Alternativa

di shamrock13
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Incontro ***
Capitolo 2: *** Reazione ***
Capitolo 3: *** Cambiamento ***
Capitolo 4: *** Confidenza ***
Capitolo 5: *** Ripresa ***
Capitolo 6: *** Pensieri ***



Capitolo 1
*** Incontro ***


Introduzione brevissima.
E’ molto che non scrivo qualcosa, l’altra settimana ho letto Life and Death, e diciamolo… Meh.
Ho iniziato a pensare a tutte le cose che non mi erano piaciute, a come quei personaggi erano poco convincenti, a come sarebbe dovuta andare la storia se lui fosse stato un umano e lei una vampira, ed ecco qui. Mi sono ritrovato con questo episodio che mi frullava per la testa e non sono stato in pace finchè non l’ho scritto.
Non sono Bella ed Edward (o Beau ed Edythe), volevo provare ad inserire delle dinamiche nuove.
Forse andrà avanti e forse no, per ora la lascio aperta e prometto almeno un altro capitolo.
Spero vi piaccia!
 
 

Alternativa

Incontro

 
1 Ottobre 2015. Primo giorno di lezioni del secondo anno all’università del Maine.

Non mi dispiaceva essere tornato, gli ultimi giorni di vacanza si erano un po’ trascinati, consapevole di dover presto lasciare casa, ma eccitato per ciò che mi aspettava. Avevo ripreso possesso della stessa camera dell’anno precedente, nel dormitorio F, con Matt, con cui avevo stretto una buona amicizia.

Respiravo l’aria umida e fresca del campus mentre le mie suole calcavano il vialetto selciato che portava agli edifici delle aule, lo zaino buttato sulla spalla destra, con dentro i libri per la giornata e il portatile. Nelle orecchie qualche classico Rock a volume non troppo alto mi faceva compagnia. Scrutai il cielo con aria dubbiosa, chiedendomi se non avrei fatto meglio a buttarmi sulle spalle, o almeno nello zaino, una giacca impermeabile; per ora, nonostante le nuvole basse, ero salvo.

Dovevo rientrare nell’ordine di idee di trovarmi in un clima diverso rispetto a quello del North Carolina.

Mentre mi avvicinavo all’aula scambiai un cenno di saluto con qualche compagno di corso, facce note ma niente più che conoscenti. Non sono mai stato un tipo troppo espansivo, e ho sempre selezionato con una certa cura le persone con cui aprirmi un po’ di più.

Entrai nell’aula, notando la cattedra ancora vuota, e iniziai a salire i gradini per raggiungere un posto nelle file centrali, dal momento che le prime erano già occupate. La smania da primo giorno... Mi sedetti adiacente al corridoio centrale, così da evitare di avere persone su entrambi i lati, ed estrassi carta e penna dallo zaino.

Una volta pronto, lasciai spaziare lo sguardo sulle altre persone che popolavano l’aula, ricordando un volto o l’altro, o semplicemente osservando il modo di muoversi o di chiacchierare dei vari gruppetti che si venivano man mano a formare. Nessuna invidia, essere uno dei pochi a stare in silenzio per i fatti miei non mi metteva particolarmente a disagio.

Lo sguardo mi si fermava sempre più spesso sulle ragazze che avevo notato l’anno precedente, prendendo svogliatamente nota dei nuovi look e chiedendomi se, quest’anno, avrei trovato qualcuna con cui attaccare “spontaneamente” bottone e magari iniziare a frequentarci…

Mi conoscevo abbastanza da dubitarne seriamente.

Di nuovo, non per un problema di timidezza. L’anno precedente ci avevo anche provato, alle feste o alle lezioni, a scambiare due parole con questa o quella ragazza che mi sembrava interessante. Ed ecco il punto: sembrava. La mia mente purtroppo correva spesso più in fretta della realtà, tendendo ad idealizzare quello che vedevo così che, quando poi effettivamente mi decidevo a buttarmi, tutto risultava solo una grossa delusione, incapace di suscitare il mio interesse.

Il professore entrò in aula, disponendo i suoi appunti sulla cattedra e preparandosi alla lezione. Gli alunni ancora impegnati a chiacchierare e quelli che ancora dovevano prendere posto iniziarono a muoversi più celermente.
Ero ancora preso dai pensieri riguardanti la socializzazione con l’atro sesso, pratica dalla quale, mi faceva spesso notare Matt, non potevo esimermi, indipendentemente dalla soddisfazione personale che ne traevo, dato che ero comunque tenuto a presentargli tutte le ragazze con cui scambiavo anche solo una parola, quando un tipo decisamente corpulento entrò nella fila immediatamente davanti alla mia, rivelando la persona che stava salendo le scale dietro di lui.

Ora, a noi ragazzi piace categorizzare.

Abbiamo un’immagine delle gambe perfette, del viso perfetto, delle mani perfette. Ognuno ha i suoi gusti e ognuno è pronto a fare dei compromessi, cose stupide che non si dicono in giro, se non in un ambiente maschile assolutamente connivente, del tipo “Per una con le tette così, come piacciono a me, sono disposto anche a passare sopra al culone”.

Per me sono sempre stati i capelli. Per i giusti capelli rossi -e parlo di rosso irlandese naturale, non quelle tinte orribili e violacee che si vedono spesso in giro- sono disposto a fare grossi sconti. Anzi, meglio, supponiamo che ogni tratto fisico, mentale e caratteriale contribuisca ad assegnare un certo punteggio ad una ragazza. I capelli rossi, per me, sono un gran bel bonus.

Ecco perché, nel momento in cui davanti a me si materializzò quella chioma di un meraviglioso rosso aranciato, che già sotto le luci al neon dell’aula sembrava risplendere come un acero in un’assolata giornata autunnale, il mio cervello si congelò completamente.

Fu un secondo, perché la piccola ragazza a cui apparteneva, si stava affrettando verso gli ultimi banchi tenendo lo sguardo fisso ai gradini. Non potei farne a meno, la seguii con lo sguardo finché potei, poi girai anche la testa nella sua direzione.

Non pensavo se ne sarebbe accorta, ma anche lei alzò il viso e, mentre camminava, con un movimento decisamente rapido voltò la testa verso di me, lanciandomi un’occhiataccia. Colto alla sprovvista mi voltai, con un’immagine piuttosto confusa in mente. Lo sguardo che mi aveva lanciato non era solo infastidito, era ostile, minaccioso. Proveniva da un volto molto bello, da due occhi… castani? Molto chiari?

Evidentemente avevo visto male perché sembravano addirittura gialli, o ambrati. E quello non è un colore “giusto” per gli occhi, no? Saranno state le luci, pensai.

E poi, era proprio così bella? Mentre l’impressione di bellezza che avevo avuto sbiadiva già, a causa della brevità del momento in cui l’avevo guardata, l’altra sensazione che avevo avuto, quella di minaccia, permaneva nella mia mente. Anzi, si rafforzava. Un brivido mi percorse la schiena, come se il mio corpo mi dicesse qualcosa del tipo “Per un pelo…

Che cosa stupida.

Mentre il nell’aula scendeva il silenzio e io mi apprestavo a prendere qualche appunto, cercai di definire quello che mi era appena capitato, e la conseguente reazione assolutamente involontaria e… istintiva? Forse quella era la parola che cercavo, una reazione che non veniva dal mio pensiero cosciente ma da qualche altra parte del mio cervello, una parte che non ero abituato ad usare.

Appuntai l’e-mail del professore, a cui eravamo invitati a rivolgere tutte le domande e i dubbi che potevamo avere, a proposito del corso e, con una scrollata di spalle, mi liberai dei pensieri che stavo facendo, che mi parevano molto poco coerenti e decisamente strambi.

Mi ripromisi però di buttarmi uno sguardo alle spalle nel corso della lezione, per verificare se, effettivamente, la rossa era carina. Quello sì che era un pensiero che valeva la pena di rielaborare. E, se non altro, mi avrebbe dato qualcosa su cui sperare, dato che la lezione iniziava già a prendere una piega noiosa.

“5 minuti di pausa.” Disse il professore, dopo la prima ora di lezione. Come molti altri posai la penna e mi alzai, lasciando che la sedia a ribalta si richiudesse con uno scatto. Con un movimento che speravo sembrasse fluido e naturale, mi voltai appena in tempo per notare la chioma che cercavo, la quale spiccava sulle teste bionde e castane degli altri studenti, che spariva all’esterno da una delle porte sul fondo dell’aula.

Mancata…” pensai. Mi rimisi a sedere con un certo disappunto e mi preparai alla seconda ora di lezione.

Passarono i minuti, le penne grattavano sui fogli, le tastiere dei portatili ticchettavano mentre tutti prendevano appunti in maniera piuttosto diligente –niente è bello e ordinato come la prima pagina di appunti di un nuovo corso, ma sapevo che già la settimana successiva la storia sarebbe stata ben diversa- e io mi agitavo inqueto sulla sedia. All’inizio non me ne accorsi. Solo piccoli movimenti involontari delle spalle o del collo ma, quando mi piegai più verso il foglio, come se volessi difendermi o nascondermi, e il mio vicino di banco mi lanciò un’occhiata in tralice, presi coscienza del mio comportamento.

Mi obbligai a raddrizzarmi e mi concentrai meglio su cosa stava succedendo.

Era una sensazione nuova, strana ed insolita, come quella che avevo avuto prima. Mi sentivo minacciato. Anzi no, non minacciato. Mi sentivo maledettamente osservato e provavo una certa ansia, come se fossi in attesa di qualcosa, con ogni muscolo pronto a reagire. Mi guardai attorno e tesi le orecchie, ma non capii cosa stava accadendo.

Poi, come d’istinto, mi voltai e piantai gli occhi, a colpo sicuro, sulla ragazza dai capelli rossi, una dozzina di file più indietro, seduta da sola in fondo all’aula, con un banco tutto per lei.

Non feci quasi in tempo ad appurare che era lei che mi stava fissando, che quella aveva già distolto lo sguardo. E non lo fece platealmente, girando la testa da un’altra parte, ma in modo molto più sottile, alzandolo di quel che bastava per farlo passare sopra la mia testa, verso la cattedra, così da farmi sorgere il dubbio che mi stesse effettivamente guardando.

Certo quella sua furbizia passò in secondo piano, così come la sensazione di essere osservato, nel momento in cui misi a fuoco il suo volto. Non era bella, era commovente. Non potei fare altro che fissarla per due secondi buoni, fino a quando le due ragazze sulla fila subito dietro a me ridacchiarono del mio comportamento curioso, allora mi costrinsi a voltarmi.

Non avrei saputo dire in quel momento le fattezze che aveva quel volto, perché non ero riuscito a concentrarmi su di esso nemmeno un attimo. Era come se la mia mente avesse preferito crogiolarsi nelle emozioni che quel viso mi scatenava, completamente, piuttosto che perdere anche un solo istante per imprimerselo nella memoria.

Era una cosa inaspettata, alla quale non ero preparato. Ci sono donne di una bellezza tale da scatenare potenti emozioni, non lo nego, ma quello… Non credevo che fosse possibile.

Ero frastornato.

Continuai meccanicamente a prendere appunti per il resto della lezione, ma mi sentivo chiamato verso quella ragazza, come un cavallo strattonato dal morso in bocca, il collo in tensione pronto a girarsi per rispondere al richiamo, trattenuto però dalla sola volontà, che mi impediva di girarmi ancora.

La lezione finì, lasciandomi decisamente stanco di quella battaglia interiore, e stranamente sconvolto. Proprio non mi capacitavo di cosa cavolo fosse successo.

Mi alzai e riposi le mie cose nello zaino con molta calma, cercando nuovamente di non voltarmi verso il fondo. L’aula si era vuotata quasi del tutto quando mi concessi una rapida occhiata. Lei ovviamente era sparita.

Chiusi le zip dello zaino, mi passai una mano tra i capelli, sospirando, mentre con l’altra mi ributtavo la borsa in spalla, pronto a spostarmi nell’aula successiva.

“Ciao.” mi sorprese una voce con un timbro particolarissimo. Era bassa, quasi roca, ma incredibilmente musicale.

Mi voltai e lei era lì, a meno di un metro da me.

Era bassa: nonostante fosse un gradino più in alto dovetti comunque abbassare la testa per guardarla. Sorrideva a labbra chiuse e mi guardava. Avevo visto giusto: gli occhi, grandi e luminosi, erano di un castano dorato che non avevo mai visto. Ci caddi dentro. Non saprei descriverlo in altro modo.

Non respiravo più, neanche mi avesse mollato un montante al diaframma invece che salutarmi. Avevo aperto la bocca per ricambiare il saluto, quando ancora le davo le spalle, e ora me ne stavo lì come un fesso.

Lei alzò una mano dalle dita sottili, con le unghie curate e rosee, stranamente appuntite –saranno state pratiche? Non c’era il rischio di cavarsi un occhio con delle unghie così? Sembravano più artigli…- per sistemarsi una ciocca di quei pazzeschi capelli rossi, che le cadevano a onde vaporose dietro la schiena e sulla spalla sinistra, portandosela dietro l’orecchio.

Le sue labbra piene si dischiusero, mostrando dei denti bianchissimi e perfetti, e i suoi occhi si illuminarono ancora di più. Quel viso era come una sinfonia, ogni sua mossa, ogni espressione era un crescendo, che mi staccava da dove mi trovavo e mi trascinava con sé, piegandomi a quella bellezza straordinaria.

“Questo è il mio primo anno qui, mi chiedevo se saresti così gentile da accompagnarmi alla prossima lezione.” Disse, con una cortesia inaspettata dal momento che non poteva non essersi accorta che ero paralizzato, in apnea, con un’espressione totalmente ebete sulla faccia.

Datti un contegno!” mi dissi, anzi mi urlai, con urgenza.

Mentre mi schiarivo la voce, e la testa, per mettere assieme una risposta, registrai che quella parte stranamente attiva del mio cervello, dando contro a tutto il resto di me, mi stava urlando di girare i tacchi e scappare.

Vai a capire come mai…

 
***
 
 
1 Ottobre 2015. Tanti auguri a me.

Erano esattamente otto mesi che non uccidevo un umano. Non pensavo di avere tutta questa forza di volontà ad essere sincera. Il mese passato con Carlisle e la sua famiglia, apprendendo questo nuovo modo di vivere, era stato più utile di quanto pensassi.

Sin da quando avevo sentito parlare del loro clan e delle loro scelte di vita (le storie su di loro avevano iniziato a girare dopo lo scontro coi Volturi) mi ero incuriosita parecchio, ma da lì a metterlo in pratica… Diciamo che non avrei scommesso troppo su di me.

Sono stata una nomade assassina per cinquant’anni, fin dalla mia creazione. Nomade e solitaria, in fuga da me stessa. Uccidere un umano dopo l’altro è sempre stato un peso per me, ma non avevo mai sentito parlare di un’altra via. Fino ad otto mesi fa.

All’inizio, come mi è sempre capitato, sono stati la curiosità e il desiderio di apprendere qualcosa di nuovo a spingermi, ma anche il sollievo di non dover più uccidere ha fatto la sua parte. Ancora di più ad attirarmi è stata la promessa di poter vivere da qualche parte, stanziarmi per qualche anno, e, forse, spingermi fino ad intrattenere dei rapporti con altre persone.

Avere la mia illusione di normalità, un po’ come per i Cullen e il loro eterno liceo. Probabilmente sarei anche potuta rimanere con loro, ma essere l’unica spaiata in mezzo a tutto quell’amore era peggio della sete. Faceva male, fisicamente.

Così mi ero iscritta al college. Sarebbe stato il mio vero banco di prova.

Oltre alla possibilità di frequentare degli umani, c’era un altro motivo per cui l’avevo fatto. Imparare. Sono sempre stata una ragazza curiosa ed interessata alle cose. Con un’eternità a diposizione, questa mia inclinazione è diventata ciò che mi definisce: sono sempre alla ricerca di qualcosa di interessante da studiare.

Inutile dire che la possibilità di farlo in maniera “tradizionale”, seduta ad un banco, lavorando con altre persone, suonava come molto invitante dopo cinquant’anni passati sola sui libri.

Osservai con gratitudine il cielo plumbeo, mentre mi dirigevo verso l’aula in cui avrei iniziato a frequentare le mie lezioni. L’Università del Maine era una delle poche che avrei potuto frequentare con relativa tranquillità, senza pericolo di dovermi nascondere per le troppe giornate di sole. Camminando, tenendo il passo cadenzato del gruppetto che mi precedeva per sembrare più umana, annusavo profondamente.

Mi stavo ancora abituando al profumo dei mortali, cercando di tenere sotto controllo l’effetto che mi faceva. Non che la cosa fosse nuova per me, non ero mica una neonata, ma dovevo far capire al mio corpo che, in nessun caso al mondo, quell’odore avrebbe rappresentato il cibo per me. Non più.

Su questo ero fermamente decisa.

Osservavo le movenze degli studenti, ascoltavo le conversazioni poco impegnate che sancivano il riallacciarsi dei rapporti dopo l’estate. Valutavo come avrei fatto a crearmi una cerchia di amici umani, quanti sarebbero dovuti essere, quali scuse avrei usato per parlare con loro. Non che temessi di non farcela, la mia specie passa difficilmente inosservata e non ha problemi a farsi piacere.

Lo avevo già fatto in passato.

Solo che qualunque relazione avessi iniziato era durata poco e terminata inevitabilmente con un pasto.

Ero, lo confesso, incuriosita, eccitata ed ansiosa al pensiero dell’esperienza nuova e insolita che mi aspettava.

Mentre sistemavo la tracolla sulla spalla, per non sembrare troppo “statica” mentre camminavo, riflettevo sul fatto che la mia storia di copertura, la studentessa trasferita da un altro college, mi avrebbe fornito materiale a sufficienza per approcciare qualcuno. E poi, probabilmente, molti ragazzi avrebbero tentato di approcciare me. Anche in questo caso stavo valutando seriamente come agire, non volevo certo sembrare una succube.

Entrai in aula dietro ad un ragazzo decisamente grosso, che si affrettava verso i banchi liberi in fondo all’aula. Il professore era già alla cattedra.

Tenevo gli occhi bassi sui gradini davanti a me, fingendo di concentrarmi su dove mettevo i piedi ma, in realtà, per evitare di incrociare lo sguardo con qualcuno, almeno all’inizio. Sapevo che l’insolito colore delle mie iridi poteva mettere a disagio, per quanto fosse migliore del rosso rubino che avevano fino all’anno scorso.

Quando lo studente che mi precedeva si infilò in un posto libero, notai con la coda dell’occhio una testa che seguiva il mio passaggio. Inspirando alzai lo sguardo istintivamente per curiosità. Non fu quello che vidi a colpirmi, un ragazzo piuttosto ordinario. Carino, un viso simmetrico, occhi e capelli castani, zigomi e mascella ben marcati ma non aggressivi.

Fu l’odore.

Anche quello, razionalmente non era particolare. Era gradevole, con note di terra bagnata e vino rosso, ma molti umani possiedono fragranze ben assortite, sperimentabili senza reazioni particolari. Fu il mio istinto a reagire a quell’odore in maniera decisamente potente, scatenando un’improvvisa ondata di ostilità aggressiva.

Fortunatamente mi ero nutrita il giorno prima e mi stavo muovendo in una direzione. Riuscì quindi a direzionare il mio corpo verso il fondo dell’aula e distogliere lo sguardo, senza lasciar trasparire quello che stavo provando.

O almeno, lo speravo.

In me si stava però scatenando qualcosa. Era come la sete che avevo provato da neonata. Incontrollabile, improvvisa, totale. Tutta la mia mente era impegnata in una lotta disperata per imbrigliarla.

Con movimenti forse troppo rigidi mi portai in ultima fila e mi lasciai cadere su uno dei seggiolini, con ancora la borsa a tracolla addosso. Mi immobilizzai, trattenni il respiro.

Tanto valeva continuare a respirare a pieni polmoni per quello che serviva. Quell’odore, quel sapore erano impressi dentro di me mentre il veleno mi inondava la bocca. Anzi, era come se il mio veleno avesse ora quell’irresistibile sapore.

E con la sete arrivò il dolore. Come se avessi inghiottito della brace, ed essa si fosse incastrata in fondo alla mia gola. Succhiai e deglutii il veleno, automaticamente, ma fu come gettare alcool sulla fiamma, che divampò ancora più alta.

Una pellicola scarlatta mi annebbiò la vista, mentre iniziavo a perdere tutto quel controllo che ero convinta di aver costruito. Sentii il viso che si contraeva in una smorfia di collera e desiderio, mentre tentavo con tutte le forze di soffocare il ringhio che mi stava salendo dal petto.

“Scusa, è liber-” Il ragazzo che aveva pronunciato quelle parole rinculò di mezzo metro buono prima di scegliere di cercarsi una sedia che fosse ad almeno 5 metri da me, dopo che mi fui girata a guardarlo. Notai che la mia fila era deserta. L’istinto degli umani ci vedeva giusto a volte.

Chiusi gli occhi e divenni una statua. Che idiota ero stata. Tutta contenta ed elettrizzata, seguendo la mia curiosità come un’ingenua, convinta che, dopo qualche mese di rinunce, tutto sarebbe stato in discesa. Ed eccomi qui, smentita il primo giorno, per colpa di quell’odore…

La brace che avevo in gola aveva deciso di farsi crescere le braccia, e utilizzarle per aggredire sadicamente il mio esofago, tagliuzzandolo con lamette da barba. Se ne avessi avuto la capacità, sarei probabilmente stata in un bagno di sudore.

Incredibilmente, non era l’odore l’aspetto peggiore. Era la progressiva consapevolezza di perdita di controllo su me stessa. Ero sempre più ipnotizzata da un rombo pulsante che sentivo in fondo alla mente, ai limiti della coscienza. Sembrava un tamburo di guerra che rullava sempre più forte e sempre più minaccioso, ritmato, frenetico. Ero solo vagamente conscia del fatto che quel suono era il cuore del ragazzo castano, che percepivo, nitido ed invitante, sopra a tutti gli altri suoni, come se la mia stessa essenza si fosse incatenata a quel suono, nel momento in cui gli ero passata accanto.

L’animale che era in me si ribellava con forza sempre maggiore, graffiando dolorosamente coi suoi artigli affilati l’interno del mio cranio, cercando di costringermi ad agire, a fare qualcosa, a placarlo!

“5 minuti di pausa.” Quelle parole mi sorpresero. Avevo perso la cognizione del tempo, sprofondata nel dolore della sete e nella mia immobilità. Un refolo d’aria, proveniente da una porta dietro di me, mi concesse di respirare e riprendere un minimo di lucidità. Mi fiondai all’esterno, prima di ricadere nella confusione della mia mente.

Iniziai a pensare, a valutare alternative che comprendevano la mia fuga, per ricominciare da qualche altra parte. Annusai l’aria e gli aromi degli altri umani che avevo intorno. Non erano nulla di speciale o di irresistibile. Potevo farcela. Potevo girarmi e correre.

Ma volevo?

Morbosamente la mia mente mi ripropose la fragranza che mi aveva tanto scossa. Era una cosa che non avevo mai provato, un aroma di un altro pianeta. Pensai a molti degli umani di cui mi ero cibata, alla soddisfazione con cui l’avevo fatto, alle privazioni degli ultimi mesi.

No! Non volevo uccidere, volevo passare qualche anno ad imparare ad essere umana di nuovo. Ma quel profumo…

Non era una cosa che capitava molte volte nella vita, anche nella vita di un immortale. Ne avevo sentito parlare, ovviamente. Nessuno che conoscevo aveva saputo resistere a quel richiamo e tutti ne parlavano come di un’esperienza sconvolgente e assolutamente appagante. Avevo sentito di un solo vampiro che aveva resistito alla chiamata che stavo provando io in quel momento, e tanto mi bastava a decidere.

Non sarei mai stata incatenata ad un umano come aveva fatto Edward Cullen. Non sarei stata una schiava.

Eccola lì la mia decisione.

8 mesi potevano bastare per ora.  Ci avrei riprovato, magari più avanti, magari dopo una sola scappatella, ma come per il resto, anche in questo caso avrei affidato le mie azioni alla mia curiosità. Volevo sapere come sarebbe stato cedere a quel richiamo. Volevo sapere cosa avrei provato riempiendomi la bocca di quel sangue…

Il mio corpo fremette al solo pensiero, pronto a scattare nella caccia, ma dovevo essere paziente. Sarei tornata a sedermi e avrei preparato il mio banchetto con pazienza e perizia. Ora che avevo deciso mi sentivo perfettamente in grado di reggere per un’altra ora.

Solo una.

Tornai al mio posto ed inspirai a fondo. Nonostante l’aula piena individuai la fragranza che cercavo con facilità, e la mia sete rispose. Questa volta però me la tenni stretta, la coccolai, le dissi che l’avrei soddisfatta. E quella fece le fusa.

Il tamburo scandiva ora una canzone di morte e vittoria, che ascoltavo con gioia.

Individuai il ragazzo, la sua nuca, i suoi capelli, corti ma scarmigliati. Anche da quella distanza potevo chiaramente percepire il sangue scorrere nella giugulare che presto avrei addentato.

Non me ne accorsi ma continuai a fissarlo finché non si girò, con uno scatto, trovando immediatamente i miei occhi. Li spostai subito, ma mi maledissi in silenzio. Mi aveva colto di sorpresa!

E quegli occhi… La loro forma, il loro colore… Sembravano stranamente familiari.

Scacciai quel pensiero inutile e cercai di concentrarmi solo sul tempo che passava, lasciandomi stranamente andare ad un sospiro di sollievo quando la mia preda distolse lo sguardo da me dopo un paio di secondi. Non potevo permettermi di metterlo sul chi va là, quando mi fossi avvicinata a lui tutto sarebbe dovuto andare liscio, senza sbavature.

Se fossi stata brava, forse, sarei addirittura potuta rimanere qui. Falsificare un’identità ed inserirla nel sistema era stato una seccatura, non mi andava di rifarlo così presto. Certo, avrei dovuto procurarmi delle lenti a contatto per qualche settimana…

Continuai a tramare fino alla fine della lezione. Mentre tutti si alzavano io ricostruì quanto rimaneva del mio autocontrollo, e mi avviai verso di lui, osservandolo mentre riponeva le sue cose con ordine. Era alto, le spalle larghe fasciate da un maglioncino color vinaccia a girocollo… Quel collo…

Inspirai a fondo, per prendere fiato, esitando un attimo sotto la forza del suo odore, come colpita da un ariete. Irrigidii buona parte dei muscoli, per evitare gesti inconsulti, e poi parlai.

“Ciao.”

Mentre si girava sorridevo gentile, cercando di curare al massimo quella facciata mentre dentro di me si agitava un mostro, ansioso di essere nutrito.

Vidi, ovviamente, che non era indifferente al mio aspetto per quanto anche io, ora che gli ero così vicina, non potevo dirmi indifferente al suo. Di certo l’effetto che il suo sangue aveva su di me mi condizionava anche in quello, ma c’era qualcosa che mi incuriosiva parecchio dietro alla faccia stupita che mi fissava, per nulla inaspettata.

Vedevo i suoi occhi stranamente consapevoli in quel viso momentaneamente inespressivo, quasi che conoscesse le mie intenzioni. Una strana ansia di essere scoperta mi spinse ad osare di più, caricando di tutto il fascino che potevo il mio sorriso, mentre mi spostavo una ciocca di capelli. La sua reazione parve promettente.

Sentii il battito del suo cuore accelerare, quel suono mi era già stranamente affine. Vidi il sangue affluire al suo viso, incredibilmente invitante. Dovevo agire in fretta, non sapevo per quanto sarei riuscita a mantenere il controllo.

Con voce seducente pronunciai le parole che lo avrebbero costretto a seguirmi, decretando la sua morte.

“Questo è il mio primo anno qui, mi chiedevo se saresti così gentile da accompagnarmi alla prossima lezione.”

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Capitolo 2
*** Reazione ***


Scusate se vi ho fatto aspettare.
Ammetto di aver scritto la prima metà parecchi giorni fa, poi mi son bloccato. Oggi, giornata di grazia, mi ci sono rimesso e si è scritto da solo.
Niente, mi piace, i due mi stanno sempre più simpatici. Se volete lasciare due parole per farmi sapere che ne pensate voi, sono ben accette.
Spero vi piaccia!
N.

 

Alternativa

Reazione

 
Forse avevo esagerato un po’, ma vidi che il ragazzo si stava riprendendo. Tanto per cominciare richiuse le labbra, poi il suo viso iniziò a riprendere forma. Sentì che si schiariva la voce e vidi le sue palpebre sbattere velocemente un paio di volte.

“Ehm…” Inizio non troppo promettente, pensai. “Certo, nessun problema.” Rispose, con la voce che si era fatta più certa. Azzardò anche un sorriso, alzando un angolo delle labbra. Carino…

Rimasi ad osservarlo, dal sotto in su, dal momento che alla sua risposta non era seguita un’azione. Piegai la testa con fare interrogativo, mentre lui si dondolava sui piedi. Sembrava indeciso se muoversi o meno e io iniziavo a spazientirmi. Alzò una mano, facendomi segno di precederlo verso la porta.

“Prima le signore, usciamo di là.”

Il mio sorriso si offuscò appena, sentendolo dettare le condizioni. Certo, poteva essere solo un atto di cortesia, ma i suoi occhi erano vigili, questo lo vedevo. Lo erano stati anche nel suo momento di immobilità, quando avevo provato a far valere su di lui la mia volontà, ma in misura molto minore.

Ora pareva all’erta.

“Grazie” risposi avviandomi, sentendolo muoversi dopo di me. Uscimmo dall’aula in silenzio, a quanto pareva non era un chiacchierone. Nemmeno io ero troppo in vena di parlare però. Il mio cervello andava a mille all’ora mentre osservavo attorno a me, alla ricerca di un posto tranquillo, con pochi testimoni, dove potessimo sparire entrambi, solo per un minuto…

La mia sete montava, aggressiva, dolorosa, di secondo in secondo.

Pochi metri fuori dall’edificio rallentai il passo, ricordandomi di non dirigermi per prima verso l’aula della prossima lezione. Conoscevo già il campus ovviamente, la richiesta di informazioni era solo una scusa.

“Da che parte?” domandai amichevole, voltandomi a guardarlo. Notai, non senza un certo piacere, che il suo sguardo era intento a studiare la mia figura. Forse dopo tutto non era così vigile.

Si fermò al mio fianco. O meglio quel tanto che bastava per non affiancare le nostre spalle. Più indietro di una ventina di centimetri, come se volesse controllarmi.

“A destra, passiamo sotto quel passaggio e poi sempre dritti.” Indicò un punto in cui il percorso pedonale passava sotto ad una delle strade carrabili interne al campus. Quella era forse la mia occasione: qualche metro al coperto, senza illuminazione. Se fossi stata fortunata non ci sarebbero nemmeno stati testimoni.

Mi incamminai e lui tenne ancora la stessa distanza da me, appena dietro. La cosa iniziava ad innervosirmi per quanto non fosse un ostacolo al mio piano o una minaccia per me in alcun modo. Semplicemente mi rendeva inquieta l’idea che lui sospettasse- “Da dove arrivi?” mi domandò.

Diedi per scontato che parlasse del mio college precedente, così girai appena la testa per rispondere. “Dublino. Mio padre si è trasferito qui per lavoro.” La voce mi era uscita più dura di quanto volessi e la risposta più stringata, ma la smania di nutrirmi iniziava a diventare insopportabile.

Per fortuna il sottopasso era solo a pochi metri. Circa a metà, sul lato destro, c’era un grosso tombino, di quelli per l’ispezione della rete idrica. A giudicare dalla dimensione nascondeva una scaletta per calarsi nei passaggi sottostanti. Sarebbe stato semplice e rapido. Avrei scoperchiato il tombino con una mano, mentre con l’altra avrei afferrato il ragazzo, scagliandolo di sotto. Sarebbe stato troppo veloce perché si accorgesse di qualcosa, almeno fino a quando non fossimo scomparsi sotto il manto stradale.

L’unico segno che qualcosa era accaduto sarebbe stato il rumore del tombino che ricadeva al suo posto.

“Ah, l’Irlanda! Io stesso ho degli antenati che vengono da quella bellissima e verde terra!” disse con un calcatissimo e forzato accento irlandese, a dir poco perfetto. Mi sorprese tanto che non riuscii ad impedirmi di ridere, nonostante tutto.
Mentre ridevo mi voltai, lasciando passare lo sguardo sul suo viso e buttandolo alle sue spalle. Non c’era nessuno. Perfetto.

Tornai a guardarlo, sempre ridendo. “Davvero niente male!” risposi, parlando a mia volta con un accento che non usavo da decenni, da quando avevo attraversato l’oceano.

Nonostante lo scherzo lo vidi fare attenzione al mio volto e ai miei occhi, e notai che rallentava il passo impercettibilmente, in risposta a al mio cambio di andatura. Avevo infatti rallentato a mia volta, quanto bastava per essere più comoda nei miei prossimi movimenti.

Tornai a guardare avanti mentre iniziavo ad addentrarmi nell’ombra del sottopasso, nervosa per quel piccolo inconveniente. “Resisti.” mi dissi “Ancora un momento.”

Ci fu un tonfo, poco distante.

“Ehi, Fran!” urlò una voce, dietro di noi. “Aiutino?”

Mi voltai in un lampo, squadrando il ragazzo abbronzato dai cortissimi capelli biondi che era comparso qualche metro dietro a noi, chino sulla strada mentre raccoglieva il contenuto di uno scatolone voluminoso. Un altro scatolone della stessa dimensione era poggiato chiuso a terra.

“Oh, certo Matt!” rispose la mia preda con quello che, alle mie orecchie, suonava come sollievo. Lo era davvero o me lo stavo immaginando, in risposta all’ira che stava montando in me? Cercai di non darlo a vedere, notando che lui si girava di nuovo a guardarmi. “Scusa l’intoppo, l’aula è quella laggiù, la vedi da qui.” Disse, indicando il piccolo edificio poco più avanti. “E’ il mio compagno di stanza, sta finendo di portare su la sua roba.” Alzò gli occhi al cielo come per commentare il modo in cui l’altro umano faceva le cose.

Mi forzai di sorridere. “Nessun problema, vai pure. CI vediamo in aula.”

Abbozzò un saluto con la mano e un sorriso, mentre si avviava, i primi due passi camminando all’indietro, per poi girarsi e avvicinarsi all’amico. La distanza che mi separava dai due non era un problema, potevo cogliere senza difficoltà le loro parole.
“Beh, perché non hai chiesto anche a lei di darci una mano? Ma l’hai vista?”

“Dai, portiamo su questa roba che abbiamo lezione. O vuoi saltare anche questa?”

“Mmh mmh…” commentò l’altro, che mi sbirciava da sopra la spalla del mio oggetto di desiderio, Fran.

Mi voltai e mi incamminai, furente. C’era un sasso, che spedii con una pedata a cozzare contro il muro del sottopasso. Il rimbombo nello spazio stretto nascose il sibilo di irritazione che mi lasciai sfuggire per sfogarmi, neanche fossi una gatta che soffia.

Entrando nell’aula successiva, lontano dal profumo che stava per farmi gettare alle spalle 8 mesi di vita retta e diligente, riflettevo sul comportamento del ragazzo chiamato Fran. Non capivo come mai fosse così guardingo. Non mi sembrava di aver fatto nulla di particolare per spaventarlo. Inoltre gli piacevo, di questo ero sicura: il modo in cui mi guardava, in cui il suo cuore che aveva accelerato quando mi aveva vista… A meno che… Sguardo attento, battito accelerato… Che fosse paura? Ma di cosa?

La lezione iniziò e lui ancora non si era fatto vedere. Sbuffai una risatina sarcastica. Mi ero iscritta al college per seguire la mia sete di sapere e socializzare con gli umani; il primo giorno mi ritrovavo a tentare di placare la mia sete di sangue, non avevo sentito una parola della prima lezione ed ero sulla buona strada per fare altrettanto con la seconda.

Tutto per colpa di questo Fran. Realizzai che lo stavo chiamando per nome invece che pensare a lui come una preda. Mossa stupida.

Entrò in quel momento in aula, senza che il professore smettesse di parlare, accompagnato dall’altro ragazzo, Matt.

Provai sollievo, e me ne stupii. Sollievo per cosa? Perché potevo riprendere la caccia? O perché potevo capire meglio cosa lui nascondeva? Intuii che, se la cosa iniziava a prendere questa piega, se la mia curiosità si metteva di mezzo, forse la caccia avrebbe richiesto più tempo del previsto. Non ero mai riuscita a lasciare un quesito senza risposta.

Scacciai momentaneamente quel pensiero, aguzzando le orecchie. I due stavano parlando e, con poco sforzo, riuscii ad intercettare la loro conversazione a bassa voce.

“Guardala, eccola lì! Come hai detto che si chiama?”

“Non l’ho detto, non lo so…” rispose la voce che avevo sentito solo un paio di volte, ma che già suonava nota.

Pausa.

“Certo che… È qualcosa di speciale, eh? Voglio dire, le ho dato solo un’occhiata di sfuggita, ma sai bene che ho un sesto senso per queste cose…”

“Certo Matt.” Rispose lui, come distratto. “Un sesto senso…”

“Beh senti, hai detto che è nuova no? Invitiamola a pranzo, così me la presenti.”

“Ma non ti vedevi col tuo gruppo di canto a cappella a pranzo?” registrai il tono vagamente ironico.

“Ha-ha, divertente. Comunque no…” sentì Fran ridacchiare sotto i baffi, e quel suono mi fece sorridere a mia volta. Erano un paio di file dietro di me e dovetti trattenermi per non voltarmi. “E’ un gruppo di dibattito. E non c’è niente come un’attività extra curricolare per conoscere ragazze.”

“Quindi hai da fare, giusto?”

“Ci sono cose per cui uno sacrifica il molto per il poco. O meglio, le molte per l’unica. Quella è una per la quale posso rimandare il mio gruppo di dibattito.”

“Ok, ok…” Quindi mi avrebbero invitata a pranzo. Forse dopotutto… “Comunque no, non la invitiamo. Vai al tuo dibattito.”

“Ma-” “No. Ora lasciami seguire.” Chiuse Fran secco.

Il mezzo sorriso che mi era rimasto in faccia scomparve. Cosa diavolo era appena successo? Non capivo. Non capivo la definitività del suo tono, l’asprezza nella sua voce, la decisione di non aver a che fare con me dopo la lezione. Che cosa avevo fatto? Quel suo modo di fare guardingo, quella sua diffidenza nei miei confronti… Che avesse intuito qualcosa?

Non credevo di essermi tradita. Insomma, il suo odore era particolare a dir poco, ma non poteva, non poteva assolutamente aver visto il mostro. Ero attenta.

Poi, ecco un’idea. Gli umani, i maschi umani, sono avidi e gelosi delle loro conquiste. Probabilmente aveva intuito un mio interesse per lui, e non voleva “dividermi” con l’altro, Matt. Doveva essere così. Lo avrei avvicinato di nuovo, alla fine della lezione, lo avrei invitato a pranzo.

Solo che lui non avrebbe mangiato.

La lezione passò lenta, il professore non fece alcuna pausa e io non mi girai per controllare Fran. Anche perché sapevo benissimo dov’era e come stava. Come prima, individuai il suo odore e il battito del suo cuore. Con un po’ di impegno imparai a distinguere anche il suono del suo respiro, regolare, profondo, quasi vellutato. Mi accorsi dopo qualche minuto che quel suono, quel ritmo, pareva quello della risacca dell’oceano. Aveva su di me un potere estremamente calmante, quasi che contrastasse la sete.

Incredibilmente, rimanendo concentrata sull’andamento del suo respiro, nonostante il dolore perenne della sete, mi sentivo molto meno propensa ad agire, a colpire. Bizzarro.

La lezione finì ed io, immersa nella contemplazione di questo nuovo fenomeno, me ne accorsi solo quando gli studenti nella fila di fronte a me si alzarono, spezzando l’incantesimo. Persi Fran, nel chiacchiericcio che si accese immediatamente, ma mi bastò girarmi per trovarlo, in piedi al suo posto, gli occhi su di me.

Questa volta fui io a coglierlo di sorpresa, perché chinò il capo arrossendo.

Lasciai che tra me e lui, uscendo dall’aula, si frapponessero diversi gruppetti di ragazzi, che sciamavano tutti verso la mensa. Tenni d’occhio, per quanto possibile, la sua nuca, ma il mio pedinamento non fu impegnativo, perché evidentemente si stava muovendo per andare a pranzo, come tutti.

La mia occasione si presentò poco dopo quando, ad una biforcazione salutò il suo compagno di stanza e si avviò da solo, rimanendo col grosso di quelli che si muovevano verso gli edifici della mensa. Mi avvicinai a lui.
“Ehi… E’ Fran, giusto?” chiesi, affiancandomi e tenendo il suo passo. Lui sobbalzò, e si girò a guardarmi.

“Oh-” fece, sorpreso, inarcando le sopracciglia. “Ciao. Sì, mi chiamo Francis. Fran solo per gli amici.” Concluse, non capii se per educazione o per puntualizzare che non ero sua amica. La cosa mi indispettì, con mia sorpresa. Stavo diventando paranoica.

“Mi piace Francis, è un nome che ha carattere.” Buttai lì, allungando la mano. “Io sono Keelin, Kay per gli amici.”

Lo vidi allungare la sua, e già mi pentii di quel gesto, che avevo fatto in automatico, senza pensare. Come avrebbe reagito al contatto con la mia pelle? Stranamente, quasi anche lui si fosse accorto che non sarebbe stato saggio, tramutò quel movimento in un altro, portando la mano al suo polso sinistro, per spostare la manica del maglione e controllare l’ora, imbarazzato.

Io abbassai la mia mano, imperturbabile, almeno all’esterno. Questo ragazzo era un mistero.

Forse, dopotutto, non lo avrei aggredito, almeno non subito. Evidentemente sospettava qualcosa, o il suo istinto funzionava molto meglio di quello di tanti altri, ma la cosa scatenava in modo potente la mia curiosità. Ora volevo davvero invitarlo a pranzo, mangiare con lui –meglio, guardarlo mentre mangiava qualcosa- e indagare. Ancora un po’…

Magari sarei poi andata a prenderlo questa notte.

“Allora, Francis… Mangi qualcosa?” Domandai, alzando di nuovo il viso verso di lui con un sorriso. Lui mi guardò negli occhi per un istante, ma li distolse subito.

“Sì…” iniziò, a disagio. Corrugò la fronte, ma non riuscivo a vedere i suoi occhi, il che mi lasciava interdetta. Cosa gli frullava per la testa? “…ma devo vedermi con Matt, per il lavoro che ci ha assegnato il prof…” proseguì, lasciando la frase in sospeso.
Una balla. Una balla bella e buona, ecco cos’era. A che gioco stavamo giocando? Era chiaro che, quando aveva detto all’altro che non avrebbe mangiato con me, era serio. Mi ripresi e cambiai tattica, usando quella nuova informazione che, tra l’altro, mi ero persa nel corso della lezione passata.

“Beh, dovrò farlo anche io. Magari potremmo lavorare assieme…”

Lui indugiò. Era evidente che lo stavo mettendo alle strette, ma feci del mio meglio per sfoderare l’aria triste ed impaurita di una piccola studentessa in un nuovo e grande mondo. Non volevo farmelo scappare.

Francis si fermò, sentii il suo respiro accelerare.

“Non saprei, dovrei prima parlarne con lui…” Stava svicolando di nuovo. Ero indispettita e al contempo ammirata dalla sua forza di volontà, anche se lo vedevo farsi sempre più agitato. “Ascolta, devo salire un attimo in camera mia, poi mangerò qualcosa di sopra. Ne parlo con Matt e ti faccio sapere, ci vediamo in giro.”

Parlò in fretta senza lasciarmi il tempo di ribattere. Mi guardò, con un’occhiata a metà tra l’imbarazzato e l’impaurito, fece ancora, come poco prima, un paio di passi a marcia indietro, dopodiché si voltò e si diresse verso un edificio a tre piani, con una grossa lettera F accanto all’ingresso.

E io restai lì, impalata, senza parole, mentre la mia curiosità afferrava il mostro che si agitava nella mia testa e, sollevandolo per la collottola come un micio, lo gettò in una gabbia reclamando il comando.

Cosa stava succedendo?
 
 
***
 
“Ehm…” La voce mi uscì più incerta di quanto volessi, ma se non altro era un inizio. Mi forzai a proseguire. “Certo, nessun problema.” Fatto. Gran bel lavoro, neanche mi stessi riprendendo da un trauma cranico. Mi lasciai sfuggire un mezzo sorriso, che mi aiutò a stemperare la strana tensione che mi aveva preso.

Mi avviai verso l’uscita. O almeno, cercai di convincermi che era il caso di farlo. I miei piedi però mi rimasero saldamente incollati a terra, così ondeggiai sul posto, come un marinaio sulla terraferma.

La questione era semplice, se mi fossi avviato per primo le avrei dato le spalle, ed era una cosa che non potevo fare. Era un rischio che- Ma cosa cavolo andavo farneticando? La vidi inclinare la testa, in attesa. Sembrava una bambolina, probabilmente bagnata e con le tasche piene di sassi arrivava a 40 chili. Cosa avrebbe fatto, mi avrebbe tagliato i garretti? E poi, da dove arrivava questo senso di minaccia?

Mi avviai. O meglio, tentai e fallii di nuovo, così, per non sembrare pazzo, o almeno, non troppo, feci l’unica cosa che speravo sembrasse sensata. Indicai l’uscita.

“Prima le signore, usciamo di là.”

Lei guardò me, scrutandomi, poi la porta. Infine, con mio grande sollievo, vi si diresse. E io dietro di lei.

Mi presi un secondo per fare i conti con quella nuova, aliena presenza nella mia testa. Era completamente fuori da ogni insegnamento, esperienza o convenzione sociale che avessi mai sperimentato. Mi suggeriva un modo di comportarmi che non mi si confaceva, ma che allo stesso tempo sapevo essere a mio vantaggio. Probabilmente, se fossi stato uno sportivo, lo avrei riconosciuto per quello che era. Istinto.

Forse, più che uno sportivo, avrei saputo dargli un nome se fossi stato vestito di pelli, con una torcia in una mano, una lancia nell’altra, in una grotta, con una tigre dai denti a sciabola davanti.

Quello che mi urlava dal fondo del mio cervello, sotto a tutta la mia educazione, sotto tutte le mie conoscenze, era puro istinto di sopravvivenza. E non quello che ti solletica quando stai per attraversare una strada e ti ricorda di guardare da entrambe le parti, o che ti impedisce di sporgerti da un balcone. Questo era forte, e pretendeva ascolto. Anzi, si imponeva e prendeva le redini.

Ma cosa mai aveva risvegliato in me questo scomodo essere primitivo? Lasciai vagare lo sguardo sulla ragazza, sui suoi splendidi capelli che ora, all’esterno, sotto la luce del giorno, erano come in fiamme. Non osai pensare a come sarebbero stati sotto la luce del sole. Non potei farne a meno, lasciai che i miei occhi seguissero quella figura, che ancheggiava incredibilmente aggraziata sul sentiero che stavamo seguendo.

Quasi le finii contro quando si fermò. Ancora una volta i miei piedi, come se si muovessero per i fatti loro, si fermarono a quella che era la distanza di sicurezza.

“Da che parte?” chiese. Le indicai la strada, e mi avviai con lei, combattendo col mio corpo per affiancarmi a lei, senza riuscirci. Mi imponevo di restarle dietro, quel tanto che bastava per tenerla d’occhio. Dovevo sembrarle maledettamente ridicolo. Questo nuovo pensiero mi riscosse un po’, spingendomi a provare quantomeno a fare un minimo di conversazione occasionale, giusto per non passare per uno stramboide fatto e finito.

“Da dove arrivi?” “Dublino. Mio padre si è trasferito qui per lavoro.”

Risposta stringata, forse avevo già fatto una pessima impressione. Non volevo fosse così. Certo, a quanto pareva una parte strana e paranoica del mio cervello era convinta che fossi in pericolo mortale, o qualcosa così, ma lei era davvero bella. Lo notai mentre scrutavo quello che riuscivo del suo profilo, approfittando del fatto che guardava davanti a sè.

Tratti dolci, delicati, un naso appena camuso, zigomi alti, le sopracciglia le davano un’aria fiera ma la bocca e le guance erano dolci, le labbra perfette spiccavano su quella sua pelle così bianca… Appena notai quel particolare un brivido mi fece scuotere le spalle, ma lo attribuii al freddo. Anche se non lo avevo.

Mi forzai di essere simpatico, dovevo salvare il salvabile. Richiamai alla memoria il modo che aveva mio nonno di esprimersi, quel vecchio macellaio immigrato da Galway. “Ah, l’Irlanda! Io stesso ho degli antenati che vengono da quella bellissima e verde terra!”

Mi uscì abbastanza bene, la sua risata ne fu una conferma. Non rabbrividii stavolta, anzi. Sentirla fu come un bagno caldo. Era piena, melodiosa, un suono bellissimo.

Sorridevo quando lei si voltò per rispondermi, facendomi il verso. “Davvero niente male!”

Notai quei suoi occhi ambrati dardeggiare, per un momento alle mie spalle, prima che tornasse a guardare avanti. Non avrei saputo spiegare perché ma la cosa mi inquietò. Cosa c’era alle mie spalle? Cosa c’era davanti a noi?

All’improvviso la sua sagoma, la sua piccola silhouette che si stagliava sull’ombra del sottopasso che stavamo per imboccare, mi parve spaventosa. Rallentai. Ero restio a seguirla lì sotto e, anche se non capivo come mai, iniziai febbrilmente a cercare una scusa per non doverlo fare.

Mossi un altro passo. Era stupido, non c’era niente che non andava, non avevo paura del buio, dovevo solo continuare a camminare.

Ancora un passo. Annaspavo, stavo per aprire bocca e dirle che avevo dimenticato qualcosa. Che avevo un appuntamento. Che stavo male. Dovevo fermarmi.

Ci fu un tonfo, poco distante.

“Ehi, Fran!” urlò una voce, dietro di noi. “Aiutino?”

“Oh, certo Matt!” Ero salvo. Non mi preoccupai di analizzare quella sensazione di sollievo stavolta. La cavalcai e basta. Era come se mi fosse stato tolto un peso dal petto. Non lo nego, fuggii. Cercai di farlo dignitosamente, ma fu quello che feci. “Scusa l’intoppo, l’aula è quella laggiù, la vedi da qui.” Gliela indicai. “E’ il mio compagno di stanza, sta finendo di portare su la sua roba.” Buttai lì a mo’ di scusa, fingendomi esasperato.

Lei sorrise, un sorriso assolutamente normale. “Nessun problema, vai pure. CI vediamo in aula.”

Lieto che non avesse notato il mio strano comportamento, restituii il sorriso e la salutai con un cenno della mano. Indietreggiai di un paio di passi, per non concederle le spalle, poi mi voltai, una volta al sicuro.

Mi diedi dello stupido. Che cavolo stavo facendo?

Risposi meccanicamente a qualche frase di Matt, mentre raccoglievo da terra lo scatolone, e mi avviai con lui verso la nostra stanza. Conversai col pilota automatico, ascoltando alcune sue battute su qualcuno o qualcosa che aveva fatto l’estate appena passata, qualcosa che aveva a che fare col contenuto della mia scatola, ma ero preso a indagare su cosa accadeva nella mia testa.

Era estenuante, non mi era mai capitato di sentirmi un estraneo lì dentro. Era così che si diventava pazzi? Fatto sta che sentivo sempre meno la presenza del mio primordiale amico ansioso, man mano che il tempo passava ed ero lontano dalla nuova ragazza. Però, a quel punto, un’altra emozione si faceva strada. Mi tornarono in mente la sua risata, il modo in cui mi aveva sorriso e mi aveva guardato.

Ne volevo ancora.

Volevo rivederla, volevo parlare con lei di nuovo. Pensavo a lei e cercavo la presenza di quella strana paura, ma non c’era. Era lei ad essere pericolosa o era il mio cervello a fare le bizze? Magari se mi concentravo su un’altra persona, mi sarebbe sembrata pericolosa anche quella? Lo ammetto, sparavo nel buio…

Mi misi a fissare Matt mentre sistemava le sue cose, dalla porta della stanza. Niente. Forse non mi stavo impegnando abbastanza. Mi concentrai, conscio di quanto la cosa fosse stupida, finchè lui non alzò la testa.

“Cosa?”

“Cosa cosa?” dissi, facendo finta di niente.

“Ho qualcosa in faccia?” disse, portandosi istintivamente una mano al naso.

“No no…” “Beh, allora piantala di fissarmi, strambo.” Mi disse, sghignazzando.

“E’ solo che sei più bello di come ti ricordavo. Probabilmente mi sto innamorando di te. Andiamo che è tardi.” Scherzai voltandomi.

“Come no…” Fece lui allegro, seguendomi. “Non è che invece stai pensando alla rossa di prima? Effettivamente era una da amore a prima vista.”

Mugugnai qualcosa di vago in risposta, infastidito da quanto era andato vicino alla verità.

Entrammo in aula a lezione iniziata, sedendoci verso il fondo. Neanche fosse stata una calamita, trovai subito la testa che cercavo in mezzo all’aula. La notò anche Matt. “Guardala, eccola lì! Come hai detto che si chiama?” “Non l’ho detto, non lo so…”

Tornò l’inquietudine, ora che ero nella stessa stanza in cui lei si trovava. Sembrava una cosa da sci-fi, una capacità paranormale. Come se ci fosse un legame, o se lei esercitasse una sorta di potere su di me. Assurdo.

“Certo che… È qualcosa di speciale, eh? Voglio dire, le ho dato solo un’occhiata di sfuggita, ma sai bene che ho un sesto senso per queste cose…”

“Certo Matt. Un sesto senso…” che ce lo avessi io invece un sesto senso? Per il pericolo mortale che lei rappresentava? Sembrava fosse proprio così, non fosse che non capivo perché dovessi considerarla pericolosa. Era proprio una cosa da fuori di testa.

La stavo ancora fissando, e mi costrinsi a voltare lo sguardo sulla cattedra. “Beh senti, hai detto che è nuova no? Invitiamola a pranzo, così me la presenti.” Trovavo Matt e i suoi soliti modi di fare stranamente irritanti, ma forse era solo quella situazione a stressarmi.

“Ma non ti vedevi col tuo gruppo di canto a cappella a pranzo?” domandai ironico, dal momento che lui era sempre preso per una cosa o per l’altra. Non che gli interessasse un granché quello che faceva, ma era un animale estremamente sociale, cercava sempre di attaccare bottone con qualche nuova ragazza.

“Ha-ha, divertente. Comunque no…” ghignai, perché dal suo tono avevo capito di averci preso. “E’ un gruppo di dibattito. E non c’è niente come un’attività extra curricolare per conoscere ragazze.”

Appunto. “Quindi hai da fare, giusto?” “Ci sono cose per cui uno sacrifica il molto per il poco. O meglio, le molte per l’unica. Quella è una per la quale posso rimandare il mio gruppo di dibattito.”

“Ok, ok…” Non potevo certo dargli torto, ma la prospettiva di un pranzo a quattro, con la nuova studentessa, Matt, e quella morsa che mi stava prendendo lo stomaco, non mi faceva fare i salti di gioia. “Comunque no, non la invitiamo. Vai al tuo dibattito.”

“Ma-” “No. Ora lasciami seguire.” Intimai, più che altro per avere un momento di tregua.

Lasciai passare la lezione, seguendo un po’, nonostante tutto. A fine lezione mi alzai, cercandola ancora con lo sguardo. Neanche a farlo apposta lei si girò, trovandomi, e mi affrettai ad abbassare la testa. Era telepatica?

Fu un sollievo uscire dall’aula, all’aria aperta.

Parlai un poco con Matt, a proposito della consegna che avevamo ricevuto a lezione, poi lui si separò da me, per andare al suo pranzo. Feci per cercare le cuffiette in tasca, per ascoltare un po’ di musica, quando una voce fin troppo familiare, per le volte che l’avevo sentita, mi colse ancora una volta alla sprovvista.

“Ehi… E’ Fran, giusto?”

Sobbalzai. E mi maledissi per averlo fatto mentre mi voltavo verso il suo viso. Che era bello come me lo ricordavo. “Oh-” Possibile che mi rendesse incapace di parlare ogni volta? La cosa iniziava ad essere ridicola. Se non altro mi riscossi un po’ più in fretta. “Ciao. Sì, mi chiamo Francis.” Mi sentii in dovere di specificare, di prendere le distanze. “Fran solo per gli amici.”

Mi rendevo conto che poteva suonare antipatica come puntualizzazione, ma non riuscii ad impedirmelo, sentivo che era meglio così.

“Mi piace Francis, è un nome che ha carattere.” E a me piacque come suonava il mio nome sulle sue labbra. Forse troppo. “Io sono Keelin, Kay per gli amici.” Si presentò lei, tendendo la mano per stringermela.

Ancora una volta, pensai di muovermi in un certo modo, ma il mio corpo fece dell’altro. Volevo stringerle la mano, lo volevo davvero. Ma non lo volevo, me ne ritrassi come da una pentola bollente. Per un breve istante annaspai, cercando di capire come fare per dissimulare, infine optai per uno sguardo all’orologio.

Che babbeo. Era un disastro su tutta la linea, ancora poco e non avrebbe più voluto parlare con me. Mi sentivo scoraggiato ma sentivo anche un certo sollievo. Se fossi riuscito ad allontanarla sarei stato al sicuro. Abbassai lo sguardo, abbastanza mortificato.

“Allora, Francis… Mangi qualcosa?” Doveva essere una masochista, se insisteva a parlarmi. La guardai, ma solo per un istante, non dovevo farmi cogliere ancora alla sprovvista da quegli occhi. Mi sentii galvanizzato per un momento, forse era davvero interessata a me, se mi chiedeva del pranzo.

“Sì…” cominciai, e stavo quasi per invitarla a mangiare con me. Mi ci vedevo, seduto con lei a scherzare un po’, a parlare del più e del meno, magri sentendola di nuovo pronunciare il mio nome…

Poi, più forte che mai, tornò il nodo allo stomaco, a suggerire che quella era l’idea più stupida che ci fosse. Mi corrucciai, perplesso, ma non avevo il controllo, non su quello. E la cosa, lo ammetto, un po’ mi spaventava. Scodellai la prima scusa che mi passava per la testa.

“…ma devo vedermi con Matt, per il lavoro che ci ha assegnato il prof…”

“Beh, dovrò farlo anche io. Magari potremmo lavorare assieme…” suggerì.

Mi sentivo un verme, a giudicare dal suo viso ci sperava davvero, e intuii che fosse perché era nuova, sola, e per qualche motivo cercava la mia compagnia. A vederla da fuori sembrava che io facessi di tutto per allontanarla, come se non volessi averci nulla a che fare… E invece mi sarebbe piaciuto. Solo che…

“Non saprei, dovrei prima parlarne con lui…”

Avevo bisogno di pensare, di stare solo, di capire perché la mia mente lottava contro di me. Iniziavo ad agitarmi, forse stavo davvero perdendo la testa. Questa paura razionale si univa a quella irrazionale e incomprensibile che provavo, che mi faceva temere per la mia vita. Mi sentivo affogare in questa confusione, tanto che inizia a respirare più in fretta, cominciava a mancarmi l’aria…

“Ascolta, devo salire un attimo in camera mia, poi mangerò qualcosa di sopra. Ne parlo con Matt e ti faccio sapere, ci vediamo in giro.”

Prima di rendermene conto ero lanciato, a passo di marcia, verso il mio dormitorio, sollevato e confuso.

Cosa stava succedendo?

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Capitolo 3
*** Cambiamento ***


Oggi, invece del solito LUI-LEI (o LEI-LUI), vi beccate il capitolo-spezzatino. Vista la trama, mi sembrava un ottimo momento per questo esperimento. Il capitolo poi, dato che vi ho fatto aspettare un sacco, è un po’ più lungo degli altri. Arrivato a metà stavo quasi pensando di spezzarlo in due, ma volevo scrivere fino al punto che mi ero prefissato, e ho pensato che non sarebbe dispiaciuto a nessuno trovarsi per le mani qualche riga in più.
Volevo commentare un altro paio di cose, ma se lo faccio adesso vi becchereste degli spoiler, quindi ci risentiamo in fondo.
Buona lettura!
 


 

Alternativa

Cambiamento

 
Eccoli, tutti e tre.
 
Aro, Caius e Marcus, con i loro occhi antichi ed inespressivi e i loro sorrisi che parevano promettere salvezza e morte, tutto in una volta sola. E accanto a loro, bellissimo con gli occhi ambrati come i miei, stava un vampiro biondo, dal viso gentile e preoccupato. Due passi più indietro rispetto al terzetto, un po’ nell’ombra, Carlisle teneva i suoi occhi fissi nei miei.
 
Avevo sentito parlare dei Volturi, ma non avevo mai avuto occasione di vedere bene i loro visi come in quel momento. In me la parte selvatica e animalesca era inquieta, spaventata. Dovevo trattenermi per non far scattare i miei meccanismi di difesa.
 
 
***
 
 
Ad occhi chiusi inspirai a fondo, stirando con piacere i muscoli delle spalle e della schiena, poi le cosce, i polpacci fino alle dita dei piedi. Mentre espiravo aprii gli occhi, puntandoli sul soffitto, dove un raggio di sole disegnava geometrie regolari filtrando dalla tapparella.
 
Sorrisi.
 
Era il terzo giorno di fila di bel tempo dopo l’uggioso primo giorno di lezione. L’aria era stata fresca, e seguire le lezioni con delle giornate quasi estive non era il massimo, ma le ore libere trascorse all’aperto erano più che piacevoli.
 
Mi alzai, infilai sui boxer un paio di pantaloni della tuta, inforcai un paio di infradito e mi diressi verso il cucinino condiviso dalle stanze di quel piano del dormitorio. Due enormi frigoriferi occupavano quasi completamente una delle pareti, assieme ad una finestra che dava sul campus. Mi diressi verso quello che conteneva le mie cose, che come tutti contrassegnavo con dei post-it, e mi versai un bicchiere di succo di frutta. Stavo per versare in una tazza i corn-flakes ed il latte, quando lo sguardo mi cadde sull’esterno. Era davvero una bella giornata. Ed era presto ancora, non c’era quasi nessuno in giro.
 
Decisi di andare a fare una corsetta prima delle lezioni.
 
Riposi il latte e i corn-flakes, arraffando invece una barretta ai cereali. Avrei fatto colazione più tardi, mi sarei accontentato di un po’ di zuccheri per tenermi in piedi per ora. Mangiai la barretta in due morsi, annaffiandola col succo di frutta, poi tornai in camera.
 
Pescai una t-shirt e dei pantaloncini da un cassetto, poi dovetti scavare fino in fondo ad una delle valigie che dovevo ancora disfare per trovare le scarpe da corsa. Matt, in tutto questo, continuò a dormire come se niente fosse. Era una di quelle persone che dormirebbero in mezzo ad un concerto metal. E in ogni posizione. Ogni tanto, in biblioteca, dormiva seduto e composto al tavolo, gli occhi chiusi e il respiro regolare. Era una cosa che gli invidiavo parecchio, ho sempre avuto il sonno piuttosto leggero.
 
Presi l’i-pod e feci per uscire, poi presi anche una felpa leggera. Era pur sempre Ottobre. Trovai qualcosa di ritmato che facesse da sottofondo e partii, per i vialetti del campus.
 
Mi salutò l’aria fresca e leggermente umida della condensa della notte. Mi sentivo bene, sia fisicamente che mentalmente. Per un poco mi concentrai esclusivamente su quelle sensazioni di benessere, sui miei piedi che andavano, sul mio torace che pompava, sul sudore che si andava formando sulla fronte e alla base del collo, e il freddo che ciò comportava.
 
Girai l’angolo dell’edificio del dormitorio, proseguii fino ai limiti del campus e presi uno dei numerosi sentieri che si inoltravano nel bosco che lo circondava. Quella parte del Maine, tra il ‘700 e l’800, era rinomata per la produzione di legnami navali e da costruzione, poi nel ‘900 le segherie erano state quasi tutte abbandonate e i boschi si erano rinfoltiti, tanto che il campus sembrava assediato, almeno su tre lati, da altissime conifere.
 
Come entrai all’ombra delle fronde, che si protendevano a protezione del sentiero, la temperatura si abbassò notevolmente. Non che la cosa mi infastidisse troppo, ormai mi ero scaldato abbastanza da essere quasi grato a quel cambiamento, ma all’improvviso anche i miei pensieri presero una strada più fredda e buia.
 
Sapevo perché stavo bene. Almeno, sapevo perché la mia testa era più lucida di qualche giorno prima.
 
Lei non si era più fatta vedere.
 
Ero conscio di quanto la cosa suonasse stupida, ma ormai associavo la mia lucidità alla sua assenza. Non solo, ogni mattina mi svegliavo in preda ad una leggera ansia, che scemava di ora in ora, mentre verificavo che, effettivamente, lei non era a lezione, non camminava per i vialetti attorno al mio dormitorio, non studiava in biblioteca e non mangiava in mensa. Anche quella leggera ansia, inoltre, non aveva nulla a che vedere con le sensazioni che avevo provato il primo giorno di lezione. La associavo più a quella normale inquietudine che si prova prima di una visita dal dentista, o di un esame.
 
Comunque sia, non era questa la cosa più stupida che mi passava per la testa. La cosa più stupida era che ne sentivo la mancanza.
 
Non del panico, parliamoci chiaro. Sentivo la mancanza di lei, della sua voce, della sua risata, dell’effetto che la sua vicinanza aveva su di me. Era strano, avevo avuto a che fare con lei, a conti fatti, solo per una manciata di conflittuali minuti, ma era stato abbastanza da farmene desiderare ancora. E, nonostante tutto, ero grato che non ci fosse più.
 
Non che credessi che avesse abbandonato lo stato, il campus era grande a sufficienza perché non incrociare una persona per qualche giorno fosse una cosa tutto sommato normale. Però c’erano le lezioni, e non si era vista nemmeno a quelle dei due corsi che sapevo frequentava, quelli della prima mattina.
 
Magari era solo un’influenza, e poi la frequenza non era nemmeno obbligatoria. Forse semplicemente studiava per conto suo.
 
Eppure…
 
Eppure quella tranquillità, quella pace che sentivo mi dicevano qualcos’altro. Non so come lo sapessi, ma lo sapevo. E mi dispiaceva.
 
Ricominciai a domandarmi dove fosse, a pensare che forse, quel giorno avrei potuto fare un giro de campus, così, tanto per vedere se avrei visto quella sua testa rossa da qualche parte. Mentre valutavo il da farsi, seguii una curva del sentiero.
 
Dall’altra parte mi si parò davanti un albero caduto. Nulla di problematico, lo saltai agilmente, senza fatica, e atterrai dall’altra parte, stabile sui piedi. Poi quasi finii con la faccia per terra.
 
Boccheggiai.
 
Le mie gambe non rispondevano, le suole delle scarpe si erano incollate a terra e si rifiutavano di andare oltre. La paura mi strinse il petto. Con mano tremante cercai il tasto pausa e spensi la musica, rimanendo in ascolto dei suoni della foresta, il fiato corto e gli occhi spalancati.
 
Non potevo proseguire, non era sicuro. Dovevo tornare indietro di corsa.
 
“E’ pericoloso!” urlò la mia mente.
 
“E’ lei!” urlò il cavernicolo che mi abitava nella testa, rifacendosi vivo dopo tre giorni.
 
 
***
 
 
Lo scatto della maniglia mi costrinse ad un passo indietro.
 
Staccai gli occhi dalle quattro figure, dipinte ad olio su tela, e li portai sul viso del vampiro che stava entrando nell’accogliente studio in cui mi trovavo.
 
Carlisle Cullen, elegante come sempre in cachemire, mi sorrise amichevole. “Keelin! Sono contento che tu sia qui.” Vidi i suoi occhi, vagamente irrequieti, dardeggiare verso i miei, immagino per appurare che fossero ancora color dell’ambra. Solo allora si rilassò completamente, e il suo sorriso si estese a tutto il viso.
 
“Carlisle.” Sorrisi di rimando, mentre mi avvicinavo a lui per abbracciarlo. “E’ bello essere qui.”
 
Mi staccai da lui, solo per trovare altre due braccia ad attendermi. “Dovresti passare più spesso.” Mi rimproverò la sua compagna.
 
“Hai ragione, Esme.” Non potei fare altro che sentirmi vagamente in colpa con quella vampira di poco più alta di me e stranamente materna, per via di quella mia lunga assenza, per quanto avessi tutto il diritto di non stare lì, dato che non appartenevo al loro clan.
 
Li guardai, e notai che mi scrutavano con abbastanza interessa da mettermi a disagio, così riportai l’attenzione sul dipinto che rappresentava la corte dei Volturi. “E’ un quadro molto interessante.”
 
“Mi è molto caro.” Disse Carlisle, mentre spalancava la finestra dietro la sua scrivania. Inspirai a fondo gli aromi di quella parte di America. Gli alberi erano gli stessi del Maine, ma la terra era diversa, il che conferiva al bouquet tutto un altro carattere.
 
Mi era ancora curioso come usassi l’olfatto come senso privilegiato per capire cosa mi stava intorno. Certo, gli occhi erano ottimi per i dettagli, ma il naso mi dava un senso di tridimensionalità, era come guardare in tutte le direzioni. Ricordavo che da umana i miei occhi non erano un gran che, per questo, anche da bambina, passavo più tempo sui libri che a giocare coi miei coetanei.
 
Poi ero stata trasformata, e ricordavo perfettamente due cose. La prima ovviamente era la sete, ma la seconda erano le ore interminabili passate a guardare e osservare qualsiasi cosa che prima mi era preclusa, ossia tutto ciò che si trovava a più di un paio di braccia da me. Era stato stupefacente.
 
“Allora, Keelin. Cosa possiamo fare per te?” La voce di Carlisle mi riportò indietro. Aveva preso posto alla sua scrivania, mentre Esme era in piedi, al suo fianco. Mi avvicinai di un passo ai due.
 
“Per dirla nel gergo degli alcolisti, Carlisle, tu sei il mio sponsor.” Sorrisi, e loro fecero altrettanto in risposta. “Ho quasi avuto una ricaduta, così eccomi qui.”
 
“Lieto di sapere che ti sei fermata in tempo, anche se credevo che ormai ti sentissi a tuo agio tra gli umani.”
 
“Certo che mi sento a mio agio tra gli umani.” Sbottai, punta un po’ sull’orgoglio. “Non sono certo gli umani il mio problema.”
 
Carlisle piegò la testa di lato, con fare perplesso, invitandomi a proseguire. Esme, invece, sorrideva sorniona come se la sapesse lunga. Riflettei sul fatto che, con tutta probabilità, Alice mi aveva già vista arrivare, e forse aveva visto anche quella conversazione. Nel caso, erano tutti estremamente educati a lasciarmela fare senza interrompermi e anzi, fingendosi interessati.
 
“Diciamo che credo di aver trovato il mio Bella.” Esme ridacchiò, mentre Carlisle assunse un’aria sorpresa. Che fosse vera o no sembrava convincente. “E il suo odore è solo metà del problema.”
 
Raccontai di quanto accaduto due giorni prima, della mia decisione di uccidere Francis per cibarmene, del suo comportamento stranamente poco collaborativo e della mia curiosità, che si era messa di mezzo.
 
“Questa suona familiare…” commentò Esme, sempre sorridendo.
 
“In che senso, scusa?” domandai.
 
“Diciamo che la curiosità di Edward è stato ciò che ha salvato Bella, nei primi giorni del loro rapporto. Il fatto che lui non potesse leggere nella sua mente l’ha protetta.” Carlisle sorrise conciliante. “Con tutto il tempo del mondo a disposizione, sono poche le cose in grado di stuzzicare la nostra curiosità, dopo un po’. Una volta trovata una di queste cose, è dura farla sparire a cuor leggero.”
 
“Già…” Convenni, pensierosa. Notai però che anche lui aggrottava le sopracciglia.
 
“Mi chiedo però se Francis e Bella non siano simili anche sotto un altro aspetto. Voglio dire, gli umani capiscono, ad un certo punto, che noi siamo un pericolo, ma le sue reazioni…” Lasciò la frase in sospeso. Gli concessi qualche istante.
 
“Cosa vorresti dire?” Intuivo dove voleva andare a parare, ma preferivo che concludesse il suo pensiero.
 
“Ciò che incuriosiva Edward si è rivelato essere un dono molto potente di Bella, tanto potente da essere sperimentabile anche quando era umana. Le reazioni di questo ragazzo non sono una risposta ad un tuo comportamento minaccioso, ma addirittura ad una tua intenzione, che lui percepisce; almeno, questo è quello che mi pare di capire dal tuo racconto.”
 
“Già, sembrerebbe così.” Convenni.
 
“Mi chiedo se non sia la stessa cosa, se non sia il suo dono che traspare. Sembra che lui abbia una consapevolezza decisamente puntuale su ciò che tu potresti rappresentare per lui al momento.”
 
“Il che sarebbe?”
 
“La sua fine.” Concluse serio.
 
-
 
Camminavo sul grande prato dietro casa Cullen, soppesando tutto ciò che Carlisle aveva detto. Non sapevo questo cosa avrebbe comportato per me nel lungo periodo, ma sapevo cosa sarebbe successo nel breve. Se quello di Francis era un dono o meno lo dovevo scoprire. Fare dei piccoli test per così dire. Carlisle aveva ragione su una cosa, era dura lasciar perdere un fatto così interessante.
 
Sollevai gli occhi e vidi, sulla sponda del fiume, Carlisle, Esme ed Alice, gli unici presenti nella casa al momento. Gli altri erano tutti a caccia.
 
“Alice ci dice che riparti di già.” Disse Esme, dispiaciuta. Io guardai la veggente, incuriosita. Lei alzò gli occhi al cielo, in risposta. “Sì, è vero, domani nel Maine c’è ancora il sole. Fidati però, è il momento giusto per partire.” Mi disse sorridendo. Io mi strinsi nelle spalle. “Mi fido.”
 
“Keelin, c’è un’altra cosa a cui mi hai fatto pensare.” Mi disse Carlisle. “Ricordo com’era Edward prima che conoscesse Bella, e ricordo com’è stato dopo. Ma soprattutto ricordo il momento in cui è cambiato. Non capita spesso alla nostra specie, il cambiamento non è una cosa della nostra natura, ma quando succede è potente, e ci cambia per sempre.”
 
Sembrava quasi una minaccia anche se lui sorrideva teneramente.
 
“Devo fare attenzione?” Domandai, confusa.
 
“Oh, se quello che ti aspetta è ciò che è successo a mio figlio, ti suggerisco esattamente l’opposto.”
 
Rimasi interdetta dagli sguardi di Carlisle ed Esme, colmi di affetto, e dall’occhiata di Alice, che ammiccò appena la guardai. “Attenta all’ombra!” concluse lei ridacchiando.
 
Neanche mi sforzai di capire cosa intendesse.
 
-
 
Correvo ancora quando passai i confini di stato del Maine. Avevo corso per tutta la notte, e gran parte del giorno precedente, essendo partita da Forks verso mezzogiorno. Fortunatamente, a quella latitudine, gran parte del mio percorso era stato tra i boschi.
 
Dopo tremila miglia di corsa iniziavo a sentire la stanchezza. Se effettivamente, come sembrava, fosse stata un’altra bella giornata, avrei avuto tutto il tempo di andare a caccia prima di andare a cercare Francis. Per ora le parole di Carlisle riguardanti il cambiamento di Edward erano relegate in un angolo della mia mente, preferivo non pensare all’eventualità che l’aver incrociato questo umano avesse un impatto così potente sulla mia esistenza. Avevo però continuato a pensare alla possibilità che avesse un dono, e che questo dono lo rendesse consapevole di me. L’idea di testare questa teoria mi piaceva, stavo pensando di provarci prima da lontano, a distanza, per vedere se in qualche modo avvertisse la mia presenza.
 
L’alba era passata da poco quando iniziai ad avvicinarmi al campus. Sarei andata a caccia ma prima avrei verificato se Francis stava bene, ed era dove doveva essere, ossia nel suo dormitorio. Era una cosa stupida, un rischio inutile dato che iniziavo davvero ad avere sete e che lui sarebbe ovviamente stato lì, dove altro poteva essere? Però, inspiegabilmente, sentivo il bisogno di accertarmene.
 
Stavo per dirigermi verso i dormitori quando, attraversando un piccolo sentiero sterrato, mi imbattei in una traccia. La sua traccia.
 
Mi fermai di colpo, tanto di colpo che le mie scarpe sprofondarono nel terreno di una decina di centimetri, in una decelerazione che avrebbe rotto il collo ad un umano.
 
Un istante per ascoltare, e sentii il suono dei suoi passi, la musica che sfuggiva alle cuffiette che indossava. Prima di rendermene conto ero partita, seguendo la sua scia.
 
Non potevo arrivargli alle spalle sul sentiero, non in quelle condizioni. I miei vestiti e le mie scarpe, dopo tutte quelle ore a contatto con il mio corpo marmoreo che si muoveva nella corsa, erano quasi a brandelli. E poi c’era la sete.
 
Me ne accorsi quasi subito, ero partita dietro di lui per cacciare. Mi sforzai di riprendere il controllo in qualche modo, ma non riuscii ad arrestare la mia corsa. Abbandonai però il sentiero, e balzai tra i rami degli alberi, saltando di tronco in tronco, prima raggiungendo e poi superando Francis.
 
Mi fermai e mi voltai ad osservarlo, mentre affrontava dapprima una curva e successivamente, con agilità, un tronco caduto che gli sbarrava la strada. Il suo odore mi riempiva di nuovo la testa, come la prima volta, e il suono del suo cuore, accelerato dalla corsa, era un richiamo irresistibile.
 
Sarebbe stato facile ora, che era distratto da quell’ostacolo, balzargli addosso e-
 
Lo vidi arrestarsi, e portare lo sguardo nella mia direzione. Non verso l’alto, anche perché ero probabilmente invisibile tra l’ombra dei fitti rami per i suoi occhi, ma guardava decisamente la base degli alberi su cui mi trovavo.
 
Questo mi distrasse, per un momento, dai pensieri della caccia, anche se continuarono a farsi sentire nella mia mente. Avrei colto quell’occasione e testato la teoria di Carlisle.
 
Sul sentiero Francis spense la musica, rimase immobile per qualche istante, in ascolto, poi voltò le spalle e scavalcò nuovamente il tronco, tornando sui suoi passi.
 
“Non così in fretta.” Pensai, e con tre balzi precisi, lo superai nuovamente, precedendolo sul sentiero di una quindicina di metri. Poi mi voltai a guardarlo.
 
Lui si fermò, ancora, come se sapesse che la via non era più sicura. Era affascinante, ma pericoloso. Mi sentivo una cacciatrice che gioca con la preda, ed ero troppo assetata, il suo aroma era troppo invitante per indugiare ancora in questo giochino. Nonostante tutto, quando lui si guardò intorno, individuò la direzione giusta per raggiungere il suo dormitorio e si inoltrò fuori dal sentiero, io balzai ancora e gli tagliai la strada per la terza volta.
 
Ancora lui si fermò, il suo respiro era veloce e il suo cuore pompava più forte di quanto facesse nella corsa. E io cedetti. Mi protesi in avanti, pronta al balzo. Dovevo nutrirmi, e dovevo nutrirmi di lui.
 
Prima che potessi staccarmi dal tronco però, lo vidi fare un incerto passo all’indietro, pallido come la morte, inciampare, cadere seduto pesantemente e gemere, nel puro terrore in cui si trovava. E in tutto ciò i suoi occhi erano fissi su di me. O meglio, sull’ombra che mi nascondeva.
 
E io mi vidi, in quel volto, per il mostro che ero.
 
Arrestai il movimento che mi avrebbe portato al balzo, spezzando il ramo grosso quanto una coscia a cui mi sorreggevo, e fuggii.
 
 
***
 
 
Tremavo ancora come una foglia quando scivolai sotto il getto bollente della doccia. Ero grato del fatto che dormissero ancora tutti, e nessuno mi avesse visto in faccia quando ero rientrato dalla corsa.
 
Oggi era stato peggio di tutte le altre volte messe insieme, forse soprattutto perché ero stato colto così alla sprovvista, non c’erano stati segnali, avvertimenti. Nessuna presenza assieme a me in quel bosco.
 
Panico. Puro, cieco, nero panico. E la certezza che, questa volta, non me la sarei cavata.
 
Poi un ramo grosso quanto un alberello era venuto giù, e il tonfo si era portato via tutto: ero di nuovo io e mi sentivo al sicuro. Scosso, spaventato, preoccupato per la mia salute mentale (preoccupazione che ormai albergava nella mia mente più spesso di quanto non mi piacesse ammettere a me stesso), ma consapevole che la mia vita non era in pericolo.
 
“Per ora…” Ignorai quel commento del mio istinto primordiale.
 
Uscito dalla doccia avevo recuperato un po’ di colore, e i tremiti mi avevano abbandonato. Sentii i rumori associabili ai movimenti delle persone nelle stanze attorno, e decisi che, quel giorno, avrei provato ad essere più sociale del solito.
 
Non avevo troppa voglia di ritrovarmi ancora da solo.
 
-
 
Mezza giornata fu più che sufficiente per pentirmi di quella decisione.
 
Le lezioni della mattina, assieme a Matt, passarono normalmente, ma a pranzo, assieme a uno dei vari chiassosi gruppi che frequentava, era stato una vera tortura. Tutti scambiavano battute, pettegolezzi e risate, nulla di insolito, ma io non ero proprio dell’umore giusto.
 
Anziché distrarmi da quanto successo quella mattina e da quanto continuavo a portarmi dentro, quella compagnia non faceva altro che disturbarmi, dal momento che ciò che volevo fare, sembrava, era riflettere per i fatti miei su quanto accaduto.
 
Appena finito di mangiare, quindi, mi staccai dal gruppo con una scusa, e mi diressi, camminando sotto il sole, alla lezione successiva. Alzai il viso verso il cielo, notando che il tempo non era più bello come quello degli ultimi due giorni. Grosse nuvole correvano in cielo, oscurando ogni tanto la luce solare.
 
Che fosse una specie di presagio?
 
Scossi la testa, amaramente rassegnato a quelle riflessioni, ormai spontanee.
 
Trovai un posto nell’aula, dietro a due ragazze che leggevano una rivista prima dell’inizio della lezione. Lo sguardo mi cadde sulla pagina accanto a quella dell’articolo che aveva catturato la loro attenzione. Era la pubblicità di un profumo.
 
La foto era in bianco e nero, fatta eccezione per la boccetta del suddetto profumo e i capelli della modella, i quali erano (ovviamente) di una pazzesca tinta di rosso. Non furono quelli però a farmi pensare a lei. Il colore era davvero troppo carico e finto.
 
La modella, nella sua diafana bellezza artificiosa, dalla quale ogni difetto era stato abilmente rimosso da un talentuoso grafico, sembrava un cadavere.
 
La sua pelle, liscia ed omogenea all’inverosimile, contrastava con lo sfondo scuro della foto. L’abbigliamento della ragazza non faceva altro che accentuare quel contrasto. Era infatti coperta esclusivamente da un drappo nero, che spiralava attorno al suo corpo, coprendo sapientemente solo ciò che il pudore (e probabilmente il regolamento riguardante la pubblicazione di riviste acquistabili liberamente) richiedeva.
 
Gli occhi della ragazza, contornati da ciglia nerissime incredibilmente lunghe, erano chiusi.
 
Pensai a Keelin, e a quei suoi occhi color dell’ambra, aspettandomi quasi che la modella della rivista dovesse aprirli e mostrarmeli, dello stesso colore.
 
Osservai quella pubblicità, riflettendo, fino a quando le ragazze non riposero il giornale, all’ingresso del professore.
 
-
 
Keelin era morta, e io ne ero straziato.
 
La stanza era buia, fatta eccezione per l’altare in pietra su cui il suo corpo si trovava. Era in marmo bianco. Emergeva dalle tenebre che coprivano il pavimento come una coltre, tanto che i miei piedi vi affondavano.
 
Mi avvicinai.
 
Il drappo nero che la avvolgeva a spirale lasciava scoperta molta della sua pelle, ma l’unica cosa che questo mi provocava era disagio, perché le sue braccia, le sue gambe, il suo ventre scoperto, erano dello stesso colore della pietra su cui poggiavano.
 
Le lacrime mi rigavano le guance, ma non avrei saputo dire perché, vederla morta, scatenasse in me tutta quella disperazione.
 
Altri due passi e le fui accanto.
 
Posai una mano sulla pietra e una sul suo braccio, ma mi ritrassi immediatamente. La consistenza, la temperatura, perfino, di quello che stava sotto le mie mani, era la stessa, sia che si trattasse di marmo, sia che si trattasse del suo corpo.
 
Avevo paura. Avevo freddo.
 
Nella stanza regnava il silenzio, ma mi accorsi che il torace di lei si alzava e si abbassava, come se respirasse. Osservai quel fenomeno per un momento, poi tornai a guardare il suo viso e sprofondai nel terrore.
 
I suoi occhi erano aperti, fissi nei miei. Ed erano scarlatti, come i suoi capelli. Nonostante il suo viso fosse totalmente inespressivo, sentivo l’ostilità che quell’essere provava per me.
 
Indietreggiai, e lei si alzò a sedere.
 
Indietreggiai ancora, e lei fu in piedi, senza sforzo, come se fluttuasse nell’aria. I suoi occhi non mi lasciavano un istante.
 
Senza più alcun controllo, mi voltai per fuggire, ma i lembi di stoffa nera che ancora la avvolgevano mi raggiunsero, stringendomi, imprigionandomi, trascinandomi verso di lei.
 
Sentii un urlo salirmi nel petto, non sarei riuscito a trattenerlo. Era troppo.
 
Fu in quel momento che la mia testa cozzò contro il pavimento della stanza. Mi ritrovai avvolto come una mummia nella mia coperta, incapace di muovere le gambe e le braccia, disteso sul pavimento. Mi agitai, in un moto di panico residuo dall’incubo, poi mi costrinsi a calmarmi. Il ritmico russare di Matt mi aiutò a tornare alla realtà.
 
Analizzai la situazione e capii quale lembo della coperta tirare per liberarmi, poi mi sedetti sul pavimento, ansimando. Ero bagnato fradicio, avevo sudato parecchio.
 
Mi presi la testa fra le mani, e cercai di calmarmi. Solo un sogno, solo uno stupido incubo. Alzai gli occhi sulla parete di fronte a me e sussultai. Avevamo dimenticato di abbassare le tapparelle la sera precedente, e il riquadro della finestra si proiettava nitido sul muro. Nel quadrato di luce prodotto dai lampioni c’era, ben visibile, una sagoma umana.
 
Mi voltai di scatto, ma la finestra era vuota.
 
Controllai di nuovo il muro, ma anche lì ora c’era solo il quadrato di luce.
 
Rabbrividendo mi alzai, nuovamente inquieto, indeciso sul da farsi. Probabilmente era stato solo un residuo del sogno, mi ero suggestionato da solo, però volevo controllare. Non le avrei permesso di terrorizzarmi anche nella mia stanza (a chi mi riferivo? A Keelin o alla mia mente? Non avrei saputo dirlo…).
 
Spalancai la finestra. Il freddo mi schiaffeggiò la pelle.
 
Eccola. L’inquietudine, la paura, il terrore ancestrale, o qualsiasi cosa fosse. Come se mi stesse aspettando lì fuori, mi saltò addosso appena aperte le ante vetrate. Sopraffatto, le gambe mi cedettero e caddi in ginocchio, aggrappato al davanzale. Inspirai una convulsa boccata d’aria, poi le mie labbra si mossero, come da sole, pregando una qualche sconosciuta entità: “Basta, basta, basta, basta, basta…” Ancora e ancora, non riuscivo a dire altro. Avevo perso la testa, ne ero sicuro.
 
“Basta, basta, bast-” all’improvviso, il nodo che mi stringeva tutto, il petto, il ventre, le spalle, la mente, si sciolse, come neve al sole. Non ero esausto come un secondo prima, ero solo stanco perché sveglio nel bel mezzo della notte. Non ero più spaventato, mi sentivo in pace.
 
Alzai gli occhi al cielo, ora coperto di pesanti nuvoloni, ed inspirai, a pieni polmoni. Ero confuso tanto quanto prima, ma la mia confusione, la mia meraviglia, erano ben accette adesso. Come se, dopo giorni e giorni di torcicollo, qualcuno mi avesse fatto passare tutto in un secondo, con un semplice tocco. Non capivo, ma se funzionava allora non mi sarei lamentato.
 
“Grazie… Ora va bene…” sussurrai alla notte, per poi alzarmi nuovamente in piedi.
 
Il sollievo mi aveva svuotato. Non avevo idea di come fosse possibile, ma così come quella mattina sapevo che sarei potuto morire, adesso sapevo di non correre alcun pericolo. Come in trance richiusi la finestra, tirai le tende, raccolsi le coperte e mi infilai a letto.
 
Mi addormentai quasi subito, come un sasso.
 
 
***
 
 
La notte era calata, e solo allora mi azzardai ad uscire dal bosco.
 
Mi ero nutrita a sazietà e mi sentivo meglio, almeno fisicamente. Il mio cedimento e la reazione di Francis mi perseguitavano. Quello che era successo al mattino ero io. Io ero quel mostro. Potevo illudermi, minimizzare, convincermi di essere a mio agio tra gli umani, ma erano tutte menzogne. Questa consapevolezza mi stava scavando dentro, il mio morale era a terra.
 
Mi diressi verso la vicina città, dove conservavo i miei averi in un vecchio magazzino che avevo affittato. Non avevo mai avuto la passione per il mantenere le apparenze, come facevano i Cullen. Vi giunsi non vista, e mi cambiai i vestiti. Quelli che indossavo ormai erano da buttare.
 
Controllai il mio riflesso in uno specchio, accasciato su uno scatolone, e dopo aver constatato di essere di nuovo presentabile, uscii nella notte, camminando questa volta per le strade.
 
Vagai per ore, seguendo il mesto corso dei miei pensieri, fino a quando non intuii dove mi stavano portando i piedi. Non mi ero nemmeno accorta di essere tornata al campus, ormai deserto e immerso nel buio, e quando alzai la testa vidi, poco più avanti, il dormitorio di Francis.
 
Sospirai, e poi decisi di proseguire. Volevo assicurarmi che stesse bene.
 
L’edificio era a due piani, lungo e stretto. Ogni finestra corrispondeva ad una stanza, ce n’erano almeno una ventina per piano su quel lato e, immaginai, altrettante sull’altro. 80 camere, 160 studenti. Sarebbe stato tedioso.
 
Decisi di iniziare dal piano terra, camminando lungo tutta la facciata, annusando l’aria attorno alle finestre. Non suonò nessun campanello. Feci altrettanto sul retro, ma la stanza di Francis era probabilmente al primo piano, così balzai sul tetto spiovente.
 
Continuai a cercare, fino a quando non sentii il suo profumo e individuai la finestra della sua camera, sul lato che dava sul campus. I respiri che percepivo appena all’interno erano lenti e regolari, Francis e Matt dormivano profondamente. Mi calai agilmente sul davanzale, rimanendo senza sforzo in equilibrio sulla piccola superficie che esso mi offriva, e osservai le due figure all’interno, dato che la tapparella era alzata e le tende non erano tirate.
 
Sembrava tutto a posto, dopotutto. Dormiva serenamente.
 
Quella meno serena ero io. Nonostante mi fossi nutrita quella mattina, da quando avevo riconosciuto il suo odore, la rabbia, la sete, la volontà di aggredirlo erano tornate. Sentivo tutti i muscoli rigidi come pietra, mentre combattevo l’istinto di aprire quella finestra. Fu allora che dubitai di me. Forse non ero forte abbastanza. Forse sarebbe stato meglio chiuderla qui, e dimenticarsi di tutto, teorie o non teorie. Cedere.
 
Ero talmente presa da quei pensieri, che quasi non mi accorsi che il sonno di Francis si faceva via via più agitato. Lo vidi muoversi, lo sentii gemere e borbottare parole senza senso, in un irrequietezza che andava crescendo, fino a quando, intrappolato dalle coperte, cadde sul pavimento.
 
Ero quasi sicura che anche quella fosse una reazione alla mia presenza. Ormai non era più una teoria, era una certezza. Lo avevo visto accadere più volte quel giorno. Lo vidi alzarsi a sedere e prendersi la testa tra le mani. Probabilmente era nello sconforto, tanto quanto me.
 
Quando alzò la testa io lo feci con lui, e fu in quel momento che mi tornò in mente Alice. “Attenta all’ombra!” La mia ombra era perfettamente visibile sul muro della camera. Francis iniziò a girarsi, ma io ero molto più veloce, fortunatamente. Sparii di nuovo sul tetto prima che il suo sguardo si posasse sulla finestra.
 
Sgomenta, capii che la mia distrazione, unitamente alla sua peculiare capacità di percezione, era un problema per entrambi. Un problema che andava risolto. Francis si mosse, lo sentii armeggiare alla finestra, e con dolore seppi che quando quella finestra si fosse aperta e il suo profumo fosse esploso dall’interno di quella stanza, non avrei più avuto scelta.
 
Carlisle lo aveva detto, il cambiamento non è proprio della nostra specie. Io non ero forte abbastanza, lo avrei tirato sul tetto con me e sarebbe morto.
 
La finestra si aprì, il suo odore arrivò alle mie narici. Mi mossi piano, come un felino, portandomi proprio sopra di lui. Il mostro dentro di me ringhiava. Ancora qualche centimetro, silenziosa come un’ombra, e poi avrei fatto la mia mossa.
 
Un tonfo, e poi la sua voce, in una supplica. “Basta, basta, basta, basta, basta…”
 
Già, il cambiamento non è proprio della nostra specie. Infatti non cambiai, o almeno, non fui io a volerlo. Il suo viso terrorizzato quella mattina, il mio disgusto per me stessa, l’incubo che avevo scatenato in lui solo con la mia presenza, la sua voce esausta che continuava a ripetere una parola e una parola sola.
 
Il mostro ruggì, ma questa volta riconobbi il suo verso. Era frustrazione, disperazione, l’ultimo tentativo di farmi cedere. E fallì. Non sarei stata il mostro, non lo sarei stata mai più. Qualcosa prese posto in me, qualcosa che fino ad allora era stato sbagliato. Non saprei descriverlo in altro modo, ma non fu uno sforzo mio. Fu come sedersi comodamente al proprio posto. E ci fu pace.
 
“Bast-” Una pausa. Un sospiro “Grazie… Ora va bene…”
 
Quelle parole, sussurrate nell’aria della notte, mi impietrirono sul tetto come un gargoyle, fino a molto tempo dopo che Francis si fu rimesso a letto, e il suo respiro fu tornato lento e regolare.
 
 
***
 
 
Mi richiusi la porta del dormitorio alle spalle, lo zaino in spalla, l’incubo notturno solo un vago ricordo. Verificai che la zip della giacca fosse ben chiusa, il freddo di quella mattina era pungente. Si era alzata una coltre di nebbia che limitava la visuale a qualche metro, come se il tempo volesse far dimenticare a tutti la svista dei giorni precedenti, riportandoci in pieno autunno.
 
Mi avviai sul il vialetto, il suono dei miei passi ovattato, così come tutti gli altri suono di quel mattino. La nebbia sembrava parlare delle voci e delle risate degli studenti, che tuttavia non potevo vedere.
 
Quando fui quasi al viale principale che portava verso le aule, una piccola figura emerse dalla coltre bianca che copriva tutto, e io mi bloccai.
 
 
***
 
 
Avevo atteso nella nebbia, in ansia, per quasi mezz’ora. Era il momento della verità, l’ultima prova. Ero decisa a non fare del male a quel ragazzo, in alcun modo, ma sarebbe bastato? O ero pericolosa a prescindere per lui? E se anche non lo fossi stata, magari lui in questi giorni aveva stabilito un rapporto di causa ed effetto tra me e quello che scatenavo, e aveva deciso di starmi alla larga. Non gliene avrei certo fatto una colpa.
 
Finsi sorpresa nel vederlo entrare nel mio campo visivo, in realtà lo avevo sentito (sia con le orecchie che con il naso) ben prima. L’odore, il suono del suo cuore, rimanevano sempre mortalmente invitanti, ma anche estremamente piacevoli ora. Potevo sperimentarli sicura di non avere reazioni inconsulte.
 
Sorrisi timidamente, aspettando una sua reazione.
 
 
***
 
 
Un’immagine piuttosto stupida mi salì alla mente. Una serie di omini, dietro le loro postazioni, che controllavano che tutti i sistemi e i processi del mio corpo fossero in ordine.
 
“Ansia?” “Assente!”
 
“Minaccia?” “Assente!”
 
“Capacità di movimento?” “Funzionale al 100%!”
 
Un involontario sorriso mi salì alle labbra. La cosa mi stupì ma la presi come un buon segno. Forse il senso di pace che avevo sentito la notte precedente era genuino dopotutto. Non che credessi davvero che i miei “episodi” avessero a che fare con lei, non la vedevo da giorni dopotutto. Decisi di non stare lì a farmi troppe domande e cavalcare l’onda finché potevo. Mossi un passo, la terra non si aprì, e continuai a camminare verso di la ragazza che mi sorrideva.
 
“Keelin, buongiorno.”
 
 
***
 
 
Il suo viso che si illuminava in un sorriso tranquillo fu una risposta più che sufficiente alle mie domande. Il mio sorriso si fece più largo mentre facevo dondolare il capo, in segno di saluto.
 
“Francis.”
 
 


 
Eccoci.

Innanzitutto mi scuso per la lunghissima attesa, ma d’altra parte, questo è un hobby e la vita fuori da word esige la sua attenzione in modo molto pressante sempre più spesso. Spero che le 1.500 parole in più della mia solita lunghezza bastino a farmi perdonare.
Altra cosa, nell’intro del primo capitolo scrivevo che non mi avevano fatto impazzire i personaggi di Beau ed Edythe in Life and Death. Per quanto riguarda Edythe, magari ne parliamo in un altro capitolo, ma sto capendo come mai Beau mi suonasse molto strano. E’ un ragazzo, ma l’autrice è una donna. E, da uomo, l’estraneità l’ho notata in fretta. Proprio per questo mi scuso con tutte le lettrici se il personaggio di Keelin risulta malamente abbozzato, o se la sua psicologia, letta da una donna, funziona poco. Se così fosse, vi prego di farmelo sapere, così da renderla più convincente.
Come ho detto altrove, è un esperimento che volevo fare, ed ha i suoi alti ed i suoi bassi.
Per quanto riguarda la trama di questo capitolo, mi ha fatto piacere scrivere dei Cullen, così da dare contesto alla storia. Anzi, nella versione originale doveva esserci anche un siparietto con Emmet, ma spezzava un po’ troppo il ritmo, così l’ho tolto. Potrebbe darsi che qualcuno dei Cullen torni, più in là, ma per ora non mi sbilancio.
Altra cosa, il dono di Francis. Spero che non renda meno “vero” il personaggio e meno autentiche le sue reazioni verso la vampira, come se una capacità sovrannaturale fosse l’unica cosa che gli impedisce di cascare ai piedi di lei. Non è e non sarà così, e soprattutto, Francis non ha certo smesso di farsi domande solo perché ha avuto qualche ora di tregua. Il bello inizia ora.
Come al solito, grazie a chi legge, recensisce, ricorda, segue e preferisce, aiuta un sacco.
Preparatevi ad un’altra attesa, spero non lunga come questa.
A presto!

N.
 

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Capitolo 4
*** Confidenza ***


Scrivere è e deve essere un piacere, altrimenti quello che salta fuori è una schifezza.
 Nonostante questo mi sento in dovere di scusarmi ogni volta per l’attesa a cui vi sottopongo; mi scuso con voi per scusarmi anche con me stesso (e con Keelin e Francis), perché quando mi risiedo al PC per scrivere è sempre una gioia, e le parole scorrono come un fiume. Il momento in cui questo accade però va trovato, e mi capita di dover aspettare un bel po’ ogni volta perché si faccia vedere.
 Non vi tedio oltre con queste idiozie, ci sentiamo in fondo al capitolo.
 
Buona lettura!
 
 

Alternativa
 
Confidenza

 
 
Era stranamente intimo camminare a fianco a lei nella nebbia.
 
I suoni giungevano ovattati alle nostre orecchie, i colori erano meno brillanti, la luce appena soffusa. L’odore di erba umida permeava l’aria. Nonostante il campus attorno a noi fosse vivo e gli studenti si muovessero per recarsi a lezione, sembrava non esserci nulla oltre me, Keelin e la bolla di nebbia in cui ci trovavamo.
 
Stavamo entrambi in silenzio, non avevamo scambiato altre parole oltre al saluto di poco prima. Semplicemente mi ero affiancato a lei e avevamo accordato il nostro passo, dirigendoci dalla stessa parte; nonostante questo mi sentivo elettrizzato.
 
Solitamente, stare in silenzio con qualcuno che conosco da tempo è una cosa che mi mette completamente a mio agio, denota il livello di confidenza raggiunto con quella persona. Il fatto era che io questa ragazza non la conoscevo per niente, eppure il silenzio non era imbarazzato, sembrava la cosa più naturale del mondo. Come se prima di iniziare a parlare dovessimo abituarci alla presenza reciproca.
 
Ero in parte grato a quel silenzio: nonostante non provassi l’ansia devastante che mi aveva colpito la prima volta che l’avevo vista, trovarmela davanti quella mattina mi aveva comunque colpito. Su una cosa i miei ricordi erano corretti: era una ragazza di una bellezza inverosimile. Nonostante la giornata dal clima ormai palesemente autunnale, lei era vestita in maniera quasi primaverile: una corta giacca in pelle color sabbia, aperta, che mostrava una semplice t-shirt grigia; un paio di blue jeans e delle normalissime sneakers. La maglietta, con uno scollo a V molto discreto, lasciava scoperto il collo e la gola di lei. Sulla spalla destra portava una tracolla, anch’essa in pelle e di un colore indefinito, dovuto probabilmente all’età dell’oggetto.
 
Le linee del suo viso, che fino a poco prima facevo fatica a riportare alla mente, mi parvero note e familiari quando me le trovai davanti, così come la tinta pazzesca dei suoi occhi. Mi forzai per non lasciarmi andare a qualche commento a sproposito: non volevo essere troppo invadente.
 
O sembrare strano.
 
Mi ricordavo perfettamente della mia fuga l’ultima volta che l’avevo vista, quindi preferii volare basso e aspettare che fosse lei a definire il tono di una eventuale conversazione.
 
In ogni caso, non avrei saputo come scambiare due parole in quel momento. Mi persi in una contemplazione che mi rapì completamente. Stavamo camminando e lei, nonostante le sue gambe fossero notevolmente più corte delle mie, mi affiancava senza sforzo. Non solo, si muoveva con una grazia che non avevo ancora notato. Io mi ero avviato quasi col pilota automatico, non stavo tenendo un passo lento, e da una persona di quella statura mi sarei aspettato una camminata quasi affannata; invece era fluida, distesa, apparentemente spontanea.
 
Mentre osservavo il suo modo di muoversi -che era talmente perfetto da sembrare quasi fasullo, privo di un difetto o una mossa involontaria- senza riuscire ad impedirmelo studiai la sua figura con quello che speravo potesse passare per uno sguardo casuale e normalissimo. Certo, in mia difesa lei sembrava fatta apposta per essere guardata: camminava alla mia destra, con la tracolla e i capelli buttati entrambi sulla spalla destra, come a volermi offrire completamente il fianco sinistro.
 
Ovviamente iniziai dai suoi capelli, che anche in quell’umida giornata uggiosa parevano risplendere di luce propria, e seguire armoniosamente i movimenti di Keelin mentre camminava. Osservai il suo viso, rilassato e disteso, con le labbra come incurvate in un accenno di sorriso, lo sguardo fisso davanti a sé.
 
Scesi poi sul suo collo scoperto, le clavicole appena visibili dallo scollo della maglietta, che tendevano quella sua pelle pallida e liscia. Subito sotto, la curva del seno modellava i lembi della giacca in pelle in una forma difficile da ignorare. Continuai a scendere, fino a rimanere ipnotizzato per un secondo dal movimento dei suoi fianchi, all’unisono col passo di lei.
 
Se inizialmente avevo cercato di sbirciarla con la coda dell’occhio, mi resi conto che, in quel momento, la mia testa era completamente voltata (e abbassata!) verso di lei. Mi affrettai a rialzarla ma, sentendomi colto in flagrante, la trovai già intenta a guardarmi con un sorrisetto sornione ed un sopracciglio leggermente alzato. A disagio mi strinsi nella giacca che indossavo e tentai di dissimulare.
 
“Non hai freddo?” le chiesi, buttando lì la prima cosa che mi passava per la mente e sentendomi mortalmente stupido. Quasi che pensasse di me allo stesso modo, voltò di nuovo la testa in avanti, sbuffando una risatina. Non mi rispose, e io mi sentii arrossire.
 
Nascosta dietro il banco di nebbia, l’aula si stava avvicinando, e io mi sentivo spinto a tentare di rimediare al passo falso che avevo appena fatto; d’altro canto mi sembrava un’impresa titanica riuscire a parlarle senza fare la figura dell’imbecille. Ci provai comunque, era come se avessi rotto la magia iniziale e quel silenzio adesso iniziasse a pesarmi addosso.
 
Mi schiarii la voce. “Stai… bene?” chiesi, incerto. Avrei voluto chiederle dove fosse stata nei giorni passati, ma mi sembrava una domanda troppo diretta, così il mio cervello mi aveva passato l’ipotesi per me più plausibile di quell’assenza, ossia una leggera influenza. Solo che, quando avevo iniziato a parlare, lei si era di nuovo voltata a guardarmi, azzoppando per un momento le mie capacitò di espressione.
 
Il suo viso era rilassato e sereno, mi guardava come un vecchio amico invece che come uno sconosciuto. In fondo ai suoi occhi potevo scorgere una curiosità, un interesse vivo e presente.
 
Sorrise. “Sto molto bene, grazie.” Mi rispose, inspirando poi l’aria fresca della mattina, socchiudendo gli occhi. Pareva un gesto talmente intimo da mettermi a disagio per un momento, ma tentai comunque di spiegarmi meglio.
 
“E’ solo che non ti ho vista in giro nei giorni scorsi.”
 
Lei parve capire. “Oh. No, non è stato un problema di salute, o almeno, non del tutto…” La sua risposta mi parve confusa, ma non volevo ficcare il naso; lei se ne accorse comunque. “Sono stata a trovare degli amici.” Specificò.
 
Annuii in silenzio, non trovando altro da aggiungere mentre l’edificio dell’aula si materializzava davanti a noi. Le luci all’interno proiettavano un alone giallastro attorno alle finestre. Accelerai, precedendola alla porta di mezzo passo, per tenergliela aperta.
 
Avevo già fatto la figura della schiappa come conversatore, non sarei passato anche per un bifolco.
 
 
***
 
 
“Grazie.” Sorrisi a quella sua piccola galanteria, meravigliata da quanto stesse andando tutto bene. Ero serena, in pace, a mio agio. Camminando al suo fianco mi sentivo al mio posto. La sete si fece sentire appena; grata del silenzio che inizialmente ci accompagnava, riuscii a relegarla in un angolo remoto della mente.
 
Vedere che osservava la mia figura, e sapere che aveva notato la mia assenza furono due cose che mi regalarono un piccolo piacere inaspettato, proprio come il suo gesto di aprirmi la porta. Non erano nulla, solo comportamenti normali e chiacchere futili, ma erano un inizio. Cullai quel pensiero, quasi con la paura che potesse sparire, mentre entravo nell’aula.
 
Un movimento attirò la mia attenzione. Matt, il compagno di stanza di Francis, con un’espressione piuttosto interdetta, cercava di farsi vedere da quest’ultimo, anche se i suoi occhi indugiavano su di me. Notai che aveva tenuto un posto, uno soltanto. Mi sentii improvvisamente sulla difensiva, e mi voltai verso il mio accompagnatore, indicando i banchi verso il fondo dell’aula, che era già piena per una buona metà.
 
“Prendiamo posto?” Chiesi. “Certo.” Mi rispose senza notare il suo amico, avviandosi per primo. Mi cedette il passo, facendomi entrare per prima nella bancata che contava una decina di posti, tutti ancora liberi. Quando mi accomodai, lui si sedette alla mia sinistra. Sentivo il calore che emanava dal suo corpo infrangersi su di me.
 
Per distrarmi frugai nella tracolla, estraendo un blocco a fogli bianchi e una penna nera. Vidi che lui stava facendo la stessa cosa; notai che indossava ancora la giacca, allacciata fino al collo. Lo guardai con una punta di divertimento. “Non hai caldo?” gli domandai con tono leggermente ironico, facendo il verso alla sua domanda di poco prima. Lui se ne accorse e mi sorrise, divertito.
 
“Ci metto sempre un po’ al mattino, prima di scaldarmi…” spiegò paziente, come se non gli costasse alcuna fatica condividere con me, con sincerità, un particolare piccolo della sua esistenza. La cosa mi fece piacere, anche se già sentivo un pizzico di amarezza al pensiero di non poter fare altrettanto. Sovrappensiero presi la penna con la mano sinistra, dal momento che il professore in cattedra si apprestava ad iniziare la lezione, pronta a prendere appunti.
 
Poiché Francis aveva impugnato la penna con la destra, i nostri gomiti si urtarono, ed entrambi ci voltammo prima a fissare quel punto di contatto, poi per guardarci in viso, leggermente imbarazzati. Lui stemperò un po’ la situazione, alzando gli occhi al cielo e fingendosi esasperato. “Sarà così per tutta la lezione?”
 
Io sorrisi, e spostai la penna nella destra. “Posso scrivere con l’altra, nessun problema.” Dissi, con tono leggero. Lui mi guardò inarcando un sopracciglio con sfida, e io non potei fare a meno di assecondarlo.
 
Riportai la penna nella sinistra, allungai la mano verso il suo blocco e, in centro alla pagina intonsa, iniziai a scrivere, con la mia grafia tanto ordinata e svolazzante da sembrare un carattere adatto per un invito di nozze.
 
Ciao Francis, mi chiamo Keelin…
 
Dopodiché spostai la penna nell’altra mano, sporgendomi un poco e avvicinandomi a lui per poter proseguire a scrivere, questa volta con un carattere ugualmente ordinato, ma meno formale o elaborato.
 
… e sono perfettamente ambidestra. ;P
 
Notai il suo sorriso, divertito e interessato, mentre la seconda metà della frase prendeva forma sul foglio, come se fosse un piccolo gioco di prestigio. Poi si ricompose un po’. “Dovevi proprio farlo in mezzo alla mia pagina?” Mi chiese, senza rimprovero nella voce.
 
“Mi hai sfidata tu.” Risposi sussurrando, dato che la lezione era ormai iniziata.
 
“Perfettamente ambidestra, eh?” Mi domandò curioso.
 
In realtà tutti i vampiri sono ugualmente abili in qualsiasi cosa con entrambe le mani, ma avevo imparato negli anni che, con gli umani, una delle cose più facili per farli sentire a loro agio è minimizzare. Bastava trattare le stranezze come se fossero piccole cose assolutamente normali e loro, pur di non sentirsi “strani” a loro volta, accettano la spiegazione di buon grado. Inoltre questo mi diede l’occasione di condividere con sincerità qualcosa di mio.
 
“No, in realtà no. Sono mancina. Ho fatto le elementari in un collegio di monache in Irlanda. A loro la cosa non andava troppo a genio, e così…”
 
Lui sembrò sorpreso. “Davvero? Ma è medievale!” Esclamò.
 
“Era un collegio un po’ all’antica.” Feci spallucce, tralasciando il fatto che avevo frequentato le elementari una settantina di anni prima, più o meno. Poi impugnai la penna con la destra, e mi girai verso il professore, come a far intendere di voler seguire. In realtà stavo cullando le sensazioni che provavo.
 
Mi stavo divertendo. Eravamo rilassati e riuscivamo a scambiare qualche parola spontanea. Era bello.
 
Lo sentii cambiare posizione sulla sedia, accanto a me. Girai appena la testa, mentre lui si slacciava la zip della giacca sportiva impermeabile che indossava. Se la sfilò, mostrando un semplice maglioncino navy blue dallo scollo a V, da cui spuntava il colletto di una altrettanto semplice t-shirt bianca.
 
Fu come un’onda.
 
Come essere sdraiata sul bagnasciuga, a farmi cullare dalla risacca, che si ripete docile e sempre uguale fino a quando, a causa del vento, o del passaggio chissà dove di una grossa barca, fossi sorpresa e sopraffatta dalla forza di un’onda in grado di spostarmi e trascinarmi sul fondale sabbioso, facendomi finire con la testa sott’acqua e perdere completamente il senso dell’orientamento.
 
Fino a quel momento avevo avuto a che fare con una certa intensità del suo calore, del suo profumo, ma quando si fu liberato della giacca fu come se la magnitudo aumentasse in maniera spropositata. Fu tutto quello che percepii. Non vidi, non udii più nulla per un istante. C’era solo il suo odore, e il suo calore ad avvolgermi. Mi pietrificai per il terrore perché, in quell’istante, sentii distintamente di poter perdere il controllo. O meglio, di poter gettare tutto all’aria se avessi deciso di perdere il controllo.
 
Se non altro il cambiamento avvenuto in me mi faceva arrivare fino a lì. Mi faceva provare tutto quell’inarrestabile desiderio che mi aveva colto alla sprovvista, mi inondava la bocca di veleno, mi incendiava la gola con la sete ormai familiare e poi mi chiedeva: Che vogliamo fare?
 
E io, quello che volevo fare l’avevo ormai deciso, e non sarei indietreggiata sui miei passi.
 
Tornò la vista, e con essa il viso di Francis, che mi fissava teso. “Tutto bene?” Mi domandò, preoccupato ed inquieto, ma non spaventato. Aveva colto qualcosa comunque, era molto percettivo, ma il fatto che non fosse impaurito servì a tranquillizzarmi. Mi confermò ciò che già sapevo, ossia che non avevo intenzione di attaccarlo.
 
Ancora scossa da quanto successo annuii in risposta alla sua domanda, poi mi voltai guardando ancora di fronte a me. Dovevo cercare una pausa, un rifugio da quelle emozioni. Accavallai le gambe, incrociai le braccia dopo essermi spostata una ciocca di capelli a coprire la parte sinistra del mio viso, così da darmi un minimo di protezione dallo sguardo indagatore del ragazzo seduto accanto a me, e poi mi calai nell’immobilismo pietrificato in cui la mia specie poteva rifugiarsi. Smisi persino di respirare, per darmi un po’ di tregua e prepararmi al momento in cui avrei dovuto affrontare tutto di nuovo.
 
Passarono in minuti.
 
Come qualche giorno prima fu il suo respiro a calmarmi. Uno dopo l’altro, fu come tornare a farsi cullare dalla calma della risacca. Quasi non mi accorsi di ricominciare a respirare a mia volta, col suo stesso ritmo, assaporando quella sua fragranza quasi irresistibile con molta più tranquillità. Mi lasciai trasportare da quel ritmo per qualche tempo, poi un altro strano fenomeno richiamò la mia attenzione.
 
Noi vampiri percepiamo la temperatura. Si potrebbe dire che, dopo un certo numero di anni di esercizio, diventiamo come dei termometri. Sappiamo quando la temperatura è abbastanza bassa per la neve, o abbastanza calda perché mostrarsi in giro con un maglione troppo pesante attiri attenzione. Quello che non siamo in grado di percepire sono le sensazioni corporee dovute a caldo e freddo. Capiamo quando l’aria attorno a noi si riscalda o si raffredda, ma questo non ha su di noi alcun effetto, non provoca alcun disagio né alcun sollievo. Coprirci di più o di meno non modifica questa nostra percezione, siamo semplicemente in grado di sperimentare qualsiasi temperatura, senza conseguenze.
 
Io però, in quel momento, bruciavo.
 
Non era il calore della sete, quell’arsura insopportabile localizzata solo nella mia gola. Era qualcos’altro, qualcosa di nuovo. Come essere immersi in un bagno caldo, estremamente caldo e piacevole. O come essere seduti un po’ troppo vicino al fuoco in una fredda sera invernale, sotto le stelle. Sapevo esattamente dove si collocava la fonte di quel calore. Era a fianco a me, e lo elargiva, con generosità, ad ogni battito del suo cuore, ad ogni respiro che esalava. Io vi affondavo, mi scioglievo, sempre più rilassata e quasi sonnolenta. Mi ci crogiolavo come una lucertola al sole, come se quella vicinanza potesse in qualche modo scacciare per sempre il buio e il freddo della mia esistenza immortale.
 
Quasi senza averne coscienza, avevo sciolto il nodo che mi serrava gambe e braccia, ed iniziato a muovermi con lui.
 
Come ogni umano, Francis non teneva mai a lungo la stessa posizione: sedeva retto sul bordo della sedia, e poi vi affondava, caricando tutto il suo peso sullo schienale. Poggiava i gomiti sul tavolo, oppure incrociava le braccia sul petto. Ruotava appena sulla sedia, dando ora il fianco sinistro e ora il destro alla cattedra, qualunque cosa lo facesse sentire più comodo. In sua difesa, per un ragazzo della sua statura, quei piccoli banchi dovevano essere piuttosto scomodi.
 
Io lo seguivo, mentre il mio corpo cercava di mantenere costante la distanza tra me e lui, per non staccarsi da quella fonte di calore, così piacevole ed inarrestabile. Forse ai suoi occhi pareva buffo, forse pareva preoccupante, non avrei saputo dirlo. I miei capelli ancora mi impedivano una linea di visuale diretta sul suo viso.
 
All’ennesimo passo di danza, mentre entrambi distendevamo le spalle all’indietro tornando ad appoggiare la schiena alla sedia, con le nostre braccia distanti l’una dall’altra solamente un centimetro o poco meno, iniziai a fantasticare su come sarebbe stato, per un momento, sfilarmi la giacca e colmare quell’ultimo divario, appoggiandomi a lui con indosso solo la maglietta a maniche corte.
 
Era una fantasia stupida, stupida e pericolosa. Senza contare che non avrei saputo immaginare la reazione di lui al contatto con la mia pelle fredda. Non potei però impedire alla mia mente di cercare risposta a quella fantasia, di figurarsi quel meraviglioso bruciore sul mio braccio.
 
Sospirai profondamente.
 
 
***
 
 
Mentre, invano, tentavo di seguire almeno un minimo del discorso del professore, mi consolava il fatto di aver conosciuto Keelin nella prima settimana di lezioni. Se fosse successo a fine corso, o durante gli esami di fine semestre, sarebbe stato un enorme problema a giudicare dal modo che avevo di reagire alla sua presenza.
 
C’era stato un breve momento di tensione, così intensa da farmi ripensare alle sensazioni del primo giorno, ma era passata tanto in fretta da impedirmi di rifletterci su. Poi lei aveva spostato i capelli, a coprirle il lato del viso che potevo vedere, e il profumo che portava mi aveva raggiunto. Era pazzesco, e mi dissi che a questo punto avrei dovuto aspettarmelo.
 
Dolce, speziato e al contempo fresco, come menta. Non avevo mai sentito nulla di simile. Mi persi poi per diversi secondi ad osservare i riflessi della luce sui suoi splendidi capelli rossi, tanto che ignorai completamente le parole del professore alla cattedra, così che quando tentai nuovamente di ascoltarlo dovetti faticare non poco per capire di cosa stesse parlando.
 
Presi appunti, mi rilassai un poco, ma ero conscio della presenza di lei poco distante da me, e della sua completa immobilità. Era strana, forzata. Non avrei nemmeno saputo dire se respirasse o meno e non capivo il perché del suo comportamento. C’era qualcosa che non comprendevo in quella ragazza così attraente che, per qualche motivo, aveva deciso di passare del tempo con me. Era come essere cascati nel vagoncino di una strana giostra: in quel momento cercavo di capire che genere di attrazione fosse, ma l’esperienza era talmente intensa da non riuscire a concentrarmici appieno.
 
Poi avevo ricominciato a sentire il suo respiro, e con esso di nuovo, più forte, il suo profumo. Era come qualcosa di vivo, che mi chiamava e mi attirava. Per la prima volta quel giorno il mio sistema di allarme riprese a suonare. Nulla che non riuscissi a tenere sotto controllo, ma era come una insistente voce ai margini del mio pensiero cosciente, che mi diceva di fare attenzione.
 
Fui nuovamente distratto da lei, strappato da questi pensieri, quando uscì da quel suo immobilismo e, come una calamita, prese a seguire col suo corpo ogni mio movimento. Sembrava una marionetta, e io il suo burattinaio; o forse era l’opposto, tanto all’unisono capitava.
 
Il suo corpo, così vicino al mio, si imponeva, presente. Mi sentivo come un dodicenne che si ritrova seduto fianco a fianco con la più carina della classe; non la guarda, non può, sembrerebbe uno stupido, ma sa esattamente dov’è. Si sente la persona più fortunata della terra, ma è spaventato perché potrebbe rovinare tutto in un secondo. Come a quel preadolescente, il mio cervello mi inondava di sensazioni ed emozioni strane e nuove, a cui facevo fatica a dare un nome.
 
Era mai successo che solo lo stare così vicino ad una ragazza mi provocasse questo effetto? Abbassai lo sguardo sulla sua spalla, così vicina alla mia, e mi chiesi per un momento come sarebbe stato colmare quello spazio vuoto ed appoggiarmi a lei, in un contatto apparentemente casuale…
 
La lezione finì col professore che diceva qualcosa a proposito di un saggio da consegnare la settimana seguente, e maledizione io mi ero perso praticamente tutto quello che era stato detto. Mi alzai con un sospiro, stiracchiando le spalle, mentre lei rimaneva seduta ancora per qualche istante.
 
Abbassai il capo e la trovai che mi scrutava con uno sguardo estremamente serio poi, quasi temesse di essere fuori luogo, sorrise allegra. “Caffè?”
 
-
 
Ci avvicinammo ad una delle caffetterie del piccolo isolato commerciale presente all’interno del campus. Durante la lezione la nebbia si era alzata e ora una bassa coltre di nuvole sovrastava tutto. L’aria era umida e fredda.
 
“Ci sediamo fuori?” Chiese Keelin, adocchiando i tavolini in metallo all’esterno dal locale, nessuno dei quali era occupato.
 
“Certo.” Risposi assecondandola, per quanto la giornata non invogliasse a stare all’aperto. “Scegline pure uno, io intanto vado a ordinare. Cosa prendi?”
 
“Un caffè, niente latte e niente zucchero.” Rispose mentre da una delle tasche del giubbino estraeva un piccolo fermaglio per banconote in argento, che sembrava vecchio e non molto femminile. Io la fermai con un cenno della mano. “Mi offendo.” Dissi semplicemente, e lei sorrise, come avevo sperato. Ogni volta che la facevo sorridere era una piccola vittoria per me, mi faceva sentire bene.
 
Quando tornai con i due bicchieri in cartone dei caffè, coperti dal loro coperchio in plastica dal quale scappava un filo di fumo, la vidi seduta ad un tavolino un po’ defilato, intenta ad osservare i ragazzi che camminavano per strada. Presi posto di fronte a lei e le porsi la bevanda, che lei prese fra le sue piccole mani bianche. Ancora una volta, ora che mi ci concentravo, notai che la sua carnagione era estremamente pallida.
 
“Carino il tuo fermasoldi.” Commentai tanto per dire qualcosa, dato che avevo iniziato di nuovo a fissarla.
 
“Era di mio padre, così come la borsa.” Disse, con aria quasi malinconica. All’inizio pensai che il padre di lei fosse morto, ma poi ricordai di una cosa che mi aveva detto al nostro primo incontro. “Lavora qui in città, giusto?” Lei sembra riscuotersi.
 
“Certo, certo. Lavora giù a Bangor. Questi oggetti erano suoi, e ora sono miei. Ho rubacchiato qualche suo cimelio.” Rispose cercando di sembrare più leggera, intenzionata a chiudere lì il discorso. A me scappò un’altra domanda.
 
“Quindi, se lui è a Bangor, stai anche tu in un dormitorio qui al campus?”
 
“No, ho un posto mio fuori dal campus, in città.” Disse, sbrigativa. Non sembrava scocciata, ma il suo sguardo mi scoraggiò dal porle altre domande.
 
Non potei però fare a meno di studiarla, e finalmente trovai, sul suo viso, un piccolo difetto. Aveva, sotto gli occhi, delle occhiaie scure e profonde. Certo, se si guardava quel bellissimo volto nel suo insieme era difficile notarle, ma erano lì. Mi chiesi come mai non le nascondesse, dal momento che spendeva del tempo a truccarsi per rendere il resto della sua pelle così omogenea, per rendere quelle labbra così rosee e piene, e quelle ciglia così lunghe e incurvate… A meno che- No, non era possibile che rotolasse fuori dal letto in quello stato, al mattino. La mia era ingenuità maschile.
 
Rimanemmo in silenzio per qualche minuto, io mi sentivo vagamente a disagio. Lei portò la tazza alle labbra, inclinando appena il bicchiere, dopodiché, senza una parola si alzò sotto il mio sguardo e venne ad accomodarsi sulla sedia accanto a me.
 
“Già, forse è meglio.” Commentai. Il suo sguardo interrogativo pretese chiarimenti. “Beh, se dobbiamo rimanere in silenzio tutto il resto del tempo, tanto vale evitarci l’imbarazzo di guardarci in faccia.” Mi sorpresi a spiegare, esprimendo il mio pensiero in maniera forse un po’ troppo tagliente.
 
Lei sorrise come se la sapesse lunga, continuando a guardare la strada, oltre i tavolini. “Sei un osservatore piuttosto acuto.”
 
“E tu riesci a sembrare criptica nonostante ti esprima in modo molto diretto.” Risposi con un sorriso.
 
Nonostante non avessi ben chiaro il rapporto che si era instaurato tra noi, mi stavo divertendo. Pareva che lei la pensasse allo stesso modo, perché scoppiò in una breve risata argentina, socchiudendo gli occhi. Come la prima volta, quella risata mi prese allo stomaco, con una strana sensazione di calore.
 
Risi con lei, poi continuai. “Scusa, non mi disturbano né il silenzio né il tuo essere qui, è solo che... Non so. Sono sulle spine. Ogni volta che apro bocca mi sembra di fare una figuraccia, e non capisco come mai.” Mentre parlavo mi accorsi di essermi forse scoperto un po’ troppo, quindi abbassai gli occhi sul mio caffè, per poi portarlo alle labbra e berne una copiosa sorsata. Scottava ancora parecchio.
 
“Non preoccuparti, Francis. Stiamo andando molto bene.” Commentò lei, guardandomi di sottecchi prima di distogliere lo sguardo dal mio viso.
 
Stiamo...
 
Non avrebbe dovuto, ma il plurale usato in quella frase mi fece correre un brivido lungo la schiena. Com’era possibile che fossimo un noi? Cosa voleva dire? Probabilmente vedevo cose dove non c’erano, solo che sembrava quasi parlare tra sé e sé piuttosto che rispondermi. Riusciva a mandarmi in confusione anche con la più semplice delle frasi.
 
Continuai a sorseggiare il mio caffè in silenzio, scaldandomi le mani attraverso il cartone del bicchiere, aspettando che fosse lei a parlare. Di minuto in minuto, ripensando al tempo passato assieme e alle parole che avevamo scambiato, non riuscivo proprio a capire se fossimo lì per una ragione, se ci fosse uno scopo o se fosse casuale, e la cosa mi lasciava sempre più confuso. Ogni tanto la sbirciavo, anche lei sorseggiava appena il suo caffè, con lentezza, quasi senza inclinare il bicchiere, per poi riportare le mani sulla superficie in metallo del tavolino. Ad un certo punto non riuscii più a sopportare quel silenzio.
 
“Keelin, perché siamo qui?”
 
Lei si voltò a guardarmi, seria per un istante, poi sorrise con aria ironica. “Non sono l’unica ad essere molto diretta, vero Francis?” Mi inchiodò dov’ero, con quelle sue iridi ambrate. Rimase in silenzio per un paio di secondi, senza sbattere le palpebre, e io sentii il calore inondarmi il viso mentre arrossivo in imbarazzo, forzandomi però a sostenere il suo sguardo.
 
Fu lei la prima a distoglierlo, sbirciando oltre la mia spalla. La sua espressione si fece più leggera. “Salvata dalla campanella.” Sussurrò con aria complice. Prima di capire a cosa si riferisse una mano calò sulla mia spalla, mentre la sedia accanto alla mia veniva spostata.
 
“Eccoti qua! E’ da un’ora che ti cerco! Non mi presenti la tua amica?” Domandò Matt allegro, lasciandovisi cadere.
 
“Ehi Matt…” Lo salutai, non senza un certo disappunto nella voce. “Lei è Keelin. Keelin, Matt, il mio compagno di stanza.”
 
Lui allungò la mano verso di lei, per stringergliela al di sopra del tavolino. Proprio in quel momento lei alzò ancora il bicchiere del caffè, portandolo al viso con entrambe le mani. I suoi occhi si strinsero in un sorriso amichevole mentre li fissava in quelli del mio amico, e dovetti ammettere che l’effetto di quegli occhi visto su un’altra persona era decisamente comico. Matt, a bocca leggermente aperta, si schiarì la voce mentre le sue orecchie si tingevano di scarlatto. Ritirò lentamente la mano, come in trance, poi voltò il viso verso di me, ma i suoi occhi rimanevano saldamente in quelli di lei. Non potei trattenermi dal sorridere.
 
Finalmente lei lo lasciò andare, portando lo sguardo sul tavolino mentre abbassava il caffè. Libero dall’incantesimo Matt ritrovò la parola. “Allora…” iniziò, mentre mi lanciò un’occhiata decisamente stupita. “… pranziamo? Venite a mangiare un boccone?”
 
Stupito abbassai lo sguardo sull’orologio che portavo al polso, incredulo che fosse passato tutto quel tempo. Stavo per rispondere, ma Keelin mi precedette. “Grazie Matt, ma torno a casa a mangiare. Magari ci vediamo nei prossimo giorni…” Lasciò la frase in sospeso, mentre il suo sguardo si spostava ancora su di me.
 
“Certo, come no. C’è una festicciola domani sera al nostro dormitorio, magari ti va di fare un salto. Si beve qualcosa, un po’ di musica. Nella norma insomma…” Sentii rispondere Matt. Keelin, appoggiando una mano al tavolino, si alzò in piedi. Non capii il perché, ma continuai a fissare per qualche secondo il punto da cui la sua mano si era staccata. “Sembra carino, ci penso su.” Disse, con tono leggero. “Alla prossima ragazzi.” Con movimenti aggraziati, passando dietro alla mia sedia, si allontanò da noi lasciando cadere il bicchiere che ancora aveva in mano in un cestino. Il tonfo che produsse mi fece capire che era praticamente pieno.
 
“Alla prossima!” Salutò allegramente Matt, strappando il mio sguardo dal tavolino. Mentre lei si girava per un’ultima occhiata, la salutai con la mano. Mi voltai quindi verso Matt. “Una festa?”
 
“Sì. Sì una festa. Non lo sa nessuno perché l’ho deciso adesso, ma la organizzo in due minuti e lo faccio per quella lì. E per te amico mio. Quindi vedi di sfruttare l’occasione, oppure mi intrometto io. Cosa cavolo state combinando, comunque?” Mi chiese d’un fiato, chinandosi verso di me.
 
Bella domanda… “Sto ancora cercando di capirlo.” Risposi sinceramente. “Dai, andiamo a mangiare qualcosa.”
 
 
***
 
 
Mi sentivo su di giri mentre, a piedi, tornavo verso il mio magazzino. Certo, avevo commesso un paio di sviste, come quella di parlare di mio padre al passato (e maledizione, non si era fatto scappare neppure quella), ma nel complesso mi pareva che la mattinata fosse andata molto bene.
 
Stargli accanto era stato via via più semplice, ed ero certa che lo sarebbe stato ancora di più la prossima volta. Addirittura, sentivo già l’aspettativa per la festa di sabato sera. Come una ragazzina. Sorrisi tra me, svoltando l’ultimo angolo, e poi mi fermai.
 
Davanti all’ingresso del magazzino c’erano due grossi furgoni neri ed una bassa macchina sportiva verde brillante, tutti coi vetri oscurati. Un refolo d’aria portò alle mie narici l’odore di vampiro.
 
Mi avvicinai con circospezione, la traccia era confusa, ma quando fui alla porta quella si spalancò, rivelando una sagoma mostruosamente grande. Mi rilassai. “Ciao Emmet.”
 
“Ehi Kay. Entra, ti stavamo aspettando. Io vi raggiungo subito!” Ammicò mentre mi passava a fianco, diretto ad uno dei furgoni. Io entrai nel mio magazzino con un pessimo presentimento, che non fu disatteso.
 
Tutta la mia roba era impilata in uno degli angoli più lontani, inscatolata ed imballata con ordine, in un quasi perfetto parallelepipedo alto fino al soffitto, in modo tale da occupare meno superficie possibile sul pavimento. La cosa mi innervosì non poco, sono sempre stata gelosa delle mie cose, ma dovevo ammettere che, così, lo spazio di quell’unico locale sembrava davvero molto grande. Era stato anche ripulito a fondo, pavimento e pareti, persino i vetri delle finestre alte e strette, che erano incrostati da anni di sporcizia, e le travi in acciaio a sostegno del tetto, che attraversavano il locale a quattro metri dal pavimento.
 
Su una di quelle travi stava appollaiata Alice, intenta a guardarsi attorno, gesticolando con le mani come se stesse disegnando nell’aria. Appoggiato ad una parerete con le mani in tasca c’era il suo compagno, Jasper. Mi sorrise ironico, salutandomi con un cenno del capo, che io ricambiai. L’altra vampira presente mi si avvicinò a braccia conserte, con passo elegante ed aggraziato, sorridendomi come se volesse scusarsi. “Non siamo riusciti a fermarla.”
 
“Non fa niente Bella, non preoccuparti.” Sorrisi, cercando di nascondere il fastidio che provavo per quell’invasione inaspettata. “Di cosa si tratta, comunque?”
 
Alice atterrò con un fruscio di fronte a me, guardandomi con rimprovero. “La colpa è tutta tua, signorina. Gli hai detto tu di avere un posto tuo, fuori dal campus. Fidati, non riuscirai a tenerlo lontano da qui troppo a lungo.”
 
Io aggrottai le sopracciglia a quella sua spiegazione, scocciata soprattutto dalla confidenza con cui parlava di un argomento che per me era ancora acerbo, ossia il mio rapporto con Francis. Dovevo ancora capire di cosa si trattasse, e lei vi si intrometteva con leggerezza. Aprii la bocca per ribattere ma lei, ovviamente, mi anticipò “- sì, sì, hai ragione. Sono insopportabile ed invadente. Resta comunque il fatto che sarà meglio che questo posto non sembri un’autofficina dismessa se per caso qualche umano venisse a metterci il naso, non ti pare?” Chiese, calcando salacemente la parola umano.
 
Riconoscendomi sconfitta sospirai. “Immagino che tu abbia ragione...” Per tutta risposta lei mi gettò le braccia al collo, e io non potei fare altro che sorridere.
 
“Non te ne pentirai, te lo prometto!” Strillò eccitata, per poi girarsi verso gli altri due. “Jasper, vai fuori ad aiutare Emmet a scaricare! Bella, prendi gli schizzi, ho bisogno che Keelin decida quale preferisce!” Comandò con cipiglio.
 
Prima di muoversi Bella mi poggiò una mano sulla spalla. “Non preoccuparti troppo, io sono qui apposta per contenerla.” Mi disse sorridendo.
 
Per tutta risposta si beccò una linguaccia da Alice.
 
 
***
 
 
Ero entrato in bagno dopo che Matt si era fatto la doccia, ed il locale era invaso dal vapore. Presi il mio spazzolino con una mano, mentre passai l’altra sullo specchio, per potermi guardare in faccia.
 
Fu come se il pezzo di un puzzle prendesse posto nella mia mente. Non fu una rivelazione, fu piuttosto come quando si ha in testa un motivetto e, dopo ore passate a canticchiarlo, il cervello finalmente decide di collaborare e rivelarne autore e titolo.
 
Le mie mani, appoggiate per poco tempo sul piano in metallo del tavolino del bar. La sensazione di freddo. La sagoma delle mie mani tracciata dalla condensa quando le sollevo, perché il freddo è troppo pungente.
 
Le sue mani, poggiate per tutto il tempo su quella superficie. Lei che si alza, aiutandosi con la destra, sostenendosi al metallo freddo. Nessuna impronta di condensa.
 
Bizzarro.
 
 
 
 
 
Eccomi con un capitolo non esattamente di transizione, anche se lo sembra. Si instaura una dinamica nuova tra i due protagonisti e, questa volta, non richiede azione e sensazioni spasmodiche, ma una semplice chiacchierata. Che ve ne pare?
 Capitolo come dicevo dal ritmo decisamente più lento rispetto al precedente, inizia la partita a scacchi tra Francis e Keelin. Spero di riuscire a renderla interessante, di non far sembrare Keelin una sprovveduta quando si lascerà scappare qualcosa di troppo, e di non far apparire Francis come una sorta di Sherlock Holmes se e quando metterà insieme i pezzi.
Come vedete parlo al futuro, e con una certa sicurezza, ed è perché ho una traccia abbastanza dettagliata per i prossimi capitoli. Si tratta solo di trovare il tempo è il momento per scriverli, per cui siate fiduciose e soprattutto, pazienti.
 Nel frattempo, due parole per indirizzarmi e farmi capire come sto andando sono sempre benaccette e utilissime, grazie in anticipo a chiunque mi sostiene interagendo con questa storia.
 
A presto!
 
N.

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Capitolo 5
*** Ripresa ***


Alternativa

Ripresa

 
11:38 - Ciao! Mi ricordi a che ora è la festa stasera? K.
Alle 20. – 11:41
Mi ricordi quando ti ho dato il mio numero? – 11:44
11:44 – A più tardi.
 
 
 
 
Eh sì, sono di nuovo qui. Vediamo come va, ho due capitoli già scritti e un terzo che bolle in pentola, questo è solo un piccolo aperitivo.
Due righe su questa lunga assenza nel prossimo capitolo, entro la settimana.
A presto!
N.

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Capitolo 6
*** Pensieri ***


Tre anni dopo riprendiamo in mano la storia di Francis e Keelin. E’ un bel po’ di tempo. Che ho fatto? Niente di che…
 
Ho perso un lavoro, ne ho trovato un altro, è terminato anche il secondo, ne ho iniziato un terzo, che è quello attuale. E’ stata una grande sfida e mi ha preso e prende del tempo. In tutto questo, che sono una serie di piccole cose, sono diventato papà di una splendida bimba che ha quasi due anni e che è la gioia e il cuore della mia vita e di quella della mia Signora. Ad oggi, forse perché la bimba inizia a stare ogni tanto per i fatti suoi, forse perché il lavoro inizia a non essere solo un delirio di cose nuove, mi trovo ad avere di nuovo del tempo per me, e varie cose riiniziano a solleticarmi l’interno della testa. Tra queste cose ci sono anche i due personaggi di cui sopra, dei quali è sempre rimasta una traccia della storia nei miei pensieri. La settimana scorsa, in uno di questi momenti, ho riaperto la cartella delle fanfic sul PC, ritrovando già scritti i primi tre periodi di questo capitolo. Ho ripreso a battere sui tasti, e ho capito che qualche altro capitolo sarebbe saltato fuori.
 
Spero vi piaccia, ci aggiorniamo in fondo.
 
Buona lettura!
 
 

Alternativa
Pensieri

 
 
Mi grattai con fastidio la base del collo. Un filo fuori posto del colletto della camicia che indossavo continuava a farsi sentire sempre nello stesso punto, ostinatamente. Stupida camicia.
 
Erano da poco passate le 19, e stavo dando una mano a Matt e ai suoi “tipi” a sistemare la sala. Una cosa va riconosciuta a Matt: conosce un “tipo” in grado di occuparsi un po’ di tutto, e quando bisogna organizzare una festa in un pomeriggio la cosa torna parecchio utile.
 
Nella grande sala-studio del dormitorio i tavoli erano stati spostati per creare un ambiente più adeguato alla serata. Alcuni erano allineati lungo le pareti mentre altri, in un angolo, sembravano i tavolini di un bar con le sedie intorno. Una zona vuota a un capo del locale sarebbe diventata la pista da ballo. Il “tipo” della musica e quello delle luci stavano sistemando la postazione del DJ. Io davo una mano a quelli delle vettovaglie: patatine, salatini, schifezze varie; birra in lattine, birra in bottiglie, in fusti e anche qualcosa di più forte.
 
Le porte che davano sul prato sul retro dell’edificio erano state aperte. Tavoli, sedie, luci e lanterne erano state piazzate anche all’esterno. Non era prevista pioggia quella sera e, anche se la temperatura non era l’ideale, a sentire Matt la voce era girata parecchio e questa sarebbe diventata una specie di festa di “Bentornati!” per tutto il campus, o qualcosa di simile. Serviva quindi tutto lo spazio che si poteva recuperare.
 
“Occhio dietro!”
 
Mi scansai per lasciar passare Matt, che trasportava uno scatolone colmo di grossi bicchieri di plastica rossi, poi lo seguii per aiutarlo a disporli sui tavoli. Mentre lavoravamo mi accorsi di una sua occhiata divertita.
 
“Che c’è?” Chiesi, già intuendo il tono della domanda che sarebbe seguita.
 
“Ti sei fatto bello…” Rispose lui, accennando alla camicia. “Vuol dire che non abbiamo messo in piedi tutto questo per niente?” Chiese, accennando ovviamente alla presenza di Keelin.
 
“Mi ha chiesto l’ora della festa, quindi immagino che venga.” Confermai. “Tra l’altro mi ha scritto, ma io non le ho mai dato il mio numero…” Commentai tra me e me.
 
“Lo ha chiesto a me stamattina, ha scritto anche a me.”
 
“E il tuo numero chi glielo ha dato?” Chiesi curioso. Matt si fermò per un istante, come ponderando la cosa, poi fece spallucce. “Il mio numero ce l’ha mezzo mondo, lo avrà recuperato da qualcuno che conosce.”
 
Il suo commento chiuse la questione, almeno per lui. Io valutavo invece la sua spiegazione, e la cosa continuava a sembrarmi strana. Lei era nuova qui, appena arrivata a detta sua. Non l’avevo mai vista con nessuno, non aveva mai parlato di nessun conoscente all’interno del campus... Un altro mistero.
 
Ma era davvero un altro mistero?
 
Magari, effettivamente, aveva chiesto il numero di Matt a qualche compagno di corso. Non era così improbabile. Doveva pur frequentare degli altri corsi, oltre a quello a cui l’avevo vista partecipare io, o no?
 
La verità era che ogni cosa, ogni accenno a Keelin mi incuriosiva. Ero ansioso, quasi smanioso di sapere di più, di conoscerla meglio, di passare più tempo con lei. Man mano che l’ora della festa si avvicinava ero passato da una leggera inquietudine ad un’agitazione nervosa. Continuavo a spostarmi, a guardarmi nelle varie superfici riflettenti, a valutare se mi ero vestito in modo appropriato, pensando a come stavano i miei capelli, cercando di inventarmi cosa avrei detto, come l’avrei salutata…
 
Alle otto meno dieci salii in camera a cercare un maglione non troppo sciatto da mettere sopra la camicia. La temperatura era scesa ancora, e le porte esterne della sala sarebbero rimaste aperte sulla notte.
 
La gente iniziava ad arrivare alla spicciolata, la musica già si faceva strada in quella zona del campus, e le luci al neon della sala-studio erano state spente, in favore delle luci colorate e delle lanterne. Diversi studenti già mangiavano e bevevano in capannelli immersi in chiacchere e schiamazzi a voce alta, godendosi l’atmosfera rilassata.
 
Io mi guardavo attorno, cercando una sagoma familiare che non riuscii ad individuare.
 
Alle otto e cinque iniziai a sprofondare in una delusione immotivata, contemplando per la prima volta la possibilità che non si sarebbe fatta vedere. In fondo era una cosa che faceva spesso. A volte c’era, a volte no…
 
Spesso? Ma cosa stavo dicendo? La conoscevo da troppo poco tempo per lasciarmi andare a supposizioni sulle sue abitudini. Soprattutto se dovevo basarmi sulla mia incompleta e confusa esperienza dei giorni passati.
 
Sospirai frustrato, staccandomi dal muro e avviandomi verso uno dei tavoli, per prendere una patatina, ma mi fermai a metà strada, quando il mio telefono vibrò nella tasca dei pantaloni.

***
 
20:07 - Sono al parcheggio, mi vieni a prendere?
 
Arrivo - 20:07
 
***
 
In piedi nel piazzale mi specchiai ancora una volta nello scuro finestrino dell’auto.
 
Desiderai che tutte quelle scemenze sui vampiri fossero state vere, e che non fosse stato possibile far riflettere la nostra immagine! Ero peggio di una ragazzina alla prima uscita, mi guardavo continuamente, chiedendomi come mi avrebbe vista Francis. Un pensiero continuava a farsi largo, fastidioso come un sasso in una scarpa, apposta per rovinare il mio umore: come vuoi che ti veda? Potresti presentarti con addosso un sacco di juta sporco e la faccia imbrattata di fango, e ti troverebbe attraente in ogni caso. Sei costruita apposta per questo, stupida!
 
Il viso dai grandi occhi ambrati si strinse in una smorfia irritata sul finestrino, resa ancora più grottesca dalla deformazione dovuta alla superficie curva. Mi voltai, non sopportando quella vista, e provai a calmarmi prendendo un profondo respiro, carico degli odori dell’aria notturna. Lisciai il davanti del corto doppiopetto militare scuro che indossavo, e misi le mai nelle tasche dei jeans.
 
Quel pensiero però, per quanto fastidioso, non era del tutto infondato.
 
Come potevo avere delle interazioni normali con lui, se in ogni momento era attirato verso di me con la stupidità annebbiata della preda che cade nella trappola? Come potevo fidarmi delle sue reazioni, e come potevo calibrare correttamente le mie azioni, sapendo questo? Desideravo rapportarmi con lui da pari a pari, ma era una cosa anche solo lontanamente possibile?
 
Ancora a casa, mentre mi preparavo, questa serata mi era sembrata un’idea simpatica per approfondire le possibilità che questo umano aveva fatto comparire nella mia esistenza. Distratta un po’ dai vestiti, i trucchi, i prodotti con cui Alice aveva riempito la mia nuova casa, avevo giocato a prepararmi per la festa, e questo mi aveva fatto tornare ad essere la ragazza che apparivo. Non mi ero soffermata sui lati ancora incogniti di tutta questa strana situazione.
 
La storia di Edward doveva farmi riflettere. Anche inconsciamente rischiavo di essere “troppo” per la mente umana di Francis; potevo farlo mio quasi con noncuranza, privarlo della sua libertà e della sua capacità di ragionare a piacimento, piegarlo alla mia volontà e spingerlo a compiere azioni stupide o addirittura pericolose. Questo era già di per sé un grosso problema, e poteva accadere con qualsiasi umano.
 
Francis però non era uno qualsiasi. Non per me.
 
Anche io potevo rischiare di diventare stupida e irrazionale in sua presenza, e la mia naturale curiosità mi spingeva a tratti a gettare al vento ogni cautela e ad essere distratta. Quanti piccoli errori avevo già commesso? Cosa stavo facendo? La situazione era una bomba che poteva esplodere da un momento all’altro!
 
Inspirai ancora.
 
Non stavo pensando chiaramente, e non stavo rendendo giustizia a Francis. Non era né stupido né incosciente come il resto della sua specie. C’era da considerare quella sua strana capacità di discernere il pericolo: aveva un meccanismo di sicurezza che scattava in anticipo nei momenti peggiori, ben visibile sia a me che a lui. Non aveva sbagliato finora.
 
Inoltre, dono o non dono, era estremamente percettivo. Avevo commesso degli errori, e lui li aveva notati tutti, non gli era scappata nemmeno una mia distrazione. Questo fattore mi doveva spingere ad essere ancora più attenta.
 
C’erano i presupposti per una catastrofe, vero, ma c’erano anche una serie di importanti misure di sicurezza in essere, e a quelle potevo appoggiarmi.
 
La brezza mi portò un profumo che non aveva motivo di essere così familiare, ma che ormai di fatto lo era. In fondo al viale, sotto la luce dei lampioni, Francis camminava verso di me. Il passo era spedito, come impaziente. Cullai per un istante il pensiero che volesse vedere me e per questo si affrettasse anche se, a ben guardare il modo in cui camminava (mani in tasca, braccia strette ai fianchi) poteva tranquillamente essere per il freddo.
 
Un senso di delusione agrodolce mi fece sorridere di me stessa. Mi sentivo davvero una ragazzetta.
 
Attesi con pazienza che Francis mi vedesse; io lo avevo scorto ma, con quella luce, ero ancora troppo distante per i suoi occhi. Mi vide dopo un minuto e accelerò il passo. La ragazzetta dentro di me, notando il suo cambio di passo, esultò.
 
Mi apprestai a salutarlo, con un mezzo sorriso già affiorato alle labbra quando lui, giunto di fronte a me, si sporse in avanti facendo per appoggiare una mano sul mio braccio mentre accennava a portare la sua guancia alla mia. Il mio viso si impietrii e istintivamente mi inclinai lateralmente, allontanandomi da quel potenziale contatto.
 
“Cia-” Il suo saluto si interruppe nell’aria, mentre a sua volta si ritraeva in fretta, notando il mio movimento. Si schiarì la gola in evidente imbarazzo, non nascondendo un’occhiata interrogativa. Sorrisi con naturalezza in risposta, cercando di riprendermi in fretta. “Ciao, Francis.”
 
Se avessi avuto un cuore funzionante, probabilmente in quel momento lo si sarebbe potuto sentire a metri di distanza. Avrei avuto senza dubbio il respiro affannato. Tutta la sicurezza e la confidenza che pensavo di aver raccolto si era dispersa come sabba nel vento.
 
Che cretina, non ero durata nemmeno un secondo. Nemmeno il primo saluto.
 
Agli umani piace il contatto fisico, è una cosa istintuale. I vampiri non la disdegnano, soprattutto con chi conoscono di più, è un modo di comunicare. Ma le due cose non possono viaggiare assieme. La mano sul braccio forse. Con i vestiti a fare da filtro non avrebbe notato né la consistenza né la temperatura, avrebbe potuto essere un contatto normale. Ma il bacio sulla guancia… Sarebbe stato come appoggiare il viso ad un muro, la mia carne non avrebbe ceduto, non si sarebbe deformata. Sarebbe stata fredda come l’aria intorno a noi. Cosa avrebbe pensato? Cosa avrebbe potuto dedurre?
 
E poi, cosa aveva effettivamente dedotto? Attento com’era avrebbe valutato il modo in cui mi ero ritratta. Avrebbe pensato che ero timida, o che ero una sociopatica? Avrebbe dato la colpa a me o a sé stesso? Magari avrebbe pensato che non mi facesse piacere vederlo… Tutte queste idee si affastellavano nella mia mente, mentre il mio viso non faceva altro che sorridere con una disinvoltura di facciata.
 
Lo sentii prendere fiato, probabilmente per rispondere al mio saluto. Il suo sguardo si fece attento, ancor più curioso, e dalle labbra gli sfuggì un sussurro. “Wow…”
 
Mi domandai se avessi impresso un po’ troppa intensità nel mio sorriso, cercando di distrarlo con forse un po’ troppa potenza, ma la sua reazione mi parve comunque esagerata. Stavo già per fare una battuta, per riportarlo alla realtà, quando lui si spostò lateralmente di un passo, indicando qualcosa oltre le mie spalle.
 
“Questa non è tua, vero?” Mi girai, per vedere cos’aveva catturato la sua attenzione, e mi ritrovai a guardare la macchina di Rosalie. Francis si era portato di fronte al cofano, in ammirazione. Annuii, in risposta alla sua domanda. “È stata un regalo.”
 
Lui mi guardò, sconvolto. “Un regalo?” La sua voce quasi si alzò di un’ottava sul finale della domanda. Non mi diede il tempo di proseguire. “È una Shelby GT 500 del ’68!” Disse indicandola, come se io non fossi in grado di vederla, o se quell’informazione dovesse aggiungere qualcosa al fatto che era un attrezzo con le ruote per il trasporto di persone. Lo guardai con aria interrogativa e lui si fece serio. “Non se ne trovano in giro sotto i 120.000 dollari...” Maledizione! Feci un notevole sforzo per mantenere il controllo a quel punto, e mi appuntai mentalmente di cantarne quattro a quella bionda col gusto per le auto sportive.
 
Feci spallucce, cercando di minimizzare. Lo sguardo di Francis continuava a passare da me all’auto, incredulo.
 
Mi stavo sicuramente sbagliando, ma sembrava quasi che io e l’auto ci stessimo contendendo l’attenzione di Francis. Tra l’altro, in quel momento, sembrava ci fosse un pareggio. Volevo interpretarlo come un pareggio, la mia dignità mi vietava categoricamente di giudicarmi in svantaggio contro quell’insieme di lamiere dipinte e cromature. L’irritazione che provavo si fece più acuta quando lo vidi allungare la mano verso il simbolo sul cofano, per toccarlo. Improvvisamente, stizzita, tirai fuori le chiavi dalla tasca e le lanciai (con forza misurata) verso di lui.
 
“Vi lascio soli se vuoi, c’è una festa a cui volevo andare.” Buttai lì, e mi girai avviandomi prima ancora che il mazzo di chiavi terminasse il suo volo.

***
 
Guardai le chiavi, che avevo preso al volo nella destra. Poi guardai la macchina. Poi guardai la ragazza, che si era avviata verso i dormitori senza di me. Poi di nuovo le chiavi di una macchina non mia, di un valore spropositato. Poi di nuovo la ragazza, che possedeva quella macchina, e che a quanto pareva avevo offeso in qualche strana maniera. Un ultimo sguardo all’aggressiva presa d’aria sul cofano, poi mi riscossi e partii all’inseguimento, cercando di capire cosa fosse successo.
 
Ero arrivato, e mi aspettava sorridendo. Splendida come al solito, con quel corto cappotto e le scarpe dal tacco alto.
 
Stavo pensando a come salutarla da quando avevo lasciato la festa. Mi ero accorto che non c’era ancora stato tra noi un contatto fisico. Nulla di strano ovviamente, ci eravamo presentati senza stringerci la mano e poi non c’erano state altre occasioni. Avevo però notato come avesse palesemente evitato di stringere la mano a Matt quando si erano visti la prima volta. Forse era una cosa che le dava fastidio, o forse ero ancora io che cercavo di leggere troppe cose dove probabilmente non c’era nulla.
 
Avevo deciso di provare, pensando che un lieve contatto sul braccio e un semplice ed informale bacio sulla guancia potevano andare bene. Era quello che si faceva, che facevano tutti. Presa quella decisione, non avevo pensato ad altro per tutto il tragitto. Il suo profumo, i suoi capelli. L’idea di avvicinarmi tanto a lei da poter provare il calore del suo viso… Era abbastanza da far girare la testa a chiunque, bella com’era.
 
Avevo cercato di essere disinvolto, quasi automatico, eppure lei si era ritirata prontamente. L’avevo trovata ancora sorridente, ma mi ero sentito improvvisamente un imbecille imbranato. Avevo osato troppo? Ero risultato viscido o inopportuno? Il suo viso era come quello di una sfinge. Scolpito, perfetto e illeggibile. Ero talmente in imbarazzo che avevo distolto lo sguardo, e notato la macchina.
 
Tralasciando forse la mia eccessiva passione, lei mi era sembrata quasi irritata dal fatto che l’avessi notata. Eppure una persona che guida quell’auto non può non sapere di cosa si tratta! Non può non esserne appassionata! Non è una cosa che si trova dal concessionario, è un articolo da collezione. E invece sembrava che volesse addirittura evitare il discorso. Non capivo.
 
Riuscii finalmente ad affiancarmi a lei che, a discapito delle scarpe e della falcata piccola, procedeva disinvolta con un passo estremamente veloce.
 
“Ehi…” Esordii, incerto.
 
“Ehi.” Fece lei, imperscrutabile. Imprecai dentro di me. Non stava andando come immaginavo.
 
“Ti scoccia se ti accompagno?” Chiesi con tono vagamente ironico, cercando di mostrarmi divertito e provando a racimolare un minimo di sicurezza. Parve funzionare, lei finalmente sorrise.
 
“Certo che no.” Disse, con voce calma. Poi inclinò la testa, in ascolto. “Sento della musica?” Chiese, alzando lo sguardo verso di me.
 
Io la guardai stupito, doveva avere un orecchio eccezionale. Eravamo a qualche centinaio di metri dal dormitorio, e un braccio della foresta che circondava il campus si frapponeva tra noi e l’edificio in linea d’aria, avremmo dovuto aggirare gli alberi per arrivare alla festa. Non era possibile che sentisse già-
 
In quel momento le percussioni di un pezzo ritmato raggiusero anche me. Probabilmente i ragazzi avevano alzato il volume rispetto a quando me ne ero andato. Mi voltai per risponderle, gustandomi la vista del suo viso, che aveva alzato nella mia direzione. “Sì, c’è tutto stasera. DJ, cibo, bibite… Hanno anche allestito tavoli e luci all’esterno. Sembra che si aspettassero una risposta massiccia all’invito.”
 
“E non si sbagliavano.” Disse, come se già potesse vedere il dormitorio, ancora nascosto. Non sembrava particolarmente entusiasta. “E’ da un po’ che non vado ad una festa.”
 
“Le scarpe però mi sembrano quelle giuste per l’occasione.” Commentai io, sorridendo. “Anche se non so come fai a camminare così veloce e senza guardare in avanti.” Stava ancora guardandomi in viso, senza imbarazzo e senza intenzione di distogliere da me quegli occhi che, sotto la luce led bianca dei lampioni, erano quasi gialli.
 
Sorrise in risposta, alzando una mano verso il colletto della mia camicia, arrivando quasi a sfiorarlo. “Vedo che ti sei messo in ghingheri anche tu.”
 
Un po’ il gesto, un po’ il complimento e il suo sorriso, mi ritrovai improvvisamente con la bocca estremamente asciutta. “Ah- Non è… È solo una camicia.” Conclusi eloquente. Lei Riprese a guardare in avanti, io sorrisi. Forse la serata non era persa del tutto.
 
Costeggiammo il bosco per qualche decina di metri poi, dietro l’ultima curva, comparve il dormitorio. La musica era ad un volume piuttosto alto, lo si intuiva già da quella distanza. Sembrava inoltre essersi presentato tutto il mezzo campus che aveva il numero di Matt, e forse anche qualcuno di più. Si vedevano persone intente a chiacchierare e bere già sul prato antistante l’edificio, quindi probabilmente l’interno e il retro erano gremiti.
 
“Non scherzavi.” Disse lei, cercando di dissimulare una traccia di incertezza nella voce.
 
“Già… Un successone…”
 
Rallentammo il passo all’unisono, quasi fermandoci a quella che era per entrambi una distanza di sicurezza adeguata. Senza accorgercene ci stavamo comportando tutti e due allo stesso modo, come se stessimo approcciando un covo di nemici piuttosto che una festa in pieno corso. Ci guardammo di sottecchi, consapevoli entrambi del comportamento dell’altro, e lei emise una risatina che servì a rompere un po’ la tensione. “Che succede? Non è il tuo ambiente naturale, Francis?”
 
“Non esattamente. Mi serve però solo un attimo di auto-convincimento, poi posso stare in mezzo a questo gran macello per quanto vogliamo.” Risposi sorridendo, con sincerità.
 
Nemmeno lei sembrava particolarmente interessata a buttarsi in mezzo alla folla. Rise di nuovo, più apertamente, poi si chinò verso di me con aria complice, le mani ancora nelle tasche del jeans. “Credimi, ti capisco perfettamente.”
 
Fece poi una mezza piroetta sul posto, quasi danzando, e un paio di passi all’indietro, guardandomi. “Forza, non ti va di portarmi ad una festa?” Mi sorrise quasi maliziosa, e poi si girò, continuando a camminare verso le luci colorate e la musica.
 
Quell’occhiata, quei capelli che si muovevano nell’aria. Il suo modo disinvolto e armonico di muoversi, il movimento delle sue spalle e dei suoi fianchi mentre si allontanava da me. L’idea che io stessi portando lei da qualche parte era ridicola, senza senso.
 
Ero io che, vedendola allontanarsi, ero pronto a seguirla ovunque andasse quella sera.
 

 
Inizialmente tutta la festa doveva svolgersi in un unico capitolo, ma come i nostri due protagonisti, sono anche io un po’ intimidito. Ho tenuto il capitolo sul breve, cercando di scuotermi di dosso la ruggine. Fatemi sapere che ne pensate e ci sentiamo sul prossimo capitolo, che non dovrebbe tardare troppo.
 
Spero vi piaccia e vi incuriosisca.
 
A presto!
 
N.

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