Mislaid, smarriti

di kuutamo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** Adam ***
Capitolo 3: *** Elizabeth ***
Capitolo 4: *** I am your worst nightmare and your wildest dream ***
Capitolo 5: *** Same but different ***
Capitolo 6: *** I'll blow back in your mouth and you can blow back too ***
Capitolo 7: *** Nobody ever said it'd be easy ***
Capitolo 8: *** Suffocate in all my memories until I cannot breathe ***
Capitolo 9: *** My body is craving, so feed the hungry ***
Capitolo 10: *** Why don't you tell it like it really is? ***
Capitolo 11: *** More chaotic, no relief ***
Capitolo 12: *** Veneficium ***
Capitolo 13: *** You made me feel like the one ***
Capitolo 14: *** Forget the fear and feel free at last ***



Capitolo 1
*** Prologue ***


" Ho dovuto scoprirlo da quell'arpia di tua madre cosa stava succedendo "

" Ma di che diavolo parli ? "

Lui si avvicinò a lei lasciando cadere sul pavimento ciò che aveva in mano, e le prese un braccio: ora poteva guardarla negli occhi. Lei vedeva la rabbia arroventare i suoi, color nocciola, e quelle venature verdi che le erano sempre piaciute tanto ora erano iniettate di un veleno più amaro del veleno stesso.

Sentiva nella pancia quel dolore e quell'ansia che solo chi è innamorato riesce a sentire, così chiara, struggente: la paura di perderlo.

" Avete fatto tutto alle mie spalle, ma soprattutto lo hai fatto tu. Questa è l'unica cosa che conta ora per me "

" Vuoi spiegarmi cosa ti ha detto mia madre? "

" So tutto… Di te e John " sbottò.

Continuarono a guardarsi ma in lei si era come creato un muro; una doccia fredda l'aveva riscossa. Rimase in silenzio, e nulla fu come prima.

" Bene. Era questo ciò che mi serviva "

Il suo silenzio era per lui più di una parola tagliente; con quel silenzio aveva ammesso tutto.

" Mi hai tenuto nascosto ogni cosa… Da quanto va avanti? Dimmelo, almeno questo me lo devi "

" Tra me e John non c'è e non ci potrà mai essere niente. Si è fatto avanti e mia madre lo ha appoggiato, contro la mia volontà. Lo sai che non ti ha… "

" Accettato? Mi sembra un po' riduttivo. Cazzo tu sapevi tutto, tutto. Io non ti credo " gli occhi di lui erano lontani. Era come se i due non parlassero più la stessa lingua.

" Ma devi credermi, hanno combinato loro ogni cosa. Non volevo che facessi una pazzia, per questo non te l'ho detto "

" Gran bella cazzata, già, ma dovrai inventartene una migliore "

" Non è una cazzata " strinse i pugni, scandendo a denti stretti ogni parola.

" Tutto lo è, tutto quello che c'è stato. Sono talmente importante per te che non sei riuscita neanche a dirmi la verità. Mi hai mentito, lo hai fatto ogni giorno e chissà per quanto. Non sei poi tanto diversa da tua madre "

Gli occhi di lei si riempirono di lacrime e la vista le si offuscò.

Lui aveva ripreso a fare il borsone che teneva aperto sul letto.

" Dove stai andando? "

" Non credo ti riguardi. Hai già chi mi rimpiazzerà. Ma probabilmente lo ha già fatto da un po', vero? " disse con tono amareggiato fissando la lampada sul comodino, dandole le spalle. Lei si stringeva le braccia, ma non sapeva da dove venisse fuori tutto quel freddo.

" Stai dicendo solo una marea di sciocchezze, non sai minimamente quello che dici "

Lui continuò a piegare i vestiti furiosamente e disordinatamente, non pensando davvero a cosa stesse facendo.

Gli prese la mano, ma lui la ricacciò indietro. In quel momento non avrebbe potuto sopportare il suo tocco, non voleva ascoltarla, sentire la propria pelle contro quella di lei. Il suo profumo era già abbastanza, troppo e non poteva evitare di inalarlo.

" Devi andartene "

" Dove stai andando ? "

" Non sono affari tuoi "

" Dove cazzo stai andando? "

In un attimo la afferrò dagli avambracci e si ritrovarono contro il muro, i volti così vicini da sfiorarsi.

Lacrime e ciglia.

" Ho detto che non sono affari tuoi. Ora per favore tornatene a casa "

La lasciò e lei immediatamente prese a massaggiarsi i lembi di pelle.

Era furiosa, si sentiva colpevole, ma profondamente indignata. Fece per avvicinarsi alla porta ma poi tornò sui suoi passi. Riguardò il suo borsone.

" Parlavamo di come ce ne saremmo andati da questo posto insieme, e ora guardati. Guardaci "

" Le cose cambiano "

" È tutto qui quello che hai da dire? Una squallida frase riusata anche sai sassi? "

" Cazzo, non so se ti è chiaro, ma nel momento in cui ho capito davvero come sei fatta, tutto intorno a me si è annullato. Tutte le tue parole sono diventate sabbia, un mucchio di cose senza alcun valore, e tutto questo è colpa tua. Forse era destino. Forse avrei dovuto ascoltare tuo padre e fare le valige molto tempo fa quando mi disse che non avrei mai potuto avere una come te. E la cosa umiliante è che fin ora ho sempre pensato di avergli dimostrato il contrario, ma in un attimo le sue parole si sono trasformate in realtà. Quindi si, è tutto qui quello che ho da dire, perché non c'è più nulla da dire. Ti lascerò alla tua vita perfetta, così diventerai quella di un tempo e non avrai ‘distrazioni’; ti sposerai con quell'idiota a misura dei tuoi genitori e la tua vita sarà felice. Era questo quello che tutti volevano ed è questo ciò che avrete. "

Tremava.

La sua voce era decisa ma dentro sapeva che appena lei sarebbe uscita da quella camera, le sue gambe avrebbero ceduto.

" Dirti che io non lo voglio, non cambierà nulla vero? "

 

Non parlò, ma lei capì il suo assenso ed annuii tra le lacrime.

 

" Bene, quindi è qui che finisce tutto " costatò atona.

" Si. Tornerai alla tua vita, a com'era prima che io la sconvolgessi. Sono stato una pausa e spero piacevole. Da domani sarà tutto più facile, credimi. E mi dimenticherai "

 

' No, non lo farò ' disse a se stessa.

 

" Ora vai " sentenziò. Stava quasi per crollare, stringeva i pugni e la t-shirt che aveva nella mano destra si stropicciò ulteriormente.

" Vattene! " urlò alla parete dinanzi a sé e sentì i movimenti di lei e il suo singhiozzare.

 

" Ti amo " sentì quel bisbiglio involontariamente, ma non avrebbe mai voluto udirlo. Avvertì le sue labbra schiudersi e ansimare disperatamente. Poi dei passi, sempre più veloci, una corsa che si faceva sempre più lontana e ovattata.

 

Quando ci fu solo silenzio intorno a lui, allora le rispose, con tutta la sua anima.

 

 

" ..Ti amo anch'io " sospirò. La t-shirt sempre più compressa stretta nella morsa della sua mano.

 

 

 

La ragazza tornò a fargli visita in piena notte: corse a perdifiato dalla sua villetta a schiera fino alla casa nel bosco. Ma quando arrivò alla finestra della stessa camera dove poche ore prima avevano litigato, non trovò nessuno ad aprirle. La luce era spenta, la stanza era tristemente vuota e sottosopra, dai cassetti aperti sporgevano le magliette del suo ragazzo, quelle stesse magliette a cui si era dolcemente stretta durante i pomeriggi assolati passati nel bosco, a contemplare il cielo e il volto di Adam, ma soltanto di nascosto mentre dormiva e non poteva vederla.

Inspirò profondamente e l'aria che accolse in corpo le fece male, la trafisse senza pietà e il nodo alla gola si sciolse per un secondo prima di scendere nello stomaco e farsi dieci volte più grande e doloroso.

Adam se n'era andato.

 

 

 

Note:

Sto revisionando la storia. Buona (ri)lettura.

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Capitolo 2
*** Adam ***
























La nebbia si diradava sulle colline permettendo ai primi raggi di sole di filtrare e illuminare quel piccolo angolo di mondo.

Adam rimase a guardare l'alba dal suo porticato con una tazza di caffè ormai freddo in mano.

Spesso gli capitava di perdersi osservando il panorama che la sua casa offriva o semplicemente fissando il vuoto, dimenticandosi di tutto e di tutti. Abitava in una casa ai limiti della città, immersa nel bosco e passava lì sotto il portico il suo tempo quasi tutte le mattine. Dopo essersi alzato, ancora con il buio, preparava il caffè e andava fuori aspettando che le prime luci tracciassero i contorni dell'orizzonte e delle montagne. Rimaneva lì finché il sole non era completamente sorto e a volte si tratteneva anche di più, dipendeva dai suoi pensieri.

Sul suo volto segnato un po' dal tempo, c'erano mille particolari che però, al contrario delle rughe sottili, restavano celate. La sua mente veniva rapita in quei momenti, e se ne risvegliava soltanto dopo aver fatto un lungo giro a largo nel mare dei suoi pensieri, lì dove non si toccava il fondo e poteva scegliere solo se continuare arrancare a nuotare o lasciarsi finalmente affogare.

Nessuno sapeva né tantomeno osava chiedergli a cosa stesse pensando con così tanto trasporto. La sua gavetta, Keith, passava a prenderlo molte volte, ma lo aspettava sempre in auto: Adam si alzava e andava dentro casa a prendere i suoi effetti, poi richiudeva la porta dietro di sé e un attimo prima di voltarsi e affrontare un nuovo giorno indossava il suo sorriso migliore. Tutti in quel posto conoscevano la storia di Adam, e tutti cercavano, stranamente, di evitare certi argomenti; si limitavano ad ignorare alcuni suoi comportamenti ambigui, proprio come faceva il giovane Keith.

Tuttavia, soltanto il diretto interessato conosceva bene i tormenti che lo angustiavano: erano arrivati una sera, col vento caldo di fine agosto e non se n'erano mai andati.

 

Da cinque anni frequentava Kim, una donna che abitava alle porte della piccola cittadina di Twins: con lei le cose si poteva dire che andassero a gonfie vele, o almeno era quello che lui le lasciava credere e che ancor peggio lasciava credere a se stesso. Kim aveva due figli, un maschio e una femmina, avuti con il suo precedente marito dal quale aveva divorziato subito dopo aver saputo d'essere incinta del secondo figlio. Lui la tradiva e lei non sopportava più lo sguardo con cui le altre donne, sue ex compagne di liceo, la trafiggevano ogni volta che si faceva vedere in centro. Adam l'aveva conosciuta per caso quando era passata nel suo negozio per prendere degli attrezzi: l'uomo si era rimboccato le maniche ed aveva messo su una piccola ditta di costruzioni, insieme ad un negozio che fungeva anche da base organizzativa e da deposito materiali. Adam mandava avanti quel posto con l’aiuto di alcuni suoi amici, i quali erano stati licenziati dalla fabbrica locale, chiusa per bancarotta dopo trentacinque anni d'attività.

 

Da quella calda notte di agosto, quando tutta la sua vita era cambiata, aveva fatto passare ben due anni, cinque mesi e due settimane prima che il suo istinto lo spinse nuovamente a tornare dov'era cresciuto, al di là del cartello che diceva << Benvenuti a Twins! >>. Quando aveva riletto quella scritta si era chiesto cosa ci fosse poi di così eclatante da esclamare un così fastoso benvenuto. Aveva cercato di tenersene alla larga, di stare lontano da quel posto, ma il tempo non era stato gentile con lui. Non era stato gentile neanche il suo zio di San Francisco, città dove si era trasferito, dove alle sue dipendenze il vecchio zio lo aveva letteralmente sfruttato come un mulo facendolo lavorare nel ristorante di crostacei che gestiva con la moglie Gladys, povera donna. Cercò di resistere il più a lungo possibile ma un giorno dopo una violenta lite, fu cacciato via e per di più senza essere pagato. Così, senza denaro da parte, l'unica strada possibile che si apriva davanti a lui era quella di tornare a casa, malvolentieri, e fare domanda alla vecchia fabbrica che bene o male non aveva mai negato il lavoro a nessuno in città. Ma al suo ritorno purtroppo, trovò la fabbrica chiusa per fallimento. Dopo qualche mese, aveva trovato un piccolo lavoretto occasionale da taglialegna.

Mentre un giorno stava sgomberando una strada sterrata sulla quale i fulmini avevano abbattuto degli alberi, Christopher Dawn passò di lì.

L'uomo abbassò il finestrino, ma Adam non aveva avuto bisogno di controllare chi ci fosse nell’abitacolo, perché avrebbe riconosciuto quell’auto tra mille altre.

"Ma guarda un po' quale lupo è tornato in città! Allora le voci sono vere"

Il ragazzo continuava a spostare rami e ad ammucchiarli sul lato della strada. L'uomo si avvicinò con l'auto ancora un po'.

"Si dice che tu abbia fatto incazzare anche tuo zio, pover'uomo. Deve aver avuto una pazienza quasi inesauribile per tenerti con sé per quanto? Due anni?"

"Sì" rispose a denti stretti.

"Già - notò con soddisfazione l'uomo. Ormai le sue tempie erano completamente ricoperte di radi capelli grigi. Masticò il chewing-gum tre o quattro volte, vestendosi di uno strano ghigno, mentre guardava Adam negli occhi - Lei è ad Atlanta, ma mi dispiace dirti che purtroppo non torna spesso a casa. Credo che non la rivedrai nemmeno per sbaglio"

"Chi ti dice che io voglia rivederla?"

"Ecco! Dannazione, è questo lo spirito giusto ragazzo! Solo che qualche anno fa eri ancora troppo testardo per capirlo"

Christopher Dawn si sistemò meglio al volante soddisfatto per i suoi insulti che quella mattina gli erano usciti fuori una meraviglia, quasi poetici, pensava.

"È stato molto meglio così, dopotutto tu cosa avresti potuto darle?" disse, indicando i rami sul terreno e la figura di Adam che indossava una tuta da lavoro.

Si calò di nuovo sul naso gli occhiali da sole e con un sorriso bianchissimo levò le tende lasciandosi alle spalle una nuvola di polvere che si depositò con il resto dello sporco sui vestiti del ragazzo.

Adam sospirò, amaramente sollevato. Non aveva mai tollerato bene il trovarsi troppo vicino al padre di Elizabeth.

Quindi lei era partita per l'università, come aveva sempre detto di voler fare. Non tornava a casa, come aveva detto di voler fare.

Forse Christopher Dawn aveva sempre avuto ragione, per quanto al ragazzo facesse male ammetterlo.

Non avrebbe mai potuto offrire ad Elizabeth nulla più che se stesso, e questo non bastava nella vita reale.

 

Da quel giorno ormai era passato parecchio tempo e anche se aveva incontrato di nuovo quell'essere repellente, questo si era soltanto limitato a sorridergli beffardamente, non rivolgendogli più la parola.

A voler essere precisi, erano passati dodici lunghi anni dall’ultima volta che aveva visto Elizabeth. I primi tempi a San Francisco erano stati peggio di quanto pensasse, il periodo più buio della sua vita fino ad allora. L’umiliazione di farsi sfruttare da suo zio era stata quasi un balsamo in confronto a ciò che sentiva dentro. Di frequente, sentiva lo scricchiolare sinistro che faceva il suo cuore, provocando un rumore feroce e gutturale: ad Adam pareva davvero di udire tutte quelle crepe allargarsi, ma alla fine si convinse che fosse solo una delirante fantasia delle sue notti in bianco. Lavorare era stato un perverso passatempo, un impiego che gli aveva permesso di staccare da ciò che lo aspettava di nuovo al ritorno al suo appartamento: la solitudine e il silenzio assordante. C’erano state alcune volte in cui Adam inconsciamente si rifiutava di rientrare, rimanendo così a vagare per le strade buie della città per tutta la notte. Presto arrivò anche l’insonnia, ormai una fedele compagna che da quei tempi non lo aveva più lasciato e che periodicamente tornava ad assillarlo con maggior frequenza. Una volta tornato a Twins, Adam iniziò il nuovo lavoro e da allora non si era dato tregua, perché in qualche modo doveva ingannare la sua mente ed iniziare ad andare avanti: era stato tutto l’impegno, la foga e i doppi turni accumulati a fargli mettere da parte un piccolo gruzzolo per permettergli di mettersi in società con i suoi amici del liceo, Cal e Will. Insieme, i tre ora gestivano un’attività di tutto rispetto che, seppur non alla pari di un’occupazione da avvocato o medico, fruttava i suoi guadagni. Inoltre, erano l’unica ditta di costruzioni nell’arco di miglia, pertanto la maggior parte degli appalti che si aggiudicavano veniva da fuori città.

Oltre al lavoro però, Adam aveva un’altra passione, se nel suo caso così si può chiamare. Nel tempo libero amava armarsi di zaino e corde e trovare nuove rocce da scalare. Nonostante però portasse con sé tutto quell’armamentario decisamente pesante, si arrampicava quasi sempre usando soltanto le mani, senza alcuna protezione ad impedirgli di cadere. Ovviamente, per quanto contorta potesse essere a volte la mente di Adam, quando scalava rocce più alte di qualche metro, rinsaniva e utilizzava le imbracature. L’arrampicata era solo un passatempo sì, ma a volte oltre a corrispondere ad una sfida con se stesso, scalare diventava una sfida contro il mondo. Allora Adam si arrampicava freneticamente, le sue mani si muovevano veloci quasi con movimenti ossessivi, fino a quando non arrivava in cima con il petto quasi in procinto di scoppiare; nella vita pensava di non avercela fatta, perciò arrivare in cima corrispondeva a non totalizzare un altro fallimento. Di quello sport lui amava la fatica, la libertà e l’incertezza che si nascondeva dietro ogni appiglio sulla pietra dura. Riuscire a percepire il vuoto e sfidarlo. L’adrenalina che gli regalavano quei momenti era uno dei pochi piaceri della vita, secondo lui, ovviamente dopo il caffè.

Per il resto la sua vita era molto semplice ed abitudinaria.

Adam era sempre stato un tipo schivo, ma da quando aveva rimesso piede in città la gente aveva notato come fosse quasi inavvicinabile. Lui cercava di tenersi lontano, a distanza di sicurezza, sia per non alimentare false speranze nell’interlocutore che provava a parlargli, sia per aspettarsi il meno possibile in termini di rapporti umani. Gli unici che aveva lasciato entrare nella sua vita si poteva dire che fossero Cal e Will, a cui però aveva automaticamente imposto dei limiti non scritti: nonostante questi ‘limiti’ non fossero stati espliciti, sapevano tutti che l’argomento da evitare con Adam era Elizabeth. L’uomo non ne parlava mai, a dir la verità l’unica volta in cui la donna era stata chiamata in causa era stato durante l’incontro con Christopher Dawn. Cal, soprattutto, aveva sempre avuto un sesto senso nei confronti dell’amico, e capiva alcuni suoi atteggiamenti, soprattutto appena Adam era ritornato a Twins, quando le sue ferite erano ancora fresche. Con il passare degli anni però, qualcosa in Adam cambiò, il suo sguardo cupo, ai limiti dell’imbronciato, mutò in una sottile indifferenza e diffidenza nei confronti della vita. A Cal non faceva affatto piacere vederlo in quello stato, rimpiangeva il periodo quando Adam era ancora in preda all’ira e gli toccava vigilare sull’amico affinché non si cacciasse nei guai. Le notti passate al pub in balìa dell’alcol erano passate, ma per quanto miserabili fossero, Cal le preferiva di gran lunga a questo lungo, infinito, periodo di apatia. Nonostante tutta questa preoccupazione però, l’uomo non aveva mai fatto nulla di concreto per cambiare le cose: egli aveva paura che in qualche modo riportarlo allo stato precedente fosse più dannoso dell’atteggiamento che aveva assunto adesso. L’unica nota positiva, se così si poteva definire, era stato l’incontro con Kim. Prima di riuscire ad avvicinarsi ad Adam, Kim ci aveva messo molto, sia a decidersi di conoscere un’altra persona dopo la sua disavventura, sia a coinvolgere l’uomo. Adam alla fine aveva ceduto: Kim era una bella donna, e anche se i suoi figli lo facevano impazzire di tanto in tanto, pensava che quella situazione era il massimo a cui poteva aspirare. Non che ci fosse nulla di male a crescere i figli di un altro, ma Adam sapeva che non avrebbe mai avuto un figlio suo, semplicemente perché non ne voleva uno. La madre di Adam aveva dovuto crescerlo da solo, e lui si era sentito sempre come in difetto, non adatto ad essere qualcosa che non aveva mai conosciuto. Pensava che per essere padre avrebbe dovuto vedere qualcuno che lo fosse stato con lui a sua volta, ma un padre Adam non ce l’aveva mai avuto. La compagnia di Kim dunque, ai suoi occhi non era da disdegnare: sapeva di non meritarla, poiché infondo non l’amava, ma guardarla a volte lo faceva illudere di avere una parvenza di normalità nella sua vita. Sentiva di aver raggiunto una stabilità, sia economica che affettiva, aveva il pieno controllo della sua vita, tutto stava andando per il verso giusto e dopotutto, non aveva di che lamentarsi.

L’unico appunto da fare a se stesso, era quello di non essere vivo.

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Capitolo 3
*** Elizabeth ***






Se dieci anni prima le avessero detto che a trent’anni si sarebbe ritrovata sola, infelice e al buio nel suo appartamento di venerdì sera, Elizabeth non ci avrebbe mai creduto. Già, perché prima non aveva nessun dubbio riguardo a chi le avrebbe tenuto compagnia per tutte quelle notti. Per Elizabeth immaginare la vita dopo il liceo era sempre stato semplice, naturale come respirare: la sua città natale le era sempre parsa a dir poco soffocante, e fantasticare sulla sua fuga era sempre stato un amabile passatempo.

Twins era un posto orribile: la popolazione meschina vinceva tre a uno su quella che poteva definirsi normale. La gente che non s’impicciava degli affari altrui era davvero poca. In un posto come quello dal quale veniva era difficile non venire subito a sapere cosa succedeva e soprattutto a chi. La signora Meyer per esempio, la sua vicina di casa, era una delle teste di punta della categoria ‘impiccione’: a causa della troppa vicinanza tra casa sua e quella della signora Meyer, addirittura a volte Elizabeth sentiva di essere spiata, già, perché le tende della vecchietta erano talmente sottili e traforate da permetterle di vedere tutto ciò che avveniva nella camera della ragazza. La sua adolescenza era stata un continuo sgattaiolare via e nascondersi non solo ai suoi genitori, ma anche alla simpatica signora Meyer.

La sua adolescenza. La ricordava come il periodo più bello ed emozionante di tutta la sua vita, e sapeva di non esagerare pensandolo. La sua adolescenza era stata Adam, lo stesso ragazzo che per i primi due anni di liceo non si era neanche minimamente accorto della costante presenza degli occhi di Elizabeth su di lui, e non perché lui rispecchiasse il prototipo dello sportivo celebrato da tutti, ma piuttosto perché la sua ingenuità a quel tempo superava di gran lunga la sua intelligenza. Quegli occhi erano sempre stati silenziosi, discreti: Adam si era finalmente accorto di lei solo quando un giorno l’aveva incontrata nel bosco, mentre Elizabeth era intenta a leggere un libro sdraiata sotto una magnolia. Adam era solito camminare per ore intere immerso nella natura, lontano da tutto e tutti, e di lì a poco avrebbe scoperto che non era l’unico con l’impellente bisogno di evadere e prendere una boccata d’aria fresca. In quell’occasione, lui l’aveva osservata per qualche minuto prima di fare dietro front e tornarsene in punta di piedi da dove era arrivato: non le si era avvicinato, e anche se aveva ripetuto a se stesso che era per non provocarle uno spavento, in realtà non ne aveva avuto il fegato. Da quel momento in poi Adam venne contagiato dallo stesso ‘passatempo’ di Elizabeth e alla fine i loro sguardi s’incrociarono per i corridoi della scuola. Una storia come tante, con protagonisti due ragazzi come tanti. La differenza nel loro caso tuttavia, consisteva nel fatto che uno strano sesto senso aveva da sempre suggerito ad entrambi il loro essere affini e non poter fare a meno l’uno dell’altra.

E anche adesso, a distanza di anni, Elizabeth seduta al buio sul suo letto rimaneva sempre della stessa idea. Certo, era dura ammetterlo a se stessa, ma era esattamente così che stavano le cose. La cruda realtà era quella, anche se continuava a ricacciarla via, quasi fosse stata una mosca fastidiosa. Chissà dove si trovava Adam in quel momento, in quale città si era stabilito, se era felice, e soprattutto con chi lo era. In tutte le relazioni che Elizabeth aveva avuto, ossia due, aveva sempre finito per paragonare gli altri uomini ad Adam, anche involontariamente: si odiava per questo, ma per quanto si sforzasse di ricacciare quell’immagine del passato in un angolino della sua memoria, questo spuntava fuori prepotentemente nei momenti più inaspettati ed inopportuni. Era molto frustrante rendersi conto che nonostante tutti gli sforzi lui riusciva sempre a tornarle in mente. Adam era come un fantasma che si ostinava ad infestare la sua testa, e questo succedeva perché Adam era parte di lei e lo sarebbe sempre stato.

Ora, mentre se ne rimaneva lì seduta con lo sguardo perso nelle luci frenetiche di Atlanta, Elizabeth pensava a quanto deprimenti sarebbero stati i mesi a venire. Era stata costretta a lasciare il suo posto d’insegnante ad Atlanta e l’unica prospettiva che le si era presentata era stata quella di insegnare nello stesso liceo che aveva frequentato, a Twins. La cosa peggiore della faccenda tuttavia non era tornare nella cittadina che era stata la sua prigione, quanto più quella di doversi appoggiare dai suoi fino a quando avrebbe trovato un appartamento tutto suo. Era consapevole del fatto che quella era una sistemazione temporanea, ma riusciva già a percepire il prurito nervoso nelle sue mani. Una volta tornata a Twins avrebbe subito cercato un posto tutto suo: avrebbe potuto sopportare di tornare, ma non sarebbe durata a lungo se avesse dovuto convivere di nuovo a lungo con i suoi.

Elizabeth si era stupita di quanto fosse stato semplice e veloce mettere tutta la sua vita in pochi scatoloni: non aveva accumulato molti vestiti e oggetti dal suo arrivo ad Atlanta, era una persona molto pratica che comprava sempre lo stretto necessario, senza riempirsi la casa di fronzoli inutili. Ciò tuttavia non si poteva dire però della sua vasta collezione di libri: aveva riempito una grande libreria ad angolo che purtroppo però avrebbe lasciato in quell’appartamento, dal momento che era lì da prima che arrivasse. La sua sfrenata passione per la lettura, unita al molto tempo passato in solitudine e alle invitanti mensole vuote della libreria, l’avevano portata pian piano a sviluppare l’acquisto compulsivo di volumi su volumi. Per fortuna però, per il trasporto dei suoi preziosi libri aveva pensato bene di richiedere l’aiuto di professionisti e si era fatta spedire tutto a Twins. Gli scatoloni erano diciannove in totale, undici dei quali zeppi di libri: sua madre sarebbe stata entusiasta di ritrovarsi metà garage invaso dai suoi scatoloni, ed Elizabeth non poteva nascondere una certa soddisfazione in tutto ciò.

L’indomani, che in realtà sarebbe arrivato di lì a poche ore ormai, avrebbe caricato le ultime cose in auto e sarebbe partita alla volta di Twins. Al solo pensiero sentiva già il cuore pesante, proprio come quando se n’era andata: chissà se ritornare nello stesso luogo in cui un tempo era stata felice, le avrebbe fatto bene. Sapeva che si trattava di un pensiero infantile, ma forse a Twins avrebbe sentito la presenza dell’unica persona che le era davvero mancata in quegli anni, nonostante questa non si trovava lì fisicamente.

Elizabeth si decise finalmente a stendersi e provare a dormire.

Ce l’avrebbe fatta.

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Capitolo 4
*** I am your worst nightmare and your wildest dream ***






Nel medesimo istante in cui Elizabeth mise piede in casa venne prontamente investita dalle lamentele di Grace che le aprì la porta:

"Dico, sei impazzita? Hai mandato qui tutta quella robaccia senza neanche avvertirmi?"

"Buongiorno anche a te, mamma. Sì, ho una terribile emicrania da stamattina, ma sto bene e tu?" Rispose ignorando totalmente la domanda che le era stata posta e il fastidio provocatole dall'epiteto non troppo carino rivolto ai suoi libri.

"Buongiorno, buongiorno, ma ora vuoi rispondermi?"

"Mamma, sono abbastanza sicura di averti informata del trasloco imminente, e tu eri d'accordo"

"Sì, solo che non mi aspettavo di dover tenere in cantina un'intera biblioteca!" Si lamentò la donna.

"Cos.. hai portato giù in cantina i miei libri?!" s'indignò con preoccupazione Elizabeth.

"A dirla tutta sono stati quelli del trasloco, e in ogni caso in garage non c'era abbastanza spazio"

"Non se ne parla, la cantina è troppo umida, porterò gli scatoloni in camera mia" s'impunto la donna.

Grace borbottò qualcosa tra i denti tornando ad occuparsi delle faccende di casa.

"Christopher, è arrivata nostra figlia" urlò a suo marito passando per il salone.

Elizabeth varcò finalmente la soglia chiudendosi la porta alle spalle e percorse il corridoio. Le sembrava tutto uguale, ma in realtà una volta visto il salone si accorse del cambio di arredo che aveva apportato sua madre dall'ultima volta che era stata lì. Le tende erano state totalmente stravolte, ora somigliavano più a quelle della signora Meyer, della casa accanto; pensò che questa probabilmente l'aveva vista parcheggiare nel vialetto e ora stava già telefonando a tutti per informali che la figlia di Grace e Christopher era tornata. La posizione dei divani era stata leggermente cambiata, per adattarsi al nuovo televisore enorme che avevano comprato da poco, televisore che sarebbe stato vilmente impiegato per guardare le partite di football, cosa che suo padre, sdraiato sulla sua storica poltrona, era intento a fare proprio in quel momento.

"Elizabeth! - Esclamò quando la vide entrare in salotto. Si slanciò in un abbraccio paterno per poi tornare con l'orecchio teso verso la partita - Mi sei mancata bambina mia. Hai fatto buon viaggio?"

"Ciao papà, sì, ho trovato solo un pò di traffico appena prima di uscire da Atlanta, ma per il resto tutto liscio come l'olio"

"Beh, certo. Non sarai neanche troppo stanca, solo solo tre ore"

"Sì, ma ho un gran mal di testa lo stesso" si lamentò lei.

"Sono contento di averti finalmente qui" disse Christopher sorridendo. Era genuinamente felice che sua figlia fosse tornata.

"Già, anche la mamma, sprizza felicità da tutti i pori" disse riferendosi a qualche minuto prima.

"Sai com'è fatta tua madre Elizabeth, ma non sai che ultimamente la sua mania per il pulito è sensibilmente peggiorata... - disse sghignazzando - quell'arsenale che è stato recapitato l'altro giorno l'ha mandata fuori di testa. Sono stato io a trattenerla dal chiamarti, lei aveva già alzato il telefono per dirtene quattro"

"Ah, quindi ora ha sbollito la rabbia? Non immagino com'era l'altro giorno"

"Cerca di non farla impazzire troppo, ok?" Disse in tono scherzoso.

"Non è mia intenzione, te lo giuro - 'più o meno' - e poi domani mi metto subito alla ricerca di un appartamento"

"Tesoro, puoi fermarti quanto vuoi. Per me è già bellissimo averti di nuovo qui" disse e l'abbracciò di nuovo.

"Anche per me" disse con poca convinzione Elizabeth ricambiando l'abbraccio, guardando le fotografie della sua infanzia appese al muro.

 

Una volta pranzato, Elizabeth iniziò a darsi da fare per sistemare almeno qualcosa prima di sera. Non voleva svuotare tutta l'auto, perché sapeva che si sarebbe trattenuta lì davvero per poco, il minimo indispensabile insomma. Tirò fuori giusto qualche valigia con i suoi vestiti e iniziò a portare tutto di sopra, in camera sua.

Quella stanza era sempre rimasta uguale a come l'aveva lasciata prima di partire per l'università: da allora aveva fatto visita ai suoi pochissime volte, rimanendo giusto il tempo necessario di qualche litigio per poi ripartire a gambe levate da Twins. Stavolta però, mentre varcava la soglia del suo vecchio rifugio, sapeva che era diverso: anche se per poco, sarebbero passati mesi prima di poter di nuovo fare le valige, quindi doveva affrontare la cosa di petto e non perdersi d'animo al primo ostacolo.

Si guardò intorno e notò che tutto era meticolosamente in ordine e ogni cosa, perfino il paralume della lampada profumava di pulito, come sempre. Aprì l'armadio e anche lì era tutto stato lavato: pensò che probabilmente sua madre ogni tanto lavava tutti i suoi vecchi vestiti, così da non far sviluppare cattivi odori. Si sedette sul pavimento continuando a guardarsi intorno: sembrava che in quella stanza tutto fosse rimasto identico, perfino la luce che entrava dalle imposte rifletteva nello stesso identico modo sulla superficie dello specchio del mobile del belletto. Poteva essere paragonata ad una capsula del tempo in cui, odori, oggetti ed impressioni erano rimaste le stesse in un tempo. Ad essere cambiata era solo lei. Perfino i suoi, seppur con più anni, erano gli stessi di sempre e battibeccavano riguardo agli stessi argomenti.

Sospirò. Poi si sedette sul pavimento incrociando le gambe e spostò il comodino al lato del letto: si sfilò uno dei suoi anelli e con l'estremità più appuntita liberò un'asse del parquet sollevandola. Sospirò ancora: Elizabeth era sempre stata una di quelle persone inconsapevolmente ed irrimediabilmente masochiste. Non lo faceva apposta, non era un'attitudine, né un atteggiamento da vittima: semplicemente il dolore, acceso o fioco che fosse, le ricordava che un tempo si era sentita viva, così viva da morirne.

Posò l'asse di fianco a sé ed infilando la mano in quel suo nascondiglio adolescenziale, le sue dita si mossero sicure tra le ragnatele finché non tastarono i bordi di una latta di metallo. Dopo averla tirata fuori, la donna la pulì per eliminare il grosso della polvere che si era accumulata sul coperchio. Era una vecchia latta che originariamente conteneva un bundle di una t-shirt e un cd dei Ramones, e che poi fu riutilizzata come una sorta di cassaforte. Prima di aprirla Elizabeth si guardò circospetta intorno, proprio come da ragazza: assicuratasi che non ci fosse nessuno nei paraggi si decise ad aprire la latta; era riuscita a tenerla nascosta a sua madre per tutto quel tempo e non voleva certo farsi scoprire ora. Al pari del vaso di Pandora, appena aprì la latta Elizabeth venne investita da una miriade di sensazioni, alcune piacevoli, altre invece decisamente più pesanti nel suo petto. Ma nonostante ciò voleva continuare ad osservare gli oggetti lì dentro racchiusi perché, come d'altro canto era sempre stato, quel male alla fine le faceva bene. È un ragionamento contorto quello del cuore di Elizabeth, se ragionamento lo si può chiamare, ma ai suoi occhi il suo animo si ravvivava, si riscuoteva dal torpore e provava finalmente qualcosa. Le dita affusolate della donna esaminavano ogni oggetto con minuzia, quasi fosse la prima volta che Elizabeth vedeva il contenuto della scatola. I biglietti di un concerto, delle foto, alcune foglie secche di magnolia, la scatolina di un anello. Quella di scatola era rimasta sempre vuota dal momento che l'anello che una volta era al suo interno Elizabeth non se l'era mai tolto: si trattava di un anello in argento con il motivo di una foglia, che le avvolgeva il pollice da parte a parte, terminando con un incisione sul gambo che recitava una minuscola, quasi invisibile "A". Quasi del tutto invisibile, ma lì.

Adam le aveva regalato quell'anello un anno dopo il loro incontro, proprio nello stesso luogo in cui l'aveva incontrata per la prima volta. Aveva forgiato quell'anello da solo, nell'officina di Todd, l'uomo che gestiva l'unico banco dei pegni della città e che possedeva l'attrezzatura necessaria per fondere l'argento e lavorarlo; era stato lui ad insegnargli a scolpire la forma della foglia e a spingerlo verso la perfezione. Dopo alcuni tentativi, entrambi erano stati soddisfatti del risultato finale e Adam aveva finalmente potuto donare l'anello alla ragazza che amava. Le aveva spiegato che la foglia rappresentava il far parte di qualcosa di più grande, in quel caso di un albero, e sebbene le foglie in autunno cadessero dai rami, i quali fino a quel momento erano stati la loro casa, queste un giorno sarebbero state di nuovo parte dell'albero, solo in un'altra forma. Adam si sentiva proprio come una foglia d'albero: abbandonato, gettato nel caos del mondo, fino a che aveva di nuovo ritrovato l'amore incontrando Elizabeth. Era lei il suo albero, il suo posto nel mondo.

A quei pensieri, di riflesso Elizabeth sfiorò con le dita la superficie d'argento sul pollice destro, come faceva spesso quando veniva rapita da quel genere di ricordi o semplicemente quando era nervosa. Poi si toccò il braccio da sopra la felpa, all'altezza del polso, e pensò a qualche anno prima, quando in preda ad una crisi era entrata nello studio di un tatuatore e si era tatuata una foglia proprio in quel punto. Marchiata a vita. Non era ciò che era, dopotutto?

Il sapore dolce amaro era ormai una costante nella sua vita, in un certo qual modo la faceva sentire ancora parte di qualcosa.

Era così arrabbiata con Adam, lo era da sempre, a discapito del tempo che passava. Era stupido provare ancora rancore, in una situazione normale non avrebbe mai sprecato tutte quelle energie nel maledire qualcuno. Tuttavia, se era vero che Adam era stato la cosa migliore che le potesse capitare, era altrettanto vero che era stato anche quella peggiore: lui era il suo peggior incubo e al contempo il suo sogno più recondito. Elizabeth alternava periodi in cui non avrebbe mai voluto conoscerlo ad altri in cui si convinceva che qualora loro due non si fossero incontrati lei non avrebbe forse mai saputo il significato della parola 'amare'. Di Elizabeth si poteva senz'altro dire che portare ancora questa croce e delizia era ciò che paradossalmente l'aveva fatta andare avanti. Amore e odio sono quasi lo stesso sentimento.

La donna ripose la scatolina dell'anello e sfogliò le foto e le polaroid, ormai un pò ingiallite. Non aveva voluto portare con sé foto di Adam e di questa scelta se ne era pentita la maggior parte del tempo, ma orgogliosa com'era non l'avrebbe mai ammesso se qualcuno glie lo avesse chiesto. Quella era la prima volta da tanto tempo che posava di nuovo gli occhi sul viso di Adam: appena ne vide i lineamenti sussultò e il suo cuore scalpitò sotto le costole. Com'era possibile che una semplice foto le facesse ancora quell'effetto? Teneva in mano una polaroid che lei stessa aveva scattato di nascosto mentre il ragazzo dormiva, uno dei pomeriggi passati insieme a casa di Adam, al sicuro e lontano da sua madre Grace. La foto lo ritraeva con un'espressione profondamente tranquilla mentre con il viso poggiato al cuscino dormiva beatamente. I capelli lunghi e ribelli gli nascondevano parte del viso, lasciando scoperta solo la porzione di un occhio, ornato da tre piccoli nei. Il viso di Adam era talmente pieno di particolari e segni distintivi che lei lo avrebbe riconosciuto tra mille, anche se fosse stata bendata: conosceva a memoria il suo viso, gli occhi incavati incorniciati da folte sopracciglia incurvate, gli zigomi alti e il mento pronunciato.

Elizabeth si ridestò come da una trance, dandosi della stupida. Non avrebbe dovuto ritirar fuori quella dannata scatoletta, né tantomeno fantasticare sul passato. Quindi raccolse di nuovo tutti gli oggetti e con rabbia gettò la latta al suo posto risistemando l'asse del pavimento. Una lacrima sfuggì al suo controllo.

'Ce la farai' si disse, e non si riferiva tanto al fatto d'essere tornata, quanto più alla consapevolezza che quella presenza ingombrante non l'avrebbe mai completamente lasciata. Si maledì per aver pianto di nuovo. Impiegò qualche minuto a ricomporsi, ma alla fine balzò in piedi e respirò a pieni polmoni correggendo con l'indice un pò di matita colata via.

Amore e odio sono quasi lo stesso sentimento.

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Capitolo 5
*** Same but different ***






Adam quella mattina si sentiva più stanco del solito: era un periodo piuttosto pieno perché tanta gente aveva bisogno di mano d'opera dopo che la tempesta dei giorni passati aveva spazzato via alcuni capanni degli attrezzi. Lo avevano chiamato in tanti e organizzandosi in due squadre erano quasi riusciti a soddisfare tutte le richieste ricevute. Meglio per gli affari, pensava, ma peggio per lui.

Erano giorni ormai che lavorava fino a tardi e quella mattina aveva deciso di prendersi mezza giornata per staccare il cervello, ma soprattutto il corpo, che di lì a poco avrebbe protestato. Aveva quindi sistemato lo stretto necessario al negozio e poi aveva deciso di starsene un po' per i fatti suoi, da solo, com'era suo solito fare. Non aveva neanche minimamente pensato di  chiamare Kim e i ragazzi per pranzare con loro, si disse che aveva bisogno di staccare anche dalla confusione che spesso i bambini inevitabilmente generavano.

 

Sarebbe andato nel piccolo bosco dietro il grande supermarket che avevano installato da un giorno all'altro come se fosse stato un bancomat, e ci sarebbe restato fino al pomeriggio. Prima però, si decise a passare al Gina's, una caffetteria a buon mercato e ancora in stile anni '50 dove avrebbe pranzato con il suo piatto preferito, bacon e uova.

 

Quando entrò nella caffetteria notò una certa affluenza e guardando l'orologio centrale con quel bel faccione di Elvis stampato sopra, si rese conto che erano le dodici, e che probabilmente quella folla era normale all'ora di punta, lasso di tempo in cui lui non capitava mai da quelle parti per via del lavoro.

 

" Ce l'hai un posto per me, Gina? "

L'anziana donna ancora arzilla, con le labbra dipinte di un rosso fuoco, gli sorrise, come una nonna sorride al proprio nipotino mentre gli porge una caramella sul palmo della mano.

" Ma certo tesoro, il giorno in cui qui non ci sarà posto per te, probabilmente non ci sarò nemmeno io, quindi puoi stare tranquillo ancora per una ventina d'anni o giù di lì "

Adam le sorrise, sentendosi davvero il benvenuto e le fece un cenno con la mano. Stava per dirigersi verso il suo solito posto quando Gina da dietro il bancone lo chiamò a sé dicendogli:

" Però non credo che oggi tu voglia sederti da solo in quel tavolo - fece un sorriso malizioso e poi un cenno verso il corridoio a destra, opposto al suo - Al secondo tavolo c'è un posto libero " disse indicandolo.

 

Lì per lì lui non capì e confuso riprovò a sedersi.

" Allora non mi hai capita? Infondo c'è un altro posto " calcò il tono della voce sottolineando le ultime parole, finché lui non le diede retta dirigendosi dove l'anziana proprietaria gli aveva caldamente intimato d'andare.

 

Vide che al tavolo c'erano sedute una donna e una bambina: le due erano di spalle, entrambe con capelli folti e scuri che arrivavano alla schiena.

Imbarazzato come non mai ma ancor peggio seccato da quella situazione, iniziò a schiarirsi la voce per poi gentilmente chiedere se il posto fosse libero. Quando finalmente fu davanti al tavolo, la voce gli si mozzò in gola.

Nel momento in cui la donna alzò lo sguardo per capire cosa volesse quell'estraneo, i loro occhi s’incrociarono.

 

" E-Elizabeth? "

" Adam?.. “ le ci volle qualche secondo per realizzare cosa stesse accadendo.

 

" Io sono Susie - s'intromise la bambina sentendosi tagliata fuori da quelle presentazioni e spezzando seppur per poco quell'atmosfera strana e assolutamente elettrica.

 

" Che cosa.. Tu… Gina mi ha detto che questo era l'unico tavolo libero quindi.. "

" Oh - disse ridestandosi come da una visione - sì, certo accomodati, noi ne occupiamo solo metà "

Si guardarono ancora, mentre lui si sedeva, i movimenti rigidi e cauti: era strano come il tempo potesse rendere estranee anche due persone come loro, che si erano conosciute profondamente. Erano sempre gli stessi, ma al contempo diversi nel loro essere uguali.

" Ma.. Cosa ci fai qui? "

" E tu?.. " rispose lei con un’altra domanda.

" Io ci lavoro. Sai dove c'era la vecchia gelateria? Ora io e un paio d'amici abbiamo messo su una ditta e, beh, lavoriamo tutti in città "

" Intendevo dire in città.. "

" Sono tornato per lavorarci, te l'ho detto. Tu invece? Credevo ti saresti trattenuta ad Atlanta - disse, cogliendo di sorpresa la donna che aggrottò la fronte. Lui quindi si spiegò meglio - Tuo padre " suggerì.

" Ah, giusto - constatò imbarazzata e leggermente irritata - Sono tornata anch'io per lavoro, insegno al Trinity. Alla fine ho capito che psicologia non faceva esattamente per me "

" Però.. "  disse pensieroso, all'improvviso la fame gli era completamente passata. Neanche a farlo apposta Gina arrivò con il suo logoro blocchetto in quello stesso istante.

" Allora, cosa ti porto Adam? Oh mio Dio, Elizabeth ma sei tu! Non ti avevo riconosciuta con questo nuovo look. Come stai? " le chiese facendo finta di vederla per la prima volta.

" Bene, benissimo Gina e tu? "

" Ah, beh i soliti problemi alla schiena. Il dottor Murphy dice che devo smetterla di indossare i miei tacchi ma io gli dico sempre di andare a farsi benedire, e non raggiungiamo mai un compromesso "

" Sei tremenda, Gina " aggiunse Adam guardandola pieno d'orgoglio. Lei gli sorrise soddisfatta.

" Allora, ti porto il solito? Sì, decisamente " scrisse la comanda e si volatilizzò senza dargli la possibilità di replicare.

" Sempre uova strapazzate e bacon, giusto? " provò a dire Elizabeth, guardando le dita di Adam ancora intente a reggere il menù.

" Sì, come sempre. Non credo esista niente di meglio "

" Già " - disse sorridendo. Poi si voltò verso la bambina che era intenta a colorare un album da disegno.

" Susie, questo è Adam, un vecchio amico " disse, sforzandosi visibilmente.

Mentre la donna stringeva le spalle della bambina indicandolo, improvvisamente un brivido di freddo gli percosse la schiena.

'Sua figlia' pensò. Fece di tutto per mantenere un minimo di autocontrollo e non farsi uscire frasi avventate.

" Ciao Adam "

" Ciao Susie " rispose lui, con un sorriso un po' spento, ma sincero. Era una bambina bellissima. Aveva le stesse iridi verdi di Elizabeth. Pensò di nuovo a cose che non avrebbe dovuto pensare.

Appena la bambina tornò a concentrarsi sul suo disegno, lui parlò.

 

" E il padre..? " chiese flebilmente, quasi vergognandosene ma cercando con tutto se stesso di sembrare totalmente indifferente a quella domanda piuttosto personale.

" Padre..? Ah, Susie, oh no. Susie non è mia figlia - disse ridendo leggermente - è la figlia di Harry, la mia piccola e dolce nipotina " disse accarezzandole i capelli dietro il cerchietto.

Dentro di sé, l'uomo tirò un profondo respiro di sollievo, non seppe neanche lui perché.

" Oh, scusami, avevo capito.. Lascia stare "

" Non mi ci vedo a fare la madre, però amo passare del tempo con lei - si sporse un po' sul tavolo mettendosi una mano davanti la bocca per non lasciare che la bambina la sentisse - per qualche ora "

I due risero, pensando a quanto si sentissero inadeguati a fare la parte dei genitori.

 

Elizabeth sembrava molto cambiata, almeno all'apparenza.

Aveva coperto i suoi capelli ramati con un nero assoluto, ma li portava sempre molto lunghi, scostandoseli lungo la schiena ogni tanto. Sembrava più magra, stanca. Ma anche Adam da parte sua era leggermente invecchiato. La donna però noto con una certa soddisfazione che le sue braccia si erano irrobustite e ora i suoi muscoli erano ancora più visibili da sotto la camicia. Ma scacciò quasi subito quel pensiero stupido dalla testa, scostandosi frettolosamente una ciocca dalla guancia.

All' improvviso le squillò il cellulare, era sua cognata. Mentre Elizabeth parlava al telefono, la comanda di Adam arrivò.

 

" Scusami Adam, ma credo proprio che sia giunta l'ora di andare. La bambina deve tornare a casa a fare i compiti, vero? " si diresse alla piccola che aveva già messo il broncio.

Mentre diceva quelle parole, in realtà non aveva nessuna voglia di lasciare la caffetteria. Insomma, all’improvviso aveva appena rivisto qualcuno che pensava di non rivedere mai più e sembravano essere passati soltanto pochi attimi dal momento in cui lo aveva visto avvicinarsi al tavolo.

" Ma io voglio restare qui a colorare, è molto meglio della matematica ! " protestò Susie.

" Cara, non sai quanto ti capisco, ma ora dobbiamo davvero andare "

Mentre la bambina raccoglieva i suoi colori riponendoli nell'astuccio, Elizabeth si rivolse di nuovo all'uomo di fronte a lei, rimanendo ancora una volta, la milionesima, abbagliata dalla sua bellezza così selvaggia.

" Spero che le uova siano cotte al punto giusto - sorrise - È stato bello rivederti "

" Anche per me - disse lui, sorridendole - Magari qualche volta potremmo vederci per un caffè " buttò lì lui. Si chiese subito dopo perché mai ci stesse provando. Ci stava provando? Insomma, non sapeva nemmeno se lei era sposata o se avesse un'altra persona, nella migliore delle ipotesi.

" Uhm, certo, perché no.. Allora ci vediamo " disse frettolosamente la donna.

" Sì, ci vediamo in giro "

" Adam " si congedò con un lieve sorriso.

" Elizabeth " rispose, e la guardò andare via.

Prima d'entrare in auto la vide voltarsi nella sua direzione, preoccupata. Le guance si erano tinte di rosso e da quella distanza Adam avrebbe detto che i suoi occhi fossero lucidi.

La seguì con la coda dell’occhio fino a quando la sua auto uscì dal parcheggio del locale, poi infilò un pezzo di uova e lo portò alla bocca. Così, un boccone dopo l’altro finì il suo piatto preferito; la fame sembrava essergli tornata.

 

 

Dopo pranzo, l’uomo si recò nel bosco, spense il cellulare e si abbandonò sul prato umido. Sentiva il cuore più leggero, ma a dirla tutta, sentiva finalmente di avere ancora un cuore. Adam rimase tutto il pomeriggio a fissare l'immensità del cielo sopra di lui, perdendosi in quel blu che lo faceva sentire così insignificante e stupido in confronto a tutto il resto.

Pensava a lei, alla sua Elizabeth.

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Capitolo 6
*** I'll blow back in your mouth and you can blow back too ***


 

Elizabeth era ferma davanti al banco frigo ormai da cinque minuti buoni, cercando ancora di scegliere il gusto del suo caffè freddo. La nota catena americana aveva messo in commercio delle bottigliette di vetro di vari gusti e lei era perennemente indecisa tra il caffè macchiato e quello con infusione al caramello. Stranamente le piaceva di più quello del supermercato rispetto a quello della caffetteria o ancora meglio di casa sua, perché adorava il modo in cui era zuccherato. Non riusciva proprio ad indovinare la dose giusta di zucchero per raggiungere il suo risultato ideale, quindi risparmiava tempo e soldi andandoselo a comprare direttamente al supermercato.

Aveva pensato tutta la notte all'incontro del giorno precedente e non aveva chiuso occhio, perciò quella mattina era stato il caffè freddo imbottigliato l'unico motivo per cui si era alzata trascinandosi al nuovo immenso market che avevano aperto, così con la scusa avrebbe dato anche un'occhiata.

Aveva aggiunto qualcosa da mangiare visto che ora che si appoggiava momentaneamente da suo fratello si sentiva un po' come un peso, ma forse era solo una sua impressione.

Il soffitto del soggiorno di Harry non era per niente attraente, pensava. Inoltre la linea d'intonaco era leggermente inclinata, ma fin ora nessuno l'aveva notata perché nessuno era rimasto a fissarla tanto a lungo sdraiato sul divano.

Rivedere Adam era stato come morire e perdersi per qualche secondo nel limbo delle anime che escono dai corpi e poi venire rianimati forzatamente, ritornando al mondo. Quando si era avvicinato la sua le era parsa una voce familiare, ma a causa della durezza del timbro non l'aveva riconosciuta del tutto. C'era una parte, o meglio gran parte del suo cervello che forse si era rifiutato di credere che poteva essere davvero lui.

Si ricordò che era stato un pò sbrigativo quando lei gli aveva chiesto cosa ci facesse in città; lei era stata molto più precisa e dettagliata, e a quel punto forse si rese conto di aver detto troppo. Il ragazzo - e adesso l'uomo - che era sempre stato una presenza fissa seppur invisibile per tutti questi anni, ora era ritornato dal suo passato, come se anche lui fosse stato rianimato e catapultato di nuovo nel mondo. Come nei film, dal nulla, senza spiegazioni o avvertimenti, il personaggio fulcro della sua intera esistenza era tornato nella sua vita. Si diede della stupida innumerevoli volte, più o meno tutte quelle in cui aveva ripensato al loro incontro e alle sue reazioni. Lui era cambiato molto: si era lasciato crescere la barba, dando l'impressione d'essere un po' incolta e conoscendolo forse era proprio così che voleva che sembrasse; come aveva notato poco prima, le sue braccia e il suo torace si erano ingrossati, più robusti sotto le sue spalle larghe. Il suo viso sembrava avere qualche cicatrice in più rispetto all'ultima volta che l'aveva visto. Adam era una delle persone più gentili e cordiali che avesse mai conosciuto, e nonostante la sua gentilezza fosse direttamente proporzionale al suo essere introverso, toccando i tasti sbagliati era sufficiente un solo attimo perché la sua bontà si tramutasse in ira. In altre parole, se provocato non rimaneva certo con le mani in mano. Peggio poi, era se qualcuno infastidiva lei. Non era mai stato un tipo violento, ma aveva protetto Elizabeth sempre e comunque.

Suo padre, da eccentrico stronzo che era, non le aveva detto niente riguardo al fatto che era tornato chissà da quanto tempo. Una piccola e flebile vocina interiore le disse che forse sapendolo lì avrebbe fatto le valigie molto prima. Ma non voleva illudersi, nemmeno un pò. Non ne aveva più il tempo. L'ultima volta che era successo era stato per una buona causa, ma anche se ora aveva smesso di credere alle fate, restava convinta del fatto che quello che avevano condiviso in quei teneri anni era stata la cosa più importante, struggente, emozionante e profonda della sua vita sino ad allora. Forse gli ormoni adolescenziali ne amplificavano il ricordo miticizzandone le sensazioni, o forse no. Forse era stato davvero il più bel periodo della sua vita.

Una parte di lei lo avrebbe rivoluto indietro, ma chi non l'avrebbe desiderato?

Elizabeth si era trasferita appena il liceo terminò, non aspettò neanche che l'estate finisse; non tollerava più di rimanere in quel posto. Dal momento in cui il suo ragazzo se n'era andato, era rimasta sola. E quella solitudine era molto più pesante e aggressiva delle parole di suo padre che la tormentava con le richieste più assurde.

S'iscrisse alla facoltà di Psicologia all'università di Atlanta e fortunatamente trovò una compagna di stanza non eccessivamente invadente, a cui non piaceva spettegolare più del dovuto. Dopo qualche mese di frequentazione, capì che non ce l'avrebbe fatta, che forse non era per lei quella facoltà, quindi cambiò con Letteratura, che le era sempre piaciuta. Era sempre stata attratta dai libri, innamorandosi di innumerevoli personaggi fittizi che rasentavano la perfezione, lasciandola vivere in una bolla di carta e inchiostro dalla quale solo lei stessa poteva liberarsi e soprattutto dove era l'unica che decideva quando farlo. I libri erano stati la sua culla e il suo porto sicuro, l'unico posto in cui non era costretta a sfoggiare un sorriso forzato ed essere se stessa senza sembrare anormale e far preoccupare gli altri. Perché in ogni caso gli altri non avrebbero capito: è vero, non è certo la prima né l'ultima volta che una giovane ragazza vede il suo mondo crollare, ma per ogni persona è diverso. Il dolore è personale, intenso e mai scontato. Può sembrare di passaggio o lieve, ma è tutta una questione di percezione, di quanto quella persona vuole farti intravedere della sua sofferenza. Nessuno è davvero se stesso con gli altri, forse non si riesce ad essere onesti nemmeno con se stessi alla fine dei conti, ma rare volte capita che ci sia qualcuno in grado di andare al di là della dura facciata superficiale e capire come ci si senta a perdere tutto e sentire di non appartenere a niente.

Ad Atlanta aveva alleviato la sua solitudine e il senso di vuoto che la attorniava, con alcuni uomini conosciuti sporadicamente negli anni ma in nessuno aveva trovato ciò che cercava. Loro non erano lui, e sapeva non lo sarebbero mai stati. Per quanto suonava squallida quell'idea come un orrido campanello d'allarme nella sua testa, quei corpi avevano la stessa prestanza di un effetto placebo, invisibile e del tutto superfluo. In un certo senso finalmente aveva avuto un metro di giudizio, perché prima di loro non era stata con nessun altro se non il suo ragazzo del liceo, ma ora che aveva acquisito un po' di esperienza non ne vedeva i lati positivi che qualunque donna avrebbe apprezzato. A lei non importava dei profondi e sexy occhi azzurri del ragazzo del bowling o delle avances insistenti del suo collega che la riempiva d'attenzioni spudoratamente. Si era sentita anche piuttosto in colpa a volte di non essere capace di provare sentimenti e quindi di non ricambiare l'affetto sincero che altre persone avevano dimostrato di provare per lei.

Si considerava una brutta persona, indurita e forgiata dal tempo come la più solida, inespressiva ed opaca delle lame. Una stronza, insomma.

Pagò la sua merce alla cassa del supermercato dopo una fila mediamente lunga e snervante e finalmente fu fuori. Appena raggiunto un piano d'appoggio che consisteva nella giostra a tema western davanti alle porte scorrevoli dell'entrata, vi posò il sacchetto di carta e frugò dentro finché non afferrò il suo amato latte. Alla fine lo aveva preso al caramello, si disse che una volta ogni tanto poteva anche concedersi un extra sull'extra che già consisteva nell'eccessivo quantitativo di zuccheri del caffè che beveva. Ne buttò giù un sorso sentendosi subito meglio, ma quando posò di nuovo le labbra sul collo della bottiglietta per poco quel secondo assaggio non le andò di traverso soffocandola. Forse sarebbe stato meglio.

Davanti a sé, un po' in lontananza vide Adam che spingeva un grande carrello vuoto: dentro di esso c'era una bambina con corti riccioli biondi e con un braccio teneva aggrappato al suo fianco un bambino con dei calzoncini blu che gli stringeva le braccia al collo. Una donna della sua età con un carré biondo cenere gli stringeva l' altro braccio sorridendo mentre era intenta a rileggere quella che doveva essere la lista della spesa.

Adam sorrideva agli angoli della bocca, sembrava felice.

' Felice, senza di te, imbecille. '

Elizabeth avvertì un gelo improvviso dentro di sé, aveva come l'impressione che le sue viscere avessero una consistenza simile alla carta vetrata e che strusciando insieme l'una contro l'altra si ferissero ripetutamente, come animate da un serpente sinuoso ed invisibile. Il dolore si faceva largo strisciando, soffocandola.

Tremava, di nuovo.

La bionda scoccò un bacio a stampo sulle labbra dell'uomo, cogliendolo un po' di sorpresa ma nonostante ciò rispose.

Non ne aveva alcun diritto, ma non accettava, no, non avrebbe mai potuto accettare il fatto di vedere Adam con un'altra. Non sotto il suo naso.

Si sentì venire meno. Iniziava a vedere quelle dannatissime lucine bianche ai lati della sua visuale, tipiche, e in quel momento ringraziò la sua buona stella per averle fatto bere un sorso di concentrato di zuccheri in bottiglia.

Tra un respiro profondo e un'imprecazione di lei, i loro occhi s'incontrarono: fu inspiegabile, ma appena la donna entrò nel campo visivo di Adam, si vergognò profondamente. Era ridicola. Non le doveva niente, eppure era così che stavano le cose.

Vide lo sguardo attonito ed impassibile della donna ormai poco lontana da lui. Era immobile, quasi in trance. Adam fece scendere il bambino dal suo fianco e mentre con gli occhi seguiva i movimenti fulminei della donna che si allontanava, disse a Kim di andare avanti e di scusarlo perché si era appena ricordato di un appuntamento. Così si congedò ed iniziò a correre sotto lo sguardo un po' perplesso della donna che fino a qualche secondo prima si stringeva a lui.

Nel frattempo Elizabeth aveva gettato stupidamente con rabbia la sua spesa in un cestino che si era ritrovata a tiro, latte compreso. Aveva accelerato il passo e preso la strada per il bosco su per il lato dell'edificio di mattoni rossi, continuando a respirare profondamente. Voleva scomparire all'istante, volatilizzarsi, fondersi con l'aria per non essere più visibile e sopportare la vista della scenetta familiare che si era appena consumata davanti ai suoi occhi.

Non sapeva perché, ma vedere e non più soltanto immaginare le labbra del suo Adam che sfioravano quelle di una donna l'aveva annientata. Perché aveva ancora questo potere su di lei? Lo sconquasso emotivo del giorno precedente lo aveva ingenuamente giustificato col fatto che non lo vedeva da molto, molto tempo, e si era detta che era una reazione perfettamente normale visti i trascorsi. Ma questo? Questo profondo odio e malessere fisico l'aveva travolta come un treno ad altissima velocità: le si era schiantato proprio nello stomaco, sotto le costole, e forse anche quelle si erano spezzate nell'impatto.

Non poteva lasciare che un amore infantile ed ingenuo la trasformasse in una bambinetta senza alcun controllo delle proprie emozioni. Non poteva lasciarglielo fare, altrimenti tutto ciò che aveva fatto sino a quel momento non era servito a niente. Ormai lui non significava più niente per lei. L'aveva superata anni e anni fa, si ripeté come un triste mantra ormai stantio.

Ma allora perché continuava imperterrita a correre verso un rifugio sicuro fuori dagli occhi insolenti del mondo? Perché continuava senza sosta a scappare, da cosa poi? Da chi.

Stava iniziando a piovere. 'Perfetto' pensò, mentre si piegava in due respirando affannosamente. Poi tra il timido scroscio della pioggia, udì una voce profonda provenire da dietro le sue spalle.

" Fermati ! " le intimò. Si stava avvicinando sempre più.

Ma lei si rialzò e continuò a correre più che poteva. Al liceo le era sempre piaciuto correre e quando poteva continuava quel rito.

" Fermati, Elizabeth! " urlò più forte Adam per farsi largo sotto il rumore della pioggia scrosciante. I suoi capelli erano ormai zuppi d'acqua e gli finivano inevitabilmente davanti agli occhi in tutta la loro lunghezza mentre inseguiva la donna, tentando disperatamente di convincerla a fermarsi. Sapeva che era un'eccellente gazzella quando si ci metteva d'impegno, ma anche lui se voleva non era da poco.

Accelerò ancora di più per quanto possibile e con un ultimo slancio azzerò quasi del tutto la distanza che li separava, afferrandola per un avambraccio. Il colpo improvviso fece inciampare la donna, che sarebbe caduta nella fanghiglia del sentiero se non fosse stato per la presa salda di Adam ad impedirglielo. Il corpo di Elizabeth si scontrò con il busto dell'uomo, ma quel contatto provocò in lei un improvviso senso di repulsione. In quella minuscola frazione di secondo aveva potuto sentire il suo profumo misto all'odore penetrante della pioggia.

" Lasciami " disse lei decisa.

" Ma cosa diavolo stai facendo? "

" Lasciami, voglio stare da sola. Lasciami " continuava a dire divincolandosi.

" Che cavolo t'è preso? "

" Niente. Voglio solo che mi lasci in pace. Una volta per sempre però. "

A quelle taglienti parole Adam mollò la presa e si fece da parte. Lei gli diede subito le spalle e iniziò di nuovo ad andare via camminando più in profondità verso il cuore del boschetto.

" È per Kim? È per quello che hai visto? "

" No, non mi interessa con chi vai a letto. Puoi divertirti con chi vuoi. Però almeno fammi il favore di non raccontare cazzate anche a lei. Sai, le persone grazie alla loro infinita stupidità, credono a tutto quello che gli si dice " sbottò girandosi rabbiosamente.

" Cazzate? " Adam non capiva, e più lei parlava alludendo a chissà che, più lui si faceva scuro in volto, sforzandosi di tenere gli occhi aperti nonostante la pioggia.

Lei gli si avvicinò dandogli uno spintone con entrambe le mani, sorprendendosi di quanta forza le uscisse fuori in momenti di rabbia come quelli.

" Cazzate, come quelle che mi hai raccontato per tre anni. Cazzate, come quella di partire insieme e andarcene via da questo buco di città - lo spinse - Cazzate come quella enorme e squallidamente utopica e adolescenziale di stare insieme per sempre - lo spinse ancora più indietro - Cazzate come quella che non avresti mai potuto amare nessun altra. " riprese fiato. La durezza nella sua voce si era improvvisamente rotta in gola alla fine dell'ultima frase e le sopracciglia le si erano inarcate in un'espressione di dolore. Sentiva una stretta e fittissima morsa micidiale all'addome. Lo guardò negli occhi stabilendo una connessione particolare e assolutamente intima. La pioggia continuava a scendere copiosa, ma in quel momento erano rimasti soltanto loro due, ovattati dal resto del mondo.

" Avevi detto che io ero l'unica persona con la quale avresti avuto il coraggio di fare dei figli.. " disse tutto d'un fiato un'ultima volta.

'Sei proprio una ragazzina, Beth' pensò di sé stessa. Quello era sicuramente da annoverare nella classifica dei momenti più penosi di sempre.

" Quelli non sono figli miei .. " disse debolmente cercando la sua mano. Ma lei si ritrasse. Scosse la testa.

" Io ti odio. Ti odio profondamente e con ogni singola parte di me. Perché dopo tutto.. - si fermò, le lacrime salate si mischiarono alle gocce d'acqua che cadevano dal cielo e le si posavano sul volto - ..perché dopo tutto questo tempo tu riesci ancora ad insidiarti dentro di me in questo modo. Io non te lo permetto. " urlò più a se stessa che all'uomo che le stava davanti.

" Io non posso.... " soffiò via quelle parole a fior di labbra, prima di ricadere sulle ginocchia che cedettero esauste e sprofondarono sul terreno fangoso.

<< ..We never said goodbye

Do you think we should have

Or is it better this way? >>

Adam le s'inginocchiò di fronte prendendole finalmente le mani gelate. Se le portò alle labbra e ci soffiò dentro per scaldarle, baciandogliele con galanteria.

" Neanch'io posso lasciartelo fare.. " disse con un sospiro. Lei alzò il mento, come se avesse il terrore di non aver sentito bene, come per essere sicura di non essersi immaginata tutto. In quel momento capì che Adam era terrorizzato almeno quanto lei. Le mise una mano sul petto all'altezza del cuore per farle sentire il suo battito veloce e irregolare.

" Hai appena corso.. " giustificò lei cercando di mantenere distacco per quanto possibile. Allora lui guardandola negli occhi le spostò la mano posandola sulla propria guancia, in un modo che solo loro conoscevano. Quando le dita di lei vi si posarono, Adam chiuse gli occhi ispirando a fondo come se quel tocco fosse stato insieme liberazione e supplizio.

Non riuscì più a sostenere quel tocco che lui stesso si era inferto e la accolse con un movimento rapido e fluido tra le sue braccia, stringendola al petto. Con le dita le accarezzava i capelli ormai bagnati e come in un sussurro disse:

" Sei ancora qui " riferendosi al suo petto. Lo disse a bassa voce per paura che quella sensazione già di per sé evanescente non sparisse del tutto.

Lei ricambiò quelle parole con un singhiozzo. Era vero. Erano ancora l'uno dentro l'altra quasi intrappolati in un legame indissolubile che non li lasciava andare via.

Il tempo non era bastato a spazzar via quello che c'era stato. Perché ciò che c'era stato era molto più tenace del passare del tempo.

Aveva freddo, d'un tratto si strinse ancor di più nel suo abbraccio caldo e sicuro, ma l'attimo dopo si ritrasse, ridestandosi da un sogno magnifico, quasi reale.

" No " disse ad alta voce, con il volto sfuggente che cercava di evitare la figura che aveva davanti. Lui rimase con le braccia aperte e all'improvviso sentì quel freddo che si prova quando ci viene strappato bruscamente via qualcosa di caro.

La donna respirava ancora affannosamente e tenendo lo sguardo basso non poté fare a meno di soffermarsi di nuovo sulle sue braccia e sul suo torace le cui linee ora erano ancora più visibili sotto i vestiti bagnati. In un attimo il lampo di un ricordo lontano le piombò addosso: i loro corpi che si completavano come metà perfette e indivisibili tra le lenzuola del letto di Adam, una giornata di pioggia proprio come quel giorno, il calore del suo tocco sulla pelle, i suoi baci ai lati del collo e poi giù tracciando una scia fino alla clavicola. Il suo ventre a quei pensieri fremette e si contrasse senza alcun preavviso e subito ordinò a se stessa di rialzarsi e andare via da lì, di mettere quanta più distanza possibile tra di loro.

Si alzò e fece per andarsene ma lui la intercettò nuovamente.

" Non puoi andartene di nuovo come se niente fosse "

" Certo che posso. Quello che non posso fare è ricadere in questa.. cosa " non sapeva come spiegarsi. Non sapeva come spiegarlo in primis a se stessa.

A quel punto Adam le lasciò malamente la mano.

" Credi di risolvere tutto fuggendo. Sei sempre la stessa ragazzina "

" Sentitelo.. Sei tu che risolvi tutto andandotene via senza nemmeno dare il tempo di spiegare "

" Non c'era un bel niente da spiegare. I tuoi silenzi, piuttosto imbarazzanti direi, hanno parlato molto meglio per te. Inequivocabili. " Adam sentì tutta l'amarezza passata riversarsi di nuovo su di lui.

" Io non volevo che succedesse quello che è successo . Non lo volevo "

" Ma è successo - constatò oggettivo - Dimmi, te lo ha richiesto? Ora sei sposata con lui, ma hai ancora i sensi di colpa per il modo in cui l'ho saputo? Dev'essere così, altrimenti non ti saresti animata tanto per una storiella successa una vita fa" disse riferendosi mentalmente a quello che il suo subconscio stava provando in quel momento.

" Io non sono sposata - urlò - John si è trasferito dopo il liceo e d'allora non ci siamo più parlati "

" Oh, per favore.. Sicuramente avrà giocato la carta dell'amico prezioso del cuore, e dimmi, alla fine è riuscito a portarti a letto come aveva detto di voler fare davanti a tutta la scuola? "

Un sonoro schiaffo colpì violentemente il viso di Adam, arrossando leggermente la zona su cui poi si portò la mano.

" Non so chi frequenti tu - disse, involontariamente riferendosi alla donna che aveva visto prima con lui nel parcheggio del supermercato - ma io non sono una del genere. Ma forse non te lo ricordi "

" Ricordo fin troppe cose "

" Continui a fare la vittima della situazione, dopo dodici anni ne hai ancora il coraggio? Ma diavolo sei cresciuto e pure un bel po', smettila di addossarmi colpe che non ho " disse voltandosi.

" Tu sei colpevole quanto lo sono quegli esseri meschini che ancora chiami genitori - si guardarono in cagnesco - Ti aveva comprato un anello, un anello! E tu non hai detto una parola... Hai aspettato che tua madre con quella sua spavalderia e fierezza bussasse alla porta della mia mostrandole quella maledetta scatolina che sapeva non ci saremmo mai potuti permettere. Quindi oltre ad avermi pugnalato alle spalle, ha profondamente ferito mia madre che si è sempre fatta in quattro per crescermi, ma questo lo sai "

Elizabeth era senza parole, non riusciva a respirare. Un macigno pesantissimo le opprimeva il petto tanto che si massaggiò la gola per illudersi che un po' d'aria riuscisse ad entrare in circolo. Poi si fece coraggio.

" È per questo che non te ne ho parlato.. Hai reagito esattamente come avevo previsto, non mi ero sbagliata. Non avresti mai dovuto saperlo " la donna insisteva.

" Allora sei più stupida di quanto pensassi. Dovevi dirmelo, io avevo il diritto di sapere quello che stava succedendo, e non essere l'ultima ruota del carro delle vostre macchinazioni, com'è invece successo"

" Loro " precisò lei.

" Non fa alcuna differenza. Avresti dovuto mettere le cose in chiaro fin dall'inizio con loro e invece hai sempre preferito evitarli e scappare da me a piangere nel cuore della notte, come se questo avesse davvero sistemato le cose. Quando le cose non ci stanno bene, ebbene se ne parla! "

" Tu non avresti voluto sentir ragioni. Ti saresti fiondato su John e Dio solo sa cosa gli avresti fatto. Ti saresti rovinato la vita, e per cosa? Una proposta declinata sul nascere " aveva ragione, e lui lo sapeva.

" Probabilmente lo avrei picchiato fino a farlo sanguinare, ma tu e io saremmo stati ancora insieme "

" Insieme, ha! - rise stizzita - E dove, al carcere della contea con una visita settimanale? Davvero una magnifica prospettiva Adam "

" Se ci tenevi così tanto a noi, lo avresti fatto. Avresti fatto di tutto se ciò ci avesse tenuto uniti. O almeno è così che ho sempre pensato si comportassero le persone innamorate, ma su di te mi sbagliavo. Sbagliavo alla grande, devo dire " concluse squadrandola, facendola sentire inadatta e inutile, quasi sporca.

" Le persone innamorate. Tu non sai niente di me. Non sai un cazzo. Non sai come sono stata da cani dopo che tu sei sparito, volatilizzato. Sai, quella sera ero tornata come un'idiota a cercarti per avere un dialogo con te, ma tutto ciò che ho trovato è stata la tua camera da letto vuota. Hai rovinato per sempre gli anni migliori della mia vita con la tua assenza, non sono più riuscita ad essere quella di prima e tu vieni a parlarmi di persone innamorate? Il ragazzo che idealizzavo, evidentemente, non se ne sarebbe mai andato, questo è certo. Mi hai lasciata sola in una guerra persa. E ora ti opponi se voglio andarmene e lasciarti nel mezzo di questa cazzo di foresta? Ma fottiti. "

A quelle parole si accese una scintilla mista a rabbia nel cuore di Adam, il battito accelerò e la riprese con sé attirandola nelle sue braccia quasi come fossero state i fili di una letale ragnatela. Le prese il volto tra le mani e la baciò. Lei sbarrò gli occhi che si specchiarono in quelli di lui, arrabbiati, violenti, rabbiosi, scintillanti ma allo stesso tempo pieni di passione. Tutta quell'ira aveva donato nuove sfumature dorate e color oliva alle iridi di Adam, non aveva mai visto i suoi occhi così prima d'ora. La metteva in soggezione essere guardata in quel modo, ma cercò di ricambiare e sostenere quanto più a lungo lo sguardo di lui. I loro nasi si scontrarono mentre le labbra danzavano sempre più veloci e i baci si facevano più lunghi e coinvolgenti al punto che la donna prese anche lei tra le mani il viso di Adam e premette il proprio corpo contro il suo avvertendo di nuovo quel calore che le era sempre piaciuto tanto. Lui a quel punto chiuse gli occhi e prese ad accarezzarle la schiena sotto la maglietta sino ai fianchi morbidi per poi arrivare alla pancia. La prese in braccio, quasi proteggendola tra le sue braccia forti e la portò sotto un albero dalle cui foglie sembrava filtrare meno acqua. Elizabeth sentiva la corteccia irregolare e piena di muschio del tronco pizzicarle la schiena, ma contemporaneamente non era pronta a lasciare andare la presa forte di lui che in quel momento si scagliava contro la sua bocca, non staccandosene mai. Non prese fiato neanche un attimo ma nonostante ciò si sforzava d'inalare il suo profumo, quanto più possibile. Le mani di lui si muovevano su quel corpo di cui conoscevano ogni centimetro. Elizabeth fremette ancora guardando il corpo di Adam e arrivò alla conclusione che ciò che sentiva fin dentro le ossa non era per niente un blando effetto placebo, ma una vera e propria iniezione d'adrenalina.

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Lei si staccò da lui brutalmente e con un unico gesto veloce lo liberò dalla maglietta intrisa d'acqua: Adam fece lo stesso con lei e in poco tempo i loro vestiti altro non erano che una poltiglia colorata appesantita dall'acqua che giaceva ai loro piedi.

Adam doveva ammettere che anche dopo tutto quel tempo lei lo spossava, fisicamente quanto mentalmente. Non era però lo stesso imbarazzo provato da ragazzi, come quella prima volta. No, ora poteva guardarla negli occhi e senza vergognarsi sostenere il suo sguardo mentre entrambi danzavano coi loro corpi. Riusciva ad intrappolarlo, quasi come se fosse una di quelle sirene che rapiscono i marinai col proprio canto. E con la medesima delicatezza con cui si tratterebbe una creatura tanto fragile e speciale, la prese di nuovo tra le braccia posandole una mano dietro la schiena fino a che entrambi non raggiunsero il terreno erboso sotto le fronde.

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I'll blow back in your mouth and you can blow back too>>

La baciò di nuovo, prendendole dolcemente le labbra tra le sue, mentre lei graffiava la sua schiena che sussultava muovendosi sotto quel tocco: le baciò le guance, le palpebre chiuse, il collo, la spalla, il petto fino ad arrivare al suo centro, provocando in lei un brivido che le fece inarcare la schiena creando una sorta d'improvvisa discesa dall'addome sino al ventre che Adam continuò a riempire di baci e morsi fino ad arrivare all'interno delle cosce dove ripose un ultimo bacio prima di adagiarsi col proprio corpo su quello di lei, unendosi finalmente dopo quella che a entrambi era sembrata un'eternità. Ma i loro corpi, a differenza dei rispettivi proprietari, si riconobbero all'istante. Come se il tempo si fosse fermato. L'imponente presenza di lui torreggiava su quel corpo esile che avvolgeva completamente in un languido susseguirsi di gemiti e sguardi. Entrambi si stavano dicendo quello che per anni non si erano detti: sussurravano ognuno il nome dell'altro in quella che sembrava una canzone senza fine e soprattutto senza rimpianti. Adam la guardava negli occhi e ora riusciva a scorgere la sua stessa immagine riflessa; riusciva a vedere il volto di lei che lo guardava con un'intensità lancinante mentre si contorceva sotto di lui. Si disse che quello era il suo posto; quello il motivo per cui aveva vissuto fino a quel momento.

Riaverla.

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Love. Pain. Hate. Rain... we're alright, alright.>>

 

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Capitolo 7
*** Nobody ever said it'd be easy ***




 

Il temporale si calmò lentamente, così come era iniziato. Man mano che la pioggia andava diradandosi, Adam ed Elizabeth si risvegliavano dal torpore dei loro corpi stretti in un abbraccio. L'olfatto non era più tanto affidabile, oramai ebbro del profumo della pelle dell'altro misto all'odore del terreno bagnato. Elizabeth aprì gli occhi e osservò la propria mano sul petto di lui che ondeggiava a ritmo regolare: Adam, che gli occhi non li aveva mai chiusi, continuava a guardarla ipnotizzato, noncurante di tutto ciò che li circondava. Si sentiva davvero strano, tra l'essere al settimo cielo e lo scoppio di una tempesta: avvertiva in lontananza, una sensazione di latente malessere. C'era qualcosa che gli era sfuggito?

Elizabeth sembrava riacquisire i sensi soltanto in quel momento, non era sicura di essersi destata da un sogno o dalla sua vita apatica. In ogni caso, anche lei, per qualche motivo, sentiva un'angoscia che andava via via crescendo man mano che le tornava lucidità. Forse aveva fatto un errore, un altro.

"Non avremmo dovuto" disse a bassa voce, colpevole. Voleva davvero dirlo?

L'uomo si irrigidì. "Perché lo dici?"

Elizabeth alzò timidamente lo sguardo, come se non ce la facesse a reggere quello del suo interlocutore.

Capì di sentirsi in colpa. O meglio, questa era la giustificazione ufficiale, quella ufficiosa era che aveva una paura inclassificabile dopo quello che era appena successo. Aveva appena fatto l'unica cosa in grado di farle male davvero, di nuovo: avvicinarsi a lui.

"Perché è la verità - disse mesta, mettendosi a sedere. Con un certo imbarazzo indossò di nuovo i suoi vestiti, anche se di fatto erano zuppi d'acqua e quasi inutilizzabili - abbiamo fatto l'unica cosa che non andava fatta" a quel punto Elizabeth si preparava a sentire di nuovo il tono accusatorio di lui, ma di fatto, rimase sorpresa dalla sua risposta.

"Forse.. forse stavolta hai ragione" rifletté alzandosi dal terreno, allontanandosi come un animale ferito, diffidente. Aveva desiderato quel momento da molto, molto tempo, e proprio quando questo era accaduto finalmente, si era accorto che qualcosa, semplicemente, non andava. E lo stesso valeva per lei.

Elizabeth non diede a vedere il suo stupore, se non altro perché ora gli dava le spalle mentre era intenta a rivestirsi. Si sentiva divisa a metà: Adam era lì, di nuovo, solo per lei, ma sembrava non bastare. Era come indovinare la dose segreta di zucchero per preparare il perfetto caffellatte, e quella miscela era ancora amara, imperfetta. C'era qualcosa che stonava con tutto il resto e nonostante la loro ritrovata complicità, era evidente che qualcosa mancava.

Tremendamente imbarazzati, cercavano di non guardarsi negli occhi troppo a lungo.

"Allora.. - iniziò lui - se vuoi posso darti un passaggio" non sapeva cosa dire per riempire quel silenzio assurdo, così disse la prima cosa che gli era passata per la mente.

"Ehm, no, grazie, sono venuta in auto" disse lei iniziando ad incamminarsi per il sentiero da cui erano arrivati.

"Ok" disse lui seguendola.

"Sai, forse, dovremmo aspettare per quel caffè.."

"Già, credo di sì. Anche perché ultimamente sono pieno di lavoro e.. "

"Certo, e poi anche io ho una miriade di cose da fare per organizzare un programma per i nuovi alunni" disse lei sfregandosi le mani sui jeans già bagnati, tentando di invano.

Erano quasi usciti dalla fitta boscaglia, quando il cellulare di Adam squillò. Lui vide il nome sullo schermo e dal suo sguardo lei capì che doveva rispondere.

"Fai pure, io devo andare, sono in ritardo"

"Scusa.."

"Figurati, scusami tu per prima, per tutto. Ci vediamo, allora" disse spostandosi nervosamente i capelli da un lato.

"Ci vediamo in giro" rispose lui, guardandola mentre si allontanava. Il telefono continuò a squillare per qualche secondo, poi prese la chiamata "Pronto?" Disse schiarendosi la voce.

Mentre ascoltava l'interlocutore dall'altro lato, continuò a seguire la figura con gli occhi fino a quando scomparve completamente dietro al supermercato.

"Ciao, sì ho avuto un imprevisto, ma ora è tutto risolto. Passo domani. Sì, certo. Non preoccuparti. Ciao".

Salutò e chiuse la chiamata, ancora con lo sguardo nella stessa direzione, che però fissava il vuoto.

Era un ormone grande e grosso, ma bastava una donna a farlo sentire l'essere più insicuro del pianeta. Elizabeth era sempre come un improvviso terremoto: camuffava la sua potenza incontrollabile fino ad un secondo prima dello scoppio, ma ogni scossa che provocava aveva la capacità di scuoterlo e fargli sentire il tremore fin dentro le ossa. Se possibile, in quel momento si sentì peggio che mai: un cieco che vede di nuovo la luce luminosa, ma solo per un secondo, ripiombando nel buio più soffocante l'attimo dopo. Nessuno ha mai detto però che la rinascita non sarebbe stata dolorosa.

Iniziò di nuovo a piovere.

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Capitolo 8
*** Suffocate in all my memories until I cannot breathe ***





Nonostante fosse una donna fatta e finita, quando mise di nuovo piede nei corridoi del liceo di Twins, per un attimo si sentì tanto insicura quanto una quindicenne in piena tempesta ormonale. Stavolta però nessuno la stava guardando dall’alto in basso, nessuno stava commentando con ribrezzo la sua felpa sdrucita dei Black Sabbath, né tanto meno i suoi jeans a zampa. Per il suo primo giorno di lavoro, ma non primo giorno di scuola, aveva scelto dei jeans scuri con una camicia nera semplice ed elegante. Lutto perenne o eleganza basic, a seconda di come uno voleva interpretarlo. Aveva ottenuto subito l’incarico da insegnante del corso di letteratura per quarto e quinto anno perché la professoressa titolare mancava ormai da un anno e la scuola si era stancata di assumere supplenti trimestrali. Assumendo Elizabeth si erano assicurati non solo una certa professionalità, giacché arrivava da una buona famiglia conosciuta in città, ma anche continuità nell’incarico assegnatole.

Ad Atlanta Elizabeth aveva sempre avuto le classi fino al terzo anno, quindi il nuovo lavoro per lei rappresentava una sfida a tutti gli effetti, che sapeva però di poter vincere a mani basse.

Il famoso detto di uso comune, ossia che dal liceo nessuno esce completamente integro, era assolutamente vero, lei lo sapeva, ma se non altro avrebbe fatto di tutto per regalare ai suoi alunni delle ore preziose, poco noiose e molto istruttive. Non era una di quelle insegnanti petulanti, che volevano l’edizione di un libro dell’anno precedente anziché quella dell’anno successivo, né una guastafeste che programmava esami e verifiche a seconda dell’umore. Cercava di evitare gli atteggiamenti da stronza insomma, che tutte, ma proprio tutte le categorie di liceali odiano. Il fulcro del suo metodo era studiare il suo <> e capire dove, come e quando fare breccia, anche nel peggior fanatico giocatore della squadra di football. Aveva sempre pensato che il cervello era fatto per essere usato, stimolato, non solo per essere spappolato da una serie di contusioni ed emorragie. Tutti riuscivano ad aver un proprio pensiero, stava a lei estrapolarlo fuori delicatamente.

 

Aveva quattro classi in totale, Twins era una piccola cittadina con una scuola altrettanto piccola. Nonostante il ridotto volume di lavoro, Elizabeth finiva sempre per fare il doppio del lavoro a causa dei suoi metodi non convenzionali. Partiva da un argomento o un testo reperibile nel materiale bibliografico ed iniziava a fare digressioni instaurando un dialogo, toccando gli argomenti più svariati e chiedendo ai suoi studenti  di esprimere una propria considerazione, seria, sempre e comunque. Amava quello che faceva, stimolare anche i meno studiosi affinché tramite una strada alternativa capissero il fulcro della questione, senza annoiarsi o peggio addormentarsi. Le era sempre piaciuto psicanalizzare gli altri, nonché impelagarsi a capire, salvare e redimere le cause perse, quelle <> che nessuno si prendeva la briga di sbrogliare. Le cause perse.

Mentre schematizzava alla lavagna i generi della letteratura europea dell’800, si perse nel flusso continuo dei suoi pensieri, come spesso le accadeva. Era da quando aveva memoria che s’interessava a ciò che per gli altri era trasparente, meno importante: il gatto spelacchiato e denutrito del suo vicino, che dimenticava di sfamarlo una volta sì, e l’altra anche, i vecchi libri del nonno a cui aveva evitato il macero e le grinfie di sua madre, Adam. Tanto per fare qualche esempio.

Era stato proprio in quei corridoi illuminati da quelle insopportabili luci al neon che lo aveva notato per la prima volta. Prima di allora di lui era come se non avesse ricordi, nonostante fosse altamente probabile che si fossero visti precedentemente, visto il piccolo centro. Era come un animale selvatico, avvolto in quella maglia a righe rosse e bianche, lo sguardo schivo e in allerta, un pesce fuor d’acqua. Elizabeth aveva subito empatizzato con lui, anche se passarono anni prima che lui si accorse di lei. Ciò che forse più l’attraeva era la totale indifferenza riguardo a cosa pensasse la gente di lui: Adam veniva dalla parte residenziale più povera della città, non era un segreto né tantomeno un problema per lui, ma si sa, al liceo non sei nessuno se non porti un paio di nike o un eastpack in spalla. Nella loro relazione, Adam non era l’unico a proteggere la sua ragazza, ma avveniva anche il contrario: lei aveva un istinto protettivo che a volte rasentava i limiti dell’immaginabile. Ricordava ogni cosa, ogni piccolo dettaglio, lite. A volte si chiedeva come aveva fatto a tenere ad una persona con quella simile smania, attenzione, ma evidentemente non era stato abbastanza per come erano andate le cose.

 

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Is it because I never cared enough? And now I pay for this

Cosa ne rimane della mia anima nera?>>

 

Mentre elencava sulla lavagna i principali romanzi gotici, che conosceva alla perfezione, il gesso le scivolò dalla presa delle dita e stridette fastidiosamente. L’odore della polverina la fece tossire e si sentì goffa più che mai, un pò come Evelyn Carnahan quando distrugge un’intera biblioteca, ma senz’altro meno imbarazzante.

Da quella mattina nel bosco, si può dire che la sua unica occupazione, oltre al lavoro, era stata ripercorrere ogni momento del loro incontro all’infinito: rimandava in replay ogni piccolo gesto, rivedeva le sue mani, sentiva ancora la sua pelle sotto le dita, ancora e ancora. Come spesso le era capitato nel periodo immediatamente successivo alla rottura, si sottoponeva alla tortura auto-inflitta per avere l’illusione di tornare indietro, vivere nei ricordi fino a morirne. Fino a rimanerne senza fiato.

Terminò la lista e si sfregò le mani l’una con l’altra per liberarsi della povere secca.

“Scegliete uno di questi romanzi, o anche più di uno. Per la prossima volta, voglio che vi procuriate una copia del testo scelto e senza iniziarne la lettura mi spieghiate perché lo avete scelto e cosa vi aspettate. Dopodiché, da martedì prossimo avrete due settimane di tempo per completare la vostra lettura e redigere una relazione approfondita. Ah, e Manny? Nel caso tu te lo stia chiedendo la biblioteca chiude alle cinque, quindi hai tutto il tempo di richiedere il prestito”

“La ringrazio, prof..” Disse il ragazzo colto in contropiede. Manny era uno di quei giocatori, sempre in prima linea e sempre all’ultimo banco. Mentre ascoltava distratto la consegna, la sua mente stava già elaborando una scusa in grado di fargli sbolognare quella rogna. Forse avrebbe dovuto far leva sul fatto che non aveva <> tempo per dedicarsi ai romanzi rosa, c’era il campionato.

“Potete andare ora, ci rivedremo martedì”

Dopo che Elizabeth congedò la classe, vide che Manny, un ragazzone di quasi due metri, si avvicinava timidamente alla sua cattedra con la stessa aria di una preda indifesa.

“Dimmi pure” lo incitò.

“Ecco… Professoressa, io, come giocatore, sa che sono nella squadra vero? Ecco, dicevo, mi chiedevo se non potessi essere esonerato dalla relazione..”

“No”

“Ma le partite.. Insomma, non ho il tempo di fare entrambe le cose” tentò di giustificarsi. Per quanto facesse lo spaccone con i suoi coetanei, quella donna mingherlina e apparentemente innocua lo inquietava parecchio. Per tale motivo Elizabeth si annoverava tra i pochi professori che godevano del suo rispetto.

Mentre la vedeva soppesare le sue parole, ad una ad una, dietro agli occhiali, fece mezzo passo indietro, giusto nell’evenienza in cui avesse cominciato a sbraitargli contro.

“Manny, tutti hanno una vita, sia a scuola che al di fuori. Se facessi questo genere di preferenza nei tuoi confronti, capisci bene che dovrei concedere privilegi anche ad altri. Quindi, l’unica, e dico l’unica cosa che potrei fare per te - disse guardandolo negli occhi, senza vacillare né lasciargli spazio per inserirsi nella conversazione - è lasciarti scegliere il romanzo gotico più corto e farti esporre per ultimo la tua relazione”

“Oh.. ma…?” balbettò.

“Ah, e dal momento che non hai molta scelta, puoi evitare di motivare il perché hai scelto un particolare titolo, e quindi iniziarne subito la lettura”

“D’accordo - si diede per vinto il ragazzo. Stava per andare via, quando si voltò verso l’insegnante con aria dubbiosa - come faccio a sapere qual’è il più corto?”

Elizabeth era sbalordita. Le nuove generazioni avevano tante di quelle risorse, ma pochissima inventiva. In una biblioteca ci sarebbero voluti anni prima che cominciassero a capire il criterio di catalogazione interna, eppure era elementare: saggi, nella sezione ‘saggi’, con codice sull’etichetta ‘SAG’.

“Googlalo” rispose lei.


 

 

Sabato Adam si era alzato piuttosto presto, come sua abitudine, e aveva fatto una ricca colazione con una quantità quasi disumana di uova. Dopo aver rimesso tutto in ordine e dopo essersi fatto una doccia, prese in spalla lo zaino con le attrezzature e s’incamminò nel bosco attorno casa, in direzione nord. Aveva pensato di passare il weekend nei boschi, nei pressi della grande parete proprio nei pressi di una cava, dove spesso conosceva nuovi forestieri che avevano sentito parlare bene del posto. Si poteva dire che ormai aveva una cricca di amici anche lì, con cui ogni tanto s’incontrava e condivideva l’amore o la pazzia per quello sport.

Aveva pensato molto a quella strana, bellissima mattina con Elizabeth di qualche settimana prima, e si chiedeva se anche lei vi avesse pensato. Era stato giorni interi a rimuginare su quanto era accaduto e sul perché  le cose in qualche modo non avevano funzionato. Cosa si aspettava, che dopo tutto quel tempo si risolvesse tutto andando semplicemente a letto insieme? Era troppo facile, non era come te lo vendono nei film.  Non si era saputo controllare di fronte a lei, dopotutto era pur sempre Elizabeth, ma non era bastato. Più ci pensava e più diventava frustrante  ammettere che forse ciò che ricordava, quello che c’era tra di loro, in realtà non esisteva più da un pezzo.

Era di nuovo nella sua bolla di pensieri quando ricevette la telefonata di Kim che gli chiedeva che fine avesse fatto. Dopo qualche tentennamento si erano visti, avevano fatto l’amore la stessa notte, ma non era stata la stessa cosa. Voleva bene a Kim, ma non riusciva ad andare oltre. Ora più che mai. Aveva avuto poi l’occasione di vedere di sfuggita Elizabeth, mentre entrava a scuola, mentre lui dava un passaggio ai figli di Kim. Sembrava così diversa da come la ricordava, ora che la osservava da lontano, in orario lavorativo e a sua insaputa. L’aveva vista per una manciata di secondi eppure gli si era aggrovigliato lo stomaco: aveva l’aria così distante, stanca. Nello sguardo sembrava mancarle quella scintilla, seppur di rabbia, che le aveva visto nel bosco.

 

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To have a frozen heart inside my chest, that only beats but doesn't feel>>

 

 

Dopo circa mezz’ora di camminata a passo sostenuto arrivò sul posto, ancora praticamente deserto. Amava la compagnia sì, ma solo se questa era contornata da momenti che poteva tenere solo per sé e quel mattino limpido non voleva proprio condividerlo con nessuno. Smanioso all’idea di vedere il panorama dall’alto in quella mattina così cristallina,  cambiò calzature, si liberò della t-shirt e s’impolverò le mani preparandosi in fretta a scalare. Tutti pensavano che arrampicarsi fosse tutta una questione di braccia, e per la maggior parte delle volte era vero, ma quello era uno sport che sottoponeva a sforzo tutto il corpo, stressava le gambe e faceva pressione su ogni polpastrello. Ogni callo e ogni graffio nel suo mondo corrispondevano al superamento di qualche ostacolo.





Iniziò rapidamente ad arrampicarsi sul primo tratto più basso, di circa tre metri, aveva già individuato gli appoggi mentre si preparava e quindi fece tutto meccanicamente. Arrivato a metà avvertì finalmente la stanchezza sulle braccia: il sole illuminava la parete irradiandola di un colore caldo e denso che sulla roccia chiara striata sembrava avere la  stessa consistenza dell’oro fuso mescolato. Fece dei respiri profondi e continuò nella sua impresa, quasi al termine. Ormai si trovava a quasi otto metri di altezza, senza imbracatura, altezza che innescava in lui naturalmente una scarica di adrenalina, energia pura. Era un pò come sentire quell’energia vibrante attraversarti le mani mentre si eseguono dei semplici esercizi ginnici, per qualche legge della fisica l’energia fluttua e produce una scarica sino ai palmi. Quell’improvvisa, ma calcolata, scarica d’energia, unita alla visuale delle sue mani impolverate che macinavano metri, gli fecero tornare in mente Elizabeth. Le sue mani che la cingevano e che avide si arrampicavano su di lei come su una parete altissima, infinita. Ebbe un fremito involontario, così si riscosse dalla sua piacevole distrazione, conscio di nuovo dell’altezza a cui ormai si trovava. Doveva restare vigile e attento.

Con un ultimo sforzo si spinse sul bordo in cima alla roccia, sedendosi stremato a cavalcioni. Ammirò quella vista: era sempre magico guardare il bosco tutt’intorno con la luce del mattino insinuata tra le fronde degli alberi. Se la notte prima era stata abbastanza umida da permettere la formazione di brina, e lo era sempre da quelle parti, allora la luce del sole creava uno strato luminoso che evidenziava i contorni. La pace di Adam però durò ben poco.

“Guarda guarda chi ti trovo in cima già di prima mattina, vecchia volpe! Sempre come un lupo solitario”

“Ciao Jimmy, buongiorno anche a te” disse spiritoso guardando ai suoi piedi.

“Dì un pò, imparerai mai a portarti dietro l’imbracatura e magari  ad indossarla?!? Sei un pazzo, amico”

“Oh ma stavolta l’ho portata Jimmy”

“Ah sì, e dove sarebbe?” Strizzò gli occhi l’amico, sforzandosi di mettere a fuoco Adam in cima.

“Nello zaino” rispose sornione.

“Sei sempre il solito, se non c’è il pericolo che ti ammazzi per davvero, per te non c’è gusto. Tra cinque minuti te la porto lassù, ma per il momento, mi raccomando, non fare danni” disse con un falso sorriso.

“Sì, signor comandante” Adam si divertiva troppo a prendere in giro quel ragazzo mingherlino. Erano quasi coetanei, ma a lui veniva naturale pensare a lui più come un fratello minore che come ad un suo pari. Non capiva ancora perché ci tenesse così tanto a lui. <>, sembrava lui il fratello maggiore dei due, a dirla tutta. Adam non aveva mai confessato a Jimmy il senso di potere, ma al contempo incertezza che regalava arrampicarsi senza protezioni: la vita era letteralmente nelle tue mani, e con un pò di fortuna e tanto, tanto sudore, eri tu a plasmarla, passo dopo passo. Abbassò lo sguardo di nuovo sulle sue mani, bianche di polvere, ruvide, con le vene ingrossate per lo sforzo.

‘Come vuoi plasmare la tua vita, Adam?’


https://www.youtube.com/watch?v=CaAlvGvPEIQ&feature=emb_title

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Capitolo 9
*** My body is craving, so feed the hungry ***



 

“Ricordami un pò perché ti ho dato carta libera per decidere dove andare stasera?” chiese Elizabeth alla donna che le era di fianco sul sedile del guidatore.

“Perché badare alle mie due pesti 24/7 mi sta facendo sbarellare, cara la mia prof sexy e single!” rispose la bionda.

Hannah ed Elizabeth si conoscevano sin dai tempi delle elementari, migliori amiche alle medie ed inseparabili fino al liceo, quando Hannah andò a malincuore a vivere dal padre fuori città e la lasciò da sola per i primi tre anni a fronteggiare quel marasma da cui tutti volevano uscire il più presto possibile.

Hannah era l’unica persona di Twins con cui era rimasta in contatto. Era loro abitudine scriversi reciprocamente mail sugli argomenti più disparati, quell’appuntamento corrispondeva ad un’uscita tra amiche virtuale. L’amica, pur di non appoggiarsi dai suoi, le aveva proposto varie volte di stare da lei per un weekend - folle, a detta sua - ma erano anni che Elizabeth accampava scuse per non tornare in città. Hannah capiva perfettamente la sua riluttanza e tendeva a non insistere se dall’altro lato sentiva che non c’era la volontà: oltre a rispettare le sue scelte, Hannah era restia a farle pressione anche perché in città era tornato Adam, e lei questo non aveva avuto il cuore di dirglielo. Non si era accorta immediatamente di lui, perché vivevano lontani e Adam si univa raramente alla vita sociale di Twins: lo aveva incontrato al supermercato e, dopo averci scambiato qualche chiacchiera di circostanza, era stata assillata dal dilemma se raccontare tutto all’amica o farsi gli affari suoi. Scelse la seconda: Elizabeth aveva passato anni terribili, la conosceva, dunque sapeva che quello che le aveva lasciato intuire sul suo umore tramite corrispondenza, corrispondeva a un decimo della verità. Non se l’era sentita di sconvolgere la sua nuova vita, e anche se in passato aveva fatto le veci di cupido innumerevoli volte, stavolta abbandonò la nuvola e depose il suo arco in un ripostiglio.

Elizabeth l’aveva avvertita che sarebbe tornata in città molto presto e quando l’aveva telefonata, per poco Hannah non era caduta dalla sedia per la felicità. Come la sua migliore amica, il suo carattere non propriamente popolare e l’aver cambiato scuola non gli aveva fatto stringere molti legami duraturi al liceo, e nonostante si fosse fatta alcune amiche tra le altre mamme nel consiglio di classe, le due cose non erano paragonabili.

Hannah si voltò a guardare Elizabeth, avrebbe voluto darsi un pizzicotto per essere sicura che fosse davvero lì con lei, alla volta dello Stereo Punk, un locale che purtroppo non aveva più niente di punk, né di stereo.

“È davvero peggiorato così tanto lo Stereo?” chiese Elizabeth speranzosa.

“Non ne hai idea… Non ti aspetteresti mai quello che sono stati in grado di fargli - commentò l’altra profondamente indignata - ma ora lo vedrai tu stessa” le indicò l’insegna luminosa che spuntava come un faro in mezzo al buio che inghiottiva l’interstatale. Elizabeth notò che persino l’insegna era cambiata: l’originaria radio stilizzata da cui fuoriusciva un fulmine era stata rimpiazzata da un lettering dal design minimalista e freddo. Il parcheggio era abbastanza affollato di auto e moto, prima di scendere si diedero un’aggiustata veloce entrambe, specchiandosi; le vecchie abitudini sono dure a morire.

“Dì un pò, ma tu chi hai intenzione di accalappiare stasera? O meglio, quanti??” disse maliziosa Hannah.

“Sei sempre la solita maniaca Hann! È solo che mi sembra di non uscire da un sacco di tempo e non sapevo cosa mettermi”

“Certo, certo - rise - comunque stasera faresti passare dall’altra sponda anche un’etero come me, quindi rilassati, stai benissimo” le assicurò facendole l’occhiolino. Elizabeth sorrise.

Scesero dall’auto e aspettarono qualche minuto in fila prima di entrare finalmente nel locale: del vecchio Stereo Punk erano rimaste le posizione del bancone del bar, quella del palco e la postazione di Fred, il proprietario, che aveva il suo ufficio in una stanza al primo piano.

“Non è possibile..” disse Elizabeth sopraffatta, mentre si guardava intorno spaesata con un misto di malinconia e stupore.

“Già, non dirlo a me. Va bene che non ci sono più le band di una volta, però così è davvero troppo”.

Il locale era stato adibito ad una sorta di locale dove un dj metteva su solo tracce ballabili, non c’erano più le serate delle band, né la battle che si organizzava annualmente e che negli anni aveva reso famoso quel posto. I tempi erano cambiati un pò dappertutto e Fred, a malincuore, aveva dovuto cedere per non chiudere del tutto. Certo, ciò non implicava di arredare le pareti con un rivestimento di velluto blu che faceva molto strip club, ma erano dettagli.

“Povero Fred” disse Elizabeth.

“Povera me, vorrai dire, ora non posso più nemmeno ubriacarmi mentre ascolto una scarsissima band emergente”

Ordinarono da bere e man mano che i drink arrivavano, le due amiche passavano a setaccio gli aneddoti degli anni del liceo, dalle figuracce in pubblico alle piccole vittorie contro “il club del lucidalabbra”, ossia le simpaticissime stronzette in polo rosa e scarpe fimate che infestavano la scuola. Scarafaggi di gran classe e poca astuzia.

Hannah stava sorridendo, guardandosi intorno, mentre la gente aumentava a vista d’occhio. L’amica la stava osservando, mentre accarezzava il bordo del bicchiere pensierosa. Forse quello era il momento giusto per parlarle.

“Ti stai divertendo? Anche se non è più quello che ricordavi, a modo suo, è carino come posto”disse Hannah, sorseggiando il drink.

Elizabeth fece un sorriso tirato d’assenso, stava pensando a tutt’altro in quel momento.

“Perché non me lo hai detto?” le chiese, senza specificare a chi o a cosa si riferisse.

Lo sguardo dell’altra guizzò colpevole verso il dj e la  sua scintillante consolle; stava valutando se escogitare una scusa last minute o dirle la verità. Non c’era bisogno di alcuna specificazione, sapeva benissimo, purtroppo, a cosa alludeva.

Alzò le spalle, sulla difensiva “È che pensavo fosse meglio lasciare le cose così com’erano, tu ad Atlanta e lui qui”

“Perché? Avrei potuto incontrarlo durante le vacanze o quando tornavo dai miei. Da quanto tempo è qui??” Rispose innervosendosi.

“Oh, perché sei tornata talmente tanto spesso Elizabeth, che lo avresti incontrato, senz’altro” sottolineò l’ultima parola per dare a intendere che tornare a Twins, era proprio l’ultima delle priorità di Elizabeth. Forse non avrebbe dovuto avercela ancora con lei per non essere stata l’amica perfetta, ma sotto sotto non poteva farne a meno.

“È proprio quello che è successo invece! Sono rimasta come un’idiota quando l’ho incontrato alla tavola calda, un’imbecille di trent’anni suonati”

“Sarebbe cambiato qualcosa, se te lo avessi detto? Ti saresti precipitata qui?”

L’aveva presa alla sprovvista. Elizabeth non sapeva cosa avrebbe fatto, ma voleva saperlo. Voleva sapere tutto riguardo a lui. Questa consapevolezza la punse nel vivo. Andava convincendosi sempre più che tornare era stato un enorme, fatale errore. Sbuffò.

“So solo che forse non sarei dovuta tornare e basta” disse a bassa voce. Hannah però era abbastanza vicina da udire le sue parole.

“Perché non lo ammetti semplicemente e vai avanti, qualunque cosa possa riservarti il futuro? Tu sei ancora legata a lui.” a volte Elizabeth sapeva essere così testarda.

“Perché è un’utopia. E non posso certo permettermi di restare impigliata in questa cazzo di rete all’infinito” sbottò Elizabeth, bevve avidamente il drink e sospirò rumorosamente guardando la pista da ballo. Sapeva bene tutto ciò che Adam rappresentava per lei, la maledetta appartenenza del suo cuore, il masochista vortice di pensieri prima di andare a letto, il non dormire affatto a causa del vortice stesso. Tuttavia, non lo aveva mai ammesso davanti ad anima viva, né tantomeno avrebbe iniziato ora. Dire qualcosa ad alta volte, corrispondeva a confermare la sua esistenza ed Elizabeth aveva deciso d’ignorarla.

“Credo che anche lui, beh, sia legato ancora a te. Non l’ho mai visto sorridere in questi anni” aggiunse Hannah guardando altrove, entrando in punta di piedi nel flusso dei pensieri di Elizabeth.

Un’altra consapevolezza di cui non sapeva cosa farsene, che non voleva. Finì il suo terzo mojito, scrutando attentamente il fondo del bicchiere come se contenesse le risposte che stava cercando.

“Ho voglia di ballare. Vieni con me?” chiese ad Hannah alzandosi in piedi.

L’amica le sorrise, in maniera dolce e poi fece un cenno d’assenso. Non sapeva tenere il broncio a lungo ad Elizabeth. Per quanto possibile, comprendeva il suo stato d’animo.

Si lanciarono in pista, lasciando l’imbarazzo e l’amarezza suscitata da quella conversazione da un’altra parte: mentre si agitavano al centro della sala insieme ad altre coppie, molti lì dentro le guardavano insistentemente, finché uno di loro si fece abbastanza coraggio da avvicinarsi ed iniziare ad ancheggiare goffamente vicino ad Elizabeth. Quella sera indossava un top piuttosto scollato che evidenziava le sue curve e le donava una luce particolare, o forse erano i mojito che le accendevano le guance. Lei si era accorta dell’uomo che le ronzava intorno, ma le era bastata un’occhiata di sfuggita per capire che non rientrava nei suoi gusti.

‘I tuoi gusti, ossia Adam, praticamente’ si disse.

Poi, come quando si parla del diavolo, vide comparire quasi per invocazione il suo <> per eccellenza, all’entrata del locale, accompagnato di nuovo dalla stessa donna che aveva visto al parcheggio.

“Beth, io devo assolutamente fare una pausa, i tacchi mi stanno uccidendo! - le disse gridando Hannah per sovrastare la musica - tu sei apposto?” chiese, riferendosi al ragazzo che le aleggiava attorno come un avvoltoio affamato. Hannah lo guardava con pietà mista a preoccupazione, per lui ovviamente. Sapeva bene che non aveva nessuna chance con lei.

“Tutto ok, ti raggiungo tra pochissimo” la rassicurò.

Hannah non era sicura di cosa intendesse di preciso l’amica, ma la lasciò fare. Quando si sedette al loro tavolo ordinando un’acqua tonica, si accorse della presenza di Adam e Kim a qualche tavolo di distanza e le fu tutto un pò più chiaro. Adam la stava guardando e Hannah lo salutò con un cenno della mano, che lui ricambiò. Se ancora non si era accorto della presenza di Elizabeth, lo fece quando lo sguardo di Hannah glie la indicò involontariamente al centro della sala.

Elizabeth, invece, che si era perfettamente accorta del suo arrivo, si era già avvicinata con nonchalance al suo pretendente decisamente negato per il ballo, e la successiva canzone, altamente allettante, le fornì un ritmo piuttosto attraente sul quale ballare. Non era mai stata il tipo di persona che ama dare spettacolo, né tantomeno stare al centro dell’attenzione, ma quella canzone, l’alcol e la presenza di Adam insieme a qualcuno, avevano smosso una sua parte nascosta.

Mentre si avvicinava al suo compagno di ballo, si muoveva come un animale appena uscito dalla gabbia, passo felpato e sguardo attento: sentiva distintamente gli occhi di Adam attraversarle le spalle, ma se possibile, questo la disinibiva ancora di più. La canzone si stava avvicinando al ritornello, i bassi si moltiplicavano ed Elizabeth muoveva i fianchi sinuosamente seguendo il ritmo sempre più serrato che sovrastava il vociare del locale. Sapeva bene che per essere sfacciata non serviva alcun contatto col proprio compagno di ballo: tutto stava nell’intensità dello sguardo e dai movimenti lenti e morbidi che creavano ombre scure nelle luci blu soffuse. Elizabeth diede le spalle al ragazzo e continuò a ballargli sotto il naso: ora poteva vedere Adam chiaramente, contorcersi impercettibilmente sulla sua sedia.

Era una cosa orribile, ma Adam era completamente assorto mentre osservava da lontano quella scena: Kim gli stava chiedendo cosa prendesse da bere, e tra un’occhiata e l’altra Adam si prese la briga di guardarla e scegliere distrattamente una birra scura dal menù. Kim non era stupida, e di lì a poco si sarebbe sicuramente accorta di ciò che stava succedendo.

Vedere Elizabeth ballare davanti a lui in quel modo lo riportava indietro di anni, mentre sempre imbambolato e con le mani nella marmellata, la guardava scatenarsi sotto il palco della band di turno: un’autentica, irrefrenabile, pericolosissima forza della natura.

Elizabeth aveva i capelli davanti al viso, gonfi e spettinati sembravano quelli di un animale non addomesticato: tra le ciocche che le ricadevano ai lati, i suoi occhi saettavano famelici verso Adam, che a sua volta la guardava, quasi senza fiato. Le braccia si muovevano incorniciando prima i fianchi e poi il capo, scompigliando ancor di più i capelli folti.

<<My body is craving, so feed the hungry>> mimò lei con le labbra; conosceva quella canzone e se ne stava servendo vendicativa, a mò di arma contro di lui.

Elizabeth gli sorrise con un ghigno soddisfatta, lo sguardo arrabbiato e il respiro corto. Si voltò di nuovo verso quel ragazzo che moriva dalla voglia di baciarla, e lo ringraziò per il ballo; la canzone era terminata. Elizabeth tornò lentamente al suo tavolo sollevandosi i capelli in una coda, accaldata, mentre il suo accompagnatore dietro di lei stava ancora elaborando il rifiuto.

“Non ci credo che lo hai fatto davvero” disse Hannah appena l’amica si sedette con lei.

“Credici” ammiccò lei.

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Capitolo 10
*** Why don't you tell it like it really is? ***





Kim non aveva toccato ancora nulla, quando si alzò dal suo posto poco dopo l’arrivo delle loro ordinazioni.

“Dove vai?” le chiese Adam, tornato da poco dal viaggio dei suoi pensieri.

“Te ne importa qualcosa?” domandò a sua volta, approfittando dell’iniziale silenzio di Adam per bere qualche sorso di alcol.

“Ma che vuoi dire? Ti ho portata fuori proprio perché avevo voglia di vederti” mentì, sforzandosi di essere il più convincente possibile.

“Vai davvero al diavolo, Adam” lo guardò con astio divincolandosi dalla mano di lui che le tirava un lembo della giacca. Si fece largo tra la folla ed uscì il più velocemente possibile dallo Stereo Punk.

Finalmente aria fresca. Cosa stava accadendo fra loro due? Fino a qualche giorno fa Adam era il solito vecchio Adam, non c’erano vuoti improvvisi come tutte le volte che lo aveva sorpreso con la testa tra le nuvole, né tantomeno attenzioni per la prima sconosciuta che ballava davanti a tutti in un bar. Questo non era l’Adam che aveva conosciuto, somigliava molto di più al suo ex marito. Non riusciva a crederci, il suo ragazzo lì dentro si era comportato come un ragazzino in piena tempesta ormonale.

“Aspetta! - sentì gridare alle sue spalle, l’uomo l’aveva raggiunta nel parcheggio in pochi secondi - Mi dici cosa t’è preso?”

Kim gli dava ancora le spalle, ora come ora non si meritava nemmeno di guardarla in faccia.

“Sei uno stronzo, ecco cosa m’è preso. Ma non è niente di nuovo, sono abituata al tuo genere, ormai non mi aspetto niente” disse in tono dispregiativo.

“Vuoi spiegarmi chiaramente di cosa stai parlando? Ho forse dimenticato il tuo compleanno?” le chiese, fingendo di non sapere che il problema aveva un solo nome, Elizabeth. Non voleva affrontare quel discorso con lei, sicuramente non in quel momento.

Inviperita, Kim si voltò e gli diede uno schiaffo “Io non sono un’idiota, e tu sei troppo cresciuto per fare il bambino con la prima sgualdrina che agita il sedere in un bar!”

“Lei non è una..” provò a dire mentre sentiva la rabbia montare dentro di lui.

‘La tua ragazza ti sta facendo una scenata di gelosia e tu pensi ad irritarti se chiama la tua ex sgualdrina?’

“Ah! Addirittura, la conosci anche? Dio mio, ma che ci faccio qui?!” agitò le mani verso l’alto e velocemente compose il numero del radio taxi. Voleva mettere più distanza possibile tra lei e Adam prima di scaraventargli addosso qualunque cosa le fosse capitata a tiro. Comunicò l’indirizzo di dove si trovava e si allontanò da lui.

“Senti, Kim, quella era solo una persona che conoscevo, per questo la stavo guardando” disse lui constatando quanto facesse pena a dare spiegazioni.

“Puoi pure tenerti le tue cazzo di spiegazioni ora, non le voglio. Tu la stavi guardando perché ti piaceva”

“No, ti sbagli. Tra me ed Elizabeth non c’è e non ci potrà mai essere niente” disse duro.

“Lei è Elizabeth, quella Elizabeth? Pezzo di merda - inveì lei alzando di nuovo la voce - Da quanto sai che è tornata?” chiese riavvicinandosi.

“Da poco” abbassò lo sguardo.

“Non ci posso credere, sapevi che era qui e non hai pensato di dirmelo e, non so, magari di rassicurarmi prima che ti sorprendessi con la bava alla bocca mentre la guardi ballare?”

“Ti chiedo scusa, ma non pensavo fosse importante” mentì di nuovo.

“Basta, non voglio più ascoltarti. Finiamola qui”

“No, lascia che ti spieghi, non è come credi” disse, mentre il taxi accostava davanti all’entrata del locale.

‘Certo che è come, crede, anzi è anche peggio’

“Perché non dici le cose come stanno? La desideri, te lo si leggeva negli occhi. Eri nervoso, assente. Eri sfacciatamente attratto da lei” lo accusò ancora lei.

“Non voglio che tu tragga queste conclusioni senza neanche sapere i fatti”

“I fatti? E dimmi, me ne hai mai parlato? Ti sei mai aperto su questa storia? Mai. Ogni piccola, minuscola informazione su di te, ho dovuto estrapolartela con le pinze, come se confidarti con me, la tua ragazza, non fosse contemplato, come sei io non volessi ascoltarti”

“Sai come sono fatto, ormai dovresti averlo capito dopo tutti questi anni” rispose nervoso lui.

Lei scosse la testa, ormai in lacrime. Non voleva più ascoltarlo, l’immagine che aveva sempre avuto di lui ormai era andata in frantumi. Non si poteva più aggiustare.

“Stai solo peggiorando le cose. Stai zitto, tanto non cambia niente, non voglio più vederti”

Furono le ultime parole di Kim, prima di sbattere lo sportello dell’auto e imboccare l’interstatale che l’avrebbe riportata a Twins.

 

‘Che hai combinato, Adam? Ti basta vedere Elizabeth ballare per farti perdere completamente la testa?’

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Capitolo 11
*** More chaotic, no relief ***





Quel giorno di gelo e pioggia fitta, Adam non si sarebbe aspettato di trovare Kim, che odiava il freddo, fuori casa sua con in mano uno scatolone. La sua monovolume rossa fiammante era parcheggiata in malo modo davanti alla veranda con la portiera ancora aperta.

“Come mai sei a casa?” gli chiese lei stupita di trovarlo lì a quell’ora. Di solito durante la tarda mattinata potevi trovare Adam in qualsiasi cantiere nel raggio di 100 km, ma mai a casa.

“Oggi hanno disdetto la giornata al cantiere dei Griffith, e andrò all’emporio solo nel pomeriggio..” Adam era sorpreso di trovarla lì, in effetti non l’avrebbe mai detto. Kim, orgogliosa com’era non era davvero il tipo da riconsegnare gli effetti personali al suo ex. Non lo era per niente, anzi, era parecchio strano che non ne avesse fatto un bel falò.

Quella strana gentilezza, se così vogliamo chiamarla, lo fece riflettere e sentire ancora più in colpa.

“Beh, avrei preferito non incontrarti - disse appunto orgogliosa, ricomponendosi - Sono passata per portarti le cose che avevi lasciato da me”

“Ti ringrazio, non eri tenuta a farlo” Adam prese lo scatolone senza sforzo dalle mani di Kim.

“Già.. Allora, ciao” disse lei in fretta, non voleva guardarlo troppo negli occhi. Sapeva che Adam esercitava ancora un grande ascendente su di lei, e non voleva dargli modo di replicare, né di scusarsi.

Dal canto suo Adam pensava fosse inutile cercare di chiarire: Kim non era stupida, certo, ma non avrebbe mai capito il suo legame malato con Elizabeth, nessuno lo avrebbe fatto. E poi, ogni sua parola, la settimana precedente, era semplicemente la verità. Kim ci aveva visto lungo, Elizabeth, la donna del locale, significava ancora qualcosa per lui. E non essendo Adam un tipo di molte parole, né tantomeno spiegazioni, preferì continuare a guardarla andare via, di nuovo, senza darle modo di entrare nella propria testa.

Inaspettatamente poi, Kim si fermò, ancora di spalle, ancora con la giacca di jeans stretta al petto.

“La ami ancora vero? Dopo tutto questo tempo” era più una constatazione oggettiva, che una reale domanda.

Adam alzò lo sguardo dai suoi vestiti che se ne stavano perfettamente piegati nello scatolone e sospirò.

“Non importa, ho capito” disse infine Kim con voce rotta. Continuò a dare le spalle ad Adam e andò via dal suo vialetto, sapendo che non si sarebbe recata mai più in quella casa, ai limiti del bosco di Twins.

Adam, una volta che la rossa fiammante sparì tra le fronde degli alberi, aprì bocca, e non appena lo fece, un vortice prese a mordergli il petto selvaggiamente, senza pietà.

“Sì, dopo tutto questo tempo”.

 

Quello stesso giorno di gelo e pioggia fitta, Kim, dopo aver chiuso la relazione più duratura della sua vita, non si aspettava certo di vedere Elizabeth, la donna del locale, in una corsia del supermercato, immersa nella fatidica scelta dei suoi cereali. La sua giornata era stata già abbastanza orribile, o almeno così pensava.

Sembrava che scegliere quei cereali fosse questione di vita o di morte per quanto tempo ci stava impiegando. Quando Kim le fu abbastanza vicina, notò che in realtà Elizabeth, la donna del locale, quella che il suo ex fidanzato non smetteva di guardare, in realtà aveva lo sguardo perso nel vuoto.

Stava per andarsene, cambiare la direzione del carrello necessitava di un semplice movimento; aveva visto la seconda persona che più odiava al mondo in quel momento, ma se fosse andata via nessuno avrebbe mai saputo che non aveva avuto il coraggio di affrontarla. Le mani di Kim si strinsero al carrello, ma fu in quell’istante che la bruna si voltò verso di lei. Un guizzo nei suoi occhi fece capire a Kim che anche Elizabeth aveva avuto modo di accorgersi a sua volta di lei. Per qualche secondo non dissero niente, poi Kim, col la poca dignità rimasta ruppe il ghiaccio.

“Tu devi essere Elizabeth..” parlò.

Elizabeth la guardava con sospetto e imbarazzo, non esisteva un manuale per affrontare la ragazza dell’uomo con cui sei andata a letto di nascosto.

“Ehm, sì. Come sai il mio..?” Adam doveva averle parlato di lei.

“Beh, ecco, Adam mi ha detto, anzi se vogliamo essere precisi, non mi ha raccontato quasi niente di te. Quello che so è frutto delle voci che girano in città” ora era arrossita anche Kim.

Elizabeth si chiese subito quali voci girassero su di lei. E se qualcuno avesse visto lei e Adam nel bosco quel giorno? Si sentì morire dalla vergogna.

“Spero che non sia niente di male”

“No, beh, suppongo sia solo la verità - disse abbassando lo sguardo e grattandosi nervosamente un sopracciglio - Insomma, sei l’ex ragazza di Adam del liceo”

‘Ex ragazza di Adam del liceo’ ripetè Elizabeth in mente, una di quelle qualificazioni orribili che non avrebbe mai voluto che qualcuno le affibbiasse. Tuttavia, però era quella la natura delle cose.

“Sì, sono io, quell’Elizabeth” le confermò. Si stava imponendo di non distogliere lo sguardo dalla sua interlocutrice, ma il senso di colpa la stava divorando. D’un tratto ripensò al fatto che Kim l’aveva sicuramente notata l’altra sera allo Stereo Punk, mentre ballava sfacciata e disinibita davanti al suo ragazzo. Per il suo ragazzo. Appena se ne ricordò a mente completamente lucida ebbe il forte istinto di sotterrare la testa sotto la sabbia per non dover sostenere lo sguardo di quella donna.

“Io sono Kim, io e Adam..”

“State insieme, sì, me lo ha detto” era una bugia. Adam non le aveva mai parlato di Kim: era stata lei stessa a vederla nel parcheggio di quello stesso supermercato, come pure quella sera al locale quando erano arrivati insieme mano nella mano. Pensò che, con ogni probabilità, anche Kim doveva essersi accorta delle attenzioni di Adam per lei quella sera.

“No, abbiamo rotto. Non era.. - si disse di non versare neanche una lacrima, non davanti a lei - non era come immaginavo che fosse” abbassò lo sguardo. Si faceva pena da sola, che stupida che era stata.

“Oh, mi dispiace.. “ disse sinceramente Elizabeth, allungando una mano verso di lei, istintivamente. Le dispiaceva davvero, perché sapeva di avere parte della colpa in quella faccenda. Kim però si scostò immediatamente e la guardò con occhi feriti. Erano di un azzurro terso, come il cielo nelle giornate di pioggia, chiarissimi.

“Non voglio la tua pietà. Sai, le persone come voi due non dovrebbero lasciarsi. Non dovrebbero illudere altre persone e farle vivere per anni nella menzogna” sputò fuori furente.

Elizabeth era ormai paonazza, la saturazione del suo colorito era aumentata visibilmente. Gli occhi cominciavano a pungere, traditori.

“Senti, dimentica quello che ti ho detto, e anche di avermi incontrata” concluse Kim mentre finalmente cambiava la direzione del carrello, le nocche bianche per via delle dita che non avevano smesso un secondo di stringerlo forte.

Elizabeth aveva il fiato corto, mentre la guardava uscire dalla corsia della colazione.

“Mi dispiace” disse in un sussurro. Kim però la sentì e si voltò un’ultima volta a guardarla.

“Non ti credo, Elizabeth. Non credo a nessuno di voi due”.

Ora poteva lasciarsi sfuggire quella lacrima che stava reprimendo, indossare gli occhiali da sole per nasconderla ed uscire dal supermercato senza spesa sotto gli occhi inquisitori del cassiere.

 

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Capitolo 12
*** Veneficium ***





Elizabeth beveva molto caffè, a tonnellate. Era per questo che anche quella mattina si trovava nella caffetteria di fronte alla scuola. Era in fila per il suo cappuccino zuccherato, che ormai Ted, il ragazzo al bancone, aveva memorizzato come sua solita ordinazione. C’erano due persone davanti a lei, quando si sentì una mano calda afferrarle il braccio. Si voltò di scatto, quasi avesse un presentimento e quando vide le iridi scure di Malcom, le sue ginocchia tremarono sotto la gonna lunga che indossava quella mattina.

“Che cosa diavolo ci fai qui?” disse lei soffocando un urlo.

“Ma come, Liz, non sei felice di vedermi?” Lo scintillio perverso nello sguardo dell’uomo era ancora capace di farla rabbrividire, nonostante fossero passati ormai dei mesi dall’ultima volta che lo aveva visto di persona. Quell’improvvisa vicinanza, l’odore nauseante del suo dopobarba costoso, la turbava e non poco, la faceva sentire in trappola.

“Lasciami subito o mi metto a urlare” disse a denti stretti.

“Il solito, Elizabeth? Il tuo amico cosa prende?” li interruppe Ted da dietro il bancone, il sorriso smagliante come ogni mattina.

“Prendo anche io il suo solito” disse raggiante Malcolm, chiedendo il servizio al tavolo.

“Vieni, tesoro” le sussurrò all’orecchio indicandole uno dei tavoli che affacciavano sulla strada. La guidò cingendole la vita, sedendosi non di fronte, ma di fianco a lei, per continuare ad imporle la sua presenza.

“Come mi hai trovato?” Chiese Elizabeth guardandosi intorno. Si vergognava di lui e soprattutto di farsi vedere in sua compagnia.

“Oh, ma che t’importa. Ora sono qui, finalmente. Ho solo un cambio, eh - aggiunse, alzando le mani e facendo spallucce - però la mia roba arriverà lunedì” sorrise ancora.

Nel frattempo i due cappuccini zuccherati arrivarono, e Malcolm cominciò a berne qualche sorso.

“Spero che ti strozzi e diventi blu come questo sottobicchiere” disse Elizabeth guardandolo con disprezzo.

Allora Malcolm si fermò, alzando lentamente lo sguardo di fronte a sé e disse calmo:

“Sai, è stato davvero poco carino entrare nel tuo appartamento e scoprire che te ne n’eri andata senza lasciarmi neanche un biglietto”

“Lo rifarei mille volte ancora. E sai cosa non rifarei mai e poi mai nella vita? Incontrare un pazzo maniaco bastardo come te”

L’espressione di Malcolm si fece seria, le sopracciglia dritte e lo sguardo freddo incutevano timore, e non facevano trasparire niente di ciò che in quel momento gli passava per la testa.

“L’importante però è che ora ti ho ritrovata. Come ho fatto a non pensarci prima? Mi ci è voluto un secolo per capire che eri tornata dov’eri cresciuta. E così, eccomi qua” continuò il suo sproloquio, come se niente fosse. Poi senza far capire quale fosse la sua prossima mossa, baciò di slancio Elizabeth, che con occhi sbarrati aveva impiegato qualche secondo a rendersi conto di ciò che stava succedendo.

Disgustata lo respinse prima serrando le labbra e poi cercando di allontanarlo premendo gli avambracci sul suo torace. Niente, non demordeva. Allora lei gli assestò un pugno in pieno addome, provocandogli un colpo di tosse accompagnato da una risata diabolica.

Tutt’attorno nessuno si era accorto di nulla, purtroppo.

Malcom le ostruiva il passaggio e lei doveva dileguarsi da quella caffetteria al più presto. Erano bastati cinque minuti  accanto al suo ex per farla sentire di nuovo sporca.

“Se non mi lasci passare mi metto a urlare sul serio. Spostati”

Sul viso di Malcolm comparve un sorriso a trentadue denti mentre dopo qualche attimo di resistenza, decise di spostarsi e lasciarla passare.

“Prego”

“Se ti rivedo a 500 metri da me, chiamo la polizia stavolta. Se sarà necessario chiederò un’altra ordinanza restrittiva. Te lo giuro” disse rabbiosa Elizabeth, quasi in lacrime per il nervoso, prima di allontanarsi rapidamente da quell’orribile e nauseante errore della sua vita.

Elizabeth non si era accorta che dall’altra parte della strada, qualche minuto prima, un uomo stava osservando lei e Malcom con molta, moltissima attenzione. Adam stava passando per caso quando l’aveva riconosciuta dietro la vetrina della caffetteria. Gli era bastato qualche secondo però per capire, a malincuore, che non era sola. Era rimasto immobile a spiarli, senza badare agli sguardi inquisitori dei passanti. I due sembravano parlare concitatamente ed erano molto vicini, intimi: Elizabeth era di spalle, ma da lì Adam riusciva a vedere l’uomo che le stava di fronte, il quale sorrideva e la guardava come se fosse il centro del suo mondo. Che fosse il suo compagno? Era possibile, molto probabile, d’altro canto lui ed Elizabeth non avevano parlato molto da quando si erano visti. Solo adesso si accorgeva che Elizabeth era ancora una sconosciuta per lui, un eterno enigma. Distolse lo sguardo da quella vetrina soltanto quando vide quel bacio, e subito qualcosa in lui lo riscosse tanto violentemente da fargli mettere di nuovo in moto le gambe e andare via.

 

La mattina dopo Adam avrebbe dovuto svegliarsi all’alba e prepararsi ad affrontare un’altra giornata di lavoro, ma l’impeto del momento gli aveva suggerito che l’unica cosa sensata da fare fosse davvero rovistare nell’armadietto di liquori e buttar giù tutto. Bere veleno liquido o pensare ad Elizabeth era suppergiù la stessa identica cosa. Elizabeth era un veleno dolce che penetrava lentamente in ogni poro della pelle, silenzioso, ma non indolore. Se non si concentrava troppo sull’odore forte del bourbon che aveva versato nel bicchiere, poteva sentire il profumo della pelle di Elizabeth. Immaginare il suo corpo che ondeggiava nella sua maglietta dei Soundgarden, scatenata sotto al palco dello Stereo Punk, le sue labbra che lo baciavano fameliche quel giorno nel bosco. Tutto sapeva di lei.

Elizabeth, Elizabeth, Elizabeth. Ovunque si voltava, lei era là. Chiudeva gli occhi per un attimo, solo un attimo, ed eccola che lo guardava con quel suo sguardo malinconico. Voleva spegnere tutto, affogare nel veleno meno dannoso dei due e per una volta, non avvertire ovunque la presenza della donna che ancora amava.

 

Now, I need to be alone, I spin out of control

We're trapped inside the dream again

Look now what we have become

You're like a parasite infecting me until the end

 

Elizabeth aveva chiesto l’indirizzo di Adam all’emporio che gestiva con i suoi amici. Quel giorno dissero che non lo avevano visto e che probabilmente si trovava a casa. Così, spaventata oltre ogni limite, ma non senza aver tentennato per tutto il giorno, si decise ad andare da lui. Non l’aveva spinta il fatto di esser venuta a conoscenza della sua rottura con Kim, ma perché sperava in un suo aiuto.

La visita di Malcom di quella mattina l’aveva fortemente scossa, non era riuscita a concentrarsi quel giorno a lavoro né a mangiar nulla. Era sempre di pessimo umore quando si parlava di Malcom, ma l’essere riuscito a scovarla lì l’aveva messa con le spalle al muro, di nuovo. E lei odiava trovarsi in quella posizione.

La casa di Adam era nascosta nel bosco, l’ultima prima del confine della contea di Twins. La strada era poco illuminata, quindi ci mise un pò per individuare il punto esatto. Bussò più volte, ma nessuno rispose. Dentro casa la musica era a tutto volume, pensando che Adam non potesse udirla a causa del volume, entrò all’interno col cuore a mille che le tormentava il petto.

“Permesso?” Sussurrò più a se stessa che ad altri.

Il sole era già tramontato e all’interno era buio, così Elizabeth seguì l’unica luce fioca che proveniva da una camera al pian terreno.

Quando entrò in quello che era il salotto di Adam, lo vide sdraiato sul divano con un bicchiere sul petto, pericolosamente in bilico sul petto, minacciando una caduta ad ogni movimento.

“Elizabeth, sei tu?” chiese con la voce roca senza aprire gli occhi.

Lei, sorpresa, come prima cosa mise in salvo il bicchiere. Allineò poi il braccio scomposto di lui lungo il fianco e si sedette accanto. Nel frattempo riconobbe il suo nome appena pronunciato nella canzone che Adam stava ascoltando: non conosceva l’artista, ma quella motivo sembrava piacerle.

 

Yet, in the dark still he screams your name (Elizabeth!)

 

 

“Sì, sono io” rispose lei.

A quelle parole gli occhi di Adam si spalancarono, ferendosi con la poca luce che illuminava la stanza, incredulo di aver sentito davvero la sua voce.

“Elizabeth - disse di nuovo, accarezzandole una guancia con la sua mano ruvida che cozzava con la morbidezza del suo viso - sei davvero qui”

“Sono qui” i suoi occhi sorrisero, il tocco di quella mano forte era come un balsamo sulla sua pelle. Un ricordo giunto da lontano. Elizabeth avvolse a sua volta i palmi attorno alla mano di Adam e gli diede un soffice bacio.

“Ti ho aspettata per così tanto tempo…- le confessò - pensavo che non ti avrei più rivista. E ora sei qui”

anche Adam sorrideva ora, le palpebre socchiuse e il respiro tranquillo, regolare.

“Sono proprio qui con te” all’improvviso il motivo che aveva l’aveva condotta lì quella sera, non era più tanto importante, sembrava svanito. C’era solo il sorriso di Adam e il bisogno irrefrenabile di continuare ad annusare il suo profumo, carezzare la sua pelle ed essere grata di poter osservare ancora una volta tutti i particolari del suo volto. Elizabeth, mentre lo guardava dall’alto, del tutto indifeso, individuò tutte le nuove cicatrici e le piccole rughe d’espressione ai lati dei occhi, costellati dai suoi nei come un ornamento. Era proprio come lo ricordava. Dopo tutto quel tempo, si rendeva conto che guardarlo dormire era ancora una delle cose che più preferiva.

Adam mormorò qualcosa d’indefinito e poi si voltò su un fianco; si vedeva che era esausto e non era per il bourbon. Era stanco di lottare, di essere sempre arrabbiato.

“Ho bisogno di te Liz, ti prego” confessò sussurrando.

Elizabeth sentì il cuore scoppiargli nel petto e al tempo stesso battere sempre più velocemente.

“Anche io, Adam”

“Questo non puoi rimangiartelo, ricorda… sono io quello ubriaco dei due” disse sorridendo.

Strinse la sua mano, finalmente in pace dopo una tormenta durata anni “Lasciarti andar via dalla mia vita, è stato l’errore più grande di tutti..” Aggiunse, guidando le dita di Elizabeth sul suo petto.

 

 

Arise from the dust

The sands of our life

Release me from the chains

A reason to survive

Drinking from the glass of memories and lies

Restless and shifting the season of fear.. Gone

 

I need you right now, my black dried up heart




Note:
https://www.youtube.com/watch?v=6VMk73ZqVE8
https://www.youtube.com/watch?v=kJhUs9PQvHs
https://www.youtube.com/watch?v=aRPufhklhKo
 

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Capitolo 13
*** You made me feel like the one ***





Adam schiuse le palpebre molto lentamente, proteggendosi dai raggi di luce che filtravano dalla veranda. La tempia destra non faceva che pulsare ritmicamente, propagando un’onda di malessere in tutto il corpo. Non ci volle molto prima di capire qualora stato il divertimento della serata precedente: alcol.

 

Wake up call, coffee and juice

Remembering you. What happened to you?

I wonder if we’ll meet again

Talk about life since then

Talk about why did it end

 

Cercò di mettersi seduto e sgranchirsi un pò: vide uno strano ordine attorno a sé, stranamente non c’erano tracce della bottiglia di Bourbon che giurava di aver aperto la sera prima, né del bicchiere usato; le alte dell’armadietto dei liquori era chiuso e il tavolino basso di fronte a lui era sgombro del solito caos che vi regnava. Sulla superficie di legno c’era soltanto una tazza di caffè, ancora tiepido e un biglietto ricavato dal resto di una ricevuta


‘Bevi questo, campione. E fà una doccia, puzzi.

-Elizabeth’
 

Adam arricciò un angolo della bocca, ora ricordava cos’era qualcosa di più della notte appena trascorsa. Ricordava di aver percepito il sentore del profumo di Elizabeth nell’aria, prima ancora d’incontrare il tocco delle sue mani e il suono della sua voce, rendendosi conto che era davvero lì con lui. Non era stata un’allucinazione stavolta.

Sebbene ricordasse di averla chiaramente vista al suo capezzale alcolico, non gli era altrettanto chiaro l’esatto contenuto di quello che le aveva detto. Non riusciva proprio a mettere in ordine quelle ultime tessere del puzzle, sapeva soltanto che qualunque cosa fosse uscita dalla sua bocca era stata parecchio liberatoria. Quella mattina, stranamente, nonostante quel martellante mal di testa, sentiva il cuore più leggero, i muscoli rilassati e l’irrefrenabile stimolo di sorridere rileggendo più volte il messaggio di Elizabeth.

Decise di ascoltare il suo consiglio e a piccoli passi andò di sopra a farsi una doccia, non prima però di aver mandato giù un’aspirina nella speranza di alleviare il cerchio alla testa. Dopodiché sarebbe andato dritto a casa di lei, a fare non sapeva ancora cosa di preciso, ma sapeva che doveva semplicemente prendere la sua auto e guidare fino a lì. Il polo magnetico Elizabeth si era rimesso in funzione e non faceva che spingerlo ansiosamente verso di lei.

 

Elizabeth aveva passato la notte insieme ad Adam: dopo avergli preparato svariati caffè decise di lasciarlo riposare e rimase a vegliare su di lui, proprio come avrebbe fatto una volta. Di prima mattina, non prima di avergli preparato un altro caffè e lasciato un biglietto con precise istruzioni, era tornata a casa. Il suo nuovo appartamento, purtroppo, non era troppo lontano dalla casa dei suoi, non abbastanza comunque. Tutt’intorno il quartiere era silenzioso e una leggera bruma si era depositata sulle auto parcheggiate di fianco al marciapiedi. Entrò in casa e fece colazione: non aveva molta fame, ma se non altro, forse, non si sarebbe addormentata davanti ai suoi alunni se avesse mangiato qualcosa. Stava masticando il suo boccone di uova strapazzate, quando un brivido le percorse la schiena, inaspettatamente. Ebbe a malapena la sensazione di essere osservata, prima di voltarsi e scoprire un’ombra che le si avvicinava lentamente.

“Ben tornata a casa, amore”

Malcolm era lì in mezzo alla cucina, con il suo solito ghigno raccapricciante e un coltello in mano. Appena quest’ultimo entrò nel campo visivo di Elizabeth, lei si alzò in piedi di scatto cercando istintivamente d’individuare la sua borsa.

“Dove sei stata, amore? - Malcolm calcò l’accento su quella parola con fare inquisitorio - ti ho aspettata per tutta la notte, stavo diventando pazzo!” Aggiunse concitatamente.

“Tu sei pazzo, brutto figlio di puttana!” Urlò terrorizzata.

Provò a raggiungere la porta sul retro, accanto al frigo, ma l’uomo fu più rapido e la intercettò.

“Amore, amore, io non sono pazzo. Sono solo innamorato” chiarì posandole un bacio umido sulle sue labbra già serrate.

Non poteva essere, stava succedendo di nuovo. Adesso, proprio quando si sentiva più al sicuro, eccolo che Malcom ricompariva. Gli era riuscita a sfuggire per due volte ad Atlanta, fino a quando aveva capito che cambiare casa non avrebbe fatto molta differenza; lui l’avrebbe rintracciata sempre. Fuggire da Atlanta, per quanto rappresentasse una sorta di bolla sicura, le era sembrata l’unica opzione. Non si sarebbe mai immaginata che anche dopo tutti quei mesi, lui avrebbe continuato a darle la caccia come un mastino.

“Non hai risposto alla mia domanda, tesoro. Dov’eri stanotte?” la sua espressione adesso si era indurita, cominciava ad innervosirsi.

Elizabeth, di tutta risposta gli sputò addosso, cercando con la braccia di divincolarsi dalla sua presa ferrea.

Malcolm fece uno dei suoi orribili ghigni, storcendo la bocca, si pulì il volto e assestò un colpo a sua volta. La donna quasi cadde per il forte colpo sul viso, in bocca il sapore del sangue.

“Maniaco del cazzo, stavolta non la farai franca. Ti farò chiudere in un manicom..” Questa volta fu un calcio allo stomaco a mozzarle il respiro.

“Dove. Eri. Stanotte” sillabò ancora una volta fra i denti lui.

“Ero con Adam” rispose finalmente Elizabeth piegata in due dal dolore.

A Malcolm non importava quante volte Elizabeth gli avrebbe dato del pazzo, o la repulsione con cui lo guardava anche adesso, ma confessare di aver passato la notte con un altro, faceva più male di tutto quanto messo insieme. Se poi l’altro in questione era il famoso Adam, quello del suo passato, bastava infinitamente poco per esaurire l’ultima goccia di sanità mentale in Malcolm.

Senza accorgersi davvero di ciò che stava facendo, l’uomo si accovacciò dove giaceva la donna, inerme, e iniziò a tracciare una linea invisibile sul suo petto con il coltellino che stringeva tra le dita, lacerandole la maglia e la carne. Dopo pochi attimi il suo capolavoro prese vita tingendosi di un color rosso vivo.

“Tu sei mia - ripeteva l’uomo mentre continuava a ricalcare la sua linea verticale sul petto di Elizabeth, tra le urla strazianti di lei - Il tuo cuore è mio”

In quel momento Adam comparve alle sue spalle, il sorriso che gli era morto sulle labbra nel momento in cui aveva udito le urla di Elizabeth dall’esterno.

“Allontanati da lei” lo minacciò Adam, mentre si avvicinava a grandi passi.

Malcolm si era alzato in piedi, il coltello che ancora sgocciolava sul pavimento “Tu devi essere Adam” sorrise malefico.

“E tu sei morto” urlò un secondo prima di scaraventarsi su di lui. Adam lo aveva gettato a terra e lo stava investendo con una scarica di pugni, uno dopo l’altro, uno più forte dell’altro, nonostante il forte dolore alle nocche, la cui pelle si stava lacerando.

Malcom non era della stessa stazza del suo avversario e sapeva che l’unico modo per disarcionarlo era avvalersi dell’aiuto della lama che aveva ancora in mano. Così iniziò ad agitare il coltellino alla cieca verso di lui, provocandogli dei tagli sull’avambraccio, che tuttavia non risultarono sufficienti a liberarlo da tutto quel peso. Adam, a cavalcioni su di lui, continuava a lottare, ferendosi, fino a quando gli prese il coltello dalle dita e lo gettò lontano. Vista la strana resistenza dell’uomo, ancora vigile e delirante nei suoi commenti su Elizabeth, prese il primo oggetto pesante che gli fu a tiro, in questo caso un piccolo vaso, e glie lo ruppe sul capo, proiettando una pioggia di schegge di ceramica e terriccio ovunque.

Finalmente l’uomo perse i sensi. Adam non si fermò neanche a riprendere un pò di fiato, ma si lanciò subito in direzione di Elizabeth, che giaceva ancora a terra, nell’angolo più buio della cucina. Si era rannicchiata in posizione fetale e premeva le dita, bagnate di rosso, in mezzo al petto. Adam non aveva ancora realizzato l’entità delle ferite che quel pazzo le aveva inflitto, non ce n’era stato il tempo; mentre con una mano componeva il 911, con l’altra stringeva tra le braccia il corpo esile di Elizabeth, che si lamentava sommessamente. Aveva il volto parzialmente tumefatto e le labbra inondate di sangue. Adam non sapeva cosa fare, aveva il fiato corto e si sentiva completamente inutile. Elizabeth era in pericolo? Cosa poteva fare per salvarla?

“Adam.. - sillabò lei tra le lacrime e aprì gli occhi. Sentiva un bruciore lancinante al petto, che non le permetteva di respirare. Ogni volta che i suoi polmoni sollevavano il suo petto si sentiva morire. Con ogni probabilità, pensò, quelli potevano essere i suoi ultimi momenti - Sei sempre stato tu, solo tu” disse stremata, prima di richiudere gli occhi.

Solo allora, appena dopo che Elizabeth perse i sensi, Adam notò l’anello familiare che indossava, ora totalmente insanguinato. Seguì i rivoli ancora freschi fino al polso, dove notò che la pelle si scuriva, avvolta dallo stesso motivo: una foglia.

 

You made me feel like the one

Made me feel like the one

The one

 

 

Note:

https://www.youtube.com/watch?v=SzBJQnD7TRM

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Capitolo 14
*** Forget the fear and feel free at last ***





Le dita affusolate percorrevano le cicatrici in mezzo al petto, mostrate dal suo scollo a v, al centro del suo essere, mentre contemporaneamente Elizabeth scacciava il pensiero di quel giorno terribile. Erano passati tre mesi da quando aveva creduto di morire. Dicono che prima di morire, una persona veda tutta la vita passargli davanti agli occhi, ma ciò che aveva continuato a vedere Elizabeth anche dopo aver chiuso le palpebre, era stato il volto di Adam.

Erano stati tre mesi di riabilitazione, di dolori sconcertanti al petto, ma anche tre mesi di Adam. Tre mesi in cui lui si era preso cura di lei come non aveva mai fatto.

La donna guardò il bosco, fuori dalla finestra ovale: casa di Adam era il posto più silenzioso e tranquillo sulla terra. La pace che vi aveva trovato rispecchiava esattamente il buonumore riacquistato di recente. Malcom era stato arrestato il giorno stesso, ora sul suo capo verteva un’accusa di tentato omicidio e il processo si sarebbe tenuto da lì a qualche mese: non lo ammetteva, ma il fatto di doverlo rivedere in un’aula di tribunale le metteva addosso non poca ansia. Tuttavia ora non voleva pensarci, non era il momento.

Scacciò quel pensiero e s’impose di rimanere a crogiolarsi in quell’aura di felicità almeno per quel giorno. Accarezzò le pieghe del vestito lungo i fianchi e guardò il suo riflesso sul vetro in controluce: aveva scelto di proposito un vestito scollato, perché pensava che le proprie cicatrici dovevano essere mostrate. Non se ne vergognava minimamente, anzi, la rendevano una sopravvissuta e lei era grata per questo. Ciò che più di tutto rappresentavano però, era lo straordinario atto di coraggio che Adam aveva compiuto per salvarla. L’uomo che amava, l’unico amore della sua vita,  l’unico per cui si sarebbe fatta asportare fisicamente il cuore dal petto.

Ed eccolo lì quell’uomo, mentre percorreva la scala lentamente, scalino dopo scalino, con gli occhi furbi che ammiravano la sua Elizabeth illuminata dalla luce ristoratrice del mattino. Aveva pregato molto in quei mesi, lui, che non aveva mai pregato in vita sua. Quando all’ospedale gli avevano detto che quelle di Elizabeth non erano ferite gravi e che non era in pericolo di vita, era scoppiato a piangere come un bambino nel corridoio, sotto gli occhi dei genitori di lei. Per lui Elizabeth era tutto, perderla non era un’opzione, semplicemente. Nel lasso di tempo che lo aveva portato fino a quel momento, aveva imparato ad amare di nuovo, ad innamorarsi di lei ancora e ancora, in un modo completamente diverso. Se il loro era nato originariamente come un amore infantile quanto tormentato, ora aveva acquistato un senso e una profondità maggiore. Non erano più dei ragazzini, erano un uomo e una donna che non avevano bisogno di parole per comunicare, bastava uno sguardo per capire che nonostante tutti gli anni, il dolore e i fraintendimenti, ora erano lì l’uno per l’altra. Lo sarebbero stati sempre, volenti o nolenti.

“Allora, è pronta la mia futura sposa?” chiese sorridendole, felice come non ricordava di essere mai stato. Elizabeth ora era di fronte a lui, bella come il sole.

“Non dovresti vedere la sposa prima delle nozze” gli appuntò lei sistemandogli la giacca.

“Beh, signorina - cominciò, cingendole la vita con un braccio - lei abita a casa mia, quindi mi viene un pò difficile non ..guardarla. E poi, io e lei siamo quanto più ci possa essere di anticonvenzionale”

“Anticonvenzionali? E perché mai?” chiese lei scherzando, con espressione sorpresa.

“Guardaci… Tu non hai un vestito bianco, io non ne ho uno nero, non sembriamo proprio la classica coppia” le baciò la fronte, mentre continuava ad accarezzarle le spalle scoperte, lasciate nude dai capelli raccolti.

“Menomale..” Aggiunse Elizabeth, tuffandosi sul petto di Adam, l’unico posto sicuro.

Si sentiva pronta a vivere di nuovo, ad imparare tutto un’altra volta ancora. E Adam, beh, Adam era tornato a respirare nello stesso momento in cui aveva di nuovo posato gli occhi su di lei, la sua Elizabeth.

 

 Here

I want to start again

Keep learning day by day

Forget the fear and feel free at last

  

                                                                                            
 


FINE


 

Note:

Ed eccoci giunti alla fine. Il finale arriva con orgoglio, ma anche con un pò di amarezza. Oramai mi ero abituata a tenere sospeso il file Mislaid, Smarriti.doc sul portatile e ad aprirlo di tanto in tanto per decidermi finalmente a riprendere in mano la storia. Ho iniziato Mislaid nel 2016, con molte immagini e scene in mente, ma avendo chiaro solo parte di quello che sarebbe stato il corpo della storia. Spero di essere riuscita a trasmettere il senso di malinconia a cui puntavo e che tutti questi versi di canzoni non vi abbiano annoiato troppo! 

Grazie a tutti coloro che hanno letto, recensito e commentato questa storia, alla prossima!

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