggendo il messaggio più volte.
Alla fine lasciò cadere il cellulare sul letto, dirigendosi al piano di sotto, passi veloci e respiro corto.
“SHERLOCK!” Lo chiamò, arrivato al pianerottolo d’ingresso.
La signora Hudson si affacciò alla porta del suo appartamento, confusa.
“Cosa succede?” Chiese, con voce preoccupata.
“Niente, torni dentro.” Le rispose il medico, sbrigativo, affacciandosi nella stanza nel seminterrato, vuota.
“Maledizione!” Soffiò, voltandosi e risalendo i pochi gradini, diretto al portone.
“John, vuol dirmi cosa…” Provò di nuovo la donna, chiudendosi con più forza la vestaglia attorno al viso.
“Le ho detto di tornare dentro!” Ripeté John, lanciandole uno sguardo severo prima di spalancare la porta.
Un uomo – Beta, aspetto dimesso, immobile in attesa oltre l’uscio - alzò la testa e gli sorrise, cordiale.
“Il dottor Watson, presumo.”  Esordì, allungando verso di lui un foglio di carta ripiegato.
“Il signor Moriarty la prega di raggiungerlo a questo indirizzo.” Spiegò, lasciandolo cadere nel palmo tremante del medico. “E si raccomanda caldamente di arrivare con i mezzi pubblici, solo e senza aver avvisato la polizia, soprattutto l’Ispettore Le… Lestrade.” Concluse, prima di portarsi una mano alla fronte in segno di saluto e voltarsi, allontanandosi con calma lungo Baker Street.
John richiuse la porta, lasciandosi andare contro il legno con un tonfo, il biglietto stretto con forza tra le dita. Si pentì di aver assecondato Sherlock nel dire a Greg di portar via i suoi uomini, convinto che fossero al sicuro, una volta tra le pareti di casa.
Aprì il foglio, velocemente, leggendo l’indirizzo un paio di volte.
Per arrivarci avrebbe dovuto attraversare quasi per intero la città.
Si portò una mano al viso, in un gesto di disperazione.
Non c’era modo che arrivasse così lontano senza rischiare che qualcuno lo approcciasse in modo insistente, persino violento.
Ma…
La sola idea di Sherlock nelle mani di quell’uomo gli fece rovesciare lo stomaco, raggelandolo.
Come avrebbe potuto vivere, con il pensiero di non aver almeno tentato?
Cosa avrebbe fatto, se fosse morto?
Si staccò dalla porta, iniziando a salire con passo veloce al piano di sopra.
Doveva coprirsi il più possibile.
Nascondere come meglio poteva il proprio odore.
Ed accertarsi che la sua pistola fosse carica.
 
 
 
Note:
 
[1] Ho immaginato che Mycroft stesse ascoltando qualcosa simile a “Mi distruggerai”, cantata da Frollo nel musical “Notre Dame De Paris” (musiche di Cocciante). Ho pensato che bene si adattasse a Sherlock, e a tutto quello che sta vivendo in questo momento. La piena, disarmante confusione di sapersi perso, attratto e respinto assieme dalla forza di qualcosa che non è in grado di controllare. Per questo l’ho fatto rivivere in quel preciso ricordo, nato in quel preciso momento.
 
Il resto dei flashback, invece, sono legati in qualche modo a quello che il detective sta vivendo, ma non sono suoi “pensieri diretti”. Servono più da “spiegazione dei suoi comportamenti.”
 
Vi allego il testo di questa meraviglia, perché è davvero un’opera d’arte:
 
Io so cos'è la passione
Ma non lo so se è veleno
Io non so più cosa sono
E se ragiono o se sogno
Annego e il mare è lei
Sento i sentimenti miei
Che non ho sentito mai
L'onda che non affrontai
 
 Mi distruggerai, mi distruggerai
E ti maledirò finché avrò vita e fiato
Mi distruggerai, mi distruggerai
Tu mi hai gettato nell'abisso di un pensiero fisso
Tu mi distruggerai, mi distruggerai
Mi distruggerai
 
 Io cado in te, tentazione
E tutto al diavolo va
La scienza e la religione
E virtù e castità
Io guardo un orlo di gonna
E vedo abissi di donna
La gonna gira e mai
Mai per me la toglierai
 
 Mi distruggerai, mi distruggerai
E maledico te perché di te non vivo
Mi distruggerai, mi distruggerai
Ti abbraccio in sogno tutto il giorno e sto, di notte, sveglio
Tu mi distruggerai, mi distruggerai
Mi distruggerai
 
E quel mio cuore d'inverno
E' un fiore di primavera
E brucia dentro l'inferno
Come se fosse di cera
Sei tu che soffi sul fuoco
Tu, bella bocca straniera
Ti spio, ti voglio, t'invoco
Io sono niente e tu vera
 
 Mi distruggerai, mi distruggerai
E ti maledirò finché avrò vita e fiato
Mi distruggerai, mi distruggerai
Tu mi hai gettato nell'abisso di un pensiero fisso
Tu mi distruggerai, mi distruggerai
Mi distruggerai
 
Per aumentare i feels, vi lascio l’indirizzo di due video che hanno la versione inglese come colonna sonora:
 
Versione Sherlock: https://www.youtube.com/watch?v=ThBPIJyH7yk
Versione John: https://www.youtube.com/watch?v=rbHZ3iNW_8I
 
Chiedo scusa già da adesso per il DOLORE.
 
[2] È il corrispettivo di “mistero glorioso”, ma non so se si capisca bene. XD
 
Angolo dell’autrice:
 
Benvenute/i al capitolo che ha corso il rischio di non veder mai la luce. Sì. Perché per qualche giorno, dopo l’ultima pubblicazione, ho meditato seriamente di abbandonare tutto, persino di cancellare la storia. I motivi dietro questi pensieri sono complessi, lunghi, ed io non ho intenzione di ammorbarvi.
 
Devo comunque dire grazie ad un po’ di persone, per avermi spinto a continuare.
C’è chi me lo ha chiesto direttamente, chi ha ascoltato i miei sfoghi in silenzio, chi mi ha aiutato tantissimo anche dicendo di non poterlo fare.
CreepyDoll, mikimac, Koa, loveart7… Questo capitolo è anche un po’ vostro, perché senza di voi probabilmente avrei pubblicato tra eoni, o non avrei pubblicato affatto.
 
Quindi eccolo qui.
Siamo praticamente alla fine, due, massimo tre capitoli.
 
Come sempre grazie a tutti voi per aver letto fin qui!
Un abbraccio.
 
A presto.
B.

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Capitolo 26
*** Doni dal passato ***


John, sguardo appannato e polmoni in fiamme, si lasciò andare contro il muro del vicolo, graffiandosi i palmi delle mani nel tentativo di mantenersi in piedi.
Alzò gli occhi verso il cielo plumbeo che si muoveva sopra di lui, carico di pioggia, cercando di normalizzare il proprio respiro.
La camicia, ormai impregnata di sudore, si era attaccata alla pelle, peggiorando il fastidio ed il bruciore. Il contatto - in alcuni punti - con la lana del maglione, era divenuto quasi insostenibile. Sentiva tirare, pungere, ogni movimento una lacerante agonia di calore e dolore.
Alzò una mano, tremante, tentando di aprire un po’ il cappotto, all’altezza del collo.
Un uomo, sulla strada principale, si bloccò all’ingresso del vicolo, voltando la testa verso di lui, congelando il suo movimento in un palmo alzato, sanguinante, sospeso nel nulla.
“Ehi!” Si sentì chiamare, mentre l’uomo muoveva qualche passo nella sua direzione. “Va tutto bene?”
John si calò con più forza il cappello sulla testa, chiudendo la giacca fino all’ultimo bottone. Strinse la sciarpa intorno a collo e bocca, staccandosi a fatica dal muro.
“Sì.” Rispose, cercando di apparire tranquillo, respirando l’aria attorno a sé a piccoli bocconi, per non essere sopraffatto dall’eventuale scia Alpha dell’altro.
“Sicuro?” Insistette l’uomo, avvicinandosi ancora.
“Sicuro.” John accompagnò le parole con un vigoroso movimento della testa, sentendo il terreno sotto di sé muoversi in risposta al suo cenno.
Vertigini. La parola esplose nella sua mente come una condanna. Non sarebbe stato in grado neanche di camminare correttamente, per l’ultimo tratto di strada che gli rimaneva da compiere.
“Non sembri star bene.” La scia dell’uomo, debole, arrivò fino al medico, che sentì il respiro mozzarsi per il sollievo. Beta. Innocuo, almeno a giudicare dal suo odore.
Gli venne da ridere, scosso dai brividi caldi della febbre, la testa stretta in una morsa.
Per almeno qualche altro secondo, avrebbe potuto respirare.
 
Aveva camminato per più di un’ora, prima con passo sicuro - il viso quasi del tutto coperto da la sciarpa di Sherlock, tenuta premuta contro il naso – poi sempre più lentamente, le gambe pesanti ed il respiro corto.
Qualche passante, all’inizio, si era fermato ad osservarlo senza troppo interesse.
Curiosità, prevalentemente.
Un paio di Omega, stretti al braccio del proprio compagno, lo avevano invece seguito con gli occhi, increduli. Il suo odore non mentiva, non avrebbe potuto. Eppure, nonostante il proestro in pieno svolgimento, quell’uomo stava camminando per strada, completamente coperto, solo.
John, ad ogni sguardo, aveva stretto con ancora più forza la sciarpa attorno al collo, aggrappandocisi con disperazione.
L’odore del detective, forte, legato in ogni fibra di lana, serviva a ricordargli perché lo stesse facendo, un memento olfattivo che gli sarebbe stato utile soprattutto quanto febbre e stanchezza avrebbero provato ad avere la meglio su di lui, fiaccando le sue gambe e rallentando il suo passo. Inoltre, la scia di Sherlock confondeva quella degli altri, rendendo a John sopportabile camminare in strada, nonostante ogni Alpha libero che incontrasse accentuasse la propria traccia, in modo volontario o meno.
Aveva cercato di camminare sempre su percorsi conosciuti e strade trafficate.
Gli input sensoriali erano molti, destabilizzanti, ma le probabilità di venir approcciato in modo aggressivo venivano in quel modo notevolmente ridotte, quasi azzerate.
Non era nel pieno dell’estro, e nessun Alpha avrebbe potuto aggredirlo in strada trincerandosi dietro alla forza della sua scia e alla naturale necessità fisiologica di risponderle.
L’aggressione ad un soggetto Omega – nonostante stesse sovvertendo pressoché ogni regola di sicurezza personale e di condotta sociale accettabile - non era consentita: se qualcuno avesse provato ad avvicinarsi a lui in modo violento in pieno luogo pubblico, con molta probabilità sarebbe stato fermato.
Questo a patto che rimanesse su vie frequentate: non appena isolato in una zona secondaria, nessuno avrebbe più dato peso a lui, né avrebbe provato a bloccare un eventuale attacco nei suoi confronti.
Col passare del tempo e l’intensificarsi della febbre, però, mantenersi sulle strade principali era divenuto sempre più complicato.
Il suo odore, reso ancor più forte dalla temperatura corporea elevata e dal sudore, era ormai divenuto palese, tanto che chi aveva incontrato per la strada non si era più limitato a semplici occhiate ma, in almeno un paio di casi, lo aveva seguito per qualche centinaio di metri, in attesa e con la speranza che svoltasse in una zona più appartata.
John aveva continuato a camminare, testa bassa, chiudendo gli occhi ogni tanto, con in mente un solo pensiero: “Fa’ che non mi chiedano di fermarmi.”
In una condizione normale, in quella fase del ciclo, già una richiesta in tono fermo da parte di un Alpha avrebbe avuto l’effetto di farlo ubbidire, quanto meno come primo istinto.
Sconvolto da febbre e stanchezza, sarebbe stata sufficiente la pressione di una mano su un braccio ed un sussurro, per costringerlo a seguire ad occhi bassi chiunque glielo avesse chiesto.
Alla fine, dopo più di quaranta minuti di cammino, era successo.
Aveva appena superato la National Portrait Gallery quando un Alpha, proveniente in senso opposto, lo aveva bloccato, fermandolo per le spalle.
John aveva provato a divincolarsi, con l’unico risultato di far scivolare la sciarpa di lato, scoprendogli il viso e rendendo vulnerabili naso e bocca.
“Non dovresti girare da solo.” Gli aveva soffiato contro l’altro, un sorriso storto a corollario di uno sguardo divertito. “Succedono brutte cose a quelli come te, se se ne vanno in giro nelle tue condizioni.”
John aveva respirato l’eccitazione nella sua scia, sentendo le gambe farsi rigide, pronte a sgretolarsi. Con occhi lucidi e vista appannata, aveva messo a fuoco a fatica l’abito elegante dell’altro, probabilmente un professionista appena uscito dall’ufficio.
“Dove te ne vai?” Gli aveva domandato l’uomo, spostandolo con gentilezza verso il vicoletto tra la Orange Street Congrecational Church ed il palazzo successivo, rispondendo con un sorriso cordiale a due uomini che avevano ridotto l’andatura passando loro vicino.
“Tutto bene, è un amico.” Aveva aggiunto, rivolto ad un gruppo di giovani donne Alpha che si era fermato ad osservare la scena, dubbioso. Queste, dopo qualche secondo, avevano continuato a comminare, proseguendo oltre.
John si era lasciato condurre docilmente, cercando di rimanere concentrato.
Per un attimo aveva azzerato ogni difesa, respirando a pieni polmoni, così forte da sentirli dolere. Aveva bisogno di aria. Di pensare. Non aveva più incamerato tanto ossigeno dal suo primo passo oltre la porta di Baker Street, e per un secondo – nonostante la scia dell’uomo tanto forte attorno a lui - si sentì meglio.
L’ombra del vicolo li aveva accolti, inghiottendoli, celandoli alla vista degli atri.
John si era trovato premuto contro il muro ancor prima di aver realizzato concretamente di essersi mosso.
C’era qualcosa, nel modo in cui quell’uomo gli respirava addosso, che lo aveva atterrito.
Andava oltre ad una risposta ormonale. Con un Alpha ed un Omega tanto vicini. Aveva a che fare con la violenza, con il peso dell’uomo schiacciato con forza eccessiva contro il suo sterno.
Gli aveva ricordato un commilitone - in una delle lunghe notti in Afghanistan - trovato in una cella, sopra un miliziano Beta che avevano in custodia.
Il prigioniero, ridotto un cumulo di singhiozzi scomposti, aveva allungato una mano verso John in cerca di aiuto, mentre lui, orgogliosamente premuto sopra quel corpo martoriato, gli aveva rivolto uno sguardo fiero, carico della superbia di chi aveva fatto valere la propria forza su qualcuno incapace di difendersi.
Negli occhi di quel militare John aveva visto la stessa luce scura nella quale si stava nuovamente specchiando, nell’ombra di un vicolo.
“Non siamo mera usta”, aveva detto Sherlock, e John – solo in quel momento – aveva davvero capito.
Che esisteva una differenza, tra chi combatteva i propri istinti per rimanere libero, e chi si abbandonava a loro, con la scusa di esserne schiavo.
Il medico aveva quindi allargato le gambe, lasciando che l’altro facesse altrettanto.
L’uomo aveva appoggiato un ginocchio contro il muro, infilandolo tra le cosce di John, e aveva scavallato con la  gamba sinistra quella destra del medico, per riuscire a spingersi con più forza contro di lui in attesa di riuscire a tenerlo sufficientemente fermo da poter iniziare ad usare le mani liberamente, per spogliarlo.
John aveva chiuso gli occhi, sforzandosi di sintonizzare la propria scia su un sentore che potesse farlo apparire disponibile, aspettandosi in risposta una reazione scomposta dell’altro.
“Così va’ meglio.” Gli aveva sbuffato l’uomo contro il collo, e John lo aveva sentito rilassarsi contro di lui.
Era stato allora che lo aveva colpito: un colpo secco, il suo ginocchio contro il basso ventre dell’altro. L’uomo aveva rantolato, facendo un passo indietro con sguardo sorpreso, prima di piegarsi su se stesso, mani a protezione dei genitali, prono.
John aveva provato per un secondo la sensazione di un terrore puro, azzerante.
La scia dell’altro era talmente carica di odio e dolore, che il medico aveva dovuto ricorrere a tutta la propria forza per resistere alla tentazione di accucciarsi ai suoi piedi in cerca di perdono.
Con passo incerto si era mosso verso la strada principale, accompagnato da i gemiti dell’uomo e dalla sua scia, satura di risentimento.
Alla fine, con l’ultimo residuo di volontà rimasta, aveva iniziato a correre, senza voltarsi.
 
“Credo di avere un po’ di febbre.” John si voltò verso lo sconosciuto, sbattendo un paio di volte le palpebre per riuscire a metterlo a fuoco correttamente.
“Dio.” Esalò l’altro, quando gli fu sufficientemente vicino da poter percepire il suo odore. “Non dovresti essere in strada.” L’uomo si passò una mano sulle labbra, teso.
“Lo so.” Disse il medico, con voce roca, tutta la fatica racchiusa in quelle due parole. “Ma devo arrivare in un posto. È… È importante.” Cercò di spiegare, tornando ad appoggiarsi al muro.
“Posso chiamarti un taxi.” Propose l’altro, alzando un sopracciglio. “Magari richiedo una Beta donna, che ne dici?” Azzardò.
“No.” John scosse la testa, spingendosi con più forza contro la parete, cercando di non cadere.
“Devo farlo in questo modo, o non funzionerà.” Aggiunse, portandosi una mano al viso.
“Non capisco.” Ammise l’uomo, con voce genuinamente preoccupata.
“Non ha importanza. Devo solo arrivare lì. C’è un…” John si bloccò, incapace di trovare le parole adatte. Si diede una spinta con il bacino, tentando di muovere qualche passo.
“C’è una persona. Devo andare, o rischio di perderla per sempre.” Riuscì a dire, allargando appena le braccia per mantenersi in equilibrio mentre il vicolo si piegava e storceva sotto il suo sguardo esausto.
“E devi andare a piedi.” Cercò di riassumere lo sconosciuto, confuso.
John annuì, avviandosi verso di lui, diretto alla strada principale alle sue spalle.
“Devi farlo necessariamente da solo?” Gli domandò l’altro, girando su se stesso e affiancandosi al medico.
“Mhm?” Chiese il John, senza capire.
“Devi andare lì a piedi e da solo?” Cercò di spiegarsi meglio l’uomo.
“Sì.” John fece un paio di passi, stremato, fiotti di nausea che gli risalivano lungo la gola.
“È molto lontano?” Continuò l’altro.
“Ancora una ventina di minuti.” Sussurrò il medico, alzando una mano per sorreggersi al muro del vicolo.
“Se ti accompagno per un po’, pensi potrebbe comunque funzionare?” L’uomo gli sfiorò un braccio, cercando di attirare la sua attenzione.
John si voltò a guardarlo, respiro corto e pelle in fiamme.
“Perché?” Domandò, spingendo a forza le parole oltre la barriera delle proprie labbra, secche e screpolate.
“Mia sorella è si è determinata un paio di giorni fa.” Lo sconosciuto si aprì in un sorriso dolce, accompagnato da uno sguardo triste. “È disperata. Vorrei tornare a casa e raccontarle di un Omega che ha camminato per la città diretto da un amico, nonostante la sua… condizione. Che l’ho visto farcela.”
John osservò gli occhi dell’uomo velarsi appena, prima di tornare su di lui, carichi di disponibilità.
“Fino ad un isolato prima.” Acconsentì, sperando che la sua decisione non costasse la vita a Sherlock. Ad ogni modo, da solo, non sarebbe mai riuscito a raggiungere l’indirizzo che Moriarty gli aveva fornito.
“Bene.” L’uomo gli avvolse un braccio attorno ai fianchi, sollevandolo appena.
“Tua sorella è fortunata.” Riuscì a soffiare fuori il medico, prima di spostare la sua intera attenzione – in silenzio – sui propri passi.
“Anche il tuo amico.” Gli rispose l’altro, aiutandolo ad uscire dal vicolo.
 
***
 
Sherlock aprì la porta d’ingresso lentamente, cercando di farle fare meno rumore possibile mentre girava sui cardini.
L’ingresso, immerso nella penombra, era silenzioso, l’odore di John quasi del tutto assente.
Il detective rimase immobile qualche secondo, ascoltando il proprio corpo reagire al tepore presente in casa dopo ore trascorse per le strade di Londra con addosso solo la tuta.
La signora Hudson, viso teso e mano tremante, socchiuse la porta del proprio appartamento, emergendo dal buio illuminata della luce tenue proveniente dal corridoio dietro di lei.
Sherlock le lanciò un’occhiata interrogativa, inclinando la testa da un lato.
“Pensavo fosse John.” Gli disse la donna, con voce tesa, ed il detective corrugò la fronte, senza riuscire a capire.
“John non può rientrare a Baker Street, signora Hudson. Ed il motivo è semplice: non può uscirne, al momento.” Le rispose, con il tono di chi stesse esternando un’ovvietà.
L’anziana scosse la testa, rigida. “In realtà è uscito più di due ore fa, dopo avermi detto di chiudermi in casa…” Disse, portandosi due dita alle labbra, in un gesto confuso.
“Quello che sta dicendo è assurdo. Niente, mi creda, niente lo convincerebbe a…”
L’immagine di John - in piedi di fronte a lui, la scia carica di vergogna -  gli esplose davanti agli occhi, e Sherlock si bloccò, le parole ed il gesto annoiato della mano congelati dalla nascita di un pensiero.
“Dio, non può essere davvero tanto idiota!” Ringhiò, dirigendosi a passo svelto verso la porta della stanza interrata, seguito da una preoccupata signora Hudson, stretta nella propria vestaglia.
“Dov’è, dov’è, maledizione!” Sherlock diede un colpo al tavolo, spostandolo. La piastra appoggiata al vetrino del microscopio slittò di lato, rovesciandosi.
Il detective la guardò cadere con la coda dell’occhio, accovacciato sul pavimento, concentrato a rovistare tra i fogli a terra.
Dopo qualche attimo si bloccò, stringendo le dita attorno a quello che stava cercando.
Si alzò, girando il cellulare in modo da poterne vedere lo schermo.
Sei chiamate senza risposta, cinque di John ed una di Lestrade.
Sherlock sbloccò l’apparecchio e se lo portò all’orecchio, voltandosi velocemente verso la signora Hudson.
“Quanto tempo fa ha detto che è uscito?” Chiese, riattaccando con una mezza imprecazione.
“Erano circa le sei. Mi ha ordinato di chiudermi nel mio appartamento e se n’è andato.” Rispose la donna, con la voce malferma.
“Tutto qui? Non le ha detto dove stesse andando, o il motivo per il quale doveva rimanere in casa?” Domandò l’altro, facendo partire un’altra telefonata verso il numero di John.
La signora Hudson fece cenno di no col capo, nello sguardo un misto di ansia e senso di colpa.
“Ho provato a chiedere, ma-“ Iniziò, venendo interrotta dal passaggio del detective, passo veloce e testa china, diretto al piano di sopra.
“Sherlock!” Provò a chiamarlo, seguendolo fino alle scale. Lui sembrò non sentirla, e continuò a salire, quasi correndo.
Arrivato al primo piano,  svoltò a destra, inciampando nel primo gradino della rampa che portava alla stanza di John. Si rialzò in fretta, ignorando la fitta che gli aveva appena attraversato la caviglia sinistra.
Una volta in cima, trovò la porta spalancata e la stanza ingombra di un disordine concentrato principalmente attorno all’armadio e alla scrivania. Gli abiti erano quasi tutti a terra, gettati alla rinfusa nell’aria attorno alle ante. John doveva essersi inginocchiato a terra, buttandosi alle spalle quanto non gli era utile.
Sherlock analizzò i vestiti, cercando qualche indizio su cosa il medico avesse potuto cercare con tanta foga. Non potevano essere inibitori, perché li aveva gettati davanti ai suoi occhi nel gabinetto la sera dell’aggressione e non aveva più avuto occasioni per procurarsene di nuovi, anche volendo.
Il detective si avvicinò alla scrivania, osservando il cassetto sotto di essa aperto con tanta forza da essere uscito dalle guide. Passò le mani tra le carte, alzandole. Con rabbia le accartocciò e buttò a terra, grattando con le unghie contro il legno del fondo.
Fu allora che vide la scatola, nascosta da una serie di lettere tenute assieme con un piccolo cordoncino marrone. La tirò fuori, rovesciandone il contenuto sulla scrivania e contando velocemente, affannato.
Lasciò cadere il cartone vuoto a terra, contando ancora una volta.  Un caricatore da quindici cartucce pieno, più cinque proiettili sfusi.
Si chinò a terra, recuperando la scatola, finita su una pila di carte ammucchiate. Se la rigirò tra le mani, con foga, fino a trovare ciò che gli occorreva: “SIG Sauer P226 X-Five – 9x21 – 35C”.
Venti proiettili erano di fronte a lui. Altri quindici - un intero caricatore - era sparito, assieme alla pistola.
“Dannazione!” Ringhiò, aggrappandosi al bordo della scrivania con le mani, tanto forte da farsi sbiancare le nocche.
Chiuse gli occhi, cercando di valutare le varie possibilità.
John non era scappato da lui, non aveva alcun senso farlo con un’arma caricata con quindici proiettili. Doveva essersi sentito minacciato, o aver percepito un possibile pericolo per qualcuno. Aveva preso qualcosa dall’armadio, poi la pistola, ed era uscito, provando comunque a contattarlo più volte.
Sherlock si portò le mani alle tempie, cercando di concentrarsi. L’immagine di John, da solo all’esterno, continuava a presentarsi alla sua mente, distraendolo.
Perché lo aveva chiamato? Perché era in ginocchio davanti all’armadio?
Lo focalizzò in piedi, davanti a sé, ancora con pantaloncini e canottiera.
“Vorresti venire a cena?” Gli chiese il medico, con un sorriso.
“Non puoi uscire così. Ti attaccherebbero.” Sherlock allungò una mano verso di lui, cercando di sfiorarlo.
“Sono un militare Sherlock. Pensi davvero che uscirei così?” Gli rispose l’altro, improvvisamente a terra, seduto di fronte al proprio armadio, completamente vestito.
Il detective spalancò gli occhi, schiudendo la bocca.
Si era coperto. Il più possibile. Poi aveva preso la pistola.
Sherlock recuperò il cellulare dalla tasca dei pantaloni e fece partire una chiamata, dirigendosi velocemente verso la porta, il telefono premuto contro l’orecchio.
“Fratello caro.” Lo salutò Mycroft, dopo un paio di squilli.
“Ho bisogno dei tuoi occhi, Mycroft.” Il detective scese le scale correndo, tenendosi con la mano libera alla parete. “John è uscito, devi dirmi dov’è.” Ansò appena, entrando in salotto.
Riattaccò e gettò il telefono sul divano, diretto con passo rapido in camera sua.
“La pistola, la pistola.” Cantilenò, le parole che uscivano dalle labbra socchiuse insieme al suo respiro affannoso.
Lanciò uno sguardo al letto, pronto a sollevare il materasso per recuperare l’arma, nascosta tra la rete e l’imbottitura.
La presenza del pacchetto, una macchia rosso sangue sulle lenzuola bianche, lo costrinse a fermarsi, già piegato in avanti, pronto a far leva con le braccia per sollevare tutto.
Lo osservò per qualche secondo, socchiudendo gli occhi.
Poi lo afferrò, scartandolo con gesti rapidi, violenti.
Aggrottò la fronte, rigirandosi il contenuto tra le mani, spaesato.
Un libro.
Ne osservò la copertina consunta, passandoci le dita sopra, attento.
Lo aprì, trovando una dedica scritta con grafia elegante.
 
Ti aspetto a casa.
 
Si portò il volume al viso, annusando la carta e l’inchiostro. Il libro era vecchio, consumato, ma la dedica no, quella aveva ancora l’odore tipico della china fresca.
Sherlock chiuse nuovamente il romanzo, per osservarne meglio l’immagine stampata sulla copertina.
Un uomo, in abiti eleganti, teneva davanti al viso una mano, in gesto di protezione. Poco sotto di lui, una donna dall’aria spaventata, si allontanava atterrita da una statuina bronzea, rilucente.
Perché gli sembrava così familiare? [1]
Sherlock si concentrò sul titolo, tentando di richiamare alla mente l’immagine che sentiva premere in qualche angolo nascosto dei propri ricordi.
“Ten little niggers.” Sussurrò, continuando a fissare l’immagine.
C’era qualcosa, qualcosa che non riusciva ad afferrare.
Dita conosciute, strette attorno a quei visi disegnati.
Chi era… Dove?
Quando?
 
“Cosa leggi?”
“Un libro giallo. Dovresti leggerlo, ti piacerebbe.”
 
Il ricordo esplose sotto ai suoi occhi, carico di ogni dettaglio dimenticato, creduto perso, cancellato dal Soma.
“Non ho tempo per questo, Victor.” Ringhiò, lanciando con rabbia il volume contro l’armadio, guardandolo poi cadere ed aprirsi, le pagine sollevate verso il soffitto in un urlo di carta e inchiostro.
Il detective tornò a voltarsi verso il letto, sollevando il materasso e spingendolo di lato fino a scoprire la pistola.
Si allungò sulla rete, ginocchia contro il metallo e dita della mano sinistra strette attorno alle sue maglie, la destra sollevata sopra l’arma.
L’afferrò e tornò in posizione eretta, controllando con un movimento veloce che fosse carica.
Si avvicinò alla porta, dando un’ultima occhiata al volume.
Come era finito sul suo letto? Victor era tornato a cercarlo, durante il pomeriggio? Poteva avere un collegamento con John e con la sua scelta?
Scostò con un piede le pagine sollevate, schiacciandole tra la suola ed il pavimento.
Qualcosa, appena sopra la punta della sua scarpa, attirò la sua attenzione, e si chinò per poter leggere meglio.
 “Cosa…” Riuscì a dire, sollevando il romanzo per un margine.
Rilesse più volte lo stesso punto, confuso.
Scorse all’indietro, arrivando fino alla prima pagina, dedicata alla presentazione dei personaggi principali.
Spalancò gli occhi, schiudendo le labbra in un’espressione sbigottita.
Uno dopo l’altro, nomi conosciuti si susseguivano, vicini come li aveva immaginati qualche giorno prima, durante una passeggiata nel suo Mind Palace.
Donne, uomini, di qualunque età e ceto.
Li ricordava perfettamente, uno ad uno.
Li conosceva.
L’ultimo, Henry Blore, era stato ripescato da una vasca dello zoo di Londra solo il giorno prima. [2]
“Cosa…” Boccheggiò nuovamente, continuando a muovere gli occhi sulla pagina ingiallita.
Nessun altro punto di contatto - a giudicare dalla loro descrizione - oltre al nome, tra le vittime ed i personaggi del romanzo, ad eccezione di “Lawrence John Wargrave”, giudice anche nell’opera. [3]
Il suono del suo cellulare, dal salotto, lo riportò in sé, e Sherlock si lasciò scivolare il libro tra le dita, correndo fuori dalla stanza.
“Dove.” Chiese, la voce ridotta ad un ringhio sordo.
“L’ultima immagine in nostro possesso lo colloca nei pressi della Church of the Immaculate Conception, Farm Street, circa quaranta minuti fa. Era insieme ad un uomo, e-“ Rispose Mycroft, con voce calma, venendo interrotto bruscamente da un sibilo di Sherlock, carico d’ira.
“Victor?!” Ringhiò il detective, cercando con gli occhi il cappotto. Non era possibile ancorare la pistola ai pantaloni della tuta, e aveva bisogno di tasche larghe dove riporla, durante la corsa che si stava preparando mentalmente a fare.
“Victor?” Ripeté il maggiore, un vago momento di incertezza nella voce.
“ERA VICTOR TREVOR L’UOMO CON LUI?!” Ruggì Sherlock, chiudendosi con gesti spezzati nel cappotto.
“Se è del tuo diletto compagno di giochi dell’adolescenza che parli, no, non era con lui.” Rispose l’altro, gelido. “Almeno che non sia divenuto più alto di circa venti centimetri negli untimi diciotto anni.” Aggiunse, con voce tagliente. “Sarebbe troppo chiedere cos-“
Sherlock chiuse la telefonata, lasciando il telefono cadere a terra.
Occhi neri e respiro pesante, uscì da la stanza.
Church of the Immaculate Conception distava solo poche centinaia di metri da Waverton Street, la strada dove aveva trascorso un mese intero lontano da casa, un’estate di molti anni prima.
John poteva essere con uno dei Beta di Victor, poteva…
Sherlock strinse le dita attorno all’impugnatura della pistola, impedendosi di concludere il pensiero, ed uscì da Baker Street senza voltarsi, lasciando la porta spalancata.
La signora Hudson, ancora in attesa ai piedi delle scale, lo vide passarle davanti senza riuscire a fermarlo. Lo seguì in strada, stringendosi con le dita la vestaglia attorno al collo, tentando di richiamarlo, terrorizzata, ma il detective era già lontano, impegnato in una corsa disperata.
 
Ti aspetto a casa”, aveva scritto Victor.
E lui aveva iniziato a correre, sperando di arrivare in tempo.
 
 
Note:
 
[1] Per chi si stesse chiedendo come sia possibile che Sherlock non ricordi ogni più piccolo particolare… Avete ragione, solitamente lo fa. Ma ho scritto più volte che tutto ciò che era legato a Victor era stato relegato in uno spazio isolato della sua mente, volutamente “intaccato” dall’assunzione del Soma proprio con l’intenzione di far affievolire il ricordo. È poi altrettanto vero che Sherlock non tenga nota di ogni cosa, soprattutto se da lui giudicata “inutile”. Si presume che un volume che quasi vent’anni prima aveva visto tra le mani di qualcuno che, oltretutto, sta tentando in tutti i modi di dimenticare, non sia tra le cose “vitali” da tenere a mente per il nostro detective.
[2] Gli omicidi sono stati rimaneggiati, ma seguono sempre la linea “generale” del romanzo di Agatha Christie (“Dieci piccoli indiani”, nella versione italiana.) Mi piacerebbe tantissimo analizzarli nello specifico uno ad uno con voi, ma sarebbe davvero complicato.
Quindi, a mero intento esplicativo, userò l’ultimo cadavere, Henry Blore: nel romanzo William Henry Blore (ex agente di polizia che ha intrapreso la carriera di investigatore privato) viene trovato con il cranio fracassato da un grande orologio a forma di orso.
Ci sarebbe poi da analizzare come un romanzo esistente possa essere inserito in un contesto AU come questo. Non avrebbe dovuto parlare, a sua volta, di Omega, Beta e Alpha? E se sì, come? Ho deciso di bypassare la questione, in modo piuttosto semplice: se noi scriviamo di loro, immagino che qualcuno (una fantomatica “Christie Alpha Plus”), possa immaginare di un mondo senza classi e scie, in modo da creare un romanzo dove non si riesca a capire chi sia il colpevole seguendone semplicemente l’odore “in giro per la villa.”
[3] Richiamandoci a quanto detto al punto due, diventa ora chiaro perché Jim dica al giudice:
“Non è niente di personale nei tuoi confronti. Semplicemente, tu sei il migliore che ho trovato. Anzi, lasciatelo dire: rasenti quasi la perfezione.”
 
Angolo dell’autrice:
 
Capitolo di passaggio, relativamente corto.
Mi premeva per prima cosa non abbandonare il ritmo di pubblicazione, quasi sempre attestatosi su i due capitoli la settimana.
Secondo poi, volevo che Sherlock (e noi con lui) arrivasse ad una prima (enorme) conclusione prima di giungere al cospetto di “Jim Moriarty”, così come mi premeva che fosse chiaro che nessuno lo aveva rapito.
Perché, almeno per me, uno Sherlock rapito è davvero l’ultima cosa che può accadere, e per farlo succedere deve esserci un contesto che lo consenta senza divenire assurdo.
Di base, nessuno rapisce Sherlock, nella serie. Mai. Magari viene un po’ strapazzato (e ringraziamo per questo “La Donna”), messo alle strette, ma mai reso inoffensivo e caricato di peso da qualche parte contro il proprio volere (se si esclude John che lo riporta a casa post Adler).
È sempre lui, in caso, ad infilarsi a piedi uniti nel pericolo.
Così lo vedo, così è stato rappresentato.
Un’ultima parola su Victor/Jim: mi sono permessa questo azzardo per due motivi: di Victor, anche nel canone, si dice molto poco, e quel poco è legato ad un passato lontano nel tempo di Sherlock. Cosa gli sia accaduto successivamente non è dato sapere. Di contro, di Jim Moriarty (nella serie, perché nei libri ha un background lievemente più definito) non sappiamo nulla del suo passato, della sua infanzia, della sua adolescenza, di cosa l’abbia reso ciò che è.
Ho quindi deciso di unire le due cose, dando a Jim “un motivo in più” (lo vedremo poi) e a Victor una valenza che vada oltre all’espediente letterario per far ingelosire John e spingerlo tra le braccia di Sherlock.
 
Come sempre grazie a tutti per aver letto fin qui, e per gli eventuali commenti.
Due capitoli alla fine. Siamo davvero vicini!
 
Un abbraccio,
B.
 
 
PS: vi aggiungo la copertina del romanzo nella versione da me usata per la storia. ^_^



PPS: Buona Pasqua! :D

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Capitolo 27
*** Tre piccoli indiani ***


[Dieci anni prima]
 
Sherlock, mani in tasca e sciarpa ben stretta attorno al collo, scese i pochi gradini del treno velocemente, piombando a terra con un tonfo.
Si spostò di lato, respirando a pieni polmoni l’aria di Londra, fredda, pungente, umida.
Restò vicino al vagone, ormai del tutto fermo, per alcuni minuti, osservando con sguardo famelico ogni persona attorno a sé.
Donne, uomini, bambini, un caleidoscopio di colori e odori, voci che si mescolavano in un brusio composito, carico di mille parole e senza il senso preciso di nessuna di esse.
Dio, quanto gli era mancata, quella confusione carica di vita. Di indizi.
 
Nei tre mesi trascorsi nella clinica di Luton, a nord della capitale, l’unico passatempo a lenimento della noia sempre più forte erano stati i pochi visitatori che nei fine settimana arrivavano al centro per trovare i propri cari, carichi delle loro coscienze pesanti, in cerca di perdono.
Mycroft non si era mai fatto vivo, ma non aveva mancato di inviargli, ogni settimana, un pacchetto di sigarette ed i soldi necessari a provvedere alle proprie necessità durante il periodo di riabilitazione, l’ennesimo, nell’arco di dieci anni di assunzione più o meno costante di Soma.
Il maggiore aveva insistito lungamente che una macchina andasse a prelevarlo per riaccompagnarlo a Londra, ma Sherlock aveva rifiutato, fermo.
Aveva perso fin troppo tempo, per regalare ancora ore preziose della propria vita ai dettami del fratello. E, come si era premurato di ripetergli più volte, se aveva deciso di ricoverarsi era stato solo perché si era reso conto di aver assunto dosi così elevate del farmaco da iniziare a vedere alcuni rallentamenti delle proprie capacità celebrali anche lontano delle somministrazioni.
“Spero sia chiaro che stia accettando per il semplice fatto di essere conscio di dovermi prendere una pausa. E nessun posto è migliore per farlo di uno dove ti impediscano di drogarti somministrandoti altre droghe.” Gli aveva detto, sarcastico, durante il loro ultimo colloquio prima della partenza.
“Certo, fratellino.” Mycroft aveva sospirato, e per un attimo, uno solo, era apparso stanco, teso. “Cristallino, come al solito.” Aveva aggiunto, un rapido arricciarsi del naso ed uno sguardo serio negli occhi, prima di uscire da Baker Street con passi lenti e calibrati.
 
Sherlock chiuse gli occhi, godendo di ogni input arrivasse ai suoi sensi.
Londra. Non avrebbe mai avuto bisogno di altro, fin quando lei, le sue storture, i suoi abitanti e le loro mortali debolezze avessero continuato ad esistere.
Il fischio di un capotreno, poco lontano, lo scosse. Il detective aprì gli occhi di scatto, cercandolo con lo sguardo.
Lo trovò - carico di ogni piccolo indizio sulla propria vita familiare e professionale ben in evidenza tra le pieghe degli abiti ed i gesti apparentemente senza significato – e lo analizzò con attenzione, in fretta.
Aveva bisogno di sentirsi ancora capace di farlo, di farlo bene.
Aveva la necessità di sapere che, ancora una volta, ciò che era – che riusciva a fare - non fosse sparito, inghiottito dalla noia estenuante dell’inattività.
Come uno sportivo che torna ad allenarsi, iniziò a dirigersi verso l’interno della stazione, muovendo gli occhi su ogni persona entrasse nel proprio campo visivo.
Fedifraghi, madri disperate, ladri ed infelici, ognuno catalogato – rapidamente e con certezza - da un particolare, un gesto, un movimento del viso.
Sherlock si fermò al centro della hall di King's Cross, saturo di informazioni e carico di un’eccitazione che sentiva crescere nelle vene, veloce come il suo respiro accelerato.
Fu nel pieno di questo slancio di puro entusiasmo, che lo sentì.
Il suo odore.
Agre come era sempre stato, ma più forte. Più sicuro. Maturo.
Per qualche secondo pensò che fosse uno scherzo della propria mente, il risultato di un sovraccarico sensoriale.
Si guardò attorno, il respiro corto ed i sensi all’erta.
Nel continuo movimento di uomini e donne intorno a sé, scorse dopo poco una persona, immobile, circa trenta metri alla sua destra.
Riconobbe i suoi occhi ancor prima di riuscire a ritrovare, in quel viso, i tratti - affinati dal tempo - di Victor.
Trevor rimase immobile, inclinando semplicemente la testa da un lato, assieme ad un angolo delle labbra.
La sua scia, incurante di chi fosse loro intorno, virò verso un sentore carico di desiderio, vibrante quanto l’aria che li separava.
Non aveva più pensato a Sherlock, se non occasionalmente, durante qualche notte troppo solitaria.
Ma adesso che lo aveva nuovamente di fronte, non riusciva a pensare ad altro che non fosse averlo. Non era importante per quanto, o dove. Lo voleva, e come ogni altra cosa avesse desiderato negli ultimi anni, l’avrebbe ottenuta con facilità.
Nessuno dei due era più un ragazzo, ognuno aveva preso strade diverse. Ma certe cose, pensò, non possono cambiare.
Sherlock lo osservò avvicinarsi con passo tranquillo, volutamente lento, negli occhi uno sguardo ferino, carico di tutta l’eccitazione che non si vergognava di esternare.
La casualità di un incontro divenuta improvvisamente una necessità impellente, che richiedeva un espletamento rapido, immediato. Violento.
Aspettò che Victor si bloccasse a pochi centimetri dal suo viso, occhi allegri ed aria divertita.
Lasciò che il suo odore li avvolgesse, saturando ogni respiro.
Sapeva cosa stava chiedendo. Voleva il potere di vederlo chino ai suoi piedi, ancora una volta.
“Ciao.” Gli sussurrò quasi sulla bocca Victor.
“Ciao.” Ricambiò il detective, abbozzando un sorriso.
“Scegli dove, non mi importa.” Il respiro caldo di Victor si sparse sul viso di Sherlock, carico di ogni secondo di lussuria passato assieme che adesso veniva, prepotentemente, reclamato.
Sherlock chiuse gli occhi, chinandosi verso di lui, le labbra a sfiorare l’orecchio destro dell’altro.
“Non mi servi.” Sussurrò, lasciando la propria scia libera di sottolineare quanto appena detto con l’intensità olfattiva di un rifiuto netto.
Si fece scivolare le parole tra le labbra, morbide, intrise di un senso di rivalsa e liberazione.
Tornò in posizione eretta, godendo degli occhi improvvisamente saturi di ira dell’altro. Un battito di ciglia, e l’espressione di Victor mutò, tornando allegra. Si alzò in punta di piedi, appoggiando una mano al petto dell’altro in cerca di sostegno.
“Non vorrai dirmi che serbi ancora rancore, dopo tutto questo tempo…” Rise, la bocca praticamente su quella di Sherlock.
“Oh, no.” Rispose l’altro, spostandosi quel tanto da allontanare i loro visi. “Nessun rancore.” Specificò, sorridendo. “Mi sei indifferente.”
Sherlock fece un passo indietro, osservando l’altro perdere per un secondo l’equilibrio.
“Non ci credo.” Victor alzò le spalle, negli occhi una luce giocosa ma la scia cangiante, irrequieta.
“Ho una relazione stabile, adesso.” Spiegò Sherlock, cercando nella tasca del cappotto il pacchetto di sigarette.
“Non ne hai l’odore.” Soffiò l’altro, arricciando per un attimo le labbra.
“Oh, non potrei.” Sherlock si portò una sigaretta alla bocca, facendo scattare l’accendino. “Non è una persona. Le persone sono inutili. Tutte, nessuna esclusa. E sei stato proprio tu a dimostrarmelo.” Piccoli cerchi di fumo denso si alzarono davanti agli occhi del detective, uno per ogni parola. “Chi ha pulsioni ha dei limiti, lo sai?” Domandò poi, divertito, facendosi uscire il fumo residuo dal naso, lentamente. “Io non ne ho. Ho il mio lavoro. A lui sono Legato e solo a lui mi mostro prono.” Sherlock staccò le labbra dalla sigaretta, e se la girò tra le dita, porgendola all’altro dal lato del filtro, la fiamma verso palmo della mano. “Vuoi?” Chiese, in un’imitazione grottesca dei loro scambi di sostanze, anni prima.
Victor osservò il fumo alzarsi tra le dita del detective, tese verso di lui. Con un movimento rapido, strinse la mano attorno a quella di Sherlock, spingendo con forza la sigaretta contro la pelle chiusa a pugno attorno a lei.
Il detective aspettò impassibile che l’altro allentasse la presa, e lasciò cadere il mozzicone, spezzato e spento, a terra.
Si portò la mano vicino al petto, osservando divertito la piccola bruciatura al centro del palmo.
“Ti auguro un buon proseguimento.” Disse quindi, ancorando i propri occhi a quelli adesso incendiati di furia dell’altro, abbozzando un sorriso.
Si voltò, mani in tasca e scia carica di soddisfazione, allontanandosi in direzione dell’uscita.
Victor rimase immobile, osservando Sherlock sparire tra la folla, nel petto una sensazione di furore accecante.
 
***
 
Gregory Lestrade si girò il telefono tra le mani, guardando con aria assorta davanti a sé.
John non lo aveva contattato allo scadere delle sei ore, e non si era fatto vivo neanche dopo le ulteriori due, concordate come il punto massimo di silenzio consentito prima che scattasse l’allerta. Sherlock, a sua volta, non aveva risposto a nessuna delle tre telefonate che gli aveva fatto.
L’Ispettore si portò nuovamente il cellulare all’orecchio, facendo un cenno con la mano libera al Sergente Donovan – ferma oltre la porta a vetri chiusa del suo ufficio -  di entrare.
La segreteria telefonica scattò quasi subito, e ad un ulteriore tentativo partì ancor prima che la comunicazione suonasse libera.
“Preparati.” Lestrade si alzò dalla sedia, aggirando la sua scrivania, diretto all’appendiabiti di fianco alla porta.
La donna gli lanciò uno sguardo confuso, assumendo un’aria interrogativa.
“Un nuovo omicidio?” Azzardò, voltandosi verso il superiore, già chiuso nel proprio cappotto.
“Non ne sono sicuro…” Iniziò l’Ispettore, infilando con gesti veloci guanti e sciarpa scuri.
Donovan aggrottò la fronte, e sottolineò il proprio smarrimento portandosi le mani ai fianchi.
“C’è stata una segnalazione?” Tentò, mentre Lestrade, già oltre la porta, le faceva cenno di uscire.
“No. Ed è questo a preoccuparmi.” Rispose lui, sbrigativo, incamminandosi attraverso la sala ingombra di scrivanie e poliziotti.
“Non credo di capire.” La donna lo seguì quasi subito, il rumore ritmato dei tacchi a sottolineare il disappunto insito nella sua camminata marziale.
“Non ce n’è bisogno, adesso. Fa’ preparare una macchina.” Lestrade si voltò verso di lei, continuando a muoversi verso l’ingresso, all’indietro. “Andiamo a Baker Street.” Terminò, dando un colpo con le spalle alle ante della porta a spinta, sparendo alla sua vista.
 
***
 
John si voltò un’ultima volta, grato, verso l’uomo che lo aveva sorretto durante l’ultima mezzora di cammino.
“Sicuro di voler continuare da solo?” Chiese lui, preoccupato dall’incedere incerto del medico.
John annuì appena, incapace di fare qualsiasi cosa all’infuori di respirare – in modo affannoso – e camminare, gambe molli e sguardo appannato.
“Va’…” Iniziò, cercando di sincronizzare bocca e polmoni. “Da tua sorella.” Soffiò fuori, in un solo respiro mozzato.
L’uomo fece cenno di sì con capo, rimanendo comunque immobile. John corrugò la fronte, imperlata di sudore, confuso.
“Mi hai detto di lasciarti ad un isolato di distanza, non di non seguirti con lo sguardo fin lì.” Spiegò l’altro, indicando la fila di abitazioni che si stendeva alla loro destra.
“Non… funzionerà.” John alzò una mano, in un ultimo tentativo disperato di sottolineare quanto di importanza vitale fosse che a fare gli ultimi metri fosse completamente solo.
L’uomo sospirò, gli occhi attenti sul viso stravolto dell’altro. John assunse un’espressione disperata, una supplica muta al suo accompagnatore di dargli ascolto.
“Va bene…” Acconsentì in fine l’altro, scuotendo la testa, poco convinto. “Mi sembra di starti abbandonando.” Aggiunse, a mezza voce.
“No.” John, con le ultime forze, abbozzò un sorriso tirato. “È ok.”
L’uomo sorrise a sua volta, teso. “Allora… Grazie.” Disse, prima di voltarsi per tornare su i suoi passi.
“Perché?” Chiese John, in un singhiozzo.
Ma l’altro era già troppo lontano per riuscire a sentirlo.
 
Il medico si lasciò cadere ai piedi dei gradini d’ingresso, ormai quasi del tutto cieco.
Col lentezza si portò una mano verso la testa, cercando di stringere tra le dita tremanti il cappello di lana, completamente intriso del suo sudore.
Provò un paio di volte, riuscendo infine a farselo scivolare di lato, poi su una spalla, infine a terra.
Sbottonò il cappotto, un bottone alla volta, fallendo ripetutamente prima di riuscire ad aprirlo tutto. Lo fece cadere dietro di lui, sul primo gradino dell’abitazione.
Doveva riuscire a togliersi anche il maglione, se voleva far abbassare la propria temperatura corporea quel tanto da poter impugnare la pistola senza rischiare che gli scivolasse tra le dita. Alzò le braccia più volte, per poi sentirle ricadere ai propri fianchi, senza forze.
Dopo qualche minuto, lasciandosi andare completamente a terra, riuscì a sfilare la testa e poi, aiutandosi con l’asfalto del marciapiede, anche le maniche. Un ultimo movimento, e scivolò fuori, sentendo l’aria fredda della sera allargarsi su di lui come un getto d’acqua gelata.
Rimase così, supino, il respiro corto ed irregolare, fin quando la porta dell’ingresso non cigolò, aprendosi.
John tentò di alzarsi, in fretta, diretto alla tasca sinistra del cappotto e all’arma al suo interno.
Si portò in posizione seduta, e girò il busto quel tanto da potersi allungare sui gradini.
Un calcio, in pieno petto, lo fece ricadere all’indietro, spezzandogli in respiro.
Rantolò, chiudendosi in posizione fetale, e si portò le braccia attorno al collo, in un automatismo di difesa.
Il cappotto cadde poco sopra la sua testa, colpito da un altro calcio. Dal suono che gli sentì fare nell’impatto con l’asfalto, la pistola doveva essere ancora al suo interno.
“Dottore, non mi crederà davvero tanto villano da aggredirla in strada!” Una voce, ovattata dalla febbre e dall’adrenalina, lo raggiunse oltre il muro delle proprie braccia.
“Su, si faccia dare una mano.”
John si sentì sollevare con forza, e cercò di lasciarsi andare a peso morto contro il terreno.
Una risata, assordante, gli esplose in un orecchio.
“Ho trascinato il corpo di un uomo per un intero zoo, Dottore. Pensa che abbia problemi a farlo con lei?”
Il medico si sentì schiacciare di lato, un piede premuto contro la spalla e poi sulla clavicola. Senza volere si ritrovò schiena a terra, il lato dentro del viso completamente scoperto.
Socchiuse gli occhi, cercando di capire se l’altro fosse armato. Inaspettatamente, si trovò a pochi centimetri dal viso di Victor Trevor, chino su di lui, un ginocchio sopra il suo corpo e l’altro a terra, premuto contro il suo fianco. “Jim Moriarty.” Si presentò, con tono allegro. “Ciao!” [1]
John schiuse le labbra, senza riuscire a capire.
“Ti vedo confuso, Johnny bello. Penso ti serva una rinfrescata.”
John si sentì sollevare per le spalle, energicamente. Provò a divincolarsi, ma Victor lo strinse con ancora più forza.
Il suo odore, carico di ogni possibile sfaccettatura, circondò il medico, inondandogli i polmoni.
Talloni contro i gradini, John venne trascinato con passo sicuro oltre la porta d’ingresso dell’abitazione, rimasta aperta.
“Sherlock?” Riuscì appena a sussurrare, ottenendo il cambio una risata piena di disprezzo.
“Non saprei.” Rispose l’altro, dando un colpo alla porta per farla chiudere. “Gli hai dato il mio regalo?”
 
***
 
“Freddo?” Moriarty [2], seduto gambe incrociate a terra, si sporse in avanti, stringendo le dita attorno alle piccole stecche metalliche.
John, piccole gocce d’acqua a solcargli il viso, lente, si allontanò il più possibile da lui, schiacciandosi con la schiena contro l’angolo opposto dell’angusta gabbia dove lo aveva rinchiuso, prima di versargli addosso un intero secchio d’acqua.
Riusciva a malapena a restare seduto, la testa lievemente piegata in avanti e le gambe al petto per il poco spazio, l’istinto naturale di tenere l’altro a distanza come priorità di ogni pensiero.
“No.” Gli rispose il medico, con voce tagliente. “A dire il vero un po’ di acqua fredda era quello che mi serviva.” Aggiunse, scostandosi con il dorso della mano una goccia troppo vicina agli occhi.
“Sì.” Jim si allargò in un sorriso allegro. “Lo so.” Con un movimento veloce, si portò in piedi, allargando le braccia come a simulare l’atterraggio dopo un salto mortale. “I problemi del Calore…” Cantilenò, ondeggiando la testa. “Raccontami, come ci si sente?”
John lo osservò fare i giro attorno alla gabbia, flettendosi poi con le ginocchia, portandosi all’altezza del suo viso.
“Benissimo.” Sputò fuori il medico, con ira, la voce ridotta ad un ringhio.
“Oddio!” Moriarty fece finta di spostarsi all’indietro, sorpreso. “Questo Omega ringhia!” Rise, scomposto, tornando serio subito dopo. “No, seriamente. Come ci si sente, Johnny? Perché ho impiegato davvero tanta fatica e taaaanti soldi a trovare qualcosa in grado di combattere gli inibitori prima, e velocizzare l’estro poi. Insomma…” Si avvicinò, a gattoni, negli occhi uno sguardo ferino. “Me lo devi.” Terminò, chiudendo gli occhi e respirando con un sorriso compiaciuto l’odore del medico.
John sentì la scia dell’altro farsi frizzante, carica di eccitazione. D’intinto portò viso e collo lontano dalle sbarre, spingendosi contro l’altra parete.
“Sherlock ha gradito?” Moriarty si portò, sempre a quattro zampe, dietro di lui. “Voglio dire, avete…?” Schiacciò il viso tra le stecche, inspirando profondamente. “No. Direi di no.” Velocemente si mise in piedi, ed iniziò a muoversi per la stanza vuota, occupata quasi per intero dalla gabbia posta al suo centro.
“Non capisco.” John spinse le parole fuori dalla propria gola a forza, guardandole giungere fino all’altro, che si immobilizzò, voltandosi verso di lui con un sorriso intenerito.
“Non ne dubito. C’è un motivo se appartenete agli strati più bassi della società.” Jim si portò una mano davanti alla bocca, fingendoimprovvisa contrizione. “Scusa, non volevo.” Aggiunse, con tono di scherno.
“Ad ogni modo mi congratulo per tutto ciò che sei riuscito a raggiungere nella vita, Johnny. Davvero. Un militare, un medico! Mi chiedo dove saresti, oggi, se gli Snubber non fossero mai stati inventati.” Jim fece un mezzo passo di danza, portandosi di nuovo accanto a lui. “Forse in una gabbia, ad un passo dall’implorare per un rapporto.”
John chiuse gli occhi, serrandoli con forza. Si portò le labbra tra i denti, stringendo. Doveva imporsi di rimanere concentrato. Cercare un modo per venirne fuori.
“Non sto implorando. E non voglio niente, da te.” Sibilò, avvolto nel buio delle proprie palpebre, gli altri sensi in piena allerta, oltre il muro della febbre.
“Sai.” Moriarty tornò a sedersi a terra, ed inclinò la testa da un lato. “Quando un uomo ha tutto… Potere, ricchezze… Può ottenere tutto.”
John abbozzò un sorriso, continuando a tenere gli occhi chiusi. “Se mai otterrai qualcosa da me, sarà dal mio cadavere.” Rispose, tranquillo, cercando di ignorare i fremiti caldi che gli scuotevano il corpo.
“VUOI SCOMMETTERE?!” La voce di Jim, un ringhio alto, assordante, riecheggiò per le pareti vuote della stanza, tornando verso John come una lama.
Il medico si chinò in avanti, portandosi le mani alla testa, a protezione delle orecchie, un guaito soffocato come unica risposta.
“Pensi che non abbia niente per farti arrivare all’estro conclamato?!” Continuò l’altro, abbassando il tono, improvvisamente calmo. “Pensi che mi ci vorrebbe molto a ridurti un ammasso di carne implorante, Johnny? È QUESTO CHE PENSI?!”
John si morse la lingua fino a sentire il sapore metallico del sangue, impedendosi di reagire in ogni modo a tutti gli input che gli stavano arrivando.
“Non sei sotto di me, Omega, solo perché non sei tu, che voglio ai miei piedi.”
Moriarty allungò il collo, prima da una parte, poi dall’altra, facendolo schioccare.
“Nessuno rifiuta qualcosa a me.” Sussurrò, chiudendo gli occhi. “Nessuno, mai, si dimentica di me.”
“È questo il problema? Il fatto che Sherlock ti abbia dimenticato?” John, occhi ora ben aperti, fissò l’altro, costringendosi ad assumere un’aria derisoria.
“O no, Dottore.” Rispose l’altro, rispondendo al suo sorriso. “Non è una questione di memoria, ma di potere.” Moriarty si diede una spinta con una mano, alzandosi. “Una volta che qualcosa è stato mio, sono io a scegliere quando finire il gioco. Nessun altro.”
John corrugò la fronte, confuso.
“Io e nessun altro, mai.” Ripeté l’altro, sussurrando, rivolto a se stesso più che al medico.
“Devo ammettere che la tua entrata in scena è stata magnifica, stupenda!” Jim sembrò scuotersi dai propri pensieri, e tornò a guardare John. “Mai mi sarei aspettato tanto!”
“Non ti seguo.” Il medico, testa inclinata verso il basso, cercò di mantenere comunque uno sguardo fermo sull’altro.
“Volevo fosse un tango a due… ma poi sei arrivato tu e… DIO!” Moriarty esplose in una risata alta, gracchiante, aguzza. “Dio, vedere Sherlock desiderare qualcuno per poi strapparglielo sotto i suoi stessi occhi!” La sua scia divenne lasciva, oscena, e John affondò il viso nell’incavo del gomito, per tentare di respirarne il meno possibile.
“Certo siete stati magnifici, lasciamelo dire.” Jim si leccò le labbra, lentamente.
“Tu e la tua piccola scia… Ti sei accorto che si fosse già riattivata, in parte, prima del mio… - continuò, portandosi il labbro inferiore tra i denti – “piccolo incoraggiamento”?”
John mosse gli occhi davanti a sé, cercando di capire. Gli apparve l’immagine della caffetteria, la sua fuga non appena la presenza del cameriere si era fatta intollerabile [*].
“Deve piacerti molto, Sherlock.” Riprese l’altro, con voce allegra. “Non posso darti torto. E non hai idea, oh, non ne hai affatto, di come sia muoversi sopra di lui…”
Un conato, caldo, risalì la gola di John, un misto della scia sempre più satura dell’altro e dell’immagine di Sherlock sotto l’altro, ansimante.
“La tua scia sta cambiando, Johnny bello.” Cantilenò Jim, ondeggiando appena. “Mhm.” Mugugnò, vizioso. “Hai un buon odore, quando ti ecciti. S. deve tenere davvero molto, a te, per non esserti saltato addosso.”
“Come…” John tossì fuori voce e saliva, cercando di non vomitare. “Come sai della scia?”
“Oh, io so tutto.” Moriarty si aprì in un enorme sorriso compiaciuto. “Ancora non lo hai capito? Tutto, è mio. Telecamere, se voglio. Uomini. Laboratori, università, scuole, bombe. È tutto qui, soooolo qui.” Disse, mostrando a John una mano aperta, e muovendo le dita.
“Io ho il passe-partout di ogni lucchetto, Johnny. Di ogni porta. Ed in un mondo di stanze chiuse , l'uomo con la chiave è il re . E, tesoro, dovresti vedere quanto mi doni, la corona.”
“Tutto questo… solo per qualcosa accaduto quasi vent’anni fa?” John osservò l’aria di folle lucidità di Jim trasformarsi in una smorfia di disappunto.
“Le menti come le nostre si annoiano facilmente, Johnny. Serve un diversivo, un… passatempo. E nel vuoto del tedio, spesso un’idea matura, fino a divenire una meravigliosa occasione. Nel mio lavoro vedo di tutto, credimi. Dal ladro più misero al più grande truffatore. Ma niente, niente, è pari alla mente di Sherlock davanti ad un mistero. L’ho spiato a lungo, sai? Nulla è paragonabile alla sua espressione viva, davanti alla morte. Volevo dargli il suo caso migliore, il più memorabile. Volevo che capisse. Non chiedo molto, alla fine. Vorrei solo quella sua testa geniale china di fronte a me, un’ultima volta. Domarlo. Sentirlo implorare. O John, non hai idea di cosa eravamo, di cosa fosse, così grezzo, vulnerabile, eppure così diverso.”
Jim si lasciò cadere in ginocchio, chiudendo gli occhi, quasi in preghiera.
“Ho scelto il più solo, ma anche il migliore. Capisci?” Disse, ondeggiando la testa, lento. “Non c’è sfida, nella sottomissione dei deboli. Ma vi è gloria, in quella dei forti.”
John lo osservò portarsi una mano al viso, sfiorarsi le labbra con le dita.
“Ad ogni modo sono facile alla noia, come ho detto. L’ho lasciato andare, allora, ma ero ancora immaturo. Sentimentale. Ora devo finire il gioco. Assicurarmi che anche questo ricordo non cada nell’oblio del tempo e del tedio. Voglio un gran finale, Johnny. Voglio un bel quadro. Ancora tre piccoli indiani.”
Un tonfo sordo, al lato destro della casa.
Moriarty si aprì in un sorriso estasiato, alzandosi.
La scia di Sherlock, mai tanto carica di furia sorda come in quel momento, arrivò fino a John, che istintivamente si premette il più possibile con la schiena contro le sbarre della gabbia, chiudendo gli occhi.
Un secondo, e la porta della stanza si aprì di schianto, sollevandosi dai cardini nella parte alta.
Jim fece schioccare la lingua contro il palato, allegro.
“Finalmente!” Disse, con voce compiaciuta. “Piaciuto il regalo?”
 
***
 
Sherlock, l’azzurro delle iridi completamente ingoiato dal nero delle pupille, svoltò in Waverton Street, respiro affannoso e sguardo feroce.
Costeggiò, cieco di rabbia, tutti i civici della via, fino a giungere davanti all’ingresso dell’abitazione di Victor.
L’odore di John, forte al punto da imporsi alla sua attenzione sopra ogni altra cosa, lo avvolse, risalendo dal cappotto ai suoi piedi fino alle sue narici.
Sherlock lo raccolse con un gesto meccanico, portandoselo al viso. Poco lontano, un altro indumento abbandonato richiamò la sua attenzione, con ancora più forza.
Il maglione del medico, sporco e strappato in alcuni punti, giaceva ai piedi delle scale, abbandonato.
Il detective sentì un’onda calda di rabbia risalirgli le vene, annebbiando vista e ragione.
Non riusciva a formulare un solo pensiero razionale, se non quello che John fosse da qualche parte, e che doveva trovarlo. Immediatamente.
Salì le scale con foga, ringhiando in modo gutturale.
Diede un colpo alla porta, che si aprì verso l’interno, docile, evidentemente lasciata senza socchiusa.
Immobile nell’ingresso buio, Sherlock chiuse gli occhi, abbandonandosi del tutto ai propri sensi.
John.
Il nome esplose nella sua mente assieme all’odore del medico, che emerse e si diversificò da quello di Victor, che permeava tutta la casa.
Sherlock isolò la scia, concentrandosi solo su di essa.
John.
Continuò a chiamarlo, mentalmente, percorrendo veloce il corridoio, fino all’ultima porta a sinistra.
L’odore del medico, in quel punto, era altissimo, come quello di Victor.
Sherlock diede una spallata alla porta, facendola cedere in uno schianto.
“Finalmente!” La voce di Victor, allegra, arrivò alle sue orecchie lontana, offuscata.
Il detective la ignorò, spostando tutta la sua attenzione sulla figura - seduta a terra, stretta in una piccola gabbia metallica – del medico.
Un ringhio, basso, torvo, si sparse per la stanza, accompagnato dalla risata di Victor e dall’espressione atterrita di John, adesso completamente raccolto tra le braccia.
“Piaciuto il regalo?”
Sherlock non realizzò di essersi mosso fin quando non si trovò sopra di lui, mani attorno al suo collo e le loro fronti tanto vicine da sfiorarsi.
“Tu.” Gli ruggì sul viso, i capelli attaccati alla testa per l’enorme corsa, lo sguardo folle di furia.
“Jim Moriarty, piacere.” Tossicchiò l’altro, muovendosi per cercare di far passare un po’ d’aria attraverso la gola chiusa. “Moriarty come Dean di “On the road”, presente?” [3] Sputò a fatica, la voce sempre più gracchiante. “E Jim… beh in questo momento ammetto di non riuscire a ricordare lucidamente il perché, di Jim. Sarà la mano attorno al collo.” Si tirò indietro con il mento, in cerca di ossigeno. “O la gioia di sentirti per una volta sopra.”
Sherlock rafforzò la stretta, ringhiando sommessamente.
“Ad ogni modo – sibilò Jim [4], con un sorriso – ti conviene lasciarmi, o l’Omega muore.”
Un piccolo raggio rosso, proveniente dalla finestra, comparve sulla tempia destra di John, iniziando a ballare tra i suoi capelli.
Sherlock, ancora premuto sul corpo dell’altro, spostò il viso – in un gesto rigido e meccanico - verso quella fonte di luce, incapace di realizzare del tutto cosa fosse.
Istintivamente, allentò comunque la presa sul collo di Moriarty, continuando a seguire la scia luminosa muoversi sulla testa del medico.
“Mooolto meglio.” Jim portò le mani attorno a quelle di Sherlock, premendo appena. “Se ti serve una mano per capire di cosa si tratti, dato il tuo stato… È un cecchino, con un’arma di precisione. Ti fornirei volentieri altri dettagli ma… lavorano per me talmente tante persone, e per talmente poco tempo, che non ricordo molto, di loro.”
Qualcosa, oltre la coltre di furia cieca che premeva contro ogni parte del cervello di Sherlock, attivò un segnale di pericolo, ed il detective liberò Jim della stretta delle proprie mani, indietreggiando di un passo.
“No!” John cercò di portarsi in avanti, verso di lui. “Non devi lasciarlo andare!” Disse, combattendo ogni singola fibra del suo corpo che urlava e strappava per farlo mantenere a distanza da un Alpha in frenesia. “Sherlock!” Provò a chiamarlo, senza ottenere nessun tipo di risposta dall’altro, accucciato a pochi passi da Moriarty, adesso seduto e annaspante in cerca di ossigeno.
“Bene.” Jim tossì un paio di volte, godendo del bruciore che sentiva premere contro le pareti della gola. “Molto bene.” Continuò, voltandosi a sorridere verso John.
“Lascia che ti spieghi cosa accadrà adesso, S.” Con una certa fatica, aiutandosi con le mani, Jim si mise in piedi, soffocando una risata nel constatare di non riuscire a ritrovare immediatamente l’equilibrio.
Sherlock, lento, ne seguì i movimenti, alzandosi a sua volta, denti scoperti ed un ringhio continuo a corollario dei suoi respiri.
“Questi sono i ruoli che ho scelto per noi. Ascoltate con attenzione.” Moriarty fece schioccare il collo, allungandolo e piegandolo di lato. “Tu, Sherlock, sarai John Gordon Macarthur. Divertente, non trovi? Porti il nome del tuo amico.” Una risata storta, malata, vibrò per la stanza, e Sherlock arricciò le labbra con ancora più forza. “Il tuo ruolo è semplice. Banale. Sono certo tu abbia un’arma. Usala. Volgila verso te stesso, ed io grazierò l’Omega.”
Sherlock socchiuse gli occhi, ancora incapace di cogliere il senso di ogni parola.
Si voltò verso John, inclinando la testa, attirato dal tono disperato che aveva sentito provenire da lui in risposta a quanto appena detto da Jim.
“Sei un bastardo!” John diede un calcio alla gabbia, cercando di aprirne lo sportello, posto ai suoi piedi. Per qualche secondo nella stanza si udì solo un suono metallico, scomposto.
“Tu, mio caro, sarai invece Philip Lombard, vittima innocente dell’attimo di follia di Vera Elisabeth Claythorne. Chiaramente, Claythorne sarei io.” Jim si piegò in avanti, in un abbozzo di inchino.
“Vera si impicca, alla fine di questa storia, ma quello è un problema secondario. Come ho detto, sono facile alla noia. Ed un piano concluso nel migliore dei modi val bene un suicidio.” Moriarty osservò Sherlock sbattere le palpebre, ogni movimento un passo verso la lucidità.
“Immaginavo che sarei riuscito a farti desistere dal tuo piano di cieca distruzione, S. Una mente come la tua non può sopportare a lungo il comando dell’istinto.”
Jim fece un mezzo movimento, estraendo con un gesto teatrale un pistola e facendola passare attraverso le sbarre della gabbia, la volata – gelida – contro la testa bollente di John.
Il medico cercò di scostarsi quel tanto che gli era concesso, ma lo spazio non era sufficiente a mettersi fuori dal raggio dell’arma.
Sherlock, nuovamente in sé, osservò Jim con attenzione, imponendosi di respirare normalmente. Se avesse ceduto nuovamente alla rabbia, probabilmente sarebbe riuscito ad ucciderlo a mani nude, ma John non sarebbe sopravvissuto.
“Piaciute le filastrocche?” Cantilenò Moriarty, voce allegra ed aria compiaciuta. “Ho pensato fosse un buon modo per richiamare il romanzo.”
Sherlock spostò gli occhi sulla pistola, e poi su John, chino in avanti, occhi chiusi e labbra tirate. Fermo, rigido. Maestoso, nel suo imporsi di rimanere integro, fiero, anche stretto in una gabbia, tra il calore della febbre e la paura della morte.
“Che soltanto può la luce, ammazzare chi deduce…” Recitò Jim, oscillando la testa al suono delle sue parole. “Non è meraviglioso, come risplenda la consapevolezza, S.? Non è stupenda la luce che irradia una strada ormai segnata?” Aggiunse, improvvisamente serio, aggressivo, le parole come lame taglienti.
“A te la scelta, dunque. Spara. A me. A te. A chi preferisci. Ma sappi che se mi colpirai, Johnny bello finirà cadavere prima che tu riesca a farlo uscire.”
Jim si lasciò andare a terra, incrociando le gambe.
“Sherlock.” Lo chiamò John, socchiudendo gli occhi ed alzandoli verso il detective. “No.” Soffiò, ancorando uno sguardo serio a quello dell’altro.
Il detective deglutì un paio di volte, a vuoto.
“Sherlock.” Tentò ancora il medico, osservando terrorizzato la mano dell’altro affondare nella tasca del cappotto.
“NO, HO DETTO NO!” Urlò John, cercando di scivolare verso il fondo della gabbia, il più vicino possibile all’altro.
“Chi mi dice che lo lascerai andare?” Disse Sherlock, cercando di ignorare la voce di John e la sua scia, carica di dolore e paura.
“Hai la mia parola. E tu più di chiunque sai che quanto dico è legge, per me.” Jim si sporse con ancora più forza verso John, premendo con violenza la pistola contro la sua tempia.
“Io so che sai barare, ed ingannare.” Sibilò il detective, estraendo la pistola ma lasciando la mano lungo il fianco.
“Ma sai che lo faccio sempre senza nascondere nulla. E non può esserci strucco, nell’affermazione “ucciditi, ed io lo lascerò vivere”.” Insistette Moriarty, con un sibilo, gli occhi in fiamme, carichi di rabbia e desiderio.
Sherlock rimase ad osservarlo per qualche secondo, muovendo gli occhi su ogni centimetro del viso dell’altro. Infine, caricò il colpo e si portò la pistola alla tempia destra.
“E sia.” Ringhiò, prima di spostare lo sguardo su John, trovandolo atterrito, le mani strette contro le sbarre della gabbia ed il corpo torto in modo innaturale, pur di riuscire a mantenere su di lui gli occhi.
“Per favore.” Sussurrò il medico, un singhiozzo mozzato a sconquassargli il petto. “Non ho mai pregato nessuno in tutta la vita, Sherlock. Mai. Ma ti imploro, ti scongiuro, metti giù quell’arma.”
Sherlock chiuse gli occhi, respirando nell’odore dell’altro qualcosa che aveva già percepito in precedenza, ma che riuscì a catalogare solo in quel momento. Attenzione. Trasporto. Amore.
Per un attimo gli mancò la presa sull’impugnatura, e sentì la pistola allontanarsi, scivolare.
Con ancora più forza, ci strinse le dita attorno.
Lasciò che fosse il suo odore a parlare per lui, guardandolo arrivare fino a John, nel punto più profondo dei suoi occhi scuri, carichi di ogni cosa che non pensava di volere.
Il medico annaspò appena, avvolto dal calore dell’altro, e si spinse con ancora più forza contro il metallo.
“Sherlock.” Tentò nuovamente.
“Al mio tre!” Jim tornò ad imporsi alla loro presenza, la voce allegra e lo sguardo feroce.
“Uno.” Iniziò, facendo sbattere la pistola contro la gabbia, come un gong. “Due...”
Un rumore di spari, da fuori, interruppe la conta, facendolo voltare verso la finestra, continuando ad ogni modo a tenere John sotto tiro.
“Credo che sia giunto il momento, John...” Sherlock si scostò l’arma dalla tempia, muovendola in un gesto veloce verso Moriarty. “Per usare i Cammei Vaticani.”
Il medico sgranò gli occhi, colto di sorpresa. Il tempo di un battito di ciglia, e capì. Si portò in avanti, scostandosi la volata della pistola di Jim dalla testa, e si lasciò andare con forza verso il braccio teso oltre le sbarre dell’uomo.
Ci fu un rumore secco, ossa rotte contro metallo, e Moriarty esplose il un grido strozzato di dolore, lasciando andare la pistola, che cadde alle spalle di John.
Sherlock gli fu sopra in un attimo, strascinandolo lontano dal medico. Jim, a terra, lo guardò con aria divertita puntargli la pistola al viso, portandosi una mano attorno al braccio fratturato.
Con un sorriso allegro, si voltò verso John, che nel frattempo aveva recuperato l’arma e la teneva a sua volta puntata su di lui.
“Magnifico. Davvero. È stato incredibile!” Moriarty lasciò la presa attorno al proprio braccio e alzò la mano fino a sfiorare con le dita la punta della pistola di Sherlock.
“Dovresti farlo, sai? Sarebbe perfetto. Immortale al termine del tuo caso migliore. Il MIO!” Gridò, voce e scia un carico di disprezzo e divertimento. “Spara. Dai. Ti sfido.”
Sherlock spostò l’indice sul grilletto, premendo appena.
“Avanti S.! Cosa stai aspettando? Vuoi un motivo? Un valido, banale, noioso motivo?” Cantilenò Jim sotto di lui.
“Non mi serve, un motivo.” Sibilò il detective, in risposta. Con la coda dell’occhio gettò uno sguardo veloce in direzione di John, prima di tornare a chinarsi sull’altro. “Me lo hai già dato.” Ringhiò, basso.
“Oh Dio!” Moriarty esplose in una risata tesa, tetra. “Ti ho dato uno schiavo, e tu ne stai facendo un padrone!” Sputò, velenoso. “Sei ridicolo. Se davvero ci credi, sei più debole di quanto pensassi.” Aggiunse, lasciandosi ricadere la mano sul petto.
“Ti è sfuggito il punto, temo.” Sussurrò Sherlock, mentre rumore di passi veloci ed ordini urlati echeggiava lungo in corridoio, sempre più vicino. “Non ci sono schiavi, né padroni.”
Un gruppo di uomini - in tenuta antisommossa - entrò nella stanza, fermandosi appena oltre la porta.
“E senza il tuo aiuto, non lo avrei mai capito.” Aggiunse, arricciando le labbra in un sorriso alla vista dell’odio sordo che stava iniziando a deformare i lineamenti di Jim.
“Che diavolo…” Lestrade si fece largo tra i suoi uomini, entrando nella camera.
Lanciò uno sguardo rapido verso il detective, facendo cenno ad un paio di uomini di andare da lui. Con passo veloce si avvicinò alla gabbia, inginocchiandosi all’altezza dell’apertura.
John lasciò cadere la pistola, stremato. Si appoggiò alla grata, tirando indietro la testa, e chiuse gli occhi, tentando di tornare padrone del proprio respiro.
Singhiozzò un paio di volte, cercando di far sciogliere il groppo che sentiva premere contro il petto.
“Mi serve un grimaldello!” Urlò l’Ispettore, rigirandosi con rabbia il lucchetto a chiusura dello sportello tra le mani.
“Spostati.” Sherlock, arrivato alle sue spalle, gli diede una leggera spinta, facendolo cadere da un lato. Un’esplosione rimbombò nella stanza, e John spalancò gli occhi, un respiro incastrato in gola, stretto in un urlo soffocato.
“Sei impazzito?!” Lestrade si alzò di scatto, fermando tra le dita la canna della pistola di Sherlock, ancora calda.
“Quanto altro tempo pensavi di farlo rimanere lì, esattamente?!” Gli soffiò contro il detective, lasciando andare la presa sull’arma e chinandosi ad aprire quanto rimaneva dello sportello.
“Andiamo John.” Gli disse, allungandosi verso di lui il più possibile.
Il medico si puntellò sulle mani, facendosi scivolare verso l’uscita.
Il detective si spostò di lato, facendogli spazio, fin quando non fu completamente fuori. Il medico si lasciò andare schiena al pavimento, Lestrade e Sherlock ai due lati.
“Ehi.” Riuscì a dire, sopraffatto dalla febbre e dalla tensione, non più tenuti sotto controllo.
“Perché diavolo non mi hai chiamato!” L’ispettore alzò il viso, rivolto a Sherlock.
“Non avevo tempo.” Rispose quello, continuando a guardare John, steso ad occhi chiusi sotto di loro, il respiro irregolare. “Mio fratello aveva comunque tutti gli elementi per indirizzarti qui con i tuoi uomini.” Aggiunse, osservando con attenzione la bocca di John schiudersi, in cerca di un apporto maggiore di ossigeno.
“E sapevi anche che lo avrei contattato?!” Continuò Lestrade, con tono sempre più nervoso.
“Non è quello che fai sempre, quando non mi trovi?” Lo canzonò il detective, alzando per un secondo uno sguardo ironico su di lui.
“Io-“ Iniziò l’Ispettore, interrotto dalla voce calma di Moriarty, ora in piedi tra due poliziotti.
“Lo sai che non resterò nelle carceri londinesi a lungo, vero?” Disse, rivolto al detective, con tono allegro.
“Certo.” Gli concesse Sherlock, mentre John socchiudeva gli occhi in uno sguardo interrogativo, al quale il detective rispose con un sorriso abbozzato.
“È per questo che ci resterai fin quando mio fratello non avrà raccolto sufficienti elementi di prova a carico di “Victor Trevor” da far passare tutto in mano al Military Service. Scommetto che sia l’MI5 che l’MI6 [5] non vedono l’ora di ospitarti nelle loro celle.”  La scia di Moriarty si immobilizzò, quasi azzerandosi. Nessun sentimento od emozione, nessuna reazione evidente. Sherlock ebbe l’istinto di voltarsi per guardarlo, mentre veniva trascinato via, ma si sforzò di rimanere concentrato sul medico, adesso con gli occhi completamente aperti.
“Sapevi sarebbero arrivati?” Gli sussurrò John, la scia un caleidoscopio di emozioni.
“Diciamo che lo ritenevo altamente plausibile, ma non certo.” Rispose Sherlock, sentendo Lestrade trattenere uno sbuffo irato.
“E se non fossero arrivati? Avresti fatto fuoco?” Il viso di John si piegò il una smorfia di dolore malcelato.
“Certo che no. Stavo solo prendendo tempo.” Sherlock si impose di tenere sotto controllo la propria scia, ma la ammorbidì in risposta a quella tesa dell’altro.
“Sarebbe troppo chiedere di cosa stiate parlando?” L’Ispettore mosse gli occhi da l’uno all’altro, nervoso e confuso.
“Non hai degli uomini da dirigere?” Fu la risposta che ottenne dal detective, e John soffocò una risata stanca in un singhiozzo spezzato.
“Certo…” Sibilò Lestrade, abbassando gli occhi sul medico.
“John-” Iniziò, ma l’altro gli posò una mano su un braccio, stancamente.
“È tutto ok, Greg. Fa’ preparare una macchina, vuoi?” Gli sussurrò John, abbozzando un sorriso.
“Forse dovresti andare in un ospedale.” Azzardò l’Ispettore, ricevendo in cambio uno sguardo furente di Sherlock.
“È in Calore, cosa cerchi di fare, esattamente?!” Ringhiò, piano.
“Lo era anche quando è venuto qui, mi pare.” Rispose Lestrade, mentre John gli dava un’altra piccola stretta al braccio.
“Mi serve una doccia e del cibo, non un ospedale Greg. Portaci a casa.” Il medico osservò grato l’amico fare infine cenno di sì col capo ed alzarsi.
“Dite al Sergente Donovan che occorre una volante libera.” Ordinò agli uomini rimasti nella stanza, seguendoli poi fuori dalla porta, dopo aver lanciato un ultimo sguardo a Sherlock e John.
“Lestrade ha ragione.” Gli concesse Sherlock, dopo che l’Ispettore ebbe lasciato la stanza. “Eri in Calore anche quando sei venuto qui.” Il detective passò un braccio dietro il collo di John, aiutandolo a mettersi seduto.
“Perché sei qui?” Chiese, piano, gli occhi ostinatamente aggrappati ai suoi.
“Per te.” John si lasciò scivolare la verità tra le labbra, senza traccia di vergogna.
Sherlock aggrottò la fronte, confuso.
“Non…” Iniziò, ma il medico fu più veloce.
“Ero qui per te.” Ripeté, coraggioso, lo sguardo stanco orgogliosamente fisso sul viso dell’altro. “Tu? Perché eri qui?” Aggiunse, un tono di incertezza nella voce.
Sherlock sospirò appena, muovendo gli occhi di fronte a sé. Socchiuse le labbra, cercando le parole, ma non riuscì ad afferrarne nessuna capace di dare un senso compiuto al dolore agrodolce che sentiva farsi largo nel petto, muovendosi tra anima e fiato.
Lasciò quindi andare ogni controllo sulla propria scia, sperando che potesse trovare per lui le parole che non era in grado di dire.
John si trovò immerso in un odore dolce, morbido, l’esatto specchio dei due enormi occhi azzurri che vedeva fissarlo con tanta speranza ma altrettanta paura.
Ammirazione. Attaccamento. Attrazione. Amore? Amore.
Lestrade si affacciò nuovamente alla porta, immobilizzandosi a metà del passo che stava per compiere oltre la soglia.
La stanza era satura delle scie di John e Sherlock, al punto da farlo sentire un estraneo colto a spiare nell’intimità di qualcuno.
Ma a sconvolgerlo fu soprattutto realizzare che il loro odore si fosse sincronizzato, mutando, la perfetta rappresentazione di un Legame.
Rimase a fissarli per qualche attimo, fin quando entrambi non si voltarono verso di lui, raggiunti dalla sua scia estranea.
“La… la macchina è pronta.” Balbettò, imbarazzato, alzando la testa per fissare il soffitto polveroso sopra di lui.
Sherlock aspettò che John gli facesse cenno di essere pronto e lo aiutò a mettersi in piedi, sorreggendolo per la vita.
“Andiamo a casa.” Gli sospirò il medico sul collo, tremando appena, stremato.
“Sì.” Rispose in un sussurro l’altro, avviandosi verso la porta avvolto dall’odore del medico, sentendosi già, a casa.
 
Note:
 
[1] Da leggersi rigorosamente con il tono dell’ “Hi!” di Jim nella scena della piscina. XD
[2] Uno dei problemi principali del capitolo, è stato quello di gestire le parti riguardanti Victor/Jim. Ero sempre indecisa se indicarlo come Trevor, o come Moriarty. Alla fine ho optato per una via di mezzo: viene chiamato Victor (anche dalla voce narrante) fino a quando non è lui stesso a definirsi “Moriarty” con i personaggi in scena. Da quel momento, essendo effettivamente Jim a tutti gli effetti, nel tempo presente, mi rivolgo a lui con questo nome. Il realtà l’ho sempre fatto. Ad esempio nelle scene dove compaiono solo Sherlock e Lestrade, non ho mai chiamato quest’ultimo Greg, cosa fatta invece in occasione di scambi Ispettore/John.
[3] Altro problema enorme del capitolo: Jim Moriarty non è il nome di battesimo del personaggio, per ovvi motivi. Ma non potevo lasciare cadere nel vuoto una scelta apparentemente casuale ma che, dato il soggetto, non poteva ritenersi tale. Avrebbe potuto scegliere il nome sfogliando un elenco del telefono, perché no. Ma non mi avrebbe appagata, come spiegazione. Quindi ecco a voi Dean Moriarty, personaggio del libro “Sulla strada” (“On the Road”), romanzo autobiografico, scritto nel 1951, dello scrittore statunitense Jack Kerouac. Dean è perfetto. È uscito da un riformatorio, ed il suo stile di vita è in netto contrasto con la concezione borghese dell’epoca della necessità di avere una fissa dimora, un lavoro, un buon grado di responsabilità. Dean ha solo interesse per una vita intensa, fatta di innumerevoli esperienze, e desidera conoscere l'immensità del continente nordamericano, il brivido del sesso, della musica jazz, delle discussioni sotto l'effetto dell'alcool e della benzedrina.
Un personaggio di rottura col suo tempo, con la banalità degli altri, dedito alla scoperta ed agli eccessi. Mi è sembrato “carino” e plausibile che Victor abbia scelto di prendere il suo cognome, per tutta la serie di cose elencate.
[4] Ancora una volta, dopo aver usato “Victor” fino a quel momento, torno al “Jim”, dato che Moriarty si è appena presentato sotto quella veste anche con Sherlock.
[5] Ho finalmente scoperto la differenza tra le due sigle (dopo averle trovate, alternate, senza capire quale fosse quella corretta.) XD): L’MI 5 (o Military Service sezione 5 oppure, più in generale, Security Service) britannico si occupa della sicurezza e del controspionaggio interno della Gran Bretagna. Al contrario del MI 6 che, invece, lavora per la sicurezza esterna del Paese. Immagino lo sapeste già tutti, ma io ho avuto un’illuminazione “sulla via del Diogenes Club”.  XD
 
[*] Da questo si capisce anche perché Sherlock avesse “immaginato” la scia di John, quando quest’ultimo lo aveva scaraventato di peso nella vasca: ho immaginato che ogni stress emotivo del medico, nella vicinanza di Sherlock e della sua scia, avesse avuto il potere di aprire piccole “falle” nella funzione degli inibitori già prima del “gentile intervento” di Jim.
 
Angolo dell’autrice:
 
Più faticoso di descrivere sentimenti, c’è solo il cercare di delineare la follia lucida di qualcuno, cucendola assieme ai fili di una trama che si è dipanata per decine di capitoli.
Questo capitolo mi è costato fatica,  molta.
Cuore e sangue.
Il sangue è tutto per Jim, così complesso da aver la sensazione di non averlo mai completamente fermo tra le mani.
Come ho avuto modo di dire a loveart7, che ha appena pubblicato su di lui (con tutta la mia ammirazione): “Mai trovato nessuno così allucinante (e allucinato) da descrivere. Se lo fai blando è OOC, se lo esasperi è OOC. È un OOC con qualche probabilità (rara) di esser scritto bene.”
Non ho modo di valutare se sia riuscita o meno nell’impresa.
Mi ritengo comunque soddisfatta di essere sopravvissuta.
 
Ho inserito richiami, citazioni, spunti, azzardi, informazioni, e spero che possano arrivare, almeno in parte (alcuni, a mio avviso, restano chiari solo alla mia mente malata XD)
Spiegarli tutti sarebbe assurdo per me e noioso per voi.
Mi auguro solo che sia stata una lettura piacevole, perché… perché c’ho messo proprio tutta me stessa.
 
Siamo ad un capitolo dalla fine, e diciamo che (in tutti i sensi) “il peggio è alle spalle”. ^_^
 
Come sempre grazie a tutti per aver letto, doppio a chi mi farà il regalo di farmi avere un suo parere in merito.
 
A presto!
B.
 
PS: vi lascio con un’immagine evocativa, che amo molto (si ricollega all’ultima parte del capitolo, vedetela come un “come apparirebbero le loro scie se fossero in carne ed ossa”.)
 

 
PPS: Se qualcuno avesse trovato l’uscita di scena di Moriarty “sottotono”…
Diciamo che mi voglio tenere “le porte aperte” per un eventuale continuo, se e quando mi riprenderò completamente da questa storia! XD
 
 
 
 

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Capitolo 28
*** Un Sempre in un Mai ***


John si lasciò andare nell’acqua fredda sentendola richiudersi sul proprio corpo bollente, balsamica, ogni centimetro di pelle lenito da quel contatto.
Chiuse gli occhi, ascoltando i rumori, ormai familiari, provenienti dalla cucina.
Sherlock lo aveva aiutato a salire fino al loro appartamento e aveva preparato il bagno, facendolo sdraiare sul divano in attesa che la vasca si riempisse a sufficienza.
Non si erano scambiati più una sola parola, dopo quel “sì” a fior di labbra prima di uscire da Waverton Street.
Lestrade aveva guidato personalmente fino a Baker Street, lanciando loro qualche breve occhiata dallo specchietto retrovisore, trovandoli sempre stretti, John contro il petto di Sherlock – occhi chiusi e respiro irregolare – ed il detective voltato verso al finestrino, sul viso un’espressione che l’Ispettore non aveva mai visto prima: un mosaico composito di emozioni, cangiante.
Con delicatezza Sherlock aveva condotto John in bagno, domandando se avesse bisogno di aiuto per svestirsi.
Lui, dopo un attimo di esitazione, aveva mormorato a mezza voce che non ce ne sarebbe stato bisogno.
Il solo pensiero di essere sfiorato, di mostrarsi nudo più di quanto la sua scia non stesse già facendo per lui, lo aveva atterrito, mozzandogli quel poco di respiro che riusciva a spingere fuori dai polmoni. Qualcosa, nel suo sguardo, o nel suo odore, doveva aver convinto Sherlock che fosse meglio non insistere. Così, senza aggiungere altro, il detective era uscito da bagno, lasciando la porta accostata per ogni evenienza.
John sentì dopo poco la voce della signora Hudson unirsi a quella del detective, uno scambio di mormorii dolci, come quelli di chi - sveglio prima degli altri abitanti della casa - smorza la propria voce per permettere ai compagni di continuare a riposare.
Un leggero rumore di stoviglie, poi nuovamente silenzio.
Passi leggeri verso il frigorifero, ancora qualche sussurro, silenzio.
John sentì il petto riempirsi di un ristoro che non aveva mai provato prima.
Era come un dolore, ma dolce, e ne avrebbe voluto di più. Avrebbe volentieri lasciato che gli aprisse il cuore, che lo avvolgesse e mangiasse, pur di continuare a tenerlo con sé, stretto assieme alla scia del detective che – emozionata, fremente e turbata assieme -  filtrava attraverso la porta fino ai suoi sensi.
John aveva già provato dei sentimenti, in passato. Alcuni, pochi, li aveva scambiati per amore e  definiti tale, con se stesso e con chi gli era stato vicino in quei giorni.
Ma solo in quel momento - di fronte al battito violento del proprio cuore in risposta al semplice sapere che l’altro si trovasse così vicino a lui, che esistesse, che fosse vivo, e al sicuro – capì di non aver mai amato tanto, prima.
Il pensiero, un’epifania violenta, totalizzante, esplose tra le sue palpebre chiuse, condensandosi in una lacrima di felicità che John lasciò il bilico ai bordi delle ciglia, senza liberarla.
Qualcosa cadde a terra, in cucina, e la signora Hudson esplose in una risata allegra, mentre Sherlock le intimava con un sibilo di tacere.
John socchiuse gli occhi, abbozzando un sorriso.
“Che state facendo, voi due?” Domandò, senza urlare, ma con voce sufficientemente alta da essere certo di essere udito.
“Niente.” Gli rispose il detective, dopo qualche secondo.
John lo immaginò intendo a fulminare con gli occhi la donna, per impedirle di aggiungere altro.
“Ho sentito un rumore!” Insistette il medico, con il solo scopo di infastidire l’altro in modo giocoso.
“La signora Hudson ha fatto cadere una ciotola.” Spiegò Sherlock, prima che un urletto stizzito della donna sottolineasse il suo disappunto.
“Io avrei fatto cadere la ciotola?!” Disse la donna, con tono oltraggiato.
Le voci tornarono ad essere poco più di un sussurro, e John chiuse nuovamente gli occhi, un sorriso compiaciuto sul viso.
La temperatura si stava abbassando, così come il fastidio provato sulla pelle.
In alcuni punti, dove i vestiti avevano strofinato ed insistito con più forza, si erano aperte piccole piaghe che adesso - a contatto con l’acqua – bruciavano, anche se non eccessivamente.
John si passò la mano destra sul braccio sinistro, ascoltando con i polpastrelli l’epidermide alzarsi e rientrare, escoriazioni ed ulcere, la mappa del suo viaggio per la città impressa nella cute.
Rimase così, immobile, fin quando non ebbe la sensazione che la febbre fosse completamente sparita. Solo allora, con movimenti attenti, tolse il tappo e si sollevò dall’acqua, uscendo dalla vasca.
I rumori provenienti dalla cucina erano svaniti, lasciando come unico suono udibile quello dell’acqua che, vorticosamente, spariva poco a poco attraverso lo scarico.
Si tamponò delicatamente con l’accappatoio, senza indossarlo.
Si guardò attorno, incerto se metterselo addosso il tempo strettamente necessario ad arrivare in camera, per cambiarsi.
L’idea di avvolgere nuovamente qualcosa attorno alle braccia, però, non gli parve accettabile.
La pelle era totalmente irritata, che coprirla avrebbe aperto nuove ferite.
“Sherlock?” Chiamò, accostandosi alla porta.
“John.” Rispose l’altro, la voce inaspettatamente lontana, proveniente dal salotto.
“Ho bisogno di salire in camera mia, ma non posso indossare l’accappatoio.” Iniziò, sentendosi improvvisamente ridicolo. “Saresti così gentile da… non so, scendere un attimo di sotto, o-?” Si affrettò ad aggiungere, cercando di rendere palese di non desiderare che l’altro lo vedesse, almeno che non fosse stata anche sua intenzione.
“I tuoi vestiti sono dietro la porta.” Lo interruppe Sherlock, con voce distaccata. “Biancheria, canottiera e pantaloncini. Spero vadano bene.” Aggiunse, atono.
John, sorpreso, aprì la porta quel tanto da notare il fagotto di abiti ripiegati con cura, adagiati con attenzione sul pavimento.
“Grazie…!” Mormorò, chinandosi per prenderli.
Tornò verso l’interno del bagno, i vestiti stretti al petto.
Con calma, lentamente, lasciò la testa scivolare nella canottiera, stando attento ad infilare le braccia senza toccare il tessuto. Infilò quindi la biancheria ed infine i pantaloncini, anch’essi avendo cura che non colpissero le zone delle gambe coperte dai segni.
Riappese l’accappatoio e radunò i vecchi abiti da una parte, riflettendo un attimo se metterli a lavare o gettarli. Alla fine decise che buttarli sarebbe stata la scelta migliore, ed uscì da bagno stringendoli tra le mani, appallottolati.
Girò nel corridoio, entrando in salotto.
Per un attimo rimase immobile, disorientato.
Il tavolo, solitamente ingombro di carte e documenti, era stato svuotato, coperto con una tovaglia ed apparecchiato per due.
John schiuse la bocca, sorpreso, muovendo gli occhi dalla quantità enorme di cibo al centro della tavola a Sherlock, seduto nella sua poltrona, gambe accavallate e sguardo indagatore fisso sul viso del medico.
“Hai… Hai cucinato?” Sussurrò John, occhi sgranati e voce genuinamente meravigliata.
“Tecnicamente, lo ha fatto la signora Hudson.” Rispose il detective, con tono ovvio. “Io ho tagliato la frutta.” Spiegò poi, indicando distrattamente una ciotola di metallo, piena di una macedonia variopinta.
John si fece scappare una risata soffocata, mordendosi le labbra subito dopo.
“Hai fatto cadere la ciotola.” Disse, allegro, ricollegando quanto sentito poco prima con quanto vedeva sul tavolo.
“La signora Hudson mi è venuta addosso.” Si schermì l’altro, voltandosi verso il caminetto, un’espressione offesa sul viso.
“Non intendevo…” John fece un passo verso il tavolo, sentendo la fame divenire forte, impellente. “È meraviglioso. Grazie.” Aggiunse, voltandosi verso il detective, ancora girato nell’altra direzione. “Ed è apparecchiato per due, per giunta. Avrò l’onore di vederti mangiare?” Gli disse, addolcendo voce e scia.
Sherlock sussultò appena, continuando a mantenersi lontano dal suo sguardo.
Il medico attese qualche secondo un cenno. Quando non li vide arrivare, si diresse verso la porta, i vestiti ancora tra le mani. “Porto questi di sopra e iniziamo, va bene?” Domandò.
“Avevi proposto una cena.” Rispose Sherlock, dopo un attimo, una vaga incertezza nella voce.
“Sì.” Confermò l’altro, aprendosi in un sorriso. “Ma non avrei mai saputo fare tanto.” Aggiunse, sperando che bastasse a far girare il detective nella sua direzione.
Sherlock rimase immobile, ma John lo vide abbozzare un sorriso, le fiamme del camino in festa sul pallore della sua pelle.
 
Sherlock osservò John portarsi un altro pezzo di pie alla bocca, guardandolo masticare lentamente, calmo.
“Non sono molto attaccato alle buone maniere, John. Mangia come senti di fare.” Gli disse, portandosi a sua volta la forchetta alle labbra, carica di un minuscolo pezzo di sformato.
“Se dovessi dar retto al mio istinto, starei mangiando con le mani.” Rispose l’altro, continuando a girarsi il cibo tra i denti. “Ma non ho nessuna intenzione di farlo.” Terminò, deglutendo e prendendo un altro boccone.
“Come ho detto, non è un problema.” Ripeté il detective, gettando uno sguardo nauseato al proprio piatto, ancora pieno.
“Lo è per me.” John bevve un sorso d’acqua e si voltò verso di lui. “Fin quando avrò la capacità di governare i miei istinti e pulsioni, lo farò.” Spiegò poi, affondando nuovamente la forchetta nel piatto.
Sherlock annuì appena, spostando gli occhi dal viso del medico al suo braccio, teso davanti a lui nel tentativo di raggiungere la teglia al centro del tavolo.
Piccoli segni rossi ne costellavano la pelle, come tante punture di insetto.
In alcuni punti, tagli e lacerazioni più profonde arrivavano a mostrare il sangue rappreso tra i  lembi alzati.
Sherlock sentì una furia accecante montargli dal petto, arrampicandosi su di lui come un incendio. Chiuse gli occhi, cercando di normalizzare il respiro, ma la sua scia – ancor prima che potesse rendersene conto - esplose in un fuoco di odori che fecero attaccare il medico allo schienale della sedia, i sensi all’erta ed il fiato mozzato.
“Cosa…?” Balbettò John, girandosi verso di lui con occhi sgranati, il braccio congelato in un movimento interrotto.
Sherlock si alzò velocemente dal tavolo, diretto in cucina, nella necessità di allontanarsi il più possibile da John e dalla paura che sentiva farsi strada nella scia dell’altro.
Il medico rimase immobile qualche secondo, poi lasciò cadere forchetta e tovagliolo sul tavolo e seguì il detective nell’altra stanza.
“Sherlock?” Provò, rimanendo nel limbo tra i due ambienti.
Il detective, viso alla finestra, non diede segno di averlo sentito.
“Sherlock.” Tentò nuovamente, facendo un passo all’interno della cucina.
La scia dell’altro, forte, alta, aveva già saturato la stanza, tanto che il medico ebbe l’istinto di cercare riparo, di allontanarsi.
Combattendo la rigidità delle proprie gambe, si mosse ancora un po’ in direzione del detective, cercando sostegno con una mano sul tavolo della cucina.
“Che succede?” Domandò, cauto, tentando di mantenere il proprio odore su un tono neutro, rassicurante, non dominato dalla paura che fino a pochi attimi prima l’aveva colmato.
“Per favore.” Insistette. “Parlami.”
Sherlock, dopo qualche attimo, si voltò verso di lui, sul viso una commistione di tensione, paura e ansia.
“Non saprei cosa dirti.” Iniziò il detective, facendosi uscire a forza le parole dalla bocca, il respiro stretto in gola. “Non so come spiegarlo a me, tanto meno sarei in grado di farlo con te.” Aggiunse, scuotendo la testa, lo sguardo perso a tentare di mettere a fuoco un’emozione che sentiva esplodergli nel petto ma che non era in grado di esprimere compiutamente.
“Sei arrabbiato.” Constatò John, inclinando la testa da un lato. “È colpa mia?” Azzardò, incerto.
“Certo che è colpa tua!” Sherlock schiuse la bocca in accenno di ringhio, ma vuoto di astio. “Sei arrivato in questa casa, hai…” Il detective si morse il labbro superiore, continuando a non trovare le parole. “Hai… “ Tentò ancora, vanamente. “Saresti potuto morire!” Lo accusò allora, posando su di lui uno sguardo spaventato. “O peggio. Sai cosa succede agli Omega in Calore che girano da soli?!” Sherlock ondeggiò una mano davanti a sé, in un gesto meccanico. “Ne hai…” La voce del detective si frazionò, scheggiandosi assieme alla sua scia. “Sei pieno di ferite.” Mormorò poi, incapace di aggiungere altro.
“So cosa accade a quelli come me se escono soli nelle mie condizioni, Sherlock. E se dicessi che non ho rischiato un attacco ti mentirei.” Iniziò John, con voce calma, sentendo la scia di Sherlock esplodere alle sue parole, per poi farsi bassa, timorosa.
“Ma…” Continuò il medico, chiudendo gli occhi e facendo appello ad ogni parte della sua volontà. “Se ti avessi perso per codardia, per non aver tentato… Non sarei stato in grado di…” Si bloccò, incerto se terminare o meno la frase. Dire che non sarebbe stato in grado di continuare a vivere con quel peso, era ai suoi occhi una confessione nuda dei propri sentimenti. Li aveva già espressi, in altri modi, ma le parole davano una concretezza a quell’emozione che non era certo l’altro desiderasse.
“Mi dispiace.” La voce di Sherlock, tanto fine da non sembrare sua, raggiunse John come un alito di vento. “È ridicolo.” Continuò il detective. “Mi sto rendendo ridicolo.” Specificò meglio, mordendosi le labbra, lo sguardo a terra, sconfitto. “Mi comporto come se fossi il tuo Alpha, anzi, peggio. È…” Si interruppe, cercando le parole adatte. “Ingiusto nei tuoi confronti. Non ne hai bisogno. E neanche io.” Terminò, staccandosi dalla parete, diretto all’uscita laterale che dava sul corridoio.
“Dove vai?!” John lo seguì in salotto, e poi lungo le scale, verso il piano terra.
“Non ho ancora tenuto fede alla promessa.” Sherlock scese l’ultimo gradino e girò a sinistra, verso la porta del seminterrato.
“Fermati un attimo, per favore.” John scivolò dietro di lui, prima sul pianerottolo e poi oltre la porta del sottoscala, che si richiuse con un gemito dietro di loro.
“Sherlock.” Lo chiamò, con tono supplichevole. “Ti prego.”
L’altro, già seduto oltre la scrivania, alzò uno sguardo perso su di lui.
“Mi sembrava fosse anche una tua priorità…” Iniziò, corrugando la fronte.
“Sì. Dio, sì.” Gli concesse John, annuendo, le dita della mano sinistra strofinate con forza tra loro, tese. “Ma adesso la stai usando come scusa, e…”
“Scusa?” Sherlock diede una piccola spinta al microscopio, per sistemarlo correttamente.
“Sì, stai scappando. E non ho intenzione di lasciartelo fare.” John si portò in posizione eretta, nella perfetta rappresentazione del suo miglior rigore militare.
“Non so di cosa tu stia parlando. Avevamo un patto, e-“ Iniziò l’altro, con tono distaccato.
“E? Troverai la cura, azzererai la mia scia e faremo finta che tutto il resto non sia mai successo?” Chiese il medico, alterato.
“Sì.” Confermò Sherlock, cercando con gli occhi il vetrino. “Perché è questo che vuoi, anche se non te ne rendi conto, nella tua condizione.” Aggiunse, osservando con disappunto la piastra rovesciata sul tavolino.
“Nella mia…” John emise una risata soffocata, scuotendo la testa, incredulo. “Sono in proestro, Sherlock. Sono ancora ben fermo sulle mie gambe, e nelle mie capacità mentali.”
“No, sei sconvolto dagli ormoni, e la dimostrazione sta nel fatto che hai percorso mezza città solo per venire a cercarmi.”
“Dio!” Esplose il medico, furioso. “Sono un Omega, Sherlock! Non dovrebbero essere i miei ormoni a spingermi per mezza città! Aspetta…” John socchiuse la bocca, lasciando lo sguardo vagare per la stanza, improvvisamente senza meta. “Tu non vuoi che abbia una scia! Certo, come ho fatto a non capirlo?” Il medico abbozzò una risata, triste. “Tu non lo vuoi, un Omega in casa!”
“IO - rispose Sherlock, alzando la voce, nella scia un insieme di paura e rabbia -  NON VOGLIO QUALCUNO CHE MI GIRI INTORNO PER BISOGNO!” Sbatté un pugno sul tavolo, alzandosi appena dallo sgabello.
“SEI RIDICOLO!” John, gambe tremanti e respiro corto, si impose di rimanere immobile. “STAI SCAPPANDO! HO SENTITO LA TUA SCIA, IN QUELLA CASA!” Continuò, sforzandosi di continuare a tenere il tono di voce elevato. “ED IO NON SONO IN ESTRO, MALEDIZIONE!” Gridò, avvampando per lo sforzo e la tensione. “Non sono in estro, Sherlock.” Ripeté, sfinito, abbassando la voce.
Rimasero immobili a fissarsi, il detective chino in avanti, sulla scrivania, e John al centro della stanza, i pugni chiusi lungo i fianchi.
Con il respiro mozzato e il petto in fiamme, in medico attraversò la stanza, avvicinandosi a Sherlock fin quando non rimase a dividerli solo la scrivania.
“Sono padrone dei miei pensieri e delle mie scelte.” Soffiò il medico, gli occhi legati a quelli dell’altro. “Lo sarò fino al primo giorno di estro, e poi di nuovo, appena sarà finito.” Continuò, sottolineando ogni parola con lentezza e forza.
“Lo so.” Sherlock espirò le parole assieme al proprio respiro. “Lo so.” Ripeté, abbassando gli occhi.
John lo osservò mordersi le labbra, teso, incapace di trovare un modo per abbandonare i propri timori.
Con delicatezza, lento, gli portò due dita vicino alla guancia, sfiorandolo.
“Non sono certo che domani potrò affermare con la certezza che non sia il Calore a parlare.” Iniziò John, sentendo il cuore disarticolarsi nel petto. “Ed è per questo che è importante che lo faccia oggi.” Chiuse gli occhi, il tempo di prendere coraggio e di un battito di ciglia, di sentire la scia di Sherlock cambiare, diventare spaventata, piccola, indifesa.
“Non ho mai voluto un Alpha in tutta la vita.” Gli sussurrò sul viso, rafforzando la pressione delle dita su di lui. “Non lo voglio neanche ora.” Sherlock vibrò appena, sconfitto.
“Ma vorrei l’uomo che ho di fronte, se per lui va bene.” John appoggiò la fronte a quella del detective, sentendosi tremare al ritmo dello stesso timore.
“Vorrei davvero tanto che la persona davanti a me mi scegliesse.” Sussurrò.
Sherlock sentì un dolore mai provato dar fuoco ad ogni parte del suo corpo, incendiandogli le labbra, i polmoni, gli occhi. Circondò con una mano quella di John, e portò l’altra attorno al viso del medico, sorprendendosi per il tepore di quel contatto.
John piegò la testa di lato, dolcemente, poggiando le labbra su quelle del detective con delicatezza, carico di timore.
Per un attimo si respirarono solamente, i volti chiusi tra le mani e le bocche socchiuse, immobili, reverenti.
Fu John, dopo un tempo che parve ad entrambi troppo breve, a posare la mano libera su petto dell’altro, scostandolo appena, morbidamente.
La stanza era ormai carica di loro, del loro odore, delle loro scie sature di commozione, amore, passione, necessità di stringersi di più, più vicini, più forte.
“Vorrei…” Iniziò John, sentendo il proprio corpo reagire in risposta al suo pensiero ancora prima di averlo espresso. “Non vorrei…” Tentò di nuovo, e Sherlock si mosse verso di lui, staccando i loro corpi per aggirare il tavolo ma mantenendo gli occhi uniti, legati.
“Vorrei davvero non fosse sotto la spinta dell’estro… Chiedertelo sapendo cosa sto facendo, intendo…” Provò ancora il medico, muovendo gli occhi liquidi sul viso di Sherlock, adesso a pochi passi da lui.
Il detective non rispose, ma finì di avvicinarsi e si chinò su di lui, unendo di nuovo le loro labbra. Rimasero così per attimi interi, assaggiandosi, cercandosi e riconoscendosi sotto una nuova forma, su altre strade, in altri suoni.
“Andiamo, vuoi?” Gli soffiò Sherlock sulle labbra quando riuscirono a riemergere da quel contatto totalizzante, sentendo l’altro tremare in risposta.
A fatica, impacciati, uscirono dalla stanza, muovendosi verso il loro appartamento con passi scomposti, i corpi vicini, i respiri mozzati.
Sherlock chiuse la porta con un movimento brusco, sconnesso, e tornò da John, immobile a pochi passi da lui.
Fu un attimo - il tempo di un respiro vibrante ed una lacrima - prima che, senza parlare, decidessero di lasciarsi andare, liberando corpi, scie ed anima.
Con attenzione, spauriti e disorientati, scoprirono l’uno il corpo dell’altro, a piccoli passi, con gesti delicati e dita tremanti, la pelle del divano a sostegno delle loro.
Con stupore si scoprirono incapaci, impacciati, ognuno perso dalla meraviglia di trovarsi in un ruolo mai coperto prima.
Una prima volta scomposta, spaventata, carica di desiderio e tenerezza, a tratti goffa, dolce.
Sherlock rimase ogni attimo con gli occhi su John, senza riuscire a staccarsene.
Non aveva mai avuto nessuno da proteggere, non aveva mai desiderato averne.
Ma mentre lo osservava - occhi chiusi a labbra socchiuse sotto di lui, disarmato, indifeso come solo un uomo forte può essere – riuscì unicamente a pensare che avrebbe potuto uccidere, per lui.
Che lo avrebbe potuto fare senza alcun rimorso, solo per tenere chiunque lontano da quel miracolo che adesso lo guardava con occhi grandi, carichi di ogni cosa non aveva mai avuto sognato di poter chiedere, immaginato di desiderare.
Quando, stremati, si staccarono, Sherlock si spostò di lato, facendo spazio al medico, che si mise su un fianco, appoggiando il viso al petto dell’altro.
“Grazie.” Sussurrò John, muovendosi appena, ancora percorso da brevi scariche elettriche.
“Per cosa?” Domandò Sherlock, confuso, abbassando gli occhi su di lui.
“Per non avermi morso.” Rispose l’altro, a metà tra uno scherzo ed una genuina gratitudine.
“Mai.” Gli sospirò Sherlock tra i capelli.
“Mai.” Ripeté, chiudendo gli occhi.
“Sarà difficile, con l’estro conclamato.” Continuò John, la voce labile, stanca.
“Il piano per l’estro è sempre lo stesso. Penserà la signora Hudson a te.” Rispose il detective, sentendo John muoversi appena, al suo fianco. “Ma troverò qualcosa, te lo prometto.” Aggiunse, posando incerto una mano sul braccio dell’altro.
“Non mi importa molto, in realtà.” John alzò il viso verso l’alto, incrociando gli occhi di Sherlock. “Certo, sarebbe meraviglioso poter tornare a girare liberamente per le scene del crimine. Ma posso farlo anche da Omega, a Calore concluso.” Aggiunse, con una vena di insicurezza appena percepibile nella voce.
“Troverò qualcosa.” Ribadì Sherlock, sicuro. “Ad ogni modo, non sei un Omega.” Aggiunse, alzando il viso verso il soffitto.
“No?” Domandò John, confuso.
“No.” Confermò il detective, sicuro. “Sei il dottor John H. Watson. La persona che ho la fortuna di poter definire coinquilino, collega ed amico.” Chiuse gli occhi, sospirando.
 
“L’uomo tanto coraggioso da aver scelto me.”


Angolo dell’autrice:
 
L’uomo.”
Volevo che fosse questa l’ultima sensazione a rimanere, della storia.
Un uomo e la sua scelta.
È stato un viaggio enorme, lunghissimo, ed è tutto lì, in quelle parole ed in un John al quale non importa poi più così tanto, che la gente sappia che è un Omega.
Perché si è trovato e ritrovato e, in fondo, può andar bene così.
 
 
 
Alla fine, anche questa storia ha trovato la sua conclusione.
Ammetto di essere ancora spaesata all’idea che non ci saranno altri capitoli.
È una sensazione strana, agrodolce, e penso che mi accompagnerà a lungo.
 
I miei ringraziamenti più sentiti a tutti voi.
A gli oltre cento che hanno “seguito”, agli innumerevoli che hanno letto, a chi mi ha dato la gioia di vedere la storia tra i preferiti, a chi ha commentato, sostenuto, indirizzato, gioito con loro, e con me.
 
È stato un viaggio incredibile, e credetemi se vi dico che ho il magone.
Senza di voi nulla di tutto questo sarebbe stato possibile (o comunque avrebbe avuto senso), quindi
 
GRAZIE
 
Non avrei potuto chiedere nulla di più, siete stati meravigliosi.
 
Un abbraccio forte.
B.
 
 
 
“See You Space Cowboy”
 
 
 
PS: loveart7 mi ha detto che il capitolo le ha fatto venire in mente il "Divenire" di Einaudi. La cosa mi ha commossa, ed il pezzo è davvero meraviglioso, quindi vi allego il link per poterlo ascoltare:

https://youtu.be/X1DRDcGlSsE



PPS: come al solito vi lascio con un’immagine. Non è del tutto uguale alla posizione di Sherlock e John sul divano, ma…
La amo alla follia.


 

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