The Beast

di nephylim88
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** capitolo 8 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


“Prendiamo un caffè?”

Sobbalzai, alzando gli occhi dal progetto che avevo sotto al naso. Per un attimo ebbi la vaga impressione che Sonia fosse stata decapitata. Ma non era così. La mia migliore amica mi guardava dalle scale dell’impalcatura.

“Ma sì! Perché no? Tanto non riesco a cavare un ragno dal buco. Casomai mi dai una mano, più tardi?”

“Ma certo! Qual è il tuo problema?”

“Non riesco a trovare il blu da utilizzare per il cielo dell’affresco. Non riesco a capire se sono io a non essere più capace di fare il mio lavoro, o se è proprio questo blu a essere così fetente.”

“Rilassati, dai! Hai solo bisogno di una pausa, in fondo sei qui da tre ore!”

Annuii. Poi mi alzai in piedi. “Ahio!” mugolai. È vero che non ero molto alta, ma trovarmi sul piano più alto dell’impalcatura significava, almeno in quel caso, trovarmi molto vicina al soffitto, costretta a stare leggermente curva per non sbattere la testa.

“Ehi, fai attenzione! È vero che possiamo sistemare eventuali danni, ma dubito che un buco nell’intonaco rientri nelle nostre competenze!”

Le feci una linguaccia, ridacchiando come se avessi ancora diciotto anni. Anche se quella nave era salpata da un bel pezzo.

“Ho proprio voglia di una bella brioche!” esclamai, pimpante, mentre scendevo le scale.

“Alle undici di mattina? Ti rovinerai l’appetito!”

“E allora?”

“Fai come vuoi! Sei maggiorenne e vaccinata! Ma se ti sento ancora lamentarti che sei grassa ti prendo a calci nel sedere!”

Avere a che fare con Sonia era come avere a che fare con il Grillo Parlante di Pinocchio. A volte era proprio fastidiosa!

“Oh, andiamo, quante volte mi hai sentito lamentarmi che sono grassa?” adesso mi uccide!

Mantenne la calma, stranamente. “Una volta al mese. Vai in crisi mistica, mangi come un’oca all’ingrasso per Natale, poi piangi perché non entri più nei jeans in cui entravi tre anni fa.”

Scoppiai a ridere. In effetti, da quando era nato Paolo, avevo più difficoltà a contenermi nel mangiare. Ormai il mio cucciolo aveva ventisei mesi, ma per me era ancora una novità. E a volte questa novità mi spaventava, ma dovevo restare in me. Quindi, avevo finito con lo sfogarmi sul cibo. Fortunatamente, comunque, l’ansia stava diminuendo, insieme agli attacchi di fame e ai chili. Tranne quando si avvicinava il ciclo. In quel caso, poteva cascarmi il cielo sulla testa, ma niente mi avrebbe tenuta lontana dal frigo. Anche se, di contro, non ci sarebbe stato nulla a trattenermi dal piangere tutte le mie lacrime perché non ero capace a controllare questi attacchi di fame. In pratica impazzivo, con l’arrivo del ciclo. Salvo poi tornare nei ranghi in un paio di giorni pensando che, dopotutto, anche se ero ancora un po’ sovrappeso, non ero mai stata obesa o anche solo grassa, e tutto sommato non potevo lamentarmi troppo. In fondo, ero passata da una 40 pre-gravidanza a una 44 post-parto. Alberto, mio marito, apprezzava le mie curve. Come le apprezzava il mio Paolino, quando lo tenevo in braccio e si addormentava con la testa posata sul mio seno. Quindi, potevo ben sopportare il mio nuovo fisico e qualche crisi l’anno!

“Devo ammettere, però, che ultimamente ti vedo più di buon umore!” esclamò Sonia, rompendo il flusso dei miei pensieri. Stavamo attraversando la strada per andare al bar.

“E perché non dovrei? Finalmente Paolo dorme una notte filata e non strilla quando lo lascio in asilo. Anche Alberto sembra molto più tranquillo, pare che a lavoro si siano sistemate molte cose. E anche il nostro lavoro va alla grande. Ho tutte le ragioni per essere di buon umore!”

Sonia sorrise, prima di andare a sbattere contro qualcuno.

“EHI!” strillò. La afferrai per un braccio, prima che cadesse a terra come un sacco di patate. Era andata a sbattere contro Pamela, una nostra collega, che stava uscendo dal bar. “Guarda dove metti i piedi!”

Pamela la fissò con un’aria vagamente inebetita, prima di scrollare le spalle e bofonchiare uno “scusa” sommesso.

“Scusa un corno! Potevo ammazzarmi!” sbottò Sonia, inviperita. “E mi spieghi che ci fai, qui? C’è il cantiere incustodito!”

“Potevi controllare che ci fossi, prima di svignartela!”

“Va bene, basta così, ragazze. C’è stato solo un malinteso.” intervenni, prima che Sonia perdesse la calma.

Pamela ci guardò, sprezzante, poi rientrò in chiesa.

“Dovevi proprio saltarle addosso così?” sbuffai, una volta dentro al bar.

“Ma l’hai vista? Va in giro come se non ci stesse con la testa!”

“Veramente eri tu ad essere distratta. Senza contare che aveva ragione, prima di lasciare il cantiere dovevamo almeno controllare che ci fosse qualcuno!”

“Adesso la difendi anche?”

“Certo che la difendo, non ho niente contro di lei, e stavolta sei tu ad avere torto!”

Sonia sbuffò. E anche io. Aveva trentadue anni, ma a volte ragionava come se ne avesse sedici. Era molto melodrammatica, e proprio non poteva sopportare quella strana ragazza che lavorava con noi da qualche mese a quella parte. In parte la capivo, comunque.

Pamela era un personaggio molto strano. Era minuta, magrissima, dava l’impressione di potersi rompere da un momento all’altro. Aveva il viso pallido tipico di chi non esce mai al sole, gli occhi grigi e i capelli neri, lunghi, con riflessi viola. Sospettavamo tutti che li tingesse, ma era impossibile stabilirlo, visto che le sopracciglia erano ridotte a due sottilissime righe. Il viso magro e affilato, gli occhi sempre truccati pesantemente di nero, contornati da blande occhiaie violacee, il rossetto nero (o color vinaccia molto scuro, a seconda della giornata), i suoi vestiti… il tutto faceva pensare ad una giovane Mortisia Addams. O a Mercoledì Addams. Con la differenza del carattere. Anche se correvano le voci più disparate sul suo conto, Pamela era gentile. Non amichevole, ma gentile. Se lo eri con lei, ovvio. A quanto pare, in azienda ero l’unica ad andare d’accordo con lei, almeno all’apparenza. In realtà non potevo dire di essere amica sua. Eravamo troppo diverse. Prima di tutto, l’aspetto fisico. In comune avevamo solo il fatto di essere donne e di essere bassine. Ma io sono bionda, con un colorito più sano del suo, ho gli occhi verdi e, almeno all’epoca, ero molto cordiale e sorridente. E, se potevo evitare di truccarmi, ero solamente felice! Senza contare che raramente indossavo vestiti neri, preferivo di gran lunga i colori. Inoltre, io avevo trent’anni, ero sposata da quattro anni, e avevo un figlio, lei… beh, non so nemmeno se avesse amici. Insomma, eravamo persone completamente diverse, come il giorno e la notte. Avevo molta più affinità con Sonia. Almeno, caratterialmente parlando. Lei era una persona molto solare e vitale, nonostante in quell’ultimo anno gliene fossero capitate di tutti i colori. Aveva affrontato un divorzio pesante, con l’ex marito sempre pronto a farle la guerra. Fortunatamente le cose le andavano meglio, tuttavia la vedevo molto più stanca e meno desiderosa di scherzare. Almeno non avevano avuto figli, o credo sarebbe scoppiata. Una volta conclusa definitivamente la questione divorzio, aveva deciso di farsi dei colpi di sole in testa. Abbinati ai suoi capelli rosso scuro, ai suoi occhi verdi e alle sue lentiggini, stava davvero bene!

Qualcosa nel suo carattere era cambiato, comunque. Non era solo la disillusione nei confronti degli uomini. Sembrava molto più astiosa nei confronti di chiunque, anche nei miei. Ma, insomma, non potevo farci nulla, se non sperare che prima o poi le passasse. Anche perché la conoscevo da anni, ormai, e sapevo che era perfettamente inutile provare a parlarle. Avrebbe sviato il discorso, nella migliore delle ipotesi. E comunque, era migliorata moltissimo rispetto a quando litigava costantemente con il suo ex. All’epoca ero incinta di Paolo e ricordo che, per ridurre lo stress, avevo dovuto allontanarmi da lei. Mi dispiaceva, ma non era simpatico sentire lei e il marito litigare anche davanti a me e ad Alberto. Una volta separati, comunque, le cose tra me e lei sono tornate alla normalità.

“Ciao, bellezze! Cos’è questo muso lungo?” Antonio, il vecchio barman, ci guardava dall’altra parte del bancone. Ora, non so voi, ma io sono sempre stata affascinata dai bar, dalle reception, da qualsiasi posto di lavoro che prevedesse un contatto col pubblico con un bancone in mezzo. Mi sembrava sempre un mondo incantato e misterioso, a cui avevano accesso pochi eletti. Quando ero bambina, mi chiedevo sempre cosa ci fosse dietro a quell’enorme banco. Crescendo, ho cominciato a vedere dietro ai banconi, ma comunque la sensazione di mistero è rimasta intatta.

“Nulla, Antonio!” sorrisi “Stavamo parlando di Pamela!”

“Ah, Pamela! È un bel tipo, quella! Anche se, prima o poi, mi aspetto che venga a chiedermi del sangue invecchiato trent’anni in una bara di rovere!”

Sollevai un sopracciglio, mentre Sonia ridacchiava educatamente. Come battuta, non avrebbe fatto ridere neanche una gallina stupida, ma ormai era da un mese che lavoravamo lì, ci eravamo abituate allo strano senso dell’umorismo di Antonio.

“Ci prepari un caffè, per favore?” domandai.

“Macchiato!” Intervenne Sonia.

Antonio sorrise di rimando, prima di mettersi al lavoro.


Rientrammo in chiesa. Salii le quattro rampe di scale che mi portavano al soffitto e mi rimisi al lavoro per trovare la sfumatura di blu adatta a quel cielo che circondava l’agnello dipinto nella mandorla. C’era una cosa che mi sorprendeva di tanti affreschi. Quando entravi in chiesa, e guardavi dal basso quei dipinti, vedevi le cose. Vedevi le espressioni del volto, e ti sembravano anche dettagliate. Ma una volta montata l’impalcatura, una volta vicino a quelle immagini, scoprivi che non erano poi così dettagliate come poteva sembrare. Quelli che sembravano dettagli, in realtà erano un’insieme di linee che, viste da vicino, acquistavano solo un vago senso. Gli affreschi su cui lavoravo non erano tutti così, ma tanti lo erano. Ed era una cosa che, a distanza di anni, ancora mi stupiva.

“Ugh…” un giramento di testa mi fece fermare un attimo. Mi sedetti con molta calma e cercai di prendere fiato. In effetti, era da qualche giorno che mi capitava. Ma non capivo cosa potesse essere, non soffrivo di vertigini. Inspirai profondamente. Espirai. Aprii gli occhi e mi rialzai con molta calma. Niente, il giramento di testa continuava. Dovetti stendermi. Ma che mi stava capitando?

“Tesoro? Hai ancora bisogno di aiuto per quel blu?” La voce di Sonia suonò strana, nelle mie orecchie. Come se provenisse da un pozzo profondo. Mi voltai verso di lei, con la netta impressione che i suoi capelli stessero andando a fuoco. Sbattei le palpebre. La sensazione scomparve.

“Ehi! Mel! Tutto bene?” si tirò su con uno scatto quasi felino e corse verso di me.

“Sì, sì… scusami, ho avuto una vertigine e mi sono dovuta stendere.”

“E ti scusi anche?” Si sedette a fianco a me e mi accarezzò. Aveva le mani perennemente fredde, e il suo tocco mi diede sollievo. Non mi ero neanche resa conto di sentirmi scottare. Tuttavia, non mi sembrava di avere la febbre.

Sospirai. Mi sentivo un po’ meglio, e glielo dissi.

“Sarà, ma tu adesso te ne vai a casa. Lavorare dopo un episodio del genere sarebbe troppo pericoloso. Quindi, appena te la senti, alzi le chiappe e vai a casa a riposare. Penseremo io e la Mortisia dei poveri a chiudere tutto.”

Non me la sentii di dire di no. Dopo qualche minuto, mi alzai e me ne andai verso casa.


Arrivata a casa, mi cacciai in doccia. Avevo ancora qualche ora prima di andare a recuperare Paolo all’asilo. Alberto non sarebbe rientrato prima di sera. Potevo tranquillamente sfruttare quelle ore per riposarmi un po’. Una volta finito, strofinai energicamente la mia testa con un asciugamano. Le gocce d’acqua correvano lungo tutto il mio corpo. Una particolarmente grossa scivolò sul mio seno destro. Passai l’asciugamano lì sopra. Ma… era una mia impressione, o il mio seno era particolarmente gonfio? E da quando il mio seno si gonfiava? Sentivo di donne a cui capitava in prossimità del ciclo. A me non succedeva mai. Mi era capitato solo una volta, quando…

“Oh, accidenti…”

Mi rivestii in fretta e furia e mi precipitai in strada, verso la farmacia in fondo all’isolato. Non ero del tutto sicura della mia ipotesi, ma era meglio verificarla il prima possibile.

Mezz’ora dopo, ero di nuovo in bagno, seduta sul water con due bastoncini bianchi davanti a me. Due test di gravidanza. Positivi entrambi. Ero incinta.

Sorrisi, felice. Il mio desiderio più grande era di avere più di un figlio, e sapere che ne stavo avendo un altro mi rese la donna più felice del mondo.

Guardai la mia pancia, poi le linee rosse dentro alle grigliette del test. E un brivido freddo mi corse lungo la schiena. All’improvviso mi sentii terrorizzata. Non ne capii il motivo. Ma quell’attimo di terrore fu più che sufficiente a guastare il mio buon umore. Cosa mi stava succedendo?



Buona sera a tutti!

Ecco qui un’altra storia! Questa è il risultato di una riflessione che ho fatto sulla mia vita, com’è stata negli ultimi 8 anni.

La storia di una persona come tante. Ha le sue magagne, come tutti, ma, tutto sommato, vive una vita felice. Trattandosi di un horror, però, sicuramente non le andrà tutto liscio.

Al pari de “Le porte di Avalon”, anche questa è molto significativa, per me. Spero vogliate accompagnarmi in questa avventura, anche se, probabilmente, ci metterò abbastanza a scriverla. Scrivere una storia di un certo peso emotivo non è mai semplice. Tanto più se è un horror. Non sarà facile scriverla, lo so già. Innanzitutto, tocca un tema che, anche se non l’avevo mai capito prima di qualche settimana fa, mi ha toccata molto nel profondo. E poi, non voglio fare un horror splatter. Con tutto il rispetto per chi scrive racconti di quel genere, ma io vorrei riuscire a fare qualcosa di più psicologico, pur sfruttando temi molto pesanti. Un’impresa che, almeno per me, è qualcosa di titanico!

Quindi, che ne dite? Siete pronti a seguirmi?

Besos

Nephylim

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


“Confermo, Melania, lei è incinta di sette settimane.” Il dottor Righi mi guardava da dietro i suoi occhiali spessi, con un mezzo sorriso.

“Oh.” Mormorai.

“Le raccomandazioni sono le stesse che le ho fatto quando è rimasta incinta la prima volta. Niente sforzi fisici pesanti, – ecco a lei il certificato medico per la maternità anticipata – niente cibi crudi, niente alcool, niente fumo, beva molta acqua e si riguardi. Appena esce, prenda appuntamento con la segretaria per un’ecografia, fra un mese.”

“Tutto qui?”

“Cosa vorrebbe dire?”

“Non ha nient’altro da dirmi? È tutto a posto?”

“Da quello che ho potuto vedere, la gravidanza sembra procedere normalmente. Ma questo è il primo trimestre, quindi cerchi di fare particolarmente attenzione.”

Annuii. Non sapevo nemmeno io perché fossi così in ansia. Neanche con Paolo ero così impaurita. Ma se il dottore sosteneva che era così, allora non dovevo fare altro che rilassarmi. Dopotutto, il dottor Righi era un dottore molto stimato. E con la mia prima gravidanza avevo avuto una bellissima esperienza. A parte il parto, ovvio. Decisamente, non smaniavo all’idea di rifare quella trafila di dodici ore. Forse era proprio quello a mettermi tensione.

Mi congedai e uscii. Poi telefonai ad Alberto.

“Allora?” neanche mi salutò, da quanto era smanioso di sapere.

“Ciao, amore!” ridacchiai “Tranquillo, il nostro secondo pupetto sta bene!”

Sentii mio marito ridere. Lo amai ancora di più. Quando ero rimasta incinta di Paolo era terrorizzato, aveva paura di non arrivare ad amarlo abbastanza. Una volta visto il faccino imbronciato del nostro piccolo appena nato, con i pugnetti chiusi e i lineamenti gonfi per lo sforzo, però, si era sciolto e aveva pianto come un bambino, commosso. Non vedeva l’ora di averne un altro. All’epoca non ero così smaniosa, a dirla tutta. Ma nel giro di un mese avevo ricominciato a considerare l’idea. Ma avevamo pensato di aspettare, giusto per non pagare due rette dell’asilo nido in contemporanea.

Chiacchierammo ancora un po’, poi lo salutai. Dovevo andare a prendere Paolino.

Appena mi vide, si precipitò verso le mie gambe come se non mi vedesse da un mese. Faceva sempre così. Lo guardai nei suoi occhioni verdi. Ero sorpresa che avesse preso così tanto da me. Ero sinceramente convinta che avrebbe avuto gli occhi azzurri e i capelli castani di Alberto. Invece era venuto fuori un angioletto biondo con gli occhi verdi. Certo, i capelli erano di quel biondo che si sa già che scurirà col tempo, a differenza dei miei. Intanto, però, la somiglianza con me era impressionante.

“Mamma!” strillò, sorridendo.

“Ciao, amore mio!” lo presi in braccio e lo strinsi forte “mi sei mancato tanto!”

“Ciao, Mel!” Sara, la sua maestra, mi sorrise. “Ti trovo in splendida forma!”

“Grazie! A breve vorrei cambiare gli orari di Paolo, fargli fare solo mezza giornata.”

“Come mai?”

“Beh, sono appena stata dal medico e mi ha detto che sono incinta.”

“Oh, mamma mia! Congratulazioni!”

“Grazie! Comunque, visto che sarò a casa, non mi dispiacerebbe tenere Paolo con me un po’ di più, almeno finché non nasce il bambino. Ma è solo una mera ipotesi, prima devo parlarne con Alberto. Intanto volevo avvisarti della possibilità.”

“Ma certo! Appena decidi, fammi sapere! Congratulazioni ancora!”

Le sorrisi e me ne andai.

“Sai dove andiamo, giovanotto?” Paolo mi guardò, curioso.

“Andiamo dal nonno!”

“YEEEEEEEEEEEEEEEEEE!” solo un bambino poteva manifestare così tanto entusiasmo!

Lo caricai in macchina, e venti minuti dopo eravamo a casa di mio padre.

“Coraggio, principino e signora bella, entrate!” Esclamò mio padre quando ci vide.

Una volta dentro, papà ci fece accomodare. Preparò una banana con limone e zucchero a Paolo, merenda di cui andava matto. Poi si rivolse a me. “un caffè, tesoro?”

“Oh, no, grazie, papà!”

“D’accordo. Di quante settimane sei?”

“Cos…?”

“L’unica volta che hai rifiutato un caffè, eri incinta di questa piccola peste. Di quante settimane sei?”

“Ma dai! Ero già partita bella carica con il discorso da farti! Hai rovinato tutto!”

Papà scoppiò a ridere. “D’accordo, allora! Poffare, figliola! Qual buon vento ti mena in queste lande desolate?”

Dovetti trattenere una risata. Usava sempre quel tono, quando voleva prendermi in giro. “Oh padre, buone nuove ti porto! Quando si estinguerà lo undicesimo mese, partorirò un altro erede!”

Poi gli feci una linguaccia. Lui mi abbracciò, felice. Vedendoci così, Paolo cominciò a emettere gridolini. Non siamo mai riusciti a capire se fosse geloso della sua mamma o del suo nonno. Papà lo prese in braccio e gli diede un grosso bacio.

“Tu come stai, invece, papà?” domandai.

Sospirò. Erano passati tanti anni da quando mamma era morta, tuttavia, a volte, papà sentiva ancora la sua mancanza. Aveva avuto altre donne, ma non si era mai risposato. Il loro era il classico esempio di amore oltre ogni limite. Nemmeno la morte riusciva a separarli. Dopo vent’anni, papà ancora pensava a lei. Ogni domenica, cascasse il mondo, andava al cimitero a portarle dei fiori. Poi stava lì anche un’ora a parlarle. All’inizio lo accompagnavo. Poi, crescendo ho cominciato a diradare le visite, anche se non così tanto. Andavo con lui a domeniche alterne. Mi piaceva fare visita alla tomba della mamma. Era un modo di sentirla al mio fianco. Ma mi ero ritrovata a pensare che, forse, era papà ad avere bisogno di quelle visite, per questo avevo cominciato ad andare meno al cimitero. Fino a quando non mi ero sposata. A quel punto, papà mi disse espressamente di non andare più. “Non ha senso. Hai una tua famiglia, ora. Non pensare ai morti. Pensa a tuo marito. Non è giusto togliere del tempo a lui. Tua madre non tornerà.” Ricordo ancora il groppo che mi si era formato in gola. Era un nodo dolorosissimo. Avrei tanto voluto dirgli che anche lui avrebbe dovuto smettere di visitare la tomba della mamma, che era ancora giovane, che mamma non sarebbe più tornata neanche per lui. Tuttavia scelsi di tacere. L’avrei solo ferito inutilmente. E non smisi di visitare la mamma. Scelsi semplicemente un altro giorno in cui andare, portandole dei fiori. Papà sicuramente se ne accorse, tuttavia non mi disse mai nulla. Si limitava alla sua routine, senza intromettersi nella mia. Penso che, a volte, nonostante lavorasse ancora e la sua vita sociale fosse comunque molto attiva, si sentisse solo. Inoltre, lo vedevo più smunto. Non era mai stato grasso, ma ora cominciavo a vederlo un po’ più gracile. Forse era l’età che avanzava anche per lui. Dopotutto non mancava molto ai suoi sessant’anni.

“Tutto bene, tesoro.”

“Sicuro? Non ti vedo molto bene.”

“Sono sicuro, piccola. Ho solo un po’ di mal di stomaco. Niente che alla mia età non sia normale. Almeno, da quello che dice il medico.”

Mi morsi il labbro. Se aveva chiamato il medico, probabilmente era più seria di come me la metteva.

“Conosco quello sguardo, Mel. Stai tranquilla, d’accordo? Per sicurezza, il medico mi ha prescritto una gastroscopia, ma è solo per mettermi tranquillo. Al massimo sarà un po’ di gastrite.”

Scrollai lievemente le spalle, come a dire “sarà…”

“Fammi sapere come va, d’accordo? Anche se saltasse fuori che avevi semplicemente mangiato qualcosa di strano, fammelo sapere!”

“Certo, piccola, certo! Solo, però, se tu mi farai sapere come va con il futuro erede!”

Sorrisi e feci cenno di sì con la testa. Poi cambiammo argomento.

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Capitolo 3
*** capitolo 3 ***


“Bella signora, stasera ti porto a mangiare fuori!”
Alberto era rientrato tutto allegro. Non l’avevo mai visto così esaltato, neanche quando aspettavo Paolo.
“E dove vorresti andare, a cena?”
“Che ne dici di un sushi-bar?”
“Oh, Alberto, lo sai che non posso mangiare pesce crudo! E ora come ora, l’idea del fritto e del tofu mi dà la nausea!” incalzai, quando lo vidi aprire la bocca come a dirmi che avevo alternative anche al ristorante giapponese. E cavolo, avrebbe dovuto sapere che al giapponese mangio solo sushi!
“D’accordo!” rise lui “Cosa proponi?”
“Pesce?”
“Come la signora desidera!” esclamò, su di giri “ma ad una condizione!”
“Cioè?”
“Lasciamo a casa il nanerottolo! Chiama Elisa! Stasera ti voglio tutta per me!”
Sorrisi e annuii.
Alle 19.30 il campanello di casa suonò. Era arrivata Elisa, la ragazza che, un paio di volte alla settimana, faceva da babysitter a Paolo. Alberto e io la adoravamo. Era quel genere di persona sulla cui affidabilità non avresti scommesso due lire, a vederla. Aveva diciassette anni e una pettinatura che mai avrei permesso ai miei figli: metà testa rasata e l’altra metà ricoperta da rasta castani legati insieme con un nastro. Piercing a una narice, occhi castani rigorosamente truccati con matita nera sempre un po’ sbavata e vestiti comprati sicuramente alle bancarelle di abiti etnici da quattro soldi completavano il quadro.
Tuttavia, a me, come persona, piaceva molto, era più matura di quanto si potesse pensare. Adorava i bambini, e Paolo stravedeva per lei.
“Vieni qui, patato!” strillò Elisa, appena vide Paolo. Lui non era di buon umore, non la accolse con i soliti strilli. Si limitò a buttarsi in avanti perché lo prendesse, cosa che lei fece senza indugi.
Le lasciammo le solite istruzioni di rito, poi uscimmo a cena.
 
Era tutto perfetto. Locale elegante, luci soffuse, Alberto che mi guardava con occhi innamorati, lieve mormorio delle persone attorno a noi…
La zuppa di pesce e l’astice che avevo ordinato erano favolosi. Alberto aveva preso invece un po’ di branzino, e dimostrava di gradirlo ampiamente. La mia fame da gravidanza stava cominciando a farsi sentire (chiamiamola pure “fame da gravidanza” e non “fame da ohmannaggiaquantomipiaceilpescepanciamiafatticapanna”!), tuttavia riuscii a trattenermi. Anche se una fetta di dolce la ordinai. Una fetta di tronchetto al limone, fresco di pasticceria.
Mentre finivo di mangiare, un soffio gelido mi sfiorò la schiena. Guardai attentamente le finestre del ristorante, per essere sicura che fossero chiuse. Lo erano. Che strano. E poi, perché avevo sentito così tanto freddo? Il locale aveva il riscaldamento attivo, e poi eravamo a maggio. Sicuramente fuori non faceva così freddo! Qualcosa non andava. All’improvviso realizzai che avevo la fronte imperlata di sudore e la testa mi girava. Sembrava un sintomo da gravidanza. “Amore?” la voce di Alberto mi giunse come un’eco remota, inframmezzata dai battiti furiosi del mio cuore che rimbombavano violentemente nelle mie orecchie.
“Signora?” la maîtresse mi poso la mano sulla spalla destra. Mi voltai verso di lei, ritrovandomi a fissare il muso di un molosso nero. Strillai e serrai gli occhi. Quando li riaprii, era tornato tutto alla normalità.
“Mel! Tutto bene?” Alberto, nel frattempo, si era alzato e si era accucciato alla mia sinistra.
Mi toccai la faccia, ancora madida di sudore, come se dovessi tenerla ferma. Guardai di nuovo la maîtresse. Era sempre la signora sulla quarantina che ci aveva accolto a inizio serata.
“S-sì… sì… scusate, ho solo avuto un calo di pressione. Mi spiace avervi fatto tanto preoccupare…” mormorai, perplessa.
“Sa, mia moglie è incinta. Magari è stato questo a sconvolgerla un po’.” Spiegò Alberto alla signora.
“Davvero? Oh, congratulazioni!”
Il resto della loro conversazione si perse nei meandri dei miei pensieri. Ero abbastanza sicura che quello che avevo vissuto non fosse poi così legato alla gravidanza. Sì, ok, giramento di testa, sudore, ma il freddo? E quell’allucinazione?

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Capitolo 4
*** capitolo 4 ***


Vagavo in un corridoio oscuro. Ciononostante riuscivo a distinguere le cose intorno a me. Il posto sembrava la cripta di una chiesa gotica, con le pareti in pietra e le volte a crociera che incombevano su di me. Ogni tanto l’oscurità opprimente veniva intervallata da piccole nicchie in cui rilucevano lanterne. Paradossalmente, le zone illuminate non contribuivano a rendermi più tranquilla. Anzi, aumentavano l’atmosfera cupa che si respirava. Inciampai su uno scheletro riverso a terra e caddi. Ero convinta di essere seguita, ma non c’era nessuno e non riuscivo a correre per togliermi da lì. Incedevo con passo lento e stremato, ansimando in preda al panico. Il mio respiro si condensava in sbuffi di vapore davanti al mio viso. Di fronte a me, in fondo al corridoio, si materializzò una luce fioca. Mi strinsi nel mantello nero che indossavo, tremando infreddolita. Poggiai la mano sulla mia pancia, dove sapevo esserci il mio bambino che (almeno speravo) riposava tranquillo. Il tocco non contribuì a calmarmi come speravo, ma mi diede comunque la forza di andare avanti. Raggiunsi la luce fioca in un tempo che mi sembrò infinito. Mi ritrovai in una grande stanza illuminata dal furioso fuoco che rombava in un enorme camino. In mezzo alla stanza, in cerchio, stavano cinque persone avvolte da pesanti cappe nere, ognuna posta sulla punta di un’enorme stella nera disegnata sul pavimento, con in mano una candela nera spenta. Cercai di aguzzare la vista, e vidi che la stella non era completa, mancava il lato orizzontale, ed era inscritta in un cerchio. Negli spazi vuoti del pentacolo c’erano degli strani fregi, forse delle croci.
Al centro del pentacolo stava un fagotto coperto da un telo nero. Non ne ero sicura, ma il fagotto sembrava muoversi e lamentarsi debolmente.
“Dove sono?” mi rivolsi alle persone che stavano in cerchio. Nessuna risposta.
“Cosa sta succedendo?” ancora niente. Una forza misteriosa cominciò a spostare il telo da sopra il fagotto. Come ipnotizzata, fissai il telo che si muoveva fino a che non rivelò il piedino di un neonato. Scossi la testa, indietreggiando fino a scontrarmi contro qualcosa. Mi voltai e mi ritrovai a fissare in faccia un enorme cane nero, lo stesso che avevo visto al ristorante. Al garrese era grande almeno quanto me. Andai quasi in iperventilazione vedendo che la sua pelliccia era mezza mangiata da larve. La sua carne era divorata dai vermi, ma, nonostante questo, quella bestia era chiaramente muscolosa e possente. Sotto la pelle erano visibili delle… cose … che si muovevano. A intuito si sarebbero detti scarafaggi. Qui e lì si intravedevano le ossa della bestia. Vacillai in preda al disgusto, aumentando la presa sulla mia pancia, quasi a proteggere mio figlio da una visione tanto orribile.
Il cane mi fissò, poi andò con incedere solenne verso il centro del pentacolo. Adesso il neonato era del tutto scoperto. Un maschietto. Era così carino, così dolce e innocente… mi guardò e sorrise, addirittura, i ciuffetti rossi sulla sua testolina evidenziati dal fuoco del camino. Non avevo idea di chi fosse, quel bambino, né del perché fosse lì, ma il mio istinto mi diceva che avrei dovuto provare a prenderlo in braccio e a portarlo via da lì. Tuttavia non riuscivo a muovermi. Vidi la bestia guardarlo e leccarsi i baffi. In quel momento le candele in mano alle persone si accesero. A quel punto il bambino cominciò a piangere. Nella mia testa riecheggiava un infinito eco di “no, no, per favore, no!”. Il cane mi fissò con aria di sfida, come a dirmi di andarmi a prendere il bambino. Ma non riuscivo a muovermi e la bestia lo sapeva. Ero terrorizzata, ormai avevo capito cosa stava per succedere. Non volevo che succedesse. Per favore, no!
Sono sicura che il cane mi sentì. Tuttavia mi ignorò e fissò il bimbo con aria famelica. Il piccolino strillò istericamente. Fu l’ultimo suono che emise, prima che la bestia si avventasse su di lui, sbranandolo.
Io urlai. Urlai. E urlai.

Caddi dal letto, singhiozzando violentemente. Poi mi ritrovai china sul water a vomitare la cena della sera prima. Non ricordavo nemmeno come ci ero arrivata. Quando ebbi finito, Mi sentivo gli occhi gonfi e un sapore orribile in bocca. Mi guardai allo specchio. Lo sforzo del vomito mi aveva riempito la faccia di puntini rossi. Sembravo un cadavere. Camminai a passettini strascicati fino alla mia camera. Il letto matrimoniale era vuoto. Secondo la sveglia erano le nove passate. Ma certo. Visto il mio calo di pressione della sera prima, Alberto aveva preferito occuparsi di Paolo, lasciandomi dormire. Me ne aveva anche parlato, ma ero abbastanza confusa, quindi mi era passato di mente. Andai al tavolo in cucina, lasciandomi cadere pesantemente su una sedia.
Buon Dio, che sogno orribile! Lo sapevo, era solo un incubo, ma sembrava così reale… Speravo fosse una piccola intossicazione ad avermelo provocato. Per buona misura, avrei tolto i dolci dalla mia alimentazione. E avrei cercato di contenermi ulteriormente, nel mangiare, anche se, per quello, avrei dovuto consultare il dottor Righi. Non volevo rischiare di mettermi a seguire una dieta sconsiderata e far nascere il mio cucciolo denutrito. Ma intanto, magari, quel libro di racconti dell’orrore di Ambrose Bierce avrebbe atteso il parto, prima di essere terminato. Così, giusto per ulteriore precauzione.
In verità, per chissà quale motivo, non ero così sicura che la cosa avrebbe aiutato granché. Ma un tentativo lo potevo fare.
Il mio cellulare squillò, distogliendomi dai miei cupi pensieri. Era mio padre.
“Ciao, papà!” risposi “Come mai a casa?”
“Ciao Mel. Sono appena stato dal medico per la gastroscopia.” Qualcosa non andava. Perché quel tono così serio?
“Cosa succede, papà?”
“Pare che ci sia qualcosa che non funziona.”
“Che cosa?” sentii il mio stomaco farsi di piombo.
“Non si sa ancora nulla, mi consegneranno i risultati la settimana prossima. Ma potrebbe essere qualcosa di più serio di un semplice mal di stomaco.”
Restai in silenzio ad assimilare la notizia.
“Mel?”
“Potrebbe essere una semplice ulcera, no?” mormorai, speranzosa.
“Può darsi, tesoro mio, può darsi.” Non mi sembrava molto convinto. “Cerca di stare serena, d’accordo? Non so neanche perché ti ho chiamato, alla fine. Dopotutto non ho notizie certe della cosa, magari è una sciocchezza.”
Annuii, anche se sapevo che non poteva vedermi. “Riguardati, papà, d’accordo?”
“Certo, tesoro. Anche tu. Non ti sento molto tranquilla.”
“Oh, nulla di che, ho solo avuto una notte alquanto agitata.”
“D’accordo, allora. Riposati, va bene? Ne hai bisogno.”
“Certo, papà. Un bacio.”
“Un bacio, tesoro.”

Appoggiai il telefono sul tavolo, poi mi alzai per prepararmi una tisana, cercando di non pensare a niente.







Angolo autrice: Eccomi qua! Spero che, finora, il mio racconto vi stia piacendo! Qualora voleste lasciare recensioni, sappiate che saranno molto gradite!
Ringrazio Knetgummi e La Luna Nera, che hanno messo questa storia tra le seguite. Ringrazio sempre La Luna Nera, che ha recensito regolarmente la storia. Ringrazio anche Vale The Wolf/The Killer per la recensione che ha rilasciato all’inizio di questo parto della mia fantasia.
Un grazie va anche a Namary, che, conoscendomi personalmente, recensisce le storie direttamente alla fonte!
Dunque, per quanto riguarda questo capitolo, volevo chiarire un paio di cose.
Innanzitutto un piccolo glossario: il garrese, per chi non lo sapesse, è il punto più alto della schiena di un animale a quattro zampe (non dove inizia il collo, sia chiaro).
Poi,  non sono un’esperta di simbologia satanica, ho semplicemente sfruttato la superstizione cristiana per descrivere quel simbolo (le croci che Mel vede nel suo sogno, sono croci da interpretarsi come rovesciate). Tra l’altro, giusto per togliere un po’ di pregiudizi, in realtà il pentacolo non è un simbolo malefico. Ha varie funzioni, ma per lo più è un simbolo di protezione. Infatti ho fatto in modo che il pentacolo fosse incompleto per rispetto alla sacralità del simbolo (oltre al fatto che, secondo le superstizioni cristiane più radicate, i simboli incompleti sono legati a Satana).
Ciò non toglie che i pazzi posso prendere i simboli e usarli a loro piacimento, dissacrando loro e traviando i loro seguaci (il nazismo con la svastica ne è un esempio lampante, visto che la svastica è il simbolo orientale del sole).
Scusate la piccola lezioncina.
Dunque, da quello che potete intuire, le cose adesso cominciano a mettersi male per Mel. Già quest’incubo non è stato facile da descrivere (niente spoiler), da adesso in poi le cose andranno peggiorando.
Ecco a voi il simbolo nell’incubo di Mel. Abbiate pazienza, l’ho buttato giù abbastanza in fretta. Fatemi sapere se riuscite a visualizzarlo, per favore.

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Capitolo 5
*** capitolo 5 ***


Erano passate circa due settimane. Chiacchieravo amabilmente con Sonia mentre la guardavo ridipingere una pianta sull'affresco della piccola cappella. In teoria, vista la mia gravidanza, non sarei dovuta trovarmi lì neanche per sbaglio, ma non riuscivo più a stare a casa. Secondo Righi andava tutto bene, ma io non stavo reagendo positivamente alla gravidanza. Passavo praticamente tutti i santi giorni a letto.

Non avevo nausee, ma forti giramenti di testa che mi prendevano particolarmente al calare della sera. Inoltre, avevo sempre freddo, nonostante l'estate fosse sempre più vicina. Per non parlare degli incubi. Dopo quello sul bimbo divorato non ne avevo avuti di così lucidi, tuttavia il mio sonno era estremamente agitato. Vista la situazione, Alberto si era rifiutato categoricamente di far fare orario ridotto a Paolino. Ero troppo stressata, e ciò non contribuiva affatto a migliorare l'umore di nessuno. Avevamo preso a chiamare Elisa molto più spesso, visto che mi sentivo sempre molto stanca. Mi piangeva il cuore affidarle Paolino così spesso, anche se ero a casa, ma non potevo fare altro, non avevo le energie per stargli dietro.

Comunque ogni tanto lo coccoli, vero?” mi chiese Sonia, quando le parlai della situazione.

Ma certo! Sto con lui almeno un'ora al giorno, da quando lo vado a prendere a quando arriva Elisa!”

E gli dici che gli vuoi bene, vero?”

Sicuro!”

Gli spieghi perché ultimamente non stai più con lui, vero?”

Ha due anni, Sonia!”

E quindi? Non è mica stupido!”

Scossi la testa, con un mezzo sorriso.

Ehi, Mel! Vuoi un bicchiere di the freddo?” La voce di Pamela, dall'altra parte della chiesa, catturò la mia attenzione. Mi voltai verso di lei, che sventolava un thermos nella mia direzione.

Ehi, Pamela! Certamente!” Mi alzai e andai verso di lei.

Occhio, potrebbe essere avvelenato!” mormorò Sonia.

Piantala...” risposi.

Ehi, Sonia! Guarda che ti ho sentito!” strillò Pamela.

Vedi che sei una creatura della notte? Hai un udito da pipistrello!”

No, semplicemente non ti sei preoccupata di sussurrare e questa chiesa ha un'acustica perfetta!”

Vidi Sonia arrossire e ridacchiai. Questa volta il punto andava a Pamela.

Allora? Come stai?” mi chiese, una volta raggiunta.

La fissai per un attimo, sorpresa. Non era da lei essere così espansiva.

Non guardarmi come se fossi un'aliena! Mi sono più che sufficienti le occhiatacce della tua amichetta laggiù!”

Ok, scusa! È solo che di solito stai sulle tue...”

Finché sei accoppiata a quell'oca, non puoi pretendere che abbia voglia di fare conversazione!”

Ehi, stai parlando della mia migliore amica!”

Hai ragione, scusami. Ho esagerato. Ma di una cosa sono sicura: meriti di meglio di lei.”

Le lanciai uno sguardo scettico. Ero anche stupita di questa sua sincerità, a dirla tutta. Così mi limitai a fare spallucce, sorseggiando il the.

Allora, come stai? Ho sentito che non te la passi molto bene.”

Feci spallucce nuovamente. “Periodi che capitano a tutti, suppongo...” mi interruppi, vedendo qualcosa di familiare che riposava sul suo petto. Un pentacolo.

Afferrai il ciondolo. “Ehi! Che ti prende???” protestò Pamela.

No, non era uguale al simbolo che avevo sognato io, anche se per un attimo mi era sembrato fosse così. Lasciai andare il monile, confusa.

Scusami, Pamela. Sono solo un po'...”

...matta?”

Scossi la testa. “Mi spiace. Che cosa vuol dire quel simbolo?”

Beh...” lo sguardo truce fu sostituito da uno lievemente preoccupato. “è un simbolo di protezione. Ma... perché me lo chiedi?”

Non è satanico?”

Lei sbuffò. “Ogni volta la stessa domanda idiota! No, affatto! È un simbolo pagano che non ha niente a che spartire con satana! Anzi, in linea strettamente teorica, i pagani neanche ci credono, a satana!”

Scrollai la testa, ancora più confusa.

Perché mi fai queste domande, comunque? Non ti credevo tipa da occultismo!”

Non lo sono, infatti... Ho solo fatto un sogno, di recente, dove c'era un pentacolo, ma era incompleto...” biascicai.

Il suo interesse si fece più vivo. “Ne sei sicura?”

Sì... perché?”

Di solito, un simbolo storpiato è simbolo di sfortuna. I satanisti sono esperti, in questo...”

In quel momento, il mio cellulare vibrò. Era mio padre.

Devo rispondere, Pamela, scusami!”

Pamela fece un vago cenno di assenso.

Pronto, papà?”

Tesoro? Ho bisogno di parlarti.” sembrava affaticato, come se dovesse lottare per ogni parola che usciva dalla sua bocca. Mi misi subito sul chi vive.

Tutto bene?”

Non proprio, tesoro... riesci a venire qui, per favore?”

Arrivo più presto che posso.” Misi giù il telefono.

Ragazze, devo correre da mio padre! Temo che non stia bene!”

Borbottarono qualche frase di circostanza, credo. Ma non le sentii bene, ero già schizzata fuori.



Venti minuti dopo ero a casa sua, davanti a un bicchiere di succo e a una fetta di torta.

Andiamo, papà. Perché mi hai chiamata? Cosa sta succedendo?”

Si sedette davanti a me, incrociando le dita delle mani e sospirando profondamente. Attesi, accarezzandomi il punto dove sentivo il mio “pesciolino” andare avanti e indietro, dentro di me. Il mio piccolino sembrava percepire la tensione.

La scorsa settimana mi hanno dato i referti.”

Aggrottai le sopracciglia. “No, mi hai detto che le analisi erano in ritardo...”

Ho mentito. Non volevo ti preoccupassi, e poi volevo stare da solo per un po', per digerire il colpo...”

Il colpo? Quale colpo? Papà, che sta succedendo?”

Sospirò di nuovo. “Mel, tesoro, ho un cancro allo stomaco.”





Nota dell'autrice: ecchime di ritorno! Lo so, è passata una marea di tempo! A mia discolpa, il motivo principale è stata la botta di sfiga! Avevo scritto il capitolo, ma poi, siccome tengo il documento anche in una chiavetta, l'unica copia del capitolo è andata persa perché il pc a cui lavoravo ha deciso di perdere tutti i dati! Mi ha fatto la stessa storia anche con l'altra mia long in corso! Ci ho messo del bello e del buono a recuperarle e comunque, come le ho recuperate, le ho perse di nuovo prima di poterle trasferire sul mio pc! A quanto sembra avevo un programma che aveva deciso di non lasciarmele tenere! Lasciamo perdere, và!

Faccio i ringraziamenti molto di fretta, questo giro! Quindi, grazie a tutti quelli che hanno letto! E grazie anche a La Luna Nera, che commenta con puntualità svizzera ogni capitolo!

A proposito, dopo averne dette tante, ho risistemato il capitolo 4, in cui, alla buon'ora, si vede anche il pentacolo! Questa volta ho fatto una cosa veramente chic, con il pc (il mio primo tentativo era un disegno fatto a mano).

Fatemi sapere cosa ne pensate!

E... se commentate un pochino di più, non mi offendo! :b :)

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Capitolo 6
*** capitolo 6 ***


Rimasi in silenzio per un tempo che mi sembrò lungo un'infinità. Sentivo il silenzio invadere i miei timpani. Il mio pesciolino si agitò ancora un po' dentro di me, prima di acquietarsi.

Mel, mi dispiace tanto, so che hai già tanti pensieri...”

Scossi la testa. Ancora non sapevo cosa pensare. Così alzai lo sguardo verso di lui. “A che punto è la malattia?”

Fortunatamente il tumore è ancora piccolo. Non è più allo stadio iniziale, ma i medici sono ottimisti. Tra una decina di giorni mi sottoporrò ad un intervento, poi mi faranno la chemioterapia.”

Non sapevo se sentirmi sollevata o infuriata. Optai per la seconda soluzione.

Perché diavolo non sei andato prima dal medico? Ma che ti è saltato in testa?”

Mel, calmati...”

Un corno! Spiegami perché hai aspettato così tanto prima di andare dal medico!”

Non pensavo fosse importante...”

Certo! Come no! Dopotutto, hai un mal di stomaco che non ti spieghi e lo trascuri! Tanto, chissenefrega di cosa potrebbe essere realmente! E a me non hai pensato??”

Scoppiai in lacrime. Lui mi accolse tra le sue braccia. Singhiozzai per un bel pezzo, fino a calmarmi. Aveva capito che ero sconvolta da tante cose tutte insieme. La gravidanza, che stavo vivendo malissimo, il fatto che non riuscivo a godermi mio figlio come avrei voluto, i miei incubi... e ora questo...

Cominciò a cullarmi.

Ti voglio bene, papà...”

Ti voglio bene anch'io, tesoro.”



Oh, amore, mi spiace tanto!” Alberto mi guardava comprensivo attraverso lo specchio, mentre si faceva la barba. Doveva uscire per una cena di lavoro. Dal salotto si sentivano le voci di Elisa e Paolo che giocavano.

Scrollai le spalle. A dire la verità non sapevo nemmeno cosa dire. Cosa si dice in circostanze simili?

Sicura di non voler venire?”

Annuii. “Sicura, tesoro.”



Mel, posso chiederti un favore?” Elisa interruppe il corso dei miei pensieri, mentre preparavo la cena per lei e Paolo.

Dimmi tutto!”

Potresti dare un'occhiata al mio compito, mentre nutro la piccola belva?”

Sorrisi. “Perché vuoi che sia io a guardare il tuo compito? Non puoi chiederlo a tua madre o a tuo padre?”

Mia madre è troppo impegnata a provarci con gli uomini delle altre, e mio padre ci ha abbandonate quando ero piccola.” quasi mi pento di averti fatto una domanda del genere.

Mi dispiace, non lo sapevo!”

Non preoccuparti, non potevi saperlo, non te ne ho mai parlato!”

Sì, ma ormai è da un pezzo che lavori qui, come minimo avrei potuto mostrare un po' di interessamento!”

Ma figurati, non è un problema! Anzi, apprezzo che tu non mi abbia mai fatto domande personali! Allora, darai un'occhiata al mio compito?”

Di che compito si tratta?”

Italiano. Scrivere un articolo di giornale su un fatto di cronaca che ci ha colpito. Personalmente, mi piace com'è venuto fuori, ma vorrei un parere esterno.”

Annuii, sentendomi anche vagamente lusingata. Lei mi allungò il foglio.

Dopo cinque minuti, glielo restituii. “Molto bello!”

Dici sul serio?”

Tieni conto che sono una capra, su questo argomento. I miei punti forti sono il disegno e la storia dell'arte. Ma mi sembra scritto bene!”

Grazie!”

Ma...” esitai “Come mai proprio quell'argomento?”

Il testo trattava di uno stupratore seriale che da un po' terrorizzava la città.

Lei scrollò le spalle. “Ho fatto alcune ricerche. Pare che 'Jack the Raper', come l'ha definito un giornalista che secondo me dovrebbero licenziare in tronco, se la prenda per lo più con ragazze della mia età. Non so, questo particolare mi è rimasto impresso. Senza contare il profilo psicologico ipotetico illustrato dagli psichiatri. Secondo loro, è probabile che 'Jack' sia un uomo piuttosto giovane, fra i trenta e i quarant'anni. Probabilmente è un uomo normale, apparentemente. Forse ha passato l'adolescenza a vedersi respinto dalle sue coetanee, e ora si rifà sulle ragazzine, essendosi accorto che ora, in confronto a lui, sono deboli e indifese.”

Un brivido corse lungo la mia schiena. “Lo sai che sei inquietante, vero?” cercai di scherzare.

Lei rise. “Sì, lo so, non è una cosa adatta a una ragazza della mia età. Ma... non so, questa cosa mi è rimasta impressa! E poi, è giusto anche informarsi, su certe cose, no?”

Le sorrisi “Farai un figurone, a scuola, te lo garantisco!”



Dopo due ore ero a letto. Elisa se n'era andata dopo aver messo a letto Paolo. Non riuscivo a dormire, mi sentivo stranamente inquieta, come se fossi in attesa di qualcosa. Il silenzio che era piombato in casa era pesante. Il caldo stava diventando afoso. Mi alzai per aprire la finestra e fare circolare un po' d'aria.

Mamma!” sentii Paolo chiamarmi con voce sonnolenta. Mi avviai verso la sua camera.

Mamma...” mi richiamò nuovamente. Ma la sua voce aveva qualcosa di strano, sembrava quasi sofferente. Cercai di accelerare il passo, ma mi accorsi che le mie gambe erano sempre più pesanti. La camera di Paolo sembrava così lontana, eppure era di fianco alla mia! Mi fermai a tirare il fiato. Poi riprovai ad avvicinarmi. A fatica , dopo un tempo quasi eterno, ci arrivai.

Mi avvicinai al lettino del mio cucciolo. Quello che vidi mi riempì di orrore. Portai la mano alla bocca, tentando di trattenere un urlo. Funzionò solo in parte, mi lasciai scappare un gemito.

Paolo era steso sul letto, le mani raccolte ordinatamente sulla pancia, il viso cereo. Attorno a lui, quasi a decorare un altare infernale, c'erano delle rose nere le cui foglie erano divorate da larve.

Cercai di trattenere un conato di vomito, mentre la mia mente pensava ossessivamente è solo un incubo, solo un incubo, uno stramaledetto, fottutissimo incubo. Mel, svegliati, svegliati, dannazione SVEGLIATI!

In quel mentre Paolo aprì gli occhi. Emisi un altro gemito angosciato. Non erano i soliti occhi verdi del mio Paolino, ma dei profondi buchi neri. Poi il corpicino del mio piccolo si levò nell'aria e prese a fluttuare davanti ai miei occhi inorriditi. Aprì la bocca. “Sei davvero sicura di conoscere le persone che ti circondano, mamma?” Poi scoppiò a ridere. Una risata acida, stridula, così diversa da quella di mio figlio. Indietreggiai, terrorizzata. Andai a sbattere contro qualcosa. Mi voltai, ritrovandomi a fissare il cane nero che già avevo visto altre volte. A quel punto urlai con tutto il fiato che avevo in corpo.



Mel! Amore, svegliati!” la voce di Alberto mi riportò alla realtà.

Mi tirai a sedere prima ancora di svegliarmi del tutto. Ansimavo, sudata fradicia. Respirai a fondo. Una volta. Due volte. Una terza volta. Non mi portò la pace che speravo nella mia testa, ma almeno contribuì a calmare il mio corpo. Riuscii persino a non vomitare.

Hai avuto un incubo?” mi chiese mio marito, accarezzandomi i capelli. Annuii.

Stai meglio?” annuii nuovamente, sapendo di mentire. Guardai l'ora. Le due del mattino.

Come mai sei tornato così tardi?”

Non mi ero accorto dell'ora. Mi sono trattenuto con i miei colleghi fino a poco fa.”

Spero tu abbia passato una bella serata.” sussurrai, prima di stendermi nuovamente.

Pensavo che non avrei più dormito, ma ripresi sonno quasi immediatamente. Un sonno senza sogni.

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Capitolo 7
*** capitolo 7 ***


Nelle settimane che seguirono, la mia situazione migliorò. La gravidanza procedeva bene. Avevo fatto anche un’amniocentesi per essere sicura che mio figlio stesse bene. Non che normalmente fossi a favore di esami invasivi in gravidanza (beh, esami invasivi in generale), ma ero in preda ad un’ansia incredibile, e non riuscivo a capire perché. Anche Alberto, alla fine, cominciò a caldeggiare perché facessi quel test. Risultò tutto a posto. Anzi, ci dissero anche il sesso del bambino. Era una bimba.
Col tempo sparirono le nausee e gli incubi si diradarono. In realtà, il mio sonno era ancora agitato, alla mattina mi svegliavo stanca, e avevo ancora un nodo di ansia alla gola che non mi abbandonava mai. Ma era senz’altro meglio degli incubi e del freddo che mi avevano accompagnato durante le settimane precedenti!
Riuscivo anche a stare dietro a Paolo, ora. Chiamavamo ancora Elisa, perché comunque avevo bisogno di aiuto, ma era diverso. Adesso non stavo più stesa a letto come una povera esaurita. Riuscivo anche a fare le pulizie.
Ogni giorno chiamavo papà, per sapere come procedeva. Lo avevano operato, l’operazione era andata bene e ora era sotto chemioterapia. Due volte a settimana lo andavo a trovare per aiutarlo in casa e per fargli un po’ di compagnia.
Insomma, nonostante tutto, le cose sembravano marciare. Tuttavia… non mi sentivo tranquilla. Ogni volta che guardavo la mia pancia sempre più visibile, o mio figlio, o mio padre, o mio marito, mi prendeva un terrore inspiegabile. E poi, l’ho già detto, alla notte non dormivo bene, mi sembrava di essere sempre scomoda. A volte mi sentivo anche osservata, mentre mi preparavo per andare a letto o mentre leggevo un qualsiasi libro per addormentarmi. Senza contare quel terribile incubo che riguardava il mio Paolino... sul momento non avevo proprio pensato ad andare a controllare che stesse bene, forse perché era stato Alberto a svegliarmi, se si fosse accorto che qualcosa non quadrava sarebbe andato lui stesso a controllare. E poi la mattina dopo Paolo era sveglio e pimpante come al solito. Nonostante questo, però, mi riscoprii ancora più ansiosa. Dalla sera dopo cominciai a controllare regolarmente la camera di Paolo. Fortunatamente, ebbi il buon senso di farlo quando lui era già addormentato. Non volevo spaventarlo più del necessario, altrimenti solo Dio sapeva che razza di squilibrato sarebbe diventato, vedendo sua madre impazzire in quel modo e cercare mostri che non esistevano. Entravo in camera, guardavo rapidamente in giro, lo mettevo a letto. Dopodiché aspettavo che si addormentasse, poi guardavo dentro il suo armadio, sotto il suo lettino, se ero particolarmente nervosa aprivo le finestre e controllavo… beh, finivo col controllare che non ci fosse nessuno appeso al muro di casa, visto che abitavamo al secondo piano. Il più delle volte, però questa mia ansia non serviva a nulla. Più che altro perché nel bel mezzo della notte mi svegliavo e quindi, già che c’ero, mi precipitavo in camera di Paolo per controllare che stesse bene.
Non successe praticamente più nulla di strano per diverse settimane. Precipitò tutto nel momento stesso in cui cominciai a rilassarmi.
Cominciò con una cosa molto banale. Alberto. Amavo mio marito, lo amavo davvero. Ma cominciava a darmi ai nervi. Mi aveva consigliato più e più volte di andare a consultarmi con qualcuno per queste mie ansie. Come se fossi pazza. In realtà ne avevo già parlato col dottor Righi e lui sosteneva che fosse tutto normale. Gli sbalzi ormonali potevano causare quei colpi di freddo e probabilmente le allucinazioni e i brutti sogni erano dovuti allo stress. Dopotutto, mio padre era malato di cancro, il primo parto era stato piuttosto difficile (anche se dubitavo fortemente che esistessero parti facili, del tipo “uno, due e un due tre, ecco il suo bimbo, signora!” “già faaaattoooo??”) e poteva tranquillamente essere che l’idea di avere un secondo figlio mi mettesse più paura di quanto pensassi. Dopotutto, era vero che dopo il primo figlio si acquisiva esperienza, ma c’era anche da dire che era comunque una situazione nuova. Imparare a gestire e formare due  personcine diverse non era un’impresa da poco. Non ero la prima a cui era successo un così forte stress durante la seconda gravidanza. O la terza. O la quarta. Se la situazione esterna era difficile, non era raro che si ripercuotesse sulla gravidanza. Infatti dovevo stare molto attenta. Per il momento i valori erano normali, ma se avessi continuato a stressarmi così, le cose sarebbero potute mettersi male. “Potrebbe influire anche la relazione con suo marito, in questo caso.” aveva concluso il dottore alla fine di quella lunga filippica. Aveva capito cosa mi aveva spinta a sfogarmi con lui, anche se non avevo menzionato Alberto, se non per dirgli che mi aveva consigliato di parlare con qualcuno di quello che mi stava succedendo. Infatti, non mi sentivo sostenuta da mio marito. Innanzitutto, quando mi aveva proposto di farmi aiutare l’aveva fatto senza un briciolo di tatto, poco mancava che mi dicesse “sei pazza, fatti curare.”
Per di più, aveva cominciato a uscire praticamente ogni sera. Ogni. Stramaledetta. Sera. Fra rimpatriate con compagni di medie, liceo e università, partite di calcetto e cene di lavoro, in pratica non lo vedevo più. E stavamo pure cominciando a litigare, per questo. Da marito iperpremuroso, improvvisamente cominciò a diventare assente. Sì, ogni volta che poteva mi aiutava in casa. Mi chiamava spesso per sapere come stavo, veniva con me alle visite. Ma, oltre a questo, basta. Da lui non ottenevo altro. Cominciavo ad essere sinceramente stufa di quella situazione. Non mi passò mai per l’anticamera del cervello che, forse, dietro a tutte queste assenze potesse esserci altro.
Il seme del dubbio venne piantato una sera. Ero al quarto mese di gravidanza. Mentre parlavo con Elisa del più e del meno (stavamo guardando un cartone animato con Paolo, la porta-finestra sulla terrazza spalancata per lasciar passare un po’ d’aria, visto il caldo torrido di quei giorni), mi chiamò Massimo, uno dei migliori amici di Alberto, con cui era uscito quella sera. Risposi immediatamente, pensando fosse successo qualcosa di grave.
“Pronto, Mel?”
“Ehi, Massimo! Tutto bene?”
“Sì, tutto a posto! Tu come stai? Il piccolo sta bene?”
“Beh…” ma perché lo chiedeva a me? Non era con Alberto? “Paolo sta bene…”
“E la gravidanza come procede?”
“Bene. Tutto a posto… ma… perché mi chiami? Alberto non è lì con te?”
“No, infatti chiamavo per sapere che fine ha fatto. È dalla scorsa settimana che non lo sento. Ho provato a chiamarlo al cellulare, ma non risponde.”
“Oh…” che cavolo stava succedendo? Perché Alberto non era con Massimo?
“Perché? Ti aveva detto che sarebbe stato con me?”
“Io… non ne sono sicura…” già, adesso cominciavo a nutrire seri dubbi. Non doveva trovarsi con Massimo a giocare a calcetto? O forse avevo confuso gli innumerevoli impegni sociali di mio marito?
Poteva anche essere. Dopotutto, ero molto stressata. Poteva anche essere che mi fossi confusa.
“Sai una cosa, Massimo? Può essere che mi sia sbagliata.” già, nulla di più probabile… e allora perché non ci credevo? “Sono un po’ stanca, ultimamente, è possibile che abbia fatto confusione!”
“Tranquilla, Mel, è comprensibile! Salutami Alberto e digli che si faccia sentire, o alla prossima partita gli spacco le rotule!”
Risi. “riferirò! Ciao, Massimo!”
Misi giù il telefono. Elisa mi fissò, incuriosita. Scossi leggermente la testa, prima di rinchiudermi in un mutismo totale. Sì, doveva essere andata così per forza. Alberto non mi aveva detto che era uscito con Massimo. Mi aveva sicuramente detto che era fuori con qualcun altro. Magari avevo confuso i nomi. Ecco, sì! Sicuramente era così!
Gli avrei chiesto conferma non appena fosse rientrato a casa.
Guardai lo schermo della TV, senza minimamente prestare attenzione al cartone. Fissavo le immagini senza vederle. La spiegazione che mi ero data non mi convinceva. Provai a telefonare a mio marito. Dopo quattro squilli mi rispose la segreteria telefonica. Posai il telefono. Sicuramente Alberto mi avrebbe richiamato. Di sicuro.
Mi addormentai. Mi svegliai mezz’ora dopo, sentendo la musica dei titoli di coda del film. Elisa si offrì di mettere Paolo a letto al posto mio. Mezza rintronata dalla dormita, annuii. Poi, sbadigliando, mi allungai verso il telefono. Nessun segno di Alberto. Telefonate, sms… nulla. Provai a richiamarlo. Ancora nessuna risposta. Che strano…
Che fine aveva fatto mio marito?

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Capitolo 8
*** capitolo 8 ***


“Che cosa ti ha detto quando è rientrato?” mi domandò Sonia, mentre fissava con cipiglio austero il progetto che aveva davanti.
“Che non si era accorto che fosse così tardi. È rientrato alle tre, stanotte.”
Mi trovavo di nuovo sul mio vecchio posto di lavoro, cosa che avrei dovuto evitare assolutamente a causa dei solventi. Infatti tenevo una mascherina davanti alla bocca, per precauzione, ma credo che Righi mi avrebbe rinnegata come paziente, se avesse saputo che ero lì. Fortuna che ci andavo raramente. Ma avevo bisogno di parlare con qualcuno. Non sapevo più a che santo votarmi pur di capire qualcosa di quella situazione. E poi non vedevo Sonia da parecchio. Tralasciamo il fatto che potrebbe passarti a trovare, una volta ogni tanto…
“Alle tre? E dove cavolo era stato?” Sonia alzò gli occhi di scatto dal progetto, fissandomi preoccupata.
“Mi ha detto che era stato ad una cena di lavoro. Onestamente, non so neanche se credergli.”
“Perché dovrebbe mentirti?”
“Per lo stesso motivo per cui passa praticamente tutte le sere fuori di casa, senza mai portarmi con sé.”
“Dici che ha un’altra donna?”
“Non so cosa pensare. Non sarebbe neanche la prima volta che un uomo con una moglie incinta si trova l’amante… mi sembra di non bastargli più…” la voce mi si ruppe.
La mia migliore amica emise un piccolo sbuffo col naso. “No, no, Mel stai calma! Non serve a nulla che ti agiti così, anzi, farai del male alla bimba! Secondo me, semplicemente, Alberto si sta comportando un po’ da immaturo, va via tutte le sere senza pensare che magari hai bisogno della sua compagnia. Ma lui ti adora, non ti tradirebbe mai! Insomma, mi hai detto che viene con te alle visite, no?”
“Sì…” singhiozzai. Inutile trattenere le lacrime, non ce l’avrei fatta neanche guardando un cucciolo che inciampava sulle sue stesse zampe. Anzi, mi sarei messa a piangere per il cucciolo…
“Ok. Se avesse un’amante sarebbe molto più assente, non si farebbe vivo neanche per le visite! Dopotutto, perché prendersi ore di permesso per una moglie che non si ama più, anche se incinta di tua figlia? Coraggio, ora respira profondamente, cerca di calmarti.”
Inspirai ed espirai molto profondamente.  In effetti, detta così suonava molto meglio. In fondo, poteva anche darsi che fosse spaventato almeno quanto me e per questo cercasse delle scappatoie. Questo non gli avrebbe risparmiato una lavata di testa, ma era senz’altro meglio l’idea di una crisi di infantilite acuta, di un’amante!
Rimasi lì ancora per un po’, poi me ne andai a casa. Avevo bisogno di dormire un po’.
Durante il tragitto verso casa, chiamai Alberto. Mi rispose la segretaria, dicendo che Alberto era in riunione. Così ringraziai e misi giù il telefono.
Una volta arrivata, mi stesi sul divano. In quel momento mi arrivò un messaggio. Era Alberto.
A: Mi ha appena detto Ornella che mi hai telefonato. Mi dispiace non aver preso la telefonata. Non posso richiamarti, ho un sacco di pratiche da sbrigare. Ci vediamo stasera, ti porto a mangiare una pizza col nostro bamboccio! Ti amo!
Sorrisi. Sonia aveva ragione, dopotutto. Era stato solo un momentaccio che era passato da solo.
Appoggiai il telefono a terra, poi presi sonno.
Mi risvegliai circa un’ora dopo. Il mio stomaco e la mia bimba reclamavano un po’ di cibo. Così, un po’ di malavoglia, mi alzai e andai a prepararmi un po’ di pasta.
Dalla cucina, lanciai un’occhiata al bagno, visto che, da dove mi trovavo, lo vedevo benissimo. Fu così che vidi la borsa di Alberto abbandonata sotto il lavandino.
“Accidenti, Alberto!” Sbottai, seccata, come se Alberto fosse in casa, in quel momento, e non al lavoro.
Sbuffando, andai a recuperare la borsa, convinta che, come al solito, l’avesse mollata lì con la roba di calcetto ridotta come se avesse passato la Grande Guerra, invece di buttarla nel cesto dei panni sporchi. Quando la spalancai, però, ebbi una piacevole sorpresa: invece del solito odore di morte e distruzione, trovai la roba pulita. Evidentemente l’aveva svuotata e poi l’aveva preparata in anticipo.
“Bene! Meglio così! Papà, per una volta, si è organizzato!” esclamai, rivolta alla bambina che, in quel momento, se ne stava bella e tranquilla nella mia pancia. Dovevo trovarle un nome, chiamarla solo “bimba” o “bambina” suonava così brutto!
“Dai, riportiamo la borsa di papà in bagno!” afferrai la borsa per i manici, con una mano. Con l’altra la presi per una tasca esterna. Una tasca che sembrava avere un piccolo rigonfiamento…
“Ma che diavolo…”
Forse non avrei dovuto farlo. Probabile. La curiosità uccide il gatto, si suol dire. Tuttavia, infilai la mano dentro alla tasca e ne tirai fuori qualcosa di stoffa.
Un paio di slip da donna.

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