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di fillyvi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** La mia vita senza te ***
Capitolo 3: *** Il ciliegio in fiore ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prima di inziare vi prego di essere clemente, è la mia prima volta...
 
“Amore non muta in poche ore o settimane,
ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio…”
 
Un pensiero meraviglioso, ho sempre adorato Shakespeare.
Chiusi il libro e tornai al mondo reale; mi aspettava un’altra giornata noiosa. Come ogni altro giorno anche quello l’avrei trascorso tra la scuola e la mia camera.
Poggiai il libro sul comodino e mi rigettai sul letto. Voltandomi verso lo specchio tornarono i soliti pensieri.
Ormai erano passati nove mesi, ma ancora non potevo accettare di averlo perso per sempre. Ogni mattina speravo vivamente di svegliarmi da quell’incubo, ma non c’era niente da fare, era la pura realtà. Mi aveva abbandonata, mi aveva lasciata troppo presto.
L’ultima volta che incrociai i suoi occhi mi sorrise; mi disse che mi amava; lo salutai con un dolce bacio come tutte le sere. Non avevo neanche mai preso in considerazione di ricevere quella notizia; era doloroso solo pensarci.
Fu come svegliarsi con una secchiata d’acqua gelida e subito dopo lo choc, l’oblio.
Tre semplici parole per distruggere una vita, “Non c’è più” e la mia vita finì con la sua.
Fino all’ultimo avevo sperato che guarisse. Lo avevo visto trasformarsi in poco tempo, quasi non sembrava più lui, ma era ugualmente meraviglioso e ogni giorno lo amavo sempre di più, con più forza.
Negli ultimi tempi mi era addirittura sembrato che stesse migliorando, o forse volevo convincermi che fosse così. Sfortunatamente la leucemia non perdona. A soli diciannove anni me l’ha portato via, portando con sé i nostri sogni, i nostri progetti di una vita insieme.
Ricordo ancora quel giorno, come potrei mai dimenticarlo.
Era presto, troppo presto quando mia madre venne a svegliarmi. La sera prima ero rimasta con Daniel fino a tardi; non riuscivo proprio a staccarmi da lui. Forse dentro di me già sapevo; una parte nascosta del mio essere sapeva che quella sera sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei visto, che l’avrei potuto sfiorare.
Aprendo gli occhi mi lamentai perché avevo sonno, ma appena incrocia lo sguardo di mia madre qualcosa dentro di me cambiò. Lo sentivo. Sentii una strana sensazione scorrermi dentro facendomi rizzare i peli lungo la schiena, la preoccupazione e la paura strisciare dentro di me come una serpe velenoso.
«Mamma, cosa c’è?» dissi. La mia voce era sconvolta.
Non ci fu una risposta, ma solo un singhiozzo, e una lacrima le rigò il viso.
Infondo capii subito cosa stava succedendo, ma non volevo crederci, non potevo crederci. Non poteva essere vero, non doveva.
«Mamma!» cercai di urlare, ma la voce mi morì in gola.
«Mi dispiace Alice.» sussurrò singhiozzando stringendomi la mano tanto forte da farmi male. «Mi dispiace. Non c’è più.»
In quel momento non provai nulla, solo un’enorme sensazione di vuoto. Poi di colpo mi assalirono le vertigini. Mi sentii come sull’orlo di un precipizio, e a un tratto sentii la terra mancarmi sotto i piedi. Stavo precipitando.
Non potevo crederci. Mi rifiutavo totalmente di credere a quelle parole. Non era possibile, fino a poche ore prima avevamo parlato e riso insieme.
Ignorando mia madre mi alzai dal letto e indossai la prima cosa che mi capitò a tiro.
«Alice, cosa stai facendo?» mi chiedeva seguendomi e cercando di fermarmi. «Alice non fare così ti prego, dimmi qualcosa.»
La sentivo piangere, era un pianto disperato. Era preoccupata per me. Ma io a stento la sentivo, non m’importava che stesse piangendo. Non m’importava di nulla.
«Alice!» urlò disperata afferrandomi per un braccio.
«Basta!» urlai a mia volta ritraendo il braccio e senza neanche volerlo comincia a correre. Mi precipitai giù per le scale e in un lampo mi ritrovai fuori.
Era il penultimo giorno di maggio, ormai era arrivata l’estate, eppure quella mattina il cielo sembrava uno di quei grigi e cupi mattini invernali. Sentii un brivido percorrermi la schiena. Era presto, in giro non c’era un’anima viva. M’incamminai velocemente lungo il viale. Comminavo sempre più veloce e giunta sulla strada cominciai a correre. Non avevo una meta precisa, non m’importava di nulla. Correvo e sentivo il vento sul viso, correvo così veloce da non avere più fiato in corpo, le gambe mi facevano male, ma non volevano fermarsi. Non potevo fermarmi, dovevo continuare a correre.
Vidi un lampo squarciare il cielo grigio, e subito dopo sentii il frastuono rombante di un tuono. Stava per cominciare a piovere, ma non m’importava. Dopo poco, le prime gocce di pioggia cominciarono a bagnarmi il viso. Anche il cielo piangeva, e se poteva farlo lui, perché non dovevo farlo io. Sentivo gli occhi bruciarmi e le lacrime premere per uscire. Fino a quel punto ero riuscita a trattenere il pianto, però infine persi ogni controllo sul mio corpo. Le lacrime uscivano senza sosta e le mie gambe continuavano a correre, in una direzione precisa, anche se non capivo quale. Arrivai alla spiaggia senza più fiato. La spiaggia, quanti ricordi erano legati a quel posto. Altri cento metri e poi c’era il molo. Ricordai la prima volta che avevo trovato il coraggio per tuffarmi. Naturalmente non era stata una mia iniziativa. Daniel aveva insistito tanto affinché ci tuffassimo insieme.
Come allora senza pensare a nulla presi la rincorsa e dopo un attimo sentii la terra svanire da sotto i piedi. Fu un secondo, ma in quell’istante mi sembrò di volare.
Mi ritrovai da sola nell’acqua gelida. Era stata pura adrenalina, ma priva di emozioni. Ogni cosa mi sembrava vuota senza quella mano calda che racchiudeva e stringeva la mia, quasi a volerla proteggere da tutto e tutti. Non c’era lui al mio fianco a ridere con me per la stupidaggine appena fatta, intorno a me c’era il nulla, un vuoto incolmabile che sembrava sommergermi.
Pioveva ancora e il mio viso era bagnato contemporaneamente dalla pioggia, dall’acqua salmastra e dalle mie lacrime.
Mi mancava il respiro, non ce la facevo, andavo giù sempre più a fondo.
In un attimo di lucidità capii che non era il vuoto a sommergermi, ma le onde. Il mare era agitato e le onde m’investivano con una furia tale da non permettermi di restare a galla per poco più di un minuto. L’acqua salata mi entrava nelle narici; sentivo bruciarla. Ero stanca e non avevo neanche la voglia di lottare per tornare a riva. Mi lasciai andare alla corrente. Forse era destino. Ero arrivata alla spiaggia senza volerlo, forse doveva andare così, il mio destino era andarmene via con lui. Le onde mi sommersero completamente, la superficie era sempre più lontana. Sentivo un dolore lancinante al petto, non capivo se era la mancanza d’ossigeno o il mio cuore che sanguinava.
Andavo sempre più a fondo, tutto stava diventando buio, la vita mi stava scivolando via dalle dita, o meglio ero io che la lasciavo andare. Chiusi gli occhi e lo vidi, vidi i suoi occhi verdi pieni di lacrime, non era quello che avrebbe voluto. Riaprii gli occhi di colpo e trattenendo il fiato risalii in superficie. Riuscivo a stento a respirare, ogni volta che inspiravo, sentivo l’aria bruciarmi nei polmoni. Quasi senza forze raggiunsi la riva. Mi distesi sul bagnasciuga con le onde che s’infrangevano sui miei piedi, mentre la pioggia mi bagnava ancora il viso.
Ero talmente stanca che non riuscivo neanche più a piangere. Mi alzai e m’incamminai verso casa. Arrivata, mi diressi dritta in camera mia. Ancora fradicia mi lasciai cadere sul letto e subito mi addormentai.

Ecco questo è l'inizio della storia di Alice, spero vi abbia colpito e vi interessi scoprire cosa accadrà...

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Capitolo 2
*** La mia vita senza te ***


Da allora ogni sera un incubo, sempre lo stesso: lo vedevo, con i suoi capelli scuri, i suoi bellissimi occhi verdi, perfetto come qualche tempo prima, prima che tutto iniziasse. Era lì, così vicino da poterlo toccare, eppure così lontano da non riuscire mai a raggiungerlo, e quando ormai mi sembrava di avercela fatta, la sveglia suonava e tutto svaniva. Morfeo mi salutava lasciando il posto al pianto e alla disperazione.
Quante volte avevo pensato di farla finita, ma non ho mai trovato il coraggio. Non saprei dire se avessi più amore per la vita, o più paura della morte.
Ogni giorno era sempre la stessa storia, gli stessi sguardi, le stesse domande, le stesse parole di conforto. La gente non capiva quanto era difficile sopportare quella situazione. Non avevo la forza né la voglia di guardarmi allo specchio, tanto meno di sopportare quei consigli e quelle premure che in fin dei conti servivano a poco. Volevo solo essere lasciata in pace.
Nessuno capiva il mio dolore muto, tutti si chiedevano perché nell’apprendere la notizia mi fossi limitata al silenzio, perché al funerale non avessi fatto alcuna scenata. Solo io sapevo quanto stavo soffrendo. Non avevo neanche la forza di parlarne con qualcuno. Non volevo mi vedessero piangere, non perché non volessi mostrarmi debole, ma perché non avevo voglia d’altra compassione.
C’erano momenti in cui avrei voluto dimenticare tutto, buttarmi tutto alle spalle e ricominciare da capo. Poi però mi pentivo. Di tutti i momenti passati insieme, non volevo dimenticare neanche un attimo; ogni cosa che parlasse di lui era speciale. No, non volevo dimenticare, desideravo averlo ancora con me.
Ogni cosa mi ricordava di lui: l’alba, il tramonto, le stelle, il vento, la pioggia, la neve, i fiori, le nuvole, un cane, un gatto, un passero… ogni cosa mi riportava in mente qualche momento speciale che avevamo condiviso. Infondo, anche se avessi voluto dimenticarlo con tutte le mie forze, non ci sarei mai riuscita, perché era parte di me. Si era radicato così a fondo dentro di me, che non avrei potuto cancellarlo neanche se ci avessi provato per tutta la vita che mi restava davanti. Eravamo diventati una sola cosa.
Anche se contro voglia, mi rialzai dal letto, presi la borsa e uscii per andare a scuola.

Era marzo, il tempo era ormai mite, i gelidi giorni invernali avevano lasciato il posto a giornate di sole. C’era una lieve brezza quella mattina, avrei detto alquanto piacevole. Scesi i gradini del portico e m’incamminai verso scuola.
Casa mia era molto distante, ma mi è sempre piaciuto passeggiare; mi aiutava a riflettere.
Arrivai a scuola come sempre al suono della campanella. Quella mattina la giornata si prospettava particolarmente pesante.
Il quinto anno non è per niente semplice, e lo è ancora meno, quando hai perennemente la mente altrove. Studiare era inutile, potevo stare anche interi pomeriggi sui libri, ma non riuscivo a concentrarmi. All’inizio i professori erano stati molto disponibili, ma ormai era passato il primo quadrimestre e se non mi sarei data una mossa, mi avrebbero sicuramente bocciato.
Come tutte le mattine le mie compagne di classe vennero a darmi qualche abbraccio e a pronunciare qualche parola di conforto; qualche ragazzo fece qualche battuta stupida per strapparmi un sorriso. Dovevo ammettere che più passava il tempo, meno m’irritava averli attorno.
All’inizio era stata tragica. Durante le prime due settimane di scuola non avevo proprio voluto metterci piede; in seguito mia madre fu costretta a portarmici con la forza.
«Buon giorno ragazzi.» disse il professore di filosofia entrando in classe.
Tutti si sedettero ai loro posti e salutarono.
«Il primo quadrimestre è finito, e penso l’abbiate capito un po’ tutti. Direi sia il momento di darsi una mossa.»
Non era neanche arrivato che già incominciava con le prediche; non lo reggevo proprio.
«Prima di fare l’appello, volevo informarvi che da oggi si trasferirà nella vostra classe un nuovo ragazzo. Viene da fuori; mi raccomando ragazzi. Arriverà tra poco, ora è a un colloquio col preside.»
Detto ciò il professore fece l’appello. Subito dopo in classe non si parlava altro che di questo nuovo ragazzo; la cosa strana era che non c’era stato anticipato nulla, chissà come mai. Anch’io ero curiosa di vedere chi fosse questo tipo e me ne meravigliai, dato che ultimamente ero diventata totalmente apatica.
«Hai sentito viene un ragazzo nuovo, speriamo sia carino.» mi sussurrò Stella, la mia compagna di banco, e mia migliore amica.
Mentre stavo per risponderle, il professore attirò la nostra attenzione.
«Un po’ di silenzio per favore.»
Subito capimmo che tutti i nostri dilemmi stavano per essere risolti, perciò ci fu un silenzio tombale.
Un ragazzo, alto e moro, varcò la soglia. Aveva i capelli castani e lisci; un fisico slanciato e atletico. Indossava dei jeans, una camicia bianca e un maglioncino di filo, blu e bianca. I suoi tratti erano gentili: era bello.
«Allora.» disse il professore interrompendo il silenzio, «Lui è Manuel Sandez. Si è appena trasferito da Madrid.»
«Salve ragazzi.» rispose Manuel, facendo scivolare lo zaino che portava su una spalla lungo il fianco.
«Siediti al terzo banco per ora.» disse il professore, e il ragazzo si diresse verso il posto a lui assegnato che era proprio dietro di me.
Il banco era vuoto perché c’erano alcuni assenti. Quando mi passò accanto, guardò verso di me, ma abbassai immediatamente lo sguardo. Non lo feci per vergogna o timidezza. Li rividi, quegli occhi, erano di nuovo davanti a me, erano reali, quei bellissimi occhi color smeraldo. Non ce la feci a sopportarlo.

Non appena il ragazzo nuovo si fu seduto Stella, si girò verso di lui.
«Piacere io sono Stella. Capisci la mia lingua?»
«Conosco l’inglese.» rispose lui ridendo, «Piacere mio, io sono Manuel.»
«Lei è Alice.» disse indicandomi; fortunatamente fui salvata in calcio d’angolo dal professore.
«Ragazzi, farete conoscenza dopo. Aprite il libro a pagina 240.»
«Professore, Mark non è venuto; sono senza libro.» disse Eric.
«Chi ha due libri?» chiese il prof.
Tutti si guardarono intorno, «Solo noi professore.» rispose Stella.
«McCallen siediti vicino a Douglas, per favore.»
Stella fece come le aveva detto il professore, e alzandosi andò a sedersi vicino a Eric. Per lei non fu un peso, anzi. Ormai l’aveva capito tutta la classe che quei due si piacevano da morire; ma nessuno riusciva a capire perché mai non stessero ancora insieme.
«Qualcun altro è senza libro?»
«Veramente io.» rispose una voce con un forte accento spagnolo dietro di me, era Manuel.
«Passa davanti vicino a Foster.» rispose indicandomi, «E ora cominciamo la lezione, altrimenti l’ora passa senza che facciamo niente.»

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Capitolo 3
*** Il ciliegio in fiore ***


«Ciao.» sussurrò sedendosi accanto a me.
«Salve.» risposi sussurrando a mia volta senza alzare la testa dal libro che era al centro del banco, e lì terminò la nostra conversazione.
Il professore stava parlando di Marx; a tutto pensavo tranne che a Marx in quel momento. Per quanto cercavo di applicarmi per seguire la lezione era totalmente inutile.
Manuel aveva un bel profumo, ma non era quello di Daniel, non avevo mai sentito quel profumo su qualcun altro.
Daniel, il mio pensiero fisso, come potevo non pensare a lui.
A volte mi chiedevo cosa avrebbe detto vedendo come mi ero ridotta, cosa avrebbe pensato di me. Negli ultimi nove mesi avevo perso dieci chili, tutti i vestiti mi andavano larghi, e già ero magra di mio. Mangiavo una volta al giorno o quasi mai. Non mi curavo più; da ragazza più popolare e alla moda del liceo ero diventata la più trasandata e la più sciatta. Avevo i capelli sfibrati, non mettevo neanche più un filo di trucco, m’infilavo la prima cosa che trovavo nell’armadio. In alcuni momenti mi facevo pena da sola, come speravo di non farla agli altri.
Mi voltai verso la finestra; il ciliegio nel giardino della scuola era in fiore. Vedere quell’albero così bello, con i suoi fiori profumati mi provocò una fitta al cuore. Desiderai alzarmi e correre in bagno per scoppiare a piangere ma mi trattenni.
Era stato proprio sotto quel ciliegio, precisamente tre anni prima, che inaspettatamente Daniel mi aveva baciato. Quel giorno avrebbe dovuto essere il nostro anniversario. Da quando mi ero svegliata, non avevo voluto pensarci; com’era duro il primo anniversario senza di lui. Era insopportabile sapere che non l’avrei più rivisto, non avrei più sentito le sue mani sfiorarmi la pelle, non avrei potuto più assaporare le sue labbra, sentire il suo profumo o carezzargli il viso, non avrei più sentito la sua voce, non avrei potuto più perdermi in quegli occhi verdi pieni di speranza, una speranza ormai svanita per sempre.
Avevo la testa tra le mani e i capelli mi ricoprivano tutto il viso, ormai avevo del tutto perso il concetto di tempo e di spazio, mi sentivo come se fossi stata sola in un’enorme stanza bianca e vuota, talmente ampia da non poter scorgere le pareti. Come se io, la mia sedia e il banco ci trovassimo al centro di essa, nel bel mezzo del nulla.
Un contatto mi riportò alla realtà, e sentii un brivido corrermi lungo tutta la schiena. Strizzai gli occhi e scossi la testa. Sentii un bisbiglio e quindi mi voltai alla mia destra.
«Cosa?» chiesi con un filo di voce.
«Qualcosa non va?» chiese Manuel.
Mi limitai a fissarlo a stropicciarmi un occhio.
«Hai gli occhi rossi.» aggiunse, «Marx ti commuove?» e poi sorrise. Devo ammettere che i suoi denti erano perfetti e di un bianco mai visto prima.
«È tutto ok.» risposi tornando poi a guardare verso il professore cercando di seguire, ma ormai era tardi.
Improvvisamente però un argomento attirò la mia attenzione, “L’Alienazione”. Ciò avviene, quando l’uomo si estrania da sé; riflettendoci capii che era proprio quello che stava accadendo a me; stavo perdendo il controllo della mia vita. Non facevo altro che proiettare la mia mente in un mondo che una volta era stato reale, ma che era formato che da semplici ricordi.
No, lui non avrebbe voluto che facessi quella fine; dovevo risollevarmi dal baratro, dovevo ricominciare a vivere.
Cercai di seguire per quanto mi fu possibile e quando il professore notò la mia attenzione mi sorrise.
L’ora di filosofia passò stranamente in fretta. Appena il professor Martinez fu uscito, tutta la classe si accalcò intorno al mio banco. Tutti si presentarono al tipo nuovo e fecero qualche domanda, ma durò poco perché appena arrivò la professoressa di lettere, tutti tornarono ai loro posti. Anche lei si presentò e fece alcune domande a Manuel. Mi aspettavano due noiosissime ore d’italiano; la Professoressa Pitch era davvero brava e gentile ma molto noiosa. Speravo vivamente non che quel giorno non fosse in programma qualche autore ancora più depresso di me, chissà come quel giorno non ero da suicidio.
Anche in letteratura, come in tutte le altre materie del resto, non avevo la benché minima idea di dove fossimo arrivati col programma.
Prima che la Pitch cominciasse a spiegare Stella tornò al nostro banco; intanto Manuel si era alzato per tornare al suo posto.
 «Se vuoi per oggi, puoi restare al mio posto perché non hai i libri.» gli disse sorridendo.
«Se a lei non dispiace.» rispose Manuel indicandomi; mi limitai a scrollare le spalle.
Devo ammettere che non mi era del tutto indifferente però averlo accanto; quegli occhi, quei maledetti occhi verdi mi facevano male. Erano esageratamente uguali ai suoi, non solo per la forma e il colore, ma anche per la loro espressione, soprattutto quella degli ultimi tempi. Non sapevo perché ma gli occhi di Manuel mi trasmettevano un’enorme tristezza.
Non volevo essere scortese, quindi non mi opposi, ma per tutto il resto della giornata scolastica lo ignorai completamente.
 
All’uscita di scuola come ogni altro giorno tornai a casa con Stella.
«Devo dirti una cosa.» disse ridendo nervosamente e guardando a terra.
Conoscevo Stella dalle scuole medie; in pratica eravamo cresciute insieme. Ci conoscevamo quasi meglio di noi stesse, più che amiche potevamo dire di essere sorelle. Era stata l’unica a capire davvero la mia situazione, l’unica a non fare mai domande. Sapeva che quando avrei avuto voglia di confidarmi sarei andata io da lei. Qualcosa era successo, n’ero sicura, la conoscevo troppo bene. Subito dopo quella risatina, avevo più o meno intuito di cosa si trattasse.
«Sputa il rospo.» dissi continuando a camminare.
«Indovina.»
«Smettila con questi stupidi giochini. Che cosa è successo?»
«Eric mi ha chiesto di uscire.» disse in un sussurro, quasi come se si vergognasse.
«Finalmente.» dissi in un sospiro. Ce ne aveva messo di tempo, ma alla fine si era deciso a fare il primo passo. Ormai era più di un anno che era totalmente perso da lei, lo sapevano tutti. Tutti lo avevano capito tranne Stella. Quando glielo rivelai, lei non volle credermi, ma si dovette convincersi davanti all’evidenza. Eric era totalmente perso di lei.
«Uffa, io non so cosa fare.» rispose scoraggiata.
«Ma cosa dici? È logico che devi dire sì. Tanto lo sai, e lo so anch’io, che ti piace. Ci pensi anche?»
«È solo che siamo tanto amici. Se caso mai va male…»
«Come sei pessimista, se ti metti a pensare a tutti i se, non vivi più. Ti piace, buttati. Punto.»
«Dici?»
«Certo. Anche Daniel ed io eravamo amici, non è andato tutto bene?»
Senza neanche accorgermene lo avevo nominato; non lo facevo da nove mesi ormai. Mi fermai di colpo, e Stella fece lo stesso.
In quel momento mi si riversarono addosso come acqua ghiacciata tutti quei ricordi. Ricordai il nostro primo incontro, quel lontano primo giorno del primo anno di liceo, la nostra amicizia che, lentamente, si era trasformata in amore. Ripensai a tutte le risate, le passeggiate sotto il sole o sotto le stelle, le corse sotto la pioggia o nel vento, a tutte le gioie condivise e, inevitabilmente, ritornò il dolore.
«Mi dispiace, è colpa mia.» disse Stella triste sfiorandomi un braccio.
Le sue parole mi riportarono alla realtà. «Per cosa?» chiesi con lo sguardo basso e la voce rotta.
«Ti ho fatto tornare in mente Daniel. Oggi che stavi un po’ meglio…»
«Non preoccuparti. Penso sempre a lui, in ogni attimo d’ogni giornata. È un chiodo fisso. Anche se volessi, non riuscirei mai a dimenticarlo, neanche per un solo istante, e comunque non voglio farlo. È parte di me, e sarà sempre parte della mia vita.» risposi prendendole la mano e stringendola tanto forte da farle male, ma lei non si ritrasse.
Era la prima volta che parlavo di Daniel con qualcuno; improvvisamente le lacrime cominciarono a bagnarmi gli occhi, poi il viso.
«Grazie.» disse semplicemente abbracciandomi.
«Cosa?» chiesi confusa.
«Grazie per esserti aperta finalmente. Non sai quanto ho pregato affinché avvenisse.» rispose abbracciandomi più forte.
Rimanemmo abbracciate per un po’; poggiai la testa su una sua spalla e piansi aggrappandomi a lei come se fosse la mia ancora di salvezza. Poco m’importava che ci trovavamo nel bel mezzo di una strada, per giunta non poco trafficata. Dopo nove mesi di reclusione in me stessa avevo troppa voglia di sfogarmi con qualcuno.
Quando ci sciogliemmo dall’abbraccio Stella tirò fuori dalla borsa un fazzoletto pulito e mi asciugò le lacrime, poi afferrandomi per mano mi portò a casa.
 
«Ti va di restare a pranzare da me?»
«Certo.» rispose sorridendo, «Però, devo chiamare mamma e avvertirla.»
«Puoi chiamarla dal telefono di casa.» risposi aprendo il cancello ed entrando in giardino.
Entrammo in casa.
«Mamma sono tornata.» dissi entrando in cucina.
«Ciao amore.» rispose voltandosi verso di noi. «Ci sei anche tu Stella. Resti per pranzo?»
«Si Monique.»
«Mi fa davvero piacere.»
«Andiamo in camera mia.» dissi dandole un bacio sulla guancia.
«Andate pure. Quando è pronto, vi chiamo.»
«Ok.» risposi e andammo nella mia stanza.
 
La mia stanza era una camera matrimoniale. Le pareti erano di un lilla molto chiaro, mentre il parquet color lavanda. Sul lato ovest della camera la parete era costituita da un’enorme finestra che dava sul giardino sul retro. Il letto a due piazze aveva la testiera di pelle nera, e ai piedi vi era un enorme tappeto bianco. Di fronte al letto vi era un cassettone in stile moderno bianco e nero, sul quale poggiava una lampada, sormontato da uno specchio a forma di fiore, alla cui destra e sinistra c’erano delle mensole ricoperte di peluche. Al fianco del letto vi erano due comodini uguali al cassettone. Su uno vi erano una lampada e un portafoto, mentre sull’altro una sveglia elettronica e un cordless bianco. Sul letto era appeso un mega poster di Marylin Monroe. Sulla parete di fronte alla finestra c’era una porta a scrigno che portava alla cabina armadio, e accanto alla porta c’era un collage con le mie foto.
Sul letto c’era una trapunta bianca con cuori rosa; era ricoperto da cuscini fuxia, neri e bianchi in diverse forme e tonalità. Sul tappeto ai piedi del letto vi erano altri peluche e le mie babbucce con la testa di Minnie e quelle con la testa di Minou, degli Aristogatti.
Naturalmente ovunque c’erano foto di Daniel o di noi due insieme. Ovunque c’era un suo ricordo. Naturalmente ognuno di tutti quei peluche me li aveva regalati lui. Ogni cosa in quella stanza mi parlava di lui, tutto.
«Adoro la tua camera.» esclamò Stella buttandosi sul letto e facendo cadere tutti i cuscini.
«Stella mi puoi prestare i tuoi appunti? Devo cominciare a studiare, altrimenti finisce che non mi ammettono agli esami.»
«Certo.» rispose estraendo alcuni quaderni dallo zaino. «Questi sono di letteratura, filosofia e matematica. Domani ti porto il resto.»
«Grazie, sei un’amica.»
«Se ti va, possiamo studiare insieme; così ti aiuto a recuperare.»
«Davvero?»
«Certo, per te questo e altro.» rispose sorridendo. «Dai fatti una risata, sempre con il broncio.» disse poi prendendo un cuscino e tirandomelo in faccia.
«Ahio!» esclamai, «Stronza.» aggiunsi raccogliendo il cuscino e ritirandoglielo. Lei me lo tirò di nuovo e cominciammo una piccola battaglia a cuscinate.
«Non mi divertivo così da quanto? Non lo so più.» dissi col fiatone quando smettemmo.
«Evviva!» esclamò.
«Che ti viene? Stai impazzendo?»
«No! Sono felice che ti stia riprendendo un po’.» rispose saltandomi addosso.
In quel momento entrò mia madre. Dal suo enorme sorriso capii che aveva assistito alla scena. Non aveva più quell’espressione preoccupatissima che ormai occupava eternamente il suo viso.
«È pronto ragazze.» disse, e noi la seguimmo.
«Ciao.» sussurrò sedendosi accanto a me.
«Salve.» risposi sussurrando a mia volta senza alzare la testa dal libro che era al centro del banco, e lì terminò la nostra conversazione.
Il professore stava parlando di Marx; a tutto pensavo tranne che a Marx in quel momento. Per quanto cercavo di applicarmi per seguire la lezione era totalmente inutile.
Manuel aveva un bel profumo, ma non era quello di Daniel, non avevo mai sentito quel profumo su qualcun altro.
Daniel, il mio pensiero fisso, come potevo non pensare a lui.
A volte mi chiedevo cosa avrebbe detto vedendo come mi ero ridotta, cosa avrebbe pensato di me. Negli ultimi nove mesi avevo perso dieci chili, tutti i vestiti mi andavano larghi, e già ero magra di mio. Mangiavo una volta al giorno o quasi mai. Non mi curavo più; da ragazza più popolare e alla moda del liceo ero diventata la più trasandata e la più sciatta. Avevo i capelli sfibrati, non mettevo neanche più un filo di trucco, m’infilavo la prima cosa che trovavo nell’armadio. In alcuni momenti mi facevo pena da sola, come speravo di non farla agli altri.
Mi voltai verso la finestra; il ciliegio nel giardino della scuola era in fiore. Vedere quell’albero così bello, con i suoi fiori profumati mi provocò una fitta al cuore. Desiderai alzarmi e correre in bagno per scoppiare a piangere ma mi trattenni.
Era stato proprio sotto quel ciliegio, precisamente tre anni prima, che inaspettatamente Daniel mi aveva baciato. Quel giorno avrebbe dovuto essere il nostro anniversario. Da quando mi ero svegliata, non avevo voluto pensarci; com’era duro il primo anniversario senza di lui. Era insopportabile sapere che non l’avrei più rivisto, non avrei più sentito le sue mani sfiorarmi la pelle, non avrei potuto più assaporare le sue labbra, sentire il suo profumo o carezzargli il viso, non avrei più sentito la sua voce, non avrei potuto più perdermi in quegli occhi verdi pieni di speranza, una speranza ormai svanita per sempre.
Avevo la testa tra le mani e i capelli mi ricoprivano tutto il viso, ormai avevo del tutto perso il concetto di tempo e di spazio, mi sentivo come se fossi stata sola in un’enorme stanza bianca e vuota, talmente ampia da non poter scorgere le pareti. Come se io, la mia sedia e il banco ci trovassimo al centro di essa, nel bel mezzo del nulla.
Un contatto mi riportò alla realtà, e sentii un brivido corrermi lungo tutta la schiena. Strizzai gli occhi e scossi la testa. Sentii un bisbiglio e quindi mi voltai alla mia destra.
«Cosa?» chiesi con un filo di voce.
«Qualcosa non va?» chiese Manuel.
Mi limitai a fissarlo a stropicciarmi un occhio.
«Hai gli occhi rossi.» aggiunse, «Marx ti commuove?» e poi sorrise. Devo ammettere che i suoi denti erano perfetti e di un bianco mai visto prima.
«È tutto ok.» risposi tornando poi a guardare verso il professore cercando di seguire, ma ormai era tardi.
Improvvisamente però un argomento attirò la mia attenzione, “L’Alienazione”. Ciò avviene, quando l’uomo si estrania da sé; riflettendoci capii che era proprio quello che stava accadendo a me; stavo perdendo il controllo della mia vita. Non facevo altro che proiettare la mia mente in un mondo che una volta era stato reale, ma che era formato che da semplici ricordi.
No, lui non avrebbe voluto che facessi quella fine; dovevo risollevarmi dal baratro, dovevo ricominciare a vivere.
Cercai di seguire per quanto mi fu possibile e quando il professore notò la mia attenzione mi sorrise.
L’ora di filosofia passò stranamente in fretta. Appena il professor Martinez fu uscito, tutta la classe si accalcò intorno al mio banco. Tutti si presentarono al tipo nuovo e fecero qualche domanda, ma durò poco perché appena arrivò la professoressa di lettere, tutti tornarono ai loro posti. Anche lei si presentò e fece alcune domande a Manuel. Mi aspettavano due noiosissime ore d’italiano; la Professoressa Pitch era davvero brava e gentile ma molto noiosa. Speravo vivamente non che quel giorno non fosse in programma qualche autore ancora più depresso di me, chissà come quel giorno non ero da suicidio.
Anche in letteratura, come in tutte le altre materie del resto, non avevo la benché minima idea di dove fossimo arrivati col programma.
Prima che la Pitch cominciasse a spiegare Stella tornò al nostro banco; intanto Manuel si era alzato per tornare al suo posto.
 «Se vuoi per oggi, puoi restare al mio posto perché non hai i libri.» gli disse sorridendo.
«Se a lei non dispiace.» rispose Manuel indicandomi; mi limitai a scrollare le spalle.
Devo ammettere che non mi era del tutto indifferente però averlo accanto; quegli occhi, quei maledetti occhi verdi mi facevano male. Erano esageratamente uguali ai suoi, non solo per la forma e il colore, ma anche per la loro espressione, soprattutto quella degli ultimi tempi. Non sapevo perché ma gli occhi di Manuel mi trasmettevano un’enorme tristezza.
Non volevo essere scortese, quindi non mi opposi, ma per tutto il resto della giornata scolastica lo ignorai completamente.
 
All’uscita di scuola come ogni altro giorno tornai a casa con Stella.
«Devo dirti una cosa.» disse ridendo nervosamente e guardando a terra.
Conoscevo Stella dalle scuole medie; in pratica eravamo cresciute insieme. Ci conoscevamo quasi meglio di noi stesse, più che amiche potevamo dire di essere sorelle. Era stata l’unica a capire davvero la mia situazione, l’unica a non fare mai domande. Sapeva che quando avrei avuto voglia di confidarmi sarei andata io da lei. Qualcosa era successo, n’ero sicura, la conoscevo troppo bene. Subito dopo quella risatina, avevo più o meno intuito di cosa si trattasse.
«Sputa il rospo.» dissi continuando a camminare.
«Indovina.»
«Smettila con questi stupidi giochini. Che cosa è successo?»
«Eric mi ha chiesto di uscire.» disse in un sussurro, quasi come se si vergognasse.
«Finalmente.» dissi in un sospiro. Ce ne aveva messo di tempo, ma alla fine si era deciso a fare il primo passo. Ormai era più di un anno che era totalmente perso da lei, lo sapevano tutti. Tutti lo avevano capito tranne Stella. Quando glielo rivelai, lei non volle credermi, ma si dovette convincersi davanti all’evidenza. Eric era totalmente perso di lei.
«Uffa, io non so cosa fare.» rispose scoraggiata.
«Ma cosa dici? È logico che devi dire sì. Tanto lo sai, e lo so anch’io, che ti piace. Ci pensi anche?»
«È solo che siamo tanto amici. Se caso mai va male…»
«Come sei pessimista, se ti metti a pensare a tutti i se, non vivi più. Ti piace, buttati. Punto.»
«Dici?»
«Certo. Anche Daniel ed io eravamo amici, non è andato tutto bene?»
Senza neanche accorgermene lo avevo nominato; non lo facevo da nove mesi ormai. Mi fermai di colpo, e Stella fece lo stesso.
In quel momento mi si riversarono addosso come acqua ghiacciata tutti quei ricordi. Ricordai il nostro primo incontro, quel lontano primo giorno del primo anno di liceo, la nostra amicizia che, lentamente, si era trasformata in amore. Ripensai a tutte le risate, le passeggiate sotto il sole o sotto le stelle, le corse sotto la pioggia o nel vento, a tutte le gioie condivise e, inevitabilmente, ritornò il dolore.
«Mi dispiace, è colpa mia.» disse Stella triste sfiorandomi un braccio.
Le sue parole mi riportarono alla realtà. «Per cosa?» chiesi con lo sguardo basso e la voce rotta.
«Ti ho fatto tornare in mente Daniel. Oggi che stavi un po’ meglio…»
«Non preoccuparti. Penso sempre a lui, in ogni attimo d’ogni giornata. È un chiodo fisso. Anche se volessi, non riuscirei mai a dimenticarlo, neanche per un solo istante, e comunque non voglio farlo. È parte di me, e sarà sempre parte della mia vita.» risposi prendendole la mano e stringendola tanto forte da farle male, ma lei non si ritrasse.
Era la prima volta che parlavo di Daniel con qualcuno; improvvisamente le lacrime cominciarono a bagnarmi gli occhi, poi il viso.
«Grazie.» disse semplicemente abbracciandomi.
«Cosa?» chiesi confusa.
«Grazie per esserti aperta finalmente. Non sai quanto ho pregato affinché avvenisse.» rispose abbracciandomi più forte.
Rimanemmo abbracciate per un po’; poggiai la testa su una sua spalla e piansi aggrappandomi a lei come se fosse la mia ancora di salvezza. Poco m’importava che ci trovavamo nel bel mezzo di una strada, per giunta non poco trafficata. Dopo nove mesi di reclusione in me stessa avevo troppa voglia di sfogarmi con qualcuno.
Quando ci sciogliemmo dall’abbraccio Stella tirò fuori dalla borsa un fazzoletto pulito e mi asciugò le lacrime, poi afferrandomi per mano mi portò a casa.
 
«Ti va di restare a pranzare da me?»
«Certo.» rispose sorridendo, «Però, devo chiamare mamma e avvertirla.»
«Puoi chiamarla dal telefono di casa.» risposi aprendo il cancello ed entrando in giardino.
Entrammo in casa.
«Mamma sono tornata.» dissi entrando in cucina.
«Ciao amore.» rispose voltandosi verso di noi. «Ci sei anche tu Stella. Resti per pranzo?»
«Si Monique.»
«Mi fa davvero piacere.»
«Andiamo in camera mia.» dissi dandole un bacio sulla guancia.
«Andate pure. Quando è pronto, vi chiamo.»
«Ok.» risposi e andammo nella mia stanza.
 
La mia stanza era una camera matrimoniale. Le pareti erano di un lilla molto chiaro, mentre il parquet color lavanda. Sul lato ovest della camera la parete era costituita da un’enorme finestra che dava sul giardino sul retro. Il letto a due piazze aveva la testiera di pelle nera, e ai piedi vi era un enorme tappeto bianco. Di fronte al letto vi era un cassettone in stile moderno bianco e nero, sul quale poggiava una lampada, sormontato da uno specchio a forma di fiore, alla cui destra e sinistra c’erano delle mensole ricoperte di peluche. Al fianco del letto vi erano due comodini uguali al cassettone. Su uno vi erano una lampada e un portafoto, mentre sull’altro una sveglia elettronica e un cordless bianco. Sul letto era appeso un mega poster di Marylin Monroe. Sulla parete di fronte alla finestra c’era una porta a scrigno che portava alla cabina armadio, e accanto alla porta c’era un collage con le mie foto.
Sul letto c’era una trapunta bianca con cuori rosa; era ricoperto da cuscini fuxia, neri e bianchi in diverse forme e tonalità. Sul tappeto ai piedi del letto vi erano altri peluche e le mie babbucce con la testa di Minnie e quelle con la testa di Minou, degli Aristogatti.
Naturalmente ovunque c’erano foto di Daniel o di noi due insieme. Ovunque c’era un suo ricordo. Naturalmente ognuno di tutti quei peluche me li aveva regalati lui. Ogni cosa in quella stanza mi parlava di lui, tutto.
«Adoro la tua camera.» esclamò Stella buttandosi sul letto e facendo cadere tutti i cuscini.
«Stella mi puoi prestare i tuoi appunti? Devo cominciare a studiare, altrimenti finisce che non mi ammettono agli esami.»
«Certo.» rispose estraendo alcuni quaderni dallo zaino. «Questi sono di letteratura, filosofia e matematica. Domani ti porto il resto.»
«Grazie, sei un’amica.»
«Se ti va, possiamo studiare insieme; così ti aiuto a recuperare.»
«Davvero?»
«Certo, per te questo e altro.» rispose sorridendo. «Dai fatti una risata, sempre con il broncio.» disse poi prendendo un cuscino e tirandomelo in faccia.
«Ahio!» esclamai, «Stronza.» aggiunsi raccogliendo il cuscino e ritirandoglielo. Lei me lo tirò di nuovo e cominciammo una piccola battaglia a cuscinate.
«Non mi divertivo così da quanto? Non lo so più.» dissi col fiatone quando smettemmo.
«Evviva!» esclamò.
«Che ti viene? Stai impazzendo?»
«No! Sono felice che ti stia riprendendo un po’.» rispose saltandomi addosso.
In quel momento entrò mia madre. Dal suo enorme sorriso capii che aveva assistito alla scena. Non aveva più quell’espressione preoccupatissima che ormai occupava eternamente il suo viso.
«È pronto ragazze.» disse, e noi la seguimmo.

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