Double Exposure di Alexiel Mihawk (/viewuser.php?uid=28142)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mono no aware ***
Capitolo 2: *** Wabi-Sabi ***
Capitolo 3: *** Ichariba Chode ***
Capitolo 4: *** Kintsukuroi ***
Capitolo 5: *** Yugen ***
Capitolo 1 *** Mono no aware ***
Note:
Questa
storia è stata scritta per il BigBang Italia #7.
Il
word building di Oda è variegato e include un miscuglio di
culture e tradizioni diverse, ho cercato quindi di mantenere questo
tratto secondo me fondamentale inserendo personaggi dai background
culturali diversi. Ho provato inoltre ad evidenziare alcune cose che mi
hanno sempre lasciata perplessa di questo mondo come la più
totale assenza di un sistema scolastico o i problemi stessi che ci sono
nell'ordine della marina. Siccome uno dei personaggi usa termini
Yiddish nelle note qui sotto trovate le traduzioni, mi piaceva l'idea
di creare un contrasto tra la famiglia fortemente cattolica di Hina e
l'ambiente in cui invece cresce Smoker.
Ogni
capitolo prende il nome da una parola Giapponese che racchiude un
concetto.
1)
Mono no Aware, lit. "il pathos delle cose", la leggera malinconia che
si prova per la caducità delle cose e la consapevolezza
della tristezza dell'esistenza.
Altri
nomi degni di nota presenti in questo capitolo:
Okabe,
il cognome della famiglia di Hina, significa "sezione della collina",
in riferimento alla posizione della casa.
Natsukashii,
adj. riferito ad alcune piccole cose che ti riportano alla mente, con
gioia sottile, momenti piacevoli, non con un senso di malinconia per
ciò che è passato, ma con un senso di
apprezzamento per i bei momenti trascorsi
Tatemae,
ciò che una persona pretedente di credere: i comportamenti e
le opinioni che bisogna mostrare per soddisfare le domande della
società
Havamama,
da Eva + Mama, in riferimento alla donna che fu la prima madre e di
conseguenza la madre dell'uomo, in questo caso una madre per chiunque
ne abbia bisogno.
Traduzione
dei termini Yddish:
Bubbeh,
nonna
Bubala,
piccolina/cara
Luzzem,
lasciala stare!
Hockstetter,
rompiscatole
Dybbuk,
fantasma/spirito maligno
Narrishkeit,
sciocchezze
Shayner,
attraente
Shiksa,
ragazza/donna gentile
Klutz,
goffo
Schmeckle,
pene piccolo
Pisher,
piscia a letto/persona giovane e inesperta
Putz,
volgare per pene (spesso riferito agli stupidi)
Ashknaz,
un modo per indicare il linguaggio Yddish
Ess,
mangia!
Hak
mir kayn chaynik, smettila di borbottare come una teiera
A
messa mashee afdeer, una morte orribile a te!
Antloyfn,
correte/scappate
Ikh
hob dir in drerd, vai all’inferno
geh
gesund, addio – letteralmente “Vai in
salute”
La
storia è già completa, è composta da 5
capitoli ed è stata originariamente postata a Novembre
scorso su AO3 - verrà aggiornata una volta a settimana, con
conclusione il 29 Febbraio.
Double
Exposure
There
are friendships imprinted in our hearts that will never be diminished
by time and distance.
– Dodinsky, In the garden of thoughts
1.
Mono no aware.
La
casa sorgeva sulla collina da almeno duecento anni. Mura bianche e
persiane verdi, un tetto di mattoni rossi, edera rampicante sulla
parete sud e un vasto giardino, era questa la proprietà
degli Okabe: una villa d’epoca trasmessa di generazione in
generazione. I proprietari possedevano terreni su tutta
l’isola; erano una famiglia di commercianti e
l’attuale capofamiglia, Hideaki Okabe, era dedito
principalmente alla compravendita di oggetti d’arte. Sua
moglie, una donna tranquilla dai capelli rosa e l’aria
annoiata, trascorreva le sue giornate con quelle che potevano
considerarsi le mogli nullafacenti dei politici di Natsukashii Town, la
cittadina più grande dell’isola di Tatemae; si
erano conosciuti a Karate Island, nel South Blue, dove Hideaki aveva
dichiarato di essersi follemente innamorato dello sguardo scettico e
della personalità decisa di Natsuki. Non che le donne
dell’isola fossero rimaste soddisfatte della sua scelta,
molte di loro avevano messo gli occhi sul figlio degli Okabe fin
dall’adolescenza, e se l’erano viste soffiare sotto
il naso da una straniera, una straniera che sulla loro isola non faceva
che guardare tutti dall’alto in basso e annuire anche di
fronti ai discorsi più noiosi.
Poi,
però, era nata la bambina.
Sua
madre aveva scelto di unire le iniziali dei loro nomi e
l’avevano chiamata Hina; occhi tanto scuri da sembrare neri,
proprio come suo padre, e capelli rosati a contornare un viso delicato,
in breve la principessina della collina aveva conquistato
l’intero villaggio, e poco importava che i suoi genitori,
timorosi dei rischi che avrebbe potuto incontrare
all’esterno, la tenessero quasi segregata in casa: tutti in
paese adoravano la bambina, ma solo pochi l’avevano vista.
La
verità era che la gran parte della colpa era imputabile a
Natsuki che, dopo essersi trasferita sull’isola, aveva
lentamente iniziato a spegnersi; dapprima sinceramente innamorata del
marito, si era dimostrata disposta a modificare in toto il suo stile di
vita, abbandonando ogni cosa pur di seguirlo. Solo il seguito si era
resa conto di cosa volesse veramente dire essere la signora Okabe,
circondata da lussi e dall’alta società di
Natsukashii, ma priva quasi completamente della compagnia
dell’uomo che aveva sposato, spesso troppo preso dalle sue
attività di lavoro e costantemente in viaggio. Quando Hina
era nata, Natsuki era già sposata da tre anni e si era
lasciata trascinare nel vortice ozioso di feste e visite di cortesia
che scandivano la vita delle signore della città alta; le
attenzioni che aveva dedicato alla figlia erano piano, piano scemate,
fino a trasformarsi in semplici contatti e incontri organizzati ogni
mattina a colazione e durante le cene di famiglia (le volte in cui gli
impegni sociali non la chiamavano a uscire). Non è che la
signora Okabe non amasse sua figlia, semplicemente, senza che nemmeno
lei se ne rendesse conto, aveva lasciato che l’aria spessa di
Tatemae l’avvolgesse nelle spire di una
quotidianità che fino a qualche anno prima avrebbe
disprezzato.
Hina
era seccata.
Strinse
le piccole mani sottili sul bordo della gabbia, abbassando leggermente
lo sguardo sulle punte dei piedi; in realtà non era proprio
sicura che quello che provava fosse fastidio, quanto più una
spiacevole sensazione di disagio e inadeguatezza, causata da quegli
occhi indagatori e dallo sguardo sprezzante di quel ragazzino sporco.
Tuttavia
sua madre lo diceva sempre quando aveva bisogno di darsi un tono
“Che seccatura”, e Hina era così
abituata a sentirglielo dire (Che seccatura il nuovo progetto di
costruzione, che seccatura la festa a casa del sindaco, che seccatura
la moglie del comandante) che si era convinta fosse lo stato
d’animo migliore da adottare quando ci si trovava in
situazioni spiacevoli, quelle brutte volte in cui non sai che pesci
pigliare.
Così
cercò di farsi coraggio, senza avvicinarsi troppo,
perché quel ragazzino puzzava e c’era del fango
sui suoi capelli, e quel cane che si portava appresso avrebbe potuto
morderla, e cosa avrebbe detto suo padre se si fosse sporcata il
vestito? Dicevamo, così si fece coraggio e gli rivolse la
parola.
«Hina
è seccata» mormorò piano, senza osare
guardarlo negli occhi, pur rendendosi conto che questo non rispondeva
assolutamente alla domanda che il giovane le aveva posto poco prima.
Le
si era avvicinato comparendo dal nulla, osservando dall’alto
in basso il suo fisico minuto, il suo vestito costoso e la gabbia con
gli uccellini che stringeva tra le mani; doveva avere
all’incirca la sua età, al massimo un paio di anni
di più. Si trascinava sulla spalla una vecchia mazza di
legno, grossi chiodi arrugginiti spuntavano da
un’estremità e la bambina si domandò se
le incrostazione che vedeva fossero macchie di sangue. Aveva un grosso
cerotto sulla tempia sinistra e il viso pieno di graffi, come quello di
qualcuno che è appena stato coinvolto in una rissa.
Hina
si era persa; nonostante le fosse stato proibito di uscire dalla villa
di famiglia da sola, quella mattina aveva deciso che voleva vedere se
al mercato vendevano qualcosa per medicare le ali di Bianca, una delle
colombe che sua madre le aveva regalato qualche mese prima, che si era
ferita contro una delle sbarre della voliera. Così era
scivolata fuori dalla porta delle cucine ed era riuscita a uscire dal
cancello secondario del giardino senza che nessuno la notasse; poco
pratica della vita cittadina, si era persa in breve tempo, ritrovandosi
a girare senza meta, con una vaga sensazione di ansia alla bocca dello
stomaco.
Era
stato al limitare della città che aveva incontrato quel
ragazzino, che l’aveva fissata per qualche momento prima di
avvicinarsi e domandarle se si fosse persa.
«Ti
chiami Hina? Capisci quello che dico o sei torda? Ti sei
persa?»
Fece
un passo verso di lei e quindi contorse il viso in una smorfia strana
nel vederla indietreggiare leggermente e annuire con foga.
«Non
ti faccio mica niente, cosa credi! Mi chiamo Smoker» disse
appoggiando per terra l’arma di fortuna e sedendosi di fronte
a lei «Lui è Chaser, il mio migliore
amico».
Il
cane, un piccolo bastardino bianco sporco, abbaiò,
cominciando a scodinzolare nel sentire il suo nome, sedendosi a fianco
del suo padrone.
«Non
ho mica paura che tu mi faccia qualcosa, guarda che sono
grande!» esclamò vagamente piccata, sedendosi
compostamente di fronte a lui e stringendosi al petto la gabbia con la
colomba.
«Se
eri davvero grande mica ti perdevi, io sono grande» le fece
notare l’altro, senza smettere di fissarla, calcando con
particolare rilievo su quell’ “io”.
«Ma
se hai sbagliato tutti i verbi…»
«Cosa
vuol dire! Mica se so i verbi allora non sono grande! Io non mi perdo,
ho otto anni!»
«Io
ne ho solo sei, ma i verbi non li sbaglio»
continuò la bambina convinta, sentendosi un po’
meno intimorita dall’ignoranza del suo compare.
«E
io che volevo aiutarti! Arrangiati, tu e il tuo stupido
uccello».
«Bianca
non è stupida, sa fare un sacco di cose!»
«Sa
dare la zampa?»
«No,
beh –»
«Sa
stare seduta?»
«No,
ma –»
«Sa
fare il morto?»
«No».
«Cos’è
che sa fare?»
«Sa
volare» mormorò piano la bambina sentendosi quasi
stupida nel dirlo.
«Ma
è in una gabbia!» protestò Smoker.
«La
voliera a casa è più grande di così,
tanto più grande, grandissima».
«Sarà
grande quanto ti pare, ma rimane sempre una gabbia».
«Hina
non è d’accordo» borbottò la
bambina con una smorfia.
«Perché
lo fai?» le chiese improvvisamente il ragazzino aggrottando
le sopracciglia.
«Cosa?»
«Perché
inizi le frasi col tuo nome?»
«Si
dice terza persona, e mio padre lo odia» asserì
Hina «Ho iniziato l’anno scorso per fargli un
dispetto, ma ho deciso che mi piace».
Il
bambino sembrò pensarci un attimo, quando finalmente gli
sembrò che la motivazione fosse sensata tornò a
guardare la compagna.
«E
cos’è che ci fai qui se ce l’hai un
papà?»
«Volevo
andare al mercato» ammise lei «Ma non sapevo dove
fosse».
«Tutti
sanno dov’è! Come fai a non saperlo? È
tipo nel mezzo della piazza grande».
«Hina
non esce molto spesso» si giustificò
«Mia madre dice che è pericoloso».
«Beh,
tua mamma non sa proprio niente! La vedi questa? È la mia
super mazza, ci tengo lontana la gente, con me non ti
succederà niente».
«Ma
se non ci dovrei nemmeno parlare con te! Non ti conosco, e stai
sanguinando» disse senza alcuna inflessione nella voce,
indicandogli un taglio sopra la tempia.
«Ho
fatto a botte con dei ragazzini al molo».
«Come
mai?»
«Occupati
delle cose tue!»
«Hai
fatto qualcosa di cattivo?»
«No!»
protesto con forza il bambino, saltando in piedi irritato che lei
avesse anche solo potuto pensarlo.
«E
allora cosa?»
«Mi
hanno chiamato bastardo».
«Che
cos’è un bastardo? È una di quelle
parole che non si devono dire?»
«È
una cosa brutta, tipo che mia madre non mi voleva e non sapeva chi
fosse mio padre e per questo i miei genitori mi hanno abbandonato. Ma
cosa vuoi capirne tu, si vede che tu una famiglia ce
l’hai».
Hina
fissò intensamente l’uccello in gabbia,
osservandone i movimenti e ammirandone il piumaggio candido.
«Ed
è vero?» chiese senza sollevare lo sguardo.
«Cosa?»
«Che
sei un bastardo».
Negli
occhi di Smoker passò un lampo di rabbia, ma si rese presto
conto che non c’era disprezzo nella voce della bambina,
né alcuna traccia di cattiveria.
«Non
so chi fosse mio padre» ammise infine tornando a sedersi
«E non so nemmeno se mia mamma lo sapeva, è morta
tempo fa».
«Se
è morta non ti ha abbandonato, anche se loro te lo dicono. E
poi potresti benissimo esserlo –»
«Ehi!»
«Così
come potresti non esserlo, giusto?»
«Io,
beh immagino di sì».
«Quindi
perché te la prendi?»
«Perché
mi stanno insultando, mi pare chiaro».
«Ma
è stupido, se è vero è vero, se non
è vero che ti importa?!»
Smoker
rimase leggermente interdetto a fissarla.
«Te
lo dicono apposta per farti adirare e poterti picchiare».
«Cosa
vuol dire adirare?» domandò il bambino,
aggrottando le sopracciglia.
«Quando
te la prendi per le cose».
«Come
arrabbiarsi?»
«Sì,
ma il mio precettore dice sempre che solo i cani si prendono la rabbia
e non è un termine adatto a una signorina di buona
famiglia».
«Cos’è
un precettore?»
«È
il mio insegnante, quello che mi insegna a leggere e a scrivere.
Trascorro quattro ore assieme a lui ogni giorno, non è molto
interessante, ma mi piace tanto quando mi racconta del grande
blu».
«Sai
leggere?»
«Certo
che sì, tu no?» Smoker abbassò lo
sguardo, imbronciato, il suo volto trasformato in una smorfia che alla
bambina non sfuggì «Non sai nemmeno scrivere,
vero?»
«Tanto
mica mi serve».
«Certo
che ti serve, la mia mamma dice che sono cose che tutti dovrebbero
saper fare e che è colpa del governo che non ci
pensa».
«Senti
a me mica importano quelle cose lì,
però…»
«Cosa?»
«Pensi
che se ti riporto a casa posso ascoltarle anche io le storie del grande
blu?»
Hina
storse il naso e squadrò il bambino dall’alto in
basso.
«Prima
però ti devi pulire» decise «E ti devo
insegnare a parlare».
«Io
so parlare» protestò Smoker.
«Ma
non sai coniugare i verbi».
«Al
diavolo!»
«E
dici le parolacce» si interruppe per qualche momento
«E laveremo anche il tuo cane».
Si
sollevò in piedi, avvicinandoglisi finalmente, oramai priva
di qualsiasi paura e gli allungò una mano, mentre con
l’altra teneva stretta la gabbietta di Bianca; Smoker sorrise
appena e accetto l’offerta, rialzandosi e iniziando a
tirarsela dietro in direzione di qualcosa che solo lui conosceva.
«Ma
non ti ho detto dove abito».
«Oh
beh, Havamama lo saprà di sicuro. Lei sa sempre
tutto» esclamò il bambino incamminandosi con
decisione.
Havamama
era un donnone alto come un armadio e largo come una porta, la sua
pelle era scura più dell’ebano e quando sorrideva
una fila di denti bianchi illuminavano il viso segnato dal tempo. Aveva
vissuto a Natsukashii tutta la sua vita e si ritrovava con una casa
troppo grande, un marito morto dieci anni prima e nessun figlio;
gestiva un piccolo negozio di alimentari in cui non entrava quasi
nessuno, eppure Havamama andava avanti, sembrava invecchiare con la
città, seguendo il ritmo delle stagioni e osservando con
aria impassibile il ricambio delle persone. Nessuno avrebbe saputo dire
quanti anni avesse, né da quanti anni – o forse
secoli – fosse sull’isola, certo era che quel
donnone corpulento dal sorriso gentile, aveva trasformato la sua casa
in un centro per i giovani orfani della città e innumerevoli
erano stati coloro che erano passati sotto le sue mani materne e il suo
abbraccio gentile.
Smoker
era uno di questi bambini, senza casa, senza famiglia, solo con
sé stesso, diffidente nei confronti del mondo; erano in
pochi, nella sua generazione, i bambini che non erano riusciti a
trovarsi qualcuno che li adottasse, ma nessuno voleva prendersi in casa
un ragazzino dall’aria ribelle e violenta. Si diceva di lui
che attaccasse briga con i bambini più grandi al porto per
rubar loro i soldi del pranzo, che non si lavasse mai e che avesse le
pulci, dicevano anche che sua madre era una prostituta, una poco di
buono che aveva vissuto nella zona industriale della città
prima di morire di malattia; solo Havamama lo aveva accolto, lo faceva
dormire a casa sua nelle notti troppo fredde e gli dava da mangiare
quando nessuno degli altri abitanti della città trovava
tempo da dedicargli (ma c’era da ammettere che spesso le
donne della città gli lasciavano degli avanzi o lo
accoglievano per la merenda).
«Vieni
da Bubbeh» gli diceva ogni volta che lo vedeva avvicinarsi,
allargando le grosse braccia grassocce come a volerlo abbracciare;
Smoker si lasciava catturare per qualche secondo salvo poi sottrarsi a
quella stretta materna, lamentandosi di essere troppo grande per certe
cose.
Quel
giorno, però, quando la donna lo vide arrivare non
spalancò le braccia e non aprì bocca, osservando
incuriosita la bambina minuta che camminava al suo fianco; occhi scuri
e capelli rosati, una gabbia stretta al petto e una mano chiusa in
quella di Smoker. Hina sembrava essere uscita da un quadro ed era
chiaro che provenisse da tutt’altro ambiente: con i suoi
capelli puliti e i vestiti dalla finitura elegante si distingueva
nettamente dagli abitanti della periferia nord della città.
«Havamama
lei è Hina, Hina lei è Havamama».
«Molto
piacere di fare la sua conoscenza signora» mormorò
Hina a mezza voce chinando appena il capo e stringendo solo leggermente
più forte la sua gabbietta.
La
donna scoppiò a ridere, una risata calda e corposa che
riempì la strada.
«Una
piccola Bubala ti sei trovato Smoker, proprio carina, sì.
Sei una bella signorina, Bubala, lascia che Havamama te lo dica,
proprio bellina, sì».
«Grazie
signora» balbetto la bambina, intimorita da quello strano
modo di parlare.
«Ma
dovresti stare a casa tua, Bubala, dove stanno i ricchi. Con quei
capelli lì, Havamama sa dove dovresti stare, sì
che lo sa. Nella casa sulla collina. Smoker, dove l’hai
trovata?»
«Si
era persa, Havamama».
«Ti
eri persa, piccina? Vieni da Havamama, hai sete? Hai fame? Venite,
venite in casa, piccini».
Smoker
mollò la mano di Hina e seguì la donna oltre
l’uscio, per poi riaffacciarsi con aria interrogativa
nell’accorgersi di non essere seguito.
«Ti
spicci? Vuoi mica che quelli del porto vengano a portati via?»
«Luzzem,
Smoker! Piccolo hockstetter che non sei altro!» lo
redarguì Havamama, urlando dal fondo di una stanza.
«Sei
noiosa, Bubbeh» borbottò il bambino per risposta,
trascinando Hina all’interno e facendola sedere senza tante
cerimonie su una vecchia sedia di paglia.
«Noiosa
io? Come ti permetti?! Piccolo ingrato! Vai a prendere
dell’acqua piuttosto, non vorrai mica che la nostra ospite
muoia di sete, vero?»
«La
ringrazio» mormorò Hina torcendo i piccoli piedini
uno sull’altro «Ma non è necessario, io
vorrei solo tornare a casa».
«Mi
chiedo, però, piccola Bubala, se tu abbia idea di dove sia
casa».
Hina
abbassò lo sguardo e arrossì leggermente, sua
madre le aveva sempre insegnato che dire le bugie era sbagliato,
però ammettere di non avere idea di dove si trovasse le
costava più di quanto pensasse possibile; non che a soli sei
anni avesse idea di cosa fosse l’orgoglio, ma già
andava imparando, al contrario di Smoker, che non sarebbe riuscito a
capirlo per molti anni, che non l’avrebbe portata da nessuna
parte.
«No,
Havamama, non lo so dove sia casa».
«Ah!
Lo sapevo, e ora i dybbuk verranno a prenderti!»
«Che
cos’è un dybbuk?»
«Sono
fantasmi cattivissimi di gente morta e ti rubano il corpo e te lo
mangiano da dentro» continuò imperterrito Smoker,
appoggiandosi con aria saccente alla sua mazza chiodata.
«Narrischkeit!»
esclamò Havamama, mollandogli un leggero scappellotto sul
capo «Non preoccuparti, Bubala, ora questo piccolo stupido ti
riporterà a casa. Nella casa sopra la collina, Havamama sa
bene chi sei. Tutti in paese sanno chi sei, Bubala».
Le
appoggiò dolcemente una mano sui capelli, in una carezza
leggera e le sorrise.
«Torna
a trovare Havamama, la prossima volta vi farò i
biscotti».
La
grande villa era insolitamente silenziosa e a prima vista sembrava
quasi che non ci fosse nessuno; Hina mancava da quasi tre ore e
dubitava che in quel lasso di tempo nessuno si fosse accorto della sua
assenza.
«Hina
pensa che dovresti restare qui» borbottò
osservando con aria perplessa il giardino deserto.
«Hai
detto che potevo sentire le storie» si lamentò
Smoker con una smorfia di disappunto sul viso.
«Sì,
domani. Vedi quel punto lì della porta?»
domandò indicando due assi del portone che sembravano fissi
«Se li sposti di lato si aprono, ma devi stare attento
perché tipo ci passano quelli che lavorano e se ti vedono ti
mandano via e tu» concluse indicando Chaser «Non
puoi proprio entrare, devi aspettare qui fuori, capito?»
«Perché
no?»
«A
mio padre non piacciono gli animali, a Hina sì,
però lo caccerebbero via e si accorgerebbero di
te».
«Tuo
padre è un idiota» berciò Smoker
appoggiandosi al muro di cinta della proprietà.
«Non
si dicono quelle cose» lo ammonì la bambina
«Però se vieni qui domani mattina, ti faccio
entrare di nascosto così puoi sentire le cose che mi dice il
mio precettore».
«E
mi farai entrare davvero?»
«Certo
che sì, le signorine di buona famiglia non le dicono le
bugie, non lo sai?»
Hina
spostò le assi ed entrò silenziosamente
all’interno del cortile, si girò solo una volta a
guardare Smoker, le mani strette sulla gabbia di bianca, un sorriso
lieve stampato sul viso.
«Hina
ti aspetta, allora».
Le
assi si chiusero dietro di lei e Smoker udì solo i passi
veloci che si allontanavano lungo il sentiero di ciottoli oltre la
porta, sollevò le spalle e si allontanò insieme a
Chaser, se non avesse avuto il capo chino, a osservare dove metteva i
piedi, i passanti avrebbero potuto vedere il sorriso sincero che gli
percorreva il volto.
Nel
momento stesso in cui Hina rimise piede in casa, aveva già
deciso che avrebbe accettato di buon grado qualsiasi punizione i suoi
genitori avrebbero ritenuto più appropriata, visto il suo
comportamento del tutto irresponsabile; tuttavia, le sue attese
rimasero quasi deluse.
Ad
accoglierla, con sguardo sollevato, c’era solo il suo
precettore, un anziano signore nato e cresciuto a Tatemae che aveva
fatto da insegnante anche a suo padre quando era giovane;
l’uomo le venne incontro con aria preoccupata e
l’abbracciò di slancio.
«Sia
ringraziato il cielo!»
La
bambina barcollò leggermente sotto il peso di
quell’abbraccio inaspettato.
«Ho
quasi perso dieci anni della mia vita, signorina! Hai idea di che
spavento tu ci abbia fatto prendere?» esclamò il
vecchio «Anna! Vai ad avvisare le cameriere che
l’ho trovata».
«Hina
è dispiaciuta» mormorò piano,
abbassando lo sguardo per la vergogna.
«Meno
male che i tuoi genitori non erano in casa! O sai adesso che punizione
ti aspetterebbe?! Si può sapere cosa ti è saltato
in testa, bambina?»
La
vide rimanere interdetta per qualche secondo, piegare il viso di lato e
trattenere il respiro.
«Bianca.
Volevo solo andare a prendere qualcosa per la sua ala».
«Domani
faremo venire il veterinario, ora fila in camera, prima che qualcuno si
accorga che eri sparita!»
Annuì
e, senza lasciare la gabbietta, corse precipitosamente su per le scale,
fino alla stanza della voliera, dove entrò di filata,
lasciando che la porta sbattesse leggermente al suo passaggio. Non
sapeva bene cosa fosse quella sensazione opprimente che provava nel
centro della pancia, non che volesse davvero che i suoi genitori si
preoccupassero e stessero male come era accaduto al vecchio Jisho,
però la consapevolezza che non si fossero nemmeno accorti
della sua scomparsa le risultava inaspettatamente dolorosa.
Quando
sua madre venne a rimboccarle le coperte, quella sera, gli occhi di
Hina non si staccarono mai per un secondo dalla sua figura,
finché la donna roteando gli occhi non borbottò:
«Non è educato fissare le persone, tesoro, qual
è il problema?»
«Se
sparissi saresti triste?» domandò la bambina senza
mostrare nessuna emozione, il suo viso era una miniatura di quello di
Natsuki, altrettanto impassibile.
«Che
seccatura» la donna si passò una mano tra i
capelli rosa, ravvivandoli e spingendoli all’indietro, quindi
si sedette sul bordo del letto della figlia e la osservò per
qualche istante prima di rispondere «È una domanda
stupida e ti meriteresti una risposta stupida, ma so che non mi
lascerai uscire da qui finché non ti darò una
risposta soddisfacente».
La
vide annuire e quindi proseguì.
«Se
Bianca volasse via saresti triste?»
Sua
figlia annuì di nuovo.
«Hina
per me tu sei come Bianca, e se volassi via o ti allontanassi da me,
sarei davvero molto, molto triste. Per questo preferisco che tu rimanga
in casa o in giardino, non sai mai chi potresti incontrare fuori, e sei
ancora piccola, spariresti in fretta».
«Hina
non è sicura di capire».
«Hina
capirà, vedrai. E non frati sentire da tuo padre con questa
terza persona, sai che non lo sopporta».
Natsuki
le appoggiò una mano sul capo, scompigliandole leggermente i
capelli, non si chinò a baciarla per evitare di lasciarle il
segno di un rossetto troppo rosso sulla fronte.
«Buona
notte, cara».
Per
Hina quella non fu una buona notte.
Il
giorno successivo attese con crescente trepidazione di vedere le assi
di legno del portone di servizio spostarsi leggermente, fu la prima
volta che si accorse di aspettare con ansia un avvenimento; normalmente
la sua vita veniva scandita dal trascorrere di ore sempre uguali, tra
lezioni noiose e prove di etichetta, persino la stanza dei giochi le
era venuta a noia. Hina iniziava a desiderare di vedere il mondo,
scoprirlo. Il pomeriggio precedente i suoi occhi si erano posati su una
moltitudine di nuovi luoghi, nuove persone, nuovi eventi. Non aveva mai
visto nessuno come Havamama prima, né era mai stata in una
zona di periferia, a dire la verità non aveva mai nemmeno
visitato Natsukashii.
Quando
Smoker infilò il naso nello spiraglio e si guardò
intorno, Hina trattenne un leggero gridolino di entusiasmo e gli fece
cenno, da una delle finestre, di entrare; lo andò a prendere
passando per la porta delle cucine, utilizzando il portavivande al
posto dello scalone principale e allo stesso modo lo fece salire al
piano superiore.
Smoker
non aveva nessuna mazza con sé quel giorno, non aveva
portato Chaser e a giudicare dal colore del suo viso doveva anche
essersi lavato.
«Certo
che devi proprio essere ricca».
«Jisho
sensei dice che ai tempi di mio nonno noi Okabe eravamo più
ricchi, ma che poi c’è stata una spropriaqualcosa
e abbiamo perso dei terreni».
«Una
spropriache?»
«Non
lo so, cose da adulti» lo liquidò la ragazzina a
cui il concetto di espropriazione dei beni non era per nulla chiaro
«Senti, lo vedi quell’armadio
lì?»
Smoker
annuì fissando un grosso mobile bianco a due ante; lo
aprì delicatamente, osservando la pila di coperte
dall’aspetto morbido impilate su un lato.
«Ti
ci puoi sedere sopra, se vuoi. Hina pensa tu sia pulito abbastanza da
non sporcare niente» disse la bambina «E di
là ci sono gli scaffali e non ti ci puoi mettere».
«E
se qualcuno ci guarda dentro?»
«Ma
nessuno ci guarda mai dentro! Solo quando rifanno i letti il
lunedì!»
Smoker
non fece in tempo a protestare che Hina lo spinse dentro quasi a forza,
udendo in fondo al corridoio il fischiettare del suo precettore che si
avvicinava.
«Non
fare rumore, ti faccio uscire dopo» sussurrò piano
accostando l’anta in modo tale che rimanesse un leggero
spiraglio aperto.
«Hina-chan,
stavi parlando da sola?» domandò il vecchio
entrando nella stanza «Sai che tuo padre
disapprova».
La
bambina non rispose e si sedette su una sedia, un po’ troppo
grossa per la sua taglia, posta di fronte a una grossa scrivania
ordinata, su un lato una pila di quaderni, sull’altro un
calamaio e tre penne stavano ordinatamente disposti in attesa di venire
utilizzati.
«Vediamo
un po’, di cosa posso parlarti oggi?»
«Hina
vorr- Vorrei sentire qualche storia sulla rotta maggiore»
disse la bambina, correggendosi appena in tempo «Per
favore».
«Dovremmo
fare qualche esercizio di calligrafia e non ho ancora finito di
parlarti delle isole del mare orientale».
«Per
favore Jisho sensei, per favore» insistette Hina, e
l’uomo in parte si lasciò convincere
perché era davvero raro che quella bambina facesse richieste
così precise e con così tanta insistenza,
così si sistemò sulla larga poltrona di fronte a
lei e iniziò a raccontarle.
«La
rotta maggiore, non credere che aldilà della Reverse
Mountain il mondo sia tanto diverso, bambina, ci sono isole e ci sono
paesi, ma la gente è sempre la stessa. Ti ricordi
cos’è la Reverse Mountain, vero Hina?»
«È
una grossa montagna che si trova dove i quattro mari si incontrano e da
lì si può entrare nella rotta maggiore».
«Esatto,
quando sarai più grande ti spiegherò il concetto
di corrente e come funzionano quelle del nostro mondo, per ora basti
sapere che la Rotta Maggiore è una grande parte di mare che
attraversa il mondo in orizzontale».
L’uomo
prese una mappa e tracciò quattro lunghe linee parallele.
«Queste
ai lati sono le fasce di Bonaccia, prova a scriverlo, forza».
Hina
obbedì, mentre il suo precettore riprendeva a parlare.
«La
Rotta Maggiore si estende lungo tutta la superficie del globo ed
è disseminata di isole di dimensioni diverse. Si dice che su
alcune di queste isole esistano regni antichi come il mondo».
«Che
esistevano ancora prima della grande guerra?»
«Certo
che sì, bambina. Tuo padre stesso ne ha visitati alcuni, il
regno di Alabasta è antico almeno quattromila anni, ma se
tutte queste cose ti interessano potresti farti portare, quando sarai
più grande, sull’isola di Ohara».
«Cos’è?»
domandò perplessa Hina.
«Solamente
un’isola nel mare occidentale, abitata da studiosi e
scienziati. Lì sì che ti racconterebbero delle
belle storie!»
«Posso
sentire quella di Noland il bugiardo?»
«Pensavo
la sapessi a memoria» rise il vecchio, iniziando
però a raccontare.
Quel
giorno fu il primo di una lunga serie in cui Hina iniziò a
fare richieste strane quanto precise riguardo alle storie che voleva le
venissero raccontate. Ben presto lei e Smoker trovarono un equilibrio,
il ragazzino si intrufolava in casa verso le dieci, nascondendosi
nell’armadio, Hina cominciava la sua giornata di studio con
le lezioni pratiche: la scrittura, la calligrafia, i vocaboli, la
matematica. Poi passava a farsi raccontare la storia del mondo, delle
singole isole, si faceva leggere libri e raccontare leggende e Smoker,
seduto comodamente sulle coperte, ascoltava perdendosi con
l’immaginazione in posti che era sicuro non avrebbe mai
visitato.
La
loro strana routine andava avanti da quasi un mese quando, finalmente,
riuscirono a trovare un modo per far sgattaiolare Hina fuori di casa
nel pomeriggio. Ogni giorno, tra le quattro e le sei, la casa sembrava
svuotarsi; i genitori di Hina erano sempre fuori, il professore si
ritirava nelle sue stanze a riposarsi in attesa della cena, le
cameriere iniziavano a lavorare indaffarate ai preparativi per il
rientro dei padroni di casa. Così la bambina veniva lasciata
da sola a giocare nelle stanze vuote o a correre per il cortile;
qualcuno aveva fatto notare quanto fosse triste che una piccina di soli
sei anni fosse costretta a trascorrere in solitudine quasi tutta la sua
giornata, ma a lei non sembrava importare, inoltre con il suo sguardo
freddo – proprio come quello di sua madre – e
l’aria indifferente non invitava certo gli adulti ad
avvicinarsi.
Il
trucco per sparire era, avevano scoperto, avvisare sempre di dove si
trovava e a cosa avrebbe giocato; così la bambina diceva che
sarebbe scesa in cortile a giocare nel boschetto, si portava le
bambole, si portava una coperta e lasciava tutto all’ombra di
un grosso faggio. Se qualcuno veniva a cercarla un po’ prima
del solito e non riusciva a trovarla, Hina fingeva di essersi
addormentata dietro a un cespuglio o nel tempietto delle ninfe che suo
nonno aveva fatto costruire anni prima.
In
questo modo la mattina Smoker imparava cose che non avrebbe mai avuto
la possibilità di conoscere continuando a vivere nella
periferia, e nel pomeriggio Hina esplorava la città.
Havamama
era sempre felice di vederla e l’accoglieva ogni volta a
braccia aperte, se Smoker ne era geloso non lo dava a vedere e forse
non lo era per niente, anzi, fin troppo spesso Hina lo sorprendeva a
osservarla divertito mentre la bambina affondava
nell’abbraccio grassoccio della donna, mentre una voce calda
le diceva: «Proprio una piccola shayner shiksa questa bubala
diventerà, parola di Havamama, e Havamama non sbaglia
mai».
Le
fece i biscotti, le fece una torta, una volta preparò
persino una grossa terrina di quello che chiamò mousse al
cioccolato, nessuno dei bambini l’aveva mai assaggiata e
finirono con il farne indigestione.
Smoker
iniziò a portarla con sé nelle sue scorribande in
giro per la città, anche se spesso la bambina rimaneva
seduta a guardare mentre lui faceva a botte; non avrebbe mai saputo da
dove cominciare a tirare un pugno, inoltre sembrava doloroso e sarebbe
stata una vera seccatura se avesse dovuto spiegare a suo padre come mai
sul suo vestito c’era del sangue.
Fu
un giorno di luglio, caldo come pochi altri, che, finalmente, quella
che era stata soprannominata dagli altri bambini “La
principessina del porto”
si gettò nella mischia e ne uscì trionfante.
Smoker
era stato attirato in una rissa con l’ennesimo pretesto
stupido e lui, orgoglioso come sempre, ci era cascato con tutte le
scarpe. Aveva lasciato da parte la mazza chiodata e si era gettato a
pugni chiusi su due bambini più grandi di lui di due anni,
iniziando a riempirli di pugni; forse avrebbe anche potuto avere la
meglio se, proprio a metà della loro lotta, non fossero
sopraggiunti altri mocciosi a dar loro manforte. Hina non apprezzava
particolarmente quelle scene, trovava stupido picchiarsi per una cosa
simile – e quel giorno era bastato stuzzicare di nuovo Smoker
su sua madre – e finiva sempre con il rimanere in disparte
consapevole che gli altri ragazzini non l’avrebbero mai
toccata perché, anche se nessuno osava dirlo ad alta voce,
avevano tutti ben chiaro chi fosse suo padre.
Quel
giorno, però, proprio mentre Smoker veniva violentemente
buttato a terra e un pugno si infrangeva sul suo naso già
rotto, qualcuno disse qualcosa di troppo, qualcosa che suonava come:
«Tua madre è morta per colpa tua e ora
morirà anche Havamama! Ucciderai Havamama! Ucciderai
Havamama!»
La
cantilena assunse un tono canzonatorio, quasi profetico e Hina non ci
pensò nemmeno due volte a saltare in piedi, lisciarsi il
vestito, afferrare la mazza di Smoker e dirigersi silenziosamente verso
il gruppetto. La mazza pesava, un po’ troppo per una bambina
con un fisico minuto come il suo e la piccina si trovò a
trascinarsela dietro per un tratto, finché non fu abbastanza
vicina da sollevarla e rotearla sopra la sua testa, colpendo la schiena
di uno dei ragazzini e il braccio di un altro.
«Se
non la finite ve la lancio sulla faccia» disse senza cambiare
espressione, mentre i due bambini colpiti scoppiavano a piangere
cercando di toccarsi là dove i chiodi arrugginiti della
mazza erano penetrati della pelle e l’avevano strappata.
Il
più grande del gruppo sgranò gli occhi e
indietreggiò leggermente, più per la sorpresa di
quell’intervento inconsueto che per un reale spavento; tanto
bastò a Smoker per rimettersi in piedi, prendere gentilmente
la mazza dalle mani di Hina e brandirla minacciosamente.
«La
mia mamma dice che non si augura mai la morte a nessuno»
continuò la bambina tranquillamente «O i demoni
verranno a mangiarvi i piedi».
«I
demoni?» domandò un bambino perplesso.
«I
dybbuk» precisò Smoker avvicinandosi con la mazza
«Ma tanto vi ammazzo prima».
«Ferma,
ferma, ferma!» esclamò il più grande
dei ragazzini, tirando su il fratello da terra «Ce ne
andiamo! Ma voi due siete pazzi, pazzi!».
Smoker
sollevò le spalle in un moto di indifferenza e si
girò verso la compagna di scorribande.
«Grazie,
anche se ce la facevo pure da solo».
«Lo
so bene» borbottò lei pulendosi le mani nel
vestito e avvicinandosi «Ti sanguina il naso».
«Credo
sia di nuovo rotto».
«Klutz».
«Si
può sapere dove hai imparato certe parole?»
domandò suo padre con aria imbronciata.
«Hina
le ha sentite in giro».
«Smettila
subito, sai cosa ne penso della terza persona, sarà anche
popolare tra i bambini, ma non in questa casa, sono stato
chiaro?»
«Sì,
padre» borbottò la bambina, con un lampo di
irritazione che sfuggì all’uomo, ma non a sua
moglie che sollevò un sopracciglio con aria sorpresa.
«Ora
vuoi dirmi in giro dove?» continuò Hideaki
imperterrito.
«Le
persone lo dicono».
«No,
Hina, le persone non dicono Klutz,
sai almeno cosa vuol dire?»
«Credo
qualcuno che fa le cose e tipo cade, come Anna quando inciampa nei suoi
piedi».
«Beh,
ci sei andata vicina, cara» sorrise sua madre sistemandosi
una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Non
è quello il punto Natsuki! In chiesa non l’hai di
certo sentito, nessuno parla quel dialetto e l’ultima persona
che ho sentito parlare così era nel distretto Nord quindici
anni fa!»
«Il
mio amico lo dice spesso» si lamentò la bambina.
«Tu
non hai amici!» tuonò suo padre e per qualche
istante ogni rumore nella stanza cessò; Hina strinse i pugni
e i suoi occhi si piegarono in due fessure, la cameriera rimase con il
piatto di portata a mezz’aria e il maggiordomo
spalancò la bocca.
«Hideaki!»
Natsuki sibilò in direzione del marito lanciandogli
un’occhiata di fuoco.
«Non
è vero!» balbettò la bambina con gli
occhi lucidi.
«Natsuki,
per l’amor del cielo! Non può continuare a credere
che gli amici immaginari esistano davvero! Come pensi che
crescerà?»
«Meglio
di te sicuramente!» esclamò sua moglie alzandosi
di scatto a inseguire Hina che aveva lasciato la tavola ed era fuggita
dalla stanza.
«Che
seccatura» borbottò la donna uscendo dalla porta
principale, si accese una sigaretta e cercò di capire dove
fosse andata a cacciarsi sua figlia. La trovò nel boschetto
dietro al tempietto delle ninfe, intenta a lanciare giocattoli contro
il muro.
Come
la vide arrivare la bambina si asciugò le lacrime con foga,
voltandosi a darle le spalle, i piccoli pugni chiusi tremavano
leggermente.
«Smoker
è reale» mormorò piano.
Sua
madre le si avvicinò e si lasciò cadere a sedere
ai suoi piedi, facendole con la mano gesto di sedersi accanto a lei.
«Ti
credo, sai» disse espirando il fumo della sigaretta
«Me ne vuoi parlare?»
«Mi
credi davvero?» domandò Hina tirando su col naso
«Non sei seccata?»
«Tesoro
io sono sempre seccata, un giorno capirai meglio, ma per ora non farci
troppo caso. E certo che ti credo, sei mia figlia».
«Grazie
madre».
«Grazie
Madre».
«Perché
continui a chiamarla così? Sai che lo detesta?»
«Stai
zitta, Natsuki. Il rispetto va mostrato in ogni occasione».
«Ma
lei lo detesta, è freddo, è distante, come se
mettessi una barriera tra te e i sentimenti che potresti provare per
lei».
«Quali
sentimenti dovrei provare? Le dimostro il mio rispetto ogni giorno, non
è abbastanza?»
«Sei
così pieno di te che nemmeno ti accorgi di ferire la mamma,
Sakazuki».
«Non
è un problema mio, Natsuki».
«Preferirei
che non usassi “madre”»
borbottò la donna gettando il mozzicone di sigaretta nel
laghetto di fronte a lei.
«Mama?»
«Molto
meglio, e non dire a tuo padre che sono io che getto i mozziconi in
giro o chi lo sente».
«Lui
non vuole che lo chiami papà, però».
«Lui
non vuole un sacco di cose, zucchero» disse la donna
passandole un braccio attorno alle spalle «Allora, mi parli
di questo Smoker?»
Quando
Hina si addormentò, si ritrovò a pensare
all’abbraccio caldo di sua madre, così raro e
così diverso da quello quasi fagocitante di Havamama. Le
braccia di Natsuki erano più gentili e le sue mani non
avevano calli, né erano segnate dal tempo, era una
sensazione strana, come se sua madre le avesse lasciato intravedere una
piccola parte di sé, qualcosa che non aveva mai visto prima.
Non che all’epoca fosse abbastanza grande per capire davvero.
«Se
ti pesco a dire un’altra volta una cosa del genere a nostra
figlia giuro su Dio che ti mollo» sibilò quella
sera Natsuki entrando nel letto.
«Non
capisci, è tempo che cresca» le rispose suo
marito, ancora seduto alla scrivania.
«No,
Hideaki, sei tu che non capisci. L’uomo che ho sposato non
assomigliava a mio fratello».
Nessuno
riuscì a dormire quella notte.
Quando,
il mattino dopo, Smoker fece il suo ingresso nella villa, Hina aveva
gli occhi rossi e gonfi, ma si rifiutò di dirgli cosa avesse
fino a pomeriggio inoltrato.
«Scappiamo,
se vuoi» le propose mentre assieme osservavano le
imbarcazioni che si allontanavano dal porto, le gambe penzolanti oltre
il molo.
«No,
credo che la mamma ne soffrirebbe. Una volta gliel’ho chiesto
e ha detto che starebbe male, come starei io se scappasse
Bianca».
«Ma
Bianca vive in una gabbia» protestò debolmente
Smoker.
«Che
cosa vuol dire, lei è felice con me».
«E
tu sei felice?» domandò il bambino
«Perché Havamama dice sempre che la villa sulla
collina è una grossa gabbia e tu sei come un
uccellino».
«Ma
quella è casa mia» gli fece notare Hina con
ovvietà.
«Però
non puoi uscire e i tuoi genitori non ti guardano nemmeno».
Hina
scattò in piedi, oltraggiata.
«Non
è vero, Mama sarebbe triste se andassi via, mi vuole
bene».
«Lo
dici, ma sai che non è vero» borbottò
Smoker, accorgendosi solo vagamente di stare oltrepassando il limite
«Non si accorgono nemmeno che esci di pomeriggio, e tuo padre
ti tratta sempre malissimo!»
«Stupido
schmeckle!»
La
vide allontanarsi correndo e si domandò se non avesse
esagerato.
Fu
Chaser, con un uggiolio di protesta, a incoraggiarlo a seguirla; Smoker
si ritrovò a correrle dietro per le strade del porto e poi
lungo i vicoli sporchi della città, fino a vederla entrare
nella villa attraverso il buco nel muro che avevano scoperto mesi
prima. La seguì senza farsi problemi e attraversò
silenziosamente il giardino, senza notare gli occhi indagatori che lo
scrutavano dalla finestra del primo piano.
Si
intrufolò in casa e, dopo essersi guardato attorno con aria
circospetta, salì fino in camera di Hina, dove
trovò la porta chiusa.
«Aprimi»
mormorò bussando appena «Dai! Scusami!»
La
bambina non se lo fece ripetere due volte, tanto poteva essere
impulsiva a volte, quanto riusciva perfettamente a ragionare
razionalmente delle altre.
«Cosa
ci fai qui?» sibilò facendolo entrare di fretta.
«Mi
dispiace» borbottò Smoker «Non lo
pensavo davvero».
«Sei
uno schmeckle!» ribadì Hina sorridendo appena,
segretamente contenta che l’avesse seguita fino a
lì solo per scusarsi «Se ti trovano passerai dei
guai».
Non
aveva nemmeno finito di dirlo che la voce di sua madre invase il
corridoio.
«Hina
stai parlando da sola?»
«Di
là, di là!» sibilò la
bambina indicando la porta comunicante che dava sulla stanza della
voliera «No, mamma, lo so che certe cose le bambine di buona
famiglia non le fanno».
I
capelli rosa di Natsuki fecero capolino dalla porta e la donna
osservò con aria indagatrice sua figlia, squadrandola
dall’alto in basso, quindi oltrepassò
l’uscio e fissò la stanza vuota.
«Mi
era sembrato di sentire qualcosa».
Hina
abbassò lo sguardo e scosse debolmente la testa, di parlare
non aveva forza, era stata abituata a dire sempre la verità
e mentire ora le sembrava un affronto troppo grande.
Natsuki
sospirò, borbottando tra sé un ennesimo
«Che seccatura» e si avvicinò alla
figlia, appoggiandole una mano sul capo.
«Sei
proprio sicura che non ci sia niente che mi vuoi dire?»
domandò ancora.
«Hina
ha paura» mormorò piano la bambina.
«Di
cosa?» la donna aggrottò le sopracciglia e si
piegò fino a raggiungere l’altezza della figlia.
«Di
non potere mai più uscire di casa».
Natsuki
si morse il labbro inferiore e le prese la mano, trascinandola con
delicatezza verso la stanza della voliera; Hina trattenne un moto di
panico, ma la seguì, rassegnata al peggio.
E
il peggio arrivò davvero, ma non da sua madre.
Erano
appena entrate nella stanza dall’ingresso comunicante e sua
madre stava sorridendo sorniona, osservando il bambino seduto di fianco
alla voliera che la fissava con aria belligerante, quando la porta che
dava sul corridoio si spalancò con uno scatto e Hideaki
Okabe entrò come una furia nella stanza puntando il dito
contro Smoker e iniziando a urlare.
«Tu!»
esordì rabbioso «Cosa ci fai in casa
mia!?»
Il
bambino non rispose, leggermente interdetto e stupito da tutta
quell’aggressività.
«Tesoro»
ironizzò sua moglie fissandolo di sbieco, senza lasciare la
mano della figlia «Così spaventi il nostro
ospite».
«Ospite?
Sai cosa mi hanno detto giù al porto? Che questo piccolo
delinquente ha trovato un modo di girare con nostra figlia! E non so
come tu abbia fatto a uscire di qui, signorina, ma ti posso assicurare
che non capiterà mai più! Quanto a te…
farò in modo che tu venga spedito il più lontano
possibile».
«No!»
Hina cacciò un urletto e corse ad afferrare la mano del suo
migliore, nonché unico amico, lanciando uno sguardo
disperato a sua madre e uno carico di lacrime a suo padre
«Sarò buona, ma non mandarlo via».
«Tu
sei in grossi guai, signorina, ora lascialo andare! O uscirai di qui
solamente compiuti i vent’anni!»
Natsuki
roteò gli occhi verso l’alto avvicinandosi al muro
e accendendosi una sigaretta.
«Hina,
che cosa vuoi fare?» domandò con aria severa.
«Lui
è mio amico» mormorò la bambina.
«Oh,
sei Smoker?» chiese la donna rivolgendosi al bambino
«Il ragazzino a cui mia figlia sta insegnando a leggere?
Puzzi».
«Hina
sta facendo cosa? Adesso basta, finitela tutti, Hina lascialo
andare!»
«Non
ha sentito che ha detto di no?» intervenne finalmente Smoker
«Havamama ha proprio ragione, lei è un pisher
putz!»
Hina
di fianco a lui gli mollò uno scappellotto fissandolo con
aria di disapprovazione, mentre suo padre perdeva definitivamente le
staffe dando in escandescenze.
«Hai
sentito come mi ha chiamato?» sibilò rivolto alla
moglie che però si limitò ad alzare le spalle.
«Mi
dispiace, tesoro, sai che non parlo l’ashknaz».
«Sei
pazza?» aveva intanto domandato il bambino
all’amica «Non sai nemmeno cosa gli ho
detto».
«Sono
abbastanza sicura che fosse una cosa brutta» aveva risposto
Hina strappando un sorriso a sua madre.
«Ora
basta. Sono stufo. Hina, vieni qui!»
«No»
ebbe la forza di protestare la bambina.
«Vieni.
Qui» sillabò suo padre, rosso in faccia come non
lo aveva mai visto.
Lo
sguardo di Smoker era duro e implacabile; aveva solo otto anni, ma la
rabbia e il disprezzo riuscirono a trasparire lo stesso, investendo
l’uomo in una corrente d’odio e risentimento, quel
risentimento che Hina non aveva mai avuto il coraggio di esprimere, o
che forse era stata educata a tenersi dentro.
«Ha
detto di no» disse con voce ferma, tenendo stretta la mano
dell’amica che a quel contatto sembrò farsi
coraggio e sollevò lo sguardo su sua madre.
«Per
favore» mormorò con voce pacata.
La
donna sospirò, sollevò gli occhi al cielo e si
passò una mano tra i capelli.
«Che
seccatura» borbottò quindi «Ma se questo
è quello che vuoi, immagino che non ci sia
alternativa».
Quindi,
sotto lo sguardo allibito del marito e quello quasi entusiasta di sua
figlia, percorse la stanza a grandi falcate e spalancò le
finestre, quindi si girò vero la voliera e
sollevò, senza tante cerimonie, il tettuccio di ferro,
lasciando uscire tutti gli uccelli.
Mano
a mano che i colombi, le cocorite, i canarini scomparivano oltre la
finestra aperta, Hina sentiva il cuore farsi più leggero;
solo Bianca rimase ferma sul davanzale, a fissare nella sua direzione,
per poi sollevarsi e andare a posarsi sulla sua spalla.
«Ora»
disse sua madre «Rendimi orgogliosa».
«Natsuki
sei impazzita?!» Hideaki alzò la voce, osservando
con aria sconvolta e irritata la moglie.
«Stai
zitto» gli intimò la donna, quindi rivolgendosi a
Smoker: «Per quanto riguarda te, signorino, imparerai a
leggere, a scrivere, e soprattutto imparerai che il sapone non
è tuo nemico. Sono stata chiara?»
Il
bambino fece una smorfia di disgusto, più disgustato
all’idea di doversi lavare che a quella di imparare, ma al
suo fianco Hina sembrava davvero felice, così
sospirò mestamente e annuì piano.
«Sissignora».
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Capitolo 2 *** Wabi-Sabi ***
Note:
Per
le note in Yddish vi rimando all’ultimo punto (e
sì, sono il copia incolla di quelle del capitolo precedente).
Per
quanto riguarda questo capitolo, ho sempre apprezzato molto il rapporto
tra Smoker e Aokiji e mi piace pensare che l'Ammiraglio abbia avuto un
ruolo nella vita di questo ragazzino, plasmandolo in qualche modo e
contribuendo a renderlo l’uomo che conosciamo; inoltre ho
cercato di infilare più eventi possibili che rispettassero
la timeline del manga, perché sì, mi piace
collegare tutto e sono un pochino OCD.
Wabi-Sabi
significa: la scoperta della bellezza che risiede in ciò che
è imperfetto; l'accettazione del ciclo continuo della vita e
della morte.
Nelle
note dei prossimi capitoli vi parlerò anche dei personaggi
secondari e dei miei headcanon di relazione tra i vari personaggi, per
ora è ancora troppo presto a meno che non voglia farvi
spoiler.
Traduzione
dei termini Yddish:
Bubbeh,
nonna
Bubala,
piccolina/cara
Luzzem,
lasciala stare!
Hockstetter,
rompiscatole
Dybbuk,
fantasma/spirito maligno
Narrishkeit,
sciocchezze
Shayner,
attraente
Shiksa,
ragazza/donna gentile
Klutz,
goffo
Schmeckle,
pene piccolo
Pisher,
piscia a letto/persona giovane e inesperta
Putz,
volgare per pene (spesso riferito agli stupidi)
Ashknaz,
un modo per indicare il linguaggio Yddish
Ess,
mangia!
Hak
mir kayn chaynik, smettila di borbottare come una teiera
A
messa mashee afdeer, una morte orribile a te!
Antloyfn,
correte/scappate
Ikh
hob dir in drerd, vai all’inferno
geh
gesund, addio – letteralmente “Vai in
salute”
Double
Exposure
2.
Wabi – sabi
Erano
passati due anni da quel giorno a Rogue Town, eppure Hina ricordava
ogni cosa, proprio come se fosse avvenuto il giorno precedente.
Era
la fine di Settembre e pioveva a dirotto, pioveva così forte
che per un momento aveva temuto non sarebbero riusciti a vedere nulla;
suo padre, nonostante si fosse ammorbidito con gli anni, aveva
dimostrato più volte il suo disappunto, sostenendo che non
fosse educativo portare due bambini ad assistere a
un’esecuzione. Naturalmente Natsuki lo aveva ignorato, aveva
caricato Hina e Smoker su una nave e si era fatta ospitare alla base
della marina, dove si trovava anche suo fratello. Non che Hina avesse
avuto modo di conoscerlo, in ogni caso, era troppo preso a occuparsi
delle scartoffie e dell’esecuzione.
«Non
ti perdi niente» le aveva detto sua madre «Mio
fratello è uno stronzo, sua figlia è nata meno di
un mese fa e lui è tornato al lavoro da due
settimane».
Avevano
aspettato in quella piazza gremita di gente, tra pirati e cittadini,
tutti lì, immobili e col fiato sospeso ad attendere
l’arrivo del Re; Smoker, accanto a lei, aveva osservato ogni
attimo di quella scena con aria rapita e le sopracciglia aggrottate.
«Non
distogliete lo sguardo» aveva detto loro Natsuki
«Quello a cui state per assistere oggi è qualcosa
che cambierà il futuro del mondo».
E,
come sempre, aveva ragione.
Gold
Roger, il re dei pirati, si era inginocchiato sull’enorme
patibolo, osservando divertito la folla di fronte a lui e, quando aveva
sorriso, Dio!, quando aveva sorriso Hina aveva stretto la mano attorno
alla giacca fradicia di Smoker e lo aveva visto annuire con la coda
dell’occhio. Quell’uomo era davvero speciale, era
davvero un Re; erano rimasti lì e avevano continuato a
guardare anche quando la sua testa si era staccata dal corpo ed era
ruzzolata lungo il patibolo, anche quando la folla intorno a loro si
era dispersa: nelle loro orecchie risuonava ancora la eco delle sue
ultime parole.
Avevano
conservato quel giorno nel cuore e ogni tanto uno dei due tornava a
parlarne; ci sono esperienze che ti cambiano, ti segnano
l’animo e il cuore e, per entrambi, l’esecuzione di
Gold Roger, quel Settembre del 1500, era stata una di quelle.
«Smoker»
Hina lo chiamò, riscuotendolo dai suoi pensieri
«Stavo pensando –»
«Pensa
di meno e corri di più o tua madre ci farà pulire
di nuovo tutta la sala dei ricevimenti, sia maledetto il giorno in cui
mi sono messo tra te e tuo padre sei anni fa».
«Stavo
pensando» continuò imperterrita la ragazzina senza
rallentare l’andatura «Siccome sei così
convinto che lo One Piece esista… Hai mai pensato di
diventare un pirata?»
Smoker
si fermò di colpo e Hina, che non stava prestando troppa
attenzione, gli finì a sbattere contro.
«Sei
tutta scema?»
«Io?!
Stupido schmeckle, ti sembra il modo di fermarti?»
«Finiscila
di chiamarmi così, trovati un altro insulto,
scema» borbottò il ragazzino riprendendo
l’allenamento – allenamento che Natsuki curava
personalmente da quando lui aveva compiuto dodici anni e Hina dieci,
due anni prima «Mens
sana in corpore sano»
aveva detto, senza che nessuno dei due capisse niente.
«Più
tardi chiederò consiglio ad Havamama. Perché
no?»
«Perché
no. E poi l’hai vista la fine che fanno i pirati».
«Stai
dicendo che non ti piacerebbe arrivare ai confini del mondo? Esplorare
i mari? Hina non ti crede».
«Hina
può stare zitta?» ringhiò il ragazzo
schivando un passante e incespicando lungo la salita che conduceva alla
collina degli Okabe.
«Hina
non lo garantisce».
Si
lasciarono andare contro il portone di ingresso, esausti, sotto lo
sguardo divertito di Natsuki che da qualche anno a quella parte
sembrava avere ripreso a respirare; era tornata la ragazza ironica e
spensierata di un tempo, abbandonandosi alle spalle la donna triste in
cui l’aveva trasformata Tatemae, certo continuava a fumare
troppo e ad essere seccata da tutto, ma oramai anche sua figlia aveva
imparato a leggere tra le righe e aveva capito che non è che
Natsuki fosse davvero scocciata, semplicemente quello era il suo modo
di relazionarsi alla vita. Ora sorrideva molto di più,
trascorreva molto più tempo con Hina e, dopo un periodo di
tempo di circa tre mesi, in cui non aveva fatto altro che litigare con
Hideaki, era riuscita ad ammorbidire il marito, facendo riemergere in
lui quei lati del suo carattere che l’avevano convinta a
lasciare il mare meridionale anni prima. Smoker era oramai una presenza
fissa a casa loro e, quando Havamama non poteva prendersi cura di lui,
la villa degli Okabe lo accoglieva a braccia aperte.
«Hina
vorrebbe andare in città».
«Hina
deve farsi un bagno prima» l’ammonì sua
madre con aria severa «E dovrebbe anche piantarla con questa
terza persona».
La
ragazzina scrollò le spalle, non è che non ci
avesse provato a smettere di parlare a quel modo, semplicemente si era
abituata a farlo e ora le sarebbe risultato quasi ridicolo omettere il
suo nome; Natsuki borbottò un ennesimo “Che
seccatura” e agitò le mani, invitando i due
ragazzini a sparire. Era stato qualche anno prima, dopo averli pescati
di ritorno da una gita al porto sporchi di fango e parzialmente gonfi
di botte che la donna aveva deciso di allenarli personalmente. Non che
conoscesse chissà quali tecniche assassine, ma era cresciuta
a Karate Island dove era solo normale che ai bambini venissero
insegnate le basi delle arti marziali; suo fratello aveva appreso molto
più di lei e si era dedicato con molta più
costanza a ogni tipo di massacrante allenamento, ma Natsuki non era
stata da meno, sebbene avesse sempre vissuto le arti marziali come un
hobby.
Quel
pomeriggio Havamama aveva preparato uno strano dolce gelatinoso che
aveva chiamato pudding; quando lo videro, Smoker lo fissò
con aria disgustata, osservandone il movimento oscillante e
l’aria sbilenca. Hina, più abituata a non fare
commenti e a mangiare qualsiasi cosa le venisse messa nel piatto,
affondò con circospezione la forchetta nel piatto e ne
assaggiò un pezzo, per ritrovarsi ad arricciare le labbra in
una smorfia di soddisfazione.
«Ess
Smoker, non fare storie, oramai sei grande e Havamama non cucina mica
perché i suoi piatti vengano lasciati
lì» esclamò la donna, che sembrava non
essere mai invecchiata in quegli anni. Ma in fondo Havamama aveva un
che di eterno, gli anni passavano, i bambini alla sua porta si
susseguivano senza posa, e lei rimaneva lì a guardarli
passare, donando un biscotto a ciascuno di loro, offrendo un letto e un
abbraccio; le rughe sul suo viso sembravano moltiplicarsi, ma erano
sempre state così tante che nessuno avrebbe mai potuto
indovinare che fossero aumentate, ogni tanto qualcuno allungava una
mano a toccarle e diceva: «Havamama la tua faccia sembra una
grossa ragnatela!» e lei scoppiava a ridere, battendosi con
forza le mani sulle cosce e rispondeva: «Oy vey iz
mir» senza mai smettere di ridere.
Hina
dondolò le gambe lungo lo sgabello di legno, fissando
silenziosamente la stanza con aria pensierosa.
«Havamama,
tu ci sei mai andata per mare?» domandò quindi.
«Certo
che sì, bubala mia, certo che sì. Havamama ha
visto cose tante nella vita, ma è stato tempo fa, prima dei
pirati, quando nessuno conosceva Gol e lui era piccolo come uno
scricciolo, oh sì, Havamama sa quanto era piccolo».
«Hak
mir kayn chaynik, Havamama» borbottò Smoker
«La moglie del fornaio dice che sei sempre, sempre stata
qui».
«Havamama
ricorda anche lei quando era piccola così» rispose
la vecchia avvicinando le mani tra loro e simulando la forma di un
neonato.
«Come
no, vecchia. Hai finito, Hina? Guarda che vado al molo senza di
te».
«Hina
trova che tu sia un po’ sgarbato oggi».
Smoker
le lanciò uno sguardo torvo, chiamò Chaser e
sparì oltre l’uscio, incamminandosi con aria
imbronciata verso il porto; la ragazzina saltò
giù dalla sedia, mise il suo piatto e quello
dell’amico nel lavello e, dopo avere abbracciato Havamama,
seguì il maggiore percorrendo una strada che aveva imparato
a conoscere perfettamente.
Trovò
Smoker seduto su una cassa di legno, sulla banchina numero tre del molo
est, osservava dei marinai lavorare alacremente sul ponte di una
caravella, caricando provviste, sistemando il sartiame, rattoppando le
vele; Hina si domandò quanto ci sarebbe voluto prima di
vederlo sparire su una di quelle imbarcazioni, diretto
chissà dove. Forse era ancora piccola, ma non era stupida e
percepiva il richiamo del mare tanto quanto lo percepiva il suo amico,
vedeva che ne era attratto e aveva la consapevolezza che prima o poi
quel richiamo avrebbe vinto.
Si
sedette accanto a lui, dopo avere accarezzato per un po’
Chaser.
«Padre
Michael dice che la nostra strada è già segnata e
che dobbiamo solo trovarla».
«Sì,
ma Padre Michael è un idiota, e io non credo a queste
cose».
«Non
credi a queste cose, ma credi ai Dybbuk?» lo
canzonò la bambina.
«Non
credo nemmeno ai Dybbuk, non dire stupidaggini!»
«Mio
padre dice che però è vero, che Padre Michael ha
ragione, per questo andiamo alla chiesa tutte le domeniche».
«Sì,
ma anche tuo padre è un idiota, per questo non ci vengo
mai».
Hina
gli gettò un’occhiata obliqua, guardandolo fissare
il mare con aria vagamente persa.
«Tanto
non ti ci fanno salire sulle navi… Sei ancora troppo
piccolo, lo sai, vero?»
«Stai
zitta che tu sei pure più piccola».
La
ragazzina sollevò le spalle come a dire che non è
che le importasse poi molto, quindi si portò le ginocchia al
petto e si mise a fissare anche lei l’andirivieni di uomini.
«Credi
che ci lascerebbero partire?»
«Ma
sei appena detto che sono troppo piccolo!»
«Non
adesso, Klutz, poi».
«Credo
che tuo padre farebbe un sacco di storie, ma sarebbe davvero felice di
vedermi fuori dalle scatole».
«Havamama
sarebbe triste però».
«Anche
tua madre, non credere, però credo che se tu volessi farlo
non ti direbbe di no».
«Hina
è sicura che ci perderemmo quasi subito» aggiunse
la bambina «Il tuo senso dell’orientamento
è un po’ scarso».
«Sì,
ma il tuo è ottimo, basterà portarti
dietro».
«Hina
non è mica un cane!» protestò con voce
accorata, mettendosi le mani in vita e fissandolo torva.
«Certo
che no, per quello c’è Chaser, e comunque non
posso mica lasciarti qui, ti annoieresti troppo e finiresti con il
picchiare tutti i bambini del porto».
«Quello
sei tu» gli fece notare l’amica sorridendo appena.
«Ma
se settimana scorsa hai fatto un occhio nero al figlio
dell’armaiolo del distretto est, l’hanno sentito
piangere fino a casa tua!»
«Così
impara a prendermi per i capelli, solo perché sono di un
colore strano non significa che vadano tirati».
«A
me piacciono i tuoi capelli» disse solo Smoker senza
guardarla.
Hina
sorrise e si piegò su di lui per dargli un bacio su una
guancia, non era un gesto insolito, raro, ma non insolito. Sua madre lo
faceva spesso con entrambi e la bambina si era abituata ad utilizzarlo
come segno di ringraziamento nelle rare occasioni in cui qualcuno lo
meritava davvero. Quello che non aveva previsto però fu che
Smoker si voltasse e che le sue labbra si trovassero esattamente dove
poco prima c’era la sua guancia.
Si
staccarono di colpo, con gli occhi spalancati e una smorfia strana in
faccia.
«Sei
impazzita? E se ci avesse visto qualcuno?»
«Mica
l’ho fatto apposta! Sei tu che ti sei girato!»
«Solo
perché stavo per chiederti una cosa importante,
scema!»
Hina
non disse niente, torcendosi leggermente le mani senza avere bene idea
del perché.
«Cosa
volevi chiedere, stupido Klutz?»
«Mi
prometti che parti assieme a me? Se mi prendessero su una nave, ci
verresti anche tu?»
«A
Hina non piacciono le domande stupide».
«Promettilo»
la voce di Smoker suonò molto simile a un ordine e la
bambina lo fissò per qualche istante con aria seria.
«Prometto»
disse «Croce sul cuore».
«Croce
sul che? Ma quanti anni hai? Sei?»
«Io
non mi taglio per fare una promessa col sangue, se poi vengono le
malattie?»
«E
allora trova un altro modo! Non siamo mica più dei bambini!
E poi a me le croci non piacciono, non ci credo in quelle robe
lì».
«Hina
ti trova seccante, Smoker» borbottò la bambina
incrociando le gambe e girandosi del tutto verso di lui sulla grossa
cassa di legno «Facciamo così, Mamma dice che i
baci sono delle promesse. Se vuoi posso darti un bacio da grandi come
promessa».
«Che
schifo!» si lamentò il maggiore.
«Ma
se l’abbiamo appena fatto!» gli fece notare
l’amica «Non avrai mica paura? Oh, hai
paura?»
«Certo
che no, scema! E va bene, un bacio da grandi…
Com’è un bacio da grandi?»
«Come
quello di prima, ma con la lingua. Hai presente i miei genitori quando
si danno i baci?»
«Cerco
di non guardarli, ma ok. Al tuo tre».
«Ok.
Uno».
Smoker
socchiuse gli occhi e aggrottò le sopracciglia.
«Due».
Socchiuse
leggermente le labbra.
«Tre».
Hina
si piego velocemente su di lui, appoggiando le proprie le labbra sulle
sue, la lingua saettò veloce nella bocca del ragazzino
scontrandosi con quella di Smoker. Il contatto durò meno di
due secondi dopo i quali i due si staccarono schifati, con
un’espressione di disgusto sul viso.
«Che
schifo!» esclamò Smoker sputacchiando
«Ma perché era bagnato?!»
«La
tua lingua!» si lamentò anche Hina, strofinandosi
con il dorso della mano «Nessuno ha mai detto che faceva
così senso! La tua lingua era come un verme!»
«Cosa
credi! Anche la tua! Giura che non lo dirai a nessuno!»
«A
nessuno» promise la bambina.
«Facciamo
che promettiamo stringendoci la mano?» chiese quindi Smoker
con un’ultima smorfia, allungando un braccio verso di lei.
«Purché
non debba baciare mai più nessuno»
accettò Hina stringendolo tra le sue dita esili.
Era
Luglio inoltrato quando i giornali riportarono la notizia della
scomparsa di Ohara dalle mappe.
Il
polverone che ne conseguì rimase impresso nelle menti di
tutti per lungo tempo e in molti ringraziarono il cielo di essere
separati dal mare occidentale dal Linea Rossa; i genitori iniziarono a
raccontare ai figli storie terribili sui demoni di Ohara e su quella
bambina diabolica che era riuscita a fuggire.
Tutti
speravano che venisse catturata presto, soprattutto visto il complotto
per distruggere il mondo che stavano macchinando quei mostri di Ohara
prima di venire fermati dal governo; che poi fosse stata in grado, sa
sola, di abbattere cinque navi della marina, non faceva che
incrementare le ansie dei cittadini.
«Tutto
questo è male» diceva Havamama in quei giorni
«Lo sento nelle ossa, bambini! A messa mashee af deer,
piccolo demone!»
Smoker
e Hina non vi prestarono più di tanto attenzione, per loro
era solo una notizia come un’altra e, in quei giorni, il mare
orientale era pieno di imbarcazioni che facevano tappa a Natsukashii e
poi ripartivano; si trattava quasi sempre di navi pirata, dirette verso
l’avventura e verso il grande blu, ben più
interessanti di una notizia passeggera su un’isola di ribelli
spazzata via dal governo.
Erano
i giorni delle grandi partenze e delle navi maestose, in cui
l’intera città si riempiva del vociare allegro di
ciurme in attesa di salpare, gente che faceva festa e radunava
provviste, ringraziando gli abitanti invece di derubarli, dimostrando
spesso un’umanità che ancora non era stata perduta.
Il
1502 fu un anno di sconvolgimenti non indifferenti per tutto il mondo;
a due anni dalla morte di Roger sembrava che la terra avesse iniziato a
girare a velocità doppia rispetto al normale. I bambini
crescevano più in fretta e spesso si imbarcavano in viaggi
da cui non sarebbero più tornati; i pirati erano divenuti
compagni anche dei cittadini più rispettabili e si
mescolavano nelle città creando scompiglio e spesso
attirandosi le ire dei comandi locali della marina. Si diceva che nel
grande Blu cominciassero ad emergere nuove potenze, a capo delle quali
rimaneva ancora il temuto Barbabianca, l’unico uomo che, dopo
Roger, era stato in grado di tenere ben strette le redini della
pirateria, dicevano di lui che fosse il più potente del
mondo, ma non tutti ci credevano davvero.
Si
parlava anche di nuove flotte, proprio là, nel mare
orientale, nate da membri della ciurma di Roger rimasti allo sbaraglio,
ma nessuna di loro giunse mai fino a Tatemae e in molti continuarono a
credere che il mare orientale fosse rimasto un’oasi
tranquilla in un mondo che andava sempre più allo sbaraglio.
Questo
finché, un pomeriggio afoso di quello stesso luglio in cui
il panico aveva iniziato a diffondersi a causa di una bambina, una
singola nave, sulla cui cima spiccava il Jolly Roger nero, non
approdò nel portò meridionale di Natsukashii.
Fino
a quel momento i pirati che erano approdati sull’isola
avevano mantenuto un profilo piuttosto basso, consapevoli che il vero
viaggio sarebbe cominciato solo una volta superata la Reverse Mountain,
ma, disse in seguito chi fu testimone degli eventi, nello sguardo di
quell’uomo, subito dopo essere sceso dalla nave, non
c’era altro che follia.
Le
fiamme divorarono la città.
Alte
lingue di fuoco salivano verso il cielo, mentre urla disperate
percorrevano le strade; gli abitanti scappavano, senza sapere bene dove
rifugiarsi, mentre i marine della base entravano nel panico, incapaci
di opporre reale resistenza di fronte a quell’attacco
inaspettato e brutale. Hina e Smoker, ben lontani dall’avere
idea della portata reale degli accadimenti che sconvolgevano la loro
cittadina, erano in casa, impegnati in una discussione su quale fosse
sistema migliore per stanare un ratto dalla sua tana. Quando la porta
della vecchia e malridotta casa di Havamama si spalancò con
un tonfo, nessuno di loro – nemmeno l’anziana
donna, che oramai di cose ne aveva viste nella sua lunga vita
– si aspettava di trovarsi di fronte uno sconosciuto, armato
fino ai denti e con l’aria minacciosa.
Probabilmente
nemmeno l’uomo si aspettava di trovare dei bambini o, forse,
semplicemente, aveva creduto che in quella casa dall’aspetto
dimesso ci fosse davvero qualcosa da portare via.
Hina
e Smoker avevano già visto qualcuno morire, ma assistere
all’esecuzione di un criminale è molto diverso dal
guardare con occhi sbarrati la morte di chi si ama, rimanendo bloccati
dalla paura, incapaci di fare qualsiasi cosa. Fu questione di pochi
istanti, ancora prima che riuscissero a riscotersi dal torpore in cui
erano stati avvolti Havamama si piazzò davanti a loro con
tutta la sua mole, scansando lo sconosciuto con una potente manata alla
quale seguì uno scoppio che riecheggiò tra le
mura della casa sonoramente.
«Antloyfn!»
urlò voltandosi appena i bambini e sul viso era stampata
un’espressione seria che non avevano mai visto prima.
«Havamama!
Havamama! Vieni!» urlò Hina, intrecciando le sue
dita a quelle di Smoker e dirigendosi verso la porta.
«Havamama
resta qui un po’ ancora, kinder, con questo
shmendrick» disse la donna «E non preoccupatevi per
me, Havamama sa sempre quello che fa e Havamama vi vuole bene,
piccini».
Hina
sentì la mano di Smoker stringere la sua con maggiore forza,
non ne era certa, la sua vista era appannata da lacrime, ma era
abbastanza sicura che anche lui stesse piangendo. Uscirono per strada,
seguiti dalle ultime parole che avrebbero mai sentito pronunciare alla
vecchia Havamama, indirizzate verso il pirata che ancora le stava di
fronte: «Ikh hob dir in drerd!»
Se
avessero loro detto che era scoppiata l’Apocalisse, forse ci
avrebbero creduto; la città era completamente diversa da
quel porto sicuro in cui si erano abituati a girare. Le fiamme
avanzavano veloci da ovest verso est, un fumo nero e acre saliva in
ampie volute verso il cielo, finendo loro negli occhi e portandoli a
lacrimare ancora di più; solo l’avere passato
così tanti anni a correre tra i vicoli sporchi e le strade
secondare gli permise di riuscire a districarsi in
quell’intreccio quasi mortale di case in procinto di crollare
e persone in fuga.
La
villa degli Okabe, grazie, in parte, alla sua posizione privilegiata in
cima alla collina, grazie anche alle spesse mura di cinta di pietra,
era rimasta indenne e si ergeva come roccaforte della città;
Natsuki, davanti all’ingresso principale, armata come nessuno
dei ragazzi l’aveva mai vista, aiutava i cittadini in fuga ad
entrare, invitandoli a rifugiarsi nel giardino. Come li vide arrivare,
corse verso di loro, abbracciandoli di slancio con un malcelato moto di
sollievo, tornando, interiormente, a respirare. Non lo avrebbe mai
ammesso, non a sua figlia, tantomeno a suo marito – che in
quella rara occasione aveva dimostrato di avere più coraggio
di quanto chiunque avesse creduto, imbracciando un fucile e correndo ad
aiutare gli uomini al porto – ma Natsuki aveva vissuto
l’ultima ora con groppo alla gola e un nodo
all’altezza dello stomaco, nel timore che fosse successo
qualcosa alla sua bambina. Non aveva nemmeno mai espresso il suo
disappunto tanto era turbata e ora, finalmente, sentiva che il peggio
era passato.
«Dentro,
presto. Entrate in casa!» disse con voce accorata, indicando
il cancello aperto e sospingendoli verso di esso.
«È
successo qualcosa? State bene?» domandò quindi,
nel notare i loro occhi lucidi e i solchi chiari delle lacrime sulla
pelle fuligginosa e annerita dal fumo.
Smoker
distolse lo sguardo, puntandolo verso il basso e accorgendosi, solo in
quel momento, del cane che lo attendeva sulla soglia del cortile;
lasciò andare la presa sulla mano dell’amica e
corse incontro a Chaser, maledicendosi per non avere pensato a lui
nemmeno un momento in tutto quel trambusto.
«Havamama
è morta» disse piano Hina abbassando la voce, con
occhi spenti, spostando lo sguardo da Smoker a sua madre «Le
hanno sparato qui» indicò un punto
all’altezza della sterno, un po’ troppo vicino al
cuore per i gusti di Natsuki.
«Hina,
guardami negli occhi e ascoltami bene» il suo tono di voce
era così serio e greve che la bambina si riscosse
leggermente e fece come le era stato detto «Devi aiutarmi
perché non posso fare tutto da sola. Sai dove sono le chiavi
delle cantine?»
«Sì,
ma –»
«Prendi
Smoker, andate a prendere le chiavi e fate entrare tutti i bambini, le
donne incinte e chiunque sia troppo vecchio o troppo fragile per
imbracciare un fucile in cantina. Poi con questa» disse
staccandosi una chiave arrugginita dal collo «Andrai, con
chiunque non sia rimasto di sotto, nel capanno in fondo al giardino.
Ora ascoltami molto attentamente, la marina sta arrivando, non quegli
smidollati della sezione della città, dei veri Marine, da
Rogue Town, dobbiamo cercare di resistere fino a quel momento, a meno
che i pirati non decidano di andarsene prima, hai capito?»
Il
viso di sua figlia si era fatto più serio del solito e la
bambina annuì; Natsuki ringraziò che avesse
ereditato il sangue freddo della sua famiglia, in grado di farle
mantenere la calma anche nella peggiore delle situazioni. La
osservò avvicinarsi a Smoker e spiegargli cosa fare, quindi
annuì leggermente quando entrambi si girarono a guardarla
ancora.
Hina
sobbalzò leggermente nell’udire il pesante
cancello del giardino chiudersi dietro sua madre dopo che Hideaki e gli
uomini che erano scesi al porto furono tornati, la udì
mentre ordinava agli uomini che le erano rimasti vicini come barricarlo
quindi si fece forza e fece come le era stato detto. Per quel breve
lasso di tempo, né lei né Smoker tornarono col
pensiero a quanto era accaduto poco prima, cercando di concentrarsi
sulle persone che avevano di fronte agli occhi, sulle persone che erano
ancora vive.
Hina
non aveva mai messo piede nel capanno prima, non le era permesso e lei
era sempre stata abituata ad obbedire agli ordini; non si immaginava,
quindi, che quel modesto edificio in un angolo del giardino ospitasse
così tante armi e così tante munizioni. Quello
non era semplicemente un luogo sicuro dove nascondere oggetti troppo
pericolosi per finire nelle mani di una bambina, bensì una
vera e propria armeria, sembrava quasi che ci fossero fucili a
sufficienza per un esercito. O almeno così sembrò
ai due ragazzini in quel momento; erano le prime pistole, le prime
spade che vedevano da così vicino e quando le loro mani
tremanti andarono a sfiorarli percepirono un brivido di adrenalina
scorrere lungo la schiena.
Gli
uomini accanto a loro parevano guidati dalla voce calma e fredda di
Natsuki che andava intimando a ciascuno di raccogliere
un’arma e piazzarsi lungo il muro e dietro il cancello, in
attesa dei rinforzi. Dovevano fare da baluardo difensivo per i deboli e
gli indifesi, dovevano essere ciò che la marina
dell’isola non era stata in grado di fare.
«Io
però questa non la so mica usare»
borbottò Smoker prendendo in mano una spada troppo lunga per
lui.
«E
infatti non la userai» Hideaki, comparve alle sue spalle
sfilandogli con delicatezza l’arma dalle mani e riponendola
al suo posto «Cosa ci fate ancora qui, si può
sapere? È pericoloso, dovreste già essere in
cantina con gli altri!»
«Hina
vuole restare» protestò la figlia, guardando con
aria leggermente preoccupata sua madre che pareva completamente
assorbita dai preparativi della battaglia «Posso
combattere».
«Anche
io, sono il più forte di tutta Natsukashii, anche i
ragazzini più grandi hanno paura di me!»
«Il
fatto che siate due piantagrane non giustifica assolutamente la vostra
presenza qui, andate in casa, di corsa».
«Non
andrò a nascondermi in cantina quando ci sono persone che
sono qui a rischiare la vita, non sono più un bambino e
Havamama…»
«Havamama
vorrebbe che tu fossi al sicuro, Smoker. E lo voglio anche io. Ora
filate in casa entrambi!»
Hina
afferrò di malavoglia la mano dell’amico e se lo
trascinò di peso verso l’ingresso.
«Non
vorrai davvero andare a nasconderti?»
«Hina
non si nasconde, ma se stiamo qui saremo di peso per tutti. Vieni su,
dalla finestra di sopra riusciremo a vedere tutto, e se poi fossimo
davvero in pericolo io li conosco i passaggi segreti della
villa».
Il
ragazzino fece una smorfia, ma la seguì seppur di malavoglia
dentro la casa; il vasto ambiente, vuoto e quieto, faceva da eco ad
ogni loro passo, mentre, il più silenziosamente possibile
andavano attraversando le ampie sale.
«Secondo
me non arriverà nessuno».
«Se
la mamma dice che la marina arriverà, allora arriveranno di
sicuro. Lei non mente mai».
«Te
lo avrebbe detto in ogni caso, mica vuole che ti preoccupi!»
Hina
sollevò le spalle, senza riuscire a trovare la forza di
ribattere, affacciandosi all’abbaino del tetto.
«Però
quelle là a me sembrano navi» gli fece notare,
indicando uno stormo di vele bianche in prossimità del porto.
Smoker
la scostò bruscamente, montando in piedi sul cornicione
della finestra e guardando fuori.
«Come
fai a sapere che non sono di pirati?» chiese, riluttante ad
ammettere a sé stesso che l’amica aveva ragione.
«Hina
non è stupida!» ribatté la giovane
piccata «So riconoscere il simbolo dei marine».
Smoker
si lasciò ricadere all’indietro, sedendosi sul
pavimento polveroso dell’attico.
«Lo
so» borbottò a mezza voce «Lo so che non
sei stupida. Però… Però potevano
arrivare prima! Se fossero arrivati prima ora Havamama -»
Hina
rimase immobile per qualche secondo a fissarlo, senza trovare la forza
di correggerlo, senza trovare la forza di chiedergli di finire la
frase; quindi si sedette al suo fianco e gli prese la mano, ancora
incerta su quale fosse il modo giusto per consolarlo,
perché, anche lei se ne rendeva conto, quella che Smoker
aveva subito quel giorno, era una perdita che nessuno avrebbe mai
potuto lenire del tutto.
Gli
appoggiò il capo sulla spalla, stringendo più
forte le piccole dita attorno a quelle del ragazzo e attese, rimanendo
a osservare l’orizzonte che si tingeva di rosso.
Suo
zio era un uomo sgradevole.
Almeno
fu questa la prima impressione che Hina ebbe di lui quando lo vide
qualche ora dopo. Prima di tutto aveva aperto un grosso buco nel muro
di cinta, invece di entrare dal cancello come le persone normali;
quindi aveva lasciato piccole gocce di lava bollente per tutto il
giardino, persino sulle rose della mamma, lasciando dei solchi
sgradevoli. La prima cosa che le disse, quando finalmente si rese conto
della sua presenza di fronte a lui, dopo avere fatto una smorfia
strana, fu: «Perché dovete tutte avere i capelli
rosa?»
«Akainu,
piantala!» lo redarguì sua sorella, avvicinandosi
alla figlia e prendendola in braccio, cosa che non accadeva da anni
«Potresti almeno salutare tua nipote come si deve, visto che
non la vedi praticamente da quando è nata!»
«Avevo
altro da fare, Natsuki. La giustizia non aspetta».
«Via,
via, Akainu. Non è carino trattare così tua
sorella» gli fece eco il suo collega, un uomo da una folta
capigliatura scura raccolta sotto una bandana blu «Sei
affascinante come al solito, Natsuki, cara»
«E
tu come al solito sei un adulatore, Aokiji. Ora levati gli occhiali da
sole, e anche il cappello, sei in una casa non in una stalla. E
tu» continuò rivolta al fratello «Vedi
di levarti quel cappotto, muoviti. Sarete anche due Vice Ammiragli, ma
in questo momento siete miei ospiti».
«Natsuki
non ho tempo per queste stronzate, devo compilare un
rapporto».
«Hina,
tesoro, perché non vai a controllare come stia Smoker,
mentre io dico a tuo zio dove deve infilarsi il suo rapporto?»
«Hina
è seccata» borbottò sua figlia
guardandola storto «Ma ci va lo stesso, e comunque»
riprese girandosi verso Akainu «Non si dicono le
parolacce».
Non
fece che pochi metri, uscì dal salone e si fermò
nell’atrio, girandosi a osservare con sguardo ostile
l’uomo che l’aveva seguita.
«Ha
bisogno di qualcosa?» domandò con educazione.
«No»
rispose Aokiji sbadigliando «Ma i tuoi parenti sono una vera
scocciatura e io voglio filarmela».
La
ragazzina aggrottò le sopracciglia, perplessa.
«Pensavo
che i marine non… se la filassero»
esordì, calcando con tono esagerato sull’ultima
parte della frase «Che cosa vuol dire?»
«Che
ho tutta intenzione di passare il pomeriggio a far niente, me lo merito
dopo aver lavorato così duramente» le fece notare
il vice ammiraglio, sperando che la bambina non si accorgesse del velo
di ironia celato nelle sue parole.
«E
deve proprio seguire me?»
«Non
ho di meglio da fare, te l’ho detto».
In
realtà Aokiji avrebbe avuto ben altro da fare, tipo una
telefonata ai suoi superiori, tuttavia, in quel momento, trovava molto
più divertente seguire la giovane figlia di Natsuki, mosso
sia dalla noia che da un sentimento di protezione verso la figlia di
una donna che negli anni gli aveva sempre dimostrato profonda amicizia.
Anche se l’isola era stata completamente ripulita era
comunque meglio che una ragazzina così piccola non vi si
avventurasse da sola, non subito almeno.
«Guardi
che so badare benissimo a me stessa» mormorò la
bambina uscendo di casa con aria impettita e vagamente scocciata.
«Non
ne dubito».
«I
bambini più grandi hanno paura di me»
continuò ancora, cercando di darsi un tono proprio come
avrebbe fatto Smoker.
«Oh,
beh, anche io avrei paura di Natsuki».
«Non
di mia mamma, i bambini hanno paura di Hina e di Smoker. Soprattutto di
Smoker, ma anche di me».
«E
questo Smoker dov’è ora?»
Hina
parve pensarci qualche istante, quindi un’ombra le
attraversò lo sguardo.
«Di
solito… Beh, di solito sarebbe da Havamama, ma le hanno
sparato e papà è andato a controllare e ha detto
che hanno spostato il suo corpo nella chiesa del settore Est, quella
con le stelle».
«Intendi
la Sinagoga?»
«E
io che cosa ho detto? Comunque a lui quel posto lì non
piace, dice che puzza di morto e di spezie, ed è vero. Anche
la mia chiesa ha lo stesso odore. Credo che adesso sia al
porto».
Aokiji
sbadigliò di nuovo, calandosi i piccoli occhiali da sole sul
viso e sistemandosi la bandana con un gesto rapido, quindi
afferrò Hina con un braccio e ignorando le proteste accorate
della ragazzina, se la caricò in spalla.
«Mi
spiace, ma hai le gambe troppo corte».
«Mettimi
giù, nemmeno ci puoi venire al porto! Mettimi
giù!»
«Non
essere maleducata, vedrai che il tuo amico non avrà di che
lamentarsi» borbottò l’uomo cominciando
a pensare di aver fatto un errore.
«E
quello lì chi è?» chiese Smoker con
aria ostile nell’istante stesso in cui li vide comparire da
dietro un angolo.
Aokiji,
sulla sua bicicletta, portava in spalla Hina che con irritazione
crescente si era aggrappata ai suoi capelli e cercava vanamente di
scendere; il ragazzino di fronte a loro teneva in mano una grossa mazza
da baseball chiodata, al suo fianco un cane dal pelo biancastro dormiva
pacifico.
«Oh.
Ora capisco perché gli altri bambini hanno paura di
voi» borbottò a mezza voce, rimpiangendo di non
essere rimasto a far da spettatore alla lite tra Akainu e Natsuki.
«A
quanto pare è un amico di mia mamma»
spiegò Hina saltando a terra e avvicinandosi
all’amico «È tipo un marine
però».
«L’avevo
capito anche da solo quello, anche se non ha l’aria del
marine».
«Io
sarei sempre qui…»
«Credi
che ci voglia fermare?» sussurrò Smoker chinandosi
leggermente verso l’amica.
«E
come faccio a saperlo?»
«Sei
qui per fermarci? Perché non
funzionerà!» esclamò quindi il
ragazzino volgendosi verso il Vice Ammiraglio.
«Fermarvi
dal fare cosa?»
Hina
sollevò piano la mano e indicò
un’imbarcazione poco lontana.
«Ci
infiliamo là dentro e partiamo» disse con voce
seria.
«Interessante,
e poi?» domandò l’uomo trattenendo un
sorriso divertito.
«E
poi andiamo a picchiare quel Putz che ha ucciso Havamama e tutti gli
altri. E se ne resta qualcuno vivo lo uccidiamo»
sibilò Smoker stringendo i pugni e aggrottando le
sopracciglia in una smorfia di rabbia.
«E
poi? Dopo averli uccisi cosa farai? Oltre a farti arrestare e
probabilmente condannare a morte?» domandò Aokiji
accovacciandosi di fronte a lui e lasciando penzolare pigramente le
mani fino a terra.
«Non
mi arresteranno e comunque non lo so, non ci o pensato, voglio solo che
quei bastardi muoiano tutti».
«Hina
è d’accordo, ma dovresti parlare un po’
meglio» la ragazzina si issò su una cassa e si
mise a sedere, fissandoli entrambi «È una
vendetta, non serve un piano».
«Prima
di tutto, signorina, serve sempre un piano, anche quando sembra che non
sia necessario» fece notare il marine «E
perché di grazia vorreste vendicarvi?»
«Per
avere giustizia!» sbraitò il bambino mollando la
mazza e facendo un passo avanti «Havamama è morta
e quanti di questi schifi avete preso? Eh, quanti? E quanti sono
scappati? Non è giusto!»
«Il
mondo raramente lo è, ragazzino. Ma, come dicevo a un
vecchio amico non molto tempo fa, quella che chiamiamo "giustizia"
cambia forma a seconda da che parte stai, quindi non ti biasimo per la
tua giustizia. Ma se questa ti porta a intralciare la marina, ad
intralciare la legge, allora non si può più fare
finta di niente solo perché quello che fai è
virtualmente giusto. Lo capisci?»
«Hina
lo capisce».
«Io
no, se siete davvero la giustizia perché non avete fatto
niente? Perché i vostri soldati non li hanno fermati?
Dovevate annientarli tutti!»
«Lo
sterminio di massa non è un’operazione
contemplata, la giustizia di cui parli tu è assoluta, non
concede margine di errore né concede redenzione, e spesso
porta l’uomo alla follia, fidati ragazzino, non è
la soluzione. Ho visto con i miei occhi dove porta e a cosa porta, e ho
visto solo morte e fuoco e fiamme».
Smoker
sembrò calmarsi leggermente a quelle parole, trattenendo con
rabbia le lacrime di frustrazione che minacciavano di uscire, che
continuava a sentir pizzicare da ore oramai e che facevano pressione da
quando aveva finalmente realizzato di essere solo al mondo. Ora
Havamama non c’era più e a lui cosa restava? Una
casa vuota e un cane di cui non poteva prendersi cura.
«E
allora cosa posso fare io?»
«Tanto
per cominciare puoi evitare di imbarcarti senza sapere dove andrai a
finire. Poi lascia che le cose facciano il loro corso».
«Hina
non lo trova un gran piano questo…» fece notare la
ragazzina sollevando un sopracciglio.
«Giustizia
con pigrizia, fidati che è meglio aspettare il momento
giusto piuttosto che catapultarsi a capo chino verso
l’ignoto».
«Non
mi hai risposto, cosa dovrei fare io?» chiese ancora Smoker.
«Hai
mai pensato di entrare in marina?»
Hina
sedeva sui gradini di pietra bianca della sinagoga, era la prima volta
che si avvicinava all’edificio e avrebbe preferito continuare
a non vederlo; all’interno Smoker stava dritto in piedi, di
fianco al corpo irrigidito della donna che lo aveva cresciuto, che
aveva visto epoche intere scorrerle davanti agli occhi e che era stata
testimone dei cambiamenti del mondo.
In
quel momento l’unica cosa che interessava a quel ragazzino
era che Havamama fosse morta, non lo avrebbe più chiamato
Klutz, non lo avrebbe più sgridato per i lividi con cui si
presentava la sera a casa, né gli avrebbe più
raccontato storie noiose di quando era giovane; improvvisamente Smoker
si pentì di non averla mai ascoltata davvero.
«Geh
gesund,
Havamama» mormorò piano allontanandosi a passi
lenti verso l’uscita principale.
Hina
era ancora lì, dove l’aveva lasciata
un’ora prima, in attesa; si sedette al suo fianco,
avvicinando le gambe al petto e affondando il viso tra le ginocchia. La
ragazzina non disse niente, rimanendo in silenzio ad ascoltare i
singhiozzi dell’amico; era la prima volta che vedeva Smoker
piangere a quel modo e, probabilmente, sarebbe stata anche
l’ultima, o almeno così pensò in quel
momento perché Smoker non piangeva mai, nemmeno quando
veniva picchiato dagli altri bambini, nemmeno quando si faceva male.
C’era stata una volta in cui si era fatto un taglio sulla
gamba cadendo da una roccia, Havamama gli aveva dovuto mettere cinque
punti e lui non aveva fatto un plissé. Vederlo
così, in quel momento, era peggio di quanto Hina potesse
sopportare, eppure non pianse, se si fosse messa a piangere anche lei
di che consolazione sarebbe stata? E comunque che diritto aveva di
piangere in quel momento? I suoi genitori erano ancora vivi, la sua
casa era ancora in piedi, il suo futuro era ancora lì,
brillante e luminoso, davanti a lei.
«E
ora?» borbottò il ragazzino tirando su col naso.
«E
ora cosa?»
«Che
cosa faccio ora?»
Hina
parve pensarci su qualche istante, quindi scrollò le spalle
come a indicare che lei non sapeva quale fosse la risposta giusta a
quella domanda.
«Aspetta».
«Cosa
dovrei aspettare».
«Non
lo so, ma quando sarà il momento credo che lo
capirai».
«Inizi
a parlare come quel marine con gli occhiali cessi» le fece
notare l’amico sorridendo mestamente.
«Magari
ha ragione lui, sai. Magari non è il caso di imbarcarsi ora,
saresti tutto solo e lo sai che il grande blu è
beh… grande».
Smoker
borbottò qualcosa di incomprensibile e balzò in
piedi, guardandola con aria arrabbiata.
«Come
se cambiasse qualcosa! Sono già solo, Havamama è
morta! Non ho una famiglia, non ho nessuno!»
La
ragazzina fece una smorfia, sollevando appena lo sguardo verso di lui.
«Hai
me» mormorò piano «Hina è qui
e non va via a meno che non vada via anche tu. E la mia famiglia
è la tua famiglia, non è vero che sei
solo».
«Scusami,
Havamama aveva ragione, sono sempre uno stupido schmeckle»
disse strappandole un sorriso.
«Ho
promesso e Hina mantiene sempre le promesse».
«Quindi
se decidessi di partire verresti davvero con me?»
Annuì
prima di borbottare a mezza voce: «Anche se penso sia una
cosa stupida».
Smoker
si rimise a sedere al suo fianco, lasciando vagare lo sguardo sulla
città, verso il porto, oltre la baia, sulla distesa immensa
d’acqua.
«Sono
uno stupido schmeckle e ho delle idee stupide, cosa ti aspettavi?
Però credo questa volta, solo questa volta, tu abbia
ragione».
«E
quindi cosa vuoi fare?»
«Aspettare,
direi, che poi magari quel marine ficcanaso aveva anche ragione e se
aspettiamo poi lo scopriamo».
Hina
annuì, prendendogli la mano e aspettando che fosse lui a
stringerla.
«Credo
che a mio padre prenderà un colpo».
«Sarà
molto divertente» fece eco il ragazzino, voltandosi verso di
lei e fissandola per qualche istante, come a volersi imprimere quel
momento nella memoria.
Hina
non abbassò lo sguardo, rimase immobile, serissima, in
attesa.
Quando
finalmente Smoker le strinse la mano e sorrise, nei suoi occhi
passò un leggero lampo di eccitazione, aspettativa per il
futuro, la consapevolezza di essere in procinto di iniziare qualcosa di
nuovo e della più assoluta ignoranza di ciò che
li aspettava.
«Quindi
se decidessi di entrare in marina?»
«Hina
pensa che sia più intelligente che salire su una nave per
farsi sparare addosso da chi passa».
«Sì,
ma tu verresti con me?»
«Che
palle, Klutz, ti ho già detto di sì, sei
diventato sordo oltre che stupido?»
Smoker
scoppiò a ridere, sollevato. Hina rimaneva un punto fermo
nella sua vita e, con il calare del giorno su quegli eventi
così carichi di dolore, la consapevolezza che sarebbe
rimasta al suo fianco era quanto gli serviva per riuscire ad andare
avanti.
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Capitolo 3 *** Ichariba Chode ***
Note:
Ok, ci siamo. La storia inizia ad entrare
leggermente nel
vivo.
Ci
tengo a dire che non so perché mi sia uscita la coppia che
compare e
comunque non è che un accenno, sono fortemente convinta che
sia
importante per i personaggi conoscere altro oltre a ciò che
hanno
sempre avuto e tra una cosa l'altra è uscita quella roba. E
continuo
ad essere così vaga perché non voglio far spoiler
a inizio
capitolo.
Giusto
due cose sulle parentele, Hina è nipote di Akainu e cugina
di
Bonney, Bonney è quella che diventerà note come
Jewelry Bonney "the
big eater" in futuro.
Ichariba
Chode, nonostante ci siamo incontrati solamente una volta, per puro
caso, saremo amici per sempre.
3.
Ichariba Chode
«Sei
un cretino» borbottò la ragazza armeggiando con
aria intenta di
fronte alla porta della cella di detenzione «È la
terza volta in
una settimana, in una settimana, capisci? Klutz eri e Klutz rimani,
solo che invece di maturare diventi sempre più
mentecatto».
«Vuoi
stare zitta?» borbottò il giovane uomo da dietro
le sbarre sottili
«Apri questa cazzo di porta, piuttosto».
«Oh,
non credo proprio. Sai quanto mi ci vuole? Troppo. E stasera sono a
cena da mia zia, quindi ti attacchi. In compenso ti ho portato da
mangiare, visto che Zephyr ha già dichiarato che saresti
rimasto
senza cena».
«Hina
non fare la stronza, aprimi!»
«Hina
è una stronza e Smoker un imbecille, e ora Hina va a cena
fuori.
Arrangiati e pensaci due volte la prossima volta che ti viene voglia
di insultare un tuo superiore!»
La
giovane recluta si sistemò il copricapo sui capelli, fece un
veloce
gesto di saluto a Smoker, agitando la mano a mezz’aria e
ignorando
volontariamente le sue accorate proteste prima di sparire con grazia
oltre la porta.
Non
aveva alcuna intenzione di farsi pescare dalla guardia di turno e
finire in punizione anche lei, già era una tortura
sufficiente dover
andare a cena da suo zio; Akainu con il passare degli anni era
diventato sempre più insopportabile. Hina era sinceramente
affezionata a sua moglie, Anne, e a sua figlia, la piccola Bonney, ma
non riusciva a provare alcun tipo di affetto per quello che tra tutti
era il suo parente più prossimo; Akainu si era dimostrato
dapprima
seccato, quindi orgoglioso che la figlia di sua sorella avesse deciso
di unirsi alla marina, ma si era presto rivelato una guida assente,
parziale e fin troppo severa. Inoltre lui stesso non riusciva ad
approvare le frequentazioni della nipote: vedeva in Smoker un giovane
piantagrane indisciplinato e incapace di obbedire agli ordini;
trovava fastidioso che entrambi i ragazzi si rivolgessero ad Aokiji
in caso avessero dei problemi; non amava nemmeno vederla girare con
le nuove reclute, era un ambiente promiscuo e informale dal quale non
potevano che svilupparsi ulteriori problemi.
Si
era abituata a ignorarlo, spesso accondiscendeva per mancanza di
voglia di litigare e durante i suoi lunghi discorsi
sull’importanza
di una giustizia totale si ritrovava spesso ad annuire senza
convinzione, troppo seccata per cercare di esprimere la sua opinione.
O almeno, all’inizio lo aveva fatto, aveva cercato di
dimostrare la
sua intelligenza, di far vedere che era perfettamente in grado di
pensare e aveva difeso a spada tratta le sue idee, ne erano risultati
solo immensi litigi e qualche minaccia di radiazione dal corpo dei
marine, così aveva rinunciato, seppur a malincuore,
rimpiangendo che
di fronte a lei ci fosse suo zio e non sua madre.
In
compenso, se non si teneva conto della sua presenza (e comunque lui
non rimaneva a lungo perché aveva altro, aveva di meglio da
fare),
quelle cene settimanali erano per Hina un conforto, le ricordavano i
giorni trascorsi a casa sua, con i suoi genitori,
nell’affetto che
sua zia le dimostrava ogni giorno ritrovava l’abbraccio caldo
di
sua madre, negli occhi pieni di ammirazione di sua cugina un
sostegno.
Non
che sentisse davvero nostalgia di casa, aveva trascorso gli ultimi
tre anni a Karate Island, l’isola da cui era originaria sua
madre e
si era abituata a convivere con l’assenza di chi amava; era
stata
Natsuki stessa a decidere di mandare lei e Smoker lontani.
«Se
proprio siete convinti di voler entrare in marina, allora ci andrete
preparati» aveva detto, prima di spedirli ad allenarsi nel
mare
meridionale.
Non
era certo stato facile all’inizio, ma la consapevolezza di
non
essere del tutto da sola aveva aiutato Hina a resistere in quel posto
che non conosceva per niente. Se Smoker era con lei allora sapeva che
tutto sarebbe andato bene, perché era sempre stato
così. Ricordava
con divertimento i giorni degli allenamenti, i muscoli doloranti alla
fine del giorno, il primo taglio di capelli fatto da sola, la prima
distorsione, persino il primo dito rotto; ne era passato di tempo e
ora, a 19 anni, era riuscita davvero a realizzare il primo dei suoi
obiettivi.
Marineford
si era da subito rivelata più grande e insidiosa di quanto
Hina non
si aspettasse; l’addestramento era cominciato immediatamente
e
Zephyr, che per anni era stato la guida dei giovani cadetti
più
promettenti, non si era dimostrato clemente. Hina ringraziava di
avere una certa resistenza o si sarebbe arresa dopo la prima
settimana di allenamenti estenuanti; anche la presenza di Smoker
aveva aiutato, a volte bastava che si guardassero di sbieco, anche da
lontano per darsi forza a vicenda.
Borbottò
una scusa sommessa, andando a sbattere contro qualcuno
nell’oscurità
delle strade della città; doveva essere saltata la
centralina
elettrica, perché quella sera nessuna via era illuminata e
l’unico
bagliore proveniva dalla fioca luce che emergeva dalle finestre delle
case.
Non
che Hina fosse preoccupata, probabilmente non esisteva posso
più
sicuro al mondo di Marineford, non era un caso che tutte le famiglie
dei marines vivessero su quell’isola, protette
all’ombra del
quartier generale. Proseguì in silenzio, mentre il rumore
dei suoi
passi riecheggiava sul selciato; si fermò di fronte alla
porta
bianca della casa dell’Ammiraglio e fece un respiro profondo,
dopo
tutto erano parte della sua famiglia, pensò bussando con
educazione.
«Hina
onee-san!» esclamò una bambina dai corti capelli
rosa arrivandole
quasi a sbattere addosso.
«Buonasera
Bonney» rispose la maggiore accarezzandole il capo in un
gesto di
affetto «Sono in ritardo?»
«Certo
che no, tesoro» rispose Anne affacciandosi dalla cucina e
gettando
un’occhiata di rimprovero alla figlia «Come sei
conciata! Ancora
con quei vecchi stracci vai a cambiarti di corsa prima che arrivi tuo
padre e lavati le mani!»
«Posso
aiutarvi a fare qualcosa zia?» domandò Hina
osservando la cugina
mentre correva su per le scale, si fermava a metà strada e
faceva
una boccaccia nella loro direzione.
«Oh,
ti ho già detto di darmi del tu quando Akainu non
è in casa,
piuttosto pensavo sareste arrivati assieme».
Dio
me ne scampi, pensò la giovane senza cambiare
minimamente
espressione e allungando le mani per afferrare i piatti che sua zia
andava porgendole.
«Purtroppo
oggi non l’ho visto, credo avesse una riunione tutto il
pomeriggio».
«È
un lavoro impegnativo, sai? Piuttosto come sta andando
l’addestramento?»
Hina
esitò un istante, domandandosi se le domande retoriche di
Anne non
fossero più che altro un modo come un altro per convincersi
che il
suo matrimonio fosse normale e che il rapporto che aveva con suo
marito fosse perfettamente sano ed equilibrato.
«Niente
di particolare, sai, le solite cose. Smoker si è fatto
mettere in
punizione di nuovo, il nuovo arrivato, quello con cui Smoker si
rifiuta di parlare, pare essere incredibilmente forte, anche se
continua a presentarsi con pezzi di cibo in faccia e credo che prima
o poi a Zephyr verrà una sincope. Si chiama Vergo se non
sbaglio, ma
dubito che a lui l’addestramento serva davvero».
«Vergo,
eh? Ho sentito parlare di lui» esordì una voce
dall’ingresso e
Hina si trattenne dal roteare gli occhi verso l’alto, certo,
lui
sapeva sempre tutto.
«Non
sono sicura di aver capito da dove provenga, ma è dotato di
una
forza non indifferente».
«Potresti
prendere esempio, Hina. La forza fisica è necessaria, non da
sola
chiaramente, servono anche uno spirito adamantino e una forza di
volontà ferrea. Anche se sono i frutti del diavolo che
aprono
davvero le porte per la carriera» borbottò Akainu
andando a sedersi
in sala da pranzo.
Non
si scomodò nemmeno a salutare sua moglie, fu lei, invece, ad
avvicinarsi e deporre un bacio leggero sulla sua guancia, passandogli
allo stesso tempo un bicchiere di saké.
«Bonney,
vieni a salutare tuo padre» esclamò sporgendosi
sulle scale.
Hina
fece appena in tempo ad afferrare la cugina per un braccio e
sistemarle i capelli arruffati, mentre la bambina si precipitava
verso il salone; voleva evitare di trascorrere un’altra
serata
ascoltando i discorsi di suo zio sull’importanza
dell’apparenza.
Ogni tanto le sembrava di sentire suo padre e si ricordava che
c’era
stato un periodo in cui anche lui era stato a quel modo.
«Ho
sentito che il tuo amico, il ragazzo di strada, è stato
messo in
punizione di nuovo».
«Smoker»
lo corresse la nipote, senza particolare inflessione nella voce.
«Sì,
esatto. Quello Smoker rischia l’espulsione, spero che tu ne
sia
consapevole. Non è la compagnia adatta alla nipote di un
Ammiraglio».
Hina
strinse i pugni sotto il tavolo, lasciando che le unghie penetrassero
leggermente nella carne, come ad invitarsi a non perdere la pazienza.
«Sarebbe
alquanto disdicevole» cominciò cercando di non far
trapelare
quanto fosse seccata «Se venisse espulso ora, non credete,
Zio? Con
tutto il tempo e i trascorsi che ci sono tra noi questo non
getterebbe del fango anche sulla mia persona e di conseguenza
sull’intera famiglia?»
Akainu
masticò una bestemmia, versandosi dell’altro
sakè nel bicchiere,
quindi annuì; sì, sarebbe stato peggio, avrebbe
dovuto sopportare
quel ridicolo ragazzino finché non fosse diventato un
marine. In
fondo aveva ben chiaro il destino di quelli come lui, preda
dell’orgoglio e testardi fin nel midollo, sarebbe stato
assegnato a
qualche divisione minore e sarebbe stato spedito a farsi ammazzare
dove più desiderava.
«Vedrò
di metterci una buona parola» sbottò.
La
serata trascorse più velocemente del previsto e senza
particolari
discussioni. Era una di quelle sere in cui Hina si convinceva che suo
zio non fosse un uomo cattivo, ma solo una persona triste che si era
lasciata accecare dalla sete di potere e aveva dato maggiore
priorità
alla salita della scala gerarchica piuttosto che alla sua famiglia;
Bonney da parte sua cercava come poteva di attirare le attenzioni del
padre, in parte, proprio come aveva fatto lei da bambina, cercava di
utilizzare un linguaggio che lo infastidisse, termini da scaricatori
di porto e frasi sgrammaticate, ma spesso otteneva solo di riuscire a
innervosirlo.
Accettò
di buon grado i biscotti che sua zia le aveva preparato e
salutò sua
cugina con un bacio, invitandola a venire a seguire gli allenamenti,
quindi si dileguò nella notte, fisicamente provata
dall’ennesimo
incontro con la sua famiglia. C’era quel detto che le veniva
in
mente in queste situazioni, solo che più che parenti
serpenti i suoi
erano parenti da ansia di vivere e con i quali doveva stare attenta a
non usare mai la terza persona o avrebbe rischiato di finire a
sollevar pesi fino al mattino successivo.
Scivolò
silenziosamente nel dormitorio e, cercando di fare meno rumore
possibile, si avvicinò ai letti delle altre reclute.
«Cancer
sei sveglio?» mormorò a mezza voce «Io
vado a tirare fuori
Smoker».
«Non
mi sembra un’idea brillante» borbottò
una voce assonnata dal
letto superiore «Se ti scoprissero?»
«Ho
dei biscotti, Brandnew» fu la brillante risposta «E
una faccia
carina».
«Peccato
che tu non abbia dei limoni» borbottò Cancer
mettendosi a sedere ed
evitando un cazzotto in faccia «Eddai, mica vuoi svegliare
l’intero
dormitorio».
«Mi
accompagni o no?»
«Mi
fai vestire?» sibilò il ragazzo infilandosi la
divisa nel buio.
«Se
vi beccano io non vengo a tirarvi fuori».
«Grazie,
Stainless, tu sì che sei un amico»
continuò Cancer allacciandosi
le scarpe.
«Senti
bello, io e te siamo al secondo anno, loro al primo. Se beccano loro
possono cavarsela con una lavata di capo e qualche pulizia dei cessi
in più, noi invece finiamo assegnati a qualche posto di
merda».
«Stainless,
se non stai zitto giuro su Dio che stanotte ti taglio quei ridicoli
baffi che stai cercando di farti crescere».
«Vaffanculo,
Cancer».
«No,
vaffanculo tu!»
«Fanculo
a tutti e due» sibilò la ragazza «Hina
si sta scocciando, fate
quello che volete».
«Aspettami,
ci vengo io con te. Smoker è anche amico io»
mormorò qualcuno due
letti più in là, alzandosi e rischiando subito
dopo di inciampare
nei suoi piedi.
«Ecco»
borbottò Cancer «Siamo fottuti».
Hina
sollevò le spalle, come a dire che a lei proprio non
importava
niente, purché stesserò zitti e, senza mollare i
suoi biscotti,
uscì dalla stanza seguita dai suoi compagni. Cancer era una
giovane
recluta al secondo anno di addestramento, aveva ventitré
anni, due
più di Smoker e quattro più di lei, e si era
presentato il primo
giorno in cui erano arrivati lì con un sorrisetto sghembo
stampato
in faccia e gli occhiali da sole calati sul viso, aveva fatto una
battuta un po’ troppo sessista per i gusti di Smoker e si era
ritrovato con gli occhiali rotti e un occhio nero; l’altro si
chiamava Verygood, ma i più lo chiamavano semplicemente
Berry, era
un gigante grande e grosso con la mascella squadrata e i pugni delle
stesse dimensioni di quelli di un gorilla, peccato che di uno
scimmione avesse anche l’intelligenza. Insomma non era un
genio e
non si distingueva per astuzia, ma aveva dimostrato di essere una
brava persona che credeva fermamente in quello che faceva e,
soprattutto, un buon amico.
Dopotutto
poteva andare molto peggio, Hina aveva sentito storie sulle vecchie
reclute, storie che principalmente arrivavano da Zephyr stesso e che
raccontavano di scherzi meschini che i cadetti si facevano tra loro.
Era stato un sollievo vedere che nessuno dei suoi compagni aveva
intenzione di farsi picchiare da lei fin dalla prima settimana, come
invece non si era fatto scrupolo a fare Smoker.
«Vuoi
spegnere quel coso?» sibilò girandosi verso Cancer
e lanciandogli
un’occhiataccia.
«Cosa?
Cosa c’è? Che problema hai? Mica devi fumarlo
tu!»
«Puzza»
continuò la ragazza «A Hina fanno schifo le cose
che puzzano».
«Che
palle» borbottò Cancer, spegnendo il sigaro e
guardandolo con aria
desolata.
«Fa
male alla salute» commentò Verygood in tono
preoccupato.
«E
tu non iniziare allora».
Smoker
non stava dormendo, sdraiato nella cella di detenzione osservava il
cielo attraverso le grate della finestra, perso nei suoi pensieri; il
primo biscotto lo mancò, ma il secondo arrivò
dritto in faccia,
colpendolo sulla tempia e frantumandosi a metà.
«Ma
che cazzo!?»
«Hina
è seccata, andiamo» borbottò una voce
fin troppo nota da dietro la
porta «Non ho mica tutta la notte, sai?»
«Vorrai
mica dormire, principessina sul pisello?»
L’amica
parve pensarci qualche secondo, quindi sibilò: «Ti
lascio qui».
«Scherzavo,
apri questa porta, cretina!»
L’uscio
si aprì cigolando rivelando al giovane i tre amici che lo
aspettavano dietro di esso; borbottò un grazie masticato tra
i denti
a cui Hina rispose con una scrollata di spalle. Oramai era abituata,
l’ultima volta che lo aveva sentito ringraziare come Dio
comandava
Havamama era ancora viva, col tempo aveva fatto il callo ai suoi
borbottii sommessi e aveva imparato a riconoscere la gratitudine nei
suoi sguardi.
«Ti
sei portata dietro il comitato di benvenuto?»
domandò sarcastico.
«Anche
io sono felice di vederti fuori amico, e pensare che ti avevo anche
portato un sigaro e tu mi spezzi il cuore così»
celiò Cancer
agitando un secondo sigaro davanti al naso del ragazzo.
«Due
idioti» rimarcò Hina scivolando lungo il corridoio
e affacciandosi
sul cortile interno.
«Dove
andiamo adesso?» domando Verygood grattandosi il mento e
trattenendo
uno sbadiglio.
«Venite,
sfigatelli» Cancer superò Hina in una falcata e
senza tanti
preamboli le afferrò il polso e cominciò a
trascinarsela dietro,
oltre gli edifici delle palestre, verso una delle colline
«C’è
una meravigliosa catapecchia che dà ad est, si vede persino
l’alba
se è bel tempo, una gran figata. L’abbiamo
scoperta lo scorso anno
io e Stainless, venivamo qui a sbronzarci quando avevamo tempo
libero».
«Edificante»
commentò Hina, trattenendo un sorriso e seguendolo cercando
di non
inciampare «Muovetevi voi due o Hina vi lascia qui».
«Sai
che roba» borbottò Smoker, fissando male Cancer e
accelerando il
passo.
La
catapecchia c’era davvero, era stata, in passato, una
palestra di
karate, ma ora un grosso foro al centro del pavimento la rendeva
impraticabile, il tatami non era mai stato sostituito e il tempo e
gli elementi avevano fatto il resto. Sulla parete nord c’era
un
leggero strato di muffa e dalle pareti penetravano leggeri spifferi
d’aria, ma nel complesso non era poi così mal
messa, sì, certo
era polverosa, ma c’erano posti peggiori in cui nascondersi
durante
una fuga notturna dai superiori.
«Bella
roba» Smoker spostò con un calcio
un’asse mezza marcia e aprì il
pannello scorrevole che dava su una piccola terrazza affacciata
sull’oceano «Troppo bella per un cazzone come te,
Cancer».
«So
che riesci a capirmi, fratello».
«Non
sono tuo fratello, prima di tutto e -»
«Lo
so benissimo, mio fratello ha le tette e canta in un locale di
lap-dance».
Silenzio.
«Credo
di voler accettare quel sigaro ora» borbottò
Smoker cercando di
cancellare l’immagine di Cancer con le tette mentre si
strusciava
contro un palo.
«Hina
è sempre più affascinata dalla tua famiglia, i
tuoi genitori hanno
anche dei figli normali?»
«Chiaramente
no» continuò per lei Verygood «Voglio
dire, hai visto la sua
faccia? Sembra che ci sia passato sopra un tir».
«Parla
quello con una palla al posto della mascella, dì ti sei mai
visto
allo specchio?»
«Almeno
non ho un taglio su un occhio!»
«Già,
Cancer, non ci hai ancora detto come te lo sei fatto» disse
Smoker
accedendosi il sigaro; si sedette per terra, appoggiandosi pigramente
allo stipite della porta che dava sulla terrazza e fece segno agli
altri di sedersi accanto a lui.
«Credimi,
non è divertente» fu la risposta pacata.
Cancer
si lasciò cadere a sedere di fronte a Smoker e afferrata
Hina per un
braccio, se la tirò sulle ginocchia, ignorando le proteste
della
ragazza che, dopo avergli tirato una gomitata nelle costato,
andò a
sedersi a fianco all’amico.
«È
la prima volta che te lo sento dire e sono quasi turbato»
celiò
Verygood sedendosi a sua volta e allungando una mano per ricevere un
biscotto.
«Hina
è curiosa» borbottò la ragazza
iniziando a distribuire i dolci
preparati da sua zia «Questi godeteveli, l’unica
altra persona che
se li può mangiare è Akainu».
«L’Ammiraglio?»
Verygood quasi si strozzò.
«È
suo zio, non lo sapevi?» Cancer sbadigliò
leggermente «Ma tornando
ad un argomento più interessante, si parlava di
me».
«Cancer
sappi che sto per gettarti giù dalla collina».
«Che
piaga, Smoker».
«Ma
quindi ce lo dici o no come te la sei fatta quella cicatrice?»
«Avevo
circa dieci anni e mi ero messo in testa di aiutare mio padre. Mio
padre era un brav’uomo, non si arrendeva mai davanti a
niente,
nemmeno davanti a tre figli senza speranza come eravamo noi
all’epoca».
«Sei
ancora senza speranza, Cancer».
«Grazie
Principessa, sei sempre la più gentile. Comunque mi ero
messo in
testa di aiutarlo, faceva l’operaio e si occupava
principalmente di
costruire case; come potete immaginare non era esattamente
l’ambiente
più sicuro per un bambino, soprattutto per un bambino
iperattivo e
disubbidiente com’ero».
«Ti
prego, dimmi che sei caduto da un’impalcatura»
ridacchiò
Verygood.
«Ti
piacerebbe, mentone. No, sono saltato da una pila di mattoni su una
carriola che ovviamente si è rovesciata e mi ha mandato a
sbattere
contro un pilastro da cui sporgevano alcuni chiodi».
«Eri
un genio anche da piccolo, insomma» fece notare Smoker
espirando una
nuvola di fumo grigio e lasciando che Hina si sdraiasse usando la sua
gamba come cuscino.
«Ehi,
guarda che sarebbe bastato scivolare nel modo sbagliato e invece di
un graffio in faccia avrei perso l’occhio!»
«Magari
saresti diventato più simpatico» fece notare la
ragazza.
«Tsk,
ma se mi adorano tutti».
«Adorano
anche il tuo ego?»
«Quella
è la parte migliore, tesoro».
Smoker
trattenne una smorfia di disgusto, Cancer gli provocava sensazioni
contrastanti: a tratti era anche simpatico, ma c’erano delle
volte
in cui sentiva prepotente la voglia di prenderlo a pugni.
«Piuttosto,
cosa ti farà domani Zephyr quando si accorgerà
che non sei più
nella tua cella?» domando Verygood sbadigliando.
«Niente
direi, anzi probabilmente si stupirebbe se mi trovasse ancora dentro.
È da quando sono arrivato che me la filo ogni volta che mi
sbatte in
punizione».
«Secondo
me in parte gli fa piacere, sai com’è ci addestra
alla vita e
puttanate simili, sarà una soddisfazione vedere che anche se
ti
dovessero catturare sapresti levarti dalle palle».
«Come
no» celiò Hina ridacchiando
«Sarà entusiasta, proprio».
Ovviamente
Zephyr non lo fu.
«Come
sarebbe a dire che si è fatto trasferire?»
«Come
“Come sarebbe a dire?”, ce la
fai? Nel senso che ha
chiesto un trasferimento a Sengoku e l’ha ottenuto, mi sembra
semplice».
«Alla
G-5?» domandò ancora il ragazzo ritirando la vela
«Che scelta di
merda!»
«Perché
me lo dici come se l’avessi scelto io per lui? Saranno
problemi
suoi o no?»
«Oh,
beh, tanto mi è sempre stato sul cazzo».
«Si
può sapere che mai ti ha fatto Vergo? Non gli hai mai
rivolto la
parola, nemmeno una volta!» sbottò Hina sistemando
le sartie della
nave.
«Che
vuoi farci, ho problemi con la gente scema» celiò
Smoker espirando
il fumo del sigaro «E non è che lui mi abbia mai
dato dimostrazione
di non esserlo, seriamente chi è che va in giro perennemente
con
pezzi di cibo attaccati alla faccia?»
«Se
ti fossi sprecato anche solo a parlarci forse avresti cambiato
opinione».
Un’onda
fece rollare la nave, inclinandola più del solito e Hina
trattenne
una bestemmia, cercando di non perdere l’equilibrio.
«Non
sono tutti deficienti solo perché non piacciono a
te».
Smoker
rimase leggermente interdetto, fissando l’amica di sottecchi,
e
cogliendo un lampo di irritazione sul suo viso.
«Stiamo
ancora parlando di Vergo?»
La
ragazza non rispose, allontanandosi a passo spedito verso la cambusa;
si erano imbarcati da tre mesi a bordo della nave del vice ammiraglio
Yamakiji, un uomo buono, dalla personalità tranquilla e
l’aspetto
semplice. Non era un assegnamento impegnativo, anzi, Yamakiji era una
figura tranquilla, che cercava di evitare lo scontro là dove
fosse
possibile; amava il buon vino e i sigari costosi e cercava sempre di
non passare troppo tempo senza fare scalo su un’isola.
In
quei giorni procedevano lentamente, sospinti da una brezza lieve, in
direzione di Water Seven e, a quanto pareva, nemmeno la prospettiva
di giungere su un’isola tanto affascinante era servita a
placare
l’amica.
«Se
sei ancora arrabbiata per quanto accaduto l’ultima volta, beh
fattela passare».
«Ugh.
Sei impossibile, te ne rendi conto? Sei tu che devi farti passare
questa mania di prende a cazzotti chiunque abbia una faccia che non
ti piace!»
«Mica
l’ho pestato per quello!»
«No?
E allora come mai?»
«Ti
aveva insultato» borbottò Smoker nicchiando.
«Ma
se non è mai vero! Come se fossi mai venuto in mio soccorso
durante
una rissa, sai benissimo che Hina sa pestare forte quanto te! Non hai
mai pensato che avessi bisogno di aiuto!»
«Ok,
forse non mi piaceva e basta, va bene? Si può sapere
perché te la
prendi tanto? Era un pirata, era feccia
dell’umanità».
«Noi
li arrestiamo i pirati Smoker, non li pestiamo a sangue»
sibilò la
ragazza «E Hina non può continuare a trovare scuse
con il Vice
Ammiraglio per giustificare la tua testa di cazzo».
«Ma
chi te lo ha chiesto!»
«Sai
cosa c’è? Hina è seccata, non le
parlare» sibilò la ragazza
uscendo dalla cambusa e chiudendosi la porta alle spalle con forza.
Le
faceva saltare i nervi quando si comportava così, le
sembrava di
ritrovarsi davanti al bambino che aveva conosciuto quando era
piccola, eppure ora erano cresciuti e anche Smoker avrebbe dovuto
imparare che ci sono cose che vanno lasciate alle spalle:
l’ira era
una di queste. Razionalmente sapeva anche lei che i pirati erano
feccia, che quello che facevano i marine era fermarli e che era
proprio la pirateria la causa maggiore di morti nel mondo, ma pestare
a sangue chiunque gli si fosse parato di fronte non era la soluzione.
Non volevano, non dovevano essere quel tipo di marine, ce
n’erano
già troppi così, troppo impegnati a far vedere
quanto fossero
potenti per pensare davvero a ciò di cui la gente aveva
bisogno,
troppo impegnati a usare la forza per usare la testa; no, loro
dovevano essere migliori, dovevano essere ciò di cui le
persone
avevano bisogno.
Hina
sbuffò, osservando con irritazione il ponte inferiore e
l’uomo e
che chiacchierava di malavoglia con i compagni; ultimamente le cose
tra di loro erano peggiorate, o meglio, si era resa conto che non
parlavano più come prima. In parte era colpa sua, sentiva
come un
blocco ogni tanto, aveva quasi paura a dirgli le cose, a dirgli tutto
quello che le passava per la testa; una volta non si sarebbe fatta
certe paranoie, ma ora? Ora le cose iniziavano davvero ad essere
diverse, più passava il tempo e più Hina iniziava
a rendersi conto
di quanto fosse fondamentale per lei il rapporto con Smoker, di
quanto davvero fosse forte quel legame che si era creato con gli
anni. Ma era normale? Ogni tanto si ritrovava a osservare il soffitto
e a domandarsi se questo rapporto che avevano costruito fosse sano.
Bastava loro una sola occhiata per capirsi, un gesto per comunicare,
una parola per sottointendere un discorso. Continuavano a spostarsi
in coppia sia nell’addestramento che nelle esercitazioni ed
era
quasi come se vivessero in simbiosi, però mancava qualcosa e
durante
le sue notti insonni Hina aveva cominciato a domandarsi cosa fosse
quel vuoto che sentiva all’altezza dello sterno, quel
fastidio che
le attanagliava lo stomaco e le impediva di dormire.
Poi
aveva capito e si era messa il cuore in pace, con la placida
consapevolezza che quella che stava vivendo era solo adolescenza
arrivata in ritardo. Non poteva e non voleva permettere che i suoi
ormoni interferissero con la sua vita e non aveva intenzione di
lasciare che questi sentimenti che iniziava a provare rovinassero il
rapporto che lei e Smoker avevano costruito in quindici anni.
«Che
seccatura» sbottò saltando giù dal
ponte e salutando con un gesto
i ragazzi rimasti di turno sulla nave.
Water
Seven era più grande e bella di quanto si aspettasse,
immensi canali
d’acqua attraversati da piccole imbarcazioni, case che si
alzavano
verso il cielo estendendosi in altezza più che in larghezza,
ponti
in pietra a unire piccole strade lastricate ad arte; Water Seven era
un capolavoro dell’edilizia.
«Sembra
quasi una fontana» borbottò calandosi gli occhiali
da sole sul viso
e avviandosi verso la base, salvo poi rendersi conto che non aveva
idea di dove fosse.
«Non
sembra, lo è, non lo vedi?» esclamò una
voce alle sue spalle con
tono saccente «Se guardi in alto dovresti rendertene
conto».
«Guardassi»
fu la risposta automatica della ragazza, che si girò
distrattamente
a osservare il giovane dai capelli celesti che le aveva parlato
«Non
ce li hai dei pantaloni?»
«Ti
crea problemi il mio modo di vestire?»
«Facciamo
così tu mi dici dove trovo la base della marina e io non ti
arresto
per oltraggio alla decenza».
Il
giovane borbottò qualcosa tra i denti, ma le
indicò esattamente che
strada imboccare, quindi continuò per la sua strada,
dirigendosi
verso il porto e trascinandosi dietro un carico di legna.
«Tutti
io li trovo gli spostati» sbottò Hina
incamminandosi per i fatti
suoi.
Se
avesse continuato così, prima o poi, avrebbe di sicuro
cominciato a
fumare anche lei, se non altro per scaricare lo stress. Prima Smoker,
poi il demente in mutande, e ora cosa? Cos’altro?
«Ciao
principessa, che coincidenza!»
Era
maledetta. Non c’era altra spiegazione logica,
pensò, bestemmiando
interiormente nel vedere Stainless e Cancer avvicinarsi agitando una
mano.
«Tuo
marito non l’hai portato?»
«Vaffanculo,
Cancer. Non siamo sposati, se lo vuoi cercatelo».
«E
io che pensavo sapessi sempre dove trovarlo!»
«Hina
ti sembra la sua segretaria? Che vada al diavolo, anzi, sai che ti
dico? Andateci entrambi» sbottò afferrando
Stainless per una manica
e trascinandoselo dietro «Noi andiamo a bere».
«Non
sono sicuro di avere capito, ma a me va benissimo»
replicò
Stainless ridacchiando e facendo ciao ciao con la mano a Cancer che
era rimasto fermo impalato di fronte alla risposta al vetriolo
dell’amica.
«Si
può sapere che ti prende?» domandò una
volta ripresosi, tenendo
aperta la porta della locanda per farla passare.
«Niente
di che, sono solo seccata».
«Sì,
beh, tu sei sempre seccata» fece notare Stainless sedendosi
al
bancone e ordinando tre birre.
«Già
il tuo “sono seccata”
è come il “va tutto bene”
delle persone normali, solo che in questo momento sembri davvero
irritata».
«E
allora tu evita di fare domande» borbottò la
marine afferrando con
decisione il suo boccale.
Cancer
scoppiò a ridere e le accarezzò con affetto i
capelli; il lato
positivo dell’essere l’unica recluta donna del suo
anno era stato
che tutti l’avevano presa in simpatia, dopo un iniziale
tentativo
di prenderla sotto la propria ala protettrice i ragazzi si erano resi
conto che Hina non aveva alcun bisogno di protezione, in compenso non
aveva mai respinto alcun gesto d’affetto, sebbene avesse da
subito
dimostrato una certa riluttanza nei confronti del contatto fisico.
Tuttavia, dopo più di un anno che la conoscevano, potevano
dire, con
un certo grado di sicurezza (nonché di soddisfazione), che
persino
la principessina della marina era riuscita ad addolcirsi nei loro
confronti.
«Se
è di nuovo colpa di Smoker non ci pensare troppo»
le fece notare
Stainless girandosi verso di lei «Credimi, ne ho viste di
persone
come lui e dopo un po’ tutti riescono a trovare un loro
equilibrio».
«Non
esistono altre persone come lui» borbottò Hina
«Grazie al cielo o
diventerei scema».
«Ci
mancherebbe altro» celiò Cancer ridendo
«Me ne basta uno che mi
prenda a pugni».
«Piuttosto,
come sta andando con Yamakiji? Avete poi capito perché gira
sempre
con gli occhi chiusi?»
«Non
ne ho idea, ma non è male, è un
brav’uomo».
«E
cos’è venuto a fare il brav’uomo a Water
Seven?» continuò
Stainless accarezzandosi i piccoli baffi che iniziavano a crescere
sopra il labbro superiore.
«Credo
che debba fare un controllo sullo status di avanzamento dei lavori
della ferrovia. Dovrebbero finire quest’anno, no?»
«No,
hanno voluto che Tom desse la priorità alla linea diretta
verso
Eneis Lobby, mancano ancora da finire tutte le altre, ma il tratto di
ferrovia è decisamente più breve»
esordì Cancer, con tono più
serio «Le alte sfere hanno intenzione di sfruttare il vecchio
Tom
finché campa e dopo…»
«Dopo
cosa?» domandò Hina sollevando appena un
sopracciglio.
«Credi
davvero che abbiano intenzione di tenersi tra i piedi il carpentiere
che ha costruito la Oro Jackson?»
«Non
ci avevo mai pensato… Però non è
giusto».
«È
la marina, Hina, non un’associazione di benefattori per
poveri
derelitti» fece notare Stainless accendendosi un sigaro e
passandone
uno a Cancer.
«Non
si tratta di fare la carità, ma si rispettare degli accordi.
Non
stiamo parlando di un rifiuto della società, ma della
persona che ha
contribuito a migliorare l’economia e il tenore di vita di
intere
isole!»
«Hina,
quello che dici è indubbiamente vero, ma cosa accadrebbe se
un
domani dovesse presentarsi un futuro aspirante re dei pirati a
chiedere che gli venga costruita una nave?»
«Su
questa stessa base potremmo arrestare chiunque qui dentro
perché da
sbronzo potrebbe scatenare una rissa…»
«Hai
capito cosa voglio dire» continuò Cancer espirando
il fumo del suo
sigaro.
«Il
fatto che capisca non significa che condivida o che approvi».
«Lo
sappiamo, principessa» scoppiò a ridere Stainless,
mettendosi in
piedi «Ah – Ah, prima che lo dica tu, lo so
“Non chiamarmi
così”».
«Si
può sapere perché lo fai se sai che lo
detesto?»
«Mi
diverte la tua faccia» rispose l’uomo
allontanandosi «Io devo
rientrare, ci vediamo più tardi gente».
Hina
sospirò lasciandosi andare contro il bancone e masticando un
insulto
tra i denti.
«Ne
vuoi parlare?» domandò Cancer gettandole
un’occhiata di sbieco.
«Non
lo so» mormorò la ragazza tirandosi su e girandosi
verso di lui
«Hina non sa nemmeno cosa ci sia da dire».
L’uomo
la fissò negli occhi per qualche istante, quindi
allungò un braccio
e se la tirò vicina; Hina appoggiò il capo contro
la sua spalla e
socchiuse leggermente gli occhi, persa in un pensiero troppo rapido
perché potesse afferrarlo.
«Si
può sapere qual è il vostro problema?»
domandò Cancer, giocando
con i capelli legati dell’amica.
«Non
capisco».
«Lascia
stare, allora me ne vuoi parlare o no?»
«Non
so cosa dirti, Cancer, non so quale sia il problema e quindi non so
risolverlo».
«Credo
il problema sia che siete stati insieme troppo tempo e ora non
riuscite a capire quello che è ovvio per tutti gli
altri».
«Continuo
a non capire» borbottò la ragazza tirandosi su e
fissandolo negli
occhi con un lampo di irritazione.
Cancer
sogghignò, lanciando un’occhiata alla sala e
soffermandosi qualche
secondo sulla figura seduta in un angolo; sapeva di base di non
essere una persona cattiva e non lo faceva per dispetto (ok, forse un
pochino anche per quello), solo era profondamente convinto che Hina
avesse bisogno di darsi una svegliata e di sicuro non era la sola.
«Puoi
darmi un pugno se vuoi, dopo» celiò sorridendo.
Hina
lo osservò senza capire, finché Cancer non si
piegò verso di lei e
attirandola verso di sé con un braccio non
appoggiò le sue labbra
su quelle dell’amica, strappandole un leggero gemito di
protesta.
L’uomo esercitò una leggera pressione, facendosi
strada verso
l’interno della bocca della ragazza e si stupì di
trovare una
resistenza solo iniziale; Hina sussultò di fronte al gesto
inatteso
e il suo primo istinto fu quello di opporsi a quel contatto fisico
indesiderato, ma le labbra di Cancer erano più morbide di
quanto si
aspettasse e per un breve istante desiderò che quel bacio
continuasse, nonostante fossero in un luogo pubblico e la decenza
imponesse altrimenti.
Si
staccò quasi con riluttanza, senza riuscire a smettere di
pensare
che era stato molto più piacevole di quanto avrebbe mai
potuto
pensare. Cancer aprì un occhio, quindi vedendo che non
stavano
volando né ceffoni né cazzotti nella sua
direzione, aprì anche
l’altro, sorridendo con fare divertito.
«Fuori»
borbottò Hina con voce asciutta, afferrandolo per una manica
e
trascinandoselo dietro, senza nemmeno notare l’occhiata
penetrante
che Smoker le stava rivolgendo dal fondo della locanda: era la prima
volta che non si accorgeva nemmeno della sua presenza.
Yamakiji
aveva fatto il giro dell’intera isola prima di andare a
visitare il
famoso carpentiere Tom. L’uomo, o meglio, l’uomo
pesce di fronte
a lui non assomigliava per niente al pericoloso criminale di cui i
giovani marine avevano sentito parlare al quartier generale ed Hina
rimase quasi stupita di trovarsi davanti un individuo perfettamente
normale, forse anche più normale di molti dei suoi colleghi.
«Non
sembra pericoloso» borbottò la donna, sbirciando
oltre il Vice
Ammiraglio e cercando di individuare qualcuno che potesse
effettivamente costituire una minaccia.
Alle
spalle di Tom si trovavano solo due ragazzi che potevano avere
all’incirca l’età di Smoker, forse di
poco più vecchi, in uno
dei quali riconobbe il giovane senza pudore che le aveva indicato
dove trovare la base della marina.
«Signore?»
chiese in quel momento Smoker «Chiedo il permesso di
congedarmi se
non sono di alcuna utilità».
Yamakiji,
fin troppo buono per un individuo nella sua posizione,
sollevò le
spalle e sorrise appena.
«A
pensarci bene siete tutti congedati, non è necessario che
rimaniate
ad ascoltare quello che io e Tom abbiamo da dirci» concesse
l’uomo
ritirandosi nella casa del falegname.
Hina
annuì, compitamente, prima di afferrare Smoker per una
manica e
guardarlo storto.
«Non
potevi aspettare che ci congedasse lui?»
«Che
ti frega?» borbottò l’uomo,
allontanandosi con uno strattone e
dandole le spalle.
«Sai
che mi frega» ribatté Hina, sollevando un
sopracciglio «Hina sarà
anche sempre seccata, ma ci tiene a non vederti perennemente in
punizione, chi pensi che finisca con l’aiutarti ogni volta
che devi
lavare i cessi? E chi pensi che poi passi ore a tirarti fuori dalla
cella di detenzione?»
«Come
se ti avessi mai chiesto niente!»
«Si
può sapere perché ti comporti così?
Sai che fatica ho fatto da
quando ci siamo arruolati per non farti espellere? La
quantità di
favori che ho chiesto a mio zio? Puoi, per piacere, cercare almeno di
comportarti civilmente?»
Smoker
si bloccò di scatto e tornò a guardarla,
sibilando piano, senza
dimenticare di scandire per bene le parole.
«Non
ti ho mai chiesto io di farlo, Hina, anzi, sai che ti dico?
Perché
non ti trovi qualcosa di meglio da fare? Visto che hai già
trovato
come occupare il tuo tempo libero».
«Che?»
«Non
sei mia madre, non sei la mia balia, non sei in alcun modo
responsabile per me, quindi fammi un favore e torna a farti fare la
tracheotomia da Cancer» sbottò Smoker in tono
freddo.
Lo
schiaffo riecheggiò per la baia, ma nessuno parve farci caso.
«Sei
uno stronzo» disse la giovane, senza inflessione nella voce e
senza
espressione sul viso, con lo stesso sguardo che normalmente riservava
agli sconosciuti.
Smoker
non rispose, la osservò per qualche secondo mentre si girava
e se ne
andava camminando a lunghe falcate, quindi senza esitare le
girò le
spalle anche lui e si incamminò verso la nave.
Hina
avanzò di una decina di metri, prima di fermarsi dietro a un
muro
per cercare di regolarizzare il respiro; era più irritata di
quanto
non fosse mai stata e non riusciva a capire se a farla incazzare
fosse il fatto che Smoker aveva visto effettivamente quella scena
(nemmeno fossero una coppia) o per le parole che le aveva rivolto,
come ad evidenziare quanto il loro rapporto non valesse poi tanto
quanto lei aveva creduto.
«Signorina,
sta bene?»
Sollevò
lo sguardo di scatto, da dietro le lenti scure degli occhiali da sole
apparve un ragazzo di qualche anno più grande di lei, uno
dei due
che aveva notato in piedi a fianco a Tom.
«Sì,
tutto a posto».
«Il
suo collega le ha dato fastidio? Ha bisogno di che la accompagni in
città?»
Hina
scoppiò a ridere, divertita.
«Grazie,
ma sono abbastanza sicura di essere in grado di accompagnarmi da
sola. Il mio compagno è solo un testardo impulsivo, spero
sinceramente che scivoli in acqua, sia mai che gli si rinfreschi il
cervello».
Il
giovane di fronte a lei scoppiò a ridere a sua volta.
«Testardo
e impulsivo, eh? Credo di capire come si senta»
esclamò lanciando
un’occhiata al ragazzo semi svestito che cercava di sbirciare
dalla
finestra ciò che Tom e il Vice Ammiraglio stavano facendo
all’interno della casa.
«Oh,
il tizio che non ha idea di cosa siano i pantaloni»
borbottò Hina
seguendo il suo sguardo «Puoi darmi del tu se vuoi».
«Lo
conosci? Non è una cattiva persona, è solo
strano, bisogna saperlo
prendere. Piacere, comunque, sono Iceburg».
«Hina,
sei un falegname anche tu?»
Il
giovane annuì appoggiandosi accanto a lei contro il muro.
«Sono
uno degli apprendisti di Tom».
«Oh,
quindi la ferrovia è anche merito tuo?»
esclamò la ragazza con una
nota leggera di ammirazione nella voce «È un
lavoro portentoso!»
«E
se continuiamo di questo passo anche infinito»
commentò il giovane.
«Oh,
giusto, vi hanno obbligato a cominciare da Eneis Lobby e ora manca il
resto».
«Immagino
che il governo abbia le sue esigenze» borbottò con
una nota amara
nella voce «In ogni caso siamo i migliori che ci siano in
giro, al
massimo altri quattro anni e vedrai, sarà la migliore
ferrovia che
tu abbia mai visto».
«Non
mi dire» scoppiò a ridere la marine.
«Vorrà
dire che dovrai tornare qui prima o poi».
«Se
non mi avranno arrestato prima per avere brutalmente ucciso e fatto a
pezzi qualche collega volentieri» ridacchiò la
ragazza
allontanandosi e salutando il giovane con la mano.
In
fondo che senso aveva prendersela? Smoker voleva comportarsi da
stronzo? Facesse pure, non si sarebbe fatta rovinare il soggiorno su
un’isola così bella dagli sbalzi d’umore
di un demente, anche se
il demente in questione era il suo migliore amico.
La
base della marina era più grande di quanto non immaginasse,
e non le
ci volle molto per perdersi quando tentò di farlo; non aveva
intenzione di stare vicino a nessuno, tantomeno a persone conosciuta.
Non voleva vedere la faccia di Smoker, né quella di Cancer e
a dirla
tutta non voleva vedere nessun volto noto, consapevole che le ci
sarebbe voluto molto poco per picchiare qualcuno.
Era
capitato in passato che lei e Smoker avessero delle discussioni, era
capitato persino che si dicessero cattiverie, era più che
normale
avendo loro convissuto così a lungo in stretta vicinanza, ma
nessuna
delle volte precedenti c’era stata una così
evidente intenzione di
ferirla, di farle pesare qualcosa che non sarebbe dovuto nemmeno
essere affar suo.
«Ehi,
tutto bene? Ti abbiamo cercata ovunque?»
«Cancer?
Che vuoi?» borbottò la ragazza, spostando il
bicchiere di vino che
aveva di fianco per lasciargli lo spazio per sedersi.
«Oh,
niente di che, solo che eri sparita».
«Non
me ne frega niente, demente. Intendevo cosa vuoi in generale».
«Oh,
quello. Niente di che, diciamo che mi andava di farlo?»
Hina
non rispose, soppesando quella risposta, come a decidere se la cosa
le stesse bene o meno e, in realtà, le sarebbe anche stato
bene così
se Cancer non avesse continuato a parlare.
«E
volevo infastidire Smoker».
«Ti
eri accorto che c’era?» domando la giovane
irrigidendosi
impercettibilmente.
«Certo
che sì».
Hina
si tirò in piedi e gli piazzò in mano il
bicchiere da cui stava
bevendo.
«Si
può sapere che razza di problema al cervello avete tutti
quanti?»
sbottò allontanandosi più irritata che mai.
«Eddai!
Hina!»
«No,
Hina il cazzo. Hina è furibonda, lasciatela stare»
fu l’ultima
cosa che disse prima di sparire dalla sua vista.
Cancer
sospirò, osservando con aria dispiaciuta il bicchiere che si
ritrovava in mano.
«Questa
volta siamo morti» commentò bevendolo tutto
d’un sorso.
Hina
uscì dalla base ignorando i richiami dei suoi compagni,
incamminandosi per le strade della città, senza nemmeno
sapere bene
dove stesse andando; la luce soffusa illuminava le pietre grigie, a
tratti piccole pozzanghere sporche rifrangevano la luce riflettendola
verso il cielo, lo scorrere regolare dell’acqua nei canali
accompagnava il suo passo leggero e la giovane si ritrovò
ben presto
a desiderare di non essere lì. Water Seven era troppo bella,
troppo
affascinante e troppo piena di mistero per lei quella sera; sembrava
una città magica che la richiamava verso il suo centro nel
tentativo
di inglobarla tra le sue calli e i suoi ponti sospesi su canali
troppo stretti.
«Ma
che sto facendo?» sbottò osservando il suo
riflesso nell’acqua.
Non
che avesse una risposta, continuò a camminare, cercando di
pensare
il meno possibile, fermandosi solo una volta per affacciarsi a una
piccola locanda in una zona fin troppo malfamata della città.
Si
fermò soltanto quando arrivò ai cantieri navali,
rendendosi conto
di essersi allontanata troppo; in lontananza riusciva a vedere la
stazione del treno che connetteva Water Seven a Eneis Lobby.
Si
strinse le ginocchia al petto, sentendosi improvvisamente molto
piccola; il vento le scompigliò i capelli, portando fino a
lei
l’odore salmastro del mare e Hina sentì improvvisa
nostalgia della
vita su una nave. Prima sarebbero ripartiti meglio sarebbe stato per
tutti, così magari si sarebbero lasciati quella storia alle
spalle.
Strizzò
gli occhi, cercando di evitare di scoppiare a piangere e
tirò fuori
dalla tasca uno striminzito pacchetto di sigarette, comprate poco
prima; la prima boccata fu tanto fastidiosa quanto amara, il fumo
acre della sigaretta scese lungo i polmoni bruciando come il diavolo,
scacciando la voglia di scoppiare a piangere.
Rimase
qualche istante immobile, a osservare le leggere volute di fumo
grigio che si sollevavano dalla sigaretta, finché una voce
non la
richiamò alla realtà.
«Ti
sei persa?»
Era
rimasta così assorta nei suoi pensieri che non lo aveva
nemmeno
sentito arrivare, il ragazzo era in piedi a pochi passi da lei e
sorrideva.
«Posso
sedermi?»
«Iceburg,
giusto?»
«Esatto,
che ci fai qui? Non è una zona molto frequentata questa, a
meno che
tu non sia qui per farti costruire una nave, anche se credo di
doverti avvisare: il treno marino ha la precedenza».
Hina
sorrise, senza guardarlo, ma lasciando che le si sedesse a fianco.
«Camminavo
e sono finita qui, niente di che» rispose a bassa voce
«Come vanno
i lavori del vostro treno?»
«Se
non consideri la scarsità di materiali e gli intoppi
costanti, bene.
Ma come dicevo oggi dacci tempo quattro anni».
«Quattro
anni, già» Hina si accese una seconda sigaretta.
«Brutta
giornata?» domandò Iceburg, appoggiandosi con i
gomiti ai gradini
retrostanti e rimanendo a fissarla.
«Un
incubo, di quelle in cui ti domandi come mai tu ti sia alzata la
mattina» borbottò la ragazza, stringendosi di
più le gambe contro
il petto e affondando il viso nelle ginocchia.
«Vuoi
parlare? Tom dice sempre che parlare fa bene e credo abbia ragione,
anche se, quando ero piccolo, odiavo tremendamente sentirmelo
dire».
Hina
scosse il capo, percependo che qualcosa andava incrinandosi dentro di
lei; non fece nemmeno in tempo a chiedergli di andarsene, a dirgli
che avrebbe voluto rimanere sola, che già la prima lacrima
aveva
iniziato a scendere e una seconda e una terza. E la cosa più
irritante, per una come lei, non era tanto l’essere vista, ma
il
non aver nemmeno la forza di spiegare quanto quelle fossero lacrime
di rabbia e frustrazione e non lo sfogo improvviso di una ragazza
troppo debole per fare il marine.
Iceburg
non disse niente, continuò a guardarla, ascoltando i
singhiozzi
trattenuti appena, non cercò di consolarla con frasi di
circostanza,
né di trovare parole adatte che sentiva di non conoscere. Si
limitò
a prenderle la mano e la tenne stretta, finché non si fu
calmata,
quando, dopo pochi minuti, il respiro della ragazza tornò a
farsi
più regolare e la vide asciugarsi le lacrime con la manica
della
divisa, finalmente Iceburg parlò.
«Vieni,
ti porto a vedere una cosa».
Hina
non fece storie, sollevò appena un sopracciglio, incerta se
seguire
un perfetto sconosciuto tra i rottami sconnessi della falegnameria,
ma allo stesso tempo intrigata. Aveva sempre pensato di essere
piuttosto brava nel riconoscere il carattere delle persone e, fin dal
loro primo incontro, l’impressione che aveva avuto di Iceburg
era
stata più che positiva, le era parso una persona matura,
intelligente, perfino brillante e, soprattutto, le era parso una
persona gentile.
«Credo
che sia mio dovere avvisarti che se hai cattive intenzioni non
esiterò a prenderti a pugni, anche se mi hai tenuto la mano
fino a
sei secondi fa».
«Mi
sembra legittimo, dai vieni».
Le
assi di legno e di metallo costituivano un vero e proprio labirinto,
superarle e passarci attraverso era come superare un percorso a
ostacoli e ad Hina ricordò vagamente
l’addestramento.
«Ok,
se sai mantenere un segreto ti faccio vedere una cosa,
pronta?»
«Come
no» fu la sarcastica risposta, mentre cercava di non andare a
sbattere contro un palo troppo sporgente.
«Ecco
il primo prototipo di treno marino! Quello che viaggia ora sui binari
è più stabile e definitivo, ma questo
è stato il primo. La prima
locomotiva a spostarsi sull’acqua».
Hina
rimase senza parole, ammirando per qualche istante l’enorme
macchina a vapore.
«Hina
è affascinata» mormorò piano.
Iceburg
si girò a osservarla, divertito, senza trovare il coraggio
di
ribattere con qualcosa di arguto, così la ragazza
continuò,
sedendosi a terra e rimanendo ferma a osservare la locomotiva.
«Ti
va ancora di ascoltarmi?» domandò.
E
così Hina iniziò a parlare, cercando di trovare
la forza per
aprirsi a un completo estraneo, per riuscire, nel raccontare i suoi
problemi a uno sconosciuto, a dipanare quella matassa di ansie e
incognite che era andata creandosi di fronte ai suoi occhi e che ora,
mano a mano che parlava, sembrava essere così semplice da
sciogliere. Ben presto le frasi sconnesse si trasformarono in
discorsi compiuti, le sue parole dapprima incerte divennero
più
ferme e sicure, e, ad indicare che a parlare fosse la stessa persona
dallo sguardo freddo e la lingua tagliente a cui i suoi compagni
erano abituati, rimasero solo le frasi in terza persona. Iceburg
ascoltò in silenzio, intervenendo solo dove necessario,
cercando di
farle capire cosa volesse e cosa fossero quelle nuove esigenze che
andavano crescendo in lei. Seppure non la conoscesse percepì
in quel
momento una sensazione di particolare affinità nei confronti
di
quell’estranea; sentì che quello Smoker di cui
parlava non era
così diverso da Franky e sentì di capirla, almeno
in parte.
«Non
stupirti» le disse «Hai passato la gran parte della
tua adolescenza
tra allenamenti e autocontrollo. Sei maturata in fretta, ma nel farlo
hai messo da parte i tuoi ormoni. Nessuno ti vieta di essere forte e
di essere anche una donna. Amare e vivere i propri sentimenti e le
proprie esigenze fisiche non è sbagliato».
Parlarono
così tanto che quasi non si accorsero del trascorrere delle
ore e
quando Iceburg si chinò per baciarla Hina non si sottrasse,
quando
le sfilò con delicatezza la casacca, non glielo
impedì, né lo
fermò quando l'uomo le chiese se fosse sicura di quello che
stava
facendo perché pentirsene all'indomani sarebbe stato peggio
che
fermarsi in quel momento.
Hina
non si fermò, lo fissò per qualche istante e
decise che non si
sarebbe pentita e, in effetti, non lo fece.
«Hai
iniziato a fumare?»
Hina
era seduta sul parapetto della nave, in attesa di allontanarsi
dall’isola; osservava la città con aria distratta,
senza pensare a
niente di preciso. Quando Cancer le si avvicinò si accorse a
malapena della sua presenza e se l’uomo non le avesse rivolto
la
parola forse nemmeno l’avrebbe notato.
«Hina
ha pensato che fosse meglio iniziare a fumare che farsi venire
un’ulcera» disse con voce pacata.
Cancer
si appoggiò al parapetto, fissandola per qualche istante con
un
sorriso sornione; i suoi occhiali scuri riflettevano la luce del sole
e Hina si domandò se fosse quello l’effetto che
facevano anche su
di lei.
«Non
mi dire, hai così tanti problemi che hai perso il
conto?»
«Smoker,
degli amici deficienti, un viso troppo carino per questo mondo e
un’avversione per le persone» rispose la ragazza
sollevando le
dita una ad una «Sono quattro. Tu rientri tra gli amici
deficienti».
«Lusingato.
Allora, va meglio?»
«Sai,
vero che non dovresti proprio essere tu a chiedermelo?»
«Forse
no» concesse l’uomo «Ma almeno mi stai
parlando. Sono io o sei
più rilassata del solito?»
«Forse»
borbottò la ragazza «E comunque sì, mi
è passata, però ti sarei
grata se non lo rifacessi. Sicuramente non per dar fastidio a
Smoker».
«È
un modo carino per dirmi che se avessi semplicemente voglia di
baciarti potrei farlo?»
«No,
demente, è un modo per dirti che a questo giro Hina non ti
affoga,
ma se lo rifai non si farà alcun problema a prenderti a
pugni».
Cancer
piegò le labbra in una finta smorfia e le
appoggiò il mento su una
spalla.
«Così
mi uccidi! Pensa a che figli bellissimi potremmo avere, pensa a che
futuro brillante».
«La
finisci, beota?» scoppiò a ridere la ragazza
scollandoselo di dosso
e rimettendosi in piedi.
«Nemmeno
uno scappellotto? Hina deve essere proprio di buon umore oggi?
Cos’è
hai fatto qualcosa che non so?»
«Cancer
hai tre secondi per sparire prima che Hina si secchi».
«Hina
è molto carina quando è seccata, ma me ne vado lo
stesso» celiò
allontanandosi e agitando la mano «Ma non pensare che mi
dimentichi
di questo tuo buon umore del tutto fuori luogo».
«Sai
cos’altro è fuori luogo?»
sbottò la giovane sporgendosi dal
parapetto per farsi sentire da Cancer, oramai sulla banchina del
porto «La tua vita!»
L’uomo
sventolò con grazia un dito medio, prima di sparire per le
strade
della città, non aveva fatto che pochi metri che si
ritrovò ad
andare a sbattere contro l’ultima persona che avrebbe voluto
vedere
in quel momento.
«Vuoi
un occhio nero?» sbottò Smoker fissandolo con
astio.
«Oh,
ma che palle che siete tutti quanti! Riunitevi e fate il gruppo
prendiamo a cazzotti Cancer!»
«Tutti
chi? Levati da davanti che la tua faccia mi irrita».
«Tu
e Hina, genio. Non mi dire che te la sei presa per quanto accaduto
ieri!»
«Cosa?
Non è un problema mio con chi Hina passa il suo
tempo» borbottò il
ragazzo con una nota di astio nella voce.
«Oh,
non mi dire che sei davvero geloso» celiò
l’amico scoppiando a
ridere ed evitando un calcio negli stinchi per pura fortuna.
«Non
sono geloso» sibilò Smoker.
«E
invece sì, cosa ti turba? Dai, seriamente, sii onesto con te
stesso
per una volta, potrò anche darti i nervi, e non nego di
divertirmi
moltissimo a farlo, ma siamo amici, Smoker, e non sono un idiota, ti
conosco abbastanza bene da capire che ti dia fastidio il mio
comportamento con Hina».
«Non
è quello, ti piace e vuoi provarci? Sentiti libero di farlo,
non
sono geloso» sbottò nuovamente il ragazzo
aspirando il fumo del
sigaro e lanciando all’amico un’occhiata in tralice.
«E
allora si può sapere quale sia il problema?»
«Cosa
vuoi che ti dica, Cancer? Io e Hina siamo cresciuti assieme, abbiamo
trascorso gli ultimi dieci anni della nostra vita assieme, è
così
strano che ora mi dia fastidio vederla allontanarsi? Non sono geloso
di lei in quel senso -»
«Ma
hai paura di passare in secondo piano? O di diventare l’amico
di
scorta?» Cancer scoppiò a ridere, divertito
dall’espressione
scocciata sul viso di Smoker «Dovresti avere più
fiducia in lei».
«E
tu dovresti farti i cazzi tuoi» sibilò prima di
allontanarsi a
grandi falcate, rimpiangendo di essersi fermato a parlare.
Sperò
di riuscire a lasciarsi Water Seven alle spalle il più prima
possibile e quando la nave salpò dal porto tirò
un sospiro di
sollievo; non che le cose fossero in procinto di migliorare, Hina
sembrava evitarlo e non ci volle molto perché Smoker si
rendesse
conto di avere tirato un po’ troppo la corda durante la loro
ultima
discussione.
Per
tutta la durata del viaggio non si rivolsero la parola, anche se, se
ne rendeva conto lui per primo, sarebbe bastato scusarsi e le cose
sarebbero tornare come prima, Hina lo avrebbe insultato, gli avrebbe
dato dell’idiota e poi lo avrebbe obbligato ad ascoltarla
mentre
gli raccontava cosa fosse effettivamente accaduto.
Quando
giunsero a Marineford, tuttavia, non ebbe nemmeno la
possibilità di
avvicinarsi, pareva che la ragazza facesse di tutto per non trovarsi
nella stessa stanza con lui; era spesso in visita da sua zia, ad
allenarsi da qualche parte, a fare da segretaria ad Aokiji, a portare
messaggi inutili a Sakazuki.
E
quando, dopo circa un mese, Smoker si rese conto di non riuscire
più
a reggere la situazione, oramai era troppo tardi. Non seppe mai bene
come, ma Hina venne imbarcata su una delle navi satellite della
flotta comandata da Tsuru e, per qualche tempo, sparì.
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Capitolo 4 *** Kintsukuroi ***
Nota:
Kintsukuroi, riparare con l'oro. L'atto di
riparare le
ceramiche con dello smalto d'oro o d'argento e di capire che i
suddetti oggetti sono ancora più belli di prima proprio
perché si
sono rotti.
Ricordo che tutti i personaggi della storia sono
stati creati da Oda – anche Cancer, Stainless e qualunque
marine –
l'unico personaggio da me inventato è la madre di Bonney
perché mi
serviva una vittima sacrificale da far sposare ad
Akainu.
Il capitolo è leggermente nsfw, ma niente di spinto.
PRECISAZIONE: in quasi tutte le mie storie gli headcanon
si mantengono uguali, ovvero con Hina cugina di Bonney, e Bonney
figlia di Akainu.
Doppio aggiornamento a distanza di 24H perché
settimana scorsa mi sono dimenticata di postare e anche
perché 'sta
storia è finita da mesi e odio portarmi pesi morti dietro,
visto che
poi mi dimentico di aggiornare.
La
donna che si ritrovò di fronte era completamente diversa
dalla
ragazza che era partita un anno e mezzo prima. Stretta in un sobrio
completo borgogna, Hina rimase ferma sulla passerella della nave a
fissarlo; non lo aveva notato subito, era impegnata a ridere di
qualcosa che le era stato detto dal compagno in piedi dietro di lei,
gli occhiali da sole avevano riflesso per un istante il bagliore di
un raggio troppo diretto, quindi erano stati tolti e riposti in una
tasca della giacca, la sigaretta penzolava mollemente dalle labbra, e
solo quando un soffio di vento le aveva scompigliato malamente i
corti capelli rosa, tagliati in un sobrio caschetto, si era
finalmente voltata verso di lui.
Si
era girata e di fronte a lei, in fondo alla passatoia in legno,
c’era
Smoker.
Hina
aprì leggermente la bocca, lasciando cadere a terra la
sigaretta che
ancora fumava, e, senza pensare (né a come si erano
lasciati, né a
tutto il tempo durante il quale non si erano visti o sentiti), si
precipitò verso di lui, gettandogli le braccia al collo e
abbracciandolo con affetto.
«Sei
pesante» borbottò l’uomo passandole un
braccio lungo la vita e
stringendola leggermente a sé.
Lei
sorrise appena, il viso nascosto oltre la spalla dell’uomo,
con la
consapevolezza che per quanto tempo fosse trascorso Smoker era sempre
lo stesso.
«Mi
sei mancato anche tu, Klutz» mormorò a mezza voce.
L’uomo
sorrise appoggiandole una mano sul capo e scostandosi leggermente,
lasciò che la ragazza lo fissasse per un po’,
cercando di
individuare ogni cambiamento avvenuto durante quell’anno e
mezzo.
«Sei
diventato più grosso».
«E
tu hai tagliato i capelli» notò l’uomo
«Stanno bene, anche se
forse li preferivo lunghi».
«Perché
non li hai visti quando erano davvero corti…»
celiò Hina,
scoppiando a ridere «Sembravo un ragazzino. Tu piuttosto,
cos’è
quel coso?»
Smoker
seguì il suo sguardo e scostò il grosso bastone
grigio da dietro la
schiena.
«Intendi
questo? È un jitte, non lo vedi?»
«Mi
sembra un po’ fuori scala come jitte» fece notare
Hina,
prendendolo in mano e soppesandolo «Sono più di
due metri!»
«Il
boshin più lungo permette il combattimento a distanza e il
sentan è
fatto di agalmatolite, non sai mai chi ti trovi davanti».
«Oh,
e funziona?» domandò la ragazza incuriosita
«Aspetta, fammi
provare. Drake! Vieni qui!»
A
seguito di quel richiamo quasi urlato, lo stesso giovane che si
trovava dietro di lei poco prima, sul ponte della nave, scese
correndo e si fermo a pochi centimetri da loro.
«Eccomi!»
«Smoker
questo è Drake Barrels, l’abbiamo cattato su
qualche tempo fa
all’isola di Minion. Drake questo è Smoker,
l’amico di cui ti ho
parlato. Ora, vorresti dirgli che frutto del diavolo hai
mangiato?»
Il
giovane li fissò per qualche istante senza capire del tutto
il
perché della domanda, allungò la mano per
stringere quella
dell’uomo che gli stava di fronte e, sorridendo con
titubanza,
esordì: «In realtà Hina ne fa una
questione più grande di quella
che è, si tratta di uno Zoo Zoo Ancestrale, il Thero Thero
modello
Rex».
«In
pratica diventa un tirannosauro» sbottò Hina
interrompendolo e
tirandogli il jitte dritto in pancia.
Drake
si piegò su sé stesso, accusando il colpo che di
sicuro non era
stato dato con gentilezza, e si accasciò a terra del tutto
privo di
forze.
«Ma
cosa -»
«Funziona!
Eccezionale!» esclamò la ragazza ritraendo
l’arma e osservandola
con ammirazione «È stata una tua idea?»
Smoker
annuì riprendendosi il bastone e sistemandolo dietro la
schiena;
lanciò a Drake una breve occhiata quindi decise di ignorarlo
e
riprese a parlare.
«Ascolta,
stasera i ragazzi hanno pensato di organizzarti una festa di
bentornato, ma se non ti va posso dire loro di rimandare».
«No,
no, a Hina fa piacere. Drake vuoi venire?»
Il
ragazzo emise un gemito sconsolato, maledicendo velatamente il
momento stesso in cui aveva pensato che entrare in marina fosse una
buona idea.
«Portalo
pure, sarà al rifugio dopo le nove. Mi raccomando, non fare
commenti
sul tatuaggio di Verygood e non chiedere a Stainless dei suoi
baffi».
«Perché
cos’è successo ai baffi di Stainless?»
«A
quanto pare glieli ha tagliati un pirata durante uno scontro e si
è
finalmente deciso a rasarsi. Sembra che abbia di nuovo quindici
anni».
«Affascinante»
commentò Hina, disinteressandosi quasi del tutto
«Vado a salutare
mia zia e a fare rapporto, poi devo passare a presentare Drake ai
piani alti, quindi ci vedremo direttamente stasera».
Smoker
annuì, sorridendole appena nell’allontanarsi,
dopotutto aveva
aspettato un anno e mezzo per vederla e parlarle, attendere ancora
qualche ora non lo avrebbe ucciso.
Anne
accolse Hina come una figlia, aveva preparato per lei un pranzo fatto
in casa, e aveva ferma intenzione di sfruttare quel momento per farsi
raccontare tutto quello che aveva visto e fatto in quei mesi. Drake,
al suo seguito, fu preso d’assalto dalle domande, mentre
Bonney
passava dalla cugina al giovane sconosciuto con aria interessata.
Nell’ultimo anno e mezzo la bambina era cresciuta
più di quanto
Hina non si aspettasse e, anche se il fisico non si era ancora
sviluppato, si riusciva a intravedere la donna che sarebbe potuta
diventare.
«Se
non la pianti di mangiare come un maiale nessuno ti vorrà
mai»
sbottò Anne togliendo una fetta di pizza dalle mani di sua
figlia e
sedendosi a tavola.
«E
allora?» domandò Bonney allungando il braccio ad
afferrare un
cosciotto di arrosto «Io tanto non ci credo mica nel
matrimonio».
Hina
trattene una risata sarcastica e osservò sua zia sollevare
gli occhi
al cielo, rassegnata.
«Diventerai
obesa!»
«Hina
mi vorrà bene lo stesso».
«Hina
avrà di meglio da fare e stai dando spettacolo di fronte al
nostro
ospite!»
Bonney
si bloccò fissando il giovane sconosciuto, la sua curiosa
cicatrice
a forma di X sul mento e i suoi insoliti capelli ramati.
«Non
si preoccupi signora, sono abituato a peggio e poi è
soltanto una
bambina».
«Scusa
cosa?» la piccola storse il naso in una smorfia di disappunto
e
appoggiò nel piatto il cibo che stava mangiando.
«Bonney,
basta così» Hina allungò la mano verso
la bottiglia del vino e
sospirò leggermente, odiava interpretare il ruolo della
cattiva, ma
era meglio che sua cugina non parlasse troppo «Hina
è irritata,
stai seduta composta».
Anne
la ringraziò con uno sguardo, oramai incapace di prendere
sua figlia
per il verso giusto, e iniziò a domandare alla nipote di
raccontare
dei suoi viaggi.
Il
resto del pomeriggio fu ancora più sfiancante e il colloquio
con
Akainu si protrasse per un’intera ora; quello che
però le parve
strano, più di ogni altra cosa, fu la richiesta di Sengoku
stesso di
incontrare la nuova recluta.
Quando
finalmente riuscì a liberarsi, dopo avere spiegato a un
Drake
piuttosto disorientato come raggiungerla, emise un sospiro di
sollievo, sentendo di essere finalmente libera da qualsiasi impegno.
Marineford l’accolse come una casa, ogni angolo e ogni strada
le
erano familiari, e, mentre percorreva l’acciottolato che
conduceva
verso gli alloggi dei marine, le sembrò di rivedere i giorni
dell’addestramento. Si bloccò di fronte alla
pesante porta di
legno che dava sulle camerate, la tinta verde acqua andava sbiadendo,
staccandosi dall’asse in più punti; la sua mano
rimase sulla
maniglia per qualche istante, mentre alle sue orecchie giungeva un
sommesso brusio dall’interno, alla fine si decise e
sorridendo,
aprì l’uscio.
«Hina!»
Un
coro di bentornata e di gente che la salutava l’accolsero non
appena varcò la soglia della sala comune e si
ritrovò ben presto
avvolta nell’abbraccio invadente, ma affezionato dei suoi
compagni
di addestramento.
«Guarda,
guarda, la principessa torna a casa» Cancer
appoggiò il bicchiere
di birra sul tavolo e agitò la mano in segno di saluto,
facendole
senno di raggiungere il loro tavolo.
Hina
non sorrise, ma si avvicinò: Stainless, in giacca e cravatta
sedeva
a fianco dell’amico, e la ragazza dovette trattenersi non
poco per
non scoppiare a ridergli in faccia nel vederlo senza baffi. Si
sedette accanto a Smoker, piantando involontariamente lo sguardo sul
mento di Verygood e sul tatuaggio che vi spiccava sopra.
«Avevi
paura che ti mandassero in missione sotto copertura?»
domandò
divertita all’amico.
Verygood
la fissò per qualche secondo senza capire, quindi
arrossì
leggermente coprendosi il mento con la mano.
«Mi
piaceva la scritta “Marine”»
borbottò infine.
«Ti
sta bene».
«Sai
cos’altro sta bene?» domandò Cancer
sarcastico «Noi. Grazie per
averlo chiesto».
«Stai
zitto, demente» Smoker gli soffiò il fumo del
sigaro in faccia
beccandosi in risposta un dito medio.
«Hina
lo vede che state bene» disse accettando il boccale di birra
che le
veniva porto «Non mi piacciono le domande inutili. Piuttosto,
dov’è
Bradnew?»
«Non
lo sai? È diventato sottotenente di vascello, ha una
riunione fino a
stasera» sbuffò Cancer «Mica come noi,
ancora qui a fare i
pezzenti con i nostri gradi da sergente maggiore».
«Hina
è ammirata, e lei è ancora solo
caporale».
«Non
mi dire, come se fosse facile scalare la gerarchia. Stavamo
pensandoci qualche tempo fa ed è proprio vero che solo chi
è
davvero in grado di padroneggiare l’haki e chi ha ingerito un
frutto del diavolo può pensare anche solo di riuscire ad
ottenere un
grado decente» sbottò Stainless trattenendosi
all’ultimo minuto
dall’accarezzarsi i baffi che non aveva più.
«Stronzate»
Smoker sbuffò un soffio di fumo «Sai quanti
viceammiragli non
possiedono nessun frutto? Si tratta di ambizione e impegno e forza
fisica. Hai mai sentito da Zephyr che sia necessario per un marine
mangiare un frutto del diavolo per essere un buon marine?»
«Impara
a utilizzare l’haki, intanto. Poi ne potrai riparlare,
cazzone. E
anche tu mi sembra che in ogni caso sia ancora al grado di caporale,
o sbaglio?»
Smoker
fece una smorfia e per tutta risposta sollevò il dito medio,
lasciandosi andare contro lo schienale della panca e lanciando
un’occhiata in tralice a Hina, impegnata ad accendersi una
sigaretta.
«Da
quanto fumi?»
«Qui
tutti fumano, ma non mi sembra di fare il terzo grado a
nessuno»
rispose la ragazza ignorando la domanda «In ogni caso parlate
come
se fosse facile procurarseli i frutti del diavolo…»
Stainless
sollevò un sopracciglio.
«Non
mi dire, ora sei un’esperta in materia».
Hina
si chinò leggermente verso il centro del tavolo, facendo
cenno agli
altri di imitarla, quindi riprese a parlare abbassando leggermente la
voce.
«Lo
sapete che il governo era disposto a pagare cinque miliardi di beli
per l’Ope ope no mi?»
Cancer
cadde dalla sedia, Smoker quasi si strozzò con il fumo del
suo
sigaro, mentre la ragazza annuiva con aria seria.
«Stai
scherzando, spero» sibilò Stainless strabuzzando
gli occhi.
«Hina
è serissima. C’ero, la nostra nave era di supporto
a quella del
Vice ammiraglio Tsuru, doveva occuparsi lei dello scambio».
«Ma?»
chiese Smoker «Sento che c’è un
ma».
«Donquijote
Doflamingo».
«Intendi
il pirata?»
«Ah-ah».
«Merda!»
esclamò Cancer, portandosi il bicchiere alla bocca
«Puoi essere un
po’ più specifica, di grazia?»
«No,
non qui. In ogni caso costa procurarsi i frutti del diavolo e la
marina non è certo qui a distribuirli a destra e a
manca».
«Sì,
ma pensavo si parlasse di qualche centinaio di milioni o poco
più!»
«Questo
perché sei un coglione, Cancer. Quanto pensi che sarebbe
disposto a
pagare il governo per il frutto di Barbabianca o quanto pensi abbia
speso Sengoku per il suo?» frecciò Smoker.
«Hina
non crede che Sengoku se lo sia comprato il frutto del
diavolo».
«Non
è quello il punto, scema. Il punto è che a
seconda del frutto e
delle sue potenzialità cambia il prezzo, esistono interi
cataloghi
di frutti del diavolo e vengono fatte vere e proprie spedizioni di
ricerca per trovarli».
La
ragazza roteò gli occhi verso l’alto e
sospirò, come se non lo
sapesse, avevano seguito intere lezioni sulla storia di quei
benedetti frutti quando ancora erano a Tatemae.
«Non
mi dire, genio» celiò sarcastica «Noia.
Hina è annoiata, vado a
cercare Drake, credo si sia perso».
«Chi?
Il tuo nuovo spasimante?» chiese Cancer evitando, con
l’abilità
di chi ci ha preso la mano con gli anni, un calcio negli stinchi.
«Una
recluta, deficiente, e un amico».
«Si
può sapere dove hai tirato su una recluta? Non sei mai stata
esattamente Hina dal cuore d’oro che si prende cura degli
sbandati»
continuò Stainless al posto dell’amico.
La
giovane sbuffò, sistemandosi con una mano il ciuffo di
capelli che
le cadeva davanti al viso, accavallò le gambe e riprese in
mano il
boccale di birra che aveva appena abbandonato.
«Avete
mai sentito parlare di Diez Barrels?»
«Non
era commodoro?» domandò Verygood cadendo dalle
nuvole.
«Sì,
è quel commodoro che qualche anno fa lasciò la
marina per darsi
alla pirateria» continuò Stainless per lui.
«Ecco,
era suo padre» esordì Hina, ricevendo per tutta
risposta un fischio
ammirato.
«Era?»
chiese Smoker.
«È
morto. Doflamingo ha ucciso tutta la sua ciurma, ma non credo
avessero un bel rapporto, di sicuro non da quando Barrels si
è dato
alla pirateria. Drake ha sempre voluto fare il marine, ma ha visto
suo padre, che ammirava, tradire tutto quello in cui credeva, come
credi si sia sentito?»
«Non
lo so e non mi importa» sbottò Cancer
«Quindi lo avete cattato su
dove?»
«All’isola
di Minion, dopo la faccenda dell’Opi opi no mi».
«Interessante,
e quando dico interessante intendo “non mi interessa
assolutamente”» celiò Cancer,
continuando sull’onda del
sarcasmo «Quindi sei diventata una balia e ora vai a cercare
il
bambino smarrito, in pratica».
«Ma
stasera lo porti?» domandò invece Verygood.
«Hina
non porta nessuno da nessuna parte, se vuole venire viene. Ti sembro
un servizio di posta?»
«Io
spero che venga, voglio essere amico dei tuoi amici»
continuò
Verygood, senza mai togliere la mano dal mento e strappando un
sorriso ad Hina, che si ritrovò ad ammettere che aveva in
parte
sentito la sua mancanza, la mancanza di tutti loro.
«Cercherò
di convincerlo».
«Vuoi
stare calmo?»
«Come
faccio a stare calmo? Sono tutte persone di cui mi hai parlato
così
tanto e ho sinceramente paura di fare una brutta prima
impressione».
«Drake,
sii uomo. Hina detesta quando perdete tutti la testa, siete dei
rammolliti! Sei un marine e loro non ti mangeranno mica».
«Sì,
ma -»
«Niente
ma, basterà che tu gli faccia vedere i poteri del tuo
frutto. Dirai
a Cancer che ti piacciono i suoi capelli, a Verygood che il suo
tatuaggio è interessante, a Stainless che sta bene anche
senza baffi
e ti troverai già inserito nella loro combriccola di
deficienti».
«E
Smoker?»
«A
Smoker non piacciono le persone che cercano di piacere a tutti i
costi, in realtà a Smoker non piacciono le persone, ma non
importa.
In ogni caso non fare niente, se diventerete amici meglio, altrimenti
qualcosa mi dice che sopravvivrai lo stesso».
La
vecchia palestra non era cambiata, anzi, a suo modo era rimasta la
stessa, nonostante i tentativi che avevano compiuto, nel corso degli
anni, di darle un aspetto pulito e rispettabile. Era rimasto il loro
rifugio, e Cancer non si faceva alcuno scrupolo a cacciare in malo
modo le reclute che ogni tanto andavano a nascondervisi, sostenendo
che loro avevano diritto di anzianità e che quello era il
loro
antro. Hina aveva sempre detestato quella parola, ma in fondo al
cuore sentiva di concordare, c’era qualcosa di nostalgico in
quella
vecchia palestra abbandonata che dava sul mare; con un solo sguardo
si riusciva a vagare verso l’orizzonte e non ci voleva mai
molto
perché si perdesse a fissare le stelle o le navi che
lentamente
andavano e venivano, mentre rimaneva ad ascoltare i discorsi senza
senso dei suoi amici.
Fissò
le travi malmesse del pavimento e sorrise leggermente, entrando a
grandi falcate e salutando tutti con un gesto della mano, alle sue
spalle un Drake più titubante, quasi imbarazzato la
seguì a ruota,
facendo un cenno impacciato a quei volti sconosciuti.
«Questo
è Drake» disse solo Hina, prima di andare ad
appoggiarsi contro lo
stipite del balconcino, leggermente in disparte, in una posizione
dalla quale potesse vedere fuori.
Quello
era il suo posto speciale, e, quando si sedeva lì, raramente
gli
altri venivano a disturbarla, era come se dicesse “ecco, sono
qui e
partecipo, chiacchiero con voi e sono parte del gruppo, ma lasciatemi
mantenere la giusta distanza”.
Osservò
con aria distratta Smoker entrare dalla porta e lanciare
un’occhiata
al nuovo venuto, impegnato a mostrare agli altri gli effetti del suo
frutto.
«Come
se non avessero mai visto uno Zoo Zoo» mormorò a
mezza voce
sedendosi a fianco alla ragazza, con la consapevolezza che, se
c’era
qualcuno che poteva farlo, quello era lui.
Hina
sollevò le spalle, giocherellando distrattamente con un
pacchetto
ancora chiuso di sigarette, non fece resistenza quando Smoker glielo
sfilò piano dalle mani studiandolo con aria di chi si trova
per la
prima volta a osservare qualcosa di nuovo.
«Pensavo
non ti piacesse il fumo».
«Hina
ha scoperto che è un ottimo modo per scaricare lo
stress».
Il
giovane aprì il pacchetto ed estrasse con attenzione una
delle
sigarette sottili, se la portò alla bocca e
l’accese, aspirando
con fare incuriosito.
«Sta
roba fa schifo» sbottò passandogliela senza tanti
complimenti.
«Non
più dei tuoi sigari disgustosi» ribatte Hina,
accettando la
sigaretta e fermandola tra le labbra.
Per
qualche istante rimasero in silenzio, ad ascoltare le chiacchiere del
resto del gruppo, a cui Drake andava raccontando la sua storia.
«È
fuggito dalla gabbia per uccelli di Doflamingo?» chiese
Smoker a
bassa voce, in modo che non lo potesse sentisse nessuno al di fuori
di Hina.
«No,
si è semplicemente ritrovato all’esterno nel
momento in cui è
stata lanciata. È stata fortuna».
«E
come diavolo lo avete trovato?»
«È
scappato, era spaventato, Smoker. Hina non ha mai visto qualcuno
correre così, nemmeno noi. E non ti so dire se scappasse da
Doflamingo o da suo padre…»
«Diez
Barrels era un buon marine».
«Ma
non un brav’uomo» mormorò piano Hina
portandosi le ginocchia al
petto e appoggiandovi sopra il viso, lanciando un’occhiata
veloce
al ragazzo che stava parlando animatamente con gli altri membri del
gruppo «Lo abbiamo preso a bordo e il medico ha voluto
assicurarsi
che stesse bene… Smoker io ho visto i suoi lividi e non
erano
dovuti a una caduta nella fretta della corsa. Suo padre era un
animale».
L’uomo
piegò il viso in una smorfia di disprezzo e le
accarezzò con
delicatezza il capo.
«Per
la serie non giudicare un libro dalla copertina, vero?»
Hina
annuì.
«E
non è nemmeno la cosa più strana che sia
successa. Quel pomeriggio
Vergo venne a fare rapporto a Tsuru, era a capo della base
dell’isola
e non so cosa le disse, ma so per certo che il Vice Ammiraglio si
allontanò di fretta con un gruppo fidato di donne e quando
tornò
portava con sé un cadavere. Non ho idea di chi fosse, era
nascosto
sotto il telo per cadaveri della marina, quindi immagino fosse un
marine».
«E
quindi? Immagino ci sia stato uno scontro, i morti ci saranno stati
da entrambe le parti».
«Sì»
sussurrò Hina, a voce così bassa che Smoker
rischiò quasi di non
sentirla «Ma dicono che Tsuru piangesse quando lo ha
riportato sulla
nave. Non sappiamo nemmeno il suo nome».
L’uomo
rimase in silenzio per qualche istante.
«Gossip.
Non ti ricordi cosa dice tua madre? Non credere a tutto quello che ti
viene detto».
«Natsuki
non è la voce della verità, Smoker».
«Una
volta lo era, anche per te» le ricordò
l’amico sollevando un
sopracciglio.
«Sì,
lo era. E mi sbagliavo» rispose la giovane, senza fissare
niente di
preciso «Hai sentito i miei genitori in questi anni, per
caso?»
«Non
particolarmente» ammise «Anche se tua madre ha
chiamato un paio di
volte per salutarmi. Stronzate tipo feste di natale, compleanno,
promozioni».
«Capisco…»
«Ma
stanno bene, no? Non mi pare che sia successo niente di
grave».
Hina
girò il viso verso l’esterno, gettando il
mozzicone di sigaretta
oltre il parapetto del portico e rimase a fissare il cielo stellato.
«Stanno
divorziando. Natsuki ha scoperto alcuni traffici di mio padre non
proprio leciti, sostiene che stia trasformandosi in un’altra
persona e che non sia più l’uomo che ha sposato.
Ha deciso di
lasciarlo».
«Mi
dispiace».
«Non
è vero. Smoker ha sempre detestato mio padre e non ne ha mai
fatto
mistero. Stai pensando che è una decisione che avrebbe
dovuto
prendere molto tempo fa… E credo che tu abbia
ragione».
Il
giovane sbuffò, espirando una nuvola di fumo grigio,
allungò un
braccio e lo passò dietro la schiena di Hina, attirandola
più
vicina a sé.
«Non
mi potrebbe interessare di meno di tuo padre, né mi dispiace
per
lui. Mi dispiace che tu ci stia male, scema».
La
ragazza si scostò, scrollandoselo di dosso con un gesto
infastidito,
e lasciandolo profondamente interdetto.
«Hina
non vuole la tua pietà» sibilò irritata.
«Scusa?
Pietà?» Smoker strabuzzò gli occhi,
sinceramente sorpreso che la
sua migliore amica avesse davvero potuto interpretare le sue parole a
quel modo, sì, erano anni che non si vedevano, ma non voleva
credere
che le cose fossero cambiate a tal punto. Nemmeno si accorsero dello
sguardo preoccupato che lanciò loro Drake, né di
come Cancer lo
fermò scuotendo la testa e Stainless fece segno a tutti di
uscire:
si erano resi conto, forse anche prima che loro stessi lo
realizzassero, di quanto quei due avessero bisogno di parlare, dopo
essersi lasciati senza una parola per quasi due anni.
Hina
non rispose, rifiutandosi di girarsi verso di lui.
«Quella
non è pietà, Hina» sibilò
Smoker «E lo sai bene. Mi dispiace
perché mi preoccupo per te, è così
difficile da capire?»
«Non
ti ho chiesto io di preoccuparti per me!» esclamò
lei, con tono
freddo, senza mai alzare la voce più di quanto non avrebbe
fatto in
una normale conversazione «Pensavo fosse così che
funzionava tra
noi, non eri tu ad averlo detto?»
Smoker
si zittì improvvisamente, reprimendo con forza
l’istinto di
saltare in piedi e mettersi a urlare, consapevole che con Hina
avrebbe ottenuto solo l’effetto opposto e che per tutta
risposta
probabilmente se ne sarebbe andata mollandolo lì, senza una
parola.
«Sai
che non pensavo davvero quello che ho detto due anni fa».
«No,
non lo so».
«E
invece sì. Sono stato impulsivo e sono stato stronzo, ma sai
che non
pensavo niente di quello che ho detto, lo sai perché sei la
persona
che mi conosce meglio in assoluto a questo mondo».
Hina
gli lanciò uno sguardo carico di rabbia, non necessariamente
rivolta
verso di lui.
«Forse
Hina lo sa, ma non per questo è stato meno doloroso
sentirselo
dire».
«È
per questo che sei andata via?» chiese Smoker girandosi
completamente verso di lei e costringendola a voltarsi verso di lui.
Hina
rimase qualche istante immobile, ferma in mezzo alle gambe divaricate
di Smoker, seduto a sua volta di fronte a lei.
«Sì»
ammette infine, distogliendo lo sguardo «Cioè no,
anche. È stato
uno dei motivi, ma non l’unico».
«Due
anni. Hai preso e, senza dire niente a nessuno, sei sparita per due
interi anni, non una parola, non una telefonata, non una lettera.
Sapevo che eri viva solo grazie a tua zia e sapevo dove fossi solo
grazie ad Aokiji» sbottò Smoker perdendo la
pazienza «Mi vuoi dire
perché? E non arrampicarti sugli specchi».
«È
morboso» disse Hina piano, sollevando lentamente lo sguardo
«Era
morboso; non eravamo in grado di stare distanti per più di
due ore,
figurati due anni. Non abbiamo mai imparato a vivere separati e stava
diventando una situazione intossicante, così sono andata
via.
Pensavo e sono convinta ancora adesso, che sarebbe stato
d’aiuto,
che ci avrebbe insegnato a respirare. Anche quando era lontana Hina
sapeva che quando vi foste rivisti, le cose sarebbero tornate a
posto».
«E
come faceva Hina a saperlo se ha pensato bene di non parlarmi per due
anni?»
«Ho
fiducia in te» rispose la ragazza, arrossendo leggermente
«Ti
conosco abbastanza da sapere cosa ti passi per la testa».
«No,
non lo sai» sbottò Smoker alzando la voce
«Non mi hai lasciato
nemmeno la possibilità di chiederti scusa, lo capisci? Sei
sparita e
mi hai chiuso in faccia tutte le porte, e non c’era niente
che
potessi fare perché non mi hai lasciato alcuno spazio di
manovra!»
«No,
non l’ho fatto perché sapevo fin troppo bene che
se allora avessi
sentito le parole di cui avevo bisogno sarei tornata indietro,
subito».
Smoker
bestemmiò, spostandosi leggermente e tornando ad appoggiarsi
con la
schiena al muro, si passò una mano sugli occhi, senza
smettere di
mormorare improperi a mezza voce e fissò Hina per qualche
secondo;
la ragazza lo guardava con aria quasi malinconica e per un secondo a
Smoker sembrò di rivedere in lei Natsuki. Si
domandò quanto sarebbe
bastato perché Hina tornasse ad essere la bambina solitaria
e chiusa
in sé stessa che aveva conosciuto anni prima, e si rese
conto che la
possibilità di veder Hina ridotta in quel modo sarebbe stato
ancora
peggio che perderla.
«Se
lo dici a qualcuno negherò fino alla morte»
sibilò quindi,
allungando le braccia verso di lei, afferrandola con forza per la
vita e tirandosela in braccio.
La
sua mano destra scivolò lungo la vita dell’amica,
tenendola
stretta saldamente al suo petto, mentre con la sinistra le
accarezzò
leggermente il viso, rosso per l’imbarazzo.
«Lo
dirò una volta sola e non lo ripeterò, per cui
vedi di ascoltarmi
molto bene» disse, con il viso a pochi centimetri di distanza
da
quello di Hina «Venire a patti con il fatto che te ne fossi
andata è
stata la cosa più difficile che abbia dovuto affrontare da
quando…
Beh, da anni. E quando ho capito perché l’avessi
fatto ho
seriamente temuto di averti perso, perché so di non essere
molto
sveglio per certe cose, non ci ho mai fatto caso e non mi interessano
nemmeno».
«Klutz»
mormorò Hina, piano sorridendo.
«Già.
Però in questi due anni credo di averle capite alcune
cose» si
interruppe, cercando le parole giuste, parole che non gli era mai
stato facile pronunciare «Ti voglio bene. Te ne ho voluto
quando ti
ho conosciuto, sei stata la prima persona che non mi ha giudicato per
quello che sembravo, ma che ha aspettato di conoscermi. Sei stata la
mia prima amica, una sorella, una confidente e, quando siamo
cresciuti, mi sono reso conto che non mi bastava più, ma
quando sono
riuscito ad accettare la cosa tu eri già partita».
«Non
sono sicura di avere capito».
«Pensavo
che le donne fossero tutte uguali e anche che le amicizie, tolta la
patina iniziale che le distingue, fossero tutte uguali, ma non
è
così, mi sbagliavo. Ci sei tu e poi c’è
tutto il resto».
Si
grattò distrattamente la testa, in evidente
difficoltà, cercando di
arrivare alla parte che per lui era sempre stata la più
difficile,
soprattutto da accettare.
«So
di non essere una persona facile da gestire, faccio sempre di testa
mia e alla fine spesso prendo decisioni del cazzo con la convinzione
di fare la cosa giusta, ma -»
«Il
punto» lo interruppe Hina con gentilezza «Ti stai
impappinando,
arriva al punto».
«Il
punto, rompipalle che non sei altro, è questo»
sbottò quindi
perdendo la pazienza e, con un movimento repentino del busto, si
piegò su di lei, chiudendo le sue labbra in un bacio.
Erano
passati dieci anni da quel primo bacio timido e impacciato scambiato
da due ragazzini su un molo solitario, dieci anni in cui entrambi non
ne avevano mai parlato fingendo che non fosse davvero successo; in
quel momento, a distanza di così tanto tempo, con la
consapevolezza
dell’età adulta e il cuore carico di aspettative,
a Hina sembrò
di rivivere la stessa scena. Questa volta, però, a baciarla
non era
un quattordicenne imbranato, senza alcuna consapevolezza di
ciò che
stava facendo; questa volta nessuno dei due aveva intenzione di
sottrarsi a quel bacio, soprattutto non lei che lo aveva desiderato
così a lungo senza mai concedersi il lusso di ammetterlo a
sé
stessa. Le labbra di Smoker erano inaspettatamente morbide e la
delicatezza iniziale sparì assieme alle incertezze e ai
dubbi che
entrambi si erano portati dietro negli anni non appena Hina
ricambiò
il bacio, lasciando che le sue mani candide scivolassero lungo il
collo e quindi ad accarezzare la nuca rasata dell’uomo.
«Stai
bene?» domandò, staccandosi leggermente da lei e
passandole una
mano tra i capelli corti.
«Hina
è senza parole» disse piano, annuendo appena.
«Che
miracolo».
«Stai
zitto, stupido schmeckle».
«Stupido
sì, quanto a schmeckle… non credo
proprio» borbottò il ragazzo,
tirandosela ancora più vicina e tornando a baciarla.
C’era
una foga, nei suoi baci, che Hina non aveva mai sperimentato prima;
non ci volle molto per ritrovarsi a cavalcioni su di lui, mentre le
mani di Smoker scendevano a esplorare il suo corpo, cercando di
slacciare la giacca del completo, infilandosi tra i bottoni della
camicetta.
«Aspetta,
aspetta. E se tornasse qualcuno?»
«Con
il rischio di venire pestato a sangue da entrambi? Fidati, non
accadrà» rispose l’uomo, chinandosi sul
suo collo e facendo
scivolare con delicatezza inaspettata gli indumenti dalle spalle
della ragazza.
Hina
lasciò che la spingesse contro il pavimento di legno della
palestra,
inarcò la schiena nel percepire la sua bocca scendere
dall’incavo
del suo collo verso il suo petto e quando, slacciato con non poca
difficoltà il reggiseno di pizzo, sentì le mani
di Smoker
stringersi a coppa sui suoi seni grandi e sodi, non riuscì a
trattenere un gemito.
«Sarà
più divertente di quanto pensassi
all’inizio» mormorò l’uomo
facendo scivolare la mano sinistra fino a slacciarle il bottone dei
pantaloni
«Hina
lo spera proprio» mormorò lei, respingendolo con
un gesto gentile e
avvicinandoglisi con decisione. Gli passò le mani sulla
giacca,
facendola scivolare oltre le spalle e rimase a osservare qualche
secondo il petto nudo dell’uomo. Quindi, senza la minima
traccia di
imbarazzo iniziò a slacciargli la cintura dei pantaloni.
«Aspetta,
aspetta» la bloccò Smoker, mettendosi a sedere
«Sei sicura? Nel
senso non è che stiamo bruciando qualche tappa di
troppo?»
Hina
roteò gli occhi verso il cielo, seccata per
l’interruzione, e dopo
essersi messa in piedi si spogliò completamente guardandolo
con aria
di sfida.
«Sì,
Hina è parecchio sicura, Klutz, grazie per averci pensato
per
tempo».
Smoker
scoppiò a ridere, afferrò con la mano uno dei
polsi della ragazza e
se la tirò addosso, accarezzando con delicatezza quel corpo
nudo.
«Non
credo che sarò molto gentile».
«E
quando mai lo sei stato?»
Non
fu breve, ma fu intenso, e in diversi momenti Hina ringraziò
che
fossero così isolati e che nessuno dei loro amici avesse
avuto la
malsana idea di venirli a cercare.
Seduta
tra le gambe aperte di Smoker, con la schiena appoggiata al suo
petto, rimase a guardare l’alba che lenta si levava
all’orizzonte,
mentre con tono pacato, raccontava a Smoker cosa aveva fatto in quel
tempo.
«Quando
è stato?» chiese improvvisamente l’uomo,
accendendosi un sigaro.
«Cosa?»
«La
prima volta».
Hina
girò la testa di scatto, fissandolo con aria truce.
«È
importante?»
«Avevo
19 anni ed eravamo ancora a Karate Island, ti ricordi quella sera in
cui tua nonna e-»
«Hina
non lo vuole sapere, non mi interessa proprio» gli disse,
interrompendolo. E in effetti davvero non le interessava.
Rimase
in silenzio per qualche istante, quindi si passò una mano
tra i
capelli e accendendosi una sigaretta riprese a parlare.
«A
Water Seven, quella sera. Hina era furibonda con voi» disse
«Avevi
quel sorriso da stronzo sulla faccia, e ogni volta che ci pensavo mi
saliva un travaso di bile. Fu l’unico, in quel momento a
interessarsi a me come persona, e io di sicuro non stavo aspettando
il matrimonio».
«Tuo
padre sarà felice di sapere che l’averti portato
in chiesa per
anni non è servito a una sega. Chi era?»
«Un
carpentiere» rispose Hina, rimanendo sul vago.
Non
si era mai pentita di quella notte a Water Seven e per quanto lei e
Smoker avessero condiviso ogni cosa da quando si erano conosciuti,
aveva deciso che quello era un ricordo che preferiva conservare solo
per sé.
«Hina».
«Hina
sa cosa vuoi dire, Smoker. Ed è d’accordo: questo
non cambia
niente» disse la ragazza a mezza voce «E non
è solo perché ti ho
fatto una promessa anni fa, ma perché penso davvero che
andando
avanti su questa strada potresti fare la differenza».
Aokiji
detestava essere disturbato mentre leggeva, gli scocciava che lo
interrompessero mentre mangiava, ma più di tutto lo irritava
profondamente che lo svegliassero mentre dormiva. A dirla tutta
Aokiji detestava essere disturbato e basta, ma aveva imparato, con
gli anni, che non c’era modo per evitare le insistenti
pressioni di
Smoker. Quando il giovane si metteva in testa di parlargli non
c’era
proprio verso di dissuaderlo; in fondo l’Ammiraglio lo aveva
preso
in simpatia, si riteneva in parte responsabile per il suo ingresso in
marina, consapevole di essere stato uno dei maggiori fattori di
persuasione nella decisione presa dall’amico anni prima.
«Spero
per te che sia importante questa volta».
«Eh
già, non vorrei mai distrarti dai tuoi
doveri…» frecciò Smoker
osservando il cuscino appoggiato in bella vista sulla scrivania.
«Potrei
farti punire per insubordinazione».
«Sei
troppo pigro. Prenderò seriamente le tue minacce quando
inizierò a
trovarti mentre stai effettivamente facendo qualcosa»
borbottò
Smoker sedendosi sulla sedia dalla parte opposta del tavolo.
«Che
posso fare te?» domandò Aokiji con rassegnazione.
«Tra
una settimana è il mio compleanno».
«Buon
per te».
«Fammi
finire. Ogni anno io e Hina festeggiamo il 9 i nostri compleanni, una
data a metà tra il suo e il mio e, come probabilmente
sapresti se
nella vita facessi qualcosa, oggi è il nove».
«Auguri
a te. Posso tornare a dormire?»
«Non
è quello il punto!» sbraitò Smoker
massaggiandosi una tempia e
accendendosi un sigaro «Hina ha fatto leva su alcune
connessioni e
ha utilizzato parte dei soldi della sua famiglia per comprare dei
frutti del diavolo sostenendo che “Se vogliamo salire di
grado
questi sono una risorsa da non sottovalutare”».
«Non
capisco il problema» notò Aokiji, sbadigliando
appena.
«Ho
rifiutato».
«Perché
sei un deficiente, ma questa non è una
novità».
L’Ammiragliò
si appoggiò allo schienale della sedia e mise con
nonchalance i
piedi sul tavolo, iniziando a dondolarsi.
«Quanti
anni fai quest’anno, Smoker?» domandò
quindi.
«Ventisette»
sbottò l’uomo.
«Sei
un marine, Smoker. Volente o nolente che tu sia, verrai sballottato
da una parte all’altra del globo. Se sarai fortunato verrai
assegnato a uno dei quattro mari esterni, se non lo sarai finirai
sulla rotta maggiore o, peggio, nel nuovo mondo. Come pensi che farai
a sopravvivere a quel punto? Farai affidamento sulla forza dei tuoi
pugni? Hai scelto tu questa vita, e ti assicuro che è quel
genere di
vita dove per sopravvivere devi continuare a scalare la vetta, salire
verso l’altro e se per questo dovrai ingoiare un
po’ di orgoglio
e accettare il regalo di un’amica, a meno che tu non voglia
rimanere Maresciallo a vita. In ogni caso, ti consiglio di pensarci
bene, perché certe opportunità non capitano tutti
i giorni e la
marina non ha soldi, né intenzione di investire in ogni
singolo
ufficiale minore».
Smoker
digrignò i denti in una smorfia di disappunto, non era certo
la
risposta che si aspettava, ma raramente Aokiji dava la risposta che
ci si sarebbe voluta sentire; era sempre stato una guida e continuava
ad esserlo, spingendolo a pensare con la propria testa, a decidere da
solo cosa fosse la giustizia senza sottomettersi ciecamente a un
insieme di leggi. Era stato un amico e un padre e, nonostante si
trovasse di fronte a una testa di legno, continuava a cercare di
insegnargli cosa volesse dire affrontare la vita.
«Ora,
se vuoi un consiglio da amico, torna dalla giovane e affascinante
nipote di Akainu, accetta il suo regalo e se proprio senti che questo
va a minare il tuo orgoglio cerca di farle un regalo che possa farle
altrettanto piacere» borbottò l’uomo
«Adesso, se non ti spiace,
fuori. Sciò. Ho cose importanti da fare».
Smoker
si ritrovò a camminare lungo la banchina con un muso lungo e
un’irritazione crescente, la strada da prendere la conosceva
fin
troppo bene e quando raggiunse la porta dell’appartamento di
Hina
si bloccò di colpo, rimanendo ad ascoltare il sommesso
brusio che
proveniva dall’interno. Non fece nemmeno in tempo ad
allungare la
mano verso la maniglia che l’uscio si aprì di
scatto e Hina gli
andò a sbattere contro, cadendo rovinosamente a terra.
«Che
seccatura» sibilò «Hina è
seccata».
«Lo
so» rispose scavalcandola ed entrando in casa.
«Hai
ventisette anni, non ti sembra il caso di piantarla di fare testa o
croce quando vuoi scaricare la patata bollente?»
domandò la ragazza
con tono irato «Testa accetto il tuo regalo, croce non lo
accetto? È
un fottuto regalo, lo accetti e basta!»
«Lo
accetto».
«Cosa?»
chiese Hina interdetta «Davvero? Oh, meno male! Quale
vuoi?»
Sul
tavolo spiccavano in bella vista due frutti bitorzoluti dalla forma
poco rassicurante; seduti attorno ad esso Drake e una Bonney di circa
quindici anni li osservavano con aria annoiata.
«Possiamo
vedere cosa fanno?» domandò sua cugina, masticando
per inerzia dei
marshmellow.
«Vi
prego, ho una riunione dei Capitani tra due ore» li
implorò Drake,
accarezzandosi la cicatrice sul mento.
Smoker
e Hina si fissarono per qualche istante, indecisi, alla fine fu la
ragazza ad avvicinarsi al tavolo con un coltello e a sedersi di
fronte a un frutto viola scuro dalla forma simile a quella di un
verme; dall’altra parte del tavolo Smoker fissò il
piatto con il
suo contenuto color grigio topo, almeno aveva una forma sferica,
pensò.
«Se
dovesse darmi qualche potere deficiente tipo quello del Vice
Ammiraglio Dalmata sappi che ti odierò per sempre».
«Hina
ci convivrà» borbottò la ragazza,
tagliando uno spicchio e
portandoselo alla bocca.
«Disgustoso,
vero?» chiese Bonney, improvvisamente interessata, scoppiando
a
ridere di fronte alla faccia disgustata di sua cugina.
«Sta
roba fa vomitare» mugugnò Smoker, ingoiando a
fatica.
Si
fissarono per qualche secondo, osservando le rispettive espressioni
schifate senza trovare la forza di prendersi in giro a vicenda,
quindi presero a guardarsi le mani e a cercare mutamenti invisibili
sul loro corpo.
«E
ora?» domandò Hina, sollevando il capo verso Drake.
«E
che ne so io, prova a fare qualcosa».
«Qualcosa
cosa?» chiese Smoker a sua volta, accendendosi un sigaro nel
tentativo di eliminare quel sapore disgustoso.
«Tipo
quello, probabilmente» notò Hina, indicando la sua
mano che andava
dissolvendosi in fumo a contatto col fumo stesso sigaro.
«Che
cazzo!»
«No,
se mai che culo» lo corresse Drake «Ad occhio
è croce dovrebbe
essere un Rogia».
«E
tu, invece?» domandò Bonney afferrando un libro e
lanciandolo
contro la cugina.
Hina
allungò il braccio, nel tentativo di prenderlo al volo e
quando la
sua mano incontrò il volume, questo venne avviluppato da uno
spesso
cordone nero di un materiale simile a gomma e ricadde pesantemente a
terra.
«Che
diavolo?» domandò Smoker avvicinandosi.
«È
solido» constatò la ragazza toccando il materiale
«Sembra quasi
una sorta di nastro di ferro».
«Potrebbe
avere risvolti più utili di quanto non pensi» fece
notare Drake,
per poi affrettarsi a specificare di fronte all’occhiata
penetrante
di Smoker «Sul lavoro! Intendevo sul lavoro!»
«Che
facciamo ora?» chiese Hina, che non aveva pensato bene a
quale
sarebbe stato il passo successivo una volta ottenuti i frutti.
«Non
che abbiamo molta scelta, per regolamento dobbiamo seguire
l’addestramento speciale di Zephyr».
«Come
tornare a sentirsi una recluta a venticinque anni»
borbottò la
ragazza.
«Figurati
come mi sento io».
«Fammi
capire» domandò Hina strabuzzando gli occhi e
rigirandosi la
lettera di trasferimento tra le mani «Come ci sei
riuscito?»
L’uomo
sollevò le spalle, sistemandosi i sigari nelle apposite
fessure
sulla giacca.
«So
essere convincente» dichiarò.
«Le
hai rotto le palle finché non ti ha detto sì, non
è così?»
«Potrebbe
essere» concesse.
Non
era stato facile persuadere la vecchia Tsuru a prendere Hina nel suo
reparto, la selezione era accurata e metodica e il Vice Ammiraglio
sceglieva personalmente chi portare con sé nei suoi viaggi;
tuttavia, trascorrere qualche mese sotto la sua supervisione non
poteva che essere una nota di merito per qualunque donna che avesse
deciso di arruolarsi in marina. Avere lavorato con lei era una
garanzia di qualità e si diceva anche la giovane e
affascinante
nuova Vice Ammiraglia Momousagi fosse stata una sua protetta.
Hina
strinse la lettera, con aria deliziata, e gli gettò le
braccia al
collo, depositando un bacio veloce sulle labbra dell’uomo.
«Grazie!
Hina è davvero, davvero felice!»
«Lo
so».
«Non
tirartela troppo» lo rimbeccò, senza
però smettere di sorridere.
Smoker
sollevò le spalle e si lasciò cadere a sedere sul
divano bianco del
salotto, osservando a occhi socchiusi Hina che cercava di sistemare
una lista di priorità.
«Oh,
dovrei andare ad avvisare mio zio» borbottò
storcendo il naso
«Meglio che vada subito prima che mi passi di
mente».
«Io
non mi muovo da qui».
«Come
ti pare, ma non fumare troppo in casa. A Hina fa schifo
l’odore di
sigaro sui mobili».
Smoker
non si premurò nemmeno di rispondere, agitando la mano come
a
scacciare una mosca e reprimendo un sorrisino compiaciuto nel sentire
il gemito di irritazione della ragazza mentre chiudeva la porta;
rimase ad osservare l’appartamento vuoto e immacolato
dell’amica
per qualche istante. Le pareti bianche, decorate da pochi semplici
quadri, le fotografie disposte con ordine sul cassettone del salotto,
i piatti dipinti a mano che le aveva regalato sua zia quando si era
comprata quella casa.
Non
fece troppo caso alla porta che si apriva e degnò Cancer di
uno
sguardo solo quando questo aprì la bocca per parlare.
«Non
è in casa» gli fece notare.
«Come
sarebbe non è in casa» si lamento Brandnew da
dietro le spalle del
biondo.
«È
andata da suo zio a comunicargli il trasferimento».
«Quale
trasferimento?» domandò Cancer, lasciandosi cadere
a sedere sopra
una sedia senza tanti complimenti, la sua giacca da retro-ammiraglio
scivolò lungo lo schienale e rimase a penzolare.
«Tsuru.
Tra due giorni».
«Non
sono sicuro di avere capito» borbottò Brandnew
aggrottando le
sopracciglia.
«Già
pensavamo avrebbe fatto richiesta per entrare da Aokiji con
te».
Lo
sguardo di sufficienza che Smoker gettò loro fu talmente
eloquente
da spingere Cancer a sollevare le mani in segno di resa.
«Cazzi
vostri, ho capito. Non mi sembra una scelta intelligente per una
relazione stabile, però. E questo è solo il mio
modesto parere di
cui non ti è mai importato una minchia».
«Se
lo sai, perché ogni singola volta devi venire a dirmi quello
che
pensi?»
«Perché
infastidirti è il mio hobby, mi pare chiaro»
scoppiò a ridere
l’amico.
«Fottiti,
Cancer» sbottò Smoker, sollevando il dito medio
«In ogni caso né
io né Hina abbiamo problemi con la cosa, non vedo
perché dovresti
averne tu».
«Perché
io, nonostante quello che tutti pensate, ho un cuore di burro e non
riuscirei a stare così lontano dalla mia dolce
metà».
Smoker
lo guardò allo stesso modo in cui si guardano i deficienti,
mentre
Brandnew, seduto su una delle poltrone vicino alla finestra,
sollevò
le sopracciglia con aria divertita.
«Hina
mi sembra tutto meno che dolce» dichiarò.
«Senza
contare» continuò Smoker dandogli ragione
«Che la nostra relazione
non è esattamente di pubblico dominio, se dovesse arrivare
alle
orecchie dell’ammiragliato danneggerebbe sia la sua carriera
che la
mia».
«È
una questione di carriera? Seriamente?»
«Credi
che per lei non lo sia? Credi che Hina sia una persona così
debole
da non sopportare la distanza o la solitudine? Quella donna
è fatta
di acciaio, lasciatelo dire».
Cancer
sospirò, rassegnato.
«La
fiducia cieca che avete l’uno nell’altra mi
destabilizza, ma chi
sono io per giudicare».
«Soprattutto
quando non riesci a tenerti una donna per più di due
settimane,
figurarsi per una vita» fece notare Brandnew, ignorando il
dito
medio che si sollevò in risposta.
«Quindi
in due giorni parte con la terza divisione e chissà quando
la
rivedremo. È un po’ triste questa cosa. Prima i
vostri nuovi
frutti del diavolo, ora le riassegnazioni».
«Chi
l’avrebbe detto che fossi un vecchio sentimentale»
lo prese in
giro Brandnew.
«Non
siamo tutti culo e camicia con l’uniforme come te, demente,
ho
anche dei sentimenti io!»
«Cosa
vuoi che ti dica, Cancer» rispose Smoker tirandosi in piedi e
affacciandosi alla finestra, una larga vetrata che offriva una vista
sull’intera baia di Marineford «È un
nuovo inizio».
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Capitolo 5 *** Yugen ***
Note:
Yugen, la consapevolezza dell'universo che stimola una risposta emotiva
troppo profonda e misteriosa per poter essere espressa a parole.
Se
vi aspettavate una storia più lunga mi dispiace deludervi,
il mio intento era di fare un approfondimento sulle dinamiche di
rapporto tra Smoker e Hina e di arrivare fino al punto in cui parte la
storia di One Piece e non oltre. Almeno non con questa storia.
Giuro
che appena avrò tempo risponderò alle recensioni.
Epilogo
– Yugen
Quando
Drake lasciò la marina per darsi alla pirateria, Hina era da
qualche parte nel mare meridionale e la notizia la raggiunse come una
coltellata tra le scapole; di tante cose che avrebbe potuto aspettarsi,
quella era di certo l’ultima e non la prese bene. Fu Smoker
ad avvisarla chiamandola per la prima volta dopo circa tre mesi, fu
così inaspettato che per la prima volta nella sua vita Hina
si bruciò con la sigaretta.
Erano
passati circa cinque anni da quando era partita con Tsuru e ora era
Capitano di Fregata; per la prima volta, dopo tutti quegli anni, si
ritrovò a contestare le proprie scelte di vita, domandandosi
se le cose sarebbero potute andare diversamente, domandandosi cosa
sarebbe cambiato se lei fosse stata presente.
La
risposta era, ovviamente, niente, ma non rendeva più facile
accettare la situazione.
Nessuno
aveva capito bene cosa lo avesse spinto, e questa era una domanda che
Hina si pose spesso nei mesi successivi alla notizia,
finché, un giorno di maggio, circa sette mesi dopo, non
arrivò una lettera da sua zia con una notizia di importanza
altrettanto grave.
«Non
posso credere che l’abbia fatto!» sbottò
Hina, seduta nella cabina di comando della Fregata.
«Cosa
ti aspettavi» gracchiò la voce dal lumacofono
«Tua cugina è sempre stata una piantagrane e una
ribelle, puoi biasimarla?»
«Certo
che no, Hina è consapevole che suo zio sia uno stronzo, ma
questo non cambia la situazione».
«Allora
arrestala».
«Ha
già spezzato il cuore a mia zia quando è scappata
di casa, Smoker, se mi mettessi a inseguirla e arrestarla non credi che
glielo spezzerei una seconda volta?»
«Fai
come credi, ma se pensi che Akainu ci andrà leggero solo
perché è sua figlia ti sbagli di
grosso».
«Come
se non lo sapessi» sbottò la donna chiudendo la
conversazione.
Rimase
immobile qualche istante, a fissare la lettera spiegazzata che era
arrivata quella mattina con la posta; sua cugina era una vera
mentecatta. Se le fosse capitata tra le mani gliene avrebbe date
così tante da levarle quel sorriso cretino dalla faccia.
«Hi-na-cchi!»
la porta della cabina si aprì con un tonfo e il Vice
Ammiraglio Momousagi entrò di slancio «Andiamo a
fare un giro… Cos’è quella faccia,
scusa? Ti hanno mangiato il gatto?»
«Hina
è allergica ai gatti».
«È
un modo di dire! Un. Modo. Di. Dire!» sbottò la
donna, allungandosi verso l’amica e fissandola con aria
indagatrice «Dai qua».
Senza
fare tanti complimenti afferrò la lettera che era rimasta
aperta sul tavolo e dopo avervi dato una scorsa veloce emise un fischio
ammirato.
«Ah,
però! Tua cugina eh?» si interruppe, spalancando
gli occhi «Ma questo vuol dire la figlia
di…?»
«Sì».
«Oh,
che cosa divertente!»
«Momousagi
Choujo il tuo senso dell’umorismo è
discutibile» borbottò Hina, accendendosi
nuovamente una sigaretta.
«Vedrai
che tornerà a casa quanto prima con la coda tra le gambe, i
bambini lo fanno».
«Bonney
non è più una bambina, ha vent’anni! E
non è esattamente una sprovveduta, Akainu l’ha
addestrata fin da piccola per fare di lei una marine, aveva cinque anni
quando le fece mangiare un frutto del diavolo per renderla
più forte».
«Sgradevole
e leggermente inquietante. Vabbè, che vuoi che ti dica,
vorrà dire che in questo caso saprà come
cavarsela».
Il
capitano sbuffò, solo parzialmente d’accordo.
«Hina
non capisce questa nuova moda per cui tutti decidono di darsi alla
pirateria».
«Momousagi,
invece, non capisce se Hina vuole accompagnarla a pranzo o
meno» borbottò la donna, afferrando il giubbotto
bianco dell’amica e gettandoglielo contro «Dai,
andiamo!»
La
locanda era ancora semideserta e il vice Ammiraglio decise di
approfittarne per far sbottonare la collega sulla sua prossima
destinazione; si erano conosciute qualche anno prima, durante una
riunione della marina, era stata Tsuru stessa a presentarle, sostenendo
che la personalità esuberante e gioviale di Momousagi non
avrebbe potuto che fare del bene alla serietà di Hina. E
nessuno, guardandole, avrebbe mai scommesso che sarebbero diventate
amiche; era stato un incontro strano, ma in qualche modo avevano
legato, nonostante la differenza di grado.
«E
quando partiresti per Rogue Town?»
«Hina
dovrebbe partire tra un paio di settimane, c’è la
cerimonia di insediamento di Smoker. E dovrebbe esserci anche mia
madre».
«Insediamento
e promozione, giusto?»
Hina
annuì, masticando lentamente il suo pranzo; erano anni che
non tornava nel mare orientale, che non tornava a casa.
Quando
venne promosso Capitano di Vascello, Smoker non lo disse quasi a
nessuno; la cerimonia fu breve e, quando finì,
l’unica ad avvicinarsi per abbracciarlo fu Natsuki.
«Sei
diventato così grande. Sono così orgogliosa di
te!» disse, sorridendogli con affetto.
Hina,
poco dietro di loro, sorrise a sua volta, osservando la
città dove più di vent’anni prima
avevano assistito alla morte del pirata più famoso di tutti
i tempi.
«Sarai
anche Capitano di Vascello, ma scommetto che a stare fermo su
un’isola ti annoierai terribilmente» lo prese in
giro.
«Non
eri tu a dire che sono esperienze che vanno fatte?»
domandò l’uomo accendendosi un sigaro.
«Hina
pensa che per ora passerà la mano, e in ogni caso mi hanno
assegnato al primo tratto della rotta maggiore con un distaccamento
della centoventiseiesima».
«Non
ho idea di cosa sia, ma suona bene» commentò sua
madre con un sorriso.
«Si
tratta di una-»
Venne
interrotta dalla porta dell’ufficio che si
spalancò lasciando entrare al suo interno una ragazzina
dall’aria impacciata.
«Scusate,
scusate, non volevo disturbare. Ecco, volevo bussare, ma sono scivolata
e la porta si è aperta e-»
«Sei
Tashigi?» domandò Smoker, interrompendola.
«Sissignore»
esclamò la ragazza mettendosi sull’attenti
«Sergente Tashigi, Signore».
«Oh!»
esclamò Hina divertita «Ma che giovane! Quanti
anni hai?»
«Venti,
Capitano» rispose la ragazza, in evidente imbarazzo.
«Hina
si augura che Smoker si comporti civilmente»
celiò, avvicinandosi alla ragazza e stringendole la mano
«Ma se così non fosse sentiti pure libera di
contattarmi».
«Per
l’amor del cielo, Hina. Levati dalle palle, ho da
fare» sbottò l’uomo lanciandole una
pallina di carta che la donna prese al volo.
«Andiamo,
andiamo» intervenne Natsuki, prendendo la figlia sottobraccio
«Hina accompagnami al porto, il traghetto dovrebbe partire
tra non molto».
Hina
annuì e, dopo aver salutato la nuova arrivata,
rassicurandola sul fatto che Smoker fosse letteralmente tutto fumo e
niente arrosto, uscì per accompagnare sua madre.
«Quando
ripartirai?» le domandò Natsuki con apprensione.
«Tra
tre giorni» rispose senza particolare inflessione
«Mamma, sei sicura di voler tornare a casa?»
«Hina,
cara, tuo padre ed io stiamo cercando di recuperare le cose.
Sì, sono sicura».
«Non
credo ne valga la pena, ma non che possa capirne niente»
obiettò la donna, osservando la nave «Fai buon
viaggio, mamma».
«Certo
e tu vieni presto a trovarci».
Hina
annuì, con la consapevolezza che non lo avrebbe fatto.
Tatemae non era più la sua casa, né considerava
più Natsukashi la sua città, era passato troppo
tempo e troppi anni e lei, seguendo il lento movimento delle maree, era
cambiata troppo. Non sarebbe tornata, sarebbe invece partita,
lasciandosi il mare orientale alle spalle e riprendendo la rotta
maggiore, lasciando, ancora una volta, Smoker dietro di sé.
O forse davanti.
Si
accese una sigaretta, cercando di non pensare al momento in cui sarebbe
dovuta partire; aveva tre giorni per abituarsi all’idea di
salpare di nuovo, in tre giorni sarebbe sicuramente stata pronta, si
disse. Nel frattempo avrebbe cercato di sfruttare al meglio tutto il
tempo in cui fosse rimasta a Rogue Town.
Tirò
fuori dalla tasca il foglio appallottolato che Smoker le aveva lanciato
nel suo ufficio e sorrise, nel leggere, con la grafia sgraziata
dell’uomo, l’indirizzo di un appartamento nel
quartiere periferico della città.
Dopo
tutto, tre giorni insieme erano più di quanto non avessero
avuto nell’ultimo anno, pensò, incamminandosi con
un sorriso verso il centro città: avrebbe fatto in modo che
fossero sufficienti.
La
distanza non è che un’illusione.
Il
concetto stesso di separazione non è che un prodotto della
nostra mente, la sensazione tanto agognata di toccarsi, di percepire un
contatto fisico e sentire vicino qualcuno che viene a mancare.
Ma
la distanza non è che un’illusione.
Anche
se i nostri corpi non riescono a toccarsi, anche se le nostre mani non
riescono a sfiorarsi, le nostre anime sono sempre vicine; quando sei
legato a qualcuno davvero, quando sei legato a qualcuno nel profondo,
in modi talmente complessi da trovare difficile spiegarli, allora non
importa quanto tu sia lontano, non importa quali mari tu stia solcando
e quali isole si trovino davanti a te.
Vivi
con la consapevolezza di amare qualcuno con tanta e tale
intensità da trovare la forza di fare qualsiasi cosa, vivi
con la consapevolezza che da qualche parte, nell’immensa
distesa azzurra del mare, ci sia qualcuno che ti ama allo stesso modo e
questo è sufficiente.
E
non importa per quanto continuerai ad inseguire un sogno, un nemico, un
nuovo grado, non ha nemmeno importanza il tempo che scorre,
perché in fondo anche il tempo è in parte un
illusione; l’unica cosa che conta davvero è che
prima o poi tornerai a casa e quella casa non sarà
più un edificio con pareti di pietra e finestre di vetro, ma
quella stessa persona che così a lungo hai portato nel
cuore. E nel momento in cui realizzi tutto ciò, nel momento
stesso in cui ti rendi conto che la tua casa è con lui,
allora non importa più quanto tempo trascorra tra i vostri
incontri, non importa più la distanza, perché sai
bene che ovunque lui vada tu sarai con lui, anche se non fisicamente.
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