The Beast di nephylim88 (/viewuser.php?uid=221977)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** capitolo 8 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
“Prendiamo un caffè?”
Sobbalzai, alzando gli
occhi dal
progetto che avevo sotto al naso. Per un attimo ebbi la vaga
impressione che Sonia fosse stata decapitata. Ma non era così. La
mia migliore amica mi guardava dalle scale dell’impalcatura.
“Ma sì! Perché no? Tanto
non riesco
a cavare un ragno dal buco. Casomai mi dai una mano, più tardi?”
“Ma certo! Qual è il tuo
problema?”
“Non riesco a trovare il
blu da
utilizzare per il cielo dell’affresco. Non riesco a capire se sono
io a non essere più capace di fare il mio lavoro, o se è proprio
questo blu a essere così fetente.”
“Rilassati, dai! Hai solo
bisogno di
una pausa, in fondo sei qui da tre ore!”
Annuii. Poi mi alzai in
piedi. “Ahio!”
mugolai. È vero che non ero molto alta, ma trovarmi sul piano più
alto dell’impalcatura significava, almeno in quel caso, trovarmi
molto vicina al soffitto, costretta a stare leggermente curva per non
sbattere la testa.
“Ehi, fai attenzione! È
vero che
possiamo sistemare eventuali danni, ma dubito che un buco
nell’intonaco rientri nelle nostre competenze!”
Le feci una linguaccia,
ridacchiando
come se avessi ancora diciotto anni. Anche se quella nave era salpata
da un bel pezzo.
“Ho proprio voglia di una
bella
brioche!” esclamai, pimpante, mentre scendevo le scale.
“Alle undici di mattina? Ti
rovinerai
l’appetito!”
“E allora?”
“Fai come vuoi! Sei
maggiorenne e
vaccinata! Ma se ti sento ancora lamentarti che sei grassa ti prendo
a calci nel sedere!”
Avere a che fare con Sonia
era come
avere a che fare con il Grillo Parlante di Pinocchio. A volte era
proprio fastidiosa!
“Oh, andiamo, quante volte
mi hai
sentito lamentarmi che sono grassa?” adesso mi uccide!
Mantenne la calma,
stranamente. “Una
volta al mese. Vai in crisi mistica, mangi come un’oca all’ingrasso
per Natale, poi piangi perché non entri più nei jeans in cui
entravi tre anni fa.”
Scoppiai a ridere. In
effetti, da
quando era nato Paolo, avevo più difficoltà a contenermi nel
mangiare. Ormai il mio cucciolo aveva ventisei mesi, ma per me era
ancora una novità. E a volte questa novità mi spaventava, ma dovevo
restare in me. Quindi, avevo finito con lo sfogarmi sul cibo.
Fortunatamente, comunque, l’ansia stava diminuendo, insieme agli
attacchi di fame e ai chili. Tranne quando si avvicinava il ciclo. In
quel caso, poteva cascarmi il cielo sulla testa, ma niente mi avrebbe
tenuta lontana dal frigo. Anche se, di contro, non ci sarebbe stato
nulla a trattenermi dal piangere tutte le mie lacrime perché non ero
capace a controllare questi attacchi di fame. In pratica impazzivo,
con l’arrivo del ciclo. Salvo poi tornare nei ranghi in un paio di
giorni pensando che, dopotutto, anche se ero ancora un po’
sovrappeso, non ero mai stata obesa o anche solo grassa, e tutto
sommato non potevo lamentarmi troppo. In fondo, ero passata da una 40
pre-gravidanza a una 44 post-parto. Alberto, mio marito, apprezzava
le mie curve. Come le apprezzava il mio Paolino, quando lo tenevo in
braccio e si addormentava con la testa posata sul mio seno. Quindi,
potevo ben sopportare il mio nuovo fisico e qualche crisi l’anno!
“Devo ammettere, però, che
ultimamente ti vedo più di buon umore!” esclamò Sonia, rompendo
il flusso dei miei pensieri. Stavamo attraversando la strada per
andare al bar.
“E perché non dovrei?
Finalmente
Paolo dorme una notte filata e non strilla quando lo lascio in asilo.
Anche Alberto sembra molto più tranquillo, pare che a lavoro si
siano sistemate molte cose. E anche il nostro lavoro va alla grande.
Ho tutte le ragioni per essere di buon umore!”
Sonia sorrise, prima di
andare a
sbattere contro qualcuno.
“EHI!” strillò. La afferrai
per un
braccio, prima che cadesse a terra come un sacco di patate. Era
andata a sbattere contro Pamela, una nostra collega, che stava
uscendo dal bar. “Guarda dove metti i piedi!”
Pamela la fissò con un’aria
vagamente inebetita, prima di scrollare le spalle e bofonchiare uno
“scusa” sommesso.
“Scusa un corno! Potevo
ammazzarmi!”
sbottò Sonia, inviperita. “E mi spieghi che ci fai, qui? C’è il
cantiere incustodito!”
“Potevi controllare che ci
fossi,
prima di svignartela!”
“Va bene, basta così,
ragazze. C’è
stato solo un malinteso.” intervenni, prima che Sonia perdesse la
calma.
Pamela ci guardò,
sprezzante, poi
rientrò in chiesa.
“Dovevi proprio saltarle
addosso
così?” sbuffai, una volta dentro al bar.
“Ma l’hai vista? Va in giro
come se
non ci stesse con la testa!”
“Veramente eri tu ad essere
distratta. Senza contare che aveva ragione, prima di lasciare il
cantiere dovevamo almeno controllare che ci fosse qualcuno!”
“Adesso la difendi anche?”
“Certo che la difendo, non
ho niente
contro di lei, e stavolta sei tu ad avere torto!”
Sonia sbuffò. E anche io.
Aveva
trentadue anni, ma a volte ragionava come se ne avesse sedici. Era
molto melodrammatica, e proprio non poteva sopportare quella strana
ragazza che lavorava con noi da qualche mese a quella parte. In parte
la capivo, comunque.
Pamela era un personaggio
molto strano.
Era minuta, magrissima, dava l’impressione di potersi rompere da un
momento all’altro. Aveva il viso pallido tipico di chi non esce mai
al sole, gli occhi grigi e i capelli neri, lunghi, con riflessi
viola. Sospettavamo tutti che li tingesse, ma era impossibile
stabilirlo, visto che le sopracciglia erano ridotte a due
sottilissime righe. Il viso magro e affilato, gli occhi sempre
truccati pesantemente di nero, contornati da blande occhiaie
violacee, il rossetto nero (o color vinaccia molto scuro, a seconda
della giornata), i suoi vestiti… il tutto faceva pensare ad una
giovane Mortisia Addams. O a Mercoledì Addams. Con la differenza del
carattere. Anche se correvano le voci più disparate sul suo conto,
Pamela era gentile. Non amichevole, ma gentile. Se lo eri con lei,
ovvio. A quanto pare, in azienda ero l’unica ad andare d’accordo
con lei, almeno all’apparenza. In realtà non potevo dire di essere
amica sua. Eravamo troppo diverse. Prima di tutto, l’aspetto
fisico. In comune avevamo solo il fatto di essere donne e di essere
bassine. Ma io sono bionda, con un colorito più sano del suo, ho gli
occhi verdi e, almeno all’epoca, ero molto cordiale e sorridente.
E, se potevo evitare di truccarmi, ero solamente felice! Senza
contare che raramente indossavo vestiti neri, preferivo di gran lunga
i colori. Inoltre, io avevo trent’anni, ero sposata da quattro
anni, e avevo un figlio, lei… beh, non so nemmeno se avesse amici.
Insomma, eravamo persone completamente diverse, come il giorno e la
notte. Avevo molta più affinità con Sonia. Almeno, caratterialmente
parlando. Lei era una persona molto solare e vitale, nonostante in
quell’ultimo anno gliene fossero capitate di tutti i colori. Aveva
affrontato un divorzio pesante, con l’ex marito sempre pronto a
farle la guerra. Fortunatamente le cose le andavano meglio, tuttavia
la vedevo molto più stanca e meno desiderosa di scherzare. Almeno
non avevano avuto figli, o credo sarebbe scoppiata. Una volta
conclusa definitivamente la questione divorzio, aveva deciso di farsi
dei colpi di sole in testa. Abbinati ai suoi capelli rosso scuro, ai
suoi occhi verdi e alle sue lentiggini, stava davvero bene!
Qualcosa nel suo carattere
era
cambiato, comunque. Non era solo la disillusione nei confronti degli
uomini. Sembrava molto più astiosa nei confronti di chiunque, anche
nei miei. Ma, insomma, non potevo farci nulla, se non sperare che
prima o poi le passasse. Anche perché la conoscevo da anni, ormai, e
sapevo che era perfettamente inutile provare a parlarle. Avrebbe
sviato il discorso, nella migliore delle ipotesi. E comunque, era
migliorata moltissimo rispetto a quando litigava costantemente con il
suo ex. All’epoca ero incinta di Paolo e ricordo che, per ridurre
lo stress, avevo dovuto allontanarmi da lei. Mi dispiaceva, ma non
era simpatico sentire lei e il marito litigare anche davanti a me e
ad Alberto. Una volta separati, comunque, le cose tra me e lei sono
tornate alla normalità.
“Ciao, bellezze! Cos’è
questo muso
lungo?” Antonio, il vecchio barman, ci guardava dall’altra parte
del bancone. Ora, non so voi, ma io sono sempre stata affascinata dai
bar, dalle reception, da qualsiasi posto di lavoro che prevedesse un
contatto col pubblico con un bancone in mezzo. Mi sembrava sempre un
mondo incantato e misterioso, a cui avevano accesso pochi eletti.
Quando ero bambina, mi chiedevo sempre cosa ci fosse dietro a
quell’enorme banco. Crescendo, ho cominciato a vedere dietro ai
banconi, ma comunque la sensazione di mistero è rimasta intatta.
“Nulla, Antonio!” sorrisi
“Stavamo
parlando di Pamela!”
“Ah, Pamela! È un bel tipo,
quella!
Anche se, prima o poi, mi aspetto che venga a chiedermi del sangue
invecchiato trent’anni in una bara di rovere!”
Sollevai un sopracciglio,
mentre Sonia
ridacchiava educatamente. Come battuta, non avrebbe fatto ridere
neanche una gallina stupida, ma ormai era da un mese che lavoravamo
lì, ci eravamo abituate allo strano senso dell’umorismo di
Antonio.
“Ci prepari un caffè, per
favore?”
domandai.
“Macchiato!” Intervenne
Sonia.
Antonio sorrise di rimando,
prima di
mettersi al lavoro.
Rientrammo in chiesa. Salii
le quattro
rampe di scale che mi portavano al soffitto e mi rimisi al lavoro per
trovare la sfumatura di blu adatta a quel cielo che circondava
l’agnello dipinto nella mandorla. C’era una cosa che mi
sorprendeva di tanti affreschi. Quando entravi in chiesa, e guardavi
dal basso quei dipinti, vedevi le cose. Vedevi le espressioni del
volto, e ti sembravano anche dettagliate. Ma una volta montata
l’impalcatura, una volta vicino a quelle immagini, scoprivi che non
erano poi così dettagliate come poteva sembrare. Quelli che
sembravano dettagli, in realtà erano un’insieme di linee che,
viste da vicino, acquistavano solo un vago senso. Gli affreschi su
cui lavoravo non erano tutti così, ma tanti lo erano. Ed era una
cosa che, a distanza di anni, ancora mi stupiva.
“Ugh…” un giramento di
testa mi
fece fermare un attimo. Mi sedetti con molta calma e cercai di
prendere fiato. In effetti, era da qualche giorno che mi capitava. Ma
non capivo cosa potesse essere, non soffrivo di vertigini. Inspirai
profondamente. Espirai. Aprii gli occhi e mi rialzai con molta calma.
Niente, il giramento di testa continuava. Dovetti stendermi. Ma che
mi stava capitando?
“Tesoro? Hai ancora bisogno
di aiuto
per quel blu?” La voce di Sonia suonò strana, nelle mie orecchie.
Come se provenisse da un pozzo profondo. Mi voltai verso di lei, con
la netta impressione che i suoi capelli stessero andando a fuoco.
Sbattei le palpebre. La sensazione scomparve.
“Ehi! Mel! Tutto bene?” si
tirò su
con uno scatto quasi felino e corse verso di me.
“Sì, sì… scusami, ho avuto
una
vertigine e mi sono dovuta stendere.”
“E ti scusi anche?” Si
sedette a
fianco a me e mi accarezzò. Aveva le mani perennemente fredde, e il
suo tocco mi diede sollievo. Non mi ero neanche resa conto di
sentirmi scottare. Tuttavia, non mi sembrava di avere la febbre.
Sospirai. Mi sentivo un po’
meglio, e
glielo dissi.
“Sarà, ma tu adesso te ne
vai a
casa. Lavorare dopo un episodio del genere sarebbe troppo pericoloso.
Quindi, appena te la senti, alzi le chiappe e vai a casa a riposare.
Penseremo io e la Mortisia dei poveri a chiudere tutto.”
Non me la sentii di dire di
no. Dopo
qualche minuto, mi alzai e me ne andai verso casa.
Arrivata a casa, mi cacciai
in doccia.
Avevo ancora qualche ora prima di andare a recuperare Paolo
all’asilo. Alberto non sarebbe rientrato prima di sera. Potevo
tranquillamente sfruttare quelle ore per riposarmi un po’. Una
volta finito, strofinai energicamente la mia testa con un
asciugamano. Le gocce d’acqua correvano lungo tutto il mio corpo.
Una particolarmente grossa scivolò sul mio seno destro. Passai
l’asciugamano lì sopra. Ma… era una mia impressione, o il mio
seno era particolarmente gonfio? E da quando il mio seno si gonfiava?
Sentivo di donne a cui capitava in prossimità del ciclo. A me non
succedeva mai. Mi era capitato solo una volta, quando…
“Oh, accidenti…”
Mi rivestii in fretta e
furia e mi
precipitai in strada, verso la farmacia in fondo all’isolato. Non
ero del tutto sicura della mia ipotesi, ma era meglio verificarla il
prima possibile.
Mezz’ora dopo, ero di nuovo
in bagno,
seduta sul water con due bastoncini bianchi davanti a me. Due test di
gravidanza. Positivi entrambi. Ero incinta.
Sorrisi, felice. Il mio
desiderio più
grande era di avere più di un figlio, e sapere che ne stavo avendo
un altro mi rese la donna più felice del mondo.
Guardai la mia pancia, poi
le linee
rosse dentro alle grigliette del test. E un brivido freddo mi corse
lungo la schiena. All’improvviso mi sentii terrorizzata. Non ne
capii il motivo. Ma quell’attimo di terrore fu più che sufficiente
a guastare il mio buon umore. Cosa mi stava succedendo?
Buona sera a tutti!
Ecco qui un’altra storia!
Questa è
il risultato di una riflessione che ho fatto sulla mia vita, com’è
stata negli ultimi 8 anni.
La storia di una persona
come tante. Ha
le sue magagne, come tutti, ma, tutto sommato, vive una vita felice.
Trattandosi di un horror, però, sicuramente non le andrà tutto
liscio.
Al pari de “Le porte di
Avalon”,
anche questa è molto significativa, per me. Spero vogliate
accompagnarmi in questa avventura, anche se, probabilmente, ci
metterò abbastanza a scriverla. Scrivere una storia di un certo peso
emotivo non è mai semplice. Tanto più se è un horror. Non sarà
facile scriverla, lo so già. Innanzitutto, tocca un tema che, anche
se non l’avevo mai capito prima di qualche settimana fa, mi ha
toccata molto nel profondo. E poi, non voglio fare un horror
splatter. Con tutto il rispetto per chi scrive racconti di quel
genere, ma io vorrei riuscire a fare qualcosa di più psicologico,
pur sfruttando temi molto pesanti. Un’impresa che, almeno per me, è
qualcosa di titanico!
Quindi, che ne dite? Siete
pronti a
seguirmi?
Besos
Nephylim
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
“Confermo, Melania, lei è
incinta di
sette settimane.” Il dottor Righi mi guardava da dietro i suoi
occhiali spessi, con un mezzo sorriso.
“Oh.” Mormorai.
“Le raccomandazioni sono le
stesse
che le ho fatto quando è rimasta incinta la prima volta. Niente
sforzi fisici pesanti, – ecco a lei il certificato medico per la
maternità anticipata – niente cibi crudi, niente alcool, niente
fumo, beva molta acqua e si riguardi. Appena esce, prenda
appuntamento con la segretaria per un’ecografia, fra un mese.”
“Tutto qui?”
“Cosa vorrebbe dire?”
“Non ha nient’altro da
dirmi? È
tutto a posto?”
“Da quello che ho potuto
vedere, la
gravidanza sembra procedere normalmente. Ma questo è il primo
trimestre, quindi cerchi di fare particolarmente attenzione.”
Annuii. Non sapevo nemmeno
io perché
fossi così in ansia. Neanche con Paolo ero così impaurita. Ma se il
dottore sosteneva che era così, allora non dovevo fare altro che
rilassarmi. Dopotutto, il dottor Righi era un dottore molto stimato.
E con la mia prima gravidanza avevo avuto una bellissima esperienza.
A parte il parto, ovvio. Decisamente, non smaniavo all’idea di
rifare quella trafila di dodici ore. Forse era proprio quello a
mettermi tensione.
Mi congedai e uscii. Poi
telefonai ad
Alberto.
“Allora?” neanche mi
salutò, da
quanto era smanioso di sapere.
“Ciao, amore!” ridacchiai
“Tranquillo, il nostro secondo pupetto sta bene!”
Sentii mio marito ridere.
Lo amai
ancora di più. Quando ero rimasta incinta di Paolo era terrorizzato,
aveva paura di non arrivare ad amarlo abbastanza. Una volta visto il
faccino imbronciato del nostro piccolo appena nato, con i pugnetti
chiusi e i lineamenti gonfi per lo sforzo, però, si era sciolto e
aveva pianto come un bambino, commosso. Non vedeva l’ora di averne
un altro. All’epoca non ero così smaniosa, a dirla tutta. Ma nel
giro di un mese avevo ricominciato a considerare l’idea. Ma
avevamo pensato di aspettare, giusto per non pagare due rette
dell’asilo nido in contemporanea.
Chiacchierammo ancora un
po’, poi lo
salutai. Dovevo andare a prendere Paolino.
Appena mi vide, si
precipitò verso le
mie gambe come se non mi vedesse da un mese. Faceva sempre così. Lo
guardai nei suoi occhioni verdi. Ero sorpresa che avesse preso così
tanto da me. Ero sinceramente convinta che avrebbe avuto gli occhi
azzurri e i capelli castani di Alberto. Invece era venuto fuori un
angioletto biondo con gli occhi verdi. Certo, i capelli erano di quel
biondo che si sa già che scurirà col tempo, a differenza dei miei.
Intanto, però, la somiglianza con me era impressionante.
“Mamma!” strillò,
sorridendo.
“Ciao, amore mio!” lo presi
in
braccio e lo strinsi forte “mi sei mancato tanto!”
“Ciao, Mel!” Sara, la sua
maestra,
mi sorrise. “Ti trovo in splendida forma!”
“Grazie! A breve vorrei
cambiare gli
orari di Paolo, fargli fare solo mezza giornata.”
“Come mai?”
“Beh, sono appena stata dal
medico e
mi ha detto che sono incinta.”
“Oh, mamma mia!
Congratulazioni!”
“Grazie! Comunque, visto
che sarò a
casa, non mi dispiacerebbe tenere Paolo con me un po’ di più,
almeno finché non nasce il bambino. Ma è solo una mera ipotesi,
prima devo parlarne con Alberto. Intanto volevo avvisarti della
possibilità.”
“Ma certo! Appena decidi,
fammi
sapere! Congratulazioni ancora!”
Le sorrisi e me ne andai.
“Sai dove andiamo,
giovanotto?”
Paolo mi guardò, curioso.
“Andiamo dal nonno!”
“YEEEEEEEEEEEEEEEEEE!” solo
un
bambino poteva manifestare così tanto entusiasmo!
Lo caricai in macchina, e
venti minuti
dopo eravamo a casa di mio padre.
“Coraggio, principino e
signora
bella, entrate!” Esclamò mio padre quando ci vide.
Una volta dentro, papà ci
fece
accomodare. Preparò una banana con limone e zucchero a Paolo,
merenda di cui andava matto. Poi si rivolse a me. “un caffè,
tesoro?”
“Oh, no, grazie, papà!”
“D’accordo. Di quante
settimane
sei?”
“Cos…?”
“L’unica volta che hai
rifiutato un
caffè, eri incinta di questa piccola peste. Di quante settimane
sei?”
“Ma dai! Ero già partita
bella
carica con il discorso da farti! Hai rovinato tutto!”
Papà scoppiò a ridere.
“D’accordo,
allora! Poffare, figliola! Qual buon vento ti mena in queste lande
desolate?”
Dovetti trattenere una
risata. Usava
sempre quel tono, quando voleva prendermi in giro. “Oh padre, buone
nuove ti porto! Quando si estinguerà lo undicesimo mese, partorirò
un altro erede!”
Poi gli feci una
linguaccia. Lui mi
abbracciò, felice. Vedendoci così, Paolo cominciò a emettere
gridolini. Non siamo mai riusciti a capire se fosse geloso della sua
mamma o del suo nonno. Papà lo prese in braccio e gli diede un
grosso bacio.
“Tu come stai, invece,
papà?”
domandai.
Sospirò. Erano passati
tanti anni da
quando mamma era morta, tuttavia, a volte, papà sentiva ancora la
sua mancanza. Aveva avuto altre donne, ma non si era mai risposato.
Il loro era il classico esempio di amore oltre ogni limite. Nemmeno
la morte riusciva a separarli. Dopo vent’anni, papà ancora pensava
a lei. Ogni domenica, cascasse il mondo, andava al cimitero a
portarle dei fiori. Poi stava lì anche un’ora a parlarle.
All’inizio lo accompagnavo. Poi, crescendo ho cominciato a diradare
le visite, anche se non così tanto. Andavo con lui a domeniche
alterne. Mi piaceva fare visita alla tomba della mamma. Era un modo
di sentirla al mio fianco. Ma mi ero ritrovata a pensare che, forse,
era papà ad avere bisogno di quelle visite, per questo avevo
cominciato ad andare meno al cimitero. Fino a quando non mi ero
sposata. A quel punto, papà mi disse espressamente di non andare
più. “Non ha senso. Hai una tua famiglia, ora. Non pensare ai
morti. Pensa a tuo marito. Non è giusto togliere del tempo a lui.
Tua madre non tornerà.” Ricordo ancora il groppo che mi si era
formato in gola. Era un nodo dolorosissimo. Avrei tanto voluto dirgli
che anche lui avrebbe dovuto smettere di visitare la tomba della
mamma, che era ancora giovane, che mamma non sarebbe più tornata
neanche per lui. Tuttavia scelsi di tacere. L’avrei solo ferito
inutilmente. E non smisi di visitare la mamma. Scelsi semplicemente
un altro giorno in cui andare, portandole dei fiori. Papà
sicuramente se ne accorse, tuttavia non mi disse mai nulla. Si
limitava alla sua routine, senza intromettersi nella mia. Penso che,
a volte, nonostante lavorasse ancora e la sua vita sociale fosse
comunque molto attiva, si sentisse solo. Inoltre, lo vedevo più
smunto. Non era mai stato grasso, ma ora cominciavo a vederlo un po’
più gracile. Forse era l’età che avanzava anche per lui.
Dopotutto non mancava molto ai suoi sessant’anni.
“Tutto bene, tesoro.”
“Sicuro? Non ti vedo molto
bene.”
“Sono sicuro, piccola. Ho
solo un po’
di mal di stomaco. Niente che alla mia età non sia normale. Almeno,
da quello che dice il medico.”
Mi morsi il labbro. Se
aveva chiamato
il medico, probabilmente era più seria di come me la metteva.
“Conosco quello sguardo,
Mel. Stai
tranquilla, d’accordo? Per sicurezza, il medico mi ha prescritto
una gastroscopia, ma è solo per mettermi tranquillo. Al massimo sarà
un po’ di gastrite.”
Scrollai lievemente le
spalle, come a
dire “sarà…”
“Fammi sapere come va,
d’accordo?
Anche se saltasse fuori che avevi semplicemente mangiato qualcosa di strano,
fammelo sapere!”
“Certo, piccola, certo!
Solo, però,
se tu mi farai sapere come va con il futuro erede!”
Sorrisi e feci cenno di sì
con la
testa. Poi cambiammo argomento.
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Capitolo 3 *** capitolo 3 ***
“Bella signora, stasera ti porto a mangiare fuori!”
Alberto era rientrato tutto allegro. Non l’avevo mai visto così esaltato, neanche quando aspettavo Paolo.
“E dove vorresti andare, a cena?”
“Che ne dici di un sushi-bar?”
“Oh, Alberto, lo sai che non posso mangiare pesce crudo! E ora come ora, l’idea del fritto e del tofu mi dà la nausea!” incalzai, quando lo vidi aprire la bocca come a dirmi che avevo alternative anche al ristorante giapponese. E cavolo, avrebbe dovuto sapere che al giapponese mangio solo sushi!
“D’accordo!” rise lui “Cosa proponi?”
“Pesce?”
“Come la signora desidera!” esclamò, su di giri “ma ad una condizione!”
“Cioè?”
“Lasciamo a casa il nanerottolo! Chiama Elisa! Stasera ti voglio tutta per me!”
Sorrisi e annuii.
Alle 19.30 il campanello di casa suonò. Era arrivata Elisa, la ragazza che, un paio di volte alla settimana, faceva da babysitter a Paolo. Alberto e io la adoravamo. Era quel genere di persona sulla cui affidabilità non avresti scommesso due lire, a vederla. Aveva diciassette anni e una pettinatura che mai avrei permesso ai miei figli: metà testa rasata e l’altra metà ricoperta da rasta castani legati insieme con un nastro. Piercing a una narice, occhi castani rigorosamente truccati con matita nera sempre un po’ sbavata e vestiti comprati sicuramente alle bancarelle di abiti etnici da quattro soldi completavano il quadro.
Tuttavia, a me, come persona, piaceva molto, era più matura di quanto si potesse pensare. Adorava i bambini, e Paolo stravedeva per lei.
“Vieni qui, patato!” strillò Elisa, appena vide Paolo. Lui non era di buon umore, non la accolse con i soliti strilli. Si limitò a buttarsi in avanti perché lo prendesse, cosa che lei fece senza indugi.
Le lasciammo le solite istruzioni di rito, poi uscimmo a cena.
Era tutto perfetto. Locale elegante, luci soffuse, Alberto che mi guardava con occhi innamorati, lieve mormorio delle persone attorno a noi…
La zuppa di pesce e l’astice che avevo ordinato erano favolosi. Alberto aveva preso invece un po’ di branzino, e dimostrava di gradirlo ampiamente. La mia fame da gravidanza stava cominciando a farsi sentire (chiamiamola pure “fame da gravidanza” e non “fame da ohmannaggiaquantomipiaceilpescepanciamiafatticapanna”!), tuttavia riuscii a trattenermi. Anche se una fetta di dolce la ordinai. Una fetta di tronchetto al limone, fresco di pasticceria.
Mentre finivo di mangiare, un soffio gelido mi sfiorò la schiena. Guardai attentamente le finestre del ristorante, per essere sicura che fossero chiuse. Lo erano. Che strano. E poi, perché avevo sentito così tanto freddo? Il locale aveva il riscaldamento attivo, e poi eravamo a maggio. Sicuramente fuori non faceva così freddo! Qualcosa non andava. All’improvviso realizzai che avevo la fronte imperlata di sudore e la testa mi girava. Sembrava un sintomo da gravidanza. “Amore?” la voce di Alberto mi giunse come un’eco remota, inframmezzata dai battiti furiosi del mio cuore che rimbombavano violentemente nelle mie orecchie.
“Signora?” la maîtresse mi poso la mano sulla spalla destra. Mi voltai verso di lei, ritrovandomi a fissare il muso di un molosso nero. Strillai e serrai gli occhi. Quando li riaprii, era tornato tutto alla normalità.
“Mel! Tutto bene?” Alberto, nel frattempo, si era alzato e si era accucciato alla mia sinistra.
Mi toccai la faccia, ancora madida di sudore, come se dovessi tenerla ferma. Guardai di nuovo la maîtresse. Era sempre la signora sulla quarantina che ci aveva accolto a inizio serata.
“S-sì… sì… scusate, ho solo avuto un calo di pressione. Mi spiace avervi fatto tanto preoccupare…” mormorai, perplessa.
“Sa, mia moglie è incinta. Magari è stato questo a sconvolgerla un po’.” Spiegò Alberto alla signora.
“Davvero? Oh, congratulazioni!”
Il resto della loro conversazione si perse nei meandri dei miei pensieri. Ero abbastanza sicura che quello che avevo vissuto non fosse poi così legato alla gravidanza. Sì, ok, giramento di testa, sudore, ma il freddo? E quell’allucinazione? |
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Capitolo 4 *** capitolo 4 ***
Vagavo in un corridoio oscuro. Ciononostante riuscivo a distinguere
le cose intorno a me. Il posto sembrava la cripta di una chiesa
gotica, con le pareti in pietra e le volte a crociera che incombevano
su di me. Ogni tanto l’oscurità opprimente veniva intervallata da
piccole nicchie in cui rilucevano lanterne. Paradossalmente, le zone
illuminate non contribuivano a rendermi più tranquilla. Anzi,
aumentavano l’atmosfera cupa che si respirava. Inciampai su uno
scheletro riverso a terra e caddi. Ero convinta di essere seguita, ma
non c’era nessuno e non riuscivo a correre per togliermi da lì.
Incedevo con passo lento e stremato, ansimando in preda al panico. Il
mio respiro si condensava in sbuffi di vapore davanti al mio viso. Di
fronte a me, in fondo al corridoio, si materializzò una luce fioca.
Mi strinsi nel mantello nero che indossavo, tremando infreddolita.
Poggiai la mano sulla mia pancia, dove sapevo esserci il mio bambino
che (almeno speravo) riposava tranquillo. Il tocco non contribuì a
calmarmi come speravo, ma mi diede comunque la forza di andare
avanti. Raggiunsi la luce fioca in un tempo che mi sembrò infinito.
Mi ritrovai in una grande stanza illuminata dal furioso fuoco che
rombava in un enorme camino. In mezzo alla stanza, in cerchio,
stavano cinque persone avvolte da pesanti cappe nere, ognuna posta
sulla punta di un’enorme stella nera disegnata sul pavimento, con
in mano una candela nera spenta. Cercai di aguzzare la vista, e vidi
che la stella non era completa, mancava il lato orizzontale, ed era
inscritta in un cerchio. Negli spazi vuoti del pentacolo c’erano
degli strani fregi, forse delle croci.
Al centro del pentacolo
stava un fagotto coperto da un telo nero. Non ne ero sicura, ma il
fagotto sembrava muoversi e lamentarsi debolmente.
“Dove sono?”
mi rivolsi alle persone che stavano in cerchio. Nessuna
risposta.
“Cosa sta succedendo?” ancora niente. Una forza
misteriosa cominciò a spostare il telo da sopra il fagotto. Come
ipnotizzata, fissai il telo che si muoveva fino a che non rivelò il
piedino di un neonato. Scossi la testa, indietreggiando fino a
scontrarmi contro qualcosa. Mi voltai e mi ritrovai a fissare in
faccia un enorme cane nero, lo stesso che avevo visto al ristorante.
Al garrese era grande almeno quanto me. Andai quasi in
iperventilazione vedendo che la sua pelliccia era mezza mangiata da
larve. La sua carne era divorata dai vermi, ma, nonostante questo,
quella bestia era chiaramente muscolosa e possente. Sotto la pelle
erano visibili delle… cose … che si muovevano. A
intuito
si sarebbero detti scarafaggi. Qui e lì si intravedevano le ossa
della bestia. Vacillai in preda al disgusto, aumentando la presa
sulla mia pancia, quasi a proteggere mio figlio da una visione tanto
orribile.
Il cane mi fissò, poi andò con incedere solenne verso
il centro del pentacolo. Adesso il neonato era del tutto scoperto. Un
maschietto. Era così carino, così dolce e innocente… mi guardò e
sorrise, addirittura, i ciuffetti rossi sulla sua testolina
evidenziati dal fuoco del camino. Non avevo idea di chi fosse, quel
bambino, né del perché fosse lì, ma il mio istinto mi diceva che
avrei dovuto provare a prenderlo in braccio e a portarlo via da lì.
Tuttavia non riuscivo a muovermi. Vidi la bestia guardarlo e leccarsi
i baffi. In quel momento le candele in mano alle persone si accesero.
A quel punto il bambino cominciò a piangere. Nella mia testa
riecheggiava un infinito eco di “no, no, per favore, no!”. Il
cane mi fissò con aria di sfida, come a dirmi di andarmi a prendere
il bambino. Ma non riuscivo a muovermi e la bestia lo sapeva. Ero
terrorizzata, ormai avevo capito cosa stava per succedere. Non volevo
che succedesse. Per favore, no!
Sono sicura che il cane
mi sentì. Tuttavia mi ignorò e fissò il bimbo con aria famelica.
Il piccolino strillò istericamente. Fu l’ultimo suono che emise,
prima che la bestia si avventasse su di lui, sbranandolo.
Io
urlai. Urlai. E urlai.
Caddi dal letto, singhiozzando
violentemente. Poi mi ritrovai china sul water a vomitare la cena
della sera prima. Non ricordavo nemmeno come ci ero arrivata. Quando
ebbi finito, Mi sentivo gli occhi gonfi e un sapore orribile in
bocca. Mi guardai allo specchio. Lo sforzo del vomito mi aveva
riempito la faccia di puntini rossi. Sembravo un cadavere. Camminai a
passettini strascicati fino alla mia camera. Il letto matrimoniale
era vuoto. Secondo la sveglia erano le nove passate. Ma certo. Visto
il mio calo di pressione della sera prima, Alberto aveva preferito
occuparsi di Paolo, lasciandomi dormire. Me ne aveva anche parlato,
ma ero abbastanza confusa, quindi mi era passato di mente. Andai al
tavolo in cucina, lasciandomi cadere pesantemente su una sedia.
Buon
Dio, che sogno orribile! Lo sapevo, era solo un incubo, ma sembrava
così reale… Speravo fosse una piccola
intossicazione ad
avermelo provocato. Per buona misura, avrei tolto i dolci dalla mia
alimentazione. E avrei cercato di contenermi ulteriormente, nel
mangiare, anche se, per quello, avrei dovuto consultare il dottor
Righi. Non volevo rischiare di mettermi a seguire una dieta
sconsiderata e far nascere il mio cucciolo denutrito. Ma intanto,
magari, quel libro di racconti dell’orrore di Ambrose Bierce
avrebbe atteso il parto, prima di essere terminato. Così, giusto per
ulteriore precauzione.
In verità, per chissà quale motivo, non
ero così sicura che la cosa avrebbe aiutato granché. Ma un
tentativo lo potevo fare.
Il mio cellulare squillò,
distogliendomi dai miei cupi pensieri. Era mio padre.
“Ciao,
papà!” risposi “Come mai a casa?”
“Ciao Mel. Sono appena
stato dal medico per la gastroscopia.” Qualcosa non andava. Perché
quel tono così serio?
“Cosa succede, papà?”
“Pare che
ci sia qualcosa che non funziona.”
“Che cosa?” sentii il mio
stomaco farsi di piombo.
“Non si sa ancora nulla, mi
consegneranno i risultati la settimana prossima. Ma potrebbe essere
qualcosa di più serio di un semplice mal di stomaco.”
Restai in
silenzio ad assimilare la notizia.
“Mel?”
“Potrebbe
essere una semplice ulcera, no?” mormorai, speranzosa.
“Può
darsi, tesoro mio, può darsi.” Non mi sembrava molto convinto.
“Cerca di stare serena, d’accordo? Non so neanche perché ti ho
chiamato, alla fine. Dopotutto non ho notizie certe della cosa,
magari è una sciocchezza.”
Annuii, anche se sapevo che non
poteva vedermi. “Riguardati, papà, d’accordo?”
“Certo,
tesoro. Anche tu. Non ti sento molto tranquilla.”
“Oh, nulla
di che, ho solo avuto una notte alquanto agitata.”
“D’accordo,
allora. Riposati, va bene? Ne hai bisogno.”
“Certo, papà. Un
bacio.”
“Un bacio, tesoro.”
Appoggiai
il telefono sul tavolo, poi mi alzai per prepararmi una tisana,
cercando di non pensare a niente.
Angolo
autrice: Eccomi qua! Spero che, finora, il mio racconto vi stia
piacendo! Qualora voleste lasciare recensioni, sappiate che saranno
molto gradite!
Ringrazio
Knetgummi e La Luna Nera, che hanno messo questa storia tra le
seguite. Ringrazio sempre La Luna Nera, che ha recensito regolarmente
la storia. Ringrazio anche Vale The Wolf/The Killer per la recensione
che ha rilasciato all’inizio di questo parto della mia fantasia.
Un
grazie va anche a Namary, che, conoscendomi personalmente, recensisce
le storie direttamente alla fonte!
Dunque,
per quanto riguarda questo capitolo, volevo chiarire un paio di
cose.
Innanzitutto
un piccolo glossario: il garrese, per chi non lo sapesse, è il punto
più alto della schiena di un animale a quattro zampe (non dove
inizia il collo, sia chiaro).
Poi,
non sono un’esperta di simbologia satanica, ho semplicemente
sfruttato la superstizione cristiana per descrivere quel simbolo (le
croci che Mel vede nel suo sogno, sono croci da interpretarsi come
rovesciate). Tra l’altro, giusto per togliere un po’ di
pregiudizi, in realtà il pentacolo non è
un simbolo malefico. Ha varie funzioni, ma per lo più è un simbolo
di protezione. Infatti ho fatto in modo che il pentacolo fosse
incompleto per rispetto alla sacralità del simbolo (oltre al fatto
che, secondo le superstizioni cristiane più radicate, i simboli
incompleti sono legati a Satana).
Ciò
non toglie che i pazzi posso prendere i simboli e usarli a loro
piacimento, dissacrando loro e traviando i loro seguaci (il nazismo
con la svastica ne è un esempio lampante, visto che la svastica è
il simbolo orientale del sole).
Scusate
la piccola lezioncina.
Dunque,
da quello che potete intuire, le cose adesso cominciano a mettersi
male per Mel. Già quest’incubo non è stato facile da descrivere
(niente spoiler), da adesso in poi le cose andranno peggiorando.
Ecco
a voi il simbolo nell’incubo di Mel. Abbiate pazienza, l’ho
buttato giù abbastanza in fretta. Fatemi sapere se riuscite a
visualizzarlo, per favore.
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Capitolo 5 *** capitolo 5 ***
Erano
passate circa
due settimane. Chiacchieravo amabilmente con Sonia mentre la guardavo
ridipingere una pianta sull'affresco della piccola cappella. In
teoria, vista la mia gravidanza, non sarei dovuta trovarmi lì
neanche per sbaglio, ma non riuscivo più a stare a casa. Secondo
Righi andava tutto bene, ma io non stavo reagendo positivamente alla
gravidanza. Passavo praticamente tutti i santi giorni a letto.
Non
avevo nausee, ma
forti giramenti di testa che mi prendevano particolarmente al calare
della sera. Inoltre, avevo sempre freddo, nonostante l'estate fosse
sempre più vicina. Per non parlare degli incubi. Dopo quello sul
bimbo divorato non ne avevo avuti di così lucidi, tuttavia il mio
sonno era estremamente agitato. Vista la situazione, Alberto si era
rifiutato categoricamente di far fare orario ridotto a Paolino. Ero
troppo stressata, e ciò non contribuiva affatto a migliorare l'umore
di nessuno. Avevamo preso a chiamare Elisa molto più spesso, visto
che mi sentivo sempre molto stanca. Mi piangeva il cuore affidarle
Paolino così spesso, anche se ero a casa, ma non potevo fare altro,
non avevo le energie per stargli dietro.
“Comunque
ogni
tanto lo coccoli, vero?” mi chiese Sonia, quando le parlai della
situazione.
“Ma
certo! Sto con
lui almeno un'ora al giorno, da quando lo vado a prendere a quando
arriva Elisa!”
“E
gli dici che
gli vuoi bene, vero?”
“Sicuro!”
“Gli
spieghi
perché ultimamente non stai più con lui, vero?”
“Ha
due anni,
Sonia!”
“E
quindi? Non è
mica stupido!”
Scossi
la testa, con
un mezzo sorriso.
“Ehi,
Mel! Vuoi un
bicchiere di the freddo?” La voce di Pamela, dall'altra parte della
chiesa, catturò la mia attenzione. Mi voltai verso di lei, che
sventolava un thermos nella mia direzione.
“Ehi,
Pamela!
Certamente!” Mi alzai e andai verso di lei.
“Occhio,
potrebbe
essere avvelenato!” mormorò Sonia.
“Piantala...”
risposi.
“Ehi,
Sonia!
Guarda che ti ho sentito!” strillò Pamela.
“Vedi
che sei una
creatura della notte? Hai un udito da pipistrello!”
“No,
semplicemente
non ti sei preoccupata di sussurrare e questa chiesa ha un'acustica
perfetta!”
Vidi
Sonia arrossire
e ridacchiai. Questa volta il punto andava a Pamela.
“Allora?
Come
stai?” mi chiese, una volta raggiunta.
La
fissai per un
attimo, sorpresa. Non era da lei essere così espansiva.
“Non
guardarmi
come se fossi un'aliena! Mi sono più che sufficienti le occhiatacce
della tua amichetta laggiù!”
“Ok,
scusa! È
solo che di solito stai sulle tue...”
“Finché
sei
accoppiata a quell'oca, non puoi pretendere che abbia voglia di fare
conversazione!”
“Ehi,
stai
parlando della mia migliore amica!”
“Hai
ragione,
scusami. Ho esagerato. Ma di una cosa sono sicura: meriti di meglio
di lei.”
Le
lanciai uno
sguardo scettico. Ero anche stupita di questa sua sincerità, a dirla
tutta. Così mi limitai a fare spallucce, sorseggiando il the.
“Allora,
come
stai? Ho sentito che non te la passi molto bene.”
Feci
spallucce
nuovamente. “Periodi che capitano a tutti, suppongo...” mi
interruppi, vedendo qualcosa di familiare che riposava sul suo petto.
Un pentacolo.
Afferrai
il
ciondolo. “Ehi! Che ti prende???” protestò Pamela.
No,
non era uguale
al simbolo che avevo sognato io, anche se per un attimo mi era
sembrato fosse così. Lasciai andare il monile, confusa.
“Scusami,
Pamela.
Sono solo un po'...”
“...matta?”
Scossi
la testa. “Mi
spiace. Che cosa vuol dire quel simbolo?”
“Beh...”
lo
sguardo truce fu sostituito da uno lievemente preoccupato. “è un
simbolo di protezione. Ma... perché me lo chiedi?”
“Non
è satanico?”
Lei
sbuffò. “Ogni
volta la stessa domanda idiota! No, affatto! È un simbolo pagano che
non ha niente a che spartire con satana! Anzi, in linea strettamente
teorica, i pagani neanche ci credono, a satana!”
Scrollai
la testa,
ancora più confusa.
“Perché
mi fai
queste domande, comunque? Non ti credevo tipa da occultismo!”
“Non
lo sono,
infatti... Ho solo fatto un sogno, di recente, dove c'era un
pentacolo, ma era incompleto...” biascicai.
Il
suo interesse si
fece più vivo. “Ne sei sicura?”
“Sì...
perché?”
“Di
solito, un
simbolo storpiato è simbolo di sfortuna. I satanisti sono esperti,
in questo...”
In
quel momento, il
mio cellulare vibrò. Era mio padre.
“Devo
rispondere,
Pamela, scusami!”
Pamela
fece un vago
cenno di assenso.
“Pronto,
papà?”
“Tesoro?
Ho
bisogno di parlarti.” sembrava affaticato, come se dovesse lottare
per ogni parola che usciva dalla sua bocca. Mi misi subito sul chi
vive.
“Tutto
bene?”
“Non
proprio,
tesoro... riesci a venire qui, per favore?”
“Arrivo
più
presto che posso.” Misi giù il telefono.
“Ragazze,
devo
correre da mio padre! Temo che non stia bene!”
Borbottarono
qualche
frase di circostanza, credo. Ma non le sentii bene, ero già
schizzata fuori.
Venti
minuti dopo
ero a casa sua, davanti a un bicchiere di succo e a una fetta di
torta.
“Andiamo,
papà.
Perché mi hai chiamata? Cosa sta succedendo?”
Si
sedette davanti a
me, incrociando le dita delle mani e sospirando profondamente.
Attesi, accarezzandomi il punto dove sentivo il mio “pesciolino”
andare avanti e indietro, dentro di me. Il mio piccolino sembrava
percepire la tensione.
“La
scorsa
settimana mi hanno dato i referti.”
Aggrottai
le
sopracciglia. “No, mi hai detto che le analisi erano in ritardo...”
“Ho
mentito. Non
volevo ti preoccupassi, e poi volevo stare da solo per un po', per
digerire il colpo...”
“Il
colpo? Quale
colpo? Papà, che sta succedendo?”
Sospirò
di nuovo.
“Mel, tesoro, ho un cancro allo stomaco.”
Nota
dell'autrice:
ecchime di ritorno! Lo so, è passata una marea di tempo! A mia
discolpa, il motivo principale è stata la botta di sfiga! Avevo
scritto il capitolo, ma poi, siccome tengo il documento anche in una
chiavetta, l'unica copia del capitolo è andata persa perché il pc a
cui lavoravo ha deciso di perdere tutti i dati! Mi ha fatto la stessa
storia anche con l'altra mia long in corso! Ci ho messo del bello e
del buono a recuperarle e comunque, come le ho recuperate, le ho
perse di nuovo prima di poterle trasferire sul mio pc! A quanto
sembra avevo un programma che aveva deciso di non lasciarmele tenere!
Lasciamo perdere, và!
Faccio
i
ringraziamenti molto di fretta, questo giro! Quindi, grazie a tutti
quelli che hanno letto! E grazie anche a La Luna Nera, che commenta
con puntualità svizzera ogni capitolo!
A
proposito, dopo
averne dette tante, ho risistemato il capitolo 4, in cui, alla
buon'ora, si vede anche il pentacolo! Questa volta ho fatto una cosa
veramente chic, con il pc (il mio primo tentativo era un disegno
fatto a mano).
Fatemi
sapere cosa
ne pensate!
E...
se commentate
un pochino di più, non mi offendo! :b :)
|
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Capitolo 6 *** capitolo 6 ***
Rimasi
in silenzio
per un tempo che mi sembrò lungo un'infinità. Sentivo il silenzio
invadere i miei timpani. Il mio pesciolino si agitò ancora un po'
dentro di me, prima di acquietarsi.
“Mel,
mi dispiace
tanto, so che hai già tanti pensieri...”
Scossi
la testa.
Ancora non sapevo cosa pensare. Così alzai lo sguardo verso di lui.
“A che punto è la malattia?”
“Fortunatamente
il
tumore è ancora piccolo. Non è più allo stadio iniziale, ma i
medici sono ottimisti. Tra una decina di giorni mi sottoporrò ad un
intervento, poi mi faranno la chemioterapia.”
Non
sapevo se
sentirmi sollevata o infuriata. Optai per la seconda soluzione.
“Perché
diavolo
non sei andato prima dal medico? Ma che ti è saltato in testa?”
“Mel,
calmati...”
“Un
corno!
Spiegami perché hai aspettato così tanto prima di andare dal
medico!”
“Non
pensavo fosse
importante...”
“Certo!
Come no!
Dopotutto, hai un mal di stomaco che non ti spieghi e lo trascuri!
Tanto, chissenefrega di cosa potrebbe essere realmente! E a me non
hai pensato??”
Scoppiai
in lacrime.
Lui mi accolse tra le sue braccia. Singhiozzai per un bel pezzo, fino
a calmarmi. Aveva capito che ero sconvolta da tante cose tutte
insieme. La gravidanza, che stavo vivendo malissimo, il fatto che non
riuscivo a godermi mio figlio come avrei voluto, i miei incubi... e
ora questo...
Cominciò
a
cullarmi.
“Ti
voglio bene,
papà...”
“Ti
voglio bene
anch'io, tesoro.”
“Oh,
amore, mi
spiace tanto!” Alberto mi guardava comprensivo attraverso lo
specchio, mentre si faceva la barba. Doveva uscire per una cena di
lavoro. Dal salotto si sentivano le voci di Elisa e Paolo che
giocavano.
Scrollai
le spalle.
A dire la verità non sapevo nemmeno cosa dire. Cosa si dice in
circostanze simili?
“Sicura
di non
voler venire?”
Annuii.
“Sicura,
tesoro.”
“Mel,
posso
chiederti un favore?” Elisa interruppe il corso dei miei pensieri,
mentre preparavo la cena per lei e Paolo.
“Dimmi
tutto!”
“Potresti
dare
un'occhiata al mio compito, mentre nutro la piccola belva?”
Sorrisi.
“Perché
vuoi che sia io a guardare il tuo compito? Non puoi chiederlo a tua
madre o a tuo padre?”
“Mia
madre è
troppo impegnata a provarci con gli uomini delle altre, e mio padre
ci ha abbandonate quando ero piccola.” quasi mi pento di
averti
fatto una domanda del genere.
“Mi
dispiace, non
lo sapevo!”
“Non
preoccuparti,
non potevi saperlo, non te ne ho mai parlato!”
“Sì,
ma ormai è
da un pezzo che lavori qui, come minimo avrei potuto mostrare un po'
di interessamento!”
“Ma
figurati, non
è un problema! Anzi, apprezzo che tu non mi abbia mai fatto domande
personali! Allora, darai un'occhiata al mio compito?”
“Di
che compito si
tratta?”
“Italiano.
Scrivere un articolo di giornale su un fatto di cronaca che ci ha
colpito. Personalmente, mi piace com'è venuto fuori, ma vorrei un
parere esterno.”
Annuii,
sentendomi
anche vagamente lusingata. Lei mi allungò il foglio.
Dopo
cinque minuti,
glielo restituii. “Molto bello!”
“Dici
sul serio?”
“Tieni
conto che
sono una capra, su questo argomento. I miei punti forti sono il
disegno e la storia dell'arte. Ma mi sembra scritto bene!”
“Grazie!”
“Ma...”
esitai
“Come mai proprio quell'argomento?”
Il
testo trattava di
uno stupratore seriale che da un po' terrorizzava la città.
Lei
scrollò le spalle. “Ho fatto alcune ricerche. Pare che 'Jack the
Raper', come l'ha definito un giornalista che secondo me dovrebbero
licenziare in tronco, se la prenda per lo più con ragazze della mia
età. Non so, questo particolare mi è rimasto impresso. Senza
contare il profilo psicologico ipotetico illustrato dagli psichiatri.
Secondo loro, è probabile che 'Jack' sia un uomo piuttosto giovane,
fra i trenta e i quarant'anni. Probabilmente è un uomo normale,
apparentemente. Forse ha passato l'adolescenza a vedersi respinto
dalle sue coetanee, e ora si rifà sulle ragazzine, essendosi accorto
che ora, in confronto a lui, sono deboli e indifese.”
Un
brivido corse
lungo la mia schiena. “Lo sai che sei inquietante, vero?” cercai
di scherzare.
Lei
rise. “Sì, lo
so, non è una cosa adatta a una ragazza della mia età. Ma... non
so, questa cosa mi è rimasta impressa! E poi, è giusto anche
informarsi, su certe cose, no?”
Le
sorrisi “Farai
un figurone, a scuola, te lo garantisco!”
Dopo
due ore ero a
letto. Elisa se n'era andata dopo aver messo a letto Paolo. Non
riuscivo a dormire, mi sentivo stranamente inquieta, come se fossi in
attesa di qualcosa. Il silenzio che era piombato in casa era pesante.
Il caldo stava diventando afoso. Mi alzai per aprire la finestra e
fare circolare un po' d'aria.
“Mamma!”
sentii
Paolo chiamarmi con voce sonnolenta. Mi avviai verso la sua camera.
“Mamma...”
mi
richiamò nuovamente. Ma la sua voce aveva qualcosa di strano,
sembrava quasi sofferente. Cercai di accelerare il passo, ma mi
accorsi che le mie gambe erano sempre più pesanti. La camera di
Paolo sembrava così lontana, eppure era di fianco alla mia! Mi
fermai a tirare il fiato. Poi riprovai ad avvicinarmi. A fatica ,
dopo un tempo quasi eterno, ci arrivai.
Mi
avvicinai al
lettino del mio cucciolo. Quello che vidi mi riempì di orrore.
Portai la mano alla bocca, tentando di trattenere un urlo. Funzionò
solo in parte, mi lasciai scappare un gemito.
Paolo
era steso sul
letto, le mani raccolte ordinatamente sulla pancia, il viso cereo.
Attorno a lui, quasi a decorare un altare infernale, c'erano delle
rose nere le cui foglie erano divorate da larve.
Cercai
di trattenere un conato di vomito, mentre la mia mente pensava
ossessivamente è solo un incubo, solo un incubo,
uno
stramaledetto, fottutissimo incubo. Mel, svegliati, svegliati,
dannazione SVEGLIATI!
In
quel mentre Paolo aprì gli occhi. Emisi un altro gemito angosciato.
Non erano i soliti occhi verdi del mio Paolino, ma dei profondi buchi
neri. Poi il corpicino del mio piccolo si levò nell'aria e prese a
fluttuare davanti ai miei occhi inorriditi. Aprì la bocca. “Sei
davvero sicura di conoscere le persone che ti
circondano, mamma?” Poi scoppiò a ridere. Una risata acida,
stridula, così diversa da quella di mio figlio. Indietreggiai,
terrorizzata. Andai a sbattere contro qualcosa. Mi voltai,
ritrovandomi a fissare il cane nero che già avevo visto altre volte.
A quel punto urlai con tutto il fiato che avevo in corpo.
“Mel!
Amore,
svegliati!” la voce di Alberto mi riportò alla realtà.
Mi
tirai a sedere
prima ancora di svegliarmi del tutto. Ansimavo, sudata fradicia.
Respirai a fondo. Una volta. Due volte. Una terza volta. Non mi portò
la pace che speravo nella mia testa, ma almeno contribuì a calmare
il mio corpo. Riuscii persino a non vomitare.
“Hai
avuto un
incubo?” mi chiese mio marito, accarezzandomi i capelli. Annuii.
“Stai
meglio?”
annuii nuovamente, sapendo di mentire. Guardai l'ora. Le due del
mattino.
“Come
mai sei
tornato così tardi?”
“Non
mi ero
accorto dell'ora. Mi sono trattenuto con i miei colleghi fino a poco
fa.”
“Spero
tu abbia
passato una bella serata.” sussurrai, prima di stendermi
nuovamente.
Pensavo
che non
avrei più dormito, ma ripresi sonno quasi immediatamente. Un sonno
senza sogni.
|
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Capitolo 7 *** capitolo 7 ***
Nelle settimane che seguirono, la mia situazione migliorò. La gravidanza procedeva bene. Avevo fatto anche un’amniocentesi per essere sicura che mio figlio stesse bene. Non che normalmente fossi a favore di esami invasivi in gravidanza (beh, esami invasivi in generale), ma ero in preda ad un’ansia incredibile, e non riuscivo a capire perché. Anche Alberto, alla fine, cominciò a caldeggiare perché facessi quel test. Risultò tutto a posto. Anzi, ci dissero anche il sesso del bambino. Era una bimba.
Col tempo sparirono le nausee e gli incubi si diradarono. In realtà, il mio sonno era ancora agitato, alla mattina mi svegliavo stanca, e avevo ancora un nodo di ansia alla gola che non mi abbandonava mai. Ma era senz’altro meglio degli incubi e del freddo che mi avevano accompagnato durante le settimane precedenti!
Riuscivo anche a stare dietro a Paolo, ora. Chiamavamo ancora Elisa, perché comunque avevo bisogno di aiuto, ma era diverso. Adesso non stavo più stesa a letto come una povera esaurita. Riuscivo anche a fare le pulizie.
Ogni giorno chiamavo papà, per sapere come procedeva. Lo avevano operato, l’operazione era andata bene e ora era sotto chemioterapia. Due volte a settimana lo andavo a trovare per aiutarlo in casa e per fargli un po’ di compagnia.
Insomma, nonostante tutto, le cose sembravano marciare. Tuttavia… non mi sentivo tranquilla. Ogni volta che guardavo la mia pancia sempre più visibile, o mio figlio, o mio padre, o mio marito, mi prendeva un terrore inspiegabile. E poi, l’ho già detto, alla notte non dormivo bene, mi sembrava di essere sempre scomoda. A volte mi sentivo anche osservata, mentre mi preparavo per andare a letto o mentre leggevo un qualsiasi libro per addormentarmi. Senza contare quel terribile incubo che riguardava il mio Paolino... sul momento non avevo proprio pensato ad andare a controllare che stesse bene, forse perché era stato Alberto a svegliarmi, se si fosse accorto che qualcosa non quadrava sarebbe andato lui stesso a controllare. E poi la mattina dopo Paolo era sveglio e pimpante come al solito. Nonostante questo, però, mi riscoprii ancora più ansiosa. Dalla sera dopo cominciai a controllare regolarmente la camera di Paolo. Fortunatamente, ebbi il buon senso di farlo quando lui era già addormentato. Non volevo spaventarlo più del necessario, altrimenti solo Dio sapeva che razza di squilibrato sarebbe diventato, vedendo sua madre impazzire in quel modo e cercare mostri che non esistevano. Entravo in camera, guardavo rapidamente in giro, lo mettevo a letto. Dopodiché aspettavo che si addormentasse, poi guardavo dentro il suo armadio, sotto il suo lettino, se ero particolarmente nervosa aprivo le finestre e controllavo… beh, finivo col controllare che non ci fosse nessuno appeso al muro di casa, visto che abitavamo al secondo piano. Il più delle volte, però questa mia ansia non serviva a nulla. Più che altro perché nel bel mezzo della notte mi svegliavo e quindi, già che c’ero, mi precipitavo in camera di Paolo per controllare che stesse bene.
Non successe praticamente più nulla di strano per diverse settimane. Precipitò tutto nel momento stesso in cui cominciai a rilassarmi.
Cominciò con una cosa molto banale. Alberto. Amavo mio marito, lo amavo davvero. Ma cominciava a darmi ai nervi. Mi aveva consigliato più e più volte di andare a consultarmi con qualcuno per queste mie ansie. Come se fossi pazza. In realtà ne avevo già parlato col dottor Righi e lui sosteneva che fosse tutto normale. Gli sbalzi ormonali potevano causare quei colpi di freddo e probabilmente le allucinazioni e i brutti sogni erano dovuti allo stress. Dopotutto, mio padre era malato di cancro, il primo parto era stato piuttosto difficile (anche se dubitavo fortemente che esistessero parti facili, del tipo “uno, due e un due tre, ecco il suo bimbo, signora!” “già faaaattoooo??”) e poteva tranquillamente essere che l’idea di avere un secondo figlio mi mettesse più paura di quanto pensassi. Dopotutto, era vero che dopo il primo figlio si acquisiva esperienza, ma c’era anche da dire che era comunque una situazione nuova. Imparare a gestire e formare due personcine diverse non era un’impresa da poco. Non ero la prima a cui era successo un così forte stress durante la seconda gravidanza. O la terza. O la quarta. Se la situazione esterna era difficile, non era raro che si ripercuotesse sulla gravidanza. Infatti dovevo stare molto attenta. Per il momento i valori erano normali, ma se avessi continuato a stressarmi così, le cose sarebbero potute mettersi male. “Potrebbe influire anche la relazione con suo marito, in questo caso.” aveva concluso il dottore alla fine di quella lunga filippica. Aveva capito cosa mi aveva spinta a sfogarmi con lui, anche se non avevo menzionato Alberto, se non per dirgli che mi aveva consigliato di parlare con qualcuno di quello che mi stava succedendo. Infatti, non mi sentivo sostenuta da mio marito. Innanzitutto, quando mi aveva proposto di farmi aiutare l’aveva fatto senza un briciolo di tatto, poco mancava che mi dicesse “sei pazza, fatti curare.”
Per di più, aveva cominciato a uscire praticamente ogni sera. Ogni. Stramaledetta. Sera. Fra rimpatriate con compagni di medie, liceo e università, partite di calcetto e cene di lavoro, in pratica non lo vedevo più. E stavamo pure cominciando a litigare, per questo. Da marito iperpremuroso, improvvisamente cominciò a diventare assente. Sì, ogni volta che poteva mi aiutava in casa. Mi chiamava spesso per sapere come stavo, veniva con me alle visite. Ma, oltre a questo, basta. Da lui non ottenevo altro. Cominciavo ad essere sinceramente stufa di quella situazione. Non mi passò mai per l’anticamera del cervello che, forse, dietro a tutte queste assenze potesse esserci altro.
Il seme del dubbio venne piantato una sera. Ero al quarto mese di gravidanza. Mentre parlavo con Elisa del più e del meno (stavamo guardando un cartone animato con Paolo, la porta-finestra sulla terrazza spalancata per lasciar passare un po’ d’aria, visto il caldo torrido di quei giorni), mi chiamò Massimo, uno dei migliori amici di Alberto, con cui era uscito quella sera. Risposi immediatamente, pensando fosse successo qualcosa di grave.
“Pronto, Mel?”
“Ehi, Massimo! Tutto bene?”
“Sì, tutto a posto! Tu come stai? Il piccolo sta bene?”
“Beh…” ma perché lo chiedeva a me? Non era con Alberto? “Paolo sta bene…”
“E la gravidanza come procede?”
“Bene. Tutto a posto… ma… perché mi chiami? Alberto non è lì con te?”
“No, infatti chiamavo per sapere che fine ha fatto. È dalla scorsa settimana che non lo sento. Ho provato a chiamarlo al cellulare, ma non risponde.”
“Oh…” che cavolo stava succedendo? Perché Alberto non era con Massimo?
“Perché? Ti aveva detto che sarebbe stato con me?”
“Io… non ne sono sicura…” già, adesso cominciavo a nutrire seri dubbi. Non doveva trovarsi con Massimo a giocare a calcetto? O forse avevo confuso gli innumerevoli impegni sociali di mio marito?
Poteva anche essere. Dopotutto, ero molto stressata. Poteva anche essere che mi fossi confusa.
“Sai una cosa, Massimo? Può essere che mi sia sbagliata.” già, nulla di più probabile… e allora perché non ci credevo? “Sono un po’ stanca, ultimamente, è possibile che abbia fatto confusione!”
“Tranquilla, Mel, è comprensibile! Salutami Alberto e digli che si faccia sentire, o alla prossima partita gli spacco le rotule!”
Risi. “riferirò! Ciao, Massimo!”
Misi giù il telefono. Elisa mi fissò, incuriosita. Scossi leggermente la testa, prima di rinchiudermi in un mutismo totale. Sì, doveva essere andata così per forza. Alberto non mi aveva detto che era uscito con Massimo. Mi aveva sicuramente detto che era fuori con qualcun altro. Magari avevo confuso i nomi. Ecco, sì! Sicuramente era così!
Gli avrei chiesto conferma non appena fosse rientrato a casa.
Guardai lo schermo della TV, senza minimamente prestare attenzione al cartone. Fissavo le immagini senza vederle. La spiegazione che mi ero data non mi convinceva. Provai a telefonare a mio marito. Dopo quattro squilli mi rispose la segreteria telefonica. Posai il telefono. Sicuramente Alberto mi avrebbe richiamato. Di sicuro.
Mi addormentai. Mi svegliai mezz’ora dopo, sentendo la musica dei titoli di coda del film. Elisa si offrì di mettere Paolo a letto al posto mio. Mezza rintronata dalla dormita, annuii. Poi, sbadigliando, mi allungai verso il telefono. Nessun segno di Alberto. Telefonate, sms… nulla. Provai a richiamarlo. Ancora nessuna risposta. Che strano…
Che fine aveva fatto mio marito? |
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Capitolo 8 *** capitolo 8 ***
“Che cosa ti ha detto quando è rientrato?” mi domandò Sonia, mentre fissava con cipiglio austero il progetto che aveva davanti.
“Che non si era accorto che fosse così tardi. È rientrato alle tre, stanotte.”
Mi trovavo di nuovo sul mio vecchio posto di lavoro, cosa che avrei dovuto evitare assolutamente a causa dei solventi. Infatti tenevo una mascherina davanti alla bocca, per precauzione, ma credo che Righi mi avrebbe rinnegata come paziente, se avesse saputo che ero lì. Fortuna che ci andavo raramente. Ma avevo bisogno di parlare con qualcuno. Non sapevo più a che santo votarmi pur di capire qualcosa di quella situazione. E poi non vedevo Sonia da parecchio. Tralasciamo il fatto che potrebbe passarti a trovare, una volta ogni tanto…
“Alle tre? E dove cavolo era stato?” Sonia alzò gli occhi di scatto dal progetto, fissandomi preoccupata.
“Mi ha detto che era stato ad una cena di lavoro. Onestamente, non so neanche se credergli.”
“Perché dovrebbe mentirti?”
“Per lo stesso motivo per cui passa praticamente tutte le sere fuori di casa, senza mai portarmi con sé.”
“Dici che ha un’altra donna?”
“Non so cosa pensare. Non sarebbe neanche la prima volta che un uomo con una moglie incinta si trova l’amante… mi sembra di non bastargli più…” la voce mi si ruppe.
La mia migliore amica emise un piccolo sbuffo col naso. “No, no, Mel stai calma! Non serve a nulla che ti agiti così, anzi, farai del male alla bimba! Secondo me, semplicemente, Alberto si sta comportando un po’ da immaturo, va via tutte le sere senza pensare che magari hai bisogno della sua compagnia. Ma lui ti adora, non ti tradirebbe mai! Insomma, mi hai detto che viene con te alle visite, no?”
“Sì…” singhiozzai. Inutile trattenere le lacrime, non ce l’avrei fatta neanche guardando un cucciolo che inciampava sulle sue stesse zampe. Anzi, mi sarei messa a piangere per il cucciolo…
“Ok. Se avesse un’amante sarebbe molto più assente, non si farebbe vivo neanche per le visite! Dopotutto, perché prendersi ore di permesso per una moglie che non si ama più, anche se incinta di tua figlia? Coraggio, ora respira profondamente, cerca di calmarti.”
Inspirai ed espirai molto profondamente. In effetti, detta così suonava molto meglio. In fondo, poteva anche darsi che fosse spaventato almeno quanto me e per questo cercasse delle scappatoie. Questo non gli avrebbe risparmiato una lavata di testa, ma era senz’altro meglio l’idea di una crisi di infantilite acuta, di un’amante!
Rimasi lì ancora per un po’, poi me ne andai a casa. Avevo bisogno di dormire un po’.
Durante il tragitto verso casa, chiamai Alberto. Mi rispose la segretaria, dicendo che Alberto era in riunione. Così ringraziai e misi giù il telefono.
Una volta arrivata, mi stesi sul divano. In quel momento mi arrivò un messaggio. Era Alberto.
A: Mi ha appena detto Ornella che mi hai telefonato. Mi dispiace non aver preso la telefonata. Non posso richiamarti, ho un sacco di pratiche da sbrigare. Ci vediamo stasera, ti porto a mangiare una pizza col nostro bamboccio! Ti amo!
Sorrisi. Sonia aveva ragione, dopotutto. Era stato solo un momentaccio che era passato da solo.
Appoggiai il telefono a terra, poi presi sonno.
Mi risvegliai circa un’ora dopo. Il mio stomaco e la mia bimba reclamavano un po’ di cibo. Così, un po’ di malavoglia, mi alzai e andai a prepararmi un po’ di pasta.
Dalla cucina, lanciai un’occhiata al bagno, visto che, da dove mi trovavo, lo vedevo benissimo. Fu così che vidi la borsa di Alberto abbandonata sotto il lavandino.
“Accidenti, Alberto!” Sbottai, seccata, come se Alberto fosse in casa, in quel momento, e non al lavoro.
Sbuffando, andai a recuperare la borsa, convinta che, come al solito, l’avesse mollata lì con la roba di calcetto ridotta come se avesse passato la Grande Guerra, invece di buttarla nel cesto dei panni sporchi. Quando la spalancai, però, ebbi una piacevole sorpresa: invece del solito odore di morte e distruzione, trovai la roba pulita. Evidentemente l’aveva svuotata e poi l’aveva preparata in anticipo.
“Bene! Meglio così! Papà, per una volta, si è organizzato!” esclamai, rivolta alla bambina che, in quel momento, se ne stava bella e tranquilla nella mia pancia. Dovevo trovarle un nome, chiamarla solo “bimba” o “bambina” suonava così brutto!
“Dai, riportiamo la borsa di papà in bagno!” afferrai la borsa per i manici, con una mano. Con l’altra la presi per una tasca esterna. Una tasca che sembrava avere un piccolo rigonfiamento…
“Ma che diavolo…”
Forse non avrei dovuto farlo. Probabile. La curiosità uccide il gatto, si suol dire. Tuttavia, infilai la mano dentro alla tasca e ne tirai fuori qualcosa di stoffa.
Un paio di slip da donna. |
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