Puntini

di JustAGuyWithNoVoice
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Puntini ***
Capitolo 2: *** . ***
Capitolo 3: *** .. ***
Capitolo 4: *** ... ***
Capitolo 5: *** .... ***
Capitolo 6: *** ..... ***
Capitolo 7: *** ...... ***



Capitolo 1
*** Puntini ***


Cos’è un puntino?

Un puntino potrebbe essere un semplice segno di matita sul foglio,  un lieve tratto di penna sopra la stanghetta della I, un segno di tempera appena visibile su una tela. Un puntino non è importante, se scomparisse pochi se ne accorgerebbero, e nessuno ne sentirebbe la mancanza.

Un puntino è la più piccola entità che la mente umana può immaginare. E’ alla base dei nostri pensieri, delle nostre emozioni, delle nostre sensazioni. Un puntino non è nulla, è inutile, superfluo. Ma due puntini? Tre, quattro, dieci, cento, mille puntini? Puntini che si stringono, compatti, a formare una linea; puntini che insieme formano le parole che scrivi sulla carta, puntini colorati che sono insignificanti da soli, ma insieme formano figure, paesaggi, persone, volti, centinaia di volti di persone con sentimenti ed emozioni, persone con delle vite piene e felici, persone con problemi, pregi, difetti, persone come te, come me, come tutti noi.

Tutto da un solo, unico, semplice puntino.

E se davvero un puntino è così insignificante, forse non ci si può fermare davanti al primo, forse il segreto è continuare, proseguire al secondo, al terzo, al quarto e così via, fino a perdersi nell’infinità dello spazio e del tempo, fino a scoprire che quel primo ed unico puntino.

Eri tu, fin dall’inizio.

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Capitolo 2
*** . ***


L’uomo in giacca e cravatta si sistemò il polsino, con la delicatezza di un chirurgo col bisturi, come se da quello dipendesse la sua stessa vita. Infilò il bottone nell’occhiello, tirò il lembo della camicia così che solo pochi millimetri fossero visibili oltre l’orlo della manica dell’abito scuro; poi, portò la mano al nodo della cravatta. Lo strinse, lo strinse forte, alzando appena il mento. Il suo collo era stretto in una morsa dal rigido colletto bianco. Con un rapido movimento della mano gemella, infine, si spolverò appena la spalla, per togliere un po’ di polvere, qualche rimpianto, forse una lacrima; i suoi occhi, nel mentre, fissavano il vuoto. Chinò appena il capo, dischiuse le labbra, prese un respiro.

E saltò.

Saltò oltre la finestra di fronte a sé. Saltò oltre i problemi, le preoccupazioni. Saltò oltre il rimorso, il rimpianto di una vita che non visse mai. Il vetro s’infranse, le schegge volarono tutt’intorno in una piccola nube che rifrangeva ogni colore dell’arcobaleno; una delle schegge gli graffiò il viso, ed il sangue iniziò a sgorgare, salendo su per la sua guancia. Il sangue andava su, e l’uomo in giacca e cravatta andava giù, veloce, sempre più veloce, mentre la sua mente si riempiva lentamente. Pensieri sui suoi amici, pensieri sulla sua famiglia, sul suo lavoro. Cosa avrebbe voluto fare, dove avrebbe voluto andare, chi avrebbe voluto essere. Allargò le braccia, mentre il vento gli fischiava nelle orecchie, lo assordava, lo spingeva con tutta la sua forza, come se volesse arrestare la sua caduta. Ma l’uomo in giacca e cravatta non smise di precipitare, ed i pensieri non smisero di offuscargli la mente, finché non vide un nastro rosso volteggiare appena, accanto a lui. La sua cravatta. Si era slegata. Ed il polsino si era sbottonato. Il suolo era così vicino, che avrebbe potuto allungare la mano per toccarlo, la sua caduta era giunta al termine. I pensieri si fermarono, il vento smise di gridare, il mondo smise di muoversi. E l’uomo in giacca e cravatta sorrise, per l’ultima volta.

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Capitolo 3
*** .. ***


Il vento mi accarezzava i capelli, mentre il mio viso volgeva verso il blu dinnanzi a me. Mi si dispiegava davanti l’immensità dell’oceano e l’acqua cristallina, leggermente increspata, brillava di mille sfumature di arancione mentre il sole volgeva pigramente verso il tramonto. Poco distante da me un paio di occhi mi scrutava, allegro e giocondo: quel paio di occhi apparteneva ad una creatura infinitamente più bella di ogni altra cosa avessi mai visto. Aveva la pelle più scura della mia, ed un modo così esotico di parlare, di muoversi, che sembrava uscita dalla più fine miniatura araba. Compieva passi piccoli e svelti, avvicinandosi a me senza muovere un istante i suoi occhi dai miei, incrociando il mio sguardo come per una sfida silente, le labbra incurvate in un dolce sorriso. Arrivata di fianco a me guardò per un po’ l’oceano, similmente a come facevo io pochi attimi prima, e adesso ero io ad esplorare il suo viso con lo sguardo. Due zigomi alti e snelli, due labbra vermiglie e carnose, due occhi dal colore dell’erba mattutina,  impreziosita da giada e smeraldi. Mi guardò per un istante, con un sorriso accennato sulle labbra, ed io non potei fare altro che ricambiare quello sguardo, ed imitare quel sorriso mentre intrecciavo le mie mani con le sue, più minute, e le avvolgevo i fianchi con le braccia. I nostri corpi vicinissimi, infreddoliti dal vento che andava pian piano alzandosi, iniziarono a riscaldarsi l’un l’altro, mentre i nostri fiati umidi e leggeri si mescevano, l’uno con l’altro, e ci carezzavano le guance. Due culture diverse, due lingue tra loro lontanissime, due mondi diversi, due piccole galassie che collidono, si sovrappongono, e creano qualcosa di immenso, inspiegabile, meraviglioso. Non erano solo le nostre dita gelide ad intrecciarsi, ma le nostre anime, l’una nell’altra come due piccoli torrenti che insieme formano un impetuoso fiume. D’un tratto, spinse le sue morbide labbra contro le mie, stringendomi forte a sé. Un lungo, interminabile bacio. Un solo, unico bacio, impetuoso come un mare in tempesta; e come la tempesta al mattino, dissipata dalla calda luce del sole, il vento si fermò, lei mi sorrise e scomparve tra le onde come schiuma marina, scomparve dalla mia vita come se non ci fosse mai stata.

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Capitolo 4
*** ... ***


“Il mondo è un palco” Disse Shakespeare, “uomini e donne sono solamente attori.”

E se forse Bill non si fosse sbagliato più di tanto?

Immaginate l’universo come un enorme, gigantesco cinema multisala; botteghini, bar, macchine dei pop corn sparse un po’ ovunque. Centinaia di migliaia di kilometri corridoi su cui si aprono milioni e milioni di porte, che conducono ognuna ad una diversa sala. Ogni sala ha un design diverso, con un diverso colore delle poltroncine, o rifiniture diverse, comparti audio e video migliori o peggiori a seconda del film che viene trasmesso, a ripetizione, sempre uguale. Ci sono, così, sale vuote e sale stracolme, sale immense che possono accogliere un’infinità di spettatori, e sale più piccine, appartate, riservate magari a film di poco successo o particolarmente noiosi.

Uno di questi film particolarmente noiosi viene dato nella sala numero quattrocentomiliardiseicentosessantasettemilioniottantaduemilatrecentonove, nel millecinquecentesimo corridoio, sulla destra di uno stand dello zucchero filato. In quella sala ci siamo proprio noi; o meglio, il nostro universo, che dall’alba dei tempi continua ad essere trasmesso, con il suo andamento ciclico. Un film breve, quasi un cortometraggio, abbastanza lento e non troppo impegnato: ma se si guarda in un angolino in alto a sinistra, si dovrebbe poter vedere un puntino bianco, la via lattea. E guardando ben bene, con un po’ di attenzione, appena sul bordo di quel puntino si potrebbe scorgere un’ombra rossa, il sole. Noi siamo lì, tutti quanti, tutti comparse di questo film low budget indipendente, ogni nostra singola parola contribuisce a rendere quel film ciò che è, anche se in maniera molto subdola; un film senza comparse non è un vero film, e forse siamo proprio noi che rendiamo possibile questa modesta opera. Certo, noi non possiamo sapere se è stato un successo o un flop al botteghino; chi può dirci se in sala c’è qualcuno che ci sta guardando? Chi mai potrebbe guardare attraverso lo schermo, attraverso la pellicola, e dire con certezza che la sala è piena o vuota?

Nessuno, ecco chi. Ma Shakespeare disse anche che lo show deve andare avanti. E lo show andrà avanti fino alla fine, per poi ricominciare ancora, e ancora, e ancora, e ancora, e ancora…

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Capitolo 5
*** .... ***


La sua vita era sempre stata frenetica, saltando qua e là da un impegno all’altro, cercando di accontentare tutti, famiglia, amici, professori, anche rinunciando al tempo da dedicare a sé stesso. Si muoveva sempre rapidamente, sempre correndo, sempre con il pensiero volto al prossimo impegno.

Anche quel giorno, mentre correva verso la sua scuola per partecipare ad uno dei corsi pomeridiani, la sua mente era assente. Lo sguardo era spento, le braccia ondeggiavano rapide, avanti e indietro, mentre avanzava in silenzio, attraversando una stradina a pochi passi dalla scuola.

Anche l’autista del camion che stava percorrendo quella stessa strada aveva lo sguardo assente: una mano sul volante, l’altra all’orecchio tenendo un telefono cellulare. All’altro capo, una donna piangeva e strillava, minacciava di andarsene, di portarsi via i bambini. L’autista scuoteva il capo, mormorava alla donna di calmarsi, le diceva che avrebbe sistemato ogni cosa, tentava di tranquillizzarla, ma non ci riuscì. Non ci riuscì perché prima di poter finire il suo discorso, il cellulare gli cadde di mano, la voce gli si strozzò in gola, ed in una frazione di secondo spinse con tutte le sue forze il piede sul freno. Aveva visto un ragazzetto di appena tredici anni proprio di fronte al camion; lo aveva visto quando ormai era troppo tardi.

Anche il ragazzo notò il camion quando ormai non c’era più niente da fare. Si girò verso di esso, spalancando gli occhi come un cervo abbagliato dai fendinebbia, i piedi gli si piantarono nell’asfalto come se fosse carta moschicida. Chiuse gli occhi, prese un respiro. Solo pochi secondi, e tutta la frenesia della sua vita sarebbe terminata.

Secondi che non sarebbero mai passati.

Quando il ragazzo aprì gli occhi, Il camion era lì, ad un palmo dal suo naso. Lo sguardo gli si conficcò su uno dei fari accesi, per qualche secondo, cercando di realizzare cosa fosse appena successo. Era morto? Oppure era solo incastrato in uno di quei sogni coscienti, quelli dove si può fare ciò che si vuole? Alzò gli occhi, mosse qualche lento, cauto passo indietro e scorse l’autista dietro il parabrezza, che stringeva con forza il volante. Aveva il volto pallido, ed una goccia di sudore si era fermata proprio sulla guancia, pronta a scivolare giù da un momento all’altro. Ma non si muoveva. Anzi, guardandosi intorno, il ragazzo scoprì che nulla si muoveva: le fronde degli alberi erano rigidamente immobili, le rondini in cielo fluttuavano con le ali spiegate, come appese a fili invisibili. Nulla, intorno a lui, sembrava emettere un singolo suono. Tutt’intorno, il mondo sembrava fermo in una fotografia, ma lui no. Cercò di muovere le dita, girò il capo a destra, poi a sinistra, e mosse qualche passo incerto in quella direzione; continuò a muoversi come se stesse camminando su vetri rotti, fino a raggiungere il marciapiede. Aveva sempre desiderato più tempo, ed il suo desiderio era stato avverato: tempo, tanto tempo da poter vivere un’infinità di vite, insieme ad un silenzio mortale che gli divorò l’anima.

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Capitolo 6
*** ..... ***


Era una gelida notte senza stelle. Il ragazzo con il cappuccio normalmente non sarebbe mai uscito a quell’ora, e mai si sarebbe spinto oltre le mura della città, nei boschi limitrofi. Quella, però, non era una notte normale. Il ragazzo si trovava avvolto nelle sue calde coperte di lana, scaldato dal tepore del camino nella stanza affianco, quando la sentì: una dolce melodia che gli entrò in testa e gli solleticò la mente a tal punto da spingerlo fuori dal suo morbido letto, fuori dalla sua casa accogliente, lontano dalla sua città e da tutto ciò che era caro per lui.

Il bosco era scuro, sinistro, ma più di tutto era silenzioso. Non il flebile ronzio degli insetti, né l’ululato dei lupi rivolti alla luna nascosta dalle nubi, o il gentile fruscio delle foglie mosse dal vento freddo. Gli stessi passi del ragazzo col cappuccio sull’erba bagnata e le foglie secche non producevano alcun suono, come se stesse camminando sospeso a qualche centimetro dal suolo. Tutto intorno a lui l’aria si faceva sempre più pesante ad ogni passo, e l’oscurità s’infittiva avvolgendo il suo corpo con delle spire mortali, stringendo sempre di più ogni secondo fino a soffocarlo.

D’un tratto, però, le ombre si diradarono, l’aria si sollevò da lui come spinta da una forza invisibile, e attorno al ragazzo si diffuse una musica soave, la stessa che lo aveva portato fin lì. Il dolce suono gli accarezzò il viso, lo prese gentilmente per mano e lo condusse da un albero ad un altro, tra i cespugli, ripercorrendo il sentiero che conduceva alla sua fonte. Il ragazzo col cappuccio seguì la melodia senza esitare, a passo svelto, con gli occhi attenti per scorgere il misterioso musico non appena questi si fosse rivelato: ed ecco, spostando una fronda un magnifico spettacolo gli si presentò davanti. Un’ampia radura, nella quale un fiume si riversava per formare un lago profondissimo, tanto limpido da poter vedere ogni granello di sabbia sul fondale; nell’acqua, moltissimi pesci risplendevano di tutti i colori dell’arcobaleno, e migliaia di lucciole illuminavano l’aere come fossero stelle in miniatura. Al centro del lago, una donna dai capelli lunghissimi, color del rame, che le scendevano lungo la schiena fino a sfiorare l’acqua. La sua pelle era così liscia e pallida, illuminata dalla luce delle minuscole lanterne che le volteggiavano attorno, e tra le mani reggeva una cetra d’oro, con cesellature finissime, impeccabili, che rappresentavano scene di caccia.

“Eccoti arrivato, finalmente”  Disse. “Ti stavo aspettando”

Si avvicinò di qualche passo, le punte dei suoi piedi volteggiavano sul pelo dell’acqua creando lievi increspature.

“Vieni, coraggio, non aver paura”

Il ragazzo col cappuccio deglutì, con il cuore in gola. Mosse lentamente qualche passo verso l’acqua, fermandosi infine sulla riva. Tenne gli occhi fissi sulla donna e con infinita lentezza poggiò un piede sull’acqua, poi tremando spostò il peso su di esso. Mosse un altro passo, e poi un altro ancora, mentre l’acqua s’induriva ogni volta che veniva toccata da lui, come trasformandosi in vetro. Riuscì a raggiungere la donna, che curvò le labbra carnose in un sorriso.

“Ecco il mio bambino”  Sussurrò, lasciando andare lo strumento per posare le mano sulle guance del ragazzo. La cetra cadde, esplodendo in migliaia di minuscoli frammenti lucenti appena prima di toccare l’acqua. Al sentire quel leggero tocco sulla propria pelle, il ragazzo avvampò in un istante, come sciogliendosi tra le calde dita della dama del lago.

“Fatti vedere meglio”  Mosse le dita affusolate sul cappuccio per sollevarlo, lasciando scoperti i lineamenti del viso del ragazzo. Un viso pallido, affilato, con zigomi alti ed un sottile naso all’insù. Le guance erano coperte di lentiggini, e la brezza lieve gli arruffava giocosa i capelli corvini. Il ragazzo sentiva i battiti del cuore farsi sempre più vicini l’uno all’altro, sempre più impetuosi e violenti, e la mente si annebbiava di mille pensieri.

“È passato così tanto tempo, dall’ultima volta”  Disse, ed il sorriso della dama si allargò.

 E si allargò ancora, quando conficcò le dita nelle guance del ragazzo. Il sorriso si fece innaturalmente largo, la pelle candida iniziò ad indurirsi ed inspessirsi, mentre i capelli lucenti diventavano una folta criniera. Gli occhi le si iniettarono di sangue, e le dita divennero artigli. In meno di un attimo, ogni pensiero svanì dalla mente del ragazzo, e la meraviglia si trasformò in orrore quando poté vedere meglio il mostro che adesso lo stava sollevando dal pelo dell’acqua, stringendolo con i lunghi artigli affilati. Un orribile creatura più simile ad un coccodrillo che ad un uomo, e allargò l’orrida bocca per mostrare al giovane un grande sorriso divertito.

“La mia fame è insaziabile”  Ruggì il mostro. “Ma la tua anima mi basterà per un altro poco” Rise, stritolando il ragazzo orma paralizzato dal terrore nella sua morsa, per poi spalancare le fauci, e fare di lui un sol boccone.

Il suo cappuccio rimase a galleggiare per qualche minuto sul pelo dell’acqua prima di affondare in quel liquido rossastro, senza lasciare traccia.

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Capitolo 7
*** ...... ***


Chimica.

Quella scienza che studia la composizione della materia: gli atomi, come si legano tra di loro, come reagiscono gli uni con gli altri. Chimica, la stessa parola che scherzosamente si usa per descrivere un rapporto passionale. E così, magari si può fare anche un passo avanti, dire che tutte le persone sono atomi, e la chimica può aiutarci a capire la gente. Pensateci, esiste un finito numero di atomi, così come esiste un finito numero di persone. Ci sono persone pronte a cedere un elettrone nel caso possa aiutare qualcuno, persone pronte a ricevere ogni elettrone disponibile per arrivare ai propri scopi; persone più o meno reattive, più o meno complesse, che si dispongono naturalmente con i più pesanti in fondo, ed i più leggeri in cima. Persone che si legano fra loro, in rapporti più o meno eguali. Miscele di due atomi che formano una piccola molecola compatta, tre o quattro atomi che si fondono in una piccola comunità, e queste piccole miscele si uniscono a formare macromolecole, enormi e complesse, dove ogni molecola si unisce con le altre in una rete di collegamenti più o meno stretti, ma comunque fragili, tanto da rompersi a causa del più piccolo enzima. Esistono legami ionici, dove un atomo tiene saldamente l’altro al guinzaglio, grazie ad uno dei suoi elettroni: ed il poveretto, ormai monco, è costretto a seguire eternamente il padrone, fino a quando non sarà liberato, magari grazie ad un’inaspettata scarica elettrica, da questa prigionia. Esistono miscele esplosive, pericolosissime, ma ancora più pericolosi sono gli atomi radioattivi, che sembrano perfettamente normali a prima vista, ma in realtà sono altamente instabili, e pronti a scatenare una reazione devastante alla prima occasione.

 E tra tutto questo caos di vorticosi miscugli, legami ed interazioni, ci stanno degli atomi particolari, forse tra i più solitari dell’intera tavola periodica. Sono i gas nobili, gli elementi completi, che non hanno bisogno di cedere o acquistare elettroni, e non possono prendere parte agli scambi frenetici degli altri elementi. Possono invece stare in disparte, a guardare, desiderosi di essere tanto reattivi come l’ossigeno ed il carbonio; ma l’argo, o il neon, o l’elio non potranno mai formare legami con nessun altro atomo, anche se lo desiderassero con tutto il proprio ardore. E così, i gas nobili vagano, in solitudine, nell’atmosfera, maledicendo la chimica per averli creati così infinitamente soli, ed immaginando il giorno in cui non importerà più delle leggi della fisica, quando l’intero universo si compatterà in un punto infinitesimamente piccolo, e non saranno più soli, ma parte di qualcosa di immensamente bello.

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