E' fragile come una CPU... non farlo a pezzi

di killer_joe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** primo ***


Disclaimer: non posseggo One Piece, purtroppo... tutti i personaggi sono di proprietà del sensei Oda!


Buonasera a tutti! Sono fiera(?) di presentare l'ultimo parto della mia mente, ovviamente una Sanji/Zoro (ma no? sul serio?). Metto subito le mani avanti, comunque, temo che stavolta i miei personaggi siano un pelo OOC. Intanto Sanji non è un cuoco ma un informatico (come da introduzione), e Zoro non è uno spadaccino ma un hacker (sì, so che sembra ridicolo, ma concedetemi il beneficio del dubbio!). E per coloro che hanno aperto questa storia convinti di leggere una appassionante avventura ambientata tra virus e PC, devo disilludervi subito perché invece si tratta di una malinconica storia d'amore tra due disadattati anche abbastanza cretini.
Questo è quanto. Per chi decide di proseguire, ci si vede a fine capitolo! ;)




“E’ fragile come una CPU… non farlo a pezzi ”

 


Se continua così giuro che mi ammazzo.
Lavoro casa, casa lavoro, lavoro… ogni benedetto (si fa per dire) giorno. Ogni mattina tornare in questo posto asettico, circondato da robot concentrati sul fare carriera e immerso in file e file di monitor luminosi.
Mi chiamo Sanji, sono un ingegnere informatico e lavoro per una delle più grandi multinazionali del mondo. Qui si produce ogni tipo di supporto elettronico del mondo intero. Personal computer, tablet, cellulari, smartphone, lettori mp3 e mp4… e-book reader, console per videogames fissi o portatili e qualunque cosa vi possa passare per la mente. Ma non solo. Anche software, programmi, sistemi operativi. Siamo noi che vi permettiamo di fare la spesa con la carta di credito, e siamo anche la causa del prelievo automatico dal vostro conto corrente per saldare la rata del mutuo. Siamo quelli grazie ai quali potete inviare email mentre viaggiate in treno e quelli che monitorano ogni vostra visita in internet. Siamo capaci di facilitarvi la vita o di rendervela un inferno. Abbiamo in mano le redini del mondo.

Che figata, starete pensando. Col cazzo.

Per tenere in pugno la tecnologia internazionale è necessario un dispendio di tempo ed energie di cui non avete neanche idea e un numero di dipendenti che è quasi impossibile da controllare. Io non sono parte del consiglio di amministrazione e tantomeno un proprietario. Sono solo un tecnico, anche se piuttosto bravo, che sta ai vertici del sistema. Con la mia squadra ci occupiamo di proteggere la sicurezza dell’azienda da ogni possibile attacco informatico. Credetemi, non indovinereste mai il numero di hacker presenti in questo maledetto mondo e nemmeno la quantità di chiamate che ricevo ogni giorno e ad orari improbabili per ripulire il sistema. Ecco perché sembro perennemente un cadavere e sono solo come un cane.
Beh, forse l’essere solo come un cane non è colpa del mio lavoro, ma mi fa comodo pensarlo. Tutti cerchiamo giustificazioni, no?


Incredibilmente oggi sto andando al lavoro in orario d’ufficio, alle otto in punto. Già, perché di solito mi chiamano in anticipo. Magari oggi sarà una giornata tranquilla, anzi lo spero dato che stanotte non ho praticamente chiuso occhio. E si vede che sono suonato, ho sbagliato addirittura piano… meno male che sono riuscito a raggiungere l’ufficio. Adesso devo solo guadagnare la sedia e fissare un monitor, fingendo di lavorare. Pare un bel programma.
“Sanji-kun, meno male che sei arrivato! Stavo per chiamarti, abbiamo un problema”
Ottimo, ho parlato troppo presto. Di solito sarei stato felicissimo di venire accolto dalla dolce Nami-swan, il miglior direttore di settore che chiunque possa desiderare sia per capacità manageriali che per lato B.
Ecco, lo sapevo che mi sarebbe scappato. Ok lo ammetto, sono un depravato: io lo sapevo già, ora lo sapete anche voi.
Oggi comunque non sono in vena di smancerie, anzi non sono proprio in vena per nulla. Senza contare che non ho sentito la sveglia e mi sono fiondato fuori di casa senza nemmeno il caffè. Uno zombie sarebbe messo meglio.
“Dimmi, mia dea. Cosa succede?”
“Un attacco, sembra serio. Usopp dice che non sa cosa fare e Chopper ha ammesso che non ha mai visto una cosa simile. Siamo nelle tue mani.”
Che meravigliosa notizia. Se Usopp non sa che fare sarà bene che mi dia una mossa.
Usopp e Chopper sono ottimi ingegneri, assolutamente preparati. Chopper è praticamente appena uscito dall’università ed è stato assunto e assegnato a questa squadra per validissimi motivi, è laureato con il massimo dei voti e ha una mente sopraffina. Usopp è mostruoso nel suo ambito, con lui formo un team affiatato e davvero imbattibile. Se lui sta dando di matto vuol dire che il problema è grave.
Appena entro nella stanza vengo quasi assalito da un tecnico riccioluto.
“Saaanji ti prego! Risolvi la situazione!”
Mi divincolo dalla stretta per dare un’occhiata al monitor, e quello che vedo mi lascia esterrefatto. Effettivamente non è facilissimo capire che sta succedendo, anzi… mi siedo e immediatamente comincio a lavorarci.
Dietro di me, la squadra osserva il mio lavoro. Mi considerano un genio ma non sanno quanto abbiano torto. Io sono preparato, ho esperienza e capacità, ma nient’altro. Ho talento, ma niente più. E ne sono sicuro. I geni in questo mondo sono poco più del 2% della popolazione, e potrei anche avere la presunzione di considerarmi parte di questa minuscola percentuale se non lo conoscessi, un genio.
Lui è incredibile. Accanto a lui divento un pivellino.
Che altro dire, io sono normale. Nel senso che ho una vita di merda, come fossi un genio, ma sono normale. Mi viene da piangere.
“Allora Sanji-kun?”
“Hai capito il problema?”
“Riesci a risolvere?”
Basta! Cristo, lasciatemi in pace almeno un secondo! Come diavolo faccio a concentrarmi se devo lavorare con le vostre urla nelle orecchie? Se potessi tirare un pugno allo schermo e staccare la spina del computer… Uff, calma. Conta fino a dieci e ricomincia a respirare…
“Ci rispondi?”
“Sanji!”
Oddio, credo che dovrò contare fino a cento… Non riesco a focalizzare, i pensieri volano da tutt’altra parte. Allora, è un attacco al software, un virus probabilmente. Cerca di copiare i codici di accesso, per fortuna il mio sistema di sicurezza è abbastanza sofisticato da riconoscere l’intruso e negargli ogni ingresso. Però temo che non sia finita qui. Dovrei cancellarlo… ma non ho idea del come. Mi cadono le palpebre e neanche sbadigliando apporto abbastanza ossigeno al cervello, cazzo, non dovevo stare fino alle cinque di mattina a farmi seghe davanti a quel porno e… NO! Concentrati idiota, il virus!
“Non so come risolvere, dovete darmi un po’ di tempo” mi trovo ad ammettere con un sospiro. Le espressioni dei miei colleghi non mi lasciano per nulla tranquillo. Chopper è disperato, Usopp è terrorizzato e Nami è incavolata nera.
“Sanji-kun, non ce l’hai un ‘po’ di tempo’! L’azienda perde 13 milioni di dollari l’ora e ne sono già passate tre! Ti risparmio calcoli più precisi” mi sbraita addosso la nostra affascinante direttrice. D’accordo, ero in grado da solo di capire la gravità della situazione ma non per questo mi cadrà dal cielo la soluzione. Sbuffo per la frustrazione. D’un tratto Usopp si inquieta e indica verso la parete a vetri del nostro ufficio. Guardando nella direzione del suo indice riesco chiaramente a vedere il consiglio d’amministrazione dell’azienda in delegazione. Grandioso, di bene in meglio. Nami impallidisce ma, da perfetta ed impeccabile donna d’affari, deglutisce e si avvia ad accogliere i nostri superiori. Senza dimenticarsi, ovviamente, di sibilarmi un amorevole “Vedi di muoverti o saranno guai” che mi provoca brividi gelidi lungo la spina dorsale. Senza una parola, mi volto verso il monitor.

Tutta la maledetta mattinata passa così, a cercare una soluzione per la cancellazione di quel virus di merda e a dare soddisfacenti spiegazioni agli ignoranti che amministrano anche la nostra sezione. Di buono c’è che sono riuscito a far ripartire tutto o quasi. Di terribile c’è che non sono riuscito neanche a toccare il virus, sembra che ogni volta che riesca ad individuarlo scompaia nel nulla.
Non ho alternative, ovviamente. So dove devo andare nella pausa pranzo. Avverto Usopp di non aspettarmi tanto presto perché devo ‘riflettere’, lui non risponde ma annuisce complice. Nessuno sa come faccia a tornare sempre con la soluzione a qualunque problema, ma ormai non fanno più domande. È per quello che mi hanno etichettato come genio, ma sono liberi di pensarla come vogliono, non m’importa. Quello che conta, ora come ora, è tenersi il lavoro. Anche perché è l’unica cosa che mi permetta di dare alla mia vita una parvenza di realtà, se dovessi venire licenziato sarebbe come se firmassero la mia condanna a morte.
Buffo, senza lavoro sarei un cadavere a pieno titolo; con il lavoro sono un morto vivente. Credo che solo Patty sentirebbe la mia mancanza.
Ah, Patty è la mia tartaruga, vive con me e mi conforta nelle ore di solitudine.
Non dite niente, per favore, me ne rendo conto anche da solo.

Faccio una sosta in gelateria, mi sentirei uno schifo altrimenti. È una vita che non mi faccio vedere, praticamente dall’ultima volta che ho avuto un problema che non sapevo risolvere. Poi del cibo per lui va sempre bene, non oso immaginare come si sta nutrendo. Rabbrividisco ogni volta che mi rendo conto delle sue abitudini alimentari, ma ormai non mi ostino più a cercare di istruirlo, so riconoscere una causa persa quando ne vedo una. Credo che gliene porterò un chilo, di gelato.
“Che gusti le metto, signore?”
“Faccia lei, tranne il cioccolato”
Non gli piace il cioccolato, me lo ricordo bene anche se di solito non sto attento ai dettagli. O forse gli piace, ma mi ha detto di no solo per farmi incazzare. Gli avevo preparato la torta per il compleanno… al cacao. Merda. Forse dovrei tornarmene a casa e rassegnarmi a perdere il lavoro.
“Ecco a lei. Fanno 12 dollari e 20”
Prendo in considerazione l’idea di mangiarmi da solo dodici dollari di gelato, con la possibilità poco probabile di dividerlo con Patty e l’eventualità molto probabile di vomitarlo tutto nel lavabo per lo stress. No, non posso permettermi di assecondare le mie debolezze adesso. E devo ammettermelo, in fondo lui mi manca.
Cammino, forse un po’ troppo lentamente considerando i milioni che sfumano ogni istante in cui io me la prendo comoda. L’autunno sta lasciando il posto all’inverno, il vento si fa più gelido e devo sollevare il colletto della giacca. Ho dimenticato a casa la sciarpa, è un sacco di tempo che non cammino per la città e non mi ero nemmeno accorto che fosse cambiata stagione. Ecco come gli impegni riescono a scinderti completamente dalla realtà, creando una spaccatura tra la vita e quello che tu consideri vita tale da lasciarti senza fiato quando te ne rendi conto. Se te ne rendi conto. Da un certo punto di vista sono felice di esserne consapevole, significa che sono ancora qua. Anche se mi sento morto dentro.
Mi allontano dalla zona di Manhattan e mi addentro nel Bronx, il grigio della nebbia si confonde con il colore spento dei muri sberciati. Con tutti i soldi che ha potrebbe abitare in una zona più bella, se non nei quartieri di lusso almeno in un’area residenziale. Ma anche questa è una battaglia persa, io mi sono rassegnato tempo fa.

Raggiungo il palazzo dal portone rosso, non hanno ancora aggiustato la serratura. Meglio per me, non devo suonare e posso tergiversare ancora mentre salgo le scale. Quasi non mi accorgo che sto rallentando ancora. Sempre più piano… Cosa gli dirò?... più piano… Cosa mi dirà?... piano… Mi sbatterà la porta in faccia… pianissimo… Ora torno a casa…
Busso, ovviamente. Abbastanza leggero da poter credere che non abbia sentito, abbastanza forte da essere sicuro che verrà a rispondere. Sono davvero patetico.
Sento dei passi dall’altra parte della porta e per un attimo mi viene il dubbio che non abiti più qui. Se non dovesse essere lui? Valuto l’ipotesi per qualche istante, potrei nascondermi dietro alla pianta rinsecchita all’angolo del pianerottolo e guardare senza essere visto chi aprirà la porta. Oppure potrei assumermi le mie responsabilità e andare con coraggio incontro ad una monumentale figura di merda. In quel caso potrei regalare allo sconosciuto il gelato, di sicuro lo gradirà più di Patty. O del lavabo.
Dall’altro lato del corridoio sembra che si sia messa in azione una cassaforte, si sentono cigolii e ingranaggi che stridono come se non fossero stati utilizzati di recente. Dopo quasi cinque minuti di rumori, il silenzio. Si apre uno spiraglio, legato dalla catena. Cos’è, paura dei ladri?
Nel fascio di luce che viene dalla porta, riconosco una fisionomia nota e una familiare testa di capelli verdi. Abita ancora qui, in questo posto da schifo. Una parte di me esulta, l’altra se ne dispiace. Non cambierò mai. Lo osservo, per quanto mi è permesso dalla porta semichiusa; non è cambiato di molto, solo i capelli un po’ più lunghi e la pelle un po’ più pallida. Anche lui mi guarda, con i suoi occhi che paiono buchi neri in cui devi stare attento a non cadere e perderti per sempre. Ero solito scivolarci dentro e bearmene per ore, tempo fa. Adesso devo stare attento a camminarci nel bordo, come un equilibrista. Vorrei sorridere ma ho paura che esca un ghigno quindi non ci provo nemmeno, non che lui stia facendo grandi sforzi per mettermi a mio agio, mi guarda come fossi un’apparizione. La voce mi è morta in gola, non riesco nemmeno a salutare. Fortunatamente ci pensa lui a rompere il ghiaccio.
“Ah, sei tu.”
Ho per caso detto ‘fortunatamente’? D’un tratto mi sembra di aver recuperato tutto il mio coraggio e la mia strafottenza.
“Mi fai entrare?”
Mi squadra un’altra volta e mi punta di nuovo quelle perle nere che ha al posto degli occhi dritte in faccia. Sostengo lo sguardo per un tempo che mi pare infinito. Poi lui alza gli occhi al cielo e sbuffa. La porta sbatte per poi riaprirsi, libera dal catenaccio.
“Entra” mi dice, il tono piatto.
Lo seguo attraverso l’ingresso, la casa è esattamente come la ricordavo. Vuota, se non si conta il numero esagerato di personal computer e congegni elettronici che giacciono ovunque, dal salotto alla camera. Ha due semplici stanze praticamente semivuote; un tavolo, la cucina con solo il gas e il lavandino e, nella seconda stanza, il letto, il comodino e i pesi. Cavolo, quel comodino l’ho comprato io… non riesco a contenere una stretta di commozione.
“Non l’hai buttato” gli faccio notare, indicando il mobiletto in noce. Guarda distratto verso l’altra stanza.
“Perché avrei dovuto?” mi chiede ingenuamente, sembra che abbia detto una colossale idiozia. Scuoto la testa, non mi serve davvero una risposta. Mi porge una sedia e crolla con malagrazia sulla sua, il volto già immerso nello schermo sul tavolo. Le dita danzano febbrilmente sulla tastiera, come stesse componendo una melodia. Lo guardo ammaliato per qualche minuto, dimentico di quello per cui ero venuto. Mi fa sempre questo effetto, è più forte di me, e credo che anche lui non abbia dimenticato la sensazione di sentirsi osservato.
Non gli ha mai dato fastidio, di questo sono sicuro.

E’ lui a riscuotersi per primo. Parla senza staccare gli occhi dal monitor, il suono esce dalle sue labbra come fosse lontano anni luce da lì e non nella stessa stanza accanto a me. Certo, ormai è questo che siamo diventati… due galassie diverse. E devo farmene una ragione.
“Di cosa hai bisogno?”
Che brutta domanda da sentirsi rivolgere, ti scarica addosso tutta la pochezza di spirito che senti di avere nel petto ma che avevi tentato di nasconderti fino a quel momento. Percepisco la mia meschinità come una seconda pelle, ma inutilmente cerco di celarmi dietro ad una maschera.
“Cosa ti fa pensare che abbia bisogno di qualcosa?” chiedo, la voce falsamente sarcastica e leggermente distorta. Ottengo un effetto inaspettato, si volta verso di me. Erano anni che la mia voce non conquistava questo risultato, ma non so se esserne stupidamente felice o terribilmente spaventato. Si è reso conto della situazione disperata in cui mi ritrovo?
Dall’espressione capisco esattamente cosa sta pensando, di solito ti ripresenti quando il tuo minuscolo cervello non riesce a penetrare i misteri della vera informatica. Ma non mi umilia così, si limita alla riflessione. Poi lo sposta lo sguardo sulle mie ginocchia.
“Oh, gelato…”
Prende la vaschetta che avevo ancora in mano, me ne ero dimenticato. In quel momento, quasi come un riflesso incondizionato, mi guardo intorno alla ricerca d’indizi su come e cosa mangia, quanto può essere difficile da sopprimere l’abitudine. Con orrore mi rendo conto delle confezioni di cibo in scatola e cinese take away, delle lattine di birra e bottiglie di pepsi cola. Sento un brivido su tutto il corpo.
“Magari la prossima volta ti faccio la spesa, sembri averne bisogno…”
Non commenta nemmeno stavolta, la cosa suona strana alle mie orecchie. Una volta non mi risparmiava nulla, anzi. Lo sento scartare il gelato e armeggiare con coppette e cucchiaini. Poi, una risatina divertita.
“Ma guarda, niente cioccolato…”
Ecco ricomparso lo stronzo che conosco.

Mangiamo in silenzio, lui ancora lo sguardo perso nel computer, io fisso su di lui. Come al solito indossa vecchi jeans trasandati e una t-shirt scolorita. Non ha perso il suo fisico atletico, anzi sembra aver aumentato la massa muscolare, d’altra parte le occhiaie nere e il colorito pallido mi suggeriscono che non esce molto di casa. La sua salute fisico-psichica non sembra molto migliore della mia, ma come sempre è ‘mal comune nessun gaudio’. Guardo da sopra le sue spalle che cosa sta facendo al computer e, al solito, non capisco una mazza. Sta configurando qualcosa, inserisce caratteri ma di più non riesco a decifrare. Sembra che mi abbia letto nel pensiero perché, d’un tratto, comincia a spiegarmi.
“E’ un virus invisibile; lo programmo in modo che si, come dire, “nasconda” dentro ai server e che si riproduca quando vengono riconfigurati i codici. Lo spedisco in coppia con un virus esca e, quando disattivano e riattivano i programmi per cancellare l’esca… mi danno accesso a tutti i loro server, esattamente come ora”. È sempre stato un filo saccente nelle spiegazioni, mi tratta come un laureato di primo pelo e la cosa mi ha sempre mandato in bestia. Ho tutte le intenzioni di farglielo notare ma riprende a parlare prima che riesca a lamentarmi.
“Ciò significa che, ora, posso scaricare ogni informazione da tutte le loro catene di archiviazione elettronica… cosa che ho intenzione di fare, ovviamente” continua, gli è spuntato un sorrisino furbetto a lato della bocca. Rapido, inserisce una chiavetta USB nel portatile.
“vuol dire che conosco ogni minima notizia e relazione di quest’azienda e che posso farne uso in qualunque momento per qualunque scopo. In sintesi, li tengo per le palle” conclude, il sorrisino trasformato in un ghigno sghembo di pieno appagamento e considerazione di sé. Maledetto hacker del cazzo, sapesse come si stanno dannando in questo momento gli informatici che si occupano della sicurezza del sistema che si è appena divertito a smantellare. Ora come ora gli tirerei un schiaffo da capogiro. Credo che si sia reso conto del mio pensiero spontaneo, perché mi guarda divertito.
“Non picchiarmi, non è la tua azienda che ho hackerato…” mi dice, candido come una colomba appena caduta in una stiva di petrolio. Lo guardo malissimo, non è certo questo che mi preoccupa e ormai mi sono rassegnato anche del fatto che si diverta a delinquere, il mio problema ora è quel virus che…
Cazzo. Oh, cazzo.
No, non posso aver fatto un errore così clamoroso ed eclatante. Non posso aver passato l’intera mattina a cercare di distruggere una semplice esca mentre il vero virus, invisibile, stava copiando i dati comodamente da dentro il server. Se dovesse essere così… non oso nemmeno immaginare la possibile stima dei danni, altro che licenziamento, quelli mi fanno la pelle. Si accorge subito del mio repentino cambio di umore e mi guarda un po’ preoccupato.
“Stai bene? Sei impallidito” mi fa notare, gli ricorderei che lui è talmente bianco da potersi mimetizzare con il muro ma, francamente, ora ho altro per la testa. Sposto lo sguardo da lui al suo computer un paio di volte prima di recuperare l’uso della parola. La voce mi esce flebile dalla gola, vorrei non dover pronunciare niente del genere. Ma se c’è una persona che può aiutarmi a sistemare la situazione, quello è lui.
“Potrei… potrei aver subito un attacco simile al mio sistema, stamattina” comincio cauto, evito di guardarlo in faccia. Sento comunque che si è raddrizzato sulla sedia, vuol dire che è interessato. Allora continuo.
“E… potrei aver passato la giornata a cercare la presunta ‘esca’, dopo aver riattivato il programma”. Sento la gola secca e il respiro pesante. No, non può essere vero, deve essere un incubo.
Non mi risponde subito, il silenzio diventa pesante. Risollevo lo sguardo su di lui, ho bisogno di sapere, ma lo trovo concentrato, una mano a sorreggersi il capo e l’altra che picchietta sul tavolo, gli occhi chiusi. Quando riapre le palpebre mi fissa, il suo sguardo quasi mi trapassa. Mi sento male.
“L’hai cancellato il virus?” mi chiede semplicemente, ma intuisco che la risposta a questa domanda è la chiave per la mia tranquillità.
“No… non sono riuscito nemmeno a vederlo. È per questo che sono qui” rispondo, credo che la verità sia l’arma migliore. Si rilassa subito, ha addirittura il coraggio di sorridere davanti alla mia espressione terrorizzata. Gli rivolgo uno sguardo sdegnato.
“Non preoccuparti, il problema è un altro. Se fosse stata una semplice esca, anche tu saresti riuscito a cancellarlo” mi tranquillizza, ricominciando a lavorare sul suo PC.
Si è accorto che mi ha appena insultato?


Al mio ritorno in ufficio so esattamente come comportarmi. Mi rinchiudo nel mio antro e, con le due dritte di Zoro, risolvo il problema in meno di due ore. La direttrice è al settimo cielo, gli amministratori sono soddisfatti, il calcolo dei danni è alto ma non insostenibile e io ho ancora il lavoro. Per l’ennesima volta, grazie a lui.
Ho a malapena il tempo di andare a farmi una doccia e a cambiarmi d’abito e vengo letteralmente trascinato fuori, a bere sopra lo scampato pericolo. Dovrei essere felice di passare una serata in compagnia, io che mi lamento sempre del fatto che faccio coppia con Patsy. Eppure mi sento vuoto e stanco, stasera vorrei solo stendermi sul divano e smettere di pensare.

Di pensare che io non merito di sedere qui.
Di pensare che l’unica persona che ci permette di avere ancora un lavoro e uno stipendio è da un’altra parte, sola.
Di pensare che quella persona mi manca da morire.
Di pensare che la mia solitudine e la sua sono uguali.
Di pensare che, in fondo, è solo colpa mia.

Nami parla ininterrottamente da ore ormai, ma io non recepisco nemmeno una parola. Usopp è ubriaco fradicio e balla sul tavolo, sparando panzane assurde a cui solo Chopper può ancora credere. C’è anche il ragazzo di Nami, sono insieme da circa due mesi. Io non lo sopporto, è un cafone idiota ed arrogante, ma lei sembra stare bene, era da tanto che non la vedevo ridere così felice. O forse è su di giri perché, nonostante il rischio di oggi, non ci hanno abbassato lo stipendio. Quella ragazza è impossibile da decifrare.
Alla fine è lui che le tappa la bocca, meno male non ne potevo più. Siamo tutti alticci ormai, lei e il suo bello cominciano a strusciarsi addosso e a limonare nel bel mezzo del locale e io mi sento ancora più solo.
Non che mi piaccia Nami, chiariamo, anche se è una gran bella ragazza e non disdegnerei certo. Il mio tormento è molto più interiore, si potrebbe definire platonico. Se non fosse che sono anche morto di fame e non scopo da un anno. Ecco, mettiamo in piazza tutti i problemi, chissenefrega della dignità…
Tiro fuori dalla tasca il cellulare, tanto per fare qualcosa e distogliere lo sguardo non perché abbia effettivamente qualcuno da chiamare. Pigramente scorro le dita sul display leggendo i numeri della rubrica; sono tantissimi contatti, che però non sento più da tempo immemore. Compagni di liceo, qualche amico delle vacanze estive, colleghi di università… arriva anche il suo contatto: marimo idiota. Devo riconoscere che non sono mai stato granché carino, con lui.
Potrei chiamarlo e chiedergli come sta, se non temessi di fargli venire un mezzo infarto per averlo contattato due volte nella stessa giornata. E inoltre, chiamarlo da non esattamente sobrio non mi sembra una grande idea. Comincio a scrivere un SMS:

“Cretino, non stare da solo tutta la sera e vieni a bere qualcosa”


Leggo due o tre volte, indugiando sul tasto ‘invio’. Aggiungo una cosa:

“…che questa vittoria la dobbiamo a te”.

Rileggo. Non mi convince.

“la devo a te”


Così è perfetta. Chiudo lo schermo con uno scatto.

Sarebbe perfetta, se non fossi un codardo.






Angolo dell'autore:

Eccoci qui! Allora, che ne pensate?
Questa fic è un piccolo esperimento, tutta in prima persona e con il punto di vista di Sanji. Aspetto vostri commenti, vorrei sapere se l'idea ve gusta o se invece trovate la narrazione pesante.
La storia è già pronta e confezionata, consiste in due capitoli lunghetti (quello che avete appena letto e il prossimo) più una specie di epilogo, che invece è cortino. So che è OOC ma spero non troppo, mi scuso per quanto è sboccato il mio Sanji (ci provo in tutte le maniere ad insegnargli l'educazione, io, ma è impossibile, è peggio di uno scaricatore di porto!).
Zoro è un disadattato. Evviva.
La tartaruga si chiama Patty perché nemmeno Sanji avrebbe potuto chiamarla Carne, e avevo paura a chiamarla Zeff (non ci tengo a ritrovarmi morta con una gamba di legno a perforarmi la schiena).
Il rating è giallo e rimarrà tale.


Un bacione, alla prossima!

killer_joe




 

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Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***


Disclaimer:  non posseggo One Piece!, tutti i personaggi appartengono al sensei Oda.

Capitolo 2:

Per qualche mese le cose sembrano andare bene. Gli attacchi di hacker e simila sono costanti ma gestibili, l’atmosfera in ufficio è temperata, come il clima, dalla imminente primavera, e io fingo di sentirmi in forma e pieno di voglia di vivere.
In realtà sono sempre più uno straccio.

Non lo sento da quest’inverno ma ciò non significa che non sia costantemente nei miei pensieri, anzi. Sono preoccupato per lui, anche se non dovrei. O forse mi sto nascondendo ancora e in realtà sono preoccupato per me. Beh, il primo traguardo di ogni cura psichica è ammettere il problema a se stessi, posso dire di aver fatto un passo avanti.

Prima di raggiungere il Bronx passo al supermarket, gliel’avevo promessa, una spesa, e non sia mai che io non colga l’occasione di comportarmi da bastardo quale sono. Niente bibite gassate né cibi ipercalorici e molta verdura che so finirà a marcire in frigo. Già che ci sono, aggiungo alla lista una tavoletta di cioccolato. Bene, direi che ho preso tutto.
Mi avvio a piedi, questa volta sembro volare sull’asfalto e in meno di venti minuti sono già lì. Il portone è ancora rotto, manutenzione zero in quel palazzo. Salgo le scale e non ci metto niente a raggiungere il suo piano, ma mi stupisce la porta socchiusa. Nell’appartamento c’è confusione, piccole urla e schiamazzi come ci fosse un bambino divertito. Busso, poco convinto.
La porta si spalanca con un tonfo e vengo quasi travolto da un uragano formato ragazzo. Il tipo mi fissa e lo riconosco subito, nonostante sia passato del tempo. Anche lui si rende conto di chi sia.
“SANJI!” mi urla in faccia, prima di stringermi in una morsa spaccaossa che voleva somigliare a un abbraccio ma che non ci va neanche vicino. Cerco di ricompormi, prima di abbozzare un timido sorriso.
“Rufy…”

Rufy è un suo amico di vecchia data. Lo conoscevo bene, anni fa bazzicava per casa praticamente ogni giorno. A quel tempo era un ragazzino, ma anche ora sembra non aver perso la sua aria spensierata. Sapevo che era partito, un anno di viaggio studio in Australia che poi si era tramutato in tre anni di studio-lavoro. L’esperienza gli era servita a maturare, glielo si leggeva in faccia. Nonostante tutto era ancora ingenuo e perennemente allegro, e la sua leggerezza sembrava fare bene a Zoro, lo vedo più rilassato. Probabilmente fa bene anche a me, è la prima volta che riesco a sorridere spontaneamente e senza farmi violenza.
“…comunque dovete vederla, ragazzi. L’Australia! E sapeste i canguri” Rufy racconta, un fiume di parole in piena che nessuno di noi due ha intenzione di frenare, il silenzio altrimenti sarebbe  imbarazzante. Non ero nemmeno entrato che già Rufy si era fiondato su quello che aveva individuato essere cibo, non che la cosa mi stupisca particolarmente visto il pozzo senza fondo che il ragazzino si ritrovava al posto dello stomaco. Lui ha concesso un’occhiata veloce alla borsa e al suo contenuto, distogliendo subito lo sguardo e non commentando nulla.  Non mi aspetto altre reazioni, in fondo mi è bastato l’accenno di sorriso che non è riuscito a trattenere, stupido marimo.
La porta si apre di nuovo ed io mi volto sorpreso. Tutta questa gente a casa sua non me la aspettavo proprio. Rufy si fionda sul nuovo arrivato come aveva fatto poco prima con me, chiamandolo tra gli strilli.
“Fratellone!”
Il ragazzo appena entrato si chiama Ace, è il fratello maggiore di Rufy e amico di Zoro da sempre. Non mi ha mai sopportato e la cosa è reciproca, ma entrambi eravamo legati a lui e nessuno dei due era disposto a lasciare il passo. Appena mi vede, sbarra gli occhi.
“Tu che cazzo ci fai qui?”
Già, me lo chiedo anch’io. Che mi è venuto in mente?
“Ciao anche a te, Ace…”
Non mi va di litigare adesso, in casa sua, dopo mesi che non mi faccio vedere e anni che non lo frequento. Lui si alza e, senza una parola, mi sorpassa e raggiunge Ace. Temo quello che sto per vedere, ma non accade nulla.
“Dov’è la roba?” gli chiede semplicemente, e non riesco a trattenere un sorrisino strafottente nel vedere
l’espressione delusa del moro.
“Neanche ‘ciao’?” chiede Ace, con un lampo di speranza. Lui sembra rendersi conto della sua freddezza, credo voglia rimediare.
“Ciao, Ace. Dov’è la roba?”
Però, ha sfoggiato tutta la sua empatia… per un attimo sento un po’ di compassione per il ragazzo moro. Ma è solo un attimo. Ace sbuffa leggermente ma tira fuori un pacchetto dai pantaloni.
“Alta qualità caro, stasera ci sballiamo per bene” commenta, ottenendo un suo ghigno soddisfatto. Poi rialza lo sguardo su di me e mi squadra minaccioso.
“E lui rimane?” chiede acido, lanciandomi la sfida con gli occhi. Questo basta per riaccendere l’antica rivalità, se prima non vedevo l’ora di scappare adesso rimarrò fino a che non mi cacceranno. Se lui mi caccerà, ovviamente, non accetterò l’autorità di nessun altro. Lui alza le spalle.
“Come gli pare” dichiara, indifferente. Poi afferra un pacchetto di sigarette e si avvia verso la terrazza comune nel corridoio.
“Io mi faccio una cicca” giustifica la sua azione, per poi sparire attraverso l’ingresso.
Lo seguo, sia perché non ho intenzione di affrontare Ace ora sia perché sento che ho bisogno anch’io di una paglia. Senza dire nulla, mi accosto a lui e guardo il paesaggio dalla terrazza. New York, bella e moderna, piena di opportunità e speranze ma allo stesso modo colma di amarezza e delusioni. Io la vivo così, questa è la mia città e il mio mondo e, in verità, non conosco altro. Non ho termini per fare paragoni, anche se sono abbastanza sicuro che penserei altrettanto davanti a qualunque altra metropoli, perché chi fa la città sono le persone e queste sono diverse ma uguali dappertutto. Il sole è ancora alto nonostante sia pomeriggio inoltrato e i raggi dorati sbucano attraverso i grattacieli della Grande Mela, illuminandoci in volto.
Fumiamo uno accanto all’altro, in silenzio. I miei pensieri si fanno radi.
Mi sento in pace.

Quando rientriamo, vediamo che i due fratelli hanno già preso possesso dell’appartamento, Rufy si sta ingozzando e Ace giochicchia distratto con un accendino, maledetto piromane esagitato. Lui fa per entrare ma lo fermo sulla porta.
“Finiscono come una volta, queste serate?”
Non riesco a non chiederglielo, e non è per curiosità. Più, forse, per un mio malcelato rimpianto, che temo si senta nella mia voce non proprio ferma. Lui non mi guarda mentre risponde.
“A volte” confessa laconico. Sento una stretta al cuore. Era quello che non volevo sentirmi dire ma, effettivamente, scemo io che l’ho chiesto. Sospiro, un po’ teatralmente.
“Quindi, con Ace…”
Sembra proprio che oggi voglia farmi del male, o forse ho maturato un insano istinto al masochismo da aggiungere alla lista dei miei attuali problemi che già conosco. Quello che esce dalle sue labbra potrebbe essere uno sbuffo come una mezza risata divertita.
“Niente del genere. In fondo me l’hai detto tu, no? Come Nash, due parti di cervello, mezza di cuore…”
Mi lascia lì come uno stoccafisso, mentre lo guardo rientrare in casa. Quest’ultima battuta mi ha colpito in pieno con la forza di uno schiaffo. Già, sono un coglione e che mi aspettavo, che mi consolasse? Lui?
E’ colpa mia, e lo so anche senza chiedere a lui la conferma. Sono io che ho mandato tutto all’aria.

Sono io che gli ho detto che i geni non sanno amare.




Sono un codardo. Un pavido coniglio che non ha nemmeno il coraggio di lottare per quello cui tiene.
Per coloro cui tiene.
Alla fine sono scappato come un vigliacco, non credo che avrei retto ancora l’immagine di Ace così maledettamente vicino a lui… Lui non mi ha fermato. Mi ha guardato fuggire da pusillanime quale sono.
Mi sento così sciocco.
Nemmeno mi rendo conto che sto correndo come un disperato, su New York comincia a cadere una pioggia leggera. Bene, un altro motivo per non fermarmi.
Scappo lontano, il più lontano possibile da quel posto e da quei ricordi che mi fanno male, così male che posso sentire il mio cuore lacerarsi.
Voglio rintanarmi nel mio rifugio sicuro, nascondermi sotto le coperte e, nel buio più fitto, piangere fino ad esaurire le lacrime. Vorrei riuscire a spegnere il cervello per almeno una notte, mi sembra stia andando a fuoco. Vorrei un po’ di quella roba di Ace, per sballare e dimenticare. Vorrei morire.
Mi sento così solo.
 


..............................................



La sveglia non è suonata stamattina. O forse sì, certo non l’ho sentita. Mi sento la testa pesante e ho gli occhi appannati. A fatica mi alzo e barcollo verso il bagno, cavolo dovrei essere in ufficio da due ore… Ricado pesantemente sul letto, le gambe hanno ceduto e tremo dalla testa ai piedi. Forse sono malato.
A fatica allungo un braccio e afferrò il cellulare, devo chiamare Nami, saranno preoccupati. Mi prenderò un giorno di pausa.
Leggo che ho un numero spropositato di messaggi sul display, suppongo che la mia squadra abbia tentato in tutti i modi di contattarmi. Compongo il numero, leggerò dopo le promesse di morte che sicuramente mi hanno inviato. Il telefono suona meno di due volte prima che rispondano:
“Sanji-kun!!! Ma dove diavolo sei finito? Ti chiamo da ore!” La voce della mia ‘adorabile’ direttrice mi rintrona il cervello. La lascio sbraitare finché non è lei a interrompersi.
“Perdonami Nami-swan, la sveglia non ha suonato… Mi sento malissimo, credo di avere l’influenza” spiego, intanto lascio vagare lo sguardo per l’appartamento. Mi focalizzo sul tavolo, dove fa mostra di sé la mia riserva personale di sonnifero, mezza vuota. Sfido che non ho sentito la sveglia! Lei sbuffa sonoramente ma raddolcisce i toni.
“Mi dispiace Sanji-kun, scusa se ti ho attaccato così ma eravamo preoccupati… Riposati e guarisci presto!” mi dice gentile. La ringrazio e chiudo la chiamata, non è stata così tragica come temevo. Mi sdraio e poggio la testa sul cuscino, sono intontito e stanco. Apro i messaggi per inerzia, due risate mi faranno solo bene.

Nami-swan: “Sanji-kun, sei in ritardo! Te la faccio passare solo se compari entro due minuti!”
Usopp: “Sanji, che ti piglia? Dove sei?”
Chopper: “Sanji stai bene?”
Nami-swan: “Razza di perditempo, vieni al lavoro!”
Usopp: “Sanji, Nami sta per prendere fuoco… ho paura…”
Chopper: “Sanji, almeno rispondi!”
Nami-swan: “Se non ti degni almeno di rispondere giuro che ti riduco in poltiglia!”
Usopp: “Sanji, se non vuoi rischiare la vita ti consiglio di rispondere…”
Marimo idiota: “Come stai? Chiamami appena puoi”
Chopper: “SANJI!!! Stai male???”
Usopp: “Dimmi che non sei morto”
Nami-swan: “Sanji sei morto!”


Mi blocco di colpo, credo di non aver visto bene. Risalgo i messaggi.

Marimo idiota: “Come stai? Chiamami appena puoi”


Strofino gli occhi con il dorso della mano, in teoria il sonnifero non dovrebbe darmi le allucinazioni…
No, il messaggio è reale, è ancora lì. Il mio cuore perde un battito.

Chiamami appena puoi”

Le immagini della sera prima mi inondano la mente simili ad una mareggiata, lasciandomi come ubriaco. Lui, Rufy, Ace… Lui, soprattutto lui. Mi ha scritto.
Apro la rubrica e la scorro per cercare il numero. Ho tante cose da dire, rimpianti da cancellare, frasi orribili da farmi perdonare. Appena vedo il suo contatto, però, mi blocco. Lo fisso per minuti che sembrano anni, ma non ho il coraggio di chiamare. Non ho coraggio…
Lascio il cellulare sul comodino e raggiungo a fatica il bagno. Devo darmi una rinfrescata, al corpo e alla mente. Lascio i vestiti che indosso, dal giorno prima, sul pavimento ed entro nella doccia. L’acqua scorre sul mio corpo, la sento tra i capelli, sulle spalle, nel viso. Tengo gli occhi chiusi e mi faccio accarezzare, come fossero le mani dolci di un amante. Le sue mani, delicate e gentili, che mi mancano così tanto.
Credo di aver passato in doccia circa un mese, forse dovrei uscire. Mi avvolgo l’asciugamano attorno ai fianchi e ne sfrego un secondo tra i capelli, lasciandoli umidi, poi ritorno in camera.
Mi sento un po’ meglio, non tremo più e riesco a camminare eretto senza bisogno di appoggiarmi al muro. Mi rivesto svogliatamente, un paio di boxer e un pigiama leggero. Decido di tornare a letto per riflettere. Anzi, per dormire.
L’occhio mi cade sul cellulare e sento improvvisamente un moto di ardimento che di solito non mi appartiene. Lo prendo di scatto e apro il suo messaggio.

“Non così male, pensavo peggio. Tu?”


Rapidamente lo invio, non devo crogiolarmi in ripensamenti. Evito accuratamente il suo invito a chiamare, non resisterei mezzo secondo alla sua voce. Ovviamente, appena inviato mi vengono in mente ottomila e cinquecento frasi diverse e migliori con cui avrei potuto rispondere, ma decido di non pensarci. Chiudo il cellulare e gli occhi.
Manco a dirlo, non riesco a dormire. Il sonno sembra passato del tutto, così come l’intorpidimento dovuto al sonnifero di ieri sera. Ora come ora c’è solo l’eccitazione, mista a paura, dell’attesa. Aspetto che risponda, temo che risponda, voglio che risponda. Il cuore fa un tonfo quando sento la suoneria di un messaggio. Scatto a sedere su letto e afferro il cellulare, spero solo che non sia un messaggio promozionale o credo che il cuore non reggerà il momento. Apro whatsapp con le dita tremanti.

Marimo idiota: “Meno male, ieri mi sembravi scosso”


Però, che occhio. Sono solo scappato dall’appartamento, correndo come se mi stessero inseguendo e rischiando di rotolare per le scale. Già, assolutamente normale…

“Solo un po’. Finita bene la serata?”


Come dicevo, probabilmente c’è davvero un istinto al masochismo che dovrei farmi curare. Io non voglio davvero sapere com’è finita la serata, no? Soprattutto se comprende lui ed Ace nello stesso letto.

Marimo idiota: “Insomma. Ci mancavi”


Prego? IO mancavo? A chi esattamente, Ace?

“Credo di non capire…”


Che cretinata ho scritto? Meno male che non volevo lasciarmi guidare dall’istinto. Non voglio rovinare tutto, non di nuovo.

Marimo idiota: “Ci mancavi, scemo. A me e Rufy, ovviamente”


Eggià, figurarsi se al drogato piromane non aveva fatto piacere la mia penosa uscita di scena. Al solo pensiero di come doveva essere soddisfatto e appagato al vedermi fuggire come un vile mi fremono le mani. D’altra parte, mi sento semplicemente al settimo cielo per quella semplice affermazione, “ci mancavi”. Potrei benissimo interpretarla come un “mi manchi”, e forse non è riferita solo a ieri sera.
O forse io mi sto facendo i film mentali come mio solito.

Marimo idiota: “Sicuro di non star male?”


Heilà, che perspicacia è questa? Sì, mi sono sparato mezza boccetta di tranquillanti e ne sento l’effetto, ma lui non dovrebbe saperlo, no?

“Sì, perché?”


Marimo idiota: “Non hai fatto cazzate ieri sera, vero?”


Ohi, va forte con le deduzioni stamattina. Mi guardo intorno in cerca di una cimice, sono tentato di andare a controllare la telecamera del computer. Visto che sto parlando con uno degli hacker più capaci e pericolosi che conosca, il timore è legittimo.

“No… Cioè, non così gravi. Ma come diavolo fai a saperlo?”


Glielo scrivo, non voglio mentire e, soprattutto, gradirei veramente sapere come mai quest’interrogatorio.

Marimo idiota: “Non sei al lavoro… A meno che tu non sia libero di messaggiare in orario d’ufficio”


Eh, bella, ha ragione. Altro che cimice, si tratta solo di buon senso. Rido come un ebete per le mie stesse scemenze.

Marimo idiota: “Non voglio controllarti, sono solo preoccupato”


Il mio cuore fa una capriola. Ora so che, stamattina, non potrei essere più felice di così.









Angolo dell'autore:

Ed ecco il secondo capitolo!  Come vi pare? Finalmente si capisce qualcosa di più su quello che è successo tra i due protagonisti... senza contare l'ingresso del "terzo incomodo" (per Sanji) un innamoratissimo Ace!
Bene, e i miei disadattati continuano a farsi del male da soli.

Spero di leggere un vostro parere su questa storia, perché mi sta molto a cuore.
Alla prossima

killer_joe

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Capitolo 3
*** Epilogo ***




EPILOGO



Continuiamo a scriverci ogni giorno per quasi tre mesi. Non ci diciamo granché a dire il vero, parliamo del più e del meno e in definitiva è come se stessimo commentando le condizioni atmosferiche e l’inflazione crescente, ma almeno stiamo parlando. Credo sia davvero patetico a pensarci bene, ma mi sembro un’adolescente alla prima cotta. E, a dire il vero, è una sensazione meravigliosa dopo tanta solitudine.

Marimo idiota: “Come sta Patsy?”


Questa è bella, se la ricorda ancora?

“Bene, mangia, nuota e dorme tutto il giorno… vita da tartaruga”


Commento, evito di alludere al fatto che, se sostituiamo ‘nuota’ con ‘lavora’ potrebbe benissimo descrivere la mia vita di questi ultimi due anni…

“Entro in ufficio. Ci sentiamo quando stacco”


Marimo idiota: “Mm… divertiti :P”


Ecco che mi sfotte, ha sempre riso del fatto che abbia fatto dell’informatica un lavoro. Per lui è incomprensibile, il computer è un amico fedele e i programmi alla stregua di vicini di casa. Per non parlare dei virus, la sua ‘invincibile armata’… non posso comunque fare a meno di sogghignare, soprattutto sapendo che il suo conto in banca, ottenuto tramite trasferimenti poco legali e ignobili ricatti, ha almeno cinque zeri in più del mio. Forse la scelta giusta è stata la sua.



La giornata passa in fretta, in quest’ultimo periodo sento il cuore leggero. I problemi da risolvere non mi sembrano più così fastidiosi e complessi, i colleghi mi paiono più simpatici e tutto ha preso colori più brillanti nonostante sia già settembre e si stia avvicinando sempre più la data di scadenza del mio contratto, mio e della mia squadra. Abbiamo avuto un anno eccellente, siamo riusciti a risolvere tutti i problemi di sicurezza, anche i più complessi, limitando i danni… non ho timori, ho ottime probabilità di essere riconfermato. Anche questo, neanche a dirlo, grazie a lui, lui che riesce a dipingere di rosa anche le giornate più grigie. Temo di essere un parassita, di essermi attaccato a lui perché non sono in grado di camminare con le mie gambe. Ma svanisce ogni dubbio quando, in pausa pranzo, è lui il primo a scrivermi.
Credo che la nostra relazione non sia un parassitismo. E’ più simile ad un tacito mutuo soccorso, ognuno da all’altro ciò che può offrire. Il fatto poi che quello che ho da donare io sia infinitesimamente inferiore a quello che mi regala lui ogni istante è un discorso diverso su cui dovrò seriamente riflettere.

Anche il pomeriggio passa rapido, oggi stacco alle sei. È una calda giornata di metà settembre, pregusto già una passeggiata attraverso il parco per arrivare a casa, sarebbe meraviglioso se venisse anche Zoro invece che ostinarsi a rimanere chiuso in quel buco di appartamento per un non ben chiaro ‘voto di reclusione’ cui ha deciso di consacrarsi. Scuoto la testa al pensarci, a volte le sue manie da hacker consumato lo rendono un asociale e disadattato nerd da quattro soldi. E io, con il mio lavoro, i miei soldi e la mia bella vita piena di lustrini, ho pensato bene di rinfacciarglielo, di fargli pesare la sua natura. Mi sono allontanato ogni giorno di più, costruendo mattone per mattone un muro tra noi, una barriera tra ciò che è ‘cool’ e quello che è ‘out’. Per poi rendermi conto che avevo perso l’unica cosa che rendeva la mia vita quello che era. Felice.

Esco dal palazzo con il forte desiderio di trovarlo lì fuori ad aspettarmi, è sciocco, lo so, ma sognare non costa nulla. E qualcuno ad attendere c’è veramente, ma non è lui. E’ Ace.
Ci guardiamo in cagnesco, non è una novità. Ostentando sicurezza decido di ignorarlo, magari è qui per incontrare qualcun altro o forse è capitato per caso. Una chimera, purtroppo, mi segue immediatamente e mi sbarra la strada. Il suo sguardo mi trapassa da tanto è penetrante. Nei suoi occhi leggo fastidio, dolore e rabbia, tanta, profonda e raggelante. Credo che se potesse darmi fuoco non ci penserebbe un solo istante.
Alzo un sopracciglio guardandolo interrogativo, e il mio atteggiamento altezzoso sembra mandarlo ancora più in bestia. Sbuffa forte, per tranquillizzarsi, prima di attaccarmi.
“La devi smettere, hai capito? Smettila!” sbraita, si fa violenza per non mettermi le mani addosso. Non mi scompongo, continuo a fissarlo in silenzio. Stringe i pugni fino a sbiancare le nocche.
“Tu… non ti permetto! Non lo meriti!” sentenzia, abbassando la voce, il corpo scosso da brividi. L’ultima affermazione mi colpisce in pieno. Spalanco gli occhi, chi si crede di essere?
“Sei tu che non devi permetterti. Lasciami in pace” rispondo laconico, non voglio continuare la conversazione, ho paura di quello di cui potrebbe accusarmi. Ace alza gli occhi al cielo in un gesto di stizza, dalla gola emette un ringhio basso come fosse un animale ferito. Alza di nuovo gli occhi, incatenandoli con i miei.
“Non sai nulla… niente. NIENTE! L’hai… l’hai distrutto una volta e io non tollererò tutto questo di nuovo. Sparisci!” alza i toni e lo dice. Dice quello che non avrei voluto sentire, quello che mi ripeto da solo, ogni giorno, nel silenzio della mia casa, tra le pareti bianche che sembrano ovattare tutto, anche il senso di colpa. Ma sentirlo così, a voce alta, è straziante. E’ il dolore sordo di una lama che trafigge il petto, dritta al cuore. E’ il tonfo pesante della consapevolezza. E’ la verità che non puoi negarti.

Giro sui tacchi e me ne vado. Sì, la mia camminata è sostenuta ma tranquilla, un controsenso rispetto al tumulto interiore che mi scuote in tutto il corpo. Le ginocchia tremano, il labbro vibra, le mani, rigorosamente affondate nelle tasche dei pantaloni, sudano, e non certo per il caldo.
Ho sancito la fine della discussione e sembrerebbe che, con un atto di accondiscendenza, io abbia risparmiato parole dure ad un innamorato non ricambiato. Una prova di maturità di Sanji Vinsmoke che, finalmente, decide di crescere.
Invece no. E’ una fuga, la mia. Come il codardo che sono, scappo a gambe levate dalle accuse, legittime, che mi stanno facendo morire di dolore.
Mi ostino a credere di essermi calmato; Ace è lontano, non mi ha seguito, e io sono libero di tornare a casa, farmi una doccia, cucinare qualcosa di gustoso e guardare un film. Libero di rilassarmi…
Non me ne accorgo ma è il mio corpo che, al ritmo frenetico dei miei pensieri, comincia a correre come disperato. Fendo l’aria da tanto vado veloce, la gente mi osserva stranita ma non sono nemmeno consapevole di dove sono ormai. Finalmente riesco a vedere qualcosa, nella confusione che nella mia mente regna sovrana, qualcosa che è fondamentale ed è sempre stato lì, scemo io che non l’ho mai afferrato. Perché lui non l’ha mai amato Ace, ma ha amato me. Ed io ho amato lui.
E lo amo ancora, dio solo sa quanto.

La mia corsa non si ferma, nemmeno davanti al portone rosso dalla serratura sempre aperta. Non si ferma sulle scale, perché macino le rampe e senza accorgermene sono davanti al suo appartamento, sudato come se fossi appena uscito dalla doccia, con il respiro pesante e il cuore che batte a mille.
Sbatto il pugno sulla porta, ripetutamente e forte, molto forte, quella stupida porta è solo un ostacolo. La sto per prendere a calci, provo a sfondarla rischiando di slogarmi una spalla quando finalmente si apre, e l’espressione di Zoro è confusa e un po’ spaventata quando guarda il responsabile di tutto quel casino.
Chissenefrega.
Gli butto le braccia al collo e unisco le nostre labbra, respirando il suo profumo di muschio e pino che mi ha sempre fatto impazzire. All’inizio è troppo scioccato per rispondere, rimane fisso per un lungo istante prima di sciogliersi anche lui e perdersi nel bacio. Non perdo tempo, chiudo la porta con un calcio e intanto lo spingo attraverso il salotto ed entro in camera senza mai separarci, mi è mancato troppo e non voglio dividermi da lui nemmeno un secondo.  Le sue labbra sono morbide, come le ricordavo, e hanno un sapore aspro, di limone, che mi riporta a sensazioni lontane. Sento il fruscio dei vestiti, che vengono abbandonati sul pavimento, e le lenzuola soffici sotto ai palmi.
Sono a casa.



Prendo una profonda boccata dalla sigaretta, per poi rilasciare il fumo nell’aria. Dalla finestra entra una brezza leggera, così come i raggi dorati del sole, prossimo al tramonto. La stanza è immersa nella fiacca di fine giornata, una rilassatezza pesante che sento anche nelle mie membra. Mi piace fumare dopo aver fatto l’amore, mi sembra la conclusione perfetta per un momento perfetto.
Ho la testa appoggiata al cuscino, lo sguardo rivolto al soffitto, il braccio non impegnato a reggere la cicca attorno alle spalle di Zoro. Lui mi abbraccia in vita e sonnecchia, il viso sulla mia spalla, gli occhi semichiusi e il respiro regolare. Abbasso lo sguardo e gli poso un bacio leggero sui capelli, per poi tornare ai miei pensieri, anche se in fondo girano sempre attorno al ragazzo tra le mie braccia. Quando parla, la sua voce è talmente fioca che a momenti non riesco a sentirla.

“…non farlo a pezzi”

Abbasso di nuovo lo sguardo e lo incateno con i suoi occhi pece, che mi guardano da sotto il velo di stanchezza che li offusca. Non riesco a fare altro che contemplarlo, è bello come un dio, e gli sorrido, mi è mancato così tanto… mi guarda, capisce che non ho afferrato un tubo di quello che ha detto e mi ripete, paziente.

“E’ come la CPU di un computer, è fragile… va protetto. Non farlo a pezzi”

Questa volta ho sentito, ma non ho comunque compreso. Lui ce l’ha, questa mania delle metafore informatiche… ma non voglio assolutamente rovinare il momento, in fondo lui mi ha accettato, di nuovo, dopo quello che gli ho fatto passare, nonostante le mie incertezze e i miei difetti. Che cosa volete che sia una leggera ossessione per la tecnologia? Non è nulla che non possa imparare ad amare.

“Spiegami”

Fa un tentativo di roteare gli occhi, senza successo perché il sonno sta vincendo la sua ultima resistenza. Si accomoda meglio sulla mia spalla e infossa il viso tra il mio collo e la clavicola, lo sento sorridere a contatto con la mia pelle. Fa un sospiro leggero di finta esasperazione.

“Il mio cuore, Sanji. Non spezzarlo più”

In questo momento è il mio cuore che sobbalza, crolla fino alle ginocchia per poi rimbalzare e fermarsi in gola, probabilmente è colpa sua se non riesco a rispondere senza soffocare. Rischio di piangere, sento già le lacrime che pizzicano a bordo degli occhi, ma decido di ricacciarle indietro. Lo stringo più forte a me, come se questo gesto insulso possa cancellare anni di dolore e solitudine, i suoi e i miei, uguali ma diversi, allo stesso modo strazianti.

“Lo custodisco io”

Ora posso rimediare ai miei errori, posso cancellare i suoi tormenti. Mi è stata donata una seconda possibilità di essere felice, e non la getterò alle spine. Questa è la vita, può portarti via tutto o darti delle occasioni meravigliose, che sta a te non sprecare.

Oggi la vita mi ha regalato la felicità. E io non la perderò, lo prometto.
















Angolo dell'autore:

Bene bene... con un po' (?) di ritardo è arrivato anche l'epilogo di questa fanfiction un po' folle, un po' strana, molto introspettiva e decisamente OOC...
Come vi sembra? E' un esperimento riuscito?

CI tengo davvero molto a questa storia, ci ho messo tanto impegno e, oserei dire, l'anima per scriverla... contiene molto di me, dei miei pensieri, delle mie convinzioni e delle mie paure.
Per questo ringrazio tutti voi che siete arrivati a leggerla fino alla fine.

Un grazie sentito e un bacio

killer_joe












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