Life in color

di Manu_Green8
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Si parte ***
Capitolo 2: *** Al lavoro! ***
Capitolo 3: *** Party time ***
Capitolo 4: *** L'inizio ***
Capitolo 5: *** Sfilata ***
Capitolo 6: *** Mostri nell'armadio ***
Capitolo 7: *** Lo senti nelle ossa ***
Capitolo 8: *** Il drappo caduto ***
Capitolo 9: *** Al completo ***
Capitolo 10: *** Falso Ringraziamento ***



Capitolo 1
*** Si parte ***


Credo che essere svegliati nel momento in cui il tuo sogno è arrivato al punto cruciale, quello che aspetti da tutta la vita e che puoi solo immaginare, sia la cosa più crudele di tutte. Sì, lo penso davvero.
Fu proprio quello che successe quella mattina. In casa si era scatenato l’inferno: mia madre aveva iniziato a chiamarmi dal piano di sotto, mentre mio fratello aveva fatto partire la musica a tutto volume dalla camera accanto. Ed ero consapevole che lo avesse fatto apposta: erano le prime ore del mattino, santo cielo!
Gemetti e mi rigirai tra le coperte. Mi rifiutavo di aprire gli occhi, nonostante il danno subito dal mio sogno fosse ormai irreparabile. Cercai di ignorare il baccano e ci riuscii all’incirca per.. due minuti. Poi, la sveglia legata alla radio partì: “Buongiorno dormiglioni di Dover. Sono le otto in punto del mattino. Siete pronti per iniziare la settimana?”.
Sospirai pesantemente: perché avevo puntato quella maledetta sveglia? Aprii gli occhi, per una buona volta. Mi ritrovai a fissare il soffitto bianco della mia camera.
“Solo due minuti” continuavo a ripetermi, mentre il mio corpo non si era ancora attivato e si rifiutava di alzarsi dal letto. E poi, quando la musica dalla parte opposta della parete era ormai diventata un sottofondo quasi rilassante e i miei occhi stavano per richiudersi.. il mio cellulare squillò.
Spalancai gli occhi e mi misi a sedere di colpo sul letto. “Aaah!” urlai esasperata, lanciando in aria le coperte.
Presi il cellulare dal comodino e premetti il verde. “Pronto?” chiesi, con voce infuriata.
“Buongiorno, raggio di sole. Ti sei svegliata?”. La voce all’altro capo del telefono era così pimpante che mi fece venire quasi una crisi isterica.
“Adesso decisamente sì. Credi sia giusto chiamare a quest’ora? No, tesoro, spiegamelo!” dissi arrabbiata.
Sentii una risata. “Melanie, ma sei impazzita? Mi hai detto tu di chiamarti a quest’ora”.
Io sospirai e il ragazzo continuò a parlare: “Mel, sei ancora lì? No, sai.. io sono dietro la tua porta. Posso entrare?”.
Io spalancai gli occhi e mi alzai dal letto, non prima di essere cascata per terra, a causa delle lenzuola aggrovigliate alle mie gambe. Lascia il cellulare lì in mezzo e andai ad aprire la porta della mia camera.
E proprio lì davanti, Chad, in tutto il suo splendore, mi guardava con il suo sorriso sbruffone sulle labbra.
A quel punto scoppiai a ridere. Non riuscivo proprio a prendermela con lui. “Buongiorno” dissi, saltandogli praticamente addosso.
Lui mi afferrò, stringendomi di più a sé. “E’ possibile che già di prima mattina tu abbia questi sbalzi d’umore?” mi chiese, ridendo.
“Li ho soltanto perché sono le otto del mattino e tu sei già in casa mia” dissi, con il viso ad un soffio dal suo.
Sorrise e io non riuscii a resistere: chiusi la distanza rimasta e lo baciai. Assaporai le sue labbra, pensando che avrebbero potuto darmi più energia della colazione stessa. Quelle labbra che mi sarebbero mancate di lì a poco.
A quel punto iniziò una delle canzoni rock di Dave e io sobbalzai. Mi staccai da Chad e mi diressi in camera di mio fratello.
Feci praticamente irruzione e dissi: “Vuoi spegnere quella maledetta radio?”.
Dave, che stava sistemando le ultime cose dentro le valigie, si voltò a guardarmi e sorrise: “Buongiorno”.
“Sì, anche a te” brontolai, andando direttamente verso la radio sulla scrivania e spegnendola.
Le mie orecchie tornarono a rilassarsi e io sospirai, voltandomi di nuovo verso mio fratello. Adesso, Chad era appoggiato allo stipite della porta e ci guardava divertito.
“Già tutto pronto per partire?” chiese il mio ragazzo al suo migliore amico.
Dave sorrise, mentre io iniziavo a uscire dalla camera. Passai accanto a Chad e mi diressi in bagno, non prima di aver sentito la risposta di mio fratello: “Già. Se non lo fossi, Rachel mi ucciderebbe”.
Ebbene sì, oggi era il giorno decisivo per tutti, quello in cui saremmo andati al college. Dave e Rachel, ancora tremendamente innamorati avevano deciso durante il nostro ultimo anno del liceo di frequentare Stanford. Dave aveva ottenuto grazie al basket una borsa di studio e aveva accettato subito, consapevole del fatto che avrebbe potuto continuare a giocare e al contempo studiare medicina. Proprio così. Dopo il mio intervento di quasi due anni prima, lui aveva deciso di voler diventare cardiologo. Dopotutto, la mia malattia è ereditaria e una persona con quelle capacità sarebbe sempre stata utile.
E poi c’è la mia cara migliore amica, Rachel. Quando Dave aveva ricevuto la proposta, lei aveva subito spedito la lettera per lo stesso college. Durante il quinto anno le era partita la passione per la legge e aveva iniziato a tartassarci di film gialli e pieni di roba sugli avvocati.
E con l’alta media scolastica, la sua ammissione non aveva riscontrato nessun ostacolo.
Adesso vi starete chiedendo: e io? Che cosa ho deciso di fare? Ebbene, vi accontenterò.
L’anno prima Chad si era diplomato tranquillamente, anche grazie al mio aiuto.
Avevamo passato l’estate principalmente in città, a parte le due settimane trascorse nella casa al mare di Rachel. Il mio rapporto con Chad era ormai diventato così solido, che non pensavamo ad un futuro diverso dal quello di stare insieme. Eravamo quel noi che non ero mai riuscita a trovare prima del nostro trasferimento a Dover.
Io, Dave e Rachel dovemmo affrontare anche l’ultimo anno scolastico, mentre il mio ragazzo riuscì ad entrare nella prestigiosa società professionistica di pugilato della nostra città. Dopo che Andrew lo avevo presentato agli istruttori della società la sua scalata era stata abbastanza semplice. Chad era sempre stato talentuoso in quello sport. E così mi ritrovavo a passare le mie serate a studiare o a guardare gli incontri di Chad, che era decisamente più tranquillo di portarmi in uno stadio, piuttosto che in una sotterranea palestra clandestina.
Ero diventata la sua fan più accanita. E come darmi torto?
I problemi iniziarono quando mi ritrovai a dover scegliere il college. Avevamo in giro per casa talmente tanti opuscoli che era impossibile non pensarci. Stavo entrando in crisi: non sapevo più nemmeno se volessi andarci al college. Il tutto comportava lasciare Chad, la città e la vita che mi ero creata lì. Una vita senza un effettivo futuro lavorativo.
Quando Dave e Rachel mi costrinsero finalmente a parlare con Chad, ebbi una motivazione in più per amarlo in quel modo. Glielo dissi una sera per telefono e una volta chiusa la chiamata avevo avvertito un groppo in gola. Avevo sentito la delusione nella sua voce, ma non avevo capito che fosse dovuta al fatto che non glielo avessi detto prima e che non lo avessi coinvolto nella decisione. Il giorno dopo si era presentato a casa mia e sedendosi davanti alla scrivania accanto a me e aveva preso in mano gli opuscoli. “A chi la vuoi mandare?” mi aveva chiesto, guardandomi deciso.
“Io non lo so” avevo risposto.
“Non pensare a me o a Dover” mi aveva sussurrato, avvicinandosi a me. “Dove vuoi andare?”.
Avevo guardato tutti gli opuscoli e dopo un paio di minuti di indecisione ne presi uno dalle sua mani, quello più rovinato, per tutte le volte che lo avevo sfogliato quell’anno: San Francisco Art Institute.
Lo avevo toccato solo con la punta delle dita e Chad l’aveva voltato verso di sé. Avevo visto chiaramente quanto era sbiancato. “California?” mi aveva chiesto con un filo di voce. “Dista 7 ore di aereo da qui” avevo detto senza guardarmi.
Avevo sospirato. “Hai ragione… scusa” avevo iniziato, cercando qualcos’altro.
Poi il mio ragazzo si rianimò, riprendendo colore. “No” aveva detto, bloccando la mia mano con la sua. “E San Francisco sia” erano state le sue parole.
“Chad, non è importante, davvero. E poi… è privata. Senza una borsa di studio non penso di poter entrare”. E la storia era semplicemente finita lì. O almeno lo pensavo: Chad si ritrovò a parlare con mia madre e scoprì che l’eredità che avevamo ricevuto dopo la morte di mio padre era più che abbastanza per poter conseguire quegli studi. Mio padre aveva accumulato una fortuna semplicemente con il pugilato professionistico, nei primi anni della sua giovinezza ed era morto troppo giovane per riuscire a spenderli tutti. La maggior parte finirono automaticamente nelle casse mie e di Dave.
E così la lettera era stata spedita, insieme a quella per un’altra università, di New York, nel caso avessi dovuto optare per la seconda scelta. La mia ansia accresceva sempre di più e fino a quando non ebbi la risposta tra le mie mani non avevo programmato assolutamente nulla: non volevo crearmi fantasie illuse. Oltre al denaro occorreva anche mandare dei lavori all’università, per dimostrare di essere all’altezza di studiare nelle loro aule. Tra i lavori che mandai, avevo messo anche un ritratto di Chad mentre colpiva il sacco. Lo avevo creato proprio per l’occasione, nonostante lo avessi già fatto moltissime volte. Quella, però, fu la prima volta che misi puntigliosa attenzione a tutti i dettagli, come le braccia scolpite e contratte, l’espressione concentrata e il sudore che imperlava la sua fronte.
Quando arrivò la busta e l’aprii, Chad era accanto a me e gliela passai subito dopo averla strappata. “Leggi tu” avevo detto, fremendo.
Chad aveva iniziato a blaterare velocemente i convenevoli. “Signorina Melanie Carter, la sua richiesta di ammissione è stata accettata” disse, con un mezzo sorriso. Avevo fatto un urletto e gli ero saltata addosso, facendogli cadere la lettera dalle mani.
Chad mi aveva stretta a sé e respirando così vicino al mio collo da farmi venire i brividi, aveva detto: “Sono così orgoglioso di te, piccola”, facendomi venire le lacrime agli occhi e un groppo in gola. Le prime, perché mi aveva quasi ricordato mio padre; il secondo perché avevo notato con chiarezza il tono malinconico che aveva usato.
E così l’avrei fatto: sarei andata davvero a San Francisco, lasciando il mio ragazzo nella parte opposta del paese, sperando prima o poi, che in qualche modo mi avrebbe raggiunta.
 
In quel momento stavo mettendo le ultime cose nelle due grandi valigie davanti a me, mentre Chad era disteso sul mio letto. Continuava a lanciare in aria uno dei peluche e a riprenderlo.
“Cosa farai stasera, dopo la mia partenza?” chiesi, chiudendo le cerniere dei miei bagagli: avevo messo tutto.
Chad si fermò e si mise su un fianco, guardandomi.
“Andrò a festeggiare” disse, mentre un sorriso gli appariva sulle labbra.
“Ah. Ah. Divertente” risposi, facendogli la linguaccia.
E a quel punto si alzò in piedi, venendo dietro di me. “Onestamente? Non lo so. Rayn mi aveva proposto di andare in uno dei nuovi locali appena fuori città, però penso che resterò a casa con Evan” disse spostando i miei capelli rossi e baciandomi il collo.
Evan era cresciuto parecchio nell’ultimo anno, ma continuava a dipendere molto dal fratello maggiore e questo portava il pugile a non venire con me a San Francisco in quel momento stesso. Per Chad non era mai stato un peso, ma dopo che il padre li aveva abbandonati era diventato una sua responsabilità. Pensava che avessero invaso la vita della zia già abbastanza.
Ah, quasi dimenticavo. Ryan Rage era ormai uno degli amici più stretti di Chad, da quando era entrato nella società di pugilato.
Era un tipo sempre allegro, che amava divertirsi e proprio per questo mi preoccupava il fatto che passasse tutto quel tempo con Chad. Soprattutto adesso che io stavo partendo.
Mi voltai verso il mio ragazzo e gli misi le braccia intorno al collo. “Non posso credere che me lo stai lasciando fare” gli dissi, guardando nei suoi occhi chiari.
Tentò un sorriso, ma non gli riuscì molto bene: questa separazione sarebbe stato dura e lo sapevamo entrambi.
“Verrò da te” disse, invece, abbassandosi a baciarmi.
Le sue labbra erano così morbide e familiari, che non potevano che rendermi felice. Con lui mi sentivo a casa. La sua mano finì sotto la mia maglia e mi accarezzò la schiena con le dita, mentre continuava a premere le labbra con le mie.
E in quel momento qualcuno si schiarì la voce: mia madre.
“Ragazzi, mi dispiace interrompervi. Ma è quasi ora di andare” ci disse, prendendo una delle valigie e uscendo dalla stanza. “Vi aspettiamo in giardino”.
Io sospirai e annuii, affondando il viso sul collo di Chad: quello sarebbe stato il nostro ultimo momento da soli, prima di partire.
Sollevai di nuovo lo sguardo: “Sei ancora in tempo per fermarmi, lo sai?” gli chiesi, passando le mani sulle sue braccia nude. Nonostante l’aria fosse divenuta più fresca con la fine dell’estate, Chad continuava ad andare in giro con maglie a maniche corte: come facesse, non ne avevo idea.
Lui sorrise e scosse la testa. “No, non posso”. Poi il suo sguardo cambiò e le sue mani si poggiarono sul mio viso. “Mel, sii felice, ok?” mi disse, guardandomi intensamente, come se volesse inculcare nella sua testa il vero colore dei miei occhi. Occhi che in quel momento si stavano riempiendo di lacrime di commozione. “Ti amo” dissi e lui mi sorrise dolcemente.
“Anche io ti amo” rispose, sporgendosi a baciarmi nuovamente.
Poi prese la mia valigia e uscì dalla camera, mentre io mi guardavo intorno un’ultima volta. Un piccolo flash mi attraversò la mente: me, che svuotava la stanza della casa in cui avevo abitato fin da bambina a New York. Quella volta, anche se non pensavo che lo avrei fatto, era riuscita a considerare casa un altro luogo. Questa volta, sapevo che al college non mi sarei mai sentita come a Dover. Non senza la mia famiglia, non senza Chad. Ma non potevo stare qui per tutta la vita. Il disegno, l’arte era ormai l’ultima passione che mi era rimasta e sarebbe stato ingiusto rinunciarci. Sospirai e mi avvicinai alla libreria. Vidi quella serie di scatti fotografici che ero riuscita ad ottenere, convincendo Chad a infilarsi dentro una macchinetta al centro commerciale, lì, che sporgeva da un libro. La tirai fuori e la ficcai in tasca, dopo averla guardata per un momento.
“Melanie” la voce di mio fratello dal piano di sotto.
“Arrivo” dissi, spegnendo la luce e uscendo della stanza, senza voltarmi indietro.
In giardino Chad era poggiato alla mia macchina, con le braccia incrociate al petto. Accanto a lui c’era mia madre, che batteva il piede per terra, impaziente.
E poi degli urletti mi fecero voltare dall’altra parte e vidi Rachel che mi veniva incontro. Mi strinse le braccia al collo e iniziò a parlare troppo velocemente, come al solito.
“Mel, non riesco a credere che stiamo partendo per il college. Ce ne stiamo andando per davvero, caspita!” e ridacchiò. Io le sorrisi e la strinsi a me ancora di più. E così fu la prima persona che salutai, promettendoci di sentirci molto spesso e raccomandandole di prendersi cura di mio fratello.
Dave era poggiato allo sportello aperto dell’auto di Rachel, che avrebbero utilizzato per raggiungere Stanford. Salutai anche lui abbracciandolo stretto. Nonostante i nostri bisticci e la sua possessività era pur sempre il mio gemello e io lo adoravo.
“Non combinare troppi guai” mi disse, baciandomi sulla guancia.
Io risi. “Ci proverò” dissi, staccandomi da lui.
E poi toccò a Chad. Mi voltai verso di lui, che aveva il suo mezzo sorriso stampato in faccia, nonostante il suo sguardo non stesse sorridendo affatto.
Perché me lo sta lasciando fare? Non potei fare a meno di pensare.
Perché ti ama. Fu la risposta che ebbi subito dopo dal mio cervello. Cercai di ricacciare indietro il groppo che avevo in gola e gli saltai praticamente in braccio.
“Fa la brava” disse, stringendomi a sé e stampandomi un bacio sulla testa, accarezzandomi i capelli. Io annuii e affondai il viso nel suo collo, inspirando e cercando di memorizzare al meglio il suo profumo. Quello che amavo tanto e che somigliava molto all’odore di muschio e di pioggia.
Volevo imprimerlo nella mia mente, sapendo che di lì a poco non lo avrei più avuto a portata così facilmente.
“Mi mancherai” gli sussurrai, baciandogli il collo.
“Anche tu. Non dimenticare di chiamarmi o di videochiamarmi o ti verrò a cercare, sappilo” mi disse.
Io risi. “Beh, allora forse potrei farlo. Se la conseguenza fosse averti lì”.
La sua risata si unì alla mia. “Non cacciarti nei guai, ti prego” mi supplicò.
Io alzai gli occhi al cielo, pensando che era già la seconda persona che me lo aveva detto nell’arco di pochi minuti.
“Certo” risposi sta volta, in modo differente da come avevo risposto prima. Non volevo far agitare Chad, più di quanto non lo fosse già.
“Ti amo, Melanie” disse e poi ci baciammo. Affondai le dita tra i suoi capelli, non più lunghi come il suo ultimo anno di scuola.
“Ti amo anche io” dissi, staccandomi da lui malvolentieri. Mi aprì la portiera dell’auto, facendomi salire, mentre mia madre si metteva alla guida, dopo aver salutato mio fratello.
La macchina si accese e io mi sporsi dal finestrino, salutando con la mano e Chad ricambiò, sollevando la sua. Ricacciai la testa all’interno e sospirai, guardando dallo specchietto la figura del mio ragazzo, in piedi sul marciapiede, che si allontanava e rimpiccioliva sempre di più, fino a scomparire dalla mia vista.
E adesso: destinazione San Francisco, dove la mia avventura al college sarebbe davvero cominciata.





Note dell'autore: Ciaooo a chiunque sia arrivato alla fine di questo capitolo!! Finalmente sono tornata. Con quasi un mese di ritardo e mi scuso vivamente per questo, ma adesso posso dire di avercela fatta davvero :D 
Come vi è sembrato questo primo capitolo? Vi erano mancati Melanie e Chad? A me onestamente sì, parecchio :3
Va bene, aggiungo soltanto che essendo la prima volta che pubblico una storia durante l'anno scolastico, non posso assicurare brevi date per gli aggiornamenti, come prima. Cercherò di pubblicare almeno una volta alla settimana e mi impegnerò a non tardare (anche se sono un po' spaventata :S).
Ok, non aggiungo altro. Grazie per essere arrivati fin qui! 
A presto ;)
Manu

 

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Capitolo 2
*** Al lavoro! ***



Pov Chad

I miei occhi non riuscivano a stare aperti, nonostante lo avessi voluto. La partenza di Melanie per il college mi aveva lasciato addosso una stanchezza allucinante e il divano del salotto era troppo comodo per resistere. Così poco dopo, il televisore era diventato soltanto un sottofondo e mio fratello soltanto una stufetta umana accanto a me.
Fu proprio per questo che quando Evan mi scosse, spalancai gli occhi di colpo, guardandolo spaesato.
"Hanno suonato al campanello già due volte" disse mio fratello, iniziando a scendere dal divano. Sospirai e mi alzai in piedi, allungando le braccia sopra la testa e stiracchiando i muscoli della schiena.
Seguii Evan all'ingresso, mentre lui aveva già aperto la porta. La voce si Ryan fu la prima cosa che sentii. "Ehi, marmocchio, Chad è qui?" gli chiese, scompigliandogli i capelli. Ryan era sempre stato troppo vivace e aveva instaurato con il piccolo Evan quel rapporto fin dalla prima volta che si erano conosciuti. Quando il mio amico si accorse di me, mi guardò con un sorriso sulle labbra.
"Ehi, furia. Dove sei finito? Pensavo che venissi con me stasera" mi disse.
Furia. Ryan amava dare soprannomi alla gente e anche io avevo ricevuto il mio già l'anno prima, dopo che un video era circolato nei nostri spogliatoi, dopo poco tempo che mi ero integrato con il resto del gruppo. Non sapevo nemmeno dell'esistenza di quel video: mostrava la scena in cui durante il mio ultimo anno al liceo avevo picchiato Cole Mayers nei corridoi, vendicandomi della mia ragazza, che all'epoca era soltanto la mia migliore amica. Evidentemente qualcuno aveva fatto il filmato e soltanto allora, in quelle mura che racchiudevano la palestra privata dei pugili di Dover, era diventato così interessante. Lì dentro era come pane quotidiano. Anche io avevo visto il video e per la prima volta mi ero accorto che avevo colpito molto duramente: quel ragazzo era diventato probabilmente un sacco momentaneo su cui sfogare i miei tormenti. Dopotutto all'epoca Melanie era ancora in ospedale. Solo in quel momento mi ero anche reso conto di come Cole sotto di me fosse impotente e di come mi avesse colpito al labbro: usando le braccia per pararsi e alzandole a casaccio. Insomma, per pura fortuna. E Ryan dopo aver visto il filmato mi aveva guardato sorridente e aveva commentato: "Caspita, Chad, eri una furia. Ti ha proprio fatto incazzare questo tipo". E da lì era diventato il mio soprannome, usato ogni volta che mi vedeva in palestra, e lui era diventato uno dei miei amici più stretti.
Io avevo ghignato senza rispondere. La cosa preoccupante infatti era che anche a distanza di un anno continuavo a godere di ciò che avevo fatto e trovavo il combattimento una cosa sempre più eccitante. Era proprio per questo che a poco a poco ero diventato uno dei migliori in quella palestra. Avevo superato diversi veterani, vincendo molti combattimenti e guadagnandomi la stima dell'allenatore e dei miei compagni. Avevo finalmente perfezionato il mio stile, diventando un perfetto colpitore di incontro.
Uno di quei pugili che usava principalmente l'intelligenza e i riflessi per battere l'avversario, anche se più grosso di se stesso. Avevo aumentato la mia velocità ed ero riuscito a potenziare i miei colpi.
Ryan era sempre stato quello che fin dall'inizio mi guardava con ammirazione, nonostante io fossi arrivato dopo di lui e fossi più piccolo di qualche anno.
Mi avvicinavo molto anche allo stile dell'in-fighter e per questo Ryan mi prendeva in giro dicendo: "Di questo passo, furia, diventerai come Tyson".
Io ridevo e solitamente rispondevo: "solo se staccassi le orecchie a morsi. Non l'ho ancora fatto, amico". E lui rideva insieme a me.
Guardai il mio amico all'ingresso e scossi la testa. "Per sta volta passo. Non sono in vena" risposi.
"Ooh, e per la rossa? Avanti, amico. Morto un papa se ne fa un altro" disse con il suo sorriso convinto.
Lo fulminai con lo sguardo. "Cerca di dire meno cazz.. Stupidate" mi corressi, accorgendomi di come mio fratello mi guardasse attento e curioso.
"Mi conosci abbastanza da sapere come la penso. E adesso, vorrei tornare a dormire sul mio divano" terminai irritato.
Ryan sospirò e sollevò le mani. "E va bene. Scusa. Che state guardando?" chiese, rivolgendosi ad Evan.
Oh, no. Non aveva intenzione di restare, giusto? "Maratona di Dragon Ball" rispose mio fratello con un ampio sorriso.
Il sorriso di Ryan si illuminò ancora di più. "Combattimenti, grande! Che stiamo aspettando?" disse, facendo il solletico ad Evan.
Come non detto. Sospirai e seguii i due, impegnati a fare chiasso, in salotto. "Ma tu non avevi da fare?" gli chiesi, accomodandomi sul divano.
"Naah, senza di te non c'è gusto, perciò.." e scrollò le spalle, sorridendo.
Io scossi la testa e risi. "Ry, dovrei preoccuparmi della tua cotta per me? Diventa sempre peggio" lo presi in giro e lui scoppiò a ridere. "Già. Ti amo troppo, furia. Non posso più stare senza di te, quindi sì, dovresti preoccuparti" stette al gioco, mentre Evan commentava con un "che schifo".
"Ehi, marmocchio. Hai qualche problema? Vuoi fare a botte per l'amore di tuo fratello? Avanti, colpisci" e alzò le mani, tenendole aperte davanti a sé. Evan rise: "tanto vinco io" diceva.
"Questo è da vedere" ribatteva Ryan iniziando a fargli il solletico e lasciandolo senza fiato.
Io sorrisi, scuotendo la testa. Era sempre così: il mio amico era fantastico nel dar corda ai bambini e a mio fratello in particolare. L'unica cosa che mi preoccupava era quando fingevano di combattere. Sapevo che prima o poi sarebbe nata la passione per qualcosa anche ad Evan, ma speravo che non fosse il pugilato. Ora capivo il motivo per cui il padre di Melanie aveva tenuto nascosto ai suoi figli di aver intrapreso anche quello sport. Capivo perfettamente il senso di protezione che aveva provato e la paura che potessero farsi male. Per me era lo stesso con Evan. Mi terrorizzava l'idea che potesse rompersi i denti o farsi spaccare la faccia da altri. Ma mio fratello amava giocare con Ryan in quel modo e io non avevo il coraggio di fermarli.
Poco dopo iniziai a pensare che dopotutto l'arrivo di Ryan era stato una buona cosa: avrebbe tenuto compagnia a mio fratello, mentre oi, proprio come avevo fatto precedentemente mi addormentai, lasciando che tutto il resto diventasse un leggero sottofondo.
 
 
Pov Rachel

Quelle ore di viaggio in macchina erano state infinite. Fortunatamente era stato un viaggio piacevole, considerando che il mio compagno era Dave e che la nostra destinazione era Stanford. Il mio ragazzo era così bravo a portare la macchina che non potevo che rilassarmi, con la musica in sottofondo, nonostante si trattasse dei Green Day, il gruppo preferito di Dave.
Dopo due anni trascorsi insieme sapevamo praticamente tutto l'uno dell'altro e nonostante molta gente ritenesse il mio ragazzo una persona noiosa, io con lui non mi annoiavo mai. E poi molte persone avevano l'occasione di vedere il suo lato serio, pacato e responsabile. Sì, queste erano le sue caratteristiche più evidenti e significative, da quando il signor Carter era morto. Io però, avevo la fortuna di vedere anche la sua parte più allegra, spensierata e divertente. E questo avveniva soprattutto quando stava lontano dalla sua famiglia. Non so se fosse una reazione volontaria o involontaria, ma quando stava nella stessa stanza con sua madre e sua sorella assumeva quell'aria seria e matura che solo un adulto riusciva ad assumere. Quando però stava con me, o soltanto con Chad o altri amici, il suo atteggiamento cambiava. Non che non si preoccupasse più della sua famiglia, ma in quei momenti pensava di più a se stesso. Si divertiva. E io amavo quella parte di lui. Proprio per questo ero così entusiasta di cambiare città insieme a lui e di iniziare a conviverci.
Ancora ridevo al solo pensiero della parola convivenza. Avevo sempre pensato al mio college in una camera degli alloggi, divisa con una ragazza dall'aria country. E invece lo avrei passato in un appartamento, a pochi minuti di cammino da Stanford, insieme alla persona che amavo.
Dave parcheggiò lungo la strada, appena sotto il portone con il nostro numero civico.
Scendemmo dalla macchina e Dave si appoggiò al tettuccio della macchina, sollevò gli occhiali da sole che aveva sul viso e guardò in alto. Lo vidi sorridere soddisfatto e mi voltai anche io verso la stessa direzione. Il palazzo che avevamo di fronte era collegato ad altre palazzine, tutte diverse l'una dall'altra. La nostra era di un bel celeste acceso, con tre finestre l'una sopra l'altra che indicavano il numero dei piani. "Non so te. Ma io non sto più nella pelle" disse Dave. Io risi e tornai a guardarlo.
"Quanto sei impaziente" lo presi in giro.
"Tu no?".
"Oh, sì. Ma io sono anche terrorizzata" dissi, ridacchiando e lui rise dopo di me.
Avevamo già fatto quel tipo di discorso: entrambi sapevamo che la convivenza poteva essere difficile o non risultare come uno se lo aspetta, ma tutti e due eravamo ottimisti e speravamo che tutto sarebbe andato per il meglio.
 

Pov Melanie

Ero stremata. Finalmente, dopo ore e ore mi trovavo davvero davanti alla porta che sarebbe stata la mia camera del college.
Le valigie erano intorno a me e la chiave mi tremava tra le dita. Non riuscivo a credere di avercela fatta per davvero. Quella mattina quando l’aereo era atterrato, avevo perso l’autobus e avevo dovuto chiamare un taxi, con cui ero arrivata direttamente davanti alla struttura. Mi ero fermata a guardare il muro in pietra davanti a me, mentre ragazzi e ragazze mi passavano accanto. Quella scritta a caratteri neri sul muro “San Francisco Art Institute” mi dava il benvenuto. Sorrisi e mi mossi, cercando di non perdere altro tempo.
All’interno lasciavo cadere l’occhio qua e là senza soffermarmi più di tanto e trascinandomi dietro le valigie, mi diressi, seguendo le indicazioni, direttamente in segreteria nei punti dedicati all’accoglienza.
Avevo sospirato vedendo la fila interminabile delle persone, che appena arrivate come me, dovevano ricevere le chiavi dell’alloggio e tutte le informazioni necessarie per poter iniziare il nostro soggiorno nell’istituto.
Dovetti aspettare una buona mezz’ora, prima che il mio turno venisse e che una donna con gli occhiali e una coda di cavallo alta, mi desse il benvenuto con un sorriso smagliante. Mi chiesi se anche gli altri giorni, in cui non doveva accogliere tutta quella gente, continuasse a mantenere il sorriso sulle labbra.
Firmai diversi moduli, mentre la ragazza, Missy diceva il suo cartellino, mi spiegava quando sarebbe iniziate le lezioni, gli orari, l’andamento della mensa e come arrivare agli alloggi. Mi rassicurò, dicendo che sarebbe stato facile integrarsi e abituarsi alla routine di quel posto e se avessi avuto bisogno di qualcosa, avrei potuto chiedere benissimo a lei.
Avevo ascoltato tutto in silenzio, annuendo o sorridendo e quando finalmente mi ritrovai di nuovo da sola, andai volentieri verso gli alloggi, seguendo per i sentieri la scia di ragazzi che andava nella mia stessa direzione e osservando, invece, quelli che si dirigevano dalla parte opposta.
E così, in quel momento mi ritrovavo davanti alla porta numero 158, temendo ciò che avrei potuto trovare dall'altra parte.
Sospirai e girai la chiave nella toppa. Sentii il clic metallico e aprii la porta. La prima cosa che vidi furono i ricci scuri di una ragazza, che appoggiata a uno dei due letti mi dava le spalle. Non mi guardai nemmeno intorno, osservando quella testa riccia che mi dava le spalle. Stava sistemando della roba sul letto e ondeggiava sul posto al ritmo di musica. Musica che usciva dalle cuffiette che aveva alle orecchie e che era talmente alta che riuscivo a sentirla anche da quella distanza.
"Ciao" dissi a voce abbastanza alta, cercando di farmi notare, ma la musica era troppo alta. "Ehi" dissi aumentando il volume della voce. Niente. E non avevo la minima intenzione di andare lì e toccarla. Era un'estranea e non avevo la minima idea di come potesse reagire. L'avrei potuta spaventare a morte. Ma non volevo neanche far finta di nulla e iniziare a sistemare la mia roba. Una volta che si fosse accorta, si sarebbe spaventata di paura comunque. Sospirai e mi guardai intorno: l'occhio cadde sull'interruttore al mio fianco e una idea mi illuminò. Premetti l'interruttore, accendendo la luce. La prima cosa che la ragazza fece fu quella di alzare lo sguardo verso il lampadario. Poi, togliendo una cuffia si voltò verso di me, con una calma disarmante.
E finalmente la potei osservare con attenzione: aveva la pelle ambrata, più chiara del color cioccolato dei suoi occhi e quella massa di ricci castani sulla testa. Non era truccata e soltanto con un'occhiata si poteva affermare che era proprio una bella ragazza.
"Ciao" ripetei per la terza volta. "Sono la tua compagna di stanza. Mi chiamo Melanie" dissi, spegnendo nuovamente la luce e rivolgendole un sorriso. Sorriso che non venne ricambiato. La ragazza incrociò le braccia sul petto e mi squadrò dalla testa ai piedi, facendomi sentire a disagio. Poi fece un verso di disapprovazione e disse: "la mia sfiga colpisce ancora. Speravo che l'altro letto restasse vuoto, ma a quanto pare...".
Il suo accento era completamente diverso dal mio e intuii che dovesse venire dalle parti del sud America. O da paesi oltreoceano. Non ero mai stata brava nel capire le origini di una persona dall'accento o dal dialetto che parlava. Bravura o meno, non era quello il punto.
Grandioso. Era stato davvero un ottimo inizio: ero appena arrivata e già la mia compagna di stanza mi odiava. Non potei fare a meno di pensare alla prima volta che avevo messo piede al liceo di Dover e come la reginetta della scuola mi avesse snobbata alla grande, flirtando con mio fratello e guardandomi nello stesso modo in cui mi osservava questa ragazza riccia davanti a me. Pensai istintivamente a Dave e Rachel che erano così fortunati da condividere un appartamento e a come si sarebbero ambientati bene loro due, che al contrario di me, non attiravano rogne e portavano la loro luce raggiante dovunque andassero.
Penso che fu proprio per quello sguardo da "guarda con che bidone della spazzatura mi ritrovo a parlare" che la mia parte scontrosa venne fuori all'istante.
"Sei in una stanza del college con due letti. Non penso che potesse esserci grande possibilità che restasse vuoto. Quindi, se vuoi che tutto vada liscio qui dentro, accontenti, bella" dissi, sollevando un sopracciglio e scacciando la voce di Chad dalla testa, che mi diceva di non cacciarmi nei guai. Sapevamo entrambi che volente o nolente, per me era impossibile, anche se avrei almeno potuto provarci.
La ragazza davanti a me sorrise. "E va bene, bella" iniziò pronunciando l'ultima parola proprio nello stesso modo in cui lo avevo fatto io. "Questa parte della camera è mia. Questa è la tua. Niente favori, niente condivisioni, niente furti o sparizioni di roba. Se ti atterrai a queste direttive potremmo anche provare a dormire sotto lo stesso tetto. E adesso io me ne vado" disse prendendo la giacca e dirigendosi verso di me. O meglio verso la porta. Mi scansai insieme alle mie valigie, ma prima che potesse uscire la fermai. "Ehi" dissi e lei si voltò a guardarmi spazientita.
"Posso sapere almeno il tuo nome?" chiesi.
Lei sorrise e si voltò di nuovo, facendomi intendere che non ero degna di sapere il suo nome. Ma prima di chiudere la porta lo fece: "Mi chiamo Cher" affermò chiudendo la porta alle sue spalle.
Io sospirai e lasciando perdere l'incontro appena avvenuto e la convinzione che non sarebbe stata una convivenza per niente facile, mi guardai intorno per davvero. La camera non era molto grande. Simmetricamente due letti si trovavano ad angolo, nelle due pareti opposte, con accanto un comodino in legno. L'unica differenza era che il mio letto era vicino alla porta, mentre quello di Cher accanto alla finestra. Nella parete di fronte ai letti, sempre simmetricamente si trovavano due scrivanie e due armadi, separati da una porta che conduceva al bagno in comune.
La parte di Cher era già sistemata, con tanto di poster alle pareti e libri sulla scrivania, rendendo per contrasto la mia parte ancora più spoglia e triste. Sorrisi, guardando le valigie a miei piedi e con determinazione iniziai ad aprirle. "Mettiamoci al lavoro" dissi a me stessa, pensando che anche la mia parte sarebbe diventata ordinata e... mia. Dovevo assolutamente fare in modo che quella piccola parte che avevo a disposizione diventasse la mia nuova casa, sebbene non permanente.
 

Pov Rachel

Aprii la porta del nostro appartamento con le mani tremanti, mentre Dave stava dietro di me con un paio di valigie tra le mani.
Quando sentii la serratura scattare, una volta girata la chiave, una scarica di eccitazione mi attraversò, facendomi entrare emettendo un gridolino.
"Benvenuta nella nostra nuova casa" disse Dave, guardandomi con un sorriso smagliante.
Non potei fare a meno di ridere e mentre il mio ragazzo lasciò le valigie incustodite davanti alla porta, ci guardammo attorno. Dave era già venuto qualche settimana prima, per guardare le condizioni reali dell'appartamento e per firmare gli ultimi accordi. Guardai il soggiorno già arredato, che appariva piccolo ma accogliente appena messo piede all'interno. L'arancio era il colore predominante e già questo mi metteva allegria. Non avrei potuto sopportare colori smorti per un anno intero. E Dave lo sapeva: proprio per questo avevo lasciato fare tutto a lui, fidandomi ciecamente del fatto che sapesse le nostre preferenze ed esigenze. Continuai a camminare, entrando in cucina. Fissai i fornelli inaspettatamente moderni e mi ritrovai a sorridere. Immaginavo già di stare davanti ad essi, con Dave dietro di me, che mi aiutava a cucinare o le nostre mattine, in cui era lui l'addetto alle colazioni.
Dave mi condusse di nuovo in salotto, dove due porte erano ancora chiuse. Una portava al piccolo bagno celeste, con la vasca. Ridacchiai, sapendo perfettamente che il mio ragazzo amava rilassarsi nella vasca.
Dave mise le braccia intorno alla mia vita e il suo respiro sul collo mi fece rabbrividire.
"E adesso la parte migliore" disse, conducendomi verso l'ultima porta rimasta.
L'aprii e rimasi a bocca aperta. Era l'unica stanza perfettamente arredata: il letto matrimoniale era già pronto, con tanto di lenzuola e coperte. I comodini ai lati del letto tenevano in piedi due lampade eleganti e in ognuno di essi c'era una foto incorniciata: una nostra foto.
Mi girai verso il mio ragazzo con le lacrime agli occhi. "Ma come..?".
Dave sorrise e mi strinse a sé. "La scorsa settimana, quando sono venuto a ultimare il tutto, beh, ho iniziato a darmi da fare. Volevo che la vedessi già così, nostra e non spoglia e triste".
Non riuscii a resistere e una lacrima di commozione sfuggì al mio controllo. Dave aveva ragione: entrando in quella camera non avevo avuto nemmeno il bisogno di immaginare come sarebbe stato e come avremmo passato le notti insieme. Tutto sembrava così perfetto.
"Grazie" sussurrai, affondando il viso sul suo collo.
Dave ridacchiò e tenendomi ancora tra le braccia disse: "avanti. Abbiamo ancora tantissime cose da fare. Le valigie non si svuoteranno da sole, vero?" e fece una faccia afflitta.
"Direi proprio di no. Su su, devi anche portarmi al college oggi. Ed è un obbligo" ordinai, spingendolo fuori dalla camera, pronti per metterci al lavoro.
 

Pov Chad

Il mio telefono squillò, facendomi agitare nel sonno. Ero talmente rincoglionito che non riuscivo neanche a capire se si trattasse della sveglia o della suoneria delle chiamate. Mugolai e mi voltai dall’altra parte, ignorando quel suono che a poco a poco diventava sempre più assordante. Pensai al sogno che stavo facendo e una persona mi venne subito in mente: Melanie. E solo pensando a lei capii che quella che suonava era la suoneria che avevo impostato per le sue chiamate. Aprii gli occhi di colpo e allungai velocemente il braccio verso il comodino. Non volevo che riattaccasse. Afferrai il telefono e lo portai all’orecchio dopo aver premuto il verde. “Mel?” dissi, con la voce ancora roca per il sonno.
“Buongiorno, amore. Ti ho svegliato?” mi chiese dolcemente la voce della mia ragazza.
“Mmh, no” dissi, cercando di far tornare normale la mia voce.
La sentii ridere e il mio petto si strinse. Era via soltanto da un giorno e già mi mancava la sua risata.
“Tanto lo so che ti ho svegliato. Quindi.. che stai facendo?” mi chiese.
Io scossi la testa. “Sono nel letto” risposi, ridacchiando.
“Lo sapevo!”.
“Tu che stai facendo? Sei arrivata? Come stai? Com’è lì?” chiesi, troppo velocemente anche per i miei standard.
“Ehi, ehi, Chad. Rallenta” disse Melanie dall’altro capo del telefono. “Mi sei sembrato quasi Rachel”.
Io grugnii per il paragone che aveva fatto e rimasi in silenzio, aspettando le risposte.
“Non ribatti neanche? Tesoro, sei sicuro di stare bene?”.
Io grugnii di nuovo e affondai la faccia nel cuscino. “Melanie! Mi sono appena svegliato” mi lamentai, con la voce ovattata.
“Ok, ok. Ho capito” ridacchiò. “Sì, sono arrivata. Sto bene e qui sembra tutto fantastico, eccetto il fatto che ho in camera una ragazza molto scontrosa e non so se riuscirò a tollerarla. Adesso? Sto camminando per il college, dopo aver sistemato la mia stanza, cercando di capire come funzionino le cose” mi rispose.
Io sorrisi con la faccia ancora affondata nel cuscino. Come diavolo aveva fatto Melanie a ricordare le domande che le avevo posto e a rispondere a tutte, non lo sapeva nemmeno io.
Era per questo che amavo la mia ragazza. Anche se era intenta a fare altro, mi stava sempre ad ascoltare non perdendo mai nulla di quello che le dicevo.
“Sono contento, ma mi dispiace per la tua compagna di stanza. Sono sicuro che ce la farai” risposi.
E poi sentii Melanie urtare contro qualcosa e chiedere scusa a qualcuno.
“Mel?” chiesi e lei mi rispose frettolosamente. “Scusa, Chad. Ti richiamo stasera, adesso devo proprio andare” disse.
“Ok, ti amo” dissi, sentendo l’ansia di chiudere quella conversazione.
“Anche io” rispose e riattaccò.
Io sospirai e poi guardai lo schermo del telefono, dove la foto di Melanie sullo schermo mi sorrideva.
E poi saltai in aria: i miei occhi si erano poggiati sull’orario. Erano le 9:45. Avrei dovuto incontrare Carl, il mio allenatore e manager, tipo.. 30 minuti fa. Cazzo. Mi alzai in fretta, pensando che quella volta mi avrebbe ucciso. Non era la prima volta che arrivavo in ritardo e nonostante rimanessi sempre di più alla fine dell’allenamento, Carl si lamentava molto di questo mio difetto. Questa volta, però, avevo proprio esagerato. Fortunatamente dovevo solo firmare delle carte e non allenarmi: quello lo avrei fatto di pomeriggio.
Mentre mi alzavo, raccoglievo la mia roba da terra e dirigendomi in bagno indossavo i primi vestiti che mi capitavano a tiro e che erano abbastanza puliti da poter riutilizzare. La casa era silenziosa come ogni mattina. Imprecai pensando a come non avessi sentito la sveglia che avevo puntato e cercai di muovermi.
 
Arrivai in palestra che erano già le dieci passate. Entrai, spingendo la porta a vetri e mi piombai nell’ufficio di Carl. La porta era aperta e non appena alzò lo sguardo e mi vide, mi guardò contrariato.
“Alla buon ora, Chad” disse.
“Scusa, mi sono addormentato” risposi, mentre lui scuoteva la testa e sospirava. Iniziava a farci l’abitudine di questo mio incontrollabile vizio.
“Vieni qui. Se non firmi non potrai iniziare il campionato. A te la scelta” mi disse.
Sorrisi e mi avvicinai. “Dove devo firmare?” chiesi, mentre lui mi porgeva la penna e mi indicava il punto giusto in cui lasciare la firma, quella firma che avrebbe dato inizio al mio lavoro annuale preferito.
 
Uscii dalla palestra e guardai l’orologio. Quella mattina avevo ancora un altro appuntamento prima di poter tornare a casa. Fortunatamente lo avevo fissato per le undici e adesso non ero in ritardo. Parcheggiai la moto davanti al garage aperto e mi tolsi il casco. Un uomo mi venne subito incontro con un sorriso smagliante. “Chad! Che piacere! La tua moto è sempre perfetta a quanto vedo” disse, pulendosi le mani oliose su una pezzuola e girando intorno alla mia amata moto.
L’uomo davanti a me aveva già una cinquantina d’anni ed era colui che durante i miei primi anni al liceo mi aveva insegnato tutto sulle moto. Joe era uno dei meccanici più bravi di tutto la città e la sua officina era molto grande, comprendendo all’incirca sei garage, collegati tra di loro.
Il mio primo anno al liceo lo avevo trascorso praticamente dentro questi spazi pieni di auto e moto, osservando e talvolta aiutando chi lavorava. Ero diventato talmente bravo e informato, che Joe ripeteva sempre che in materia di moto lo aveva superato alla grande. Proprio per questo motivo quando lo avevo chiamato per ottenere il lavoro aveva subito accettato con entusiasmo. Ebbene sì, volevo e avevo bisogno di un altro lavoro, oltre agli incontri di pugilato, che mi occupavano principalmente i pomeriggi. Infatti, fino all’anno prima, le mie mattine trascorrevano nel sonno, che mi preparava alle serate passate con la mia ragazza, oppure in palestra ad allenarmi per alcune ore aggiuntivamente.
Adesso che Melanie non era più a Dover avevo assoluto bisogno di occupare le mie mattine e di distrarmi completamente dal fatto che arrivato alla sera non avrei potuto più sedermi sul divano con lei tra le braccia.
E quale modo migliore del lavoro? Avevo subito chiamato Joe e lui era stato entusiasta.
E anche io adesso, mentre stringevo la sua mano, diventato un suo dipendente, non potevo fare a meno di togliermi quel sorriso soddisfatto dalle labbra. Finalmente avrei potuto unire definitivamente i miei due hobby e fisse preferite: il pugilato e le moto.
 

Pov Melanie

Ero uscita dalla porta, dopo aver finito d sistemare la mia piccola parte di camera. Avevo una grande voglia di guardarmi intorno e perlustrare ogni singolo posto del mio college.
Quando fui all’aperto, frugai nella tasca e prendendo il mio telefono, feci partire la chiamata rapida.
Chad mi rispose dopo parecchi squilli e controllai l’orario. Supposi che stava ancora dormendo, ma prima di chiudere la chiamata, rispose.
E così ebbi la conferma che lo aveva svegliato per davvero. La sua voce era ancora roca e impastata dal sonno, proprio come ogni mattina prima di bere il caffè e divorare la sua abbondante colazione.
Mentre camminavo mi guardavo intorno, divorando con gli occhi ogni scultura posta sui viali e ogni tipo di arte che potesse esserci. Mi ritrovai anche a osservare la gente che avevo attorno, prendendo a mente che i piercing, i strani tagli di capelli e i vestiti particolari erano caratteristiche di molti studenti di questo college.
E intanto parlavo al telefono con il mio ragazzo, che mi fece ridere per le sue frenetiche domande e la sua confusione di prima mattina: era così adorabile.
E poi posai lo sguardo su una cosa piuttosto bizzarra, che probabilmente ne luogo in cui mi trovavo non lo era affatto. Infatti su uno dei marciapiedi del viale c’era un ragazzo, con una tela poggiata sul cavalletto e una tavola di colori sul braccio. Un pennello tra le mani e il viso concentrato stava dipingendo cose che da quella distanza non riuscivo a distinguere. E nessuno si curava di lui, come se fosse la cosa più normale che si potesse vedere di prima mattina.
Sorrisi e mi allontanai, mentre rispondevo a tutte le domande che Chad mi aveva fatto.
E poi, mentre guardavo verso una colonna che spuntava dal terreno, qualcuno mi venne addosso. “Oddio, scusami” dissi, voltandomi verso la persona che avevo urtato. Era una ragazza o almeno lo immaginavo vedendo le sue gambe slanciate e fasciate nei jeans stretti, mentre uno scatolone piena di roba teatrale le nascondeva il viso.
Salutai Chad e rispondevo al suo ti amo, mentre la ragazza aveva spostato lo scatolone e mi guardava con due occhi chiari scintillanti.
“Tranquilla, mi succede spesso quando non guardo dove cammino” disse, poggiando lo scatolone per terra.
E mi ritrovai a fissarla: questa ragazza era una di quelle strane persone di cui parlavo prima. Avevo degli occhi celesti e la pelle chiara quasi quanto la mia. Un sorriso bianco le incorniciava il volto. La sua caratteristica principale era però il suo stravagante colore di capelli. O dovrei dire colori. Indossa un cappellino dalla quale usciva una chioma di capelli ondulati: la parte superiore era di un bel celeste, mentre la parte inferiore, fino alle punte che le arrivavano a metà schiena, erano d un bel verde chiaro.
Sorrisi, non sapendo cosa dire. “Sei arrivata adesso? Sei una matricola?” mi chiese e io annuii.
“Sì, sono arrivata stamattina” risposi.
“Oh, bene. Allora posso farti fare il giro del college. Amo farlo visitare alle persone appena arrivate. Beh, quelle che mi sembrano simpatiche” disse, ammiccando e lasciandomi basita.
Il suo sorriso non si spegneva, nonostante il mio sbigottimento e la mia espressione del viso. Poi, si diede un colpo sulla fronte e disse: “Che sbadata, non mi sono neanche presentata. Mi chiamo Becka Talbot” e mi porse la mano.
La strinsi. “Melanie Carter” risposi.
“Bene, Melanie. Ti va di fare questo giro turistico?” mi chiese eccitata.
Io la guardai e mi feci presi travolgere dal suo entusiasmo. “Certo che mi va” dissi, sfoggiando un sorriso.
Anche Becka continuava a sorridere e prendendo di nuovo lo scatolone tra le braccia mi incitò a seguirla.
E io lo feci, pensando che se le cose si svolgevano in quel modo, lì dentro, mi sarei integrata in fretta. E soprattutto mi sarei dovuta abituare a tutta quella stravaganza, che dopotutto, mi faceva sentire normale. Come se quella parte di me, che sempre avevo tenuto chiusa nel comodino, quella che emergeva quando iniziavo a disegnare e ad entrare nel mio mondo, per la prima volta, stava davvero venendo fuori allo scoperto e alla vista di tutti.

 
 
 
 

Angolo dell'autrice: Ehilà!!! E rieccomi finalmente con il secondo capitolo! Guardate un po', siamo già a sabato e per poco non sforavo il mio impegno settimanale XD no, sto scherzando XD posso dire che pubblicare di sabato è stata una cosa calcolata, in modo che dalla prossima volta cercherò di pubblicare sempre nel weekend :)
Alloraa, che ne pensate di questo nuovo capitolo? Bene, lascio dire a voi.
Ehmm, un'ultima cosa: il lupo perde il pelo, ma non il vizio XD 
Vi lascio le foto di come immagino i nuovi personaggi ;)

Prima di tutto, vi mostro i protagonisti a distanza di due anni :D

Melanie Carter                                                                 Chad O'Connor
                


E adesso i nuovi personaggi:

Ryan Rage                                                                     Cher Lesley
                              


Becka Talbot



Ecco qui!! E adesso vi saluto!! Alla prossima ;)
Manu



 

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Capitolo 3
*** Party time ***


Pov Melanie

Il giro turistico con Becka era stato molto piacevole. Quella ragazza era così solare che soltanto con una parola riusciva a scaldare l'atmosfera. Trasportando il suo scatolone e scuotendolo da una parte all'altra per guardare dove metteva i piedi, mi aveva mostrato gli spazi aperti per gli studenti, come il grande spiazzale della terrazza, sempre colmo di gente e con una vista strepitosa su tutta la città e con quelle finestre cilindriche sul pavimento che mostravano l'interno di alcune delle sale più importanti.
Guardai i tavolini al sole e sorrisi, pensando a come sarebbe stato bello occuparne uno durante l'anno e studiare all'aperto. Specialmente in quel periodo dove l'aria non era ancora fredda.
Poi Becka mi mostrò i giardinetti e tutti gli alloggi per noi ragazzi.
L'istituto non era così grande, anche per il fatto che si trattasse di un college privato e Becka, che stava lì già da più tempo, rivolgeva cenni del capo o saluti amichevoli a parecchi ragazzi e ragazze, mentre camminavamo per le vie.
"Da quanto tempo studi qui?" le avevo chiesto.
"Sto iniziando il secondo anno. Sono una vera esperta, ormai" disse sorridendo e facendomi l'occhiolino.
"Quindi.. Teatro?" continuai, indicando lo scatolone che aveva tra le braccia.
"Sì, teatro e scenografie" rispose orgogliosa, con gli occhi che le brillavano: capii che era innamorata di ciò che faceva soltanto da quello sguardo. "Anzi, andiamo a dare un'occhiata proprio lì. Così potrò finalmente posare quest'attrezzatura" mi disse, incitandomi a seguirla e conducendomi all'interno di uno degli edifici.
"E tu, invece?" mi chiese, ma non feci in tempo a rispondere che continuò: "no, aspetta. Provo ad indovinare".
Io non dissi nulla, sorridendo e lei mi lanciò uno sguardo indagatore, riflettendo.
"Niente piercing, niente tatuaggi, niente cose stravaganti... Non è che sei del design?" mi chiese.
Io scossi la testa. "Fotografia?" tentò ancora.
"Sbagliato di nuovo" risposi sorridendo. "Disegno e pittura" precisai.
Lei mi guardò sorpresa. "Davvero? Mmh, non lo avrei mai detto. Magari ti adatterai anche tu e tra qualche mese avrai le braccia coperte di tatuaggi" ridacchiò, facendomi capire che stava scherzando.
Risi insieme a lei. "Non credo. Sono un'artista semplicemente normale" dissi, roteando gli occhi, mentre immaginavo la reazione di Chad o di mia mamma se davvero fossi tornata a casa con dei tatuaggi o la pelle bucata nei posti più strani. No, non volevo veramente assistere ad una scena del genere.
"Oh, mia cara. Nessun artista è semplice o normale" ribatté lei, continuando a camminare per i corridoi. Dopotutto non potevo darle torto. 
Io e Becka attraversammo una porta che ci condusse proprio davanti al palco di un immenso teatro. La mia guida personale mi disse che era praticamente una delle stanze più grandi di tutto l'istituto e che almeno una volta al mese conteneva quasi tutti gli studenti e i professori per assistere a spettacoli teatrali o ad eventi particolari. In quel momento la sala era stranamente vuota e silenziosa, ma non appena arrivammo nel retroscena, fui sorpresa di vedere molti ragazzi: alcuni intenti a provare, altri a riordinare il gran caos che regnava lì dentro, altri ancora soltanto a chiaccherare seduti per terra. Non appena entrammo molti puntarono l'attenzione su di noi.
"Ehi Becka!" molti salutarono allegramente, mentre un ragazzo moro diceva: "Sempre in giro con nuovi studenti, eh? Chi è la malcapitata sta volta?" chiese con un sorriso divertito sulle labbra.
Becka rise. "Si chiama Melanie. È una pittrice" mi presentò e io sollevai la mano, salutando con un ciao allegro.
"Ciao a te. Mmh, una pittrice. Carina" mi sorrise il ragazzo.
"Non ci provare, Glenn. Non spaventerai anche questa mia amica" disse Becka, mentre il ragazzo rideva.
Amica. Sorrisi istintivamente a quella parola e la trovai subito piacevole. Ero lì da poco ed ero riuscita già a socializzare con qualcuno. Questo mi portava a pensare che avrei potuto davvero trascorrere degli anni entusiasmanti, nonostante una parte di me fosse rimasta a Dover: una delle parti più importanti, quella legata a Chad.
Becka intanto sbuffò, mentre Glenn non poteva fare a meno di ridere.
Poi la ragazza dai capelli colorati spinse lo scatolone verso il petto del ragazzo. "Tieni. Adesso che io l'ho portato qui, tu puoi rimetterlo a posto" disse, mettendo più enfasi nei pronomi.
"Sempre fantastica, Becka" la prese in giro il ragazzo, che comunque non si oppose e scomparve dalla nostra vista, dietro ad uno dei separé. Becka non se ne curò e tornò a guardarmi. "Ok, possiamo continuare" e così riprendemmo con il nostro tour.
Mi fece vedere numerose aule, tra le quali alcune che sarebbero state le mie e di cui rimasi subito affascinata. Passammo anche per la mensa, la segreteria (che avevo già visto), la biblioteca e i laboratori.
E finalmente tornammo davanti al mio alloggio, che si era quasi fatta ora di pranzo.
“Grazie per il giro” dissi, sorridendo. “Sei sicura di non essere una guida turistica?” scherzai, apprezzando quanto mi avesse detto di ogni posto in cui ci eravamo fermate e che mi aveva mostrato.
Lei rise. “Non ancora. Ma potrei sempre provarci” rispose, facendomi l’occhiolino.
“Faresti sicuramente carriera. Mi sono divertita molto” affermai ridendo insieme a lei.
Becka sorrise. Si grattò la guancia e parlò: “Stasera c’è una festa agli altri alloggi. Una sorta di benvenuto per i nuovi. Ci sarà molta gente, musica e da bere. Se ti va potremmo vederci lì” mi propose.
Il mio sorriso divenne più grande.  “Certo, penso che si possa fare”.
Becka annuì e dopo avermi detto l’orario, sparì dalla mia vista, lasciandomi da sola davanti agli alloggi.
Prima sera al college, prima festa, pensai mentre mi dirigevo di nuovo verso la mia camera. Avrei pregustato finalmente la vita del college. Mentre riflettevo però mi rattristai, pensando che Chad non sarebbe stato lì con me, come alle feste che andavamo a Dover o come le nostre serate. Per la prima volta in due anni avrei fatto qualcosa del genere senza di lui. E proprio questo mi faceva nascere un peso sullo stomaco. Ancora, dopo due anni non riuscivo ad accettare che Chad avesse abbandonato del tutto l’idea di andare al college. Ma dopotutto aveva trovato la sua vocazione nel pugilato senza bisogno di trascorrere del tempo lontano dalla sua famiglia. E adesso anche a me non restava che seguire la mia di vocazione, cercando di riuscire a diventare, un giorno, un’artista. Di diventare qualcuno.


Pov Chad

Il suono così familiare dei colpi sui sacchi e dei versi quasi animaleschi del combattimento riempì le mie orecchie, mentre attraversai la porta principale del luogo in cui lavoravo: la palestra.
Salutai distrattamente alcuni dei ragazzi che mi degnavano di attenzione durante le loro piccole pause e andai direttamente negli spogliatoi, preparandomi per il solito allenamento pomeridiano.
E così, pochi minuti dopo ero seduto sul bordo del ring sovrappensiero, con le gambe penzolanti e le mani che macchinavano con i guantoni.
“Ehi, amico” sentii la voce di Ryan e alzai la testa per incontrare il suo sguardo. Era anche lui pronto per l’allenamento con addosso soltanto i pantaloncini.
Gli feci un cenno con la testa e lui continuò: “Che diavolo ti è successo? Sei già qui, in anticipo?” mi chiese, fingendosi molto sconvolto.
“Ah ah. Io non sono mai in ritardo” dissi, sorridendo beffardo.
Ryan rise. “Sì, e io sono Tylor Swift” mi rispose, roteando gli occhi.
“Chi?” aggrottai le sopracciglia cercando di capire di chi stesse parlando.
Gli occhi di Ryan si spalancarono e poi li sollevò in alto. “Lascai perdere. Sei una causa persa, furia. Comunque suppongo che la tua puntualità abbia a che fare con la rossa”.
Melanie. Il mio stomaco si chiuse di colpo. Ancora una volta il mio amico ci aveva centrato in pieno. Prima che interrompesse i miei pensieri con il suo arrivo, infatti, stavo proprio ripercorrendo con la mente la serie di messaggi che mi ero scambiato con lei appena un’ora prima. Quella sera avrebbe partecipato ad una festa. E io ero qui, a Dover. Dietro al telefono avevo provato a sembrare il più normale possibile, cercando di essere entusiasta del fatto che Melanie si stesse già integrando, ma in realtà non ero affatto tranquillo. Avevo le emozioni in subbuglio e non riuscivo a capire effettivamente come la pensassi. Fatto sta, che tutti quei pensieri mi avevano condotto in palestra addirittura in anticipo.
Roteai gli occhi e poi li puntai su Ryan.
"Perché devi sempre tormentarmi la vita?" dissi, esasperato.
"Oh oh. Addirittura un tormento? Quanto sei melodrammatico, Chad" mi derise.
Io sbuffai e gettandomi indietro poggiai la schiena sul tappeto freddo del ring, distendendomi con le gambe ancora penzolanti.
"Sta zitto" sibilai.
Lo sentii ridere e poco dopo me lo ritrovai seduto accanto, che mi guardava dall'alto.
"Rossa o no, mio caro amico, stasera verrai con me".
Io mi sollevai sui gomiti, incuriosito.
"Dove andiamo?" chiesi, mentre sentivo l'eccitazione che mi pervadeva. In effetti, uscire di casa mi avrebbe fatto bene.
Lo vidi sorridere compiaciuto. "Così mi piaci, furia! Hanno appena aperto un locale in periferia. Mi hanno detto grandi cose su quel posto: andremo ad inaugurarlo. E poi ci saranno molti di noi" mi spiegò accennando con la testa all'ambiente che avevamo intorno.
“Allora? Cos’è successo?” mi incalzò, mentre io guardavo il soffitto sopra di me.
Roteai gli occhi. “A che ora stasera?” chiesi, invece, voltandomi di nuovo verso di lui.
Ryan rise, capendo perfettamente che non avevo alcuna intenzione di rispondergli.
“Alle..” iniziò, ma non fece in tempo a finire la frase che qualcuno ci interruppe.
“Ehi, voi due! Che diavolo state facendo? Oh mio dio, ma.. Chad O’Connor è già qui? O è solo un miraggio?” la voce di Carl mi prese in giro spudoratamente e io mi misi di nuovo a sedere.
“Ah ah, Carl, quanto sei divertente! Non sei contento del fatto che io sia così puntuale?” chiesi.
“Oh, non fraintendermi, ragazzo. E’ come se fosse domenica. Se lo facessi più spesso, non potrei chiedere di meglio” disse con un sorriso sulle labbra.
“Secondo me inizierà ad essere più puntuale. Perché gli manca la rossa” piagnucolò Ryan, deridendomi.
“Fanculo” gli dissi, dandogli un pugno scherzoso sul braccio e saltando giù per rimettermi in piedi, mentre Ryan rideva.
“Piantatela voi due. E tu, Ryan. Ti do venti secondi per coprirti. Vi aspettano almeno 40 minuti di corsa qua fuori” ordinò Carl, incitandoci a muovere.
“Che cosa?” dicemmo al contempo noi ragazzi e iniziammo a lamentarci.
“Dieci secondi, Rage” furono le parole del nostro allenatore e Ryan iniziò a correre verso lo spogliatoio, mentre io ridevo e scuotendo la testa mi diregevo verso l’uscita, pronto per una bella corsa pomeridiana. Sì, proprio meravigliosa, pensai subito ironicamente quando l’aria fredda mi colpì il viso.
Sì, sarebbe stata proprio rigenerante.


Pov Dave

Era stata una giornata intensa. Io e Rachel avevamo sistemato la casa per tutta la mattina e nonostante non fossimo riusciti a finire il tutto, dopo aver cucinato qualcosa di molto veloce, avevamo fatto un giro quasi completo del college che avremo frequentato per i prossimi anni. Camminavamo mano nella mano, osservando i grandi spazi aperti pieni di vita, con studenti che correvano di e qua e di là e mi chiesi se tutta quella frenesia sarebbe aumentata con l'inizio delle lezioni. Probabilmente sì. Tutto quel movimento, unito a quella bella giornata di sole sembravano rendere la mia scelta ancora più giusta. Ero pronto per intraprendere quella vita. Già dal terzo anno del liceo sapevo quale sarebbe stata la mia professione e adesso non mi restava che raggiungere l'obbiettivo. Avevo perso fin troppo a causa di quella malattia e avevo provato talmente tanto dolore, con la morte di mio padre prima e l'operazione di mia sorella dopo, che avrei volentieri risparmiato ad altra gente di provarlo, se avessi potuto. E sicuramente sarei stato preparato se un giorno sarebbe potuto sopraggiungere la possibilità che i miei figli o i miei nipoti fossero affetti dalla malattia. La mia determinazione, insieme alla convivenza con la mia ragazza sembrava rendere il tutto perfetto.
E poi, avrei potuto anche continuare a praticare il mio sport agonisticamente. Dopotutto, la mia borsa di studio era dovuta proprio al basket.
E così, adesso, io e Rachel stavamo girovagando tranquillamente per il campus, osservando gli alloggi che noi avevamo rifiutato, superando la segreteria che avevamo già utilizzato per compilare alcune carte riguardanti l'inizio effettivo degli studi, e gli edifici ricolmi di aule molto grandi e spaziose. E nonostante io e Rachel avremmo frequentato corsi di studio differenti e avremmo occupato i sediolini in legno di aule diverse, alla fine della giornata ci saremmo ritrovati nella stessa casa, avremmo cenato e dormito insieme, come una vera coppia. Anche io ero un po' spaventato dal cambiamento, ma ero convinto che tutto sarebbe andato per il meglio. Aspettavo tutto quello da parecchio tempo e il fatto di aver lasciato il resto a Dover, mia madre, i miei amici e mi ero allontanato da tutto, eccetto Rachel, non faceva che rendermi elettrizzato all'idea di poter trovare nuovi amici e affrontare una nuova avventura in un ambiente sconosciuto. E mi chiameranno pazzo o avventato, ma dopo anni di compostezza e di responsabilità quest'aria di libertà mi annebbiava la mente.
I miei pensieri furono interrotti dalla vista del cartello che mi indicava come arrivare al campo da basket.
Mi fermai e così fece Rachel. "Penso che andrò a dare un'occhiata al campo. Se sono fortunato potrei incontrare qualcuno. Ti va se ci dividiamo per un po'?" le chiesi.
Non che non la volessi intorno, ma sapevo che del campo le interessava ben poco.
"Certo" mi sorrise. "Avevo comunque intenzione di andare a vedere l'auditorium di giurisprudenza. O la biblioteca. Ci sentiamo dopo, ok?" propose.
Io sorrisi a mio volta e annuii, separandomi da lei e camminando spedito verso la mia meta.
Quando varcai la soglia della palestra rimasi un attimo senza fiato. Non aveva la grandezza di un vero palazzetto, ma di certo era differente dalle palestre scolastiche. Era un bel campo, molto grande e con degli spalti decisamente spaziosi, per contenere il numero più elevato possibile di persone.
Rimasi lì, in silenzio, immaginando come sarebbe stato giocare su quel parquet e sentire il pubblico che ti acclama, urlando il tuo nome e quello della tua squadra.
"È bello, vero?". Una voce femminile mi fece sobbalzare. Mi voltai verso la persona che chissà da quando era in piedi accanto a me: una donna, all'incirca oltre i quarant'anni con un'alta coda di cavallo scura e degli occhi color cioccolato, guardava il campo davanti a noi.
"Sì, ho sempre amato guardare il campo da basket. E quando è così vuoto, con questo silenzio surreale, beh, mi affascina ancora di più. È perfetto" affermai.
La donna si voltò a guardarmi, sorridendo. "Hai ragione" mi appoggiò, poi mi tese una mano e si presentò: "Johan Marset".
E al sentire il suo nome i miei occhi si spalancarono. Quando lo avevo letto sulla borsa di studio, avevo dato per scontato che si trattasse di un uomo, come quasi tutti gli allenatori delle squadre del college. E invece, avevo davanti a me una donna, che sarebbe stata la mia allenatrice a partire da quell’anno.
Forse fui così sconvolto da quella rivelazione che ero rimasto immobile per del tempo di troppo e lei mi sorrise divertite.
“Allenatrice della squadra di basket. Altre aspettative, eh?” mi chiese e solo in quel modo mi riscossi.
“Oh, ehm… no. È davvero un piacere conoscerla. Sono Dave Carter” mi presentai a mia volta, stringendo la mano che ancora mi porgeva.
“Il signor Carter. Finalmente è arrivato” affermò, guardandomi entusiasta. “Quindi, ho il piacere di conoscere uno dei due giocatori che utilizzerò per rafforzare la mia squadra. L’unico per cui ho firmato la borsa di studio per la pallacanestro. Davvero molto interessante. È davvero triste pensare che nelle nuove iscrizioni soltanto due ragazzi pratichino questo sport” disse velocemente, mentre io la guardavo spaesato.
E quando il mio cervello metabolizzò le sue parole, un sorriso mi sorse spontaneo.
“In effetti non vedevo l’ora di essere qui. Mi dispiace se ci ho messo più del previsto, ma sa, le ore di viaggio in macchina non erano poche. E sì, concordo con lei. Il nostro sport diventa sempre più svalutato ogni anno. A meno che non sei una star dell’Nba, ovviamente. Uh, la ringrazio per la borsa di studio” conclusi, cercando di stare al passo con il suo discorso.
“Dovere” sorvolò, facendo un gesto sbarazzino con la mano. “Guardando le tue partite era decisamente difficile non farlo”.
Mi sentii lusingato per quel complimento e sorrisi senza sapere cosa dire.
“Hai già visto il campus?” mi chiese.
“Quasi tutto”.
“Oh, bene. Sono sicura che diventerà un Cicerone del posto dopo pochissimo tempo. Adesso innumerevoli carte da firmare mi chiamano. Comunque ci rivedremo presto, signor Carter, quando potrà finalmente conoscere il resto della squadra. Buon proseguimento” disse, prima di dileguarsi. Non feci quasi in tempo a ricambiare il saluto e a ringraziare, che era già sparita dalla mia vista. Guardai il punto in cui quella donna si era allontanata e la curiosità mi assalì: mi ispirava molta fiducia, ma avevo troppa voglia di vederla in azione con i ragazzi, considerando che sarebbe stata la mia prima allenatrice donna.
E ovviamente la mia impazienza era infinta e non riuscivo a resistere all’idea di dover aspettare altri due giorni, prima dell’inizio delle lezioni del lunedì.


Pov Melanie

La sera era arrivata in fretta e io non avevo la più pallida idea di cosa indossare per andare alla festa. La mia camera era rimasta vuota praticamente per tutto il pomeriggio e quando Cher era tornata in camera non mi aveva neanche rivolto la parola. Aveva preso dei vestiti dall’armadio e si era chiusa in bagno per venti minuti buoni. Quando la porta si era riaperta, soltanto guardandola avevo capito che anche lei sarebbe andata alla festa. Indossava una minigonna e un top scollato. A coprirla, soltanto una giacca leggera.
“Vai con qualcuno alla festa?” azzardai, mentre tiravo fuori dall’armadio dei jeans stretti e un top colorato.
Lei si voltò a guardarmi. “Sì. Conosco molta gente qui” mi rispose, sorprendendomi.
“Uh, capisco. Posso chiederti di che facoltà sei?”.
“Design” mi rispose. “E tu pittura, sì l’ho intuito” continuò, indicando i miei album già sparsi sulla scrivania. “Ok, adesso che sappiamo che cosa abbiamo intenzione di fare nella vita, io vado. Ci vediamo” disse con poco garbo chiudendosi la porta alle spalle.
Non me ne curai nemmeno e mi preparai in fretta.
Una volta pronta, percorsi la strada che avevo fatto quella mattina con Becka e arrivai proprio davanti all’alloggio che mi aveva indicato. Già da quella distanza potevo sentire la musica che usciva da qualche camera e potevo vedere la gente che si spintonava per trovare uno spiraglio dove passare. Mi incamminai verso l’ingresso amalgamandomi alla mischia e mi feci trascinare dalla corrente fino alla grande sala comune di quell’edificio. Il punto d’origine della musica era proprio quello e lì il volume era ancora più alto. Mi guardai intorno e vidi subito Cher in un angolo con un gruppo di amici. Era avvinghiata ad un ragazzo con la pelle ancora più scura della sua e supposi che fosse il suo ragazzo. Lei, al contrario di me, aveva avuto quella fortuna.
E poi, venni scossa dai miei pensieri, quando una mano si poggiò sul mio braccio. Mi voltai e incontrai il viso raggiante di Becka. “Ce l’hai fatta!” mi disse entusiasta. “Vieni con me, ti faccio conoscere i miei amici”.
La seguii verso un gruppo di ragazzi stravaganti quanto lei, con i capelli colorati e vestiti eccentrici.
E così mi ritrovai a stringere mani di sconosciuti e a sentire nomi che avevo già dimenticato cinque secondi dopo.
Erano tutti gentili e amichevoli con me e riuscii ad integrarmi quasi subito.
Ad un certo punto, mentre chiacchieravamo del più e del meno e li ascoltavo parlare della loro vita al campus, Becka fece segno con la mano a qualcuno tra folla. “Ehi, Chris! Siamo qui!” urlò, cercando di farsi sentire.
Vidi un ragazzo con i capelli biondi tirati indietro, che sentendosi chiamare, aveva sorriso e si era diretto verso di noi. Indossava una camicia che lasciava intravedere i pettorali e dei jeans strettissimi.
“Buonasera a tutti” disse, una volta che ci raggiunse e che si posizionò al fianco di Becka.
“Sempre in ritardo, eh, Chris?” scherzò la ragazza e il biondo sorrise.
“Oh sì. Quante volte te lo devo ripetere? Devi sempre farti aspettare” disse con voce mielosa e un sorrisino soddisfatto.
Becka scosse la testa divertita e poi si voltò verso di me. “Melanie, questo è il mio migliore amico Chris. Chris, questa è la nostra nuova amica, Melanie. Pittrice, intelligente e simpatica” ci presentò.
Mi sentii lusingata per quei complimenti, che mi aveva assegnato soltanto dopo un paio d’ore trascorse insieme. Ero così contenta che potessi ispirare simpatia in quel modo. Cosa che in realtà, mi capitava molto raramente.
“Oh, che bocconcino. Un nuovo componente del gruppo. Piacere mio” disse il ragazzo, rendendo la sua voce poco maschile e porgendomi la mano.
Gliela strinsi e sorrisi, senza sapere cosa dire.
“Sì, è un po’ timida, ma la faremo diventare una perfetta artista. Non trovi?” continuò Becka.
Chris sorrise e annuì. “Concordo. E poi lo sai che le rosse sono sempre le più simpatiche e meno civettuole” disse e io ebbi la piccola impressione di non parlare effettivamente con un ragazzo.
E così la serata proseguiva e io mi stavo divertendo molto. Becka mi aveva anche offerto qualcosa da bere, ma avevo rifiutato con un sorriso, ricordando perfettamente quanto dovessi stare attenta con l’alcol. Per il mio cuore trapiantato non era poi una buona idea. Fortunatamente la ragazza non se ne curò e continuò, insieme al suo amico Chris a riempirmi di domande o a informarmi su persone che frequentavano il campus, come quelle più popolari o le più eccellenti, indicando gente tra la folla e cercando di sovrastare la musica.
Poi, però, iniziai a sentire caldo e tutta quella musica mi stava opprimendo. Non ce la feci più e dicendo a Becka che sarei uscita a prendere un po’ d’aria, mi diressi all’esterno.
Quando l’aria fresca mi colpì il viso, mi sentii subito meglio e le mie orecchie, lontane da tutto quel caos si rilassarono.
Vidi una panchina vuota nel prato di fronte a me e mi diressi proprio lì, accomodandomi sulla pietra fredda e alzando gli occhi verso il cielo stellato.
Era davvero una bella serata, con il cielo pieno di puntini luminosi e completamente sgombro di nuvole. Sorrisi, pensando a quando io e Chad, in sere di questo tipo ci distendevamo sul prato davanti casa e cercavamo di  individuare le costellazioni, nonostante entrambi non capissimo nulla di astronomia. Spesso, infatti, finivamo per inventarne delle nuove: le nostre costellazioni, a cui davamo i nomi più strani.
Tirai fuori il cellulare dalla tasca dei jeans e rimasi ferma a guardare la foto che avevo sulla sfondo, di me e Chad. Ero tentata di scrivergli un messaggio, ma non sapevo se fosse una buona idea. Non volevo che pensasse che non mi stavo divertendo, ma tanto meno che mi fossi dimenticata di lui: cosa effettivamente impossibile.
I miei pensieri furono interrotti da una voce maschile, bassa e profonda. “Poco gradita la festa?”.
Sobbalzai, colta di sorpresa e alzai lo sguardo verso il ragazzo che aveva parlato. E lo riconobbi subito. Nonostante avesse i capelli tirati indietro e dei vestiti più casual, era proprio lo stesso ragazzo che mi ero soffermata a guardare quella mattina, che dipingeva con il cavalletto sul marciapiede.
Mi guardava con un sorriso sulle labbra e lo sguardo lunatico. Mi soffermai sul suo viso squadrato, i capelli castani pettinati indietro, gli occhi sottili e castani e le labbra piene.
“Sì, cioè no. Mi sto divertendo, ma avevo bisogno d’aria” risposi.
“Capisco. Posso sedermi?” chiese, indicando la panchina.
Io annuii e lui si accomodò accanto a me. “Sei arrivata oggi, vero?” mi chiese.
“Sì” dissi soltanto, guardandolo con curiosità.
“Oh, che sbadato. Neanche mi sono presentato. Mi chiamo Adrian  e faccio il..”
“Pittore” dissi io, prima che lui finisse la frase. Vidi il suo sorriso che si ampliava.
“Esatto” confermò.
“Io sono Melanie. Anche io sto cercando di diventarlo” dissi, spostando lo sguardo e puntandolo di nuovo verso le stelle.
“Se sei qui in mezzo a noi, lo sei già. Devi solo perfezionarti e mostrarlo al mondo intero” dissi a voce a bassa il ragazzo accanto a me.
Rimasi in silenzio, mentre riflettevo su cosa mi avesse appena detto. Aveva ragione? E ci sarei riuscita davvero?
Poi Adrian si alzò in piedi. “Penso che sia ora che vada. Buon proseguimento di serata, Melanie” mi disse, facendo un mezzo inchino galante, che mi ricordò i film ambientati nell'ottocento e che mi fece sorridere istintivamente.
“Anche a te” risposi e poi rimasi da sola nella notte. Guardai il telefono abbandonato nella mia mano, ancora aperto nella conversazione di Whatsapp con Chad. Premetti il tasto indietro e mi alzai in piedi. Era ora di tornare all’interno e cercare di godermi la festa il più possibile.


Pov Chad

Il nuovo locale si trovava, come aveva detto Ryan, nella periferia di Dover, vicino alla zona industriale.
La grande insegna al neon blu, rendeva l’aria intorno a noi dello stesso colore e metteva in mostra il nome del locale: “The Court”. Come potessero chiamare con un nome del genere, un posto di quel tipo non riuscivo proprio a capirlo.
Seguii Ryan verso l’entrata, dove una lunga fila di persone stava aspettando per poter entrare. Ryan mi fece un cenno con la testa, facendomi capire con un semplice gesto che la nostra attesa, al contrario di tutta quella gente, sarebbe stata inesistente.
“Ci stanno aspettando” mi disse, infatti, sollevando le sopracciglia con un’espressione soddisfatta.
Raggiungemmo la fila dei vip, praticamente vuota e fronteggiammo il buttafuori, che ci guardava con aria annoiata, ma minacciosa.
“Siamo nella lista di Marx” annunciò il mio amico e il buttafuori guardò il quaderno in cui erano elencate tutte le liste.
“Nomi?”.
“Rage e O’Connor”.
Il buttafuori controllò la lista, scorrendo una penna su e giù per i nomi e la picchettò sui nostri quando li trovò. Fece un sorrisino e aprì il gancio a cui era legata la corda che separava noi comuni mortali dall’ambiente surreale in cui ci stavamo inoltrando.
“Buon divertimento” ci augurò il buttafuori, facendoci  passare.
All’interno la musica era quasi assordante e le luci soffuse rendevano il tutto praticamente uguale agli altri locali nelle vicinanze. Anche se si trattava di un posto nuovo, carino e stracolmo di gente, per me era identico a tutti gli altri. Solo un luogo dove bere roba buona e, nel caso dei miei compagni, di rimorchiare qualche bella ragazza.
Ryan mi afferrò per il braccio, evitando di urlare e mi condusse verso i privè. Anche qui dovette semplicemente dare i nostri nominativi e in cambio ricevemmo dei braccialetti blu fluo e l’ingresso a quegli spazi, che sinceramente avrei immaginato più piccoli. Lì la musica era più attutita e le sedie erano sostituite da comode poltroncine. Ci unimmo ai nostri compagni pugili che erano già seduti e dopo aver scambiato dei saluti praticamente con tutti, iniziammo a chiacchierare e scherzare anche noi, integrandoci nei discorsi come se fossimo stati lì dall’inizio.
Tutto stava andando tranquillamente, quando Ryan si alzò in piedi e si sporse verso di me.
“Andiamo a prendere da bere” mi propose.
Io scossi la testa. “Siamo nei privè. Sai che ti possono portare direttamente da bere qui ai tavoli?” gli chiesi.
“Sì, ma in questo modo non ci sarebbe alcun divertimento” disse con un sorriso beffardo sulle labbra. “Andiamo” mi incitò e a quel punto, sollevando gli occhi al cielo, lo seguii. Uscimmo da quei luoghi appartati e facendoci largo tra la folla di gente che ballava o semplicemente stava in piedi a guardarsi intorno, riuscimmo ad arrivare al bancone per ordinare da bere.
“Cosa vuoi, amico?” mi chiese Ryan dopo aver attirato l’attenzione del barista.
“Qualunque cosa” dissi, mentre mi guardavo intorno.
Vidi il sorrisino di Ryan e poi lo sentii rivolgersi di nuovo al ragazzo davanti a noi. “Due tequila” gli disse e io scossi la testa divertito. Se glielo avessero permesso, Ryan avrebbe messo la tequila ovunque.
Il barista annuì e si diede da fare, mentre noi stavamo appoggiati al bancone.
“Ti sei già guardato in giro?” gli chiesi.
“Veramente no. Ero troppo impegnato a guardare quelle spogliarelliste laggiù” mi rispose indicando le ragazze che ballavano quasi nude su un piccolo palco.
Io risi, senza aggiungere altro e poi il mio amico mi porse il cocktail che era appena arrivato.
Ne bevvi dei sorsi, sentendoli scendere con il solito calore fin nel petto. Ryan intanto mi indicava qualche donna qua e là e io scuotevo la testa o annuivo, come facevamo di solito. Semplicemente lo consigliavo sulle possibili e appetibili scelte. Cosa che ovviamente facevo quando eravamo soli e Melanie non veniva con noi alle serate. In quel caso avrei ballato con lei, senza curarmi del resto del mondo.
E poi, mentre stavo per finire di bere ciò che avevo in mano, accadde. Fu solo un attimo, nei flash luminosi delle luci accecanti, ma in quel momento il mio cervello mi suggeriva che ciò che avevo appena visto era reale.
In mezzo ad un gruppo di ragazze, che ballavano in un angolo del locale, c'era una ragazza. Avevo visto il suo viso soltanto per un attimo, poi si era voltata di spalle, facendo ballare insieme a lei quei capelli biondi, che mi sembravano così familiari. No. Non poteva essere lei. Rimasi immobile e continuai a guardare in quella direzione, ma subito dopo la ragazza si mosse tra la folla e la persi in mezzo a tutta quella gente.
“Ehi, furia. Tutto bene?” mi chiese Ryan, che probabilmente aveva notato il modo in cui mi ero irrigidito.
Mi voltai a guardarlo e annuii. “Sì, pensavo di aver visto qualcuno che conoscevo” spiegai.
“Uh, ok. Torniamo al privè?” mi chiese e io fui grato del fatto che me lo avesse chiesto.
“Sì, andiamo” dissi, iniziando a camminare nella direzione giusta e cercando di scacciare dalla testa quegli stupidi pensieri. Non potevo averla vista per davvero. Non era neanche in città. Col senno di poi, potevo credere perfettamente che quella persona era semplicemente una che le assomigliasse e che le luci così offuscate e intermittenti mi avessero fatto tornare in mente cose che avevo voluto cancellare già molto tempo prima.
Mi fiondai sulla comoda poltroncina che era rimasta vuota durante la nostra assenza e lasciai perdere, pensando soltanto al secondo drink che avevo appena ordinato e che avrei bevuto da lì a momenti.
Dopotutto era sempre stato facile per me fingere che tutto andasse perfettamente e ancora una volta lo feci: indossai quella maschera fredda e strafottente che negli ultimi anni mi aveva contraddistinto e che mi aveva portato ad essere il pugile Chad O’Connor.
 





Angolo dell'autore: Ehilà!! Ok, direi che sono in ritardo >.< Beh, almeno adesso ho capito che con i miei impegni scolastici e non per pubblicare potrei prendermi anche due settimane. Spero che una attesa del genere non vi dispiaccia. 
Ecco quindi il nuovo capitolo, che lascio commentare a voi.
Spero che sia stato gradito ^^

Ehm.. ecco dei nuovi personaggi XD

Chris Lunt                                                                               Adrian Guesswood
                                  

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Capitolo 4
*** L'inizio ***




Pov Melanie

La sveglia suonò sul comodino e io sobbalzai, mettendomi a sedere sul letto. Oggi sarebbero iniziate le lezioni effettive e io fremevo al solo pensiero. Erano già passati diversi giorni dal mio arrivo e dalla festa, durante i quali avevo trascorso del tempo principalmente all'esterno dell'edificio, in giro per le vie della bella città di San Francisco e per i suoi negozi affollati e caotici. Per di più avevo passato del tempo con Becka, anche se per poco. Mi aveva spiegato, infatti, che nel corso di teatro aveva un ruolo importante. Era una delle amministratrici, insieme ad altri due ragazzi, e anche gli insegnanti spesso le chiedevano di occuparsi di piccole o grandi faccende, in modo che tutta l'organizzazione fosse perfetta. Chissà, forse un giorno sarei diventata come lei e avrei gestito da studente un intero settore del college. Settore che in realtà dovevo ancora cominciare e considerando che non volevo arrivare in ritardo già il primo giorno, scacciai via certi pensieri dalla testa. Dopotutto, era sempre stato Chad quello ritardatario, non io.
Perciò balzai giù dal letto e solo allora mi accorsi che Cher era ancora seppellita sotto le coperte, nel letto accanto al mio. Il suono fastidioso dell'aggeggio sul mio comò non l'aveva toccata per niente e la ragazza continuava a dormire restando immobile, nella stessa posizione. E io non potei fare a meno di paragonarla a mio fratello. Anche Dave era così: una volta addormentato non si svegliava con nulla, tranne se veniva scosso o se impostava come sveglia la sua chiassosa suoneria.
Il lato positivo del fatto che la mia compagna di stanza stesse ancora dormendo era che io potevo tranquillamente utilizzare il bagno e prepararmi a dovere.
Indossai dei pantaloni che lasciavano le mie caviglie scoperte, ritenendoli adatti al primo giorno e lasciai i capelli, che adesso dopo il taglio corto di due anni prima erano tornati fin oltre le spalle, ricadere sciolti e un po' disordinati.
Presi la tracolla, che Chad mi aveva regalato per il mio inizio al college e che avevo già preparato la sera prima e feci per uscire. Lanciai un'ultima occhiata alla ragazza scura che stava ancora dormendo e con cui, per ragioni a me inspiegabili stavo ancora sul piede di guerra, e mi chiesi se avessimo orari differenti delle lezioni o se fosse semplicemente in ritardo. In entrambi i casi svegliarla mi sarebbe risultato sconveniente, per cui non me ne curai e aprii la porta della nostra camera, pronta per la mia prima lezione.
 

Pov Chad

Mettere piede in palestra di mattina era davvero strano.
Comunque, quando la sera prima Carl mi aveva detto che l'allenamento era spostato alle 9 del mattino, per me non era stato un problema. Era bastato invertire i turni di lavoro e il gioco era fatto.
Anzi, quella mattina mi ero svegliato anche un po' più tardi del solito e prima di entrare in cucina un odorino delizioso era arrivato al mio naso. Entrando in cucina avevo trovato mio fratello, seduto sullo sgabello della cucina, che dandomi le spalle mangiava la sua solita tazza di cereali, mentre mia zia avevo appena spento i fornelli.
"Buongiorno, Chad" mi salutò mia zia, mentre io mi allungavo dietro le spalle di mio fratello e afferravo uno di quei gustosi cereali al cioccolato, che riempivano la tazza talmente tanto da nascondere completamente il liquido che stava sotto e che supposi dovesse essere latte. Portai il cereale alla bocca, mentre Evan si voltava verso di me. "Ehi! Quello era mio!" disse arrabbiato.
"E che sarà mai? Ne ho preso solo uno. Non lamentarti" dissi, sedendomi sull'altro sgabello libero. Evan mi fece una linguaccia, mentre mia zia mi metteva davanti un piatto ricolmo di uova, bacon e una colonna di frittelle. "Oh. Buongiorno a te" dissi, ricambiando il saluto di poco prima, ma guardando intensamente il piatto che avevo davanti. Avevo l'acquolina in bocca solo guardando quella prelibatezza e mi chiesi come facesse Evan a preferire del semplice latte con i cereali.
Sentii mia zia ridere per la mia reazione, chiedendosi probabilmente se stessi parlando con lei o con il cibo.
Io, intanto mi ritrovai a pensare di essere grato alla donna che in quel momento stava pulendo i fornelli, mentre noi gustavamo la colazione che ci aveva appena preparato. Da quando anche io avevo iniziato ad avere i loro stessi orari, grazie al lavoro che mi ero procurato, mia zia aveva iniziato a cucinare per entrambi i suoi nipoti, nonostante io le avessi detto che non c'era bisogno. Ma lei aveva insistito e io non era riuscito a negarglielo. Diceva di farlo con piacere e che dopotutto non lo aveva mai fatto, considerando che appena poche settimane prima le mie mattine trascorrevano con me sotterrato sotto le coperte del mio caldo letto. "Era ora che lo facessi" era stato il suo commento, accompagnato da un sorriso genuino.
In quel momento sentimmo la porta di casa che si apriva e si richiudeva e nessuno se ne curò, sapendo chi fosse appena entrato: l'unico uomo, che oltre me aveva da qualche mese le chiavi di quella casa. Mason Twister era il compagno di mia zia già da due anni e tutti noi eravamo ormai abituati alla sua presenza. Soprattutto Evan che si era abituato facilmente al fatto che il suo vecchio insegnante fosse diventato l'uomo amato da nostra zia.
"Buongiorno" ci disse, dopo essere entrato in cucina. Stava iniziando a far crescere quella barba rossiccia, che mia zia riteneva tremendamente sexy. E così mi chiesi se cercare il rosso nei propri compagni fosse un vizio di famiglia.
Mason aveva cinto con le mani i fianchi della sua donna, che gli dava le spalle. "Ehi dolcezza" disse e mia zia fermò ciò che stava facendo e si voltò per baciarlo.
Io ed Evan ci eravamo guardati e avevamo fatto un verso disgustato, tanto che i due adulti si separarono e ridacchiarono.
"Evan, va a cambiarti. O faremo tardi" ordinò la donna e mio fratello saltò giù dallo sgabello.
E poi, prima di andare verso la porta si sporse e rubò una frittella dal mio piatto, ficcandosela in bocca.
"Ehi! Quella era mia" avevo ribadito, infastidito.
"Era solo una. Non lamentarti" mi disse imitando perfettamente le prime parole che quella mattina ero stato io a pronunciare. E io non avevo potuto fare a meno di sorridere istintivamente, guardando mio fratello che scappava via dalla cucina. Solo con quei piccoli gesti mi accorgevo che Evan stava crescendo, diventando sempre più furbo e più simile a me. E nonostante Ryan me lo ripetesse continuamente, io non ero così sicuro che quella fosse poi una buona cosa.
 
La palestra di mattina era davvero desolata. Tutti gli attrezzi erano ancora al loro posto dalla sera precedente e si sentiva solo il rumore dei climatizzatori che avevano iniziato a scaldare l’ambiente.
Quando Carl mi vide mi salutò senza dire nulla, mentre io mi dirigevo verso gli spogliatoi. Si stava abituando felicemente alla mia nuova puntualità e di certo non se ne lamentava. E non me lo faceva notare neppure, forse per la paura che se lo avesse fatto, sarei potuto tornare ad essere il solito ritardatario.
Quando tornai nella sala in cui il ring si mostrava in tutta la sua bellezza, Carl non era più da solo. Accanto a lui, un ragazzo, forse poco più giovane di me, con lunghi capelli raccolti in alto sulla testa e due pozze scure al posto degli occhi.
Temetti la sua presenza dal momento in cui l’avevo visto. Ragazzi giovani significava soltanto…
“Chad, lui è Simon. Oggi sarà lui il tuo allenamento” Carl interruppe i miei pensieri. Ecco, come non detto: avrei dovuto fare da babysitter ad un marmocchio che cercava di provare il brivido del combattimento. Non era la prima volta che il mio allenatore me ne appioppasse uno e solitamente proprio questi ragazzi si sentivano i re del mondo solo per il fatto di indossare dei guantoni, senza capire a cosa servisse la nostra arte. Per loro era solo mostrare alle ragazze e ai compagni liceali di essere fighi.
Feci una smorfia involontaria, ma annuii, non potendo contraddire o ribattere alle parole di Carl.
“Dagli del filo da torcere” mi esortò, iniziando a farmi la telecronaca della vita del ragazzo, come al solito. E come al solito non me ne fregava nulla e fingevo di ascoltare mentre mi preparavo a combattere con un ragazzo, che speravo non fosse un vero principiante. Carl continuava a ripetermi che ogni tanto questi combattimenti potevano essere utili anche a me: imparare dai più deboli. Un concetto che in realtà non mi era molto chiaro.
<< E poi, se vorrai insegnare un giorno, puoi iniziare a fare pratica già da adesso >> mi diceva continuamente.
E chi diceva che volevo davvero insegnare a fare ciò che amavo? Ok, ero bravo a farlo, ma chi lo sapeva: magari un giorno sarei diventato qualcuno di importante e avrei aperto un grande concessionaria di motociclette.
Risi di me stesso e scacciai quegli stupidi pensieri dalla mente, finendo di scaldarmi e praparandomi ad andare all’attacco.

Erano passati venti minuti da quando quel ragazzo continuava a lanciare colpi a vuoto con una faccia minacciosa, mentre a me bastava spostare il peso del corpo per scansarli.
Scagliavo qualche colpo di tanto in tanto, che raramente venivano fermati, mentre Carl continuava a ripetere consigli al ragazzo davanti a me, di cui avevo già dimenticato il nome, figuriamoci la vita.
Dallo sguardo, però, sembrava un ragazzo tormentato. I suoi colpi erano frenetici e cercava di canalizzare in essi tutta la sua forza, evidentemente senza riuscirci. Quella era sempre stata l’unica parte accettabile di quei combattimenti: osservare l’avversario e cercare di capire i suoi stati d’animo o i suoi problemi. Dopotutto, nessuno iniziava a combattere senza una motivazione valida. Tutti noi avevamo avuto dei problemi, più o meno gravi che ci avevano portato a sfogarci contro i sacchi o contro la gente. Io, ad esempio, avevo iniziato a farlo qualche anno dopo l’abbandono di mio padre. Il vuoto che avevo avuto dentro da quel momento ero riuscito a riempirlo soltanto in quel modo.
E poi qualche minuto dopo, Carl se ne andò nel suo studio, lasciandomi da solo con quel ragazzo, dopo avermi raccomandato di dargli consigli durante il combattimento. Io annuii, guardando come la palestra aveva iniziato a riempirsi di gente, nonostante fosse mattina. E così, scoprii che anche la mattina quel posto brulicava di vita.
Non dovetti aspettare molto che una voce troppo familiare fece eco tra le tante.
“O’Connor schiva il colpo con la velocità di una pantera, mentre il ragazzo nuovo e strambo cerca disperatamente di sfiorarlo” disse Ryan, imitando la voce di un telecronista e parlando ironicamente.
Io ridacchiai e mi voltai appena verso il mio amico che adesso era quasi davanti al ring, con le braccia incrociate al petto e un sorriso beffardo.
“Oh, chi si vede a quest’ora del mattino” dissi, continuando a guardarlo e fermandomi con le braccia più rilassate rispetto alla posizione di combattimento.
“Buongiorno a te, amore” mi disse, con il suo sorriso ancora in bella mostra. Io feci una smorfia al nomignolo, mentre lui continuava, fiero di sé: “E poi io sono sempre qui. L’ora non è importante”.
E poi vidi la mossa del mio avversario ancora prima delle sopracciglia di Ryan che si sollevavano e mi abbassai d’istinto. Schivai il pugno che il ragazzo strambo, come il mio amico lo aveva chiamato, mi aveva lanciato, mentre mi riteneva distratto.
“Ehi!” dissi, arrabbiato, per la slealtà del mio avversario. E poi il mio pugno fu sulla sua mascella, più velocemente della formulazione del pensiero nella mia testa. Il ragazzo cadde con il culo per terra, non aspettandosi la mia istantanea reazione, con un verso di dolore e portandosi una mano guantata alla mascella.
La risata di Ryan riempì l’aria, mentre il ragazzo per terra mi ringhiava contro: “Non tergiversare, amico”.
Lo guardai infuriato. Il rispetto di quei marmocchi era sempre uguale. Andava a farsi fottere ogni volta.
“Tirati su, amico” lo incitai, mettendo più enfasi nell’ultima parola. Odiavo quando quei liceali dovevano sfogare la loro rabbia su di me in quel modo e mi ero infuriato velocemente, ripetendo la solita scena di sfacciataggine di quei ragazzi complessati.
Simon- improvvisamente mi ero ricordato il suo nome- si alzò in piedi e riprese a combattere, mentre Ryan iniziava a parlare. “Chad, devo dirti una cosa” mi disse, con l’eccitazione nella voce.
Adesso io guardavo il ragazzo davanti a me, ma stavo comunque ascoltando il mio amico.
 “Che cosa hai fatto sta volta?” chiesi, mentre colpivo Simon al fianco con poca convinzione.
“Sono tornato al nuovo pub ieri sera”.
“Cosa? Senza…” iniziai, sentendomi offeso per essere stato escluso in quel modo, ma mi interruppi di colpo.
“Ehi, deficiente. Abbassa quel gomito. O farai del male soltanto ad una mosca con la potenza che otterrà il tuo gancio” dissi, invece, verso il giovane che avevo davanti.
Ryan rise. “Uhuh, Chad si è scaldato. Non trattarlo tanto male, furia. O lo traumatizzerai” mi disse ironicamente.
Vidi Simon fare una smorfia infastidita, forse per l’appellativo che avevo usato, ma seguì le mie istruzioni e attaccò. Parai il colpo per l’ennesima volta. Le sue mosse erano lente, ma almeno, seguendo il mio consiglio, potevo sentire l’incremento di potenza del colpo.
“Sei andato senza di me? Potevi chiamarmi, stronzo” dissi a quel punto senza guardare Ryan, ma il mio amico sapeva perfettamente che mi stavo rivolgendo a lui.
“Sì, scusa furia, diciamo che è stata una cosa dell’ultimo minuto. Ma non è quello il punto. Ho incon…”.
“Rage! Che diavolo stai facendo?” Ryan venne interrotto dalla voce di Carl.
Sentii il mio amico che si schiariva la gola. “Converso?” disse semplicemente.
A quel punto io e Simon ci eravamo fermati a guardare i due uomini.
Ridacchiai al commento di Ryan e al sospiro esasperato del nostro allenatore.
“Perché devi sempre importunarmi O’Connor? Al contrario di te, sta lavorando” lo accusò.
“Non lo stavo importunando” affermò il moro con una faccia da schiaffi.
Carl scosse la testa. “Va a scaldarti, Ryan. Subito” gli ordinò.
“Okay, okay. Relax” borbottò l’altro sorridendo beffardamente e andando a recuperare la sua attrezzatura.
“E voi due, continuate. Avete ancora altri quindici minuti” disse Carl, rivolgendosi a noi sul ring.
Io roteai gli occhi e mi rimisi in posizione, ricominciando a combattere, mentre il mio allenatore aveva ripreso a correggere il ragazzo strambo.
 
Dopo quindici minuti ero giù dal ring, allontanandomi da Simon senza nemmeno salutarlo. Non mi aveva neanche detto grazie, nonostante avessi dedicato tutto quel tempo della mia mattinata proprio a lui.
Lasciai perdere e raggiunsi Ryan che adesso stava lanciando pugni contro uno dei sacchi.
Appena si accorse di me si fermò, sorridendo e poggiando le braccia intorno al tessuto nero del sacco.
“Hai finito?” mi chiese.
“Sì, adesso. Cosa stavi dicendo prima?” risposi, asciugandomi il sudore dalla fronte con il mio asciugamano.
“Ieri sera ho incontrato una ragazza” disse con la stessa eccitazione di prima negli occhi.
Io alzai gli occhi al cielo con un sorriso divertito. “E qual è la novità? Tu incontri sempre delle ragazze” affermai.
“No, Chad, non capisci. Questa è la ragazza più bella che abbia mai visto. Ho parlato con lei per gran parte della serata. È una modella e si è trasferita qui in città da poco. Sono riuscito ad ottenere il suo numero” disse, soddisfatto.
Io sorrisi. “Ben fatto, amico”.
Ryan si strinse nella spalle. “Sai, Chad. Lei mi sembra… diversa dalle altre. Cioè, non sembra finta come molte di loro e poi sembrava davvero interessata al pugilato. Penso che ci proverò per una volta” ammise.
Io sorrisi. Era strano sentire quel donnaiolo del mio amico dire parole del genere ed ero sinceramente contento per lui.
“Sembra fantastico, Ry. E adesso dovrai farmela conoscere, sappilo” gli dissi, puntando l’indice contro di lui.
Lui ridacchiò. “Certo, fratello” mi rispose.
“Bene, vado a lavarmi. Puzzo come…” iniziai.
“Come un opossum morto. Sì, amico. Lo sento” mi prese in giro, ridendo.
“Fottiti” dissi, colpendolo con la mano dietro la testa e ridendo insieme a lui, dirigendomi verso gli spogliatoi, pronto per una bella doccia calda: uno dei momenti migliori della giornata.
 

Pov Dave

E finalmente dopo una settimana in cui io e Rachel avevamo iniziato ad abituarci sulla nostra vita di coppia nell’appartamento, anche per noi erano iniziate le lezioni.
Quella mattina eravamo usciti di casa insieme, facendo il tragitto fino al college mano nella mano, mentre Rachel continuava a parlare a macchinetta su cosa sarebbe potuto accadere quel giorno. Ebbene, quello era sempre stato il suo modo di fare di quando era molto nervosa e io avevo ormai capito che bastava ascoltare in silenzio ciò che farneticava e sorridere di tanto in tanto. Solo in questo modo si sarebbe davvero calmata, mentre cercare di confortarla l’avrebbe resa decisamente peggio.
Prima di separarci comunque, avremmo assistito insieme alla riunione di benvenuto che l’istituto organizzava per gli studenti del primo anno di tutte le facoltà, nell’auditorium, dove alcuni professori ci rivolgevano un discorso di benvenuto e ci facevano gli auguri per l’inizio del nostro nuovo anno.
E solo alla fine di essa ci separammo, disperdendoci tra la mischia e dirigendoci nelle aule in cui avremmo assistito alla nostra prima lezione. La mia era quella di anatomia e mi sentivo elettrizzato al solo pensiero.
Una volta entrato nella grande aula, presi posto in uno dei sediolini vuoti nelle file al centro, mentre molti altri ragazzi facevano lo stesso, con amici o da soli, proprio come me. E così mi ritrovai a pensare che tutti noi avevamo un obbiettivo comune e chissà se tutti saremmo riusciti a raggiungerlo e a diventare ciò che avevamo intenzione di essere una volta usciti di lì. Sicuramente, io ce l’avrei messa tutta per riuscirci. I miei pensieri vennero interrotti dall’entrata del professore che prese posto sulla sua grande cattedra e dopo una breve presentazione iniziò la sua lezione, che fino a quel momento sarebbe diventata la lezione più interessante che avessi mai sentito.
 
Alla fine delle lezioni mattutine non riuscii a vedermi con Rachel. Di certo, non riuscivamo a tornare a casa per pranzare e attraverso una serie di messaggi eccitati, ma al contempo dispiaciuti per non poterci incontrare, decidemmo di vederci quella sera stessa, una volta tornati a casa.
Così, dopo aver pranzato nella mensa che la mia facoltà offriva e aver passato un po’ di tempo in biblioteca, soltanto per la curiosità di vedere come essa era fatta e quanto fosse assortita- sì, in una settimana non ero ancora riuscito ad entrarci- arrivò la fatidica ora: quella che aspettavo da quando ero andato via da quel campo.
Ebbene, oggi sarebbero iniziati anche gli allenamenti ed io ero elettrizzato per il fatto di conoscere la squadra, ma allo stesso tempo anche spaventato.
Speravo che sarebbe andato tutto bene e continuavo a ripetermi che dopotutto avevo già cambiato squadra una volta, dopo il trasferimento a Dover: non sarebbe stato così diverso, no?
Con il mio zaino in spalla mi diressi verso la palestra e non appena misi piede all’interno il rumore di molte voci mi riempì le orecchie. Svoltai l’angolo che mi separava da quel frastuono e quando lo feci dieci paia di occhi si puntarono su di me. Le voci si erano improvvisamente arrestate e io iniziai a sentirmi a disagio.
Pensai a qualcosa da dire per uscire da quella situazione, ma mentre riflettevo una voce interruppe la mia ricerca e si rivolse a me.
“Signor Carter. Ben arrivato tra noi”. Mi voltai verso la voce femminile che aveva parlato e che avevo già sentito una volta, appena la settimana prima.
Johan Marset stava seduta dietro al tavolo al margine del campo. Si era alzata in piedi non appena mi aveva visto e io sorrisi.
“Buonasera a tutti” dissi, cercando di non far tremare la mia voce e avvicinandomi ancora di più.
Johan mi venne incontro e si mise al mio fianco, mettendomi una mano sulla spalla, nonostante fosse più bassa.
“Ragazzi, lui è Dave Carter. Uno dei due nuovi giocatori. Non so che diavolo di fine abbia fatto l’altro, ma Dave è il ragazzo della borsa di studio. Sarò felice di ripetere che sarà meglio per voi integrarlo alla squadra velocemente. Considerando che siete la mia squadra, sapete quanto ritengo opportuno che siate uniti. Insieme dentro al campo, insieme fuori dal campo, ricordate?” fece il suo discorso, lasciandomi affascinato dalle sue parole, ma soprattutto per le reazioni dei suoi cestisti. Li guardai, notando il loro sorriso sulle labbra e i loro sguardi attenti e concentrati sulla donna. E solo così, guardando i loro visi, il mio sguardo si posò su un membro in particolare, alla fine della fila che formavano i cestisti.
Era una ragazza. Indossava già dei pantaloncini e le scarpe da basket, con addosso la felpa col cappuccio del college, al contrario di molti dei ragazzi che indossavano ancora i jeans, proprio come me.
Aveva una lunga coda di cavallo castana e degli occhi azzurri luminosi. Rimasi sorpreso di costatare che avevamo anche un membro femminile in squadra. Non era molto alta, più bassa di mia sorella, e tra quei ragazzi alti e robusti sarebbe potuta scomparire facilmente, ma soltanto dalla sua posizione, con le braccia incrociate al petto e le gambe leggermente aperte metteva in mostra un tale sicurezza di sé, che la rendeva tutt’altro che invisibile.
E poi, prima che i ragazzi dicessero qualcosa, qualcuno fece irruzione in palestra e tutti ci girammo a guardarlo. Era un ragazzo con una strana cresta bionda e le braccia in mostra dalla maglia a maniche corte coperte di tatuaggi.
Johan scosse la testa. “Alla buon ora, Vang” disse e il ragazzo sorrise.
“Non sono così in ritardo, no?” chiese, ironicamente.
“Fai meno lo spiritoso, ragazzo. Hai appena messo piede nella mia palestra e posso farti girare a largo già dal primo allenamento, come e quando voglio” sottolineò la donna, cambiando atteggiamento da un momento all’altro. “Vieni qui” lo esortò.
Il ragazzo eseguì, mettendosi vicino a Johan, in modo che lei fosse in mezzo a noi due ragazzi.
“Ragazzi, loro sono Dave Carter e Marshall Vang. Trattateli bene. Gallis, li affido a te” disse, poi rivolgendosi ad un ragazzo di almeno un metro e novantacinque, mulatto e con un fisico scolpito.
“Avete dieci minuti per cambiarvi, poi si comincia”.
A quel punto Gallis si avvicinò a noi e si presentò come il capitano della squadra. Peter Gallis.
Ci accompagnò negli spogliatoi, mentre ci chiedeva che cosa studiassimo lì al college e facendoci alcune domande sul nostro sport.
“Avrete un sacco di tempo per conoscere la squadra, tranquilli” ci rassicurò, mentre ci cambiavamo. Quel ragazzo mi piaceva. Riusciva a trasmettere calma soltanto con il tono di voce che utilizzava e probabilmente anche per quel motivo era il capitano della Stanford.
Quel primo allenamento fu per lo più dimostrativo, con Johan che ci dava del tempo per presentarci tutti e capire i nostri ruoli. Così scoprii che il nome della ragazza era Lilian Gibson e che era il playmaker della squadra. Poi Johan mostrò gli esercizi di riscaldamento e spiegò alcune sue modalità di allenamento, come la suddivisione dei giorni. Facevamo pesi il lunedì, resistenza il mercoledì e rapidità il giovedì, tutto per metà allenamento; la parte dell’allenamento restante avremmo fatto basket, ovviamente. Gli altri giorni, martedì e venerdì ci occupavamo pienamente e solamente del nostro sport.
E così, anche il primo allenamento era terminato e io mi sentivo già parte della squadra. Tutti i ragazzi erano molto simpatici e ci stavano facendo integrare nel miglior modo possibile.
Inoltre, avevamo potuto dare sfoggio delle nostre abilità di tiro, grazie a degli esercizi mirati che Johan ci aveva ordinato di fare e tutti furono entusiasti delle mie alte percentuali. Dopotutto, ero sempre stato una guardia tiratrice.
Per quanto riguardava il metodo di Johan, invece, non potevo che ritenermi soddisfatto. Era una donna che urlava molto in campo, tanto quanto ti elogiava o ti insultava. Riusciva ad incitare tutti con una energia incredibile e senza dubbio riusciva a farsi rispettare. Tutti i giocatori provavano stima e ammirazione nei suoi confronti e ben presto, ne ero sicuro, gli stessi sentimenti sarebbe sorti anche in me. Dopotutto, quella donna era riuscita a colpirmi già dal primo allenamento, in cui il vero e proprio gioco non era nemmeno iniziato.
 

Pov Melanie

Anche quel giorno, come i precedenti, l'aria era stata abbastanza calda e per tutta la giornata il sole aveva illuminato le stradine del campo e creato giochi di ombra con gli alti alberi dei viali.
Quella mattina, alla fine, ero arrivata in classe appena in tempo, a causa di un piccolo contrattempo.
Mentre camminavo verso la mia prima lezione, che sarebbe stata semplicemente storia dell’arte, qualcuno si era accorto di me. “Ehi, rossa” disse un ragazzo e io sobbalzai. Non sapevo se quella voce stesse parlando con me o no, ma per sicurezza mi voltai verso la voce, che mi sembrava piuttosto familiare.
E quando incrociai lo sguardo del ragazzo, ebbi la conferma che stava parlando con me.
Adrian, con un cavalletto davanti a sé, aveva smesso di dipingere e adesso mi guardava con un sorriso sulle labbra. Il sole illuminava i suoi lineamenti e finalmente potei osservarli attentamente, senza che la fioca luce della luna mettesse nulla in ombra. La sua mascella prominente, gli occhi chiari e sottili e i capelli scompigliati, con ciuffi che andavano in tutte le direzioni. Mi chiesi istintivamente quando ci avesse messo quella mattina a renderli in quel modo.
“Ciao” dissi, sorridendo.
“Tutto bene, Melanie?” mi chiese, tornando a dipingere. Wow, ricordava ancora il mio nome, proprio come io ricordavo il suo.
“Sì, grazie. E tu?”.
“Mmh, mmh” disse soltanto, scegliendo il colore giusto dalla tavolozza. Era rosso fuoco.
“Che cosa dipingi?” chiesi cautamente, avvicinandomi a lui.
“Tutto” sussurrò con un sorriso sulle labbra, sporgendosi verso di me.
Io sorrisi e osservai il quadro. Rappresentava il viale che lui aveva davanti, ma riuscivi a distinguerlo soltanto se prestavi attenzione. Le pennellate infatti erano frettolose e piene di colori che a prima vista mostravano il tutto come caos, caos e ancora caos, in una composizione quasi cubista. Ma poi, i colori e le pennellate si univano dando vita alle figure. Era davvero stupendo.
“E’ molto bello” affermai.
“Ma non è ancora finito. Solo allora potrai dare un giudizio” disse, con la sua solita voce suadente.
Io sorrisi, pensando che avesse ragione. E poi lo sguardo mi cadde sull’orologio. Cavolo, si era fatto tardi.
“Scusa, devo andare adesso” dissi semplicemente.
Lui sorrise. “Non perderti, mi raccomando. Ancora dritto fino all’auditorium e poi prima porta a destra” mi disse, dandomi adesso le spalle e tornando a muovere il pennello. Non mi chiesi nemmeno come facesse a sapere dove stessi andando, ma non me ne curai e mi incamminai verso la mia meta.  
Fortunatamente non ero in ritardo e non appena misi piede nell’aula e mi sedetti in un posto libero, il professore entrò in aula, iniziando la lezione.
Fu molto interessante: mi piaceva il modo in cui quel professore spiegasse e trattasse gli argomenti e nonostante io avessi già studiato precedentemente quegli argomenti, ascoltai tutto molto volentieri.
All’ora di pranzo ero anche riuscita ad andare in mensa, dove Becka si era premurata di lasciarmi un posto al loro tavolo. Era un piccolo tavolo, di quelli più vicini alla vetrata, in cui il sole arrivava giusto su di noi. “In questo modo sarà quasi come se fossimo all’aperto” aveva spiegato Becka mentre mi sedevo accanto a lei. L’altra e unica persona che era seduta di fronte a me era Chris Lunt, che mi aveva accolta con molto calore.
Passai davvero un pranzo in compagnia e capii che sparlare della gente era uno dei loro passatempi preferiti. Io non ero mai stata quel tipo di persona, ma Rachel amava i pettegolezzi e da quando ero diventata sua amica ero ormai abituata a quel tipo di conversazioni e non mi veniva nemmeno tanto difficile fare anche qualche commento.
Anche quando avevo chiamato Rachel e Dave al cellulare, quella settimana, la mia migliore amica si era cimentata in una conversazione su Stanford in generale e le notizie che aveva accumulato in giro su quel posto e sulla gente che ci studiava.
Chris e Becka riuscirono anche a coinvolgermi in quel tipo di conversazione e alla fine, mi divertii molto, ridendo alle battute che entrambi i ragazzi amavano fare. Per di più, scoprii che le preferenze sessuali del ragazzo erano praticamente identiche alle nostre.
Quando infatti avevo detto che Adrian mi aveva parlato quella mattina aveva spalancato gli occhi.
“Adrian Castle? Il ragazzo con il cavalletto?” mi chiese.
“Sì” dissi, scrollando le spalle.
Sentii Becka ridere mentre Chris iniziava a dire. “Diavolo, quel ragazzo è davvero figo. Mmh, se avesse le mie stesse preferenze sarebbe l’uomo della mia vita” affermò.
“E che ne sai? Castle non ha mai affermato di essere gay, né tanto meno negato” commentò Becka.
E in quel modo avevo capito perché alla festa i suoi atteggiamenti mi avessero fatto sembrare di non parlare con un vero e proprio ragazzo. Lui pensava proprio come noi donne.
“Quindi ti piacciono i ragazzi?” non riuscii a trattenermi.
Chris sorrise e annuì. “E’ un problema per te, per caso?” chiese.
“Oh, no. Assolutamente” dissi, con un gesto sbarazzino della mano. Non ero mai stata omofoba e pensavo che anche le coppie gay potessero essere dolci allo stesso modo di quelle etero.
“Grande! Becka, guarda lì” disse poi, passando da un argomento all’altro e iniziando a parlare di alcuni capi d’abbigliamento all’ultima moda, proprio come la borsa che aveva a tracolla quella ragazza davanti a noi.
Alla fine, pensai che stare in mezzo a questi due ragazzi mi faceva sentire bene, ricordandomi la mia amica Rachel e il mio mondo a Dover, prima di arrivare al college.
 
Il resto della giornata fu abbastanza tranquillo e dopo due fui più che felice di tornare nella mia camera, soddisfatta della prima giornata di studio. Per tanti anni avevo sognato il momento del college e qualche anno prima mi chiedevo addirittura se sarei riuscita ad arrivarci o se il mio cuore mi avrebbe tolto tutto prima del tempo. E adesso il mio cuore stava bene e Chad mi aveva dato questa grande opportunità, che certamente non mi sarei lasciata scappare.
 


Pov Dave

Finito l’allenamento, tutti i ragazzi, di cui stavo a poco a poco imparando i nomi si rivolsero a noi nuovi: “Bene! Primo allenamento equivale al rito di accesso al nostro gruppo” disse Peter con un sorriso sornione sul volto. Io iniziai ad incuriosirmi, volendo sapere che cosa avremmo fatto a quel punto.
“Che diavolo significa?” sbottò Marshall in modo poco carino.
“Significa che verrete con noi per un po’” il ragazzo continuò a restare sul vago mentre gli altri sghignazzavano tra di loro.
E così, dopo esserci cambiati, tutta la squadra, eccetto Lilian, che era sparita chissà dove, ci condusse all’interno del campus in uno degli edifici più esterni e isolati.
Cominciai a sentirmi nervoso, mentre camminavamo e alcuni ragazzi del campus ci guardavano sorridendo e bisbigliando. Una delle parole che riuscii a captare era stata “iniziazione”.
Deglutii, mentre entravamo in uno di quei alti palazzi periferici.
“Che dobbiamo fare?” chiese sempre più irritato Marshall, mentre Peter premeva i pulsanti dei due ascensori che si trovavano all’entrata del palazzo, in una sorta di hall accomodata.
Il tutto, ovviamente era deserto.
“Vedrete” rispose Peter con un sorriso eccitato.
“Ma che razza di posto è?” chiesi, continuando a guardarmi intorno e osservando i due divani al centro della stanza e il mobilio spoglio, coperto per la maggior parte da vecchi lenzuoli.
“Questo era il vecchio edificio in cui abitavano i cestisti e il loro personale ai tempi d’oro, quando la squadra brulicava di gente, sia di giocatori che di allenatori, dirigenti e quant’altro. Adesso che siamo rimasti in pochi ci hanno spostato in un altro edificio più piccolo. E questo è rimasto proprio come una volta. Anche se Johan ce lo fa usare per l’iniziazione, perché… beh, lo scoprirai” mi spiegò uno dei ragazzi, quello più alto e che prendeva il nome di Martin.
E così, Johan permetteva di fare ciò che stavamo per fare: per lo meno non sarebbe stato qualcosa di rischioso o pericoloso.
E poi ci distribuimmo sui due ascensori. “Destinazione: terrazza” sussurrò Peter sempre più eccitato, premendo il pulsante con il numero 7.
Terrazza. La parola mi risuonava nella orecchie e iniziai ad agitarmi. Oh, no.
Le porte si aprirono e una ventata di aria fredda arrivò direttamente sui nostri volti. Fui spinto verso le mattonelle bianche del pavimento e mentre tutti mi sorpassavano rimasi immobile, mentre i miei occhi vagavano sull’ambiente circostante.
La terrazza era un ampio spazio aperto, sgombro e con un muretto basso che mi sarebbe arrivato malapena alla vita e delle ringhiere di metallo incorporate nella parte centrale del muretto, come decorazione.
Sentii qualcuno che poggiava il suo petto alla mia schiena e da dietro uno dei ragazzi mi sussurrò. “Non avere paura. Sarà divertente” mi disse e mi voltai verso di lui, notando che si trattava di uno delle ali piccole della squadra, Gordon.
Divertente. Proprio la parola che avrei utilizzato di meno per ciò che stava accadendo. Non riuscii nemmeno ad annuire e continuai a camminare verso il centro della terrazza, mentre iniziavo a sudare freddo. I ragazzi si erano già piazzati davanti la ringhiera guardando di sotto e ridendo eccitati.
Marshall era già in mezzo a loro, con le braccia incrociate al petto e un’espressione infastidita.
Mi avvicinai con cautela, ma restando a debita distanza da quel cornicione. “Carter, andiamo” uno dei ragazzi mi sospinse verso il muretto e i miei occhi si posarono su cosa c’era al di sotto. Eravamo in alto. Oh dio, eravamo troppo in alto.
Iniziai a sentire il mio respiro accelerare e istintivamente feci due passi indietro, curandomi di fissare soltanto i miei nuovi compagni. Fortunatamente nessuno se ne curò e Peter iniziò a parlare.
“Bene, ragazzi. Chiunque di noi che si trova in questa squadra ha già affrontato questa prova, proprio come tutti i componenti che ci sono stati prima di noi. Perciò, costateremo qui la vostra intelligenza e le vostra qualità” illustrò.
Cercai di stare il più attento possibile, mentre la mia mascella era serrata.
Vidi Gordon tirare fuori dal borsone che aveva in spalla un pallone da basket e lo passò a Peter.
“Guardate là” continuò a parlare quest’ultimo con il pallone sotto il braccio e indicando qualcosa davanti a noi. A quel punto dovetti staccare gli occhi da lui e mi concentrai su cosa stava indicando. Sentii l’ansia crescere sempre di più notando ancora una volta quanto fossimo in alto. Eravamo circondati da palazzi più o meno della stessa altezza di quello in cui ci trovavamo, tutti abbastanza vicini tra loro.
Il nostro insieme ad altri tre edifici formava un triangolo un po’ deforme. Uno di questi, infatti era posto tra il nostro e quello che avevamo di fronte, coprendo parte della sua terrazza.
E lì, sul bordo di quella terrazza semicoperta, ci stava un canestro. Oh sì, era proprio un canestro.
“Vedete quel canestro laggiù? Dovrete segnare con questa palla da questo punto in cui mi trovo io. Buona fortuna e buon divertimento” terminò il ragazzo, raggiante.
“Che cosa?” affermò Marshall mostrando a parole il mio stesso stupore.
“Avete tre tentativi. Chi vuole iniziare?” continuò imperterrito Peter.
Sentii Marshall fare un verso tra lo sprezzante e l’infastidito e si fece avanti. “Inizio io” affermò e Peter gli lasciò il pallone e il posto.
Feci altri passi indietro e mi accorsi che era praticamente impossibile segnare da quella distanza, nonostante Marshall fosse attaccato al cornicione. Infatti, dalla sua posizione il palazzo copriva metà del canestro.
Marshall lasciò che il pallone si staccasse dalle sue mani e proprio come avevo previsto colpì il palazzo che intasava la visuale e finì giù, schiantandosi verso il pavimento al di sotto. Oh mio dio. Feci un altro passo indietro e sentii una mano sulla mia schiena. Mi voltai di colpo e incrociai quegli occhi blu che mi avevano colpito all’interno del campo da basket.
Lilian era lì accanto a me e io non sapevo nemmeno da dove fosse spuntata, considerando che non era venuta con noi.
“Stai bene?” mi chiese, mentre Marshall sbottava irritato per il suo fallimento.
Io annuii, incrociando le braccia al petto e tornando a guardare la sorte del mio compagno.
Un altro pallone finì nelle sue mani e spostò leggermente il suo corpo cercando di avere una traiettoria migliore. Quel secondo tiro fu decisamente meglio del primo, ma come in precedenza fece la stessa fine. Colpì lo spigolo del palazzo e volò via, facendomi rabbrividire per la seconda volta.
“Ma è impossibile” borbottò Marshall, sbuffando. Sentii la ragazza accanto a me che emetteva un suono di derisione e mi voltai a guardarla. Stava scuotendo la testa.
“Quanti di voi sono riusciti a farlo?” chiesi.
“Onestamente? In pochi. Il nostro livello di intelligenza diventa sempre più basso con il passare degli anni. È la natura” disse, con un mezzo sorriso e sollevando le spalle.
“E tu?” chiesi d’istinto.
Lei mi guardò e sorrise. “Secondo tentativo” affermò, tornando poi a guardare Marshall.
“Chi è stato il migliore?” chiesi.
“Tra noi, soltanto io e Peter siamo riusciti al secondo tentativo. È per questo che il ruolo del capitano è andato automaticamente a lui” disse, guardando il suo compagno con un mezzo sorriso.
“Perché non tu?”.
Lei mi guardò e scosse la testa. “Oh, no. Io non sono adatta per il ruolo del capitano. Peter è perfetto in quello” disse e solo in quel momento mi accorsi della nota malinconica che avevano avuto le sue parole.
Intanto Marshall aveva sprecato il suo ultimo tentativo, anche questo andato a vuoto e Peter disse: “Mi dispiace Marshall. Magari Dave riuscirà ad essere più perspicace di te” disse facendogli l’occhiolino.
“Fanculo” borbottò l’altro facendo dei passi indietro e incrociando le braccia al petto.
“Questo non significa che sei fuori dalla squadra, tranquillo. Sei già parte di noi. Tutto questo è solo per divertimento” annunciò. “Dave? Pronto?” chiese poi, rivolgendosi a me.
Quella era proprio una bella domanda. Iniziai a sentire i battiti del mio cuore rimbombare nelle orecchie, mentre mi avvicinavo sempre di più al cornicione. Presi posto dove poco prima stava Marshall e guardando sotto riuscii a vedere i palloni ormai fermi per terra. Una vertigine mi investì e feci un passo indietro, mentre il mio respiro accelerava sempre di più.
Intorno a me era piombato il silenzio. Tutti mi stavano osservando. Mi voltai verso Peter che adesso mi stava facendo un sorriso rassicurante e chiesi il pallone con le mani. Toccare il cuoio del pallone mi rassicurò appena e mi ritrovai a guardare i palazzi davanti a me. Continuavo a vedere i palloni di Marshall cadere nel vuoto e da quella distanza il mio unico pensiero era quello di poter fare la stessa fine. Io, non il pallone. Ero troppo in alto.
Sentii le orecchie che mi ronzavano e le mani che iniziavano a tremare. Oh, cazzo.
Tutti continuavano a stare in silenzio e io stavo per fare un passo indietro, quando sentii la voce di Lilian dire solo una parola.
“Peter”.
No. Non potevano fermarmi. Non potevo rinunciare adesso solo per quella stupida fobia. Guardai i palazzi di fronte a me, freneticamente, cercando di cancellare immagini dalla mia testa e ragionare su come avrei potuto segnare in quel maledetto canestro. Ero talmente concentrato che non vidi il gesto con la mano che Peter rivolse alla ragazza, facendola tacere dopo aver visto il mio sguardo. Era talmente incuriosito da ciò che mi stava accadendo che non aveva la minima intenzione di fermarmi.
E poi lo vidi. L’unico palazzo rimasto inutilizzato alla mia sinistra. Una sfumatura di rosso più chiara nel colore acceso dell’intonaco. Una macchia, che poteva combaciare perfettamente con la forma di un pallone. Feci mente locale e tentai di calcolare le probabilità che avevo di far sbattere la palla lì e farla rimbalzare fino al canestro. E di punto in bianco l’altezza non c’era più. C’era solo il mio cervello che lavorava freneticamente e quella macchia scolorita, probabilmente dai palloni che avevano sbattuto lì prima del mio.
Afferrai saldamente il pallone e cercai di prendere la mira il più possibile. O la va, o la spacca. E poi, prima finivo, prima sarei sceso da lì.
Presi un solo respiro e poi il pallone si staccò dalle mie mani. Vidi come ruotava verso il punto che avevo mirato, mentre il silenzio persisteva intorno a me.
Colpì appena sopra la macchia già scolorita, facendo scivolare giù della polvere dell’intonaco e poi deviò verso l’altro palazzo. Solo pochi secondi che sembravano essere anni e il pallone arrivò al canestro seminascosto. Un tocco sul tabellone e poi la retina che si muoveva, sotto al peso del pallone che passava al suo interno.
E poi le urla intorno a me. Ero riuscito a farlo al primo tentativo. Nessun pallone che si schiantava. E poi una vertigine mi investì. L’adrenalina se n’era andata velocemente e la mia mente metabolizzò a che altezza mi trovavo. Oddio. Iniziai a incespicare, cercando di respirare correttamente e mi voltai verso il centro della terrazza, camminando velocemente verso gli ascensori. Dovevo scendere da lì. E subito.
“Ehi, Dave! Torna qui, amico. Dove stai andando?” mi chiese uno dei ragazzi, ma non mi voltai. Entrai nell’ascensore e prima che le porte si chiudessero una figura snella si intrufolò attraverso le porte, prima che si chiudessero.
A quel punto mi lasciai scivolare contro la parete fredda dietro di me, arrivando a sedermi sul pavimento. Cercavo in qualsiasi modo di calmare il respiro, pensando che ero ormai al sicuro e che era tutto finito.
“Dave, stai bene?” mi chiese Lilian, abbassandosi verso di me e mettendo una mano sulla mia spalla.
“Io.. s-sì” balbettai, mentre i miei muscoli si rilassavano.
“Qual’era il problema?” mi chiese cautamente.
Io non volevo rispondere. Non volevo mostrare la mia debolezza ad una ragazza appena conosciuta, nonostante la scenata che avessi fatto davanti a tutta la squadra. Quella debolezza, che solo una persona nella mia vita conosceva.
La ragazza mi stava guardando intensamente, come se mi stesse assicurando che potevo fidarmi di lei.
“L’altezza” sussurrai dopo qualche secondo di silenzio.
“Oh” fu il suo unico commento, prima che le porte dell’ascensore si aprissero.
E poi mi porse la mano, che accettai volentieri e mi tirai su, mentre sentivo che il mio corpo cominciava a rilassarsi del tutto, capendo che adesso mi trovavo ad un’altezza normale, al pianterreno.
Sentivo i passi di Lilian dietro di me, mentre uscivo da quell’edificio.
“Ehi, dove vai?” mi chiese.
“A casa” risposi, senza voltarmi.
“Ma i ragazzi vorranno festeggiare con te. Hai appena battuto il record della nostra squadra” disse con voce orgogliosa.
Mi voltai a guardarla. “Io… mi dispiace. Devo andare. Potresti scusarti con gli altri per me?” le chiesi.
Lei annuì. “Va bene. Ci vediamo domani” mi disse.
Feci un cenno di assenso e ripresi a camminare, tornando verso l’appartamento che condividevo con Rachel.

Pov Lilian

Non riuscivo davvero a credere che il ragazzo appena arrivato avesse battuto un record che non veniva più raggiunto da diversi anni. L'iniziazione sembrava diventare ogni anno più difficile per i ragazzi, nonostante fosse soltanto per divertimento. Beh, e per mostrare a Johan quanto fossero intelligenti i suoi giocatori. Dopotutto era stata proprio lei a lasciarci l'accesso al palazzo e a continuare durante gli anni. 
Dopo essermi separata da Dave non ero nemmeno tornata dagli altri, dirigendomi direttamente verso la palestra. Mi diressi verso l'ufficio di Johan e bussai sulla porta aperta attirando la sua attenzione. 
Stava firmando delle carte e non appena mi vide si fermò e togliendosi gli occhiali, mi sorrise.
"Allora, come è andata?" mi chiese.
"Marshall non ci è riuscito" risposi.
"Mmh, immaginavo. E Dave?".
Io sorrisi. "Al primo tentativo".
Vidi i suoi occhi che si illuminavano. "Che cosa? Dici sul serio?" mi chiese, mentre io annuivo.
Lei rise, soddisfatta. "Lo sapevo. Oh, ragazza mia. Abbiamo fatto un acquisto fantastico quest'anno. Sono prorpio sicura che quel ragazzo non ci deluderà" disse, parlando quasi tra sé e sé.
Io scossi la testa e sorrisi, uscendo da lì e tornandomene all'appartamento.


Pov Dave

Mentre camminavo per strada avevo ripercorso con la mente tutto ciò che era accaduto e pensare all’altezza mi faceva solo tornare i brividi di freddo sulla schiena.
Mettere piede lì su era stato decisamente orribile. E avevo appena mostrato alla mia squadra quanto fossi vulnerabile.
Aprii la porta dell’appartamento ancora tremando e dopo averla chiusa, poggiai la testa sul legno freddo dietro di me, chiudendo gli occhi.
“Dave”. La voce di Rachel mi fece sobbalzare. Aprii gli occhi e la guardai in silenzio. “Cosa c’è che non va?” mi chiese, preoccupata, mentre mi osservava.
“Io… niente” dissi, sforzandomi di sorridere.
Lei venne verso di me e mi mise una mano sul viso. “Sei piuttosto pallido, piccolo. Non mi sembra niente”. Non se l’era bevuta e me lo sarei dovuto aspettare.
“Beh, vedi… dopo l’allenamento, noi… l’iniziazione. La.. la terrazza era… era… non riuscivo…” iniziai a farneticare troppo velocemente.
“Ehi, ehi. Rilassati, tesoro. Vieni qui” disse abbracciandomi. Affondai il viso nel suo collo e inspirai l’odore così familiare della sua pelle.
“Mi spieghi che cosa è successo? Come è andato l’allenamento?” chiese, facendomi dei cerchi rassicuranti sulla schiena.
Io mi staccai da lei e annuii, iniziando a raccontare tutto quello che era successo, senza tralasciare l’episodio della terrazza.
Rachel era l’unica persona nella mia vita, prima di qualche ora fa, che sapesse della mia fobia per l’altezza.
Neanche la mia famiglia ne era a conoscenza. Non avevo mai avuto episodi del genere di fronte a loro e io non avevo poi così voglia di parlarne. Inoltre, Melanie aveva sempre avuto problemi di cuore e quello aveva automaticamente salvato anche me da alcuni pericoli, proprio come vivere in luoghi piuttosto alti.
Rachel invece, lo aveva sperimentato quando io ero arrivato a Dover. Ne era venuta a conoscenza quando ci aveva trascinati alla fiera.
Quando la ragazza mi aveva chiesto di fare un giro sulla ruota panoramica non ero riuscito a dirle di no, nonostante il nervosismo era già sopraggiunto in me, e ci eravamo separati da Chad e Melanie.
Una volta arrivati davanti la ruota panoramica però, il mio respiro si era fermato. Era troppo alta, non sarei riuscito a sopportarlo.
E così mi ero irrigidito lì sul marciapiede. “Cosa c’è?” mi aveva chiesto, fermandosi accanto a me.
“Io… possiamo fare un altro gioco o attrazione?” avevo balbettato.
Le sue sopracciglia erano schizzate verso l’alto. “Qual è il problema?” aveva chiesto dolcemente, stringendomi a sé.
“Io… vedi… hopauradellaltezza” avevo detto così velocemente che aveva fatto fatica a capirlo.
“Oh, Dave. Perché non me lo hai detto subito?” mi aveva chiesto, accarezzandomi la guancia.
“Perché… neanche Melanie ne è a conoscenza. Po-potresti tenerlo per te?” avevo balbettato, arrossendo.
Il suo sorriso era sorto spontaneo. “Certo. Vieni, andiamo a prendere da mangiare. Voglio qualcosa di moooolto caramellato” aveva detto, trascinandomi via da lì, prima di tornare a ricongiungerci con gli altri due.
 
E adesso, nel nostro salotto mi ritrovavo di nuovo tra le sue braccia, mentre mi accarezzava le braccia in modo rassicurante e ascoltava in silenzio, seduti sul divano.
“Oh, piccolo. Mi dispiace” mi disse una volta terminato il racconto.
“Non fa niente” dissi, sporgendomi per far incontrare le nostre labbra.
Lei ricambiò il bacio, mettendo una mano tra i miei capelli.
Il nostro bacio si fece più intenso e lei dischiuse le labbra, per dar accesso alla mia lingua.
Le afferrai i fianchi e in un attimo fu seduta su di me, con le sue gambe sulla mia vita.
“Ti voglio” sussurrai, staccandomi appena dal bacio.
“Mmh, mmh” disse soltanto e io mi alzai in piedi, con lei ancora in braccio. Passai davanti alla cucina dove l’odore di cibo ci investì e lei si staccò dalle mie labbra. “Da-Dave. Aspetta. La cena. Non voglio morire a causa della casa che va a fuoco” mi disse, facendomi capire che avevo interrotto il suo cucinare con il mio arrivo.
Sorrisi divertito e andai a spegnere il forno, sorreggendola con un braccio solo.
“Bene” sussurrai e la condussi nella nostra camera da letto. La poggiai delicatamente sul materasso e a poco a poco i nostri vestiti finirono sul pavimento. Togliere i suoi jeans, slacciare il suo reggiseno era diventato così facile per me, che ormai era diventato un gesto automatico e circondati soltanto dalle lenzuola iniziai a baciare qualsiasi punto mi capitasse a tiro del suo corpo perfetto sotto il mio. Rachel gemette. “Dave” disse soltanto e afferrandomi per il mento mi spinse di nuovo verso il suo viso.
“Rachel” dissi con voce roca, mentre le sue mani girovagavano per il mio corpo e le nostre bocche si schiantavano di nuovo insieme.
“Muoviti” mi sussurrò facendomi sorridere divertito e lussurioso e senza esitare decisi di accontentarla.
E così Rachel, ancora una volta mi aveva fatto dimenticare delle mie paure, regalandomi ancora una volta, una notte meravigliosa.





Angolo dell'autrice: Saaalve!! I'm back!!! Ehm, sì lo so. In ritardo. Almeno in questo modo ho capito che non sempre riuscirò a mantenere la mia promessa di pubblicazione e spero che comunque non vi dispiacerà se qualche volta mi prenderò del tempo in più. Perciò ecco il nuovo capitolo, forse concetrato di più sul fratello della nostra protagonista. Beh, come sapete in questo sequel sto cercando di dare più spazio a tutti facendoli diventare quindi co-protagonisti ;)
Va bene, mi fermo qui.
Mi scuso ancora, ma ho avuto un periodo pienissimo. Tanto che non sono ancora riuscita a rispondere alla recensione del cap precedente. Ma lo farò oggi, ve lo assicurò ;)  Intanto godetevi la lettura di questo nuovo :)
Grazie per chi legge e per chi lascia sempre un parere.
Ecco qualche nuovo personaggio :3

Gracie O'Connor                                            Mason Twister   
                   


Lilian Gibson


A presto!
Manu

 

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Capitolo 5
*** Sfilata ***


Pov Melanie

Erano ormai passati diversi giorni dall'inizio delle lezioni e la mia routine iniziava a consolidarsi sempre di più di giorno in giorno. Come al solito, mi alzavo dal letto prima della mia compagna di stanza, con la quale non scambiavo una parola da almeno due giorni, e mi intrufolavo in bagno. Uscivo dall'appartamento che Cher dormiva ancora: il che mi portò a confermare il fatto che avessimo orari differenti.
E ogni mattina, alla stessa ora passavo davanti ad Adrian che mi faceva un cenno con il capo e mi mostrava il suo sorriso quando staccava gli occhi dalla tela e si accorgeva di me. Talvolta era talmente assorto che non mi notava neanche. Dopotutto quasi non ci conoscevamo e a me stava più che bene non attirare l'attenzione, nonostante Chris continuasse a ripetermi di diventare sua amica. Era una delle pochissime occasioni per conoscerlo in prima persona e di certo lui non voleva farsela scappare.
E mentre passavo di lì, il telefono vibrò nella mia tasca e un sorriso mi sorse spontaneo.
"Buongiorno, amore" dissi, premendo il verde e rispondendo senza neanche guardare chi fosse.
"Ciao a te, piccola. Come stai?" la voce di Chad era strana. Dalla prima parola mi ero accorta che sembrava quasi assente. Inoltre un leggero fruscio rendeva la sua voce un po' più bassa del normale.
"Bene. E tu?" continuai con le solite domande preliminari, mentre cercavo di fare mente locale e immaginare cosa potesse renderlo in quel modo.
"Tutto ok. Sei già uscita?" mi chiese.
"Sì" risposi, ma la mia voce venne sovrastata da un rumore al di là del telefono: un clacson.
E fu così che capii cosa fosse quel leggero fruscio che avevo sentito dall'inizio della conversazione: il vento. E certamente realizzai perché Chad parlasse in qiel modo. Non era affatto assente: era concentrato.
"Chad! Sei sulla moto?!" quasi urlai e notai delle ragazze lungo il viale che si erano voltate a guardarmi in modo annoiato.
"Eh? Quale moto?" mi rispose e per la prima volta quella mattina sentii l'ironia nella sua voce.
"Dio, sei un delinquente! Stai parlando al telefono mentre guidi la moto?" chiesi per la seconda volta, non volendo credere al fatto che lo stesse facendo davvero.
"Forse" disse, ridacchiando.
"Tu sei completamente impazzito" lo insultai, spalancando gli occhi. Non che non mi fidassi di come guidasse il mio ragazzo. Anzi, sapevo quanto fosse bravo, ma rischiare di farsi male o di essere investito perché parlava con me mentre guidava, era proprio una follia.
"No. Sono solo in ritardo" fu la sua placida risposta.
Sospirai esasperata. "Richiamami dopo. Non ti voglio sulla coscienza, disgraziato!".
Lo sentii ridere. "Macché coscienza. Comunque ho appena fatto. Niente di cui preoccuparsi" disse in modo beffardo.
"Sei.." iniziai a dire, fermandomi per trovare la parola giusta da appioppargli.
"Incredibile? Meraviglioso? Geniale?" chiese e potevo immaginare perfettamente il sorriso che doveva avere sul viso in quel momento.
"Beh, non erano proprio le parole che avrei utilizzato. Stavo per dire più... Incosciente" terminai.
Lo sentii ridere e non potei fare a meno di pensare che piuttosto che colpirlo per aver guidato in quel modo, avrei voluto soltanto abbracciarlo e sentire il suo calore intorno a me.
"Sei arrivato al lavoro?" gli chiesi, cercando di pensare ad altro.
"Sì. Sono appena arrivato" rispose, mentre lo sentivo macchinare con le chiavi.
"Ok. Allora ti lascio andare. Ci sentiamo più tardi, va bene?" proposi.
"Ok, piccola" mi rispose, mentre mi fermavo davanti all'aula che avevo appena raggiunto e in cui sarei dovuta entrare.
"Chad?" lo richiamai, prima che potesse attaccare.
"Sì?".
"Mi manchi" non potei fare a meno di dire.
Lo sentii sospirare prima di rispondere: "Anche tu. Ti amo".
"Anche io, sempre" gli dissi indietro, prima di chiudere la conversazione. Sorrisi tristemente, ma cercai di non pensarci ed entrai nell'aula, dopo aver riposto il cellulare e proseguire con la mia giornata.
 

Pov Rachel

Quella mattina aprii gli occhi prima del solito. Era ancora piuttosto strano per me svegliarmi in una stanza diversa da quella in cui avevo dormito per anni e in un letto decisamente più grande. La cosa migliore di tutte, però, era il ragazzo che mi ritrovavo accanto tutte le mattine. Dave, in quel momento, aveva un braccio intorno alla mia vita e il suo petto nudo era a contatto con la mia schiena. Adorava dormire soltanto con i pantaloni del pigiama e io non mi lamentavo certamente di ciò. Il suo respiro era regolare e profondo, quel tipo di respiro che avevo imparato a conoscere già da quando stavamo a Dover. Il sonno del mio ragazzo infatti, al contrario del mio, era decisamente pesante e a me veniva molto semplice sgattaiolare fuori dalle sue braccia senza svegliarlo, per preparare la colazione o soltanto per prepararmi. Un'altra sua caratteristica, infatti, era quella di riuscire a prepararsi alla velocità della luce e proprio per questo era sempre l'ultimo ad alzarsi.
Mi girai delicatamente tra le sue braccia per guardarlo direttamente in faccia. Era così rilassato da sembrare un angelo e quell'accenno di sorriso sulle labbra portò a chiedermi a cosa stesse sognando.
Passai una mano tra i suoi capelli ramati e lo sentii sospirare nel sonno. In quei momenti mi chiedevo come avessi fatto ad ottenere un ragazzo del genere e ad averlo soltanto per me.
E mentre continuavo a formulare quel tipo di pensieri, i suoi occhi si aprirono, sorprendendomi.
Sorrisi, mentre il suo braccio mi trascinava ancora più vicina a lui. "Hai finito di fissarmi?" disse con la voce roca che aveva sempre dopo essersi svegliato e che io ritenevo dannatamente sexy.
Io ridacchiai. "No" risposi, mentre lui sorrideva e chiudeva di nuovo gli occhi. "Quindi ho appena trovato un modo per svegliarti prima del suono della sveglia?" chiesi, ancora stupita da quell'evento raro.
Dave mugolò senza rispondere e seppellì il viso nel mio collo. "Che ore sono?" chiese, solleticandomi la pelle con il suo respiro.
"Le sette".
"Cosa? Ma è ancora l'alba!" protestò staccandosi da me e poggiando la testa di nuovo sul cuscino, dopo avermi dato le spalle.
"Andiamo! Ormai ti sei svegliato" protestai.
"Non è vero. Sto ancora dormendo" borbottò e io non potei fare a meno di ridere. Era adorabile.
Mi sporsi verso di lui, intenzionata a contrastare i suoi piani. Non volevo farlo tornare a dormire.
Piazzai un bacio sulla sua spalla, ma lui rimase impassibile. Continuai il lavoro e salii con le labbra lungo la sua pelle, sulla clavicola, sul collo, sulla mandibola appena ruvida per la barba che stava iniziando di nuovo a crescere e sulla guancia, così vicina alle sue labbra. Dave emise un piccolo gemito e si voltò verso di me cercando le mie labbra con le sue. Fu un bacio leggero e delicato e io sorrisi, pensando di essere riuscita nel mio intento. Quando si allontanò da me, però, appoggiò la testa sul cuscino di nuovo e io sospirai.
"Piccola, io ho fame" si lamentò.
"Andiamo a fare colazione" proposi, ma lui non sembrava essere dello stesso parere.
"Ma è presto. E dobbiamo ancora cucinare" disse, scuotendo la testa e distendendosi sulla pancia.
Io sbuffai e mi misi a sedere, allontanando le coperte da noi.
"Alzati, D" ordinai alzandomi in piedi, dopo avergli dato uno schiaffetto sul fondoschiena.
"O ti lascio a digiuno" lo minacciai, drigendomi verso la cucina.
Lo sentii borbottare qualcosa e poi il letto che cigolava sotto ai suoi movimenti.
Finalmente si era alzato.
Mi misi subito ai fornelli mentre poco dopo Dave venne a sedersi su uno degli sgabelli della cucina, poggiando le braccia e la testa sul ripiano davanti a sé. "Dave!".
"Che c'è?" chiese esasperato.
"Dato che miracolosamente sei in piedi a quest'ora, che ne diresti di darmi una mano?" gli chiesi facendogli gli occhi dolci, a cui sapevo perfettamente che non riusciva a resistere. Lui sollevò gli occhi al cielo e sorrise. "E va bene" disse, alzandosi in piedi e mettendosi all'opera.

In due il lavoro da fare si era dimezzato e la nostra colazione fu pronta prima del previsto. Dave divorò tutto come al solito e io mi chiesi come facesse a mangiare così tanto senza alcun problema né rischio di ingrassare.
E così tra risate e sorrisi la nostra colazione finì e Dave si alzò in piedi soddisfatto. 
E mentre iniziavo a mettere le stoviglie a posto, il mio ragazzo parlò: "Vado a farmi una doccia" disse, camminando verso il bagno. Fece soltanto qualche passo e poi si voltò di nuovo: "vieni con me?" mi propose con un sorriso malizioso sulle labbra.
E così, guardandolo al centro del salotto, con addosso soltanto dei pantaloni grigi e i capelli ancora scompigliati, non potei fare a meno di abbandonare i piatti sul ripiano e senza farmelo ripetere due volte lo seguii verso il bagno, per poter iniziare la giornata nel modo migliore.
 
Io e Dave uscimmo di casa allo stesso orario, separandoci con un casto bacio prima di intraprendere le strade diverse che ci avrebbero condotto alle differenti lezioni. La mia facoltà era davvero come avevo sempre immaginato: d'altronde avevo visto per anni la mamma all'opera nel suo studio e alle prese con la clientela da difendere in tribunale. E proprio nell'ambito del lavoro aveva conosciuto mio padre e si erano innamorati a tal punto di dare alla luce due creature, che adesso riuscivano a malapena a vedere i genitori. Nonostante avessi scelto la stessa facoltà di mia madre, rendendo felice entrambe, mi ero rispomessa già da tempo che non avrei mai seguito l'esempio dei miei genitori. Mi sarei impegnata ad essere sempre lì per loro, un giorno.
E così ero riuscita ad integrarmi quasi subito, stringendo amicizia in particolare con due ragazze che fin dall'inizio mi erano sembrate simpatiche. Lucy e Zoe venivano entrambe da Los Angeles e si conoscevano da quando erano veramente piccole. Una mora e l'altra bionda, erano talmente legate che una completava spesso le frasi dell'altra o riuscivano a comprendersi soltanto con uno sguardo. Quel tipo di rapporto che io non ero mai riuscita ad avere con nessuno. Neanche con Melanie, che era arrivata a Dover in un periodo della mia vita talmente noioso da risultare soltanto monotono e ripetitivo. E la noatra amicizia, benché veramente salda da continuare a sentirci quasi tutte le sere anche in quel periodo di distacco, non aveva mai raggiunto certi livelli, sicuramente per il fatto che due anni non erano poi così tanti.
Nonostante il loro rapporto le due ragazze erano subito state amichevoli con me, dopo avermi aiutata il primo giorno a trovare l'aula giusta in cui seguire la prima lezione. E forse intenzionate ad ampliare i loro orizzonti in quanto a relazioni sociali, avevano continuato a parlare e a passare del tempo con me. Io ero sempre stata considerata la ragazza che riusciva ad attaccare bottone con tutti, specialmente quando trascorrevo molto del mio tempo con Melanie. Delle due, infatti, io ero quella estroversa e spontanea, mentre lei quella chiusa e talvolta anche scontrosa. Comunque, sapevo benissimo che quella della mia migliore amica era soltanto una corazza resa sempre più dura con il passare del tempo a causa della malattia che aveva dovuto affrontare per anni.
Così come la sua era solo una corazza, anche il mio comportamento era qualcosa del genere. Da quando mio padre era partito per il suo maledetto lavoro circa tredici anni prima e tornava a casa di tanto in tanto, facendoci sapere che era ancora vivo per miracolo, la mia personalità si era plasmata anche in base a quello. Avevo sempre paura di essere abbandonata, come aveva fatto mio padre, e di rimanere da sola e proprio per quel motivo cercavo di essere sempre amichevole con tutti e di vedere il lato buono delle persone, intrattenendole con la mia parlantina, presa da mia madre, avvocato qual era.
Da un lato però questa situazione mi aveva portata al punto di non legarmi veramente con la gente, allontanandomi istintivamente quando le cose si facevano più complicate. E tutto questo era cambiato da quando i Carter erano entrati nella mia vita. Quando avevo scoperto della malattia di Melanie avevo avuto talmente paura che il mio primo istinto era stato quello di allontanarmi, come al solito. Non volevo perdere un'altra persona a me cara, ma lei era diversa. Era così forte che riusciva a tenermi sempre in piedi e così viva che la monotonia era sparita dalle mie giornate. Tutte qualità che Melanie ovviamente non riusciva a vedere, tormentata da quella malattia che era riuscita a superare quasi due anni prima.
E poi aveva un gemello. Quel ragazzo che mi aveva colpito con il suo sorriso dalla prima volta che lo avevo visto, nella mensa della scuola e dalla prima volta che mi aveva rivolto quel semplice ciao. E mi aveva fatto perdere la testa a tal punto da accettare di vivere con lui in un appartamento a pochi isolati da Stanford. Da quando li avevo conosciuti avevo capito finalmente che legarsi alla gente non era poi così male e mi ero ripromessa di godermi la vita insieme a loro, anche se significava talvolta litigare con il fidanzato della mia migliore amica, Chad, con il quale non avevo assolutamente nulla in comune o assistere agli isterismi di Melanie o ancora passare le notti sveglia per parlare al telefono con il ragazzo che amavo, nonostante il giorno dopo avessimo scuola. Già, quella era davvero una bella vita.
Così la prima lezione della mattinata finì e mi separai dalle gemelle siamesi- così le chiamavano tutti- per andare al bagno, prima che iniziasse la prossima lezione.
Mentre camminavo per i corridoi sentii il telfono vibrare nella mia tasca e lo tirai fuori. Sorrisi vedendo che avevo appena ricevuto un messaggio da Dave.

Mi manchi. Pranziamo insieme oggi? Riesci a venire per l'una e mezza ai giardinetti est? Per favore non dirmi di no!
With love, D.

E come potevo rispondere di no? Stavo per scrivere la risposta quando distratta dal telfono andai a sbattere contro qualcuno e una montagna di carte volò intorno a noi. Subito mi abbassai per terra cercando di raccogliere quanto più possibile. "Oh dio. Mi scusi, dovrei guardare dove cammino. Mi dispiace" dissi molto velocemente.
E poi qualcuno si abbassò accanto a me e mi afferrò delicatamente il polso. "Si figuri. Anche io non stavo guardando dove andavo. Non si preoccupi, signorina. Sapevo che queste carte avrebbero fatto una brutta fine, ad un certo punto" disse una voce calda e profonda. Alzai lo sguardo per la prima volta e finalemente lo incrociai con quello del mio interlocutore.
Era un uomo con i capelli castani e degli occhi scuri piuttosto penetranti, con gli occhiali neri e sottili a circondarli. Indossava una camicia e una cravatta allentata. Per non essere più un ragazzo, non era proprio niente male e la barba si vedeva appena, ordinata con i baffi e il pizzetto più accentuati del resto.
Io gli sorrisi educatamente e lo aiutai comunque a raccogliere i fogli. Quando finimmo ci alzammo in piedi e glieli porsi.
"Grazie" mi disse, sorridendo. Poi guardò un punto sopra la mia testa. "Accipicchia. Devo scappare. Arrivederci, signorina...".
"Miles" terminai e lui annuì, prima di passarmi accanto e sparire per i corridoi, in mezzo alla gente, molta della quale aveva guardato tutta la scena con curiosità e divertimento, probabilmente per la figura poco carina che avevo fatto andando a sbattere contro ad un uomo, perché troppo impegnata a guradare il mio cellulare.
E a quel punto mi ricordai di non aver ancora risposto a Dave. Sbloccai il telefono che avevo ancora in mano e risposi in modo affermativo, felice del fatto che avrei potuto vedere il mio ragazzo anche prima che si facesse buio. Dopo averlo fatto mi mossi da lì e sorridendo, raggiunsi l'aula successiva della giornata.
 
Il pranzo con Dave fu più lungo del previsto, considerando che il mio ragazzo aveva una pausa più lunga della mia, prima dell'inizio degli allenamenti e che io avevo perso la concezione del tempo solo a causa dei suoi dannati e bellissimi occhi verdi. Per cui, adesso mi ritrovavo quasi a correre per i corridoi, cercando di arrivare in tempo, prima che la lezione di diritto politico iniziasse. Ero in netto ritardo, per la prima volta da quando il college era iniziato. Almeno il professore di quella materia era un vecchio così pacato che non si accorgeva nemmeno di chi arrivasse in ritardo e non li degnava neanche di uno sguardo continuando la sua lezione. Aprii la porta dell'aula cautamente, con il fiatone, a causa della corsa che avevo appena fatto. La corsa era l'attività fisica che apprezzavo di più al punto che spesso la sera, prima che Dave tornasse dagli allenamenti mi ritrovavo a farlo per le strade piene di verde della città. In quel caso, però, non era stata una cosa così carina da fare, senza tralasciare la tracolla piena di libri che mi perforava una spalla. Mi ripromisi di farla pagare a Dave, una volta tornata a casa quella sera. Sgattaiolai dentro e senza guardare la cattedra cercai un posto a sedere, tentando di scovare le due mie amiche. Aveva appena fatto in tempo ad individuarle che una voce mi fece sobbalzare. "Essere in ritardo è una forma di maleducazione nei confronti del professore, che deve interrompere la sua lezione o che perde semplicemente il filo del discorso distraendosi" disse una voce profonda, che quella mattina mi era già capitato di sentire.
Alzai gli occhi e vidi lo stesso uomo con gli occhiali, a cui avevo fatto volare le carte per il corridoio, in piedi davanti alla cattedra, all'inizio della grande aula.
"Io... Mi scusi" dissi, imbarazzata. Per la seconda volta avevo fatto una figura poco consona davanti a quel, a quanto pareva, professore. E tutte e due le volte a causa di Dave. Oh sì, quel ragazzo non l'avrebbe passata liscia. Stavo analizzando le vendette che avrei potuto mettere in atto, quando il professore mi riportò alla realtà.
"Prenda posto, signorina Miles" disse e io sobbalzai al sentirgli pronunciare il mio cognome.
Non me lo feci ripetere una seconda volta e mi mossi da lì, andando a sedermi vicino alle due ragazze che mi guardavano con stupore e curiosità.
"Come fa a sapere il tuo nome? E perché sei in ritardo?" mi sussurrò Lucy, inclinando leggermente la testa e facendo cascare una ciocca di capelli scuri sul suo viso.
"Lunga storia, ve la racconto dopo" risposi, guardando comunque dritto davanti a me.
Non volevo essere ripresa un'altra volta per disturbare la lezione.
"Ma lui chi è? Che fine ha fatto il professor hovogliadiandareinpensione?" non potei fare a meno di chiedere, utilizzando il soprannome che avevamo dato al professore che avevamo fino al giorno prima e che parlava spesso soltanto con se stesso, mostrando solo la voglia di tornarsene a casa.
"Problemi di salute. Lui è il suo sostituto: il professor Michael Ant" mi spiegò Lucy a bassa voce, tornando anche lei a guardare davanti a sé. Intanto il professore aveva iniziato a parlare e noi smettemmo definitivamente di chiaccherare pronte a seguire finalmente le lezione, che sicuramente sarebbe stata decisamente più interessante di quelle precedenti.
 

Pov Melanie

Dopo aver parlato con Chad quella mattina, mi ero diretta subito a lezione. Oggi ci avevano avvisati che avremmo finalmente iniziato a mettere in pratica ciò che avevamo appreso dalla teoria e avremmo ripreso in mano, matite e attrazzetura giusta per dar vita alla noatra prima opera al college.
Ero così elettrizzata che arrivai quasi per prima in aula. Presi posto sulla solita sedia, verso i primi posti e vidi la gente che entrava e la stanza che a poco a poco si riempiva. Non erano neanche le otto quando la professoressa era entrata in aula, puntuale come al solito.
"Buongiorno" aveva detto semplicemente, senza sistemarsi alla cattedra. "Oggi cambieremo aula, seguitemi" disse e tutti ci alzammo in piedi, con l'ansia e l'eccitazione che fremevano dentro di noi.
Il luogo che raggiungemmo era uno degli spazi del college che più apprezzavo e che anche in seguito avrei iniziato ad amare. Era una grande sala piena di vetrate, con la luce del sole che entrava e illuminava il tutto. Al suo interno, a debita distanza l'uno dagli altri c'erano cavalletti e dei tavoli attrezzati.
"Bene signori, oggi per la prima volta potrete mettere in pratica le vostre abilità per raggiungere un grande e importante obiettivo. Chi tra voi, infatti, vincerà questa sorta di concorso per quattro giorni potrà recarsi a spese del nostro istituto a New York, dove si terranno due mostre dei maggiori esponenti della pop art e due convegni in merito" disse e da lì partì il vociferare intorno a noi. Io non riuscivo a credere che nonostante avessimo appena iniziato il nostro percorso avevamo la possibilità di andare a New York e di assistere a eventi così importanti nel nostro campo.
"Potremo assistere a convegni su Andy Warhol?" chiese una ragazza, con gli occhi che le brillavano.
"Esattamente" annuì la professaressa e io potei vedere negli occhi di tutti la determinazione e la voglia di vincere. Anche io mi sentivo proprio come loro e sapevo che ce l'avrei messa tutta per vincere questo concorso.
"Soltanto due dei vostri saranno scelti e potranno partecipare insieme ad altri due ragazzi del nostro corso degli anni successivi. Il vostro compito è quello di realizzare un dipinto o un disegno a vostra scelta, che possa trattare qualsiasi cosa utilizzando soltanto due colori e tutte le loro tonalità: il rosso e il blu" e a quel punto indicò il tavolo dietro di sé, sopra la quale erano piazzati pastelli, matite, acquerelli e tutti gli altri materiali necessari per poter adempire al nostro compito. E su di esso soltanto i due colori appena enunciati. Dalla magenta al rosso fuoco al rosso scuro, dal blu come la notte e al celeste ghiaccio.
"Avete una settimana di tempo e potrete lavorarci soltanto qui dentro, durante le mie lezioni. Prendete posto e buon lavoro" terminò, andando a sedersi alla sua cattedra.
Presi subito posto davanti ad uno dei cavalletti, accanto alla quale si trovava un tavolo attrezzato di fogli di tutte le grandezze. Ora, avrei dovuto scegliere per prima cosa se creare un dipinto o se dedicarmi al disegno.
Mi guardai intorno e vidi la maggior parte dei ragazzi già piazziati davanti alle tele. In effetti un dipinto fatto bene sarebbe potuto risultare un'opera d'arte migliore rispetto ad un semplice disegno. Ma io amavo disegnare. Lo facevo da quando ero bambina e grazie ad esso ero riuscita ad entrare in quell'istituto.
Perciò credendo nelle mie capacità e non volendo amalgamarmi alla massa mi misi a sedere al tavolo, scegliendo le dimensioni giuste del foglio. E poi, prima di scegliere i colori iniziai a pensare a quale sarebbe potuto essere il soggetto del mio disegno, cercando di associare quei due colori a qualcosa di veramente adeguato, che avrebbe potuto portarmi più vicina a questa vittoria, il cui solo pensiero faceva andare in circolo nel mio sangue pura adrenalina.
 

Pov Chad

La casa era così silenziosa. Talmente tanto che arrivai a chiedermi che fine avessero fatto tutti a quell'ora del pomeriggio. Seduto sul mio letto si sentiva soltanto la lancetta dell'orologio sulla scrivania, che mi ricordava come i battiti di un cuore che il tempo continuava a passare e che io lo stavo perdendo. Avevo già perso qualcosa, ma non riuscivo a ricordare cosa. E poi il campanello suonò, distruggendo il silenzio. Mi alzai in piedi e scesi di sotto il più in fretta possibile. Aprii la porta e mi trovai di fronte una ragazza che mi dava le spalle, lasciando alla mia vista i suoi lunghi capelli rosso fuoco.
La ragazza si voltò verso di me e incontrai i suoi occhi. Quel verde intenso in cui mi ero perso milioni di volte.
"Melanie" dissi con un filo di voce, stupito.
"Chad" la sua voce che formulava il mio nome mi faceva venire i brividi lungo la schiena.
"Che cosa ci fai qui?" chiesi, pensando che lei doveva essere al college. Non qui a Dover.
"Abbiamo perso troppo tempo. Mi dispiace" mi disse ed entrò in casa, mettendo le mani sul mio petto e facendomi indietreggiare. La porta si chiuse dietro di lei e le sue labbra furono sulle mie. Era un bacio intenso, di quelli che ti faceva venire voglia di averne degli altri.
"Melanie" dissi staccandomi solo per respirare.
"Mi dispiace di averti lasciato qui, amore" affermò, passando le mani sotto la mia maglia. "Ho bisogno di te" continuò.
Non riuscii a resistere e la baciai di nuovo, mettendo le mani sul suo viso. La mia lingua fu nella sua bocca, che aveva dischiuso per permettermi l'accesso.
Sentivo le sue mani giocare con il bottone dei miei jeans e presto furono sbottonati.
"Mel" sussurrai, baciando il suo collo e ogni parte di pelle scoperta che riuscissi a trovare. Mi staccai da lei per liberarla della sua maglia, che finì per terra mentre lei mi trascinava verso il salotto e mi spingeva sul divano, dopo avermi aiutato a togliere la maglia. Si mise a cavalcioni su di me, abbassandosi per baciare il mio tatuaggio e per lasciare piccoli morsi intorno, mentre io passavo la mano tra i suoi capelli e gemevo.
"Non lasciarmi" mi sentii dire, mentre cercavo di nuovo le sue labbra.
"No" disse, accontentandomi.
"Chad" sussurrò, a un centimetro dalle mie labbra.
"Melanie".
"Chad... Chad..." e poi la sua voce divenne sempre più bassa e diversa.
"Chad!" sentii la voce di mio fratello nell'orecchio e sentii il mio corpo che veniva riportato alla realtà.
La sua mano sul mio braccio nudo che cercava di scuotermi. "Chad, svegliati!" disse Evan, mentre io mi muovevo tra le coperte del mio letto, ormai diventate troppo calde. E finalmente realizzai che quello che avevo appena vissuto era solo un sogno. E io volevo tornare tremendamente a dormire. Melanie non era lì con me e non mi dispiaceva affatto vederla nei sogni, nonostante non fosse reale.
"Chad!" Evan mi chiamò ancora una volta.
"Mmh, lasciami in pace" borbottai, girandomi dalla parte opposta.
"Ma devi alzarti!" insistette.
Io sbuffai e realizzai che era domenica. Cosa che mi fece imbestialire ancora di più. Perché diavolo mi stava svegliando di domenica, quando sapeva benissimo che non doveva farlo?
"Evan va' via. È ancora presto!" dissi, iniziando a perdere la pazienza.
"Presto? Sono le due!" ribatté e io a quel punto aprii gli occhi.
"Mmh" allungai minacciosamente un braccio verso di lui e lo sentii urlare. Balzò giù dal letto e scappò verso la porta.
E poi sentii la risata di qualcuno.
"Scusa, marmocchio. Avrei dovuto svegliarlo io" disse la voce di Ryan.
Che diavolo ci faceva in casa mia?
Poi sentii dei passi frettolosi che si allontanavano e io sbuffai gettando via le coperte e mettendomi a sedere sul letto. Mi portai le mani sul viso e i gomiti sulle ginocchia, irritato.
"Buongiorno, furia" disse Ryan, che adesso era in piedi appoggiato allo stipite della porta.
Io mi alzai in piedi, borbottando e andando verso il bagno.
"Oh, Chad. Il tuo amico è più sveglio di te. Adesso cspisco perché gemevi il suo nome mentre dormivi. Proprio un bel sogno eh?" mi derise, facendo un cenno con la testa verso il mio pacco, coperto solo dai boxer.
"Fottiti" dissi, sentendomi male per non essere riuscito a terminare il sogno.
Era domenica, l'unico giorno in cui dormivo spropositamente e non ero riuscito a finire un sogno così piacevole.
Entrai nel bagno che avevo in camera e aprii l'acqua della doccia, mentre Ryan rideva di me nella mia stanza.
“Quello l’hai già fatto nel tuo sogno” mi prese in giro.
Io alzai gli occhi al cielo e sbarazzandomi dei boxer mi infilai dentro la doccia. Imprecai, mentre il getto non ancora caldo si schiantava sulla mia pelle.
“Da quanto tempo non la senti?” mi chiese, la sua voce più vicina, probabilmente perché si era avvicinato al bagno.
“Ieri sera”.
“Oh, mica tanto” affermò.
“Sì, ma non è la stessa cosa, lo sai”.
“Sì, lo so Chad” disse, la sua voce fattasi improvvisamente seria.
Questa era una delle cose che adoravo di più di Ryan. Nonostante il suo carattere riusciva a diventare serio al momento giusto, soprattutto con le persone a cui teneva, riuscendo a capire come comportarsi in determinate situazioni. Lui sapeva perfettamente quanto Melanie mi mancasse e quanto fosse stato difficile per me lasciarla andare.
“Comunque, che diavolo ci fa a casa mia a quest’ora?”  chiesi, cambiando discorso.
“Forse la domanda sarebbe: perché non eri ancora sveglio a quest’ora? Non dirmi che ti sei dimenticato del nostro impegno!” mi chiese, con un’altra domanda.
“Certo che no. Ma sei in anticipo di almeno tre ore, se hai notato”.
“Sì, beh. Volevo solo pranzare con te” mi rispose.
Feci una mezza risata e roteai gli occhi. “E vorresti dirmi che non avevi calcolato il fatto che stessi ancora dormendo e che non hai ancora pranzato? O che comunque se fossi stato sveglio avrei già pranzato a quest’ora?” lo derisi.
“In realtà ho già mangiato. Volevo soltanto far mangiare te”.
Io intanto spensi il flusso dell’acqua e raggiunsi l’asciugamano con il braccio, avvolgendolo intorno alla vita. Uscii da lì e l’aria fredda entrò subito a contatto con la mia pelle bagnata, facendomi rabbrividire.
Guardai Ryan, che adesso stava appoggiato allo stipite della porta con la spalla.
“E chi sei? Mia madre?” chiesi ironico.
Lui scrollò spalle e fece una faccia incurante, mentre io gli passavo accanto e mi dirigevo davanti all’armadio.
“Che diavolo devo indossare?” chiesi dopo aver aperto le ante, mentre il mio amico aveva preso posto sulla poltrona.
“Jeans e camicia vanno benissimo” mi istruì, facendo un gesto sbarazzino con la mano.
Mi diressi di nuovo in bagno e mi vestii in fretta. Guardai i miei capelli allo specchio, che stavano diventando di nuovo troppo lunghi e pensai che sarebbe stato opportuno tagliarli di nuovo, al più presto. Li buttai indietro con la mano e tornai in camera, dirigendomi al piano di sotto con Ryan al seguito.
“A proposito, perché tu non sei ancora vestito?” gli chiesi, indicando la sua felpa nera con il cappuccio.
“Perché devi aiutarmi a scegliere” affermò deciso, mentre entravo in cucina.
Mia zia, seduta al tavolo insieme a Mason, mi guardò e sorrise.
“Buongiorno, pensavo che saresti morto in quel letto oggi” mi prese in giro.
“Giorno. Beh, non sarebbe stata poi una cattiva idea” affermai, prendendo un piatto dalla credenza e riempiendolo con il cibo rimasto del pranzo cucinato da mia zia. Ogni domenica era sempre la stessa storia. Nel pranzo domenicale io ero solo un’apparizione.
Mi sedetti sullo sgabello, davanti al ripiano della cucina e prestai di nuovo l’attenzione a Ryan, che venne a sedersi accanto a me.
“Quindi dobbiamo andare a casa tua?” gli chiesi.
Lui annuì: “Mia madre e Blake continuano a chiedere di te, per altro. Due piccioni con una fava”.
Io sorrisi, pensando al primo incontro con la signora Rage e a come mi avesse accolto in casa sua così benevolmente. E poi c’era Blake, la sorella minore di Ryan che, lui continuava a ripetermi, aveva una cotta mostruosa per me. Aveva appena quindici anni ed era una ragazza davvero simpatica e sempre allegra, proprio come suo fratello. Non che il resto della loro famiglia fosse da meno.
“Chad, che cosa hai fatto a tuo fratello?” mi chiese mia zia, interrompendo i miei pensieri, mentre masticavo il boccone che mi ero ficcato in bocca.
La guardai accigliato. “Che cosa gli ho fatto?” chiesi istintivamente.
“Perché continua a nascondersi dietro la porta, senza voler entrare in cucina?” continuò lei e io mi voltai verso la porta. Evan aveva appena la testa sporta verso l’interno della cucina, ma appena si accorse del fatto che lo stessi guardando squittì e la tirò indietro.
Io cercai di trattenermi dal ridere. “Sa benissimo che non avrebbe dovuto svegliarmi” affermai.
“Ma Ryan era lì” protestò a quel punto il marmocchio, entrando in cucina.
“E che importa?” ribattei.
Mio fratello sbuffò e Mason scosse la testa, mentre ci guardava. “Vieni qui, ragazzino” gli disse e gli fece segno con la mano.
Mio fratello rise e corse verso di lui, gettandosi sulle sue gambe. “Lascia stare tuo fratello. È solo un orso” gli disse, facendolo sorridere e annuire.
E io mi bloccai a guardare quella scena. Mi si sciolse il cuore, pensando a come sembrasse felice mio fratello sulle gambe di un uomo che poteva benissimo fargli da padre. Un uomo che sembrava voler fare parte di noi e che sicuramente non era me.
Poteva essere finalmente la figura che non c’era mai stata in quella casa. O almeno, non per Evan.
“Ehi, tutto bene?” mi chiese Ryan, dandomi un colpo sul braccio che teneva la forchetta, ormai ferma a mezz’aria.
Io annuii e non appena finii di mangiare, mi lasciai trascinare da Ryan fuori casa, dopo che aveva salutato per bene i miei familiari. Dentro quella casa tutti, compresa mia zia, ci eravamo ormai abituati ad avere quella presenza costante: quel pugile così diverso da me.
Dovetti lasciare malvolentieri la mia moto nel parcheggio e salii nella macchina di Ryan, facendomi condurre fino a casa sua.
La villetta era molto simile alla nostra e non appena entrammo in casa, delle voci ci investirono. Al contrario di casa mia, lì c’era sempre un gran casino e il silenzio era un’occasione rara. Il televisore a tutto volume e musica che arrivava da chissà dove.
Quando Ryan fece sentire la sua voce, subito sua madre, una donna bassa e con degli occhi accesi e vispi, ci venne incontro e salutò con grande gioia, abbracciandomi e facendomi sentire quel calore materno e quel senso di protezione che non sentivo da tempo.
“Dovresti venire più spesso a trovarci, tesoro” mi disse, come di consueto e io sorrisi, cercando di rispondere in modo cordiale ed educato.
Anche sua sorella scese le scale di corsa poco dopo e saltò addosso a Ryan con poca delicatezza. “Ehi, fratellone!” gli urlò.
“Blake, guarda chi ho portato!” gli disse, indicandomi.
La ragazza gli lanciò uno sguardo fulminante, mentre Ryan sorrideva sornione.
“Ciao, Chad” mi disse poi la ragazza, facendomi un sorriso luminoso.
“Ciao, Blake” dissi, ricambiando il sorriso.
“Dove andate vestiti così?” chiese, poi al fratello, ma senza staccare gli occhi da me e dai miei vestiti.
“Ad una sfilata. E adesso va a fare ciò che stavi facendo prima. Abbiamo del lavoro da fare qui” disse Ryan, facendomi segno di seguirlo di sopra.
“Sfilata? Di moda? Ma perché non mi porti mai con te?” si lamentò la ragazza, restando ai piedi delle scale.
“Perché non sei nemmeno maggiorenne e non ho intenzione di mettere a rischio la sicurezza della cocca di casa portandoti con me” affermò Ryan, andando verso la sua camera.
“Io non sono la cocca di casa” ribatté l’altra, facendo ridere il fratello.
“Sì, come vuoi” borbottò lui, facendomi sorridere.
E poi mi ritrovai in camera sua a osservare montagne di camicie tutte uguali, per poi annuire e arrivare al punto di essere d’accordo con la sua scelta, ovviamente.
Infatti, lui sapeva già cosa avrebbe indossato, ma voleva soltanto che io gli dicessi che poteva andare bene e che gli stesse da dio.
E io ne ero consapevole: conoscevo ormai troppo bene quel ragazzo.
E così, fummo fuori dopo poco tempo e in macchina Ryan mostrò tutto il suo entusiasmo. Aspettava questo evento da giorni ed era così contento per il fatto che potessi finalmente vedere la famosa ragazza di cui mi aveva parlato.
“Ci aspetterà alla fine della sfilata e potrò presentartela come si deve” mi spiegò, mentre camminavamo tra la folla che si era radunata intorno all’hotel che avevamo davanti. Intorno a noi c'erano moltissime donne vestite di tutto punto, ma anche uomini, lì da accompagnatori o soltanto da spettatori. E così scoprii che anche una buona parte del sesso maschile si recava a quel tipo di eventi e si interessasse alla moda, per apparire al meglio nella loro vita quotidiana. Cose per me inconcepibili, considerando che io andavo in giro con tute da ginnastica e felpe più grandi della mia taglia.
“Come diavolo hai fatto a convincermi?” chiesi a Ryan, mentre andavamo verso l’entrata.
Lui rise e si sistemò la giacca, tirando fuori dalla tasca i due inviti che ci avrebbero permesso di entrare.
“Vedi il lato positivo. Qui si po’ rimorchiare. E con una vasta scelta di entrambi i sessi” ammiccò.
Io scossi la testa e ridacchiai. “Come se ne avessimo bisogno” borbottai.
Lui mi guardò con divertimento: “Avere un’amante non fa mai male, Chad” disse, facendomi sbuffare divertito. Sapevo perfettamente che stesse scherzando e che il tradimento secondo lui era una delle cose più deplorevoli da fare.
“Prova a ripeterlo alla ragazza che sfilerà su quella passerella” proposi, facendolo ridacchiare. Ryan porse gli inviti ai buttafuori che stavano lì apposta ed entrammo in un grande salone, con una lunga passerella al centro e molte comode poltrone tutte intorno, molte delle quali erano già occupate.
Ryan mi condusse ai nostri posti e ci accomodammo, mentre la musica in sottofondo aleggiava intorno a noi. E adesso avremmo dovuto solo aspettare che iniziasse.
 
L’attesa non fu lunga e dopo che le luci si abbassarono numerose ragazze entrarono nella nostra vista. Tutte indossavano abiti particolari e camminavano con sicurezza verso la fine della passerella, mentre la voce di una donna descriveva e annunciava le varie mise.
Vidi tantissime ragazze che se non fosse stato per il colore differenti dei capelli e le diverse acconciature, per me sarebbero state tutte uguali.
Ryan faceva qualche verso di apprezzamento di tanto in tanto, mentre io iniziavo ad annoiarmi a morte.
“Chi è la tua, amico?” chiesi ad un certo punto, iniziando a spazientirmi.
“E’ la guest star della serata. Porta pazienza, furia. Arriverà” mi spiegò.
Io sospirai, pensando che avremmo dovuto aspettare la fine della sfilata per vederla.
Stavo rischiando davvero di addormentarmi, chiedendomi se questo genere di evento sarebbe potuto piacere a Melanie e concludendo che anche a lei non sarebbe potuto importare di meno, quando Ryan mi diede un colpo con il gomito.
“Ci siamo, amico. È il suo momento” mi disse, mentre la donna annunciava l’ultimo capo della sfilata e pronunciava un nome che certamente non avrei mai saputo ripetere.
E poi, una ragazza bionda apparve sulla passerella. Aveva addosso un vestito bianco perla, pieno di ricami e pietre luminose, in piedi su dei tacchi vertiginosi.
E fu allora che il mio respiro si fermò. I suoi capelli biondi le ricadevano sulle spalle e gli occhi ghiaccio erano messi in risalto dal trucco, a tal punto da riuscire a notarli anche da quella distanza.
Il naso all’insù e le labbra piene. Quel viso così familiare e allo stesso tempo così estraneo. Immagini rapide attraversarono la mia mente e potei risentire la sua risata nelle mie orecchie o le sue prese in giro, mentre passavamo le ore nei giardini della scuola. O le sue parole e i suoi discorsi che mi facevano perdere completamente e credere perfetto tutto ciò che diceva.
E rividi quel viso che avevo già visto ultimamente. Quella ragazza che soltanto di sfuggita avevo notato tempo prima in discoteca.
Sentii a malapena la voce di Ryan, che diceva qualcosa che non riuscivo a distinguere. Poi la ragazza sparì di nuovo e le luci si accesero. Mi alzai in piedi in fretta, mentre Ryan mi imitava.
“Allora, che ne dici?” mi chiese con un sorriso sulle labbra. “E’ bella?”.
Io mi guardai intorno e sentii il panico crescere dentro di me.
“Ehm..” balbettai.
Ryan mi guardò in modo strano, non capendo che diavolo mi stesse succedendo.
“Ehi, stai bene?” mi chiese.
“Io… no… cioè, sì. Scusa. Io devo andare via. Mi dispiace, non posso restare. Potresti presentarmela un’altra volta? Mi dispiace davvero, Ryan” dissi troppo velocemente, cominciando a camminare verso l’esterno.
Il mio amico era stupito e venne dietro di me,seguendomi.  “Chad” mi fermò, prendendomi per il braccio e voltandomi verso di lui.
“Che cosa c’è?” mi chiese, preoccupato.
“Scusa. Io… sto bene. Ti prego, devo solo andare via” dissi e lui sospirò e annuì.
“Ti accompagno” mi disse.
“No. Non c’è bisogno. Posso camminare. Torna dalla ragazza” lo rassicurai.
“Chad! Ma sono parecchi isolati e tu sei a piedi” protestò, guardandosi intorno e solo allora notai come si fosse ormai fatto buio.
“Sta tranquillo. Posso farlo, davvero” continuai.
Lui sospirò pesantemente. “D’accordo. Solo… mandami un messaggio quando arrivi, ok?” mi disse.
Io annuii e voltandogli le spalle, iniziai a camminare. Sapevo perfettamente che il giorno dopo avrei dovuto dargli una spiegazione valida, ma ci avrei pensato quella notte, sempre se la mia mente me lo avrebbe permesso. In quel momento, però dovevo solo andare via.
E così mentre camminavo per le strade della città, diretto a casa, potei realizzare che la ragazza che avevo visto in discoteca non era stata soltanto il frutto della mia immaginazione.
Lei era davvero lì, come quella sera su quella passerella. Lei era davvero nella mia città. Sì, Sarah Wilkinson, la ragazza che aveva invaso i miei pensieri durante il terzo e il quarto anno del liceo e che mi aveva abbondonata senza dirmi nemmeno una parola e senza darmi spiegazioni, era davvero tornata a Dover.
 
 
 


Angolo dell'autrice: Ehilà!!! I am back!! Lo so, è passato tantissimo tempo, ma queste settimane scolastiche sono state durissime! Spero di farmi perdonare con questo nuovo capitolo! :D Lascio i commenti a voi e scappo! ;)
Ecco, intanto Sarah Wilkinson.





Alla prossima!! :)

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Capitolo 6
*** Mostri nell'armadio ***


Pov Chad
Uno, due, tre. Uno, due, tre. Uno, due… “O’Connor!”. La voce di Carl dietro di me, mi fece fermare di colpo.
Sentivo il mio respiro accelerato rimbombare nelle orecchie e le mani che pulsavano dentro ai guantoni.
Mi voltai verso il mio allenatore, che era lì in piedi con una cartellina tra le mani. Lo guardai con le sopracciglia sollevate, aspettando che tirasse fuori ciò che aveva da dirmi.
“Che diavolo ci fai qui a quest’ora?” mi chiese.
In effetti quell’orario era troppo presto per chiunque, tanto che avevo trovato la palestra chiusa e avevo utilizzato la copia delle mie chiavi per entrare. Ma quella mattina mi ero svegliato alle sei, dopo un paio di sogni strani e mi ero innervosito a tal punto da dover alzarmi dal letto e avevo sentito il forte desiderio di fare a botte con il sacco. E così, alle sette e mezza ero già in palestra, per potermi allenare almeno mezz’ora prima di recarmi all’officina.
Io sollevai le spalle in risposta e lui continuò: “Come stai?” mi chiese, guardandomi dalla testa ai piedi.
Le mie sopracciglia a quel punto si aggrottarono. “Bene” risposi, guardandolo con curiosità.
“Ottimo, i combattimenti si avvicinano e voglio che tu sia sempre nella tua forma migliore” disse, rassicurato dalla mia risposta.
“Io sono sempre nella mia forma migliore, Carl” dissi con un sorrisetto.
Lui sollevò gli occhi al cielo, divertito. “Sì, ovviamente. E spero che tu lo sia anche davanti alle telecamere”.
“Un’altra intervista?” chiesi stupito, mentre mi toglievo i guantoni. Quella settimana sarebbe stata già la seconda che mi ritrovavo a fare. Carl mi aveva spiegato che gli sponsor si stavano dando da fare, dato che molti tifosi e sportivi scommettevano sul fatto che la nostra società potesse uscire vincitrice dall’annata che si prospettava davanti a noi.
Carne fresca, ma decisamente succulente. Questi erano i commenti su di noi e il presidente della nostra società ne era entusiasta. E così i nostri visi stavano apparendo ovunque sui programmi televisivi che trattavano di sport.
“Già. Tu e Rage, alle cinque allo studio di Harold”. Stavo quasi per sogghignare, dopo che Carl aveva chiamato Harold Coffield, il nostro presidente, per nome. Era l’unico dei tre allenatori che la nostra società avesse a disposizione a chiamarlo per nome. Anche per gli altri dirigenti era sempre stato Coffield e proprio per quella ragione, si pensava che tra Carl e Harold ci fosse del tenero, nonostante non lo avessero mai esplicitato.
Ma poi realizzai ciò che effettivamente il mio allenatore avesse detto e sospirai. Io e Rage. Diavolo, era dalla sera precedente, dopo la mia fuga e la reazione decisamente eccessiva, che non parlavo con lui. Beh, a parte il messaggio d’assenso a cui avevo dovuto rispondere, quando mi aveva chiesto se fossi giunto a casa sano e salvo. Ebbene, mi ero anche dimenticato di scrivergli io stesso, ma lui non me lo aveva fatto notare. Doveva essere davvero preoccupato se non mi aveva fatto una delle sue solite ramanzine. Già, Ryan era quel tipo di ragazzo che amava divertirsi e passare da un locale all’altro, ma dietro alla sua facciata di ricco pugile e donnaiolo, si celava il suo vero animo. Quello che a volte mi trattava come se la mia vita fosse più importante della sua. E quella cosa mi faceva rabbrividire, ogni volta.
Comunque, passare il pomeriggio con lui significava soltanto una cosa: mi avrebbe, ovviamente, chiesto del giorno prima. Al diavolo.
“…casini, che poi noi dobbiamo sistemare”. Evidentemente Carl aveva continuato a parlare, ma io avevo sentito solo la parte finale del discorso.
“Va bene” dissi, non avendo la minima di intenzione di fargli ripetere ciò che avesse detto e sperando che non fosse qualcosa di indispensabile.
Lui annuì e se ne andò verso il suo studio. Io guardai i guantoni che tenevo ancora in mano e pensai che per quella mattina avessi fatto abbastanza.
Afferrai la maglia che avevo lasciato cadere per terra precedentemente e mi diressi alle docce, per evitare di puzzare già a quell’ora del mattino.
 
Pov Melanie
La prima lezione dedicata al progetto era stata un disastro. Ero soltanto riuscita a scegliere la dimensione del foglio e continuavo a spostare lo sguardo da esso alle matite e ai pennarelli che avevo davanti. Erano due colori contrastanti, caldo e freddo, e mi facevano pensare soltanto a stupide banalità che non mi avrebbero portata da nessuna parte o ad altri quadri che mi avrebbero soltanto fatta incriminare di plagio. Non ero neanche riuscita a parlarne con Chad, dato che avevamo avuto solo una breve conversazione dopo la mia lezione. Poi lui aveva blaterato qualcosa su una sfilata a cui doveva partecipare con Ryan e avevamo chiuso la conversazione. Da allora non ci eravamo più sentiti. Quella mattina, inoltre, avevo avuto un battibecco con Cher sull’uso del bagno che condividevamo e mi aveva fatta innervosire talmente tanto che ero dannatamente in ritardo per la mia prima lezione della giornata. Avevo solo mandato un messaggio a Chad, rimandando la nostra chiamata a quella sera.
Ero completamente caduta nello sconforto e proprio per quello, Becka e Chris durante il pranzo si erano ritrovati a rassicurarmi, dicendo che qualcosa in mente mi sarebbe venuta sicuramente. Beh, più precisamente Becka continuava a ripetermi che ce l’avrei fatta sicuramente, mentre il ragazzo continuava a ripetermi che se non mi fossi fatta venire un’idea non avrei mai vinto.
“Lascialo perdere. È soltanto il suo modo di incitarti” mi aveva detto lei, lanciando un’occhiataccia al nostro amico.
“Direi che lo sta facendo nel modo sbagliato” dissi, ridacchiando nervosamente.
Becka scoppiò a ridere, mentre Chris roteava gli occhi. Poi, dopo diversi secondi di silenzio il ragazzo mi guardò sorridendo. “Secondo me, ti serve soltanto una fonte di ispirazione. Che so, magari un ragazzo” e poi scrollò le spalle guardandosi intorno.
Becka sbuffò. “Sempre il solito” borbottò, mentre io riflettevo.
Beh, Chris non aveva tutti i torti. Non sulla prima parte della sua affermazione: insomma, le fonti di ispirazione erano indispensabili per ogni artista, ma forse la seconda parte poteva funzionare. Un ragazzo. Chad. Tutto ruotava sempre intorno al mio ragazzo, che era stato la mia fonte per moltissimi disegni, alcuni dei quali mi avevano dato la possibilità di trovarmi in quell’istituto. Forse anche quella volta avrebbe potuto funzionare. Dovevo solo trovare qualcosa che mi ricollegasse a lui.
“Forse hai ragione” dissi improvvisamente, guardando i due ragazzi che stavano mangiando i loro pranzi.
Becka spalancò gli occhi, mentre l’altro ghignava. “Non dirmi che gli stai dando ragione!” protestò la ragazza dai capelli colorati.
“Ma io ho sempre ragione” si vantò il ragazzo, guardandosi le unghia.
“Come no” borbottò l’altra, per poi iniziare a fare esempi in cui il ragazzo aveva avuto torto in modo ovvio. Io li ascoltavo con il sorriso, che mi era tornato sulle labbra. Erano come due bambini che bisticciavano per cose banali, ma che tornavano subito amici, abbracciandosi e scherzando dopo essersi insultati.
E poi guardai l’orologio e sobbalzai. “Cavolo, è già tardissimo!” dissi, balzando in piedi e afferrando la mia roba.
“Hai lezione così presto?” mi chiese Chris, interrompendo la sua conversazione con Becka.
Io annuii. “Mi dispiace, ci vediamo stasera” dissi, salutandoli e scappando via.
Iniziai a camminare verso la mia aula, mentre pensavo al disegno che avrei potuto mettere in atto tra qualche ora. Ero così sovrappensiero, che non mi accorsi nemmeno di aver superato la stanza giusta.
Quando me ne resi conto borbottai tra me e me e mi voltai, per fare marcia indietro. E a quel punto mi bloccai, saltando completamente in aria. Adrian era dietro di me ed era stato un miracolo se non gli ero finita addosso.
“Ciao” mi disse, sorridendo, mentre mi ero portata una mano al petto, spaventata.
Eravamo così vicini che un pensiero mi si formulò subito nella testa. E la mia bocca, giustamente, lo esplicitò subito.
“Mi stavi seguendo?” chiesi e poi mi diedi della stupida. “Cioè, scusa. Certo che no, perché mi dovresti seguire?” affermai velocemente.
“Sì” fu l’unica parola che uscì dalla sua bocca.
La mia bocca si spalancò: “Cosa?” chiesi, basita.
“Sì, ti stavo seguendo. Io volevo guardarti da più vicino”.
No, non riuscivo a credere che lo avesse detto ad alta voce. Ero senza parole.
“O meglio. Volevo guardare i tuoi capelli. Ti hanno mai detto che hanno un colore fantastico? Come il sangue” mi spiegò.
E poi un immagine apparve davanti ai miei occhi. Guardai la mano che ancora avevo sul petto. Sangue, cuore. Ma… ovviamente! Perché non ci avevo pensato prima? Con quei colori a disposizione, il disegno che avrei dovuto fare sarebbe dovuto essere decisamente ovvio, già dal giorno precedente.
Adrian mi guardava come se aspettasse una risposta. “Tu sei un genio” dissi soltanto, sorridendogli e puntandogli un dito verso il petto.
Lui aggrottò le sopracciglia. “Ok, non ero la reazione che mi aspettavo” disse. “Una reazione decisamente positiva”.
“Ok, non ho capito se devo prenderlo come un complimento o come un tuo hobby sull’analisi delle reazioni altrui” dissi, guardandolo confusa.
Lui scrollò le spalle. “Forse un po’ entrambi” affermò.
“Sei strano”.
Lui ridacchiò: “Forse”, disse mentre sollevava una mano per aggiustarsi i capelli.
E il mio occhio si posò sul suo orologio da polso. Oh, merda.
“Scusami, sono in ritardo. Devo andare” dissi, superandolo e lasciandolo lì, senza aggiungere altro o dargli il tempo di farlo. Maledizione, ero decisamente in ritardo. Entrai in aula quasi con il fiatone e mi sedetti in uno dei banchi vuoti. Tirai fuori un quaderno per prendere appunti, ma presto mi resi conto che il foglio davanti a me era destinato a rimanere bianco. Il disegno che avrei iniziato dopo quella lezione mi si era materializzato davanti agli occhi e non vedevo l’ora di mettermi all’opera.
Anche se dentro di me c’era qualcosa che mi faceva sentire strana. Quasi a disagio.
Chris aveva avuto ragione: la mia ispirazione era stata un ragazzo.
Ma non il ragazzo che mi aspettavo: il mio splendido ragazzo, Chad. Ma Adrian, un artista strambo appena conosciuto.
No, Melanie! Non dire stronzate. Quell’idea ti sarebbe venuta anche senza Adrian. Si trattava di un soggetto a cui Chad era collegato. Insomma, era stato un periodo della mia vita, in cui il mio pugile era stato fondamentale. Il mio appiglio e il mio recupero, insieme alla mia famiglia. Periodo in cui il ragazzo era proprio entrato a far parte della mia famiglia.
E così, cercai di scacciare tutti quei pensieri che mi frullavano per la testa e di concentrarmi sulla lezione. Presi la penna ormai abbandonata sulla pagina del quaderno e mi decisi a scrivere. Al disegno ci avrei pensato tra qualche ora.
 
Pov Dave
La mattina dopo l’iniziazione ero decisamente teso. Il giorno prima avevo fatto la figura dell’idiota lasciando i ragazzi sul terrazzo e andando via in quel modo. Nonostante Rachel mi avesse aiutato a rilassarmi una volta tornato all’appartamento, adesso appena sveglio, continuavo a guardare la parte del letto accanto a me, completamente vuota. Come al solito la mia ragazza si era alzata per prima, ma non era ancora tornata a chiamarmi. Quella mattina non c’era alcun bisogno di farmi aprire gli occhi. Quel giorno lo avevo fatto da solo e una volta realizzato che qualche ora dopo sarei dovuto tornare in palestra, tentare di prendere di nuovo sonno era praticamente impossibile.
Sospirai, cercando di scacciare dalla testa tutte le possibili reazioni che i ragazzi avrebbero potuto avere nei miei confronti, dato che il mio cervello aveva analizzato tutti gli scenari peggiori. Non mi ero neanche preso la briga di pensare al fatto che fossi riuscito a segnare da quel maledettissimo palazzo.
Scacciai le coperte e decisi di alzarmi dal letto, visto che, reazioni o meno, avrei dovuto affrontare quella giornata. Al come, ci avrei pensato dopo. Sicuramente non prima di aver fatto colazione.
 
Camminavo per i cortili dell’istituto per raggiungere la mia prima lezione della giornata. Molti ragazzi chiacchieravano tra loro, seduti sulle panchine o sui muretti, mentre si godevano il sole che splendeva in cielo quella mattina e che baciava la nostra pelle. E quel tempo sembrava essere proprio in contrasto con il mio umore, tanto che prima di scendere avevo indossato gli occhiali da sole e uno dei miei cappelli della Jordan, sperando che in quel modo il mio viso sarebbe stato abbastanza coperto. E io guardavo soltanto davanti a me, evitando di soffermarmi sulla gente intorno a me e provando a non essere notato.
“Dave!”. Evidentemente non ci ero riuscito. Chiusi gli occhi per un secondo, poi mi voltai verso la voce femminile che mi aveva chiamato. Mi fermai, guardando Lilian che si faceva largo tra la gente per raggiungermi. Era decisamente l’ultima persona che avrei voluto vedere in quel momento. Quella a cui il giorno prima avevo rivelato la mia paura.
“Ehi” le dissi, quando si fermò davanti a me.
“Sei sordo per caso? È da un po’ che ti chiamo” mi disse, mantenendo un sorriso sul volto.
“Davvero? Scusa, ero sovrappensiero” spiegai. “Bisogno di qualcosa?” le chiesi.
Lei mi scrutò con lo sguardo. “Come stai?” mi chiese.
Ecco, proprio la domanda che non avrei voluto sentire. Sospirai interiormente, ma sorrisi. “Sto bene”.
Lei continuò a guardarmi e capii che la mia risposta non le era stata soddisfacente. Poi però il suo sguardo cambiò e sorrise.
“D’accordo. Ci vediamo dopo allora” disse. E poi allungò il braccio verso di me e prese il mio cappello, mettendoselo in testa e facendo per andarsene.
“Ehi, quello è mio!” le urlai dietro e lei, che adesso mi dava le spalle, si voltò a guardarmi soltanto per un attimo.
“Lo so. Ma mi piace” disse, prendendolo dalla visiera e ruotandolo di 180 gradi. Poi mi fece l’occhiolino e tornò di nuovo a camminare tra la folla.
Io la guardai allibito, poi scossi la testa e decisi di raggiungere la mia meta iniziale.
 
Quando entrai in palestra, i miei occhiali da sole erano rimasti al loro posto, ma come sostitute del cappello che Lilian mi aveva rubato, erano comparse le mie grandi cuffie e i Green Day mi riempivano le orecchie e la testa. Lanciai uno sguardo al campo da basket, che era ancora vuoto, dato che amavo arrivare in anticipo agli allenamenti e mi diressi nello spogliatoio. Anche lì non c’era ancora nessuno e io continuai ad ascoltare la mia musica, ad un volume abbastanza alto, mentre mi cambiavo.
Quel genere di musica era sempre riuscito ad isolarmi dal resto del mondo, mentre la mia mente analizzava ogni singola parola o suono. Quel gruppo riusciva a darmi la giusta carica e concentrazione prima di ogni cosa, soprattutto prima delle partite.
Ero seduto sulla panchina per allacciarmi le scarpe, quando con la coda dell’occhio distinsi alcuni dei ragazzi che entravano nello spogliatoio. Lasciai cadere le cuffie e riuscii finalmente a sentire le loro voci. Alzai lo sguardo nello stesso momento in cui loro si erano accorti di me.
“Dave, amico!” disse Gordon, lanciando lo zaino per terra e venendo a sedersi accanto a me, mentre Jack, Tyler e Peter stavano in piedi di fronte a me e mi salutavano con un sorriso sulle labbra.
“Ehi” riuscii soltanto a dire, guardando i loro visi contenti e decisamente non delusi o almeno straniti, come mi aspettavo.
“Dove sei scappato ieri?” chiese Peter a quel punto, davvero incuriosito.
“Sei stato davvero un cattivo ragazzo. Battere il nostro record e non offrirci nemmeno da bere” aggiunse Gordon, gettandomi un braccio intorno alle spalle e facendomi abbassare sotto al suo peso.
“Sì, mi dispiace” dissi, senza rispondere alla domanda di Peter.
“Beh, vorrà dire che festeggeremo oggi, dopo l’allenamento del pomeriggio” disse Peter, facendo un gesto sbrigativo e tornando al suo borsone.
“Sì, certo” dissi, passandomi una mano tra i capelli, mentre gli altri ragazzi facevano versi soddisfatto e imitavano il capitano, iniziando a cambiarsi.
Non capii se Peter avesse fatto finta di non accorgersi che non avevo risposto alla sua domanda, data la mia risposta, o se gli fosse bastata. In entrambi i casi mi andava bene e fui felice del fatto che i ragazzi l’avessero presa bene. Insomma, si erano soffermati tutti sulla performance, a quanto dicevano incredibile, della mia iniziazione e tutti erano così eccitati che non si erano minimamente curati del mio strano comportamento che ne era seguito.
Ottenni degli apprezzamenti che non mi aspettavo e la stessa Johan, una volta arrivati in campo, mi aveva rivolto un sorriso soddisfatto e orgoglioso. Mi chiesi se avesse saputo anche lei del giorno precedente, ma prima di poter fare qualsiasi cosa, avevo ottenuto un pallone tra le mani e il nostro allenamento era iniziato.
Non riuscii neanche a parlare con Lilian, che era arrivata leggermente in ritardo, anche se nessuno aveva fatto alcun commento. Inoltre, né io né lei eravamo quel tipo di giocatori eravamo il tipo di fermarci a chiacchierare di qualcosa che non fosse basket, durante quelle poche ore di pace interiore. E poi, a parte quei pochi minuti di quella mattina, non conoscevo quella ragazza e avrei avuto alcune difficoltà a intraprendere una conversazione. Preferivo osservare, come al solito, tutto quello che accadeva intorno a me. Proprio in quel modo mi accorsi degli sguardi sprezzanti che mi lanciava Marshall, ad ogni mia azione vincente durante il gioco. Dopotutto eravamo entrambi quelli nuovi e lui non era neanche riuscito a fare canestro da quei palazzi. Comunque non me ne curai più di tanto e lo ignorai. I soggetti come lui erano da evitare in qualsiasi circostanza.
 
Alla fine dell’allenamento del pomeriggio i ragazzi decisero di portarmi con loro in uno dei locali della città, nella zona in cui gli universitari amavano divertirsi. A pranzo, quella mattina, mentre divoravamo il nostro cibo – o almeno io, divoravo, mentre Rachel masticava lentamente osservandomi con attenzione, come al solito – l’avevo avvisata della mia uscita con i ragazzi, abbandonandola per una sera. Quindi l’orario di rientro non era un problema. E poi viviamo in un mondo in cui i cellulari permettono di sentirsi istantaneamente, quindi quello era il mio ultimo problema.
Così uscimmo dagli spogliatoi tutti insieme, pronti per andare, quando Lilian, per la seconda volta in una giornata mi chiamò, facendo automaticamente fermare tutto il gruppo. Mi voltai verso di lei e vidi che indossava il mio cappello sulla testa.
“Lilian! Non vuoi venire con noi neanche questa volta? È solo un drink” disse Gordon, non appena lei si fermò davanti a noi.
Lei scosse la testa. “Niente da fare. Mi dispiace ragazzi, ma non posso” disse e nessuno aggiunse altro.
Poi la ragazza mi guardò e sorrise. “Ho qualcosa che ti appartiene” disse e automaticamente puntai lo sguardo sul cappello.
“In effetti…” dissi e lei si tolse il cappello.
“L’ho già avuto in ostaggio abbastanza. E poi sta meglio a te” fece lei, mettendolo sulla mia testa.
“Grazie” dissi, prendendo la visiera. Ruotai il cappello, mettendolo all’indietro.
“Grazie a te per avermi concesso il furto” disse lei, sorridendomi. “A domani ragazzi” aggiunse poi salutando tutti e andando via.
A quel punto mi voltai verso il resto dei ragazzi, che mi fissavano incuriositi. “Andiamo?” chiesi, cercando di distogliere la loro attenzione da me. Tutti annuirono, tranne uno: Peter, che mi stava praticamente fulminando con lo sguardo.
Ma poi tutti ripresero a camminare, compreso il capitano e io non ebbi il tempo di fare nulla, se non chiedermi che diavolo fosse preso a quel ragazzo, che minuti prima sembrava non avere nulla contro di me.
Ricordai lo sguardo di Lilian nei confronti del ragazzo sulla terrazza e a come adesso Peter fosse cambiato non appena mi aveva visto interagire con la ragazza in questione.
Ero sempre più convinto che qualcosa tra i due fosse successo ed ero sempre più curioso di sapere cosa. Uno dei ragazzi a quel punto mi strappò di miei pensieri e mi introdusse nella loro discussione sulle migliori scarpe da basket.
E così rimandando tutto il resto a un’altra volta, decisi di godermi la serata, insieme ai miei nuovi compagni di squadra.
 
Pov Chad
Parcheggiai la moto davanti allo studio di Coffield. Vidi il furgoncino di qualche programma televisivo posteggiato proprio all’entrata e roteai gli occhi per il fastidio. Coffield aveva chiamato il carro attrezzi centinaia di volte, a causa di tutte le macchine che si appostavano lì ogni giorno. Ma non quella volta. Probabilmente era stato lui stesso a dirgli di lasciarlo lì. Il portone era aperto e una volta entrato, salutai il custode e mi diressi agli ascensori.
E proprio mentre aspettavo che arrivasse a pianterreno, sentii la voce di Ryan che si avvicinava e in più stava proprio chiamando me.
Mi voltai e incrociai lo sguardo con il mio amico, che indossava dei jeans e una camicia, proprio come me.
“Ehi” lo salutai, prima di voltarmi verso le ante dell’ascensore che si aprivano rumorosamente. Entrai e mi appoggiai al muro metallico, mentre Ryan mi raggiungeva e premeva il tasto 6.
“Che diavolo ti è preso ieri?” disse di punto in bianco, scrutandomi con lo sguardo.
Diretto come sempre, pensai mentre alzavo gli occhi per guardarlo.
“Non guardarmi in quel modo e sputa il rospo” mi liquidò, senza darmi il tempo di dire qualcosa.
“Dovevo andare al bagno” dissi, facendo un sorrisino beffardo.
Ryan mi fulminò con lo sguardo. “Idiota!” mi insultò. “Chad lo sparacazzate” borbottò poi alzando gli occhi al cielo.
Io scoppiai a ridere, mentre l’ascensore si fermava.
Uscii da lì con Ryan al seguito. “Ti conviene pensare ad una scusa accettabile, perché una volta usciti di qui, me la dovrai dire. Non hai scampo” mi disse seriamente.
Mi voltai verso di lui e gli sorrisi. “E’ una minaccia?”.
Lui annuì. “Già” confermò, prima di sorpassarmi e continuare a camminare.
“Che permaloso” dissi, divertito.
“Muovi quel culo, idiota”. Scossi la testa e lo seguii a ruota, cercando di prepararmi mentalmente e fisicamente per la nostra apparizione televisiva.
 
Quasi due ore dopo Coffield ci liquidò e io e Ryan scappammo praticamente dal suo ufficio, esausti di rispondere alle solite domande, utilizzando sempre le stesse parole, programmate dai nostri superiori.
“Un’altra domanda e avrei finto di svenire” dissi, mentre camminavo indietro verso l’ascensore.
Ryan non mi rispose e una volta che entrammo nella scatola metallica, mi voltai a guardarlo.
Aveva lo sguardo fisso sul telefono e non mi prestava la minima attenzione. Durante l’intervista aveva sempre messo su il solito nostro teatrino, ma da quando ce ne eravamo andati non mi aveva rivolto la parola. Evidentemente era offeso o arrabbiato e aveva attuato la tattica del mutismo contro di me. Ghignai tra me e pensai che da un lato, quella sua scelta sarebbe potuta giocare a mio favore.
Rimasi in silenzio e una volta all’esterno mi frugai le tasche per prendere le chiavi della moto.
Ryan continuò a mantenere il silenzio, ma mi seguì fino a dove avevo parcheggiato. Prevedibile, pensai sorridendo tra me.
“Allora?” mi chiese di punto in bianco, mentre armeggiavo con il cavalletto, dandogli le spalle.
“Cosa?” dissi, facendo il finto tonto.
“Lo sai cosa, Chad. Non farmi perdere tempo” disse. Poi borbottò: “Dio, perché sopporto ancora un amico così di coccio?”.
Rimisi il cavalletto, sospirando e mi voltai verso di lui, appoggiandomi sul sellino.
“Me lo chiedo anche io” dissi, guardando per terra.
Lui sbuffò e incrociò le braccia al petto. “Sto per colpirti”.
“Va bene, va bene” dissi alzando le mani in segno di resa. “Ieri… ho… ho visto qualcuno” terminai, parlando velocemente.
“Qualcuno?” mi chiese, accigliandosi.
Sospirai. “Ascoltami. Io… conosco Sarah, ok?” dissi, osservando la sua espressione.
Confusione. Ecco quale sentimento stava provando in quell’istante.
“Sarah? Chi è Sarah?” mi chiese. Ed ecco che la confusione si impossessò anche di me.
Che diavolo significava? Ero davvero riuscito a scambiare una persona per un’altra? Ma ero quasi sicuro che fosse lei. Ma Ryan non conosceva il suo nome. E se…? La mia testa si riempì di domande.
“Aspetta. Senti, Ry. Io… Cristo santo” borbottai. “E’… lascia perdere, ok? Devo… ti spiegherò, va bene? Lasciami soltanto analizzare la situazione e poi ti spiegherò tutto. Fidati di me”.
Lui mi guardò e sospirò. “Sei un fottuto manipolatore. Sapevo che non mi avresti detto niente. E adesso mi hai confuso ancora di più” si lamentò.
Io ridacchiai. “Grazie” gli dissi.
“Fottiti” mi disse, ma il suo sorriso sulle labbra mi rassicurò. Poi mi diede le spalle e iniziò ad allontanarsi.
“Ehi. Vieni da me?” gli urlai dietro.
Lui mi alzò soltanto il pollice da dietro. “Ti seguo” disse poi, dirigendosi verso la sua macchina.
Io scossi la testa, mandando a quel paese tutti i pensieri che mi frullavano per la mente. In quel momento avevo solo bisogno di andare a casa.
 
Arrivammo davanti casa mia in dieci minuti e mentre aprivo la porta d’ingresso, Ryan continuava a parlarmi dell’intervista che avevamo appena fatto.
“Ehi! Sono a casa” dissi, una volta all’interno. La casa era davvero silenziosa e per un attimo pensai che non ci fosse nessuno.
Poi mio fratello apparve dalla porta del salotto. “Ciao, marmocchio” dissi, sorridendo.
Evan, però non ci guardava neanche. Fissava un punto per terra con uno sguardo abbattuto, mentre camminava verso di me.
E poi avvolse le braccia intorno ai miei fianchi e mi abbracciò, cogliendomi di sorpresa.
“Ehi. Cosa c’è che non va?” gli chiesi, passandogli una mano tra i capelli biondi.
Lui non mi rispose e affondò il viso nel mio stomaco.
Guardai per un attimo Ryan, che era stranito quanto me.
“Evan” dissi, continuando a muovere la mia mano sui suoi capelli. “Dov’è la zia?” gli chiesi.
Sentii la sua presa che si stringeva intorno a me.
“Mi prendi in braccio?” furono le prime parole sussurrate di mio fratello.
E le mie sopracciglia si sollevarono. “Non sei un po’ grandicello?” gli chiesi. Nonostante Evan avesse già dieci anni, non era particolarmente alto, ma era comunque strano sentirgli fare una richiesta del genere, dato che non la faceva da qualche anno.
Evan scosse soltanto la testa e io lo accontentai. Lo afferrai e facilmente me lo sistemai sul fianco, mentre lui avvolgeva le braccia intorno al mio collo e ci affondava il viso.
Incrociai lo sguardo di Ryan, che sollevò le spalle, sorpreso.
“Piccolo, mi dici che è successo?” gli chiesi, ma lui continuò a non rispondermi.
Sospirai e andai verso la cucina con Ryan al seguito. Quasi mi scontrai con mia zia, che aveva un cipiglio sul viso.
“Ciao” ci salutò, poi guardò Evan, ancora in braccio a me.
“Ehi. Mi potresti dire cosa è successo?” le chiesi.
Lei fece un gesto sbrigativo con le mani. “Tuo fratello ha colpito un suo compagno senza alcuna ragione. Perché non glielo racconti tu, Evan?” spiegò lei, arrabbiata.
Non ebbi neanche il tempo di metabolizzare ciò che lei mi avesse detto, che Evan aveva alzato il viso dal mio collo e con le lacrime che scendevano sulle guance e aveva urlato: “Non l’ho fatto senza una ragione!”. Si era sbilanciato in avanti improvvisamente e dovetti tenerlo più saldamente per non farlo cadere.
E poi iniziò a singhiozzare e affondò di nuovo il viso nel mio collo.
Guardai prima Ryan, che era sconvolto e confuso quanto me, poi mia zia. “Ha colpito uno suo compagno?” riuscii soltanto a chiedere.
Mia zia annuì. “Sì. E mi hanno chiamato a scuola. Non mi bastavi soltanto tu, vero? Ora anche il mio bambino inizia a picchiare gli altri” mi accusò.
E mio fratello singhiozzò particolarmente forte. Lo strinsi di più a me. “Ssh. Non piangere, piccolo” dissi. Poi uscii dalla cucina e mi diressi verso il salotto, mentre Ryan restava lì a parlare con mia zia.
Mi sedetti sul divano, sistemandomelo in grembo. “Ehi, babe, calmati” cercai di rassicurarlo, facendogli cerchi sulla schiena con la mano.
“Chad. Non… non è vero” disse tra le lacrime, che sentivo scendere e bagnare la mia camicia.
“Calmati, piccolo. E mi puoi spiegare tutto”.
Qualche altra carezza e riuscì a calmarsi un po’. Allontanò il viso da me e si asciugò gli occhi rossi.
“Matt continuava a dirmi cose cattive” iniziò a dire. “E ha rotto la mia moto”. Sospirai. Sapevo quanto fosse legato a quel modellino così simile alla mia moto, che gli avevo regalato il natale precedente.
“Oh, amore. Possiamo ripararla” gli dissi, passandogli una mano sul viso, dove le lacrime erano tornate a scorrere.
“No. Non possiamo. È tutta rotta”.
“La guarderò io. O te ne comprerò un’altra. Ora mi dici cosa ti ha detto?” gli chiesi.
Lui scosse la testa e si gettò di nuovo su di me.
“Evan. Mi puoi dire tutto, lo sai” cercai di farlo parlare.
“La zia è arrabbiata con me” mi disse, invece.
“No, piccolo” . Ce l’aveva più con me per dargli questo tipo di esempi, che con mio fratello.
“Sì, invece. Dice che non era una giusta motivazione. E invece sì. Mi ha detto che sono diverso. Che sono brutto e faccio schifo perché non ho una mamma e un papà. E continuava a dire… a dire…” si interruppe a causa dei singhiozzi.
Io mi sentii male solo a sentire quelle parole. Come poteva essere così cattivo un semplice bambino e fare del male ad un suo compagno in quel modo? Come se non avere due genitori che ti tengono al sicuro fosse una decisione di mio fratello.
“Ssh, va bene. Va bene” dissi, accarezzandogli i capelli.
“Ha detto brutte parole su di te, Chad. Diceva che è un disonore avere un pugile come te nella squadra della città. E che dovevo vergognarmi di averti come fratello” terminò, con le parole attutite dalla pelle del mio collo.
“Tesoro, non devi ascoltare questi bambini, hai capito? Sono solo stupidi. Loro non capiscono e si divertono a fare del male agli altri. Devi solo ignorarli, ok? Non possiamo andare in giro a colpire la gente. O daranno la colpa sempre a noi, anche se non abbiamo tanto torto. Può essere soddisfacente” ridacchiai “ma non si fa” terminai.
Evan si era tirato indietro e mi aveva guardato, mentre parlavo. I suoi singhiozzi si erano calmati, diventando più dolci e deboli. “Ma tu lo fai” mi disse.
Io sorrisi. “Sì, ma io lo faccio per sport e per lavoro, piccolo. Non picchio la gente per strada. Ricorda che l’indifferenza a volte è peggio di qualsiasi reazione”.
“Potrò farlo anche io per sport?”. Questa domanda mi fece irrigidire.
“Mmh, di questo ne riparleremo” risposi, cercando di liquidare la questione. Quell’argomento era prematuro per entrambi.
Lui annuì. “Sei arrabbiato con me?” mi chiese.
Gli accarezzai i capelli. “No, piccolo. Non potrei mai. E parlerò con la zia, ma devi promettermi che non capiterà più”.
Evan annuì di nuovo e si accoccolò a me. “Ti voglio bene, Chad” mi disse, sospirando stancamente e chiudendo gli occhi.
“Anche io, piccolo” risposi, baciandogli i capelli.
Ci vollero soltanto pochi minuti, prima che Evan si addormentasse sopra di me. Mi alzai e tenendolo sempre tra le braccia salii al piano di sopra. Andai in camera sua e lo adagiai sul letto, lasciandolo dormire un po’ prima di cena.
Tornai al piano di sotto e raggiunsi la cucina, appoggiandomi allo stipite della porta e guardando mia zia seduta al tavolo, che beveva una tazza di tè.
“Ryan è andato via. Mi ha chiesto di avvisarti. Ti contatterà dopo” mi disse, sollevando gli occhi verso di me.
Io annuii. “Non c’era bisogno di farlo piangere” dissi soltanto.
“Chad, ha colpito un bambino” ribatté lei esasperata.
“Sì, che ha insultato la sua famiglia e che lo ha chiamato anormale perché non possiede due genitori” continuai passandomi una mano tra i capelli.
“Che cosa?”. Vidi l’espressione di mia zia cambiare improvvisamente.
“Non ti aveva detto il motivo?”.
Lei scosse la testa. “Non ha voluto. Continuava a chiedermi di te” sospirò. “Ok, d’accordo. Ma Chad, tuo fratello ha dieci anni. E ha già picchiato qualcuno. Ti ho sempre detto che quello del pugile non è un grandioso esempio per lui” continuò.
“E cosa posso farci? È l’unica cosa in cui riesco bene” dissi esasperato.
“Potresti aprire un’officina” mi propose.
Le diedi le spalle e mi diressi verso il frigorifero. “Non è la stessa cosa e lo sai anche tu” affermai mentre tiravo fuori una bottiglia d’acqua.
“Chad, io vi amo entrambi come se foste i miei figli. E sto cercando di educare tuo fratello al meglio. Ma ci sarà sempre una mancanza paterna. Per quanto si stia legando a Mason non è lo stesso”.
“Lo so. Ma lui ha me. Posso farcela. Posso aiutarti a crescerlo come si deve. Non sarò papà, ma Evan mi ascolta” dissi, cercando di essere convincente.
Lei sospirò. “E’ un bene che tu non sia tuo padre, Chad. Ma sappi che quando si romperà i denti perché vuole imitare suo fratello e mi farà venire un attacco di cuore, dovrai essere tu a prenderti cura di lui” disse, puntandomi un dito contro.
Io ridacchiai. “Va bene. Posso farlo. E posso fare in modo che non ti faccia venire nessun infarto”.
“Sarà meglio” disse lei, sorridendomi dolcemente.
“Ah, zia. Potresti dire ad Evan che non sei più arrabbiata con lui? Sarebbe grande” le chiesi.
Lei annuì. “Ci parlerò io”.
Le sorrisi e uscii dalla stanza. Nonostante non avessimo più né una madre né un padre, ero davvero grato di avere una zia così incredibile, che dopotutto continuava a farci vivere sotto quel tetto davvero accogliente.
 
Quella sera l’unica luce accesa nella mia stanza era quella delle scrivania a cui ero seduto. Avevo davanti il piccolo modellino frantumato di mio fratello. Quel bambino aveva fatto davvero un lavoro con i fiocchi: una delle due ruote era andata, parte della carrozzeria era graffiata o spezzata e il sellino era saltato. Come mio fratello avesse fatto a ritrovare tutti i pezzi, me lo chiedevo ormai da un’ora. Da quando mi ero seduto lì, armato di colla e attrezzi, per provare a ripararla. Stavo per incollare una parte della carrozzeria, quando il mio telfono squillò e io saltai in aria. La moto mi volò dalle mani e imprecai sottovoce, raggiungendo il telefono.
Sorrisi, guardando il viso di Melanie che era comparso sul mio schermo. Era praticamente dalla sera prima che non avevamo una conversazione reale e adesso che mi stava chiamando mi resi conto ancora di più che non vedevo l’ora di parlarle.
“Piccola” risposi, tornando a sedermi.
“Chad”. Solo sentire la sua voce mi fece crescere il sorriso che avevo sulle labbra. “Mi dispiace per oggi, tesoro. Che stai facendo?” mi chiese, mentre attivavo l’auricolare e me lo ficcavo nell’orecchio per continuare a lavorare.
“Cerco di riparare il modellino di Evan. Tu?” risposi, riprendendo la colla tra le mani.
“Faccio le fusa nel mio letto. Dio, sono davvero stanca” ridacchiò.
“Ehi. Fusa senza di me?” mi finsi offeso.
“Magari, amore mio. Ma cosa è successo alla moto del mio bambino preferito?” mi chiese.
Sospirai e iniziai a raccontarle ciò che era successo qualche ora prima, mentre lei faceva commenti che andavano dal dispiacere alla rabbia.
“Penso che abbia fatto bene a colpirlo” disse Melanie facendomi ridere.
“Sì, lo penso anche io” dissi, mentre gioivo per essere riuscito ad incollare quella parte della moto.
E poi fu il suo turno di raccontarmi la sua giornata, parlandomi dei suoi nuovi amici e del progetto che stavano intraprendendo con la sua classe di pittura e disegno.
Ero così assorto dalla sua voce e dal mio lavoro a mano, che riuscii a saltare in aria per la seconda volta, quando qualcuno bussò alla mia porta.
“Maledizione” dissi mentre il sellino cadeva giù dalla scrivania.
“Cosa?” mi chiese Melanie, ridendo di me.
“Hanno appena bussato. Un secondo” le dissi. “Avanti” dissi, poi rivolto alla persona dietro la mia soglia.
Vidi la porta che si apriva ed Evan che entrava dentro. “Chad” mi disse, venendo verso di me.
“Dimmi tutto, campione” gli dissi, mentre osservava come procedeva la sua moto.
“Dai un bacio ad Evan da parte mia” mi disse Melanie dal telefono.
“Melanie ti manda un bacio” lo informai e lui squittì.
“Anche io” disse lui, mentre si infilava sotto al mio braccio per guardare meglio la moto.
“Mi mancate, ragazzi” mi disse Melanie.
“Anche tu, piccola” risposi, sospirando.
“Chad” Evan attirò la mia attenzione.
Lo guardai, aspettando che continuasse. “Posso dormire con te?” mi chiese, con gli occhi imploranti.
“Cos’ha che non va la tua stanza?” gli chiesi.
“Ci sono i mostri nell’armadio” mi rispose.
“Che cosa?” risi. “Te l’ho già detto, Evan. I mostri non esistono. E se vuoi vengo a controllare” dissi, esasperato. Era da un po’ che mio fratello non tirava fuori la storia dei mostri e sospettai che la storia di oggi c’entrasse qualcosa.
“E invece sì. Sono tornati, perché sono stato cattivo” mi disse. Appunto. Proprio come pensavo.
“Non sono tornati, perché non ci sono mai stati”.
Lui mi fece gli occhi da cucciolo: “Ti prego” mi supplicò. “Solo per sta notte”.
Io sospirai. “Accontentalo” mi disse intanto Melanie da dietro l’auricolare. Mi venne quasi da ridere: Melanie sembrava la mia coscienza o qualcosa del genere.
“Accomodati, nano malefico” dissi, indicando il mio letto.
Evan gioì e corse sul mio letto, sollevando le coperte e seppellendosi all’interno.
“Che fratello d’oro” mi prese in giro Melanie.
“Ha ha. Lo sono davvero”.
Lei ridacchiò. “Sì, tesoro. Lo so”.
“Chiudi quella bocca e va a dormire” sentii improvvisamente una voce che non apparteneva alla mia ragazza.
“Mettiti le cuffie” ribatté Melanie, mentre l’altra ragazza continuava a lamentarsi.
Melanie sospirò. “Chad. È meglio che vada. Cher continuerà a rompere se non la smettiamo” mi disse.
Io sospirai e annuii, anche se lei non poteva vedermi. “Va bene. Ma ci sentiamo domani mattina” contrattai.
“Certo. Buonanotte”.
“Notte. Ti amo” le dissi, ma lei aveva già riattaccato prima di rispondere. Feci una smorfia e sentii un senso di insoddisfazione, mentre mi toglievo l’auricolare.
Guardai mio fratello, che stava già dormendo e poi di nuovo la moto sulla scrivania. Mi abbassai per recuperare la sella che mi era cascata prima, ma nel modo di alzarmi nuovamente sbattei la testa sul legno della scrivania.
Mi lamentai mentre sentivo qualcosa che cadeva dall’altra parte del tavolo.
Mi massaggiai la testa con una mano, mentre guardavo per terra, dove la moto era per terra, con le parti appena incollate di nuovo autonome, che si facevano beffa di me. E la ruota che fino a qualche secondo prima era buona, adesso andata.
Lasciai cadere la mia testa sulla scrivania, lamentandomi esasperato. Maledizione. Perché tutti gli dei si erano messi contro di me quella sera? Sbuffai e mi alzai da lì. L’unica cosa giusta da fare era quella di andarsene a dormire.
Guardai un’ultima volta la moto, che giaceva sul pavimento. Io ci avevo provato. Invano, ma ci avevo provato. Aggiustavo tutti i giorni moto all’officina, ma non ero riuscito a riparare un maledetto modellino. Sospirai per il mio destino così crudele.
Sapevo qual era l’unica soluzione: il giorno dopo sarei andato al negozio e ne avrei comprata un’altra. E magari ne avrei cercata anche una più bella.
Spensi la luce e mi infilai a letto, cercando di non svegliare mio fratello. E dopotutto avere un corpo accanto che emanava calore, non era poi così male. Anzi, abbracciare quel piccolo fagottino era decisamente piacevole.



Angolo dell'autrice: Buonsalvee! E buona estate a tutti, dato che la mia è appena iniziata.
Prima di tutto devo delle scuse colossali per essere sparita per un paio di mesi, ma questo periodo per me è stato infernale e con i miei esami di maturità ho dovuto tralasciare con immenso dispiacere la mia storia.
Ma adesso sono tornata e spero che mi perdonerete!
Grazie per chiunque sia arrivato fin qui e ricordo che dei commenti mi fanno sempre piacere ;)
A presto!!
Manu.

 

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Capitolo 7
*** Lo senti nelle ossa ***


Pov Rachel
La prima cosa che feci quella mattina quando mi svegliai, non fu di aprire gli occhi, ma di allungare il braccio per cercare il contatto con Dave.
I giorni passavano e la nostra stanza diventava sempre più fredda, tanto che la mattina amavo coccolarmi  con il mio ragazzo e godermi il calore rimasto sotto le coperte.
Quella volta però, la prima cosa che sentii fu il vuoto accanto a me. E proprio questo mi fece aprire gli occhi immediatamente.
Mi guardai intorno nella stanza: vuota.
Scacciai le coperte e mi alzai in piedi, senza curarmi dell’aria fredda che mi colpì i piedi nudi, facendomi rabbrividire.
“Dave?” chiesi, entrando nella cucina collegata al salotto. Del mio ragazzo neanche l’ombra. Dove diavolo era finito?
“Dave?” ripetei, mentre l’ansia mi investiva.
E poi sentii la sua voce che proveniva dal bagno. Erano borbottii confusi che uscivano dalla porta socchiusa. Aggrottai le sopracciglia e mi diressi verso l’ultima stanza del nostro appartamento, in cui non avevo ancora guardato. Afferrai la maniglia e aprii la porta. La vista che mi ritrovai davanti mi lasciò più sbalordita di quanto non fossi già.
Dave era inginocchiato davanti al water con la tavoletta abbassata. Su di esso, diventato a tutti gli effetti un tavolo o una scrivania, aveva un taccuino su cui scriveva con una matita, mentre bofonchiava parole tra sé e sé.
“Dave? Ma che stai facendo?” gli chiesi, restando sulla soglia.
Lui non si voltò nemmeno a guardarmi.  “Solo un attimo” disse, sollevando la mano libera verso di me.
Aggrottai le sopracciglia e camminai verso di lui, mettendomi dietro al ragazzo e sbirciando da dietro la sua schiena. Non avevo mai visto quel quaderno che aveva davanti: i fogli non erano bianchi, né avevano righe o quadri, ma ogni pagina aveva la stampa di un campo da basket, con tutte le sue linee e i cerchi. E Dave stava disegnando in esso numeri e frecce.
“Ripeto: che diavolo stai facendo?” chiesi, confusa.
“No. No. Il due deve tagliare qui. E il quattro deve bloccare, mentre il cinque rolla” disse, facendo un’enorme x sulla metà campo che stava utilizzando e ribaltando il quaderno per ricominciare a scrivere.
Sbuffai e misi una mano sotto al suo mento, tirando la sua testa indietro per farmi guardare. Lui emise un piccolo verso frustrato, ma smise di scrivere e mi guardò obbligatoriamente negli occhi. “Buongiorno” gli dissi.
“No, non lo è!” affermò lui, spalancando gli occhi.
“Da quanto tempo sei sveglio?” chiesi, guardando le borse sotto ai suoi occhi verdi.
Lui rise istericamente. “Da un po’. Ma ho preso il caffè. È tutto ok” disse, cercando di divincolarsi dalla mia presa, ma non glielo permisi.
“No. Non è tutto ok. Sei impazzito per caso?” gli chiesi, guardandolo male.
“No. Ma sono troppi” disse, divincolandosi e tornando a scrivere.
Sospirai. “Troppi cosa?” chiesi inginocchiandomi accanto a lui.
“Abbiamo troppi schemi di gioco, in attacco, in difesa. E io li ho memorizzati soltanto in qualche settimana. Oggi si gioca. E io li devo ricordare” e iniziò a contare con le dita: “Corna, pollice, due, basso, alto…” e poi gli tappai la bocca con la mano.
“Alt” dissi, mentre lui mi guardava con gli occhi spalancati. “Fammi capire: tu sei sveglio da non so quanto tempo perché dovevi ripassare i vostri schemi di gioco il giorno della prima partita?”.
Lui annuì con la testa, dato che la mia mano era ancora sulla sua bocca.
“Tu sei tutto scemo” dissi, sollevando gli occhi al cielo. Poi presi il quaderno e mi alzai.
“No! Che fai?” mi chiese, alzandosi in piedi con me.
Uscii dalla stanza con Dave che mi veniva dietro.  “Ridammelo”.
Entrai in camera nostra e misi il quaderno dietro la schiena.
“Guarda l’orologio. Sono le 6,35. Hai ancora quaranta minuti per dormire. Al posto di perdere tempo con degli schemi che sai perfettamente a memoria, scolpiti nella tua bella testa, sfrutta questi minuti per dormire un po’. E non provare a dirmi di no” lui gemette esasperato. “Penso che sia un bene per tutti se tu sia carico, invece che stanco, non ti pare? Quindi, fila a letto, mentre ti preparo una colazione coi fiocchi, sì?” dissi, cercando di essere convincente.
Lui sospirò e senza fiatare si distese. “Quando stasera non saprò uno degli schemi, mi fermerò in mezzo al campo come un idiota e…” brontolò affondando la testa nel cuscino, quando lo interruppi.
“Sì, sì. Potrai dare la colpa a me” dissi, poggiando il quaderno sul suo comodino, senza considerare i rischi. Poi feci per uscire dalla stanza. “Tanto sappiamo entrambi che non succederà, testone!” brontolai, dirigendomi verso la cucina, mentre dal letto non ottenevo alcuna risposta.
 
Uscimmo di casa insieme, come sempre. Dopo un’abbondante colazione e il mio divieto di introdurre altro caffè nel suo sistema, Dave era riuscito a calmarsi.
Aveva fatto rimbombare i Green Day per tutto l’appartamento, senza che potessi oppormi. Sapevo che per tutto il giorno li avrebbe ascoltati. Aveva sempre avuto un rituale tutto suo prima delle partite, a cui nessuno doveva o poteva intromettersi.
E poi dopo essersi infilato la felpa Adidas blu e bianca con il cappuccio, nonostante fosse ormai vecchia, lo avevo trascinato fuori di casa.
Io ero riuscita soltanto ad osservarlo mentre faceva lo psicopatico per casa, mentre mi preparavo per la mia giornata.
Quell’atteggiamento era piuttosto strano per Dave, che era sempre stato eccitato dall’idea di andare in campo. Quell’ansia non avevo proprio idea da dove saltasse fuori.
Per tutto il tragitto verso il college era rimasto in silenzio.
Annuiva di tanto in tanto a ciò che gli riferivo e potevo sentire il suo palmo della mano sudato contro al mio. A tal proposito però non dissi nulla, non volendo rischiare di peggiorare la situazione.
Una volta superata l’entrata di Stanford, una voce femminile chiamò Dave da lontano.
Ci voltammo entrambi in quella direzione e potei vedere una ragazza con una lunga coda di cavallo castana e degli occhi azzurri che stava facendo cenno al mio ragazzo di raggiungerla.
Dave si voltò verso di me. “E’ Lilian” mi spiegò e io annuii.
“Vai” gli dissi, lasciandogli la mano.
Lui mi fece un piccolo sorriso e si sporse per darmi un bacio veloce. “Ci vediamo a pranzo, ok?” mi disse, prima di iniziare a camminare verso una direzione diversa dalla mia.
Guardai per un attimo come la ragazza sorrise a Dave, dandogli un colpetto sulla spalla, ma non riuscivo a vedere l’espressione del mio ragazzo, che adesso mi dava le spalle.
Scossi la testa e dopo aver guardato l’orologio, ripresi a camminare, non volendo arrivare in ritardo.
 
Pov Chad
Una delle cose più brutte che possano capitare la mattina è quella di svegliarsi ugualmente ad un orario indecentemente presto, anche se la tua sveglia è disattivata e la sera prima avevi programmato una lunga dormita per il giorno dopo. Quella era la descrizione esatta di ciò che mi era successo. Quella settimana l’officina sarebbe stata chiusa, dato che Joe aveva deciso di andare a far visita a sua figlia, che si era trasferita con il marito lo scorso anno, in qualche città sconosciuta del Winsconsin. Non si fidava abbastanza da lasciare la sua attività ad un branco di ragazzini quali eravamo i suoi dipendenti (sue esplicite parole).
E così il letto era tornato ad essere per questi giorni il mio migliore amico. Ma non quella mattina, dato che dei piccoli passi che correvano continuamente da dietro la mia porta chiusa, rimbombavano nella mia stanza.
Sbuffai e mi alzai. A quel punto la cosa migliore da fare era quella di andare a fare colazione, dato che il mio stomaco protestava. Evitai di guardare i numeri verdi della sveglia sul comodino e mettendomi una maglia al volo uscii dalla mia camera. E proprio in quel momento Evan era uscito correndo dalla sua stanza e aveva appena superato la mia, senza accorgersi che la mia porta si era appena aperta.  Gli andai dietro e prima di scendere le scale lo sentii emettere un verso frustrato e voltarsi di nuovo verso il corridoio, avendo probabilmente scordato qualcosa. Dopotutto aveva continuato a farlo per l’ultimo quarto d’ora.
Io ero così vicino che una volta che Evan si fu girato, gli misi le mani sulle braccia.
Lui emise un urletto spaventato e io lo afferrai, sistemandolo sulla mia spalla.
“Hai finito di correre?” dissi, mentre lui mi urlava di metterlo giù.
Lo ignorai e scesi le scale, mentre Evan batteva le sue mani sulla mia schiena. “Chad! Mettimi giù” protestò, dimenandosi.
“Solo se la pianti di correre. Che cos’è tutta questa agitazione?” dissi, mentre entravo in cucina.
Zia Gracie e Mason, che erano seduti al tavolo della cucina, ci guardarono incuriositi.
Misi Evan su uno degli sgabelli della cucina e lui saltò giù immediatamente. Ridacchiò e corse di nuovo fuori dalla stanza, prima che potessi fermarlo, mentre diceva: “Oggi andiamo allo zoo!”.
Io mi accigliai e guardai mia zia, che stava sorridendo.
“Le maestre li portano in gita allo zoo. È un po’ su di giri” mi spiegò.
“Già, ho notato” dissi, scuotendo la testa e dirigendomi verso la caffettiera adagiata sul fornello. Mi servii e mi sedetti al bancone, sullo stesso sgabello che avevo occupato prima con mio fratello.
Pochi minuti dopo Evan tornò nella stanza con lo zaino sulle spalle e saltellò sul posto, davanti alla porta. “Sono pronto, sono pronto!” ripeté.
Mia zia rise. “Bene, ma adesso siediti, è ancora un po’ presto per andare” disse ad Evan, che si imbronciò.
Poi però prese le chiavi della macchina di Mason sul bancone e gliele portò. “Eddai, zio Mason. Andiamo, andiamo!” disse, cercando di corrompere un altro componente della famiglia.
“Ti vuole accompagnare Chad, tanto non ha altro da fare” disse a quel punto Mason. La mia brioche rimase a mezz’aria e sollevai lo sguardo verso l’altro uomo, confuso.
Mason mi lanciò le chiavi della sua Mustang e io le afferrai al volo, senza parole. E così mio fratello squittì e cambiò soggetto. Venne verso di me e iniziò a tirarmi per il braccio.
“Sei ancora in pigiama! Chad, andiamo, andiamo! Muoviti” mi disse.
Io gemetti frustrato e tappai la bocca di mio fratello con la mano libera.
“Mi fai finire di mangiare?” gli chiesi.
Lui annuì con la testa e io sospirai, lasciandolo andare.
Evan si sedette con le ginocchia sull’altro sgabello e i gomiti sul bancone.
“Avanti. Avanti. Riesci a finirlo con un solo morso” iniziò a incitarmi.
“Va bene, va bene” dissi esasperato, ficcandomi il resto della brioche in bocca e alzandomi da lì.
“Mi vado a cambiare, prima che ti faccio fuori” minacciai mio fratello, che gioì vittorioso, senza curarsi della mia minaccia e venendomi dietro.
Io sospirai e uscii dalla cucina, non prima di incrociare lo sguardo con Mason e mia zia, che mi stavano guardando, mentre cercavano di non ridere. Li fulminai con lo sguardo: maledetti, mi avevano incastrato in pieno.
 
Uscimmo di casa, dopo che mi fui preparato nel mio bagno in camera, mentre mio fratello rimbalzava leggermente sul mio letto. Dove trovasse tutta quella energia di prima mattina, non ne avevo la minima idea.
E così, dopo aver afferrato le giacche e averle indossate, uscii di casa con Evan, una volta salutati i due adulti in cucina.
Vidi la macchina di Mason parcheggiata nel vialetto e mi chiesi come avesse fatto un maestro a comprarsi una macchina del genere.
Era meravigliosa. Per non parlare degli interni. Quella macchina avrebbe potuto guidarsi facilmente da sola. Mi rammaricai del fatto che non me l’avesse mai fatta guidare prima e che mio fratello sembrasse molto più esperto di me, dentro quella macchina. Beh, magari un giorno avrei potuta farmela prestare. Magari quando Melanie sarebbe tornata e avremmo potuto avere di nuovo un’uscita con tutto il rispetto.
Arrivai davanti alla scuola di mio fratello in pochi minuti e non ebbi neanche il bisogno di scendere dalla macchina, dopo essermi fermato davanti al portone. Le maestre erano lì, che aspettavano i bambini.
“Ci vediamo stasera, Chad” mi disse Evan, sporgendosi per darmi un bacio sulla guancia.
“Mi raccomando: fai il bravo, non combinare guai e ascolta le maestre” gli dissi, preoccupato per tutta quell’eccitazione che scorreva nel piccolo corpo di mio fratello per quella uscita allo zoo.
Lui ridacchiò e annuì, aprendo lo sportello che avevo appena sbloccato.
Guardai mio fratello che raggiungeva le maestre e poi si voltava di nuovo per salutarmi con la mano. Vidi la donna mettere una mano sulla spalla di Evan e io sorrisi, salutando a mia volta. Adesso potevo ripartire.
 
Il mio telefono squillò dopo aver parcheggiato davanti casa mia. Lo tenevo ancora tra le mani, in quanto avevo appena messaggiato con Mason riguardo la sua macchina e mi aveva anche permesso di tenerla tutto il giorno, a patto che sarei ritornato anche a prendere mio fratello alla fine della scuola. Beh, per una volta la mia moto poteva anche stare al coperto nel garage di casa nostra. A volte mi capitava di sentire la mancanza di un manubrio rotondo e di un sedile più comodo, nonostante amassi la mia moto con tutto me stesso.
Per di più, una bella macchina non andava mai rifiutata.
Quindi, prima di ripartire e di andare in palestra il mio telefono era suonato.
“Buongiorno, luce dei miei occhi”  risposi, mentre accendevo la radio.
“Giorno, Chad. Cos’è tutto questo amore di prima mattina? Hai fatto qualcosa di cui dovrei preoccuparmi?” fu la risposta di Melanie, dall’altro capo del telefono.
Risi. “Io sono sempre amorevole. E non ho fatto niente. E ti dico di più, piccolo elfo dai capelli rossi: Evan mi ha svegliato, quando avevo programmato una lunga dormita. Poi tu con la tua chiamata sei in ritardo e quindi ho deciso di tradirti” dissi ad una velocità inaudita anche per me.
“Io non sono in ritardo, cretino. Sono puntualissima” fece lei.
Io tossii. “Io ti dico che ti sto tradendo e tu noti soltanto il fatto che ti ho definita ritardataria?”  dissi frustrato.
Lei ridacchiò. “E sentiamo con cosa mi staresti tradendo? Con del cibo?”.
Spalancai la bocca, nonostante lei non potesse vedermi. “Hai mangiato pane e simpatia per colazione, rossa?” le chiesi. “Mi hai ferito” continuai poi, con tono offeso.
“Ok, scusami piccolo. Allora, con chi mi stai tradendo?” disse a quel punto con tono derisorio.
“Con una macchina”.
E lei scoppiò a ridere di gusto.
“Ehi! Guarda che è una macchina con l’iniziale maiuscola. Fa certi lavoretti” dissi, convinto.
“Ok, frena. Adesso è raccapricciante” affermò e anche da lì potevo immaginare la sua faccia.
Io risi. “Sì, hai ragione. Comunque è quella di Mason. Davvero, Mel. Quando deciderai di tornare nell’orribile cittadina di Dover, devi salirci anche tu”.
“D’accordo. Ma che ci fai tu con la macchina di Mason? La tua moto sta bene?” .
Roteai gli occhi. “Ovviamente.  Altrimenti non sarei così di buon umore. Mason mi ha solo preso per un taxista”.
Sentii il respiro di Melanie più affannato, come se avesse accelerato il passo, poi rispose con voce accattivante: “Mmh, un taxista sexy. Io salirei sul tuo taxi molto volentieri”.
Scossi la testa, divertito. “Oh, grazie, babe. Quindi credi che se la mia società pugilistica fallisse, potrei avere un brillante futuro da taxista?”.
Melanie ridacchiò. “Ovviamente. Sexy pugile diventa sexy taxista. Le donna fanno la fila per salire sulla sua macchina gialla” disse in modo plateale, da telecronista. “Mmh? Che ne pensi?”.
Io risi. “Affascinante” risposi.
“Ehi, Chris, Becka” disse poi la mia ragazza e io collegai quei nomi con i suoi nuovi amici, di cui mi aveva molto parlato già tempo addietro.
Poi tornò a rivolgersi a me: “Amore, ci sentiamo stasera, sì? Tra poco dovrò anche andare a lezione. Sto quasi finendo il mio disegno” disse, eccitata.
“Va bene, piccola. Anche se mi piacerebbe ancora sapere cosa hai disegnato” dissi, sbuffando.
“Te lo dirò quando lo finirò” fu la sua risposta, uguale al solito.
Io mi imbronciai automaticamente. Ci avevo provato in tutti i modi, ma lei era sempre stata irremovibile. Continuava a ripetere che se lo avesse detto a qualcuno, avrebbe portato sfortuna.
“Ciao, tesoro. Ti amo” disse, prima di riattaccare, senza lasciarmi il tempo di replicare. Sempre la solita.
Guardai lo schermo del telefono ancora per un attimo, poi lanciai il cellulare sul sedile del passeggero e riattivai la macchina, pronto per raggiungere la palestra.

Pov Melanie
Dopo aver riattaccato con Chad, mi voltai direttamente verso i due ragazzi, che mi guardavano con espressioni divertite.
“Il tuo boy?” mi chiese Becka, facendo finta di baciare qualcuno davanti a sé.
Io roteai gli occhi e annuii.
Chris ridacchiò. “Io non ci credo che il tuo ragazzo sia un pugile famoso. Sarà il frutto della tua immaginazione?”. A volte mi chiedevo come diavolo facesse a pensare quelle cose. Era un ragazzo strano.
“Beh, non è così famoso. Però esiste e se vuoi posso fartelo vedere” dissi, mentre Becka diceva: “Non starlo a sentire. È solo geloso. Però qui vogliamo vederlo tutti questo pugile”.
“Io non sono geloso” disse Chris, mentre io cercavo una foto di Chad con i guantoni. La trovai abbastanza velocemente nel telefono e lo passai ai due.
Chris spalancò la bocca. “Oh mio dio. Adesso sì che sono geloso. Ma è… wow! Come facciamo a sapere che non è un modello preso da internet?”.
“Ma quanto sei cretino?” chiese Becka, sconvolta per la fantasia di Chris.
Io sbuffai, fingendomi offesa, ma in realtà divertita. “Guarda” e con il dito cambiai foto. Sullo schermo ne apparve una di me, seduta sulle gambe di Chad, che aveva le braccia intorno alla mia vita; entrambi stavamo guardando l’obbiettivo.
“Aww. Quanto siete carini!” disse Becka a quel punto.
“Hai ragione. Sono proprio due piccoli piccioncini” concordò il ragazzo.
“Ora andiamo?” dissi, riappropriandomi del cellulare e incitandoli a camminare di nuovo, dopo esserci fermati nel bel mezzo della strada.
“Okay, okay. Andiamo” fece Chris. 
Riprendemmo a camminare quando improvvisamente Becka affermò: “Vi immaginate Melanie che ogni mattina parla al telefono, ma dall’altra parte non c’è nessuno?”.
“Sarebbe una pazza” disse Chris, ridendo.
E a quel punto non riuscii più a trattenermi dal ridere nemmeno io e non potei fare a meno di pensare che i pazzi erano proprio i due amici che avevo trovato in quel posto.
 
Ero completamente immersa nel mio mondo. Avevo una cuffietta nell’orecchio destro e le matite colorate sparse per il tavolo, mentre il rosso era nelle mie mani. L’insegnante stessa diceva che la musica poteva essere fonte di ispirazione e di concentrazione e ce la lasciava sentire mentre lavoravamo, a patto di non disturbare. Non che qualcuno disturbasse o chiacchierasse. Quel lavoro era carico di agonismo, essendo una competizione e nessuno sembrava degnarsi di uno sguardo, cercando di realizzare l’opera migliore.
Stavo definendo lo sfondo quando l’insegnante si fermò proprio davanti a me, osservando ciò che stavo facendo.
“Disegno?” chiese a bassa voce e io alzai lo sguardo su di lei, annuendo.
Non disse altro, ma sorrise in modo enigmatico e passò oltre.
Quando l’ora finì, la signora Farren, la nostra professoressa ci annunciò che il giorno dopo sarebbe stato l’ultimo giorno di lavoro e quindi avremo anche avuto del tempo in più per le ultime rifiniture, poi avremmo dovuto consegnare i nostri lavori.
Sistemai tutto dentro la borsa e guardai un’ultima volta il mio disegno. Sembrava un disegno alquanto macabro e irreale, ma rappresentava un periodo della mia vita che con quelle parole veniva descritto perfettamente. Così doveva essere. Sorrisi e lo rimisi al sicuro nella custodia, seguendo gli altri ragazzi e uscendo dall’aula.

Pov Dave
“Sei nervoso”.
“No!” risposi per l’ennesima volta a Lilian che stava camminando accanto a me.
“E invece sì, sei nervoso” ripeté con un sorrisetto divertito.
Io sbuffai. Era da quando mi ero separato da Rachel che continuava a ripeterlo. Aveva iniziato con una domanda, subito dopo avermi chiesto qualcosa sulla mia ragazza, ma poi si era trasformata in affermazione.
E la mia risposta era sempre negativa. Ok, forse ero nervoso. Forse avevo dormito poco per riguardare gli schemi. Forse avevo continuato ad analizzare il tutto durante il tragitto verso il college. Forse ero dannatamente nervoso perché quel pomeriggio avremmo avuto la prima partita del campionato contro un college di cui non avevo mai sentito parlare, con una squadra del tutto nuova per me e in cui avevo avuto poco tempo per integrarmi. Entrare a far parte di una squadra già formata non era un’impresa facile, nonostante i miei compagni e l’allenatrice mi guardassero con ammirazione e cercassero di aiutarmi in qualsiasi modo.
Soprattutto Lilian si era avvicinata a me sempre di più e spesso ci ritrovavamo ad andare insieme verso le nostre lezioni.
Quella mattina però lo studio avrebbe potuto aspettare e noi giocatori eravamo giustificati. Così in quel momento la nostra meta era proprio la palestra.
“Continui a rosicchiarti l’unghia del pollice. Non lo avevi mai fatto prima. Ergo, sei nervoso” ripeté lei.
Mi resi conto soltanto allora che effettivamente avevo la mano in bocca e con una smorfia la tolsi in fretta. “Perché non diventi psicologa?” chiesi, roteando gli occhi, ma senza guardarla.
“Beh, il mio intento è proprio quello” disse e io spalancai gli occhi. “E tu sei nervoso”.
Gemetti frustrato e mi voltai a guardarla. “Ok. Sono nervoso. Adesso smettila di ricordarmelo, grazie” ammisi, passandomi una mano tra i capelli.
“E’ normale. Ma non devi, vedrai che…” la interruppi, puntandole un dito contro.
“Non provarci nemmeno. Non dirlo!” dissi, mentre varcavamo la soglia della palestra.
E nello stesso momento un braccio si posò sulle mie spalle.
“Lili, smetti di importunare il ragazzo” disse Gordon, senza lasciarmi andare, ma osservando Lilian.
“Gordon. Io non lo sto importunando. E’ solo nervoso” disse poi, abbassando la voce, come se non volesse che la sentissi.
“Davvero? Gli hai detto che non deve?”.
“Ragazzi! Io vi sento. Grazie, Lilian. E sto bene, Gordon, figurati” dissi, cercando di riottenere la mia dignità e scrollandomi di dosso il braccio del ragazzo.
I due si guardarono e risero, mentre io sospiravo e acceleravo il passo per raggiungere il parquet.

Pov Lilian
Ero seduta sulla poltrona dello studio di Johan, mentre la donna in questione camminava per la stanza.
“Perché siete tutti così nervosi?” le chiesi, giocando con il laccio della mia felpa.
“L’essere nervosi non è per forza sbagliato o dannoso, Lili. E io sono soltanto elettrizzata, che è un sentimento alquanto diverso” affermò lei, tornando a sedersi dietro alla sua scrivania.
“Ok, ma lui è nervoso”.
“E tu sei un’ottima osservatrice. È per questo che ti ho chiesto di tenermelo d’occhio, no?” fece lei.
Io scrollai le spalle e lei continuò: “E poi è normale. Soltanto i presuntuosi come Marshall non sono nervosi prima della loro partita di debutto in una nuova squadra” e sorrise maleficamente.
“Non essere cattiva con lui. Non è un pessimo giocatore dopotutto” la ammonii.
“Oh, piccola Lilian. Lo sai che non sarei mai cattiva con un giocatore. Sono consapevole che anche Marshall abbia delle capacità, altrimenti non farebbe parte di voi, no? Anche se il nostro Dave…”.
La interruppi: “Sì, sì, il ragazzo prodigio e bla bla bla. Lo so”.
“Sono così curiosa di vedere la sua risposta sul campo. Non so se te l’ho detto, ma penso che abbia qualcosa di speciale” disse e io scossi la testa.
“E un po’ come te” continuò.
Aggrottai un sopracciglio. “Avete la stessa luce. Lo vedo. Non sottovalutarlo, mia cara” terminò.
“Non lo faccio. Assolutamente. E sono curiosa di vedere tanto quanto te. Ma se avesse risvolti negativi? Stamattina era teso come una corda di violino” dissi.
“A quel punto ci penseremo. Adesso bisogna soltanto stare a guardare. Fidati di me, Lilian. Fidati di me”.

Pov Chad
Sentivo i miei pettorali contrarsi sotto al peso del bilanciere, mentre Ryan mi guardava, seduto sulla panca accanto alla mia.
Era nei suoi minuti di riposo, mentre io ero nel pieno della mia serie.
Lo lasciavo parlare, mentre respiravo e tiravo su e poi giù quei pesi da 60 kili su ogni lato.
Alla fine dell’esercizio lo rimisi al posto, mettendomi a sedere. Mentre mi massaggiavo la spalla, Ryan mi elencava le città in cui tra due settimane saremmo dovuti andare, grazie all’inizio del campionato.
“Se dovessimo passare la prima fase, andremo fin dall’altra parte dello stato. Ti rendi conto?” mi disse, esaltato.
“Dall’altra parte, quanto?” chiesi curioso.
“Dall’altra parte abbastanza per poterti riabbracciare la rossa” mi disse, con un ghigno.
“Dici sul serio?”.
Lui annuì e io mi lasciai sfuggire un sorriso. “Motivo in più per arrivare alla seconda fase” dissi e Ryan annuì. E poi toccai un punto della spalla indolenzita e storsi la bocca, involontariamente.
“Cos’era?” Ryan, ovviamente, se ne era accorto subito.
“Niente” dissi, togliendo la mano da lì.
“Dov’era?” continuò.
“La spalla” dissi. Tanto non l’avrebbe fatta finita fino a quando non glielo avessi detto.
Si alzò e venne verso di me. “Fa male?” chiese e vidi che stava cercando di non farsi prendere dal panico. Dopotutto mancavano solo due settimane all’inizio della nostra annata.
“Sarà solo un nervo accavallato” dissi, cercando di liquidare la questione.
“Fa vedere, idiota” disse, mettendomi una mano sulla spalla. “Per cosa avrei studiato io, altrimenti?” mi chiese e a me venne da ridere.
“E’ difficile immaginarti studiare, lo sai?”.
“Lo so, ma l’ho fatto. E quando diventerò troppo vecchio per combattere diventerò il tuo fisioterapista che fa miracoli” iniziò a toccarmi la spalla e trovò il punto esatto in pochi secondi.
Io ridacchiai, mentre lui continuava: “Dio, hai tutti i muscoli tesi. Possibile che tu non riesca a rilassarti un attimo?” mi chiese, mentre massaggiava quel punto, facendomi emettere un verso di apprezzamento, misto a dolore.
“Possibilissimo” risposi.
“Dovresti rilassarti di più”.
“Hai ragione” dissi, mentre continuava a trattare il mio muscolo.
“Potrei portarti in un centro relax eccezionale” continuò, pensando a chissà quale ricordo correlato.
“Suona come un appuntamento”.
“Coglione” mi insultò, facendomi ridere.
“Bene, a quanto vedo la tua cotta per me si sta attenuando” dissi, mentre mi lasciava andare.
“Fatto. Adesso vado a farmi la doccia. Vuoi venire?” mi chiese, sollevando le sopracciglia e muovendole.
“O forse no” dissi, scuotendo la testa e toccando il punto che aveva sciolto in diversi minuti. Dio, le sue mani erano davvero magiche.
“Vado a prendere la mia roba e ti raggiungo. Comincia ad andare” gli dissi.
Lui sorrise divertito e annuì, prima di scomparire verso gli spogliatoi.
Andai nell’altra sala, quella del ring, collegata all’ingresso e raccattai le mie cose, che avevo lasciato in giro.
“Chad”. Mi bloccai di colpo, mentre ero abbassato per prendere da terra la mia sacca.
Sembravano essere passati secoli da quando avevo sentito quella voce.
Mi voltai di scatto e osservai la ragazza che avevo davanti: i capelli biondi le ricadevano sulle spalle e i suoi occhi erano più chiari di quanto ricordassi.
“Cosa vuoi?” fu l’unica cosa che riuscii a dire.
“Mi fa davvero piacere vederti” e mi sorrise.
“Che cosa vuoi, Sarah? O come diavolo ti fai chiamare adesso”.
“Juliet. Il secondo nome può sempre tornare utile” disse, con un mezzo sorriso.
“Perché sei tornata?” le chiesi. L’unico sentimento che provavo nei confronti di quella ragazza era la rabbia. Non volevo che rientrasse nella mia vita, né tanto meno in quella di Ryan.
“Perché stai usando il tuo secondo nome? Cosa vuoi da Ryan?” chiesi, quando lei non mi rispose.
“Lascia fuori Ryan” mi rispose.
“No. Ryan è il mio migliore amico. Prova a fargli del male... ” dissi, mentre il senso di protezione verso quell’amico che era come un fratello per me, mi nasceva dentro.
“Ci sono cose che non sai, Chad” mi disse, facendomi arrabbiare ancora di più.
 Stavo per ribattere quando: “Juliet! Chad!”. Mi voltai verso Ryan, che con i capelli ancora bagnati adesso stava venendo verso di noi.
“Ryan” disse Sarah o Juliet o come diavolo dovessi chiamarla, con un sorriso amorevole.
Il mio amico si affiancò alla ragazza.
“Ow, vi siete conosciuti senza di me?” chiese, mettendo il broncio.
Mi veniva quasi da ridere per la verità nelle parole di Ryan.
“Già. Mentre ti aspettavo io e Chad stavamo facendo due chiacchiere” disse la bionda.
Guardai Ryan e osservai il suo sorriso. Potevo vedere come guardava quella ragazza e potevo sentirmi male solo per quello. Quella ragazza ai miei occhi aveva un cartello in testa con la scritta Pericolo, di quelli che stanno in autostrada.
Non che mi avesse mai fatto nulla di male. Poteva anche essere un angelo dal paradiso, ma nel profondo sapevo che mi aveva ferito anni prima. Se n’era andata senza darmi alcuna spiegazione. Erano passati anni senza che sapessi nulla di lei e adesso era tornata in città. Perché? Perché tra tutti i ragazzi della città si era avvicinata al mio migliore amico?
E cosa avrei dovuto dire a Ryan? Non potevo dirgli cose sulla sua quasi ragazza, quando potevano essere benissimo castelli in aria.
E così fu la mia scelta migliore: “Devo andare a lavarmi” dissi, guardando Ryan.
Lui annuì: “Sappi che un giorno di questi ti rapiremo per un’uscita. Dopotutto dobbiamo festeggiare l’inizio della stagione”.
Presi la sacca che era rimasta a terra, mentre Sarah diceva: “E’ stato un piacere, Chad”.
Mi sforzai di sorridere e voltai le spalle. Ryan poteva anche considerarmi maleducato, ma per me incontrarla non era stato affatto un piacere.

Pov Dave
Gli spalti pieni di gente, Rachel tra gli spalti, il riscaldamento pre-partita, l’ansia, il brivido lungo la schiena al suono della sirena. Tutto quello mi era mancato. Dopo mesi era la sensazione più bella di tutte poter tornare in campo.
Il nervosismo che si era impossessato di me per tutto il giorno era sparito. Da quando avevo iniziato ad ascoltare i Green Day un paio d’ore prima della partita per la precisione.
Nello spogliatoio era sorto il caos e riuscì a calmarsi soltanto quando Johan era entrata per il suo discorso – alquanto solenne e d’incoraggiamento in onore della nostra prima partita.
Le sue parole riuscivano a metterti una calma inaudita, ma allo stesso tempo ti caricavano molto. E poi riusciva a domare undici frenetici ragazzi – e una ragazza – da sola.
Era sicuramente una donna che andava ammirata, senza alcuna esitazione.
E adesso mancavano solo pochi secondi all’inizio della partita. Era strano trovarsi di nuovo in panchina per la prima parte della partita, ma era giusto così. Le cose dovevano andare così.
E vidi come il nostro quintetto fosse formato da Peter, Lilian, Tyler, Jack e Gordon. E come giocassero contro una squadra discreta, ma alquanto inferiore alla nostra, tanto da riuscire ad andare in vantaggio già dopo i primi dieci minuti della partita.
Durante la prima partita il tuo occhio è attento a qualsiasi cosa: come l’allenatrice urli e detti ordini ai tuoi compagni, come mandi i suoi giocatori al cambio, come si muovono i tuoi avversari, come interagiscono i tuoi nuovi compagni. E più resti in panchina, più la voglia di giocare e l’eccitazione scorrono nelle tue vene.
Fino a quando il tuo nome viene pronunciato dal tuo allenatore. Quel semplice “Carter” pronunciato da Johan che ti fa alzare in piedi e che ti fa martellare il cuore in gola.
Quando la confusione della palestra e del pubblico ti assale. Quando le ossa vibrano, realizzando che stanno per tornare sul pitturato e le gambe non riescono a stare ferme.
Quando pensi che il cubo su cui sei seduto non possa essere più scomodo di colì, ma in realtà sei solo tu che vuoi entrare in campo e afferrare il pallone.
“Entri al posto di Jack” mi disse Johan, in piedi accanto a me.
Io annuii e poi lei si sporse verso di me: “Non pensare alle conseguenze. Se lo fai, inevitabilmente, pensi a un risultato negativo. Gioca e basta” mi sussurrò.
Mi voltai a guardarla: mi sorrise, prima di tornare a guardare il campo.
Ripensai alle sue parole e mi accorsi solo allora che aveva appena citato Jordan.
Entrambi non potevano che avere dannatamente ragione.
E con il sorriso sulle labbra, sentii il fischio dell’arbitro che aveva fermato il gioco.
E ti alzi in piedi automaticamente, ti aggiusti la maglia nei pantaloncini istintivamente e dai il cinque al tuo compagno che sta tornando in panchina.
Alzi lo sguardo e ti ripeti che sei pronto.
Si comincia.




Angolo dell'autrice: Ehilààà!! Come va la vita, gente?
Ebbene, ecco il nuovo capitolo :3 ci ho messo più del previsto perché ho avuto un po' di problemi (mentali) sull'ordine degli eventi. Ma adesso eccolo qui. 
I commenti, come al solito, li lascio a voi.
Dico soltanto che, lo so, lo so che Melanie è molto trascurata per adesso. Perdonatemi. Nel prossimo capitolo cercherò di rimediare.
Ah, volevo anche dire che finalmente è iniziato il campionato di Dave. Ok, io sono una cestista, ma non aspettatevi descrizioni dettagliate delle sue partite. Mi chiederete: perché?
Beh, perché in realtà ho un'altra storia sul basket pronta nella mia testa e quindi quanto a descrizioni cestistiche mi cimenterò in quell'occasione.
Ora proprio a questo proposito: ho un dilemma esistenziale.
E se vi dicessi: ho già un paio di capitoletti pronti anche di quella storia? Secondo voi - vi prego aiutatemi! - dovrei iniziare a pubblicare anche quello o finisco prima questa qui?
Ringrazio in anticipo chiunque mi dovesse rispondere. E ovviamente i miei usuali e anche nuovi lettori. E chi commenta la mia storia. Grazie!
A presto! x
-Manu

 

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Capitolo 8
*** Il drappo caduto ***


Pov Chad
All’incirca dall'ultima ora la mia testa era comodamente infilata sotto al cuscino, oscurandomi la vista della stanza. Beh, non proprio oscurandomi, dato che la luce della mia camera era spenta. Ma il concetto era quello: mi sentivo come uno struzzo, che sotterra la testa sotto la sabbia. Mi domandai se quegli animali lo facessero per un motivo preciso e onestamente non ne avevo idea. Forse, proprio come me, anche loro avevano una ragione. 
Comunque fosse, quel pensiero non mi stava consolando affatto.
Dalle cuffiette le voci degli Ac/Dc mi riempivano la testa e io cercavo maledettamente di concentrarmi sulle parole della canzone, invano. La mia mente, facendosi beffe di me, continuava a riportarmi a quel pomeriggio, quando alla fine dell'allenamento Carl era intervenuto tra me e Ryan. Alzai leggermente la testa e la feci ricadere contro il letto, sbattendola, ma non mi feci nulla, al contrario del male che volessi farmi.
Erano secoli che non litigavo con il mio migliore amico e adesso non riuscivo a capire se fossi più arrabbiato e talmente ostinato da continuare a pensare di avere ragione, o se mi sentissi più idiota per averlo trattato in quel modo.
E forse sì, era stata proprio una mossa stupida quella di aver trasformato la mia indifferenza per la ragazza in un pretesto di litigio. Indifferenza, Chad, davvero? Ok, forse era più intolleranza o sospetto, ma lo avevo fatto diventare ugualmente un pretesto.
Tutto era cominciato dopo che eravamo tornati dalla corsa ciclica e ripetitiva intorno all'edifico, precisamente a metà dell'allenamento. Stavamo entrando di nuovo in palestra, quando Ryan aveva iniziato a parlarmi dell'uscita con Sarah - pardon, Juliet - e di come fossero stati bene, nonostante avessero passato soltanto del tempo nel parco a pochi isolati da lì. Io ascoltavo senza parlare, annuendo di tanto in tanto per far capire che stavo continuando ad ascoltarlo.
E poi, una volta usciti dagli spogliatoi, da cui avevamo recuperato i guantoni per combattere sul ring o sfogarci con qualche sacco, la sua fatidica frase: "Mi ha chiesto di te". Io mi volta a guardarlo, aspettando che continuasse a parlare. "Dice che il mondo del pugilato è interessante e che anche i miei amici lo sembrano. Tu, in particolare".
E a quel punto smisi di camminare e mi rivolsi a lui per la prima volta durante il suo monologo: "Cosa ti ha chiesto?".
Quella non era una buona cosa, affatto. Il nostro mondo non era interessante; era un mondo di pazzi che godevano nel vedere il proprio avversario a terra, sanguinante. Ok, forse poteva essere interessante, anche se non ero sicuro se in modo positivo o negativo (optavo più per la seconda), ma il reale problema era: lei mi riteneva interessante. Eh, no. Sarah non doveva proprio interessarsi a me.
"Qualcosa sulla tua vita" rispose Ryan, dopo essersi fermato anche lui e muovendo una mano in un gesto noncurante.
"Cosa le hai detto?" chiesi, mentre i miei occhi diventavano delle fessure.
"Che hai un fratello". Lo sapeva già. "Le moto". Sapeva anche quello. "E Melanie". Centro. Quello non lo sapeva affatto.
La rabbia mi assalì. "Perché? Perché le hai detto cose sul mio conto?" chiesi, serrando la mascella.
Ryan si accigliò e poi mi guardò confuso. "Perché non avrei dovuto farlo, scusa?" ribatté.
"Perché la mia vita non le riguarda".
Ryan mi guardava come se fossi impazzito. "Ma che diavolo ti prende?" mi chiese, mentre vedevo l'irritazione sorgere nel suo sguardo.
"Non avevi il diritto di raccontare i fatti miei a quella tipa" risposi, ormai cieco di rabbia.
Ryan fece un passo verso di me, gi occhi ridotti a due fessure. "Quella tipa, Chad, è la mia ragazza. Posso dirle quello che mi pare".
E sentirgli dire questa frase fu anche peggio delle altre. "Che cosa? La tua ragazza? Quindi è ufficiale? Grazie per avermi reso partecipe, amico".
"Reso partecipe? Ma qual è il tuo problema, Chad? Pensavo fosse sottinteso. E' da settimane che ti parlo di lei, Cristo! Non è colpa mia se sei un idiota che non sa fare 2+2". Non mi ero nemmeno reso conto che avevamo alzato la voce, tanto da attirare l'attezione.
Comunque, nonostante la parola "idiota" fosse un insulto banalissimo e alquanto poco offensivo, il mio cervello reagì nel peggiore dei modi: mi avventai su di lui.
Ok, siamo entrambi lottatori e in alcuni casi Ryan è anche più esperto di me, tanto che quella volta riuscì a bloccarmi e a respingermi con una spinta, ma facendo in modo che non ci facessimo male né io, né lui. "Toglimi le mani di dosso!" esclamò.
Fu proprio in quel momento che Carl ci raggiunse e separandoci, ci fece allontanare l'uno dall'altro. "Che diavolo avete intenzione di fare? Siete impazziti o solo deficienti?" ci chiese, guardando prima me, poi Ryan, i quali continuavamo a lanciarci sguardi di fuoco.
"Chiedilo a Chad. Lui mi è venuto addosso" disse Ryan, spostando lo sguardo su Carl.
Io risi ironicamente, in modo cattivo.
"Non mi frega un cazzo di chi è andato addosso a chi. Nella mia palestra non voglio nessun deficiente che si picchia, con il campionato alle porte, se non per allenamento o sul ring. Quindi fuori di qui. Per oggi avete finito. Andate a sbollire a casa. Fuori, adesso!" disse in modo minaccioso.
"Tsk" mi uscì soltanto, allontanandomi da quei due e tornando a prendere la mia roba per andare via, mentre dietro di me sentivo Ryan che diceva: "Che testa di cazzo".
Quindi, sì. Avevo litigato con Ryan, ero stato cacciato dalla palestra ed ero tornato a casa. Ero entrato in salotto, dove mi zia ed Evan stavano guardando la televisione e avevo detto semplicemente che non avrei cenato e che potevano chiamarmi solo in caso di necessità. Dopo il litigio, la mia fame era andata a farsi fottere.
Loro mi avevano guardato in modo strano, ma non avevano commentato e avevano semplicemente annuito. Era raro che facessi cose di quel tipo e forse, proprio per quel motivo, evitarono di chiedere quale fosse il problema.
E così ero finito come gli struzzi, con la testa sottto al cuscino e la musica che avrebbe dovuto isolarmi dal mondo. Avrebbe, appunto.
Appena finita la mia riflessione, il mio letto aveva iniziato a tremare, così come la mia gamba.
Il mio telefono, nella tasca dei pantaloncini, stava suonando.
Sbuffai, ma sapevo che si trattava di Melanie. Dovevo rispondere. Così riemersi dal piccolo mondo oscuro, per riadattarmi a un mondo più grande e appena meno buio, data la poca luce che filtrava dalla finestra.
"Pronto?" risposi.
"Ehi, Chad" disse Melanie. Io gemetti frustrato. Chad.
"Perché Chad?" chiesi, gettandomi di nuovo contro il cuscino.
"Cos...? Non è così che ti chiami?" mi chiese confusa.
Perché non amore? Perché non tesoro? Perché... mi stava bene anche piccolo, dannazione.
"Niente. Lascia perdere" risposi invece, affondando la faccia sulla superficie morbida.
"Che cosa c'è che non va, amore?".
Io gemetti di nuovo. "Niente" dissi, con la voce attutita.
"Stai bene? No, non stai bene. Cosa è successo?" continuò lei.
Io sospirai e mi rimisi a sedere. "Ho litigato con Ryan".
"Cosa? No, voi non litigate mai" disse, ridacchiando.
"E invece lo abbiamo fatto, con tanto di Carl che ci ha rimandati a casa" spiegai, alzandomi dal letto e iniziando a camminare per la stanza.
"Oh. Vi siete fatti male?" chiese, improvviamente preoccupata.
"No" sospirai.
"Risolvete. Chad, scusati" disse, poi con decisione.
"Cosa? Scusarmi? Non sai nemmeno perché abbiamo litigato!" esclamai, fermandomi al centro della stanza.
"Chad, tesoro. Il motivo non è poi così importante. Ascoltami: andarvi contro non è mai stato producente. Dovete fare ciò che vi viene meglio: spalleggiarvi. Quindi, qualunque sia il motivo, scusati. E magari potresti dirmi: tanto tra qualche giorno sbolliremo e tornerà tutto come prima. E può essere, sì. Ma non pensi che sia meglio anticipare le cose? Scusati e risolvi subito. Perché avete bisogno l'uno dell'altro. E lo sai benissimo".
Mi passai una mano tra i capelli. "Com'è andata la tua giornata?" fu l'unica cosa che mi uscì fuori.
"Chad! Dimmi che ti scuserai" protestò, tornando sull'argomento.
"Ok, va bene. Lo farò" dissi, sconfitto.
"Grazie. Uhm, la mia giornata? Bene. Ho finito il disegno" disse eccitata.
Tornai al mio letto. "E mi dirai cos'è?" chiesi, risedendomi per l'ennesima volta.
"No. Non ancora".
Sbuffai. "Non ti sopporto".
"Neanche io" ribatté.
"Non ti sopporti? Bene, non sono l'unico".
Lei rise. "Idiota" mi insultò. "E' stata una settimana lunga. Quel disegno mi ha esaurita" continuò subito dopo.
Settiamana lunga? A chi lo dici, babe. "Tu sei sempre esaurita" risposi invece.
"Ma quanto sei divertente?" chiese ironicamente.
"Tanto".
"Mmh".
Forse dovresti dirglielo. Forse se dicessi alla tua ragazza di Sarah ti sentiresti meglio. O forse lei impazzirebbe più di quanto stai facendo tu. Era pur sempre dall'altra parte dell'America.
Questi erano i pensieri che mi frullavano per la testa, in quegli attimi di silenzio.
Diglielo.
"Senti, Mel..." iniziai, ma allo stesso tempo lei diceva: "Dio, sono stanca".
"Oh. Ci sentiamo domani?" chiesi, mentre i miei piani si sgretolavano.
"Sì, è meglio. Buonanotte, Chad. Ti amo" mi disse.
"Ti amo anch'io". E poi la nostra conversazione si interruppe.
Beh, forse non era una buona idea parlarne con Melanie. O almeno, non per ora. Non volevo dargli altri pensieri, oltre quelli che aveva con il college.
Sospirai e mi distesi, sbattendo il pugno sul letto. Che diavolo dovevo fare?
E poi mi venne in mente la frase di Melanie: "Ciò che vi viene meglio: spalleggiarvi".
Diavolo. Aveva ragione. Allungai il braccio e presi il telefono dal comodino.
Erano passati giorni e non avevo detto ancora niente di Sarah al mio migliore amico. Forse non sarebbe stata la mia idea più brillante, ma dovevo fare qualcosa e in quel momento sembrava l'unica sensata. Quel pomeriggio era arrivato anche a definirla la sua ragazza. Forse gli avrei fatto del male, ma meglio adesso, quando erano ancora agli inizi, piuttosto che tra uno o due mesi, quando il loro raporto sarebbe potuto andare troppo oltre. Aprii la conversazione con Ryan sul mio telefono. Dovevo dirglielo.
 
Pov Ryan
Stupido coglione. Avevo un amico davvero idiota e io continuavo ancora ad assecondarlo, ad ascoltarlo, a supportarlo.
Quella sera a tavola dovevo essere stato davvero silenzioso, tanto che mia madre e mia sorella mi avevano chiesto più volte quale problema mi affliggesse.
Come potevo rispondere? Perché Chad mi ha aggredito per un motivo apparentemente idiota, tanto quanto lui? No.
Quindi avevo scrollato le spalle e avevo risposto che non avevo proprio niente. Non che le avessi convinte, ma almeno ero riuscito a farle smettere di chiedere.
E quando stavo salendo le scale per andare in camera mia, Blake mi aveva fermato.
"Ti sei lasciato con la ragazza, per caso?" mi chiese.
Io sollevai un sopracciglio e mi voltai. "No. E poi... tu che ne sai della mia ragazza?" chiesi.
"Hai sempre quello sguardo da ebete, quando ne trovi una. Però hai ragione, tu non diventi silenzioso o triste quando ti lascia una donna. Quindi... hai perso un incontro?" mi chiese.
"Cosa? No! Blake, fatti gli affari tuoi" dissi, roteando gli occhi e tornando a camminare verso la mia camera.
"Ultima possibilità: c'entra Chad, vero?" continuò, imperterrita.
Io sbuffai e la lasciai perdere, ma sentii i suoi passi dietro di me.
"Ho fatto centro, vero?" chiese, seguendomi su per le scale.
"Blake, piantala".
"Avete litigato?".
Entrai in camera mia e mi sedetti sul letto, ma Blake si sedette accanto a me.
"Non hai compiti da fare?" le chiesi e lei scosse la testa.
E poi il mio telefono vibrò. Lo tirai fuori dalla tasca e lessi il messaggio.

<< Mi dispiace >>.

Spalancai gli occhi e ricontrollai che il messaggio fosse proprio di Chad.
"Che carino. Si è scusato" disse mia sorella, che si era sporta verso di me per leggere.
Alzai lo sguardo su di lei. "Esci dalla mia stanza" dissi.
"Ehi, ma...".
"Blake. Esci di qui" le intimai.
Lei sbuffò e si alzò, mentre il mio telefono tornava  vibrare, più volte.
"Chiudi la porta" ordinai e lei lo fece, mentre borbottava cose a cui non stavo prestando attenzione.

<< Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace >>. 

<< Non ignorarmi. Ryan! Ho detto mi dispiace. Ti preeeego >>.

<< Ryan, maledizione! Rispondi. Mi dispiace >>.

Scossi la testa e sbuffai. Non gliel'avrei fatta passare così facilmente.

<< Ryan! Devo dirti una cosa. Quindi perdonami. Scusa, mi dispiace >>.

E no, Chad, non attacca.

<< Giuro che se non mi rispondi vengo da te. Adesso >>.

Non attacca neanche adesso.
E poi un'altra vibrazione. Sbuffai e lessi, ma mi bloccai di colpo.

<< Ti voglio bene >>.

Sentii la saliva andarmi di traverso. In due anni e mezzo, quella sarà stata tipo la seconda volta che Chad mi diceva quelle parole. Senza contare le volte in cui me le aveva dette da ubriaco, ma quelle contavano poco.
E fu proprio quello che mi fece rispondere.

<< Sei uno stronzo >>.

La risposta arrivò dopo pochi secondi. << Lo so, lo so. Mi dispiace >>.

<< Devi farti perdonare >>.

<< Se ti dico di Sarah, basta per farmi perdonare? >>.

Di nuovo quella SarahChi diavolo era? Ovviamente volevo sapere cosa diavolo Chad mi stesse nascondendo.

<< Credo di si >>.

<< Credi? >>.

<< Va bene. Sì >>.

<< Grazie! Domani ti racconterò tutto. Devi saperlo e io ho bisogno di te. E ti prego, non ti arrabbiare con me, dopo. Mi dispiace davvero per oggi, Ry >>.

Leggendo il messaggio mi chiesi perché dovessi arrabbiarmi ancora con lui, ma lo avrei scoperto soltanto il giorno dopo. Meglio mettere le mani avanti in ogni caso.

<< Non posso assicurare niente. E smetti di dire mi dispiace o riceverai quelle che oggi non ti ho dato >>.

<< Va bene. Va bene. Notte >>.

<< Notte. Anche io >>.

Passarono all'incirca tre minuti prima che mi rispondesse.

<< Anche tu cosa? >>.

<< Ti voglio bene >>.

E poi nessuna risposta. Tipico di Chad e del suo modo idiota di esternare i suoi sentimenti. O meglio, la sua incapacità di farlo.
Scossi la testa e poggiai il telefono sul  comodino, prima di decidere che era ora di andare a dormire.
Il giorno dopo, quindi - e direi finalmente - avrei avuto le risposte che volevo. E speravo che Chad sarebbe stato il più chiaro possibile o quella volta lo avrei picchiato veramente.
 
Pov Melanie
Era così umido. Umido tutto intorno a me. Non riuscivo a capire dove mi trovassi. Non riuscivo neanche ad aprire gli occhi. Era tutto così buio. Sentivo solo qualcosa di bagnato tra le mani , le mie braccia, il mio petto.
“Melanie” una voce continuava a chiamarmi e concentrandomi su quel suono riuscii ad aprire gli occhi. Le pareti intorno a me erano bianche e tutto era troppo luminoso, da ferire i miei occhi.
E poi una figura davanti a me, che mi dava le spalle.
Lo osservai e lo riconobbi subito: Chad. Si voltò verso di me, lentamente. Non disse nulla. Guardò soltanto il mio corpo, il mio petto. E scosse la testa. 
Abbassai lo sguardo su di me ed era meglio che non lo facessi. La sostanza umida era rossa: sangue. Il mio sangue. E la cicatrice sul mio petto era aperta. Urlai.

Aprii gli occhi di colpo, guardandomi intorno e la prima cosa che vidi, mentre cercavo di regolarizzare il respiro, fu Cher, in piedi davanti al mio letto.
E per la prima volta vidi il suo viso preoccupato, senza alcuna traccia di disgusto o fastidio.
“Stai bene?” mi chiese.
Io deglutii e annuii. “Scusa se ti ho svegliata” dissi.
Lei scrollò le spalle. “Sarà stato davvero un brutto sogno. E spera che con il tuo urlo non abbia svegliato tutto il corridoio”.
Io sospirai. “Spero di no. Nel caso mi scuserò”.
Lei annuì. “Adesso possiamo tornare a dormire?” mi chiese, facendo tornare sul suo viso un’espressione infastidita. Forse si era appena resa conto che erano le tre del mattino.
Dopotutto mi ritrovai a pensare che magari questo mio incubo e la sua apparente preoccupazione avrebbe potuto migliorare i nostri rapporti. O forse sarebbe stata solo più arrabbiata con me, proprio perché l’avevo svegliata.
Sospirai e dopo averle annuito, poggiai di nuovo la testa sul cuscino, cercando di non pensare all’incubo che avevo appena fatto. Ero quasi sicura che la causa fosse il disegno che avevo consegnato quella mattina, dopo averlo completato definitivamente.
L’unica cosa che mi lasciava perplessa era Chad, che nel mio sogno sembrava quasi… deluso.
Ci pensai un attimo, ma non riuscii a trovare una risposta al perché potesse esserlo, prima che tornassi nel mondo di Morfeo.

La mattina seguente la mia sveglia era suonata davvero presto, nonostante fosse sabato e io e la mia compagna di camera avremmo potuto dormire di più. Ma il mio telefono si era alleato contro di me e Cher aveva reagito in modo alquanto prevedibile.
Mi aveva urlato contro di spegnere quella fottuta sveglia. La ciliegina sulla torta, insomma, che mi fece convincere del fatto che anche dopo la notte prima, il nostro rapporto non era cambiato di una virgola e Cher sarebbe tornata, come faceva tutte le volte, ad evitarmi o a rifilarmi quelle rispostacce tanto carine, che riuscivano ad illuminare la giornata.
 
Pov Dave
Quando entrai in palestra, quel pomeriggio, era davvero strano sentire il silenzio assoluto. Era completamente l'opposto del giorno prima, quando gli spalti erano gremiti di gente e lo sbattere dei palloni contrastava le voci degli spettatori.
Adesso invece, sembrava un paradiso. Beh, il mio concetto di paradiso: un campo da basket silenzioso e pacifico. Non che il caos, l'adrenalina e i fischi degli arbitri non mi piacessero. Anzi, erano vita, ma ciò che avevo davanti in quel momento, sembrava un mondo irreale e perfetto. Inoltre, era raro riucire a vedere il campo in quello stato.
Evidentemente, e di questo avevo preso nota accuratamente, accadeva solanto il giorno seguente le partite di campionato, quando tutti i giocatori avevano il loro giorno libero e non si azzardavano a venire in palestra.
Ed era proprio per quello che io, invece, ero lì.
Mi ero seduto sulla panchina in cui ieri eravamo disposti tutti e sette i cambi della nostra squadra e guardando il campo vuoto tornai con la mente al giorno prima.
Dopo essere entrato in campo avevo sentito in gola il groppo dell'ansia, ma non appena la palla mi era arrivata tra le mani, lì era iniziata la vera partita.
Il mio corpo, seguito poi dal mio cervello, si era adeguato subito alla situazione e in quel momento sorrisi, chiedendomi quasi come riuscissi a farlo. Entrare in partita mentalmente e fisicamente era davvero importante e non sempre facile e fortunatamente io ero riuscito tutte le volte - o quasi - a farlo nel modo migliore. Forse era anche quella mia caratteristica che mi aveva portato a vincere la borsa di studio.
Ricordai i miei primi punti della serata, dietro la linea dei tre punti. Di come il pubblico avesse esultato e di come i miei compagni fossero entusiasti.
E poi anche la seconda tripla e il mio gesto usuale, con la mano in alto, con l'indice e il pollice uniti a formare il cerchio e le altre dita libere a formare il numero tre.
Ok, diventavo sempre un tantino esibizionista in campo. E poi quando facevo quel gesto, Rachel sapeva benissimo che stavo dedicando quei punti a lei. E anche quella volta, questo aveva portato a del buon divertimento nel nostro appartamento, una volta tornati dal pub con il resto dei ragazzi e di amici.
In quell'occasione avevo finalmente presentato i ragazzi a Rachel.  Anche Lilian si era decisa a partecipare e a venire con noi. Evidentemente l'inizio del campionato e la nostra prima vittoria erano un buon motivo per festeggiare anche per lei.
Comunque, durante la partita ero riuscito ad adattarmi molto bene con il resto dei ragazzi e quella era una delle cose che contavano di più. Questa squadra mi piaceva sempre di più e l'allenatrice era grandiosa proprio come pensavo.
Ti sosteneva sempre, ma era anche pronta ad insultarti senza il minimo scrupolo.
E quando ero uscito dal campo il suo cinque e le parole "Buon lavoro, Carter" mi avevano fatto sentire dannatamente bene.
In quel momento ero talmente assorto nei miei  pensieri che non mi accorsi dei passi che si stavano avvicinando dietro di me. Solo quando una mano si poggiò sulla mia spalla, sobbalzai e mi voltai di scatto: Johan.
"Ciao" la salutai, tornando a rilassarmi.
Le mi sorrise. "Cosa fai qui, Dave?" mi chiese, venendosi a sedere accanto a me.
"Rifletto".
"Su cosa?" continuò.
"Sono indeciso se fare qualche tiro o se restare qui a pensare" ammisi.
Lei sorrise divertita e scosse la testa. "Se vuoi posso aiutarti".
Io annuii e lei disse: "Va a casa e rilassati, Dave. Se vi ho dato un giorno di riposo, sarà meglio sfruttarlo, non credi?".
Io scrollai le spalle. "Non riesco a stare lontano dal campo neanche un giorno. E penso che tutto questo" e indicai il campo vuoto "sia davvero rilassante".
Lei rise e si alzò. "Oh, beh. Su questo non posso darti torto. Quindi rlassati e pensa tutto il tempo che vuoi, ma non toccare il pallone. Non vorrei che Aragon si arrabbiasse. Anche lui ama questa pace" affermò.
"Aragon?" chiesi, confuso.
"Sì, il fantasma della palestra. E' un tipo amichevole, ma è meglio non farlo arrabbiare" mi rispose, agitando una mano.
Scoppiai a ridere, mentre lei si allontanava. Se voleva spaventarmi, non ci era riuscita affatto. E avrei continuato a restare lì ancora per un po'. O al massimo avrei fatto compagnia a questo Aragon. E nel peggiore dei casi, a farci amicizia.

Pov Rachel
"Dammi un bacio".
Spinsi Dave contro il letto, senza baciarlo, mentre mi rimettevo in piedi.
Lui protestò: "Dammi un bacio" ripeté con voce piagnucolosa.
"Dave! Sono in ritardo. Lo so che è sabato e che il weekend è sacro per noi, ma non posso non partecipare a questa esercitazione" dissi.
"Dannato professore con le sue esercitazioni del sabato mattina. Potrebbe almeno portarvi in un tribunale reale" borbottò il mio ragazzo, affondando il viso sul cuscino.
"Lo so, amore. Ma devo".
"Mi dai un bacio? E non dirmi di no. Se non avessi protestato e lo avessi già fatto, non saresti in ritardo".
Scossi la testa. Come se non me ne avesse chiesto un altro subito dopo il primo bacio che gli avevo dato.
Mi abbassai comunque una seconda volta e lo accontentai.
Lui, che aveva ancora gli occhi chiusi, sorrise beato e io odiai il fatto che non potessi stare con lui quella mattina.
Iniziai a camminare verso la porta, mentre dicevo: "Ci vediamo per pranzo. Ti amo".
"Anche io" lo sentii borbottare dal letto. E ci avrei scommesso: nello stesso istante in cui aveva finito di parlare era tornato nel mondo dei sogni.
 
Mi affrettai lungo il viale dell'istituto, che rispetto al solito era deserto, a parte qualche ragazzo qua e là che studiava sul prato o chiacchierava con gli amici.
Speravo vivamente di non perdermi. Quel college era sempre stato un infernale labirinto per me. Inoltre il professor Ant non tollerava i ritardi. Ma era sabato mattina, diamine.
Arrivai davanti l’aula, imprecando. La porta era chiusa e senza bussare entrai, cercando di essere il più delicata possibile.
Vuoi il fatto che il rumore rimbombasse e arrivasse fino all’inizio dell’aula, vuoi la mia sfiga innata, il professor Ant smise di parlare e si voltò verso la porta. La sistemazione dei banchi in aula, inoltre, non aiutava di certo, lasciandomi scoperta. L’aula era organizzata in modo che somigliasse ad un vero tribunale, con la cattedra del professore che in posizione rialzata, doveva essere la postazione del giudice.
Due banchi per gli avvocati e delle sedie, rispettivamente in angoli diversi, per la giuria (vuote) e gli spettatori (colme di studenti).
“Benvenuta tra noi, signorina Miles” disse il professore, fulminandomi con lo sguardo.
“Mi scusi” borbottai, mentre sentivo le mie guance andare a fuoco.
“Sì, ovviamente. Voi studenti non conoscete la parola puntualità. Prenda posto, così possiamo tornare alla lezione” disse e io camminai verso i posti liberi vicini a Zoe e Lucy, che mi guardavano rispettivamente divertite e compassionevoli.
E poi mi bloccai di colpo, quando Ant disse: “Anzi no, signorina Miles, venga qui da me. Chi ultimo arriva, male alloggia, no? Abbiamo appena trovato l’imputata per il nostro processo” e sorrise maleficamente.
Io guardai ancora un attimo le mie amiche, poi sospirai e raggiunsi il professore.
Mi indicò una sedia rialzata vicino a dove, teoricamente, doveva esserci il trono del giudice.
“D’accordo” disse, mentre io mi sedevo e mi guardavo intorno a disagio. Mi sentivo decisamente osservata.
“Durante questa esercitazione, dato che è la prima, io farò rispettivamente il giudice e gli avvocati. Alla fine la giuria sarete voi, mentre la nostra imputata qui... Beh, lei signorina, spero che sappia recitare, perché improvviserà” terminò Ant, aggiustandosi gli occhiali sul naso.
Che cosa? I miei occhi si spalancarono per la sorpresa.
“Cominciamo. Ah, dimenticavo. Voi studenti potete intervenire in qualsiasi momento”.
E poi tirò fuori dei fogli e il processo iniziò.
Ascoltavo il professor Ant interessata, nonostante stesse parlando della mia colpa.
“La nostra imputata è accusata di tradimento” annunciò dopo i convenevoli.
Tradimento? Ma che colpa era? Mi immaginai a tradire Dave e non sapevo se essere inorridita o divertita.
“Mi scusi” dissi, per la seconda volta quella mattina, interrompendo il finto giudice.
“Sì?” chiese lui, guardandomi da dietro gli occhiali.
“Tradimento? Questa non è un’accusa. Insomma, tradire una persona è una propria scelta. Non è un crimine da scongiurare in tribunale. Possiamo parlare di divorzio, divisione di beni, o quello che le pare, ma se sono accusata di tradimento, allora non sono nemmeno un’imputata” dissi.
Lui mi guardò un attimo e sorrise. “Molto bene, signorina Miles. Mi fa piacere che l’abbia notato. Andiamo alla vera accusa, allora” e con un sorrisino terminò: “omicidio”.
Io roteai gli occhi. Bene, ero passata da traditrice ad assassina. Sospirai. L’unica cosa da fare era rassegnarmi.
 
Il finto processo non durò molto. E io me l’ero cavata abbastanza bene. A parte quelle volte in cui avevo tenuto testa al professore con qualche rispostaccia o gli interventi degli studenti. Nel primo caso comunque, il professore mi liquidava, dicendo che per la difesa doveva esserci un avvocato, che ovviamente non ero io, e che comunque quell'atteggiamento mi avrebbe solo portato alla condanna. Oppure semplicemente sorrideva divertito. Non capivo se fosse compiaciuto o infastidito o che altro, ma tutto quello mi stava facendo innervosire.
Alla fine comunque la giuria, ovvero gli studenti, prese la sua decisione e il giudice terminò con un “Assolta”.
E così la lezione era finita. “Buon weekend a tutti. Ci vediamo lunedì e spero che tutti quanti vi compriate un orologio” disse il professor Ant, mentre noi raccoglievamo la nostra roba. Grazie per la frecciatina, Ant, pensai ironicamente.
Zoe e Lucy mi raggiunsero, mentre andavamo verso l’uscita.
“Come fai a metterti sempre nei guai, Miles?” mi chiese Zoe scuotendo la testa.
“E’ una mia specialità, Mitchel. Se vuoi posso insegnartela. Ed evidentemente devo comprare un orologio” risposi, scrollando le spalle.
Loro scoppiarono a ridere e io mi unii a loro.
“Beh, almeno te la sei cavata bene da imputata” continuò Lucy, dopo esserci fermate poco lontano dall’aula.
“Sì, tutti i film che ho visto l’anno scorso sono stati utili. Anche Dave non ne poteva più di vedere tribunali, detective e C.S.I” dissi.
Loro ridacchiarono, poi si zittirono di botto, quando qualcuno passò dietro di me. “Signorine” disse, la voce del professor Ant, facendomi voltare verso di lui. Tutte gli augurammo una buona domenica e prima che proseguisse vidi perfettamente il sorriso che mi riservò e lo sguardo che mi lanciò.
“Secondo me hai fatto colpo” disse Lucy, una volta che si fu allontanato. Evidentemente non ero l’unica ad essermene accorta.
“Si è divertito a giocare al poliziotto e all’imputata più di quanto crediamo” continuò Zoe, facendo ridere la sua amica.
Io guardavo ancora il punto in cui si era diretto il professor Ant e ignorai il commento della bionda.
“O forse stava soltanto pensando ad un modo sadico e piacevole per lui di vendicarsi, dato che è già la seconda volta che arrivo tardi ad una sua lezione e che magari ha sentito il mio commento due secondi fa” dissi, invece, voltandomi di nuovo verso di loro.
Le due si scambiarono un’occhiata e poi scrollarono le spalle contemporaneamente. A volta mi facevano proprio paura. “Potrebbe essere, sì” concluse Lucy, facendomi scuotere la testa.
“Va bene. Adesso devo andare. Ho un ragazzo ancora nel letto che mi aspetta. Ci vediamo lunedì” dissi, guardando l’orario sul mio cellulare.
Loro annuirono e mi salutarono. 
“Beata lei” disse Zoe, con aria sognante, mentre io andavo via. “Io ho solo un vecchio cane bavoso” terminò.
“Meglio di niente” sentii dire a Lucy, prima che le due scoppiassero a ridere e io mi fossi allontanata abbastanza da non poterle più sentire.
 
Pov Chad
Il giorno dopo ero decisamente agitato. Dato che il campionato si stava avvicinando sempre di più, Joe mi aveva dato il sabato libero dal lavoro all’officina. E quindi avevo deciso di andare in palestra più presto del solito. Sapevo che Ryan non si sarebbe svegliato prima delle undici e in quel modo non lo avrei incrociato prima del nostro incontro pomeridiano. Avevamo deciso che gli avrei spiegato tutto a casa mia ed ero alquanto nervoso. Continuavo a pensare che non fosse una buona idea: Ryan avrebbe potuto reagire nel peggiore dei modi, ritenermi un bugiardo e mandarmi al diavolo, ma se i miei sospetti erano fondati e qualcosa non andava in tutta quella storia, il mio amico avrebbe sofferto anche di più.
In una situazione diversa, in cui avrei potuto di non litigare con il mio migliore amico il giorno prima di lanciargli addosso una notizia del genere, sarei stato leggermente più tranquillo. Ryan era sempre stato comprensivo nei miei confronti. Ma se quella volta non fosse andata così?
Sospirai, cercando di concentrarmi sul mio allenamento. Forse era meglio ripensare alla ramanzina che Carl mi aveva rifilato quando avevo messo piede in palestra e a come avevo dovuto scusarmi e assicurargli che non sarebbe riaccaduto niente del genere, piuttosto che pensare e formulare supposizioni sulle sorti del pomeriggio.
 
Quando suonarono alla porta, ero sul divano e stavo tenendo compagnia ad Evan che guardava i cartoni animati, mentre mia zia stava facendo il bucato.
“Tu resta qui, mentre parlo con Ryan. Intervenite soltanto se sentite rumori di lotta o se le urla dovessero diventare eccessive, capito?” dissi a mio fratello alzandomi da lì.
Evan annuì, ma chiese: “Perché Ryan è arrabbiato?”.
Io sollevai le spalle. “In teoria non lo è ancora. O almeno credo” dissi, senza rispondere realmente a mio fratello, che si accontentò comunque e tornò di nuovo a guardare i Fantagenitori.
Presi un respiro profondo e aprii la porta. “Ciao” dissi a Ryan, che stava davanti la porta con le mani dentro le tasche della giacca.
“Ehi” disse, mentre lo lasciavo entrare in casa.
“Tutto bene?” gli chiesi.
“Sì… per adesso” mi rispose. Io mi grattai la testa, sentendomi colpevole. “E tu?” mi chiese a sua volta.
Annuii. “Vieni, andiamo di sopra”.
Ryan annuì e mi seguì al piano di sopra. Entrammo in camera mia e chiusi la porta. “Siediti” dissi, indicando il mio letto.
Io rimasi in piedi al centro della stanza. Non sarei comunque riuscito a stare seduto.
“Prima che inizi a dirmi spiegazioni su tutte le tue coglionate dell’ultimo periodo, posso sentire quelle parole magiche che ieri mi avrai ripetuto un centinaio di volte?” iniziò lui, dopo essersi messo a sedere.
“Mi dispiace?” chiesi, pensando che fosse proprio uno stronzo. Ma avrei dovuto aspettarmelo.
Lui annuì con un mezzo sorriso. “Proprio quelle”.
Sospirai. “Ok. Mi dispiace per essermi comportato da idiota, Ryan” dissi sinceramente e lui annuì una seconda volta. “Cosa vuoi sapere?” gli chiesi, poi, non sapendo da dove cominciare.
“Chi diavolo è Sarah?”.
Ecco, adesso avevo un punto da cui iniziare. “Bene. D’accordo. Quando andavo al penultimo anno del liceo…” e così, camminando per la stanza e guardandolo di tanto in tanto mi ero ritrovato a raccontare la storia di quel periodo della mia vita: l’amicizia con Sarah e il tempo che passavamo insieme - nonostante nessuno dei due avesse mai saputo molto dell’altro dal punto di vista familiare –, l’intromissione di Cole (e a quel punto collegò subito che si trattasse del ragazzo che avevo picchiato nel video attraverso cui mi aveva conosciuto), il nostro primo e conseguente pestaggio e la fuga di Sarah senza alcuna spiegazione.
Ryan mi ascoltava interessato, ma quando arrivai alla fine, mi chiese: “Sì, ma cosa c’entra questa Sarah adesso?”.
Io sospirai e mi sedetti accanto a lui sul letto. “C’entra tutto. Con me e… con te” dissi e lui mi guardò ancora più confuso.
“Io non conosco questa Sarah. Cosa c’entro io?”.
Io sospirai e mi alzai di nuovo in piedi. “Come diavolo faccio a dirlo?” borbottai, passandomi una mano tra i capelli. “Sì, sì tu la conosci. Ry…” alzai lo sguardo, per incontrare i suoi occhi. “Sarah è… lei è tornata” o la va, o la spacca. “Sarah è Juliet”.
Vidi perfettamente la confusione sul suo viso che si trasformava in stupore, poi di nuovo in confusione e alla fine in divertimento nervoso. Tutto in pochi secondi.
“No. Non è possibile” disse ridendo istericamente e alzandosi in piedi. “Ti rendi conto di quello che stai dicendo, Chad? Come fa Juliet ad essere quella Sarah? Hanno nomi diversi, per l’amor di dio. E tu… tu starai sicuramente scambiando persona” disse, alzando la voce.
“Ryan, io non sto scambiando persona. Ho anche parlato con lei. Io… Cristo. Ry, Juliet è il suo secondo nome”.
Lui smise di ridere. “Tu stai dicendo solo cazzate. Quando avresti parlato con lei? E perché non mi ha detto niente? Cristo, Chad! Se ti conoscesse, allora perché mi ha chiesto di te?” protestò sempre con la voce decisamente più arrabbiata.
Sospirai. Stava reagendo proprio nel modo in cui temevo. “Io non lo so. È quello che volevo cercare di scoprire. Ma…” lui mi interruppe.
“E tu lo sapresti dalla sfilata? Ecco perché sei andato via senza darmi una cazzo di spiegazione! E se fosse, perché non me lo hai detto prima?” disse, adesso davvero infuriato. “No, è una cazzata” continuò, ridendo in modo ironico. “Tu stai scambiando persona, Chad” terminò, andando verso la porta.
Fortunatamente io ero più vicino alla porta e mi misi davanti per non farlo passare. Pensa, Chad. Pensa. Come potevo fargli capire che non stavo mentendo? Pensa.
E poi guardandomi intorno ebbi la risposta, mentre Ryan diceva: “Togliti di mezzo, O’Connor”.
Sentii il mio respiro che si bloccava e rabbrividii. Ryan non mi chiamava mai per cognome, a parte quando faceva lo stupido telecronista o quelle poche volte in cui lo usava per scherzare. Per il resto, mai.
“A-aspetta. Aspetta, maledizione!”. Mi ritrovai a balbettare dopo che avevo riportato lo sguardo pieno di panico su Ryan. Io, Chad, mi ritrovavo a balbettare dopo secoli.
Ryan si fermò un attimo.
“Non andare” sussurrai. “Posso provartelo”.
Lo vidi riflettere sulla questione, poi sospirò. “E come?”.
Mi staccai dalla porta e andai verso la mia libreria. Iniziai a cercare tra gli annuari scolastici, cercando l’anno giusto.
Finalmente lo trovai. Lo misi sulla scrivania e iniziai a sfogliare velocemente le pagine.
Non ci misi molto, diverse pagine dopo la mia. Sarah Juliet Wilkinson. La fissai per un attimo. Perché non avevo notato prima il secondo nome?
Ero rimasto immobile, a fissare la foto di una Sarah sorridente e leggermente più giovane, tanto che non mi accorsi di Ryan dietro me, che osservava da sopra la mia spalla, facilitato dalla nostra differenza d’altezza.
“Non è possibile” sussurrò, facendomi sobbalzare. Mi spostai automaticamente.
“E’ lei, Ry” dissi, mentre lui prendeva l’annuario tra le mani.
Poi lo lasciò cadere di nuovo sulla scrivania e mi guardò, facendomi indietreggiare. “Che cosa vuole?” mi chiese.
“Non lo so” risposi, scuotendo la testa. “Mi dispiace, Ry. Mi dispiace”.
Lui abbassò lo sguardo e si allontanò da me. Iniziò a camminare per la stanza e ad un certo punto rise amaramente. “Credevo davvero che lei fosse diversa. Volevo impegnarmi, davvero. Ma è solo… peggio delle altre”.
Io mi sedetti sul letto, incapace di guardarlo.
“Non so a che gioco stia giocando, ma non voglio realmente farne parte. Se le fosse interessato il nostro rapporto, mi avrebbe detto che ti conosceva già. Non mi avrebbe chiesto di te” terminò, sedendosi accanto a me. “Avresti dovuto dirmelo prima” continuò, rivolgendosi finalmente a me.
“Lo so. Mi dispiace” riuscii soltanto a dire, sollevando lo sguardo.
Lui fece un piccolo sorriso. “Sembri un disco rotto, amico”.
Io sospirai. “E’ la verità. Sapevo quanto ti piacesse”.
Lui scrollò le spalle. “Sai come la penso. Le donne vanno e vengono, furia. Non c’è mai da fidarsi. Riuscirò ad andare avanti” mi disse, ma nonostante tutto potevo vedere quanto gli facesse male. E il repentino cambio d'umore me lo stava confermando.
“Io sono qui, se vuoi” sussurrai, abbassando lo sguardo.
“Grazie, Chad”.
Io gemetti frustrato e mi gettai indietro sul letto. “E adesso che si fa?” chiesi, mettendomi le mani in faccia.
“Beh… scopriamo cosa vuole da noi e da te in particolare, no?” rispose, mettendomi una mano rassicurante sul ginocchio.
Io mi tolsi le mani dal viso. “Ti ho detto che la tua ragazza è una bugiarda, mi sono comportato di merda e tu vuoi ancora aiutarmi?”.
Lui scrollò il capo. “Primo: grazie tante per avermelo ricordato. Secondo: è sempre la stessa storia con te, amico. Sto iniziando a farci l’abitudine, sai? Quindi sì, ti aiuterò. E dato che non ho ancora intenzione di avvicinarmi ad un’altra ragazza, se ne avessimo bisogno, potrei anche continuare questa… cosa. ” mi rispose.
Io mi sollevai di colpo. “Dici sul serio? Lo faresti?” chiesi, con gli occhi spalancati. Nonostante avessi appena messo fine alla sua relazione seria e stesse male (potevo vederlo benissimo) era ancora pronto ad aiutarmi.
Lui annuì e sul mio viso nacque un sorriso. “Dio, Ryan. Ti voglio così bene” dissi, prima che riuscissi a fermarmi. Vidi i suoi occhi che si aprivano per lo stupore e il piccolo sorriso che aveva sulle labbra, prima di abbassare immediatamente lo sguardo e sentire il mio viso andare a fuoco.
Lo sentii ridere e poi dire: “Vieni qui, idiota”. E poi mi ritrovai stretto in un suo abbraccio.
Non potei fare a meno di ricambiarlo, ma riuscii a rovinare il nostro momento con la mia uscita: “Mi stai facendo diventare una checca” bofonchiai.
E la risata di Ryan riempì la stanza.
 
Pov Melanie
Sentivo l’ansia e l’agitazione percorrere il mio corpo e trasformarsi nel tremore alla gamba. Continuavo a muoverla su e giù in modo incontrollabile, mentre parlavo al telefono con Chad, che continuava a chiedermi del disegno.
Ed era l’unico che riusciva a farmi ridere e smettere di pensare per qualche attimo alla premiazione che sarebbe avvenuta di lì a un’ora. Il weekend era passato troppo velocemente. E pensavo che la mia piacevole uscita con Becka e Chris, che mi avevano mostrato alcune parti calienti – a detta del nostro amico – della città, avesse comportato l’accelerazione, sebbene immaginaria, del tempo. Probabilmente i professori che durante quel weekend avevano analizzato tutti i lavori del nostro progetto, non la pensavano come me. Loro saranno stati stremati. Peccato che a causa dell’ansia anche io mi sentissi nello stesso modo.
“Dai, dimmelo. Ti porto in quel ristorante che ami tanto, se me lo dici” stava cercando di convincermi, intanto, Chad al telefono.
“Cerchi di corrompermi, O’Connor?” lo derisi.
“Può darsi”.
Io ridacchiai. “Devi aspettare soltanto un paio d’ore e poi lo saprai anche tu. Sei un ragazzaccio impaziente” dissi in modo accattivante.
Lo sentii ghignare da dietro al telefono. “Sì, però ti piacciono tanto i ragazzacci, vero Carter?” mi stuzzicò.
“Oh, beh… in effetti sì. Come fai a sapere i miei gusti, O’Connor?” continuai a stare al gioco.
Lui ridacchiò. “Ho provato ad indovinare” mi rispose.
Io scossi la testa divertita. “Allora il fatto che stiamo insieme da quasi due anni non c’entra nulla?”.
“Direi di no”.
“Bene. Mi piacciono i ragazzi con l’intuito sviluppato”.
Lo sentii ridere. “Non so se il mio intuito sia sviluppato, amore. Ma sicuramente ho qualcos’altro di sviluppato”.
E a quel punto risi anche io. “Sei un maiale” gli dissi e lui ghignò di nuovo.
“Sono così solo perché mi manchi” continuò lui, facendomi sorridere istintivamente.
E ovviamente la mia specialità era quella di rovinare i momenti più belli. “No. Tu sei sempre così” lo derisi.
Lui sbuffò. “Grazie, piccola” e potevo immaginarlo mentre ruotava gli occhi.
Io ridacchiai. “Anche tu mi manchi, amore. Dobbiamo solo aspettare il giorno del Ringraziamento” cercai di rimediare.
Chad sospirò. “Sì, anche se non penso di farcela per un altro mese”.
“Non è nemmeno un mese, piccolo. E poi tra pochissimo inizierai con i combattimenti e potrai sfogarti in quel modo” dissi.
“Sì, ma è un tipo di sfogo diverso. E sai quanto mi mancheranno i tuoi modi per darmi la carica prima di essi?” chiese retoricamente.
Io roteai gli occhi. “Beh, diciamo che per ora il pacchetto completo è esaurito, amore. Cercherò di rifornirti presto” e mi sentivo quasi uno spacciatore, o peggio.
Chad rise. “Adesso ho capito perché mi sono innamorato di te. Il tuo modo di usare le parole è peggio del mio certe volte, lo sai?”.
“Ne sono consapevole” risposi, sorridendo divertita.
“Solo un indizio”. Chad aveva cambiato argomento improvvisamente, perché non capii di che stesse parlando.
“Eh?” chiesi confusa.
“Un indizio sul disegno. E poi sono sicuro che qualora non dovessi vincere, non me lo dirai più”.
“Per prima cosa: non è vero. Qualora non vincessi, il che non è difficile, il mio disegno mi verrebbe restituito e ti manderei una foto. Secondo: e va bene. Solo uno: c’è del sangue” dissi.
Lui rimase un attimo in silenzio e io mi chiesi se fosse ancora lì. “Sei proprio macabra. E scommetto che è anche notte” disse, poi.
Io alzai gli occhi al cielo, anche se lui non poteva vedermi. “Sì. Ma solo perché i colori erano il blu e il rosso. Per cui…” spiegai.
“Va bene. Ho capito” affermò.
Poi guardai l’orologio e quasi saltai. “Chad, devo andare” iniziai. “Fammi gli auguri”.
“Buona fortuna, amore” mi disse.
“Grazie. Ti amo” risposi.
“Anche io” lo sentii dire, prima di riattaccare.
Era ora di andare.
 
Mentre camminavo tra i viali, mi dovetti fermare di colpo, quando qualcuno mi chiamò.
Vidi Adrian che mi veniva incontro. Aveva i capelli che andavano in tutte le direzioni e un sorriso sulle labbra.
“Fretta?” mi chiese una volta che mi raggiunse.
“Sì” dissi, accennando un mezzo sorriso.
Lui tirò fuori dal pantalone un orologio da taschino, con uno strano stemma sul davanti, che non riuscii a comprendere né a mettere a fuoco e pensai che fosse davvero strano. Insomma, sembrava appena uscito dall’Ottocento. Magari c’era un portale magico temporale nelle vicinanze.
“In effetti se non ci affrettiamo, saremo in ritardo” disse, tirandomi fuori dai pensieri.
“Saremo?” chiesi, confusa.
Lui annuì e mi incitò a camminare, toccandomi il braccio.
“Sai, anche io faccio parte di questa competizione. Sono del corso successivo al tuo. Quindi sì, saremo. E a proposito, buona fortuna” disse, guardandomi e facendo un sorrisino.
“Grazie. Anche a te” risposi, mentre iniziavo ad intravedere la sala che avrebbe ospitato la premiazione.
L’aula magna, per la precisione. Era una della sale più grandi dato che, come mi avevano detto, per quelle occasioni parecchia gente, probabilmente per curiosità (sia dei quadri che dei vincitori), andava a dare un’occhiata.
“Vieni. Mettiamoci più avanti” mi propose Adrian, una volta entrati nella sala, già colma di gente.
Arrivammo nel punto che mi aveva indicato e mi resi conto che erano tutti ragazzi e ragazze del secondo anno o più. Per giunta, così come loro, dovevamo stare in piedi, dato che i posti a sedere erano tutti occupati.
“Chi ti porti dietro, Castle? La tua nuova ragazza?” chiese uno studente moro ad Adrian, ridendo.
“E’ un’amica, Martin” rispose Adrian con tutta la calma possibile. Nonostante lo stessero prendendo in giro, lui sembrava non essere scalfito minimamente.
“Paparino non vuole? Pensa che sia troppo poco… aristocratica, per te?” continuò un altro ragazzo, accanto al primo.
Dopo quel commento, pensai subito che la famiglia di Adrian fosse ricca, ma non feci in tempo a riflettere che Adrian rispose: “Posso scegliere la ragazza che voglio, Glenn. Proprio come te. Solo che io ho più gusto di te e non mi porto a letto la prima ragazza che passa e la tratto come una bambola” terminò con un sorriso glaciale.
“Oh. Ha imparato bene le buone maniere” continuò Glenn, ma una ragazza intervenne, dandogli un colpo sul petto.
“Piantala, Glenn” intimò per poi guardare Adrian con uno sguardo dispiaciuto.
“O forse no, dato che non ce la presenta nemmeno” continuò imperterrito Glenn, ignorando la ragazza.
“Non presento ad una ragazza uno come te, Glenn” disse Adrian, voltandosi verso di me e dando così le spalle a quel Glenn.
“Che vuoi dire?” disse quest’ultimo, arrabbiato.
E poi il primo ragazzo che aveva parlato, Martin mi sembra, intervenne: “Lascia perdere, Glenn. Non ti conviene, lo sai”.
Glenn sbuffò e poi sia allontanò senza aggiungere altro.
“Scusa. Sono solo alcuni idioti del mio corso. Non sono tutti così” mi spiegò Adrian, ma prima che potessi rispondere qualcuno si aggrappò praticamente al mio collo.
“Eccoti, finalmente” sentii la voce di Becka, seguita da Chris: “Scusala, Melanie. Non riesco mai a fermarla”.
Io mi voltai verso i due ragazzi, dopo che Becka si staccò da me. “Ehi, ragazzi” li salutai, sorridendo.
“Adesso capisco perché non tingi i tuoi capelli di un altro colore. Il tuo rosso è meglio di un lampione, in quanto a visibilità” disse Becka, eccitata.
Io sollevai gli occhi al cielo, poi improvvisamente, guardando Chris concentrato su qualcos’altro – qualcuno per l’esattezza – mi ricordai di Adrian.
Mi voltai di nuovo, facendo in modo che non dessi le spalle né al ragazzo, né ai miei amici.
“Scusa, Adrian. Loro sono…” iniziai, ma lui mi interruppe.
“Becka Talbot e Chris Lunt” finì, con un sorriso sulle labbra.
Io annuii, chiedendomi come facesse a saperlo.
“Castle” salutò Becka, mentre Chris faceva un cenno con il capo, con un sorriso accattivante.
“Scusate, ragazzi. Il dovere mi chiama” disse poi Adrian, guardando oltre la mia spalla.
Mi voltai verso quella direzione e vidi la nostra professoressa che gli faceva cenno di raggiungerlo.
E poi prima di andarsene, si abbassò verso di me. “Penso proprio che ci vedremo sul palco” mi sussurrò, per poi rimettersi dritto e sistemarmi una ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio, con un sorriso sul viso.
Io ero raggelata. Mi superò e andò via, lasciandomi lì a riflettere su cosa volesse dire pochi secondi prima.
“Cosa ti ha detto?” mi chiese Becka, mentre sentivo Chris dire: “Oh mio dio. Da quando sa il mio nome?”.
Becka roteò gli occhi e si voltò per un attimo. “Chris, quel ragazzo sa qualsiasi cosa all’interno del campus. È peggio di A di Pretty Little Liars. Anche se non so ancora se possegga l’aspetto sadico e macabro” rispose.
“Penso di sì” borbottai e Becka tornò a prestarmi attenzione.
“Cosa ti ha detto?” mi chiese.
“Mi ha fatto gli auguri”. Io non volevo dire una cazzata, davvero, ma era uscita dalla mia bocca prima che potessi fermarla.
Lei annuì, mentre Chris mi scrutava. “Ti ha toccato i capelli?” mi chiese.
Becka lo fulminò con lo sguardo, ma prima che potessi rispondere, la professoressa che aveva organizzato il progetto era salita sul palco, attirando l’attenzione dei presenti.
“Buonasera a tutti. Grazie per essere qui” e dopo i convenevoli, presentò il premio: i quattro giorni a New York.
“Ebbene, prima di tutto vorremmo mostrare alcuni dei lavori che hanno colpito molto, ma che sfortunatamente non sono riusciti ad arrivare sul podio.
E mentre passavano i quadri, sentivo il mio respiro che accelerava a causa dell’ansia. Temevo di vedere il mio tra quelli, ma continuavano a scorrermi davanti agli occhi e nessuno era lontanamente simile al mio.
Pensai alle parole di Adrian e continuavo a ripetermi che non era possibile. E se anche fosse, come faceva lui a saperlo?
Le parole di Becka mi risuonarono nella testa: lui sa tutto del campus. Ma non poteva essere.
Sentii la mano di Becka che si stringeva a quella mia e mi voltai a guardarla per un attimo, il tempo giusto per vederla fare un sorriso rassicurante, che non riuscii proprio a ricambiare. Ma le fui comunque grata di quel gesto.
“E adesso partiamo dal terzo anno, del quale otterrà il premio soltanto uno studente. Ogni tema è diverso per ogni anno. E proprio per i ragazzi dell’ultimo era: la distruzione”.
E poi un quadro coperto da una tela venne portato sul palco da due ragazzi. Venne poggiato su un cavalletto e poi l’istruttrice aprì una busta. “Il vincitore è: Paul Munich!” affermò con un sorriso radioso.
Subito gli applausi si levarono nella sala, prima ancora che il telo venisse tolto. E poi il quadro venne scoperto e gli applausi divennero ancora più forti. Era un dipinto ad olio ed era la riproduzione perfetta delle torri gemelle, nel pieno dell’attacco.
Era fantastico e poteva essere scambiato per una fotografia se alla base del dipinto, ai piedi delle torri, non ci fossero stati dei cartelli con delle scritte. A destra scritte di odio, a sinistra quelle di pace.
Lasciava proprio senza parole. E così, Paul Munich, un ragazzo con riccioli neri come la pece e occhi blu, salì sul palco, sorrise e strinse la mano della professoressa che si congratulava con lui. Rimase lì, ad un angolo del palco, aspettando che i suoi compagni fortunati lo raggiungessero.
“Per il secondo anno, il tema era << il giallo e il verde >>”. Due colori, proprio come noi. E poi un altro quadro coperto e un’altra busta.
“Il vincitore è: Adrian Castle!” e ancora applausi. Questa volta però sentii anche dei fischi in mezzo a tutto quel delirio.
“Ancora una volta” sentii dire a Becka, che teneva ancora la mia mano.
“Cosa?” le chiesi, senza staccare gli occhi dal palco.
“In due anni ha vinto un sacco di concorsi di questo tipo. Molti dicono che sia solo per la sua fama, altri pensano che lo meriti per la sua bravura” mi spiegò.
“E tu?”.
“Sinceramente? Non lo so. È molto bravo, ma potrebbe contare anche la sua fama” mi rispose.
E poi potemmo ammirare il suo lavoro: era un leone con la criniera selvaggia e le fauci aperte in un ruggito.
C’erano tantissime sfumature di giallo e il disegno, fatto con gli acquarelli, non aveva alcuna imperfezione.
Ne rimasi subito ammirata. Quel quadro lasciava il fiato. E la cosa che riusciva a farti incantare e a mantenere lo sguardo su di esso, secondo me, era l’unica traccia di verde in tutto il dipinto: gli occhi del leone.
Erano di un verde così luminoso da mettere i brividi.
Personalmente, pensai che Adrian fosse veramente un artista incredibile.
Lo osservai mentre saliva sul palco e ripercorreva le azioni di Munich.
E nel momento in cui si sistemò accanto al ragazzo più grande, il nostro sguardo si incrociò. Adrian mi sorrise e mi fece l’occhiolino, prima di tornare alla donna che parlava sul palco. E io rabbrividii.
Per Adrian? Forse, ma in quel momento ne dubitavo parecchio. Adesso toccava a noi. Era il turno del nostro anno e soltanto due di noi sarebbero potuti andare a New York.
Sentii l’ansia che rimbalzava da una parte all’altra del mio corpo, mentre la professoressa apriva la busta, dopo aver annunciato il nostro tema. Istintivamente strinsi più forte la mano di Becka, ma fortunatamente lei non protestò.
“Uno dei due vincitori è:…” quella piccola pausa, che prima avevo notato a malapena, adesso mi stava uccidendo.
<< Ci vediamo sul palco >>.
“Melanie Carter”.
Gli applausi. Il rumore degli applausi non mi era mai sembrato così piacevole. Io che avevo sempre odiato gli applausi.
Sentii Becka che mi abbracciava, sciogliendomi dal torpore e complimentandosi, mentre il velo cadeva per terra e il mio disegno veniva mostrato a tutti, esattamente come lo ricordavo.
Mi persi un attimo ad osservarlo. E mi venne in mente il momento esatto in cui avevo disegnato ogni minimo particolare.
Il mio disegno rappresentava un ambiente notturno e proprio per quel motivo tutto aveva un colore scuro e bluastro. Il paesaggio era un lago in mezzo alla natura.
In primo piano, invece, la figura portante di tutto il disegno: una donna. Anzi, una ninfa precisamente, dalla pelle diafana e celeste, che si trovava a riva, dando le spalle allo spettatore, quasi come se stesse per entrare nel lago. A coprirla solo un drappo intorno alla vita, mentre la parte superiore del corpo era scoperta.
E poi il rosso. I capelli della ninfa erano di quel colore e decisamente lunghi, erano adagiati lateralmente e in avanti, sulla sua spalla, in modo da mostrare il punto cruciale del disegno: la sua schiena.
Al centro di essa, infatti, c’era una ferita aperta. Lunga e stretta, come quella creata da un coltello. Da essa il sangue usciva e scorreva fino alla sua vita, sporcando anche il drappo che la copriva.
Per finire a richiamare la sua ferita, la luna rossa che brillava in cielo. Quel particolare dava al disegno un senso di irrealtà e tingeva di quella sfumatura l’ambiente cupo e buio della notte.
E poi senza che me ne accorgessi mi ritrovai anche io sul palco, a stringere la mano alla mia professoressa. “Congratulazioni, signorina Carter”. Era tutto così irreale, che non ero ancora riuscita a metabolizzare tutto quello che stava avvenendo. Sentivo solo lo schiocco degli applausi che riempivano la sala, mentre camminavo verso Adrian.
<< Ci vediamo sul palco >>. << Sa tutto del campus >>. Ok, adesso la curiosità si era insinuata dentro di me. Volevo capire assolutamente come avesse fatto a sapere chi erano i vincitori in anticipo.
Era la sua fama, come aveva detto Becka o aveva fatto qualcosa di illecito?
Lo stavo anche guardando, senza che potessi farne a meno, dopo essermi fermata accanto a lui.
Adrian si voltò e ricambiò il mio sguardo. E sfoggiò uno dei suoi sorrisi più belli, prima di voltarsi di nuovo verso il pubblico.
“Sarà un’esperienza interessante quella di New York” lo sentii dire.
Ma io non riuscii a rispondere in alcun modo.



Angolo dell'autrice: Salve!! Sono tornata con il nuovo capitolo. Diciamo che sono estenuata dalla revisione che gli ho appena fatto. Quindi mi perdonate se non faccio alcun commento? Li lascio fare a voi ;) Io non ne ho la forza x)
A presto! xx
-Manu

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Capitolo 9
*** Al completo ***


Pov Chad

“Portami con te”.
“No”.
“Ma perché no?” mi chiese Evan per l’ennesima volta. Era disteso sul mio letto, mentre io ficcavo tutta la roba nel borsone.
“Sei scemo, per caso? Devo ripetertelo di nuovo?” sbuffai, mentre cercavo i soliti pantaloncini d’inizio campionato. Non erano al loro posto nel loro cassetto ed Evan mi stava soltanto facendo innervosire di più.
“No, ma tu potresti convincerla” si lamentò lui.
Io non risposi e lui mi lanciò un cuscino addosso, che ignorai palesemente. “Chad!”.
Aprii l’armadio e ci infilai la testa dentro. Mi tirò un altro cuscino e iniziai a chiedermi da dove saltassero fuori. Non ricordavo di averne tanti in camera mia. La vecchiaia stava facendo la sua comparsa in me.
Eccoli. Chi diavolo li aveva messi lì? In mezzo ai jeans ci stavano i miei adorati pantaloncini, ma quello non era il loro posto abituale.
“Li hai trovati?” mi chiese mio fratello.
“Sì” risposi, mentre li riponevo nella sacca.
“La convinci?”.
Io roteai gli occhi e mi voltai. Evan era disteso a pancia in su, con la testa gettata indietro fuori dal letto, in modo da vedere tutto sottosopra.
“Evan, è impossibile convincerla. Se glielo chiedo la zia mi uccide una volta per tutte” risposi esasperato.
“Ma come fai a saperlo se non glielo chiedi?”.
“Lo so e basta. Tu non devi seguire il mio esempio” dissi, citando mia zia.
Evan sollevò la testa e sorrise in modo astuto. “Ah, no?” mi chiese con voce impertinente. Da quando gli erano apparse quelle caratteristiche?
“Evan O’Connor. Non fare niente di stupido in mia presenza e a maggior ragione in mia assenza” e gli puntai il dito contro.
Lui sbuffò e si alzò dal mio letto, andando verso la porta. “Almeno lo puoi registrare?”.
Mmh, cose illecite. Non sarebbe venuto, ma avrebbe visto ugualmente  e mia zia non si sarebbe lamentata, dato che non lo avrebbe saputo.
Il mio sopracciglio sinistro si sollevò e guardai Evan sulla soglia della mia camera. “Vedrò cosa posso fare”.
“E cerca di vincere. Vorrei guardare roba buona” e con questo uscì dalla stanza.
Io spalancai la bocca, stupito. Che diavolo avevano fatto a mio fratello? Quale alieno lo aveva rapito e sostituito?
Ripensai a ciò che mi aveva appena detto e non potei fare a meno di scoppiare a ridere.
 
Pov Ryan

Entrare in palestra era un azione abituale, troppo abituale. Ma quella volta appena messo piede dentro quell’ambiente così familiare, l’adrenalina iniziò a scorrermi nelle vene e i muscoli a fremere, vogliosi di combattere.
Chad, accanto a me, stava provando le stesse emozioni. Era palpabile e poi, continuava a chiudere le mani a pugno e a riaprirle, come se non potesse più aspettare.
Dentro la palestra quasi tutti i pugili avevano un sorriso sulle labbra, proprio come noi. A parte qualche ragazzetto ancora inesperto cui il nervosismo non permetteva di farlo ed erano tesi come dei bastoni.
C’era un via vai continuo e io diedi un colpo sulla spalla a Chad. “Andiamo, non vorrei fare tardi. Sai, poi Carl diventa irascibile e…”
“Sì, sì, lo so” mi rispose Chad, mentre ci dirigevamo nell’ufficio del nostro allenatore.
“Oh, siete qui. Guardate cosa abbiamo per voi” disse Carl raggiante, dopo essersi accorto di noi. Sulla sua scrivania ci stavano degli scatoloni.
“La merce nuova? Oh mio dio” dissi eccitato, avvicinandomi a quei cartoni ripieni.
“Stai indietro, Rage. Non ti avvicinare. Non infilare le mani da nessuna parte!” mi ammonì Carl, mentre io lo ignoravo e andavo a guardare cosa ci fosse dentro.
Sentii Chad ridere, mentre Carl sbuffava. Per lo meno non stavo toccando niente.
“Va bene, Ryan. Mi occuperò prima di te, dato che sei così impaziente” disse, avvicinandosi allo scatolone con la scritta Pesi Massimi.
Tirò fuori dei pantaloncini neri e rossi, una felpa rossa con il cappuccio con il mio cognome sulle spalle e il nome della nostra società sul davanti, un berretto nero e dei guantoni.
“Perché si ostinano a darci dei guantoni nuovi ogni volta? Tanto useremo sempre gli stessi” disse Chad, mentre io ero troppo esaltato ad afferrare e ammirare la mia roba.
“Perché almeno, quando quelli che usate saranno da gettare nella spazzatura ne avrete un paio di ricambio” spiegò Carl, mentre io mi ficcavo in testa il berretto e mi voltavo a guardare Chad.
Lui, che era seduto su uno dei tavoli sgomberi, mi guardò con le sopracciglia aggrottate, come se non capisse che diavolo stessi facendo.
Poi feci il segno della vittoria e una smorfia e Ryan scoppiò a ridere, alzando gli occhi al cielo.
Carl, che ci dava le spalle, si voltò verso di noi e ci guardò. Mi tolsi di colpo il berretto e mi grattai la testa.
“Siete due idioti. E io spreco soltanto il fiato a parlare con voi. Mi state ascoltando?” ci chiese.
“Emmh. Certo!” dissi, mentendo spudoratamente con un sorriso sulla faccia.
Chad stava in silenzio cercando di non ridere.
Carl sospirò esasperato e si voltò di nuovo verso gli scatoloni. “Per fortuna che sanno stare sul ring” borbottò.
“E anche egregiamente direi” aggiunsi, mentre mi appoggiavo alla parete.
Carl mi ignorò e poi infilò le mani nello scatolone con scritto: Pesi Massimi Leggeri.
Accumulò sul tavolo la stessa roba che aveva dato a me, eccetto per i colori diversi: giallo e viola.
“Oh merda. Ma che diavolo è quella roba?” chiese Chad, indignato, saltando giù dal tavolo e avvicinandosi ai vestiti.
Io scoppiai a ridere. “Eh, mia cara furia, questi sono gli svantaggi dei Pesi Massimi Leggeri” dissi.
“Sta zitto, idiota” mi disse Chad, mentre sollevava il berretto giallo e faceva una smorfia di disgusto.
“E’ carino” disse Carl, poco convinto anche lui.
“Non metteresti questo coso in testa neanche tu. Ma è fosforescente?” ribatté Chad e il nostro allenatore scrollò le spalle.
Chad lo lasciò cadere sopra il resto della roba e tornò a guardarmi. “Guarda che anche se non possiamo batterci sul ring, sta certo che potrei metterti al tappeto quando voglio. Quindi non fare lo sbruffone, Ry” mi ammonì, cercando di incutermi paura, ma io scoppiai soltanto a ridere.
“Ne dubito. E se non possiamo batterci, la colpa è solo tua. Sei troppo… leggero” lo stuzzicai. In un caso diverso sapevo perfettamente che Chad avrebbe dato la colpa a me, ma in quel momento l’orgoglio non gli avrebbe permesso di farlo, dato che quello che stava nella categoria inferiore era proprio lui. Adoravo farlo indispettire in quel modo.
“Guarda che io sono perfettamente equilibrato per la mia età e altezza. Non sono mica sottopeso”.
“Ma rimani ugualmente troppo leggero”.
Lui sbuffò. “Sarai tu ad essere grasso. Con quella tua altezza e…” lo interruppi.
“Altezza? Come se fossi due metri” ribattei.
“Quasi”.
“Sciocchezze. Non saranno neanche dieci centimetri di differenza da te. Questi, mio caro Chad, sono tutti muscoli che tu non hai” dissi, sorridendo beffardo. A Chad bruciava da morire non arrivare ai 90 kili di peso necessari per i Pesi Massimi e non poteva vincere questa battaglia con me in nessun modo.
Chad roteò gli occhi e dopo aver afferrato la roba, uscì dalla stanza. Lo raggiunsi e lo affiancai. “Ti ricordo che prima di venire qui combattevo e vincevo contro gente più grossa di te” mi disse, guardando dritto davanti a sé.
A quel punto Carl che era uscito dal suo ufficio subito dopo noi, ci sorpassò dando uno schiaffetto sulla testa di Chad.
“Ehi!” protestò lui, massaggiandosi il punto colpito.
“Hai detto bene, Chad. Prima. Adesso fai parte della mia squadra e ti atterrai alle regole, cercando di vincere nella tua categoria. A partire da stasera” disse, prima di uscire dal corridoio e sparire dalla nostra vista.
Chad gemette. “Pensi che posso almeno tingere questa roba di un altro colore?” mi chiese.
Io scoppiai a ridere. “Penso proprio di no, amico”.
 
Pov Dave

Il fatto di arrivare in palestra il primo di tutti, non comportava quello di uscire per primo da essa. Anzi, era proprio il contrario. Dopo quelle due ore di fatica, adoravo rilassarmi sotto la doccia e spesso finivo di vestirmi con le cuffie alle orecchie. Risultato: tutti i ragazzi andavano via, salutandomi amichevolmente mentre lo spogliatoio si svuotava.
Anche quella volta era andata nello stesso modo e pensai che era la volta buona che Rachel mi avrebbe ucciso. Mi aveva detto di essere a casa per un orario stabilito, dato che aveva in programma qualcosa da fare che avevo fatto fatica a comprendere, dato che quando me lo aveva detto io stavo pensando alla partita dell’NBA della sera prima. Ops. Mi avrebbe ucciso. In più stavo già per sforare l’orario che mi aveva dato. O forse no. In realtà non avevo capito bene neanche quello. Al diavolo, da quando mi capitavano cose come quelle con la mia ragazza? Iniziai a pensare che fosse dovuto alla convivenza, che non era mai facile. Insomma, ci eravamo dovuti abituare alle consuetudini dell’uno e dell’altra, come quella dell’orario in cui ci svegliavamo: completamente opposto. Ovviamente non mi stavo lamentando. Amavo vivere con lei, ma se qualche volta mi perdevo nella mia testa, data anche la sua spiccata loquacità, beh non era poi così… indegno, giusto?
Uscii dalla palestra e raggiunsi il mio appartamento, cercando di fare il più in fretta possibile.
Quando aprii la porta di casa, subito Rachel mi chiamò. “Dave! Vieni qui”.
Seguii la voce e raggiunsi la nostra camera dopo essermi tolto la giacca e le scarpe e aver lasciato tutto, compreso il borsone, all’ingresso.
Rachel era distesa sul letto a pancia sotto, con il computer poggiato davanti a sé. “Sei in ritardo” mi disse, ma non sembrava arrabbiata.
“Di 35 minuti” e poi roteò gli occhi, sorridendo verso lo schermo, anche se io non riuscivo a vedere cosa stesse facendo.
“Oh. Mi dispiace” dissi, ridacchiando. E poi sobbalzai.
“E invece non ti dispiace affatto” era la voce di Melanie, che proveniva del computer.
“Mel!” esclamai, gettandomi sul letto accanto a Rachel, in modo da riuscire a vedere lo schermo del portatile.
In esso, mia sorella mi stava sorridendo e salutando con la mano da dietro la webcam.
“Sei un disgraziato, Dave. Ti avevo detto di chiamarmi ogni giorno e invece non lo hai fatto” mi accusò, fingendosi offesa.
“Da quando in qua sei diventata la mamma?” dissi, roteando gli occhi.
Lei sbuffò. “Beh, certo. La mamma la chiami sempre, mentre di me, la tua gemella, la persona con cui hai condiviso lo spazio per nove mesi, ti sei dimenticato” disse in modo teatrale.
“Melanie. Abbiamo parlato per messaggi ieri sera”.
Lei ridacchiò prima di cambiare argomento, mentre Rachel si alzava per andare chissà dove.
Melanie mi descrisse per filo e per segno la sua vittoria e di quanto ne fosse felice, prima di dirmi: “Dave, devo andare. È tardissimo e se non chiamo Chad, quello mi uccide” mi disse, facendomi sorridere divertito.
“Meglio di no. O poi chi lo sente, se dovesse perdere il primo incontro dell’anno?”. Avevo sentito Chad proprio qualche ora prima, per fargli gli auguri per l’inizio della stagione, proprio come lui aveva fatto con me qualche settimana prima.
Melanie rise. “Già!” disse, scuotendo la testa.
Poi mi voltai verso la porta. “Rach! Melanie sta chiudendo” urlai, per poi tornare a guardare lo schermo.
Poco dopo sentii i passi frettolosi della mia ragazza che rientrava nella stanza. E poi si gettò sulla mia schiena, facendomi lamentare di dolore. Lei rise e mettendo la testa a fianco della mia, salutò mia sorella con calore.
“Ciao, Mel” dissi anche io.
“Fate i bravi voi due. Vi voglio bene” fu l’ultima dichiarazione di Melanie, prima di sparire dallo schermo.
Sospirai e con una leggera spinta feci cadere Rachel accanto a me, che mi sorrise accarezzandomi i capelli.
“Non ci siamo nemmeno salutati” disse, mettendo un piccolo broncio.
Mi abbassai per baciarglielo e potei sentire il suo broncio allargarsi in un sorriso, sotto il mio contatto.
“Mmh, però ho parlato troppo poco con Melanie” dissi, una volta che ci allontanammo.
Rachel alzò un sopracciglio. “Abbiamo parlato su Skype per mezz’ora prima che arrivassi. Dovresti ascoltarmi di più quando parlo. O almeno cogliere le cose importanti. Eri in ritardo, nonostante ti avessi dato l’orario”.
“Tu non hai nominato Melanie” ribattei, mettendole un braccio sullo stomaco.
“Ah no? Allora la parola sorella a cosa corrisponde per te?”. Sbuffò, dandomi uno schiaffetto sul braccio.
“Va bene, va bene” ridacchiai, lasciando perdere, dato che probabilmente aveva ragione lei.
“Allora” dissi poi “come faccio a capire quali sono le cose importanti che dici e quali no?”.
Vidi l'indignazione sul suo viso. “Sei un idiota!” disse, togliendo via il mio braccio e facendo per alzarsi.
Io scoppiai a ridere. “Stavo scherzando! Vieni qui” dissi, mentre la seguivo.
Lei scosse la testa. “No. Questa me la paghi, imbecille”.
Non riuscivo a smettere di ridere. Amavo stuzzicarla in quel modo e nonostante spesso mi minacciasse di togliermi i “benefici” della convivenza, sapevo che non l’avrebbe fatto. Anzi era il nostro modo migliore per terminare quei piccoli litigi stupidi o le finte arrabbiature. Quindi perché non approfittarne?
 
Pov Chad

Il palazzetto era esteticamente più bello della nostra palestra, con le tribune intorno al ring immenso, da quelle più vicine in basso, a quelle più lontane in alto. Mi era sempre piaciuto e lì dentro si respirava aria di combattimenti, agonismo e voglia di vincere. E quella sera, dato che si trattava dei primi combattimenti della stagione, era davvero incredibile: quando io e Ryan eravamo entrati ci eravamo accorti subito delle tribune già piene per metà, nonostante prima dell’inizio mancasse ancora un’ora o più.
Andammo subito negli spogliatoi, ma prima che iniziassi a cambiarmi il mio telefono squillò.
Era Melanie. Tirai un sospiro di sollievo. Avevo temuto che non mi chiamasse più.
“Ry, torno subito” dissi prima di uscire dalla stanza e lui annuì.
“Ehi” risposi, interrompendo la mia suoneria dei Kansas: Carry On My Wayward Son.
“Amore, pugile sexy preferito, mio, mio e solo mio, come stai? Sei carico?” disse Melanie velocemente senza neanche salutarmi.
Io risi. “Sto bene. E sì, sono carico abbastanza. E per la cronaca, dato che non sei qui ho dovuto utilizzare altri metodi per riuscirci”.
Fece un verso disgustato. “Hai fatto da te?” mi chiese.
“Cosa?” io risi. Perché pensava sempre male?
“No, scema. Mi manchi sì, ma non sono così disperato ancora” dissi roteando gli occhi.
Lei ridacchiò. “Oh. Beh, sai. Ci sono ragazzi che lo fanno normalmente e regolarmente. Non sapevo che la pensassi così”.
Io sollevai un sopracciglio. “E tu come fai a saperlo?” chiesi, davvero curioso di sentire la risposta.
“Dai, Chad. Era per dire”.
“Lo spero” borbottai.
“E in questo modo non ti sto caricando. Anzi, è peggio. Quindi…” continuò lei, mentre io camminavo per il corridoio silenzioso. “Come ti sei caricato, amore?”.
“Sicuramente i metodi di tuo fratello non hanno funzionato” dissi con un sorriso divertito.
“Perché la tua musica è caos. È normale che non carichi”.
“Primo: non è affatto vero e sono solo io il problema, non la mia musica. Secondo: anche quella di tuo fratello è caos” ribattei.
“Meno della tua. Allora che metodo hai usato?” mi chiese ancora.
“Nessuno. Ho semplicemente dormito”.
“Dormito? E adesso non sei scarico, piuttosto?”.
Io ridacchiai. “No. Mi sento rilassato. Non proprio appagato come lo ero qualche mese fa prima delle competizioni” allusi al suo metodo “ma sono rilassato e concentrato nello stesso modo”.
“Allora potrebbe funzionare. Anche senza di me”.
“Potrebbe” concordai. “E se non dovesse, potremmo sempre optare per il sexting”. Proprio in quel momento un ragazzo con il borsone di una società pugilistica diversa dalla mia, sbucò da dietro l’angolo. Anche se non lo conoscevo gli feci un cenno col capo, sperando che non avesse sentito cosa avessi detto. Ma ne dubitavo, dato il sorrisino che mi lanciò.
“Allora spera che funzioni, perché non lo faccio con te per messaggi. È… strano” disse Melanie.
Io risi, mentre il ragazzo si allontanava. “Va bene, va bene” sbuffai.
Ryan a quel punto uscì dalla porta del nostro spogliatoio e mi guardò appoggiandosi allo stipite. Tamburellò l’indice sul suo polso e nonostante non avesse l’orologio, l’intento era piuttosto chiaro. Aveva un “Muoviti” scritto in faccia.
“Mel, devo andare. Fammi gli auguri” dissi, dando le spalle a Ryan.
“Oh, d’accordo. Buona fortuna, tesoro. Va sul ring e vinci. Spacca tutto e fai come se fossi lì. Sei la mia tigre preferita” disse ad una velocità inaudita.
Io risi, mentre lei diceva: “Ah, e ti amo”.
“Ti amo anch’io” dissi, prima di riattaccare.
“Hai finito di fare lo smielato? Ti vuoi muovere?” mi chiese subito Ryan.
Io mi voltai a guardarlo e sollevai gli occhi al cielo. “Sì, mamma” dissi sorpassandolo e decidendomi finalmente a tornare dentro, mentre lui mi dava uno schiaffetto dietro la nuca, facendomi ridere.
In effetti, il momento di andare sul ring stava diventando sempre più vicino.
 
 
Ero davvero scocciato. Chiunque mi si avvicinasse, mi faceva i complimenti per la grande vittoria e l’unica cosa che potevo fare era quella di sorridere e ringraziare, per mettere in mostra il grande e perfetto campione con cui la mia società mi aveva presentato al mondo.
Non appena la gente smise di rivolgersi a me, scappai via, alla ricerca di Ryan.
Mi guardavo intorno, ma non riuscivo a trovarlo da nessuna parte.
E poi qualcuno mi tastò il sedere e io mi voltai di scatto, solo per ritrovarmi faccia a faccia con quell’imbecille. “Cercavi me?” mi chiese Ryan, mentre rideva a crepapelle per la mia faccia.
“Ma quanto sei idiota?” gli dissi, scuotendo la testa.
“Se non lo avessi fatto, non avresti avuto quella reazione. E che divertimento ci sarebbe stato?” disse, mentre cercava di smettere di ridere.
“Comincio a pensare che tu sia realmente gay” dissi con un sorrisino sulle labbra.
Lui sollevò gli occhi al cielo. “Potrei darti un paio di nomi che ti confermerebbero il contrario” affermò, serio.
“E come faccio ad avere la certezza che tu non le abbia pagate?” continuai beffardo.
Vidi lo stesso sorrisino spuntare sul suo viso. “Non puoi”.
Io risi. “Comunque, dove ti eri cacciato? Non ti vedevo da nessuna parte” chiesi cambiando argomento, mentre continuavamo a stare in quel corridoio che avevo imboccato, mentre diversi uomini ci passavano accanto.
Lui scrollò le spalle. “In giro. E non si può dire lo stesso di te. La tua felpa si nota da chilometri”.
“Già. Penso che tu abbia ragione, data la quantità di persone che mi ha notato una volta uscito dagli spogliatoi”.
“Beh, quello è merito della tua vittoria, più che della felpa. A proposito, qual è stato il punteggio finale del tuo combattimento?” mi chiese divertito.
“Non farmelo dire ad alta voce, grazie. Quello lì non sapeva proprio stare sul ring e cosa fosse il pugilato” dissi, con un gesto noncurante della mano.
Ryan rise. “Beh, comunque ti sei fatto onore e hai innalzato il valore della nostra squadra” disse in tono solenne, facendo il verso a Carl. “Ottimo lavoro, furia”.
“E tu? Quando ti farai onore?” chiesi, mentre decidevo di muovermi da lì e andare verso l’esterno.
Ryan mi seguì. “Appena finisce la tua categoria. Per fortuna sono il primo. Non ce la faccio proprio più ad aspettare” si lamentò.
Uscimmo nel cortile esterno e potei sentire l’aria fredda colpirmi il viso e rigenerarmi.
“Riuscirai a vincere senza la tua cheerleader questa volta?”. Fu il mio turno di prenderlo in giro. In effetti era sempre stata consuetudine di Ryan quella di avere una ragazza da baciare prima di ogni incontro. Amava immergersi nella vita del pugile e godersi i piaceri che il nostro lavoro poteva offrire, a tal punto che molti lo ritenevano la perfetta star sportiva.
In pochi conoscevamo la reale personalità di Ryan, quella che metteva davanti a tutto la famiglia, studiava per diventare un fisioterapista e si prendeva cura di un amico con una vita complicata.
Io stesso gli avevo chiesto il motivo di quella facciata, ma lui aveva risposto solo che la vita era breve e che bisognava anche godersela finché si poteva.
Ma quella volta non c’era nessuna ragazza lì al palazzetto, ad augurargli buona fortuna prima del combattimento.
“Ovviamente” mi rispose, ruotando gli occhi. Anche io sapevo perfettamente che non aveva bisogno di alcuna ragazza e di alcun bacio per vincere sul ring e anzi pensavo che avrebbe potuto evitare quella tiritela, ma mi veniva quasi naturale prenderlo in giro. Io e Ryan eravamo così: tra noi era sempre un continuo deridersi bonariamente e prendersi in giro per ogni stupidata.
“Hai capito il motivo per cui è andata via?” chiesi a quel punto tornando serio. Sarah sarebbe dovuta essere infatti, la cheerleader di Ryan di quella serata, ma non era presente. Era andata fuori città per un po’ per motivi sconosciuti. Quando Ryan le aveva chiesto la ragione, lei aveva risposto che doveva sbrigare delle questioni di lavoro, restando molto vaga e poi aveva subito dirottato la conversazione su altro, dicendo di essere molto dispiaciuta di perdersi l’inizio del loro campionato.
Da quando avevo spiegato a Ryan la situazione le nostre indagini erano andate a rilento. Ryan le aveva fatto qualche domanda sulla sua famiglia e sul suo passato, ma nessuno di noi due sapeva cosa fosse vero e cosa no. Io stesso mi ero reso conto di sapere molto poco sulla Sarah Wilkinson che conoscevo alle superiori. All’epoca mi aveva detto di vivere con sua nonna e di essersi trasferita da Boston poco prima di iniziare il primo anno del liceo.
Raramente passavamo del tempo insieme fuori da scuola e quando era accaduto nessuno dei due aveva mai proposto le proprio case. Ma come cavolo facevo a dire di conoscere quella ragazza? Eravamo talmente gelosi e protettivi entrambi delle proprio cose e dei propri cari che non ci eravamo fidati abbastanza l’uno dell’altro da condividerli. Col senno di poi, mi resi conto che io e Sarah avevamo lo stesso carattere ed era proprio per quel motivo che stavamo così bene insieme. Anche il solo stare in silenzio e fare le proprie cose, sapendo di avere della compagnia era d’aiuto per entrambi. E poi amavamo passare ore a fare discorsi campati in aria e ragionamenti ingarbugliati. Fantasticavamo sul futuro o su come avremmo potuto cambiare il mondo o comandarlo a nostro piacimento. Eravamo dei ragazzini difficili con strane idee per la testa.
Rabbrividii a causa dell’aria fredda intorno a noi e prima che potessi tirarmi su il cappuccio della felpa Chad mi porse il suo berretto, che teneva nella tasca davanti della sua felpa.
“Mettilo. Tanto lo so che il tuo non l’hai portato con te. Quindi prendi il mio. E no, non ho ancora capito il motivo, mi dispiace”.
Non feci tante cerimonie e presi il berretto di Ryan, sistemandomelo in testa e sollevando il cappuccio della felpa. Non ero mai stato quel tipo di ragazzo che non sentiva il freddo e che andava in giro come se fosse sempre estate. E negli ultimi anni questa cosa era peggiorata. Adesso odiavo l’inverno e le sue temperature basse con tutto me stesso. La stessa cosa non si poteva dire di Ryan che invece era proprio quel tipo di ragazzo, che aveva sempre caldo e non aveva alcun problema con le basse temperature. Era anche per quel motivo che avevo accettato il suo berretto. Tanto lui non lo avrebbe usato comunque.
Poco dopo la porta alle nostre spalle si aprì. “Eccovi, finalmente” disse Carl. “Ryan, tra poco iniziano con i Pesi Massimi. Venite dentro” disse facendoci cenno con la mano.
Noi annuimmo e lo seguimmo all’interno. A breve anche Ryan avrebbe disputato il suo incontro e dato che avrei assistito speravo che fosse almeno più interessante e avvincente del mio.
 
Mi piazzai nei pressi del ring, scegliendo di stare in piedi piuttosto che prendere posto nelle prime file di sedili dedicati ai pugili e allo staff.
Incrociai le braccia al petto e osservai i due combattenti sul ring. A Ryan mancava solo di infilare il paradenti. E poi dopo le piccole formalità iniziali, il combattimento ebbe inizio.
L’avversario di Ryan aveva una statura più piccola rispetto a lui e avrei scommesso che si trattasse di un In-fighter. Bene, eravamo stati piuttosto fortunati quel giorno. Da buon Puncher qual era Ryan lo avrebbe potuto battere con discreta facilità.
Osservavo tutti i movimenti veloci e decisi di Ryan e mi ritrovai a sorridere. Non lo avrei mai ammesso davanti a lui, ma adoravo guardare i suoi incontri. Ryan aveva una tecnica pazzesca e quando stava sul ring si trasformava. Si poteva vedere benissimo la concentrazione sul suo viso e come i suoi occhi vagassero sull’avversario cercando di prevederne le mosse.
I suoi colpi erano potenti e veloci, tanto che Matterson, il suo avversario, venne presto destabilizzato.
Ryan sapeva perfettamente dove colpire e quando parare e fino a quel momento aveva incassato solo pochi colpi innocui.
Avrei scommesso sul fatto che Ryan avesse studiato il suo avversario già giorni prima. Al contrario di me, Ryan amava analizzare ogni suo avversario prima del combattimento, per riuscire a vincere sempre e al meglio. Cosa che io facevo soltanto nelle occasioni importanti. Lo stesso Carl mi aveva incitato a farlo parecchie volte, ma io non lo ero mai stato a sentire e così lui stesso si era stancato e aveva rinunciato. Dopotutto io venivo da un tipo di lotta differente, dove non sapevo contro chi avrei dovuto combattere fino a cinque minuti prima dell’incontro. E non avevo rinunciato del tutto a quell’abitudine: amavo provare il brivido dell’ignoto e vincere con le mie doti di colpitore d’incontro, facendo lavorare il mio cervello al massimo.
Riuscii a vedere perfettamente il momento in cui Ryan aveva deciso di mettere fine al combattimento: il suo viso si era contratto e la sua respirazione era diventata più controllata. Solo due pugni consecutivi e l’avversario finì a terra. Quei secondi passarono velocemente e l’incontro di Ryan terminò con vittoria per KO. Il caos regnava sulle tribune, acclamando il nostro vincitore. Io scossi la testa con un sorriso divertito, proprio nel momento in cui incontrai gli occhi di Ryan che sollevò le sopracciglia con un sorrisino. Era entrato in modalità star del momento e io sollevai gli occhi al cielo e gli voltai le spalle, andando a recuperare la mia roba. Il nostro lavoro per quella sera era fatto e noi potevamo tornare a casa.
Uscimmo dalla palestra insieme, proprio come eravamo entrati. L’unica differenza era tutta la gente che ci fermava per i complimenti. Snervante. Eravamo quasi all’uscita, quando qualcun altro ci chiamò: “Rage! O’Connor!”.
Ci voltammo per incontrare Carl con un sorriso stampato in faccia. In mezzo alla confusione non ero neanche riuscito a riconoscere la voce del nostro allenatore.
“Ottimo lavoro, ragazzi” disse e tirò fuori dalla tasca due buste. Ce le porse e i nostri sorrisi si ampliarono. Era sempre così: il nostro stipendio arrivava sempre dopo un combattimento e in particolar modo se quello era stato vincente.
“Ci vediamo lunedì” dicemmo io e Ryan, prima di uscire da quel palazzetto. La nostra stagione era iniziata e potevo dire, anche piuttosto bene.
 
Pov Melanie

La lezione finì e io sospirai di sollievo. Apprezzavo quella materia davvero: l’arte primitiva era molto interessante, ma quel giorno non riuscivo proprio a stare concentrata. In quella lezione, così come nelle altre. Dovevo solo aspettare che la giornata finisse e già domani sarei stata a casa. Sarei tornata a Dover per il giorno del ringraziamento. Quindi la mia distrazione era piuttosto giustificata.
Inoltre mi sentivo davvero stanca. La sera prima Becka e Chris mi avevano trascinata alla festa di saluto che avevano organizzato nell’edificio sei, alla quale aveva partecipato quasi tutto il college. Tra risate e musica eravamo tornati in camera ad un orario indecente. E per giunta la mia stanza era ancora deserta. Non avevo sentito rientrare affatto Cher e non avevo la minima idea dell’ora in cui era tornata o in che condizioni fosse.
Quando la nostra insegnante annunciò che la lezione era finita e ci augurò una buona giornata del ringraziamento con un “godetevi questi pochi giorni di vacanza”, mi alzai velocemente in piedi.
Non feci quasi in tempo ad uscire dall’aula che una voce maschile mi chiamò. Rabbrividii e mi voltai: era Adrian.
“Ciao” mi disse, dopo avermi raggiunto.
L’ultima volta che io e Adrian avevamo parlato era stato sul palco alla premiazione. Da allora avevo cercato di tenermi a distanza e di non far incrociare i nostri cammini. Le parole che mi aveva sussurrato l’ultima volta mi avevano intimorita, nonostante cercassi di non darlo a vedere. Avevo molti interrogativi, ma se da un lato la mia curiosità mi spingeva a chiedere e ad indagare, dall’altro quella poca razionalità che ancora possedevo, mi impediva di farlo. E lui dal canto suo, non era venuto a cercarmi. Fino a quel momento.
“Ciao, Adrian” risposi, giochicchiando con l’angolino del libro che tenevo tra le mani.
“Come stai?” mi chiese con un sorriso dolce.
“Sto bene. E tu?” chiesi a mia volta, involontariamente. Forse sarebbe stato meglio se non glielo avessi chiesto, così da fargli capire che non volevo si avvicinasse a me. Ma in quel modo sarei apparsa troppo maleducata.
O forse è solo la tua voglia di sapere che sta prendendo il sopravvento: queste parole mi si formularono istantaneamente nel mio cervello. Quella vocina beffarda che si prendeva sempre gioco di me in ogni situazione.
“Sto bene, grazie” rispose, scrutandomi con lo sguardo e soffermandosi sulla mia mano che adesso stringeva saldamente e nervosamente il libro di storia dall’arte primitiva.
“Non voglio farti perdere tempo, davvero” mi disse con quel sorriso ancora sulle labbra. Quell’accenno di malizia e di superiorità che avevo visto alla premiazione era completamente sparita.
“Volevo solo informarti del fatto che sono uscite le date di New York. Beh, non sono ancora state ufficializzate in realtà” continuò, grattandosi la testa. “Ma pensavo che ti avrebbe fatto piacere saperlo prima delle vacanze. Beh, quei quattro giorni sono vicini, quindi li avremmo saputi una volta arrivati a casa, ma non riuscivo a tenerlo per me e quindi… sì, insomma” si interruppe, schiarendosi la gola e cercando di darsi un contegno. Sembrava un bambino eccitato all’idea di dover andare al luna park. E probabilmente era davvero quella la sensazione. Io stessa non vedevo l’ora di recarmi in quella città per godermi la mostra che avevano messo in palio.
Lo guardai in silenzio per qualche secondo. “Come fai a saperlo?” chiesi, senza riuscirmi a controllare.
Lui scrollò le spalle. “Sono nel comitato studentesco e aiuto anche con l’organizzazione amministrativa del college. I professori si fidano di me e ottengo sempre informazioni nuove di zecca, diciamo… in anticipo”.
Beh, per lo meno mi aveva dato una spiegazione. Ma perché si fidavano in quel modo di lui? Perché i professori in mezzo a tutti quegli studenti avevano scelto proprio lui?
Di certo non erano delle domande che potevo fare in quel momento per cui mi limitai ad annuire: “E’ carino da parte tua” dissi.
Il suo sorriso si ampliò. “Grazie. Dunque, torniamo dalla vacanze lunedì 30 novembre. E poi avremo solo una settimana al campus, cinque giorni per l’esattezza. Partiremo domenica 6 dicembre, per tonare giovedì 10 dicembre”.
I miei occhi si allargarono per lo stupore. “E non ci hanno ancora comunicato le date? Ma è vicinissima” esclamai.
Lui si strinse nelle spalle. “Lo so, ma neanche loro avevano ancora deciso in quale dei giorni possibili andare. Sai, c’erano più tappe e quindi più scelte. E dopo una serie interminabili di riflessioni, sono arrivati alla conclusione che questa data…” fece una piccola pausa e io ne approfittai per commentare: “Sia la più sconvolgente per noi partecipanti?”.
Lui ridacchiò e fece un cenno con la mano. In quel momento, inoltre, stavamo camminando per i viali dell’istituto. Senza rendermene conto avevamo iniziato a camminare. Non sapevo nemmeno dove eravamo diretti. Continuavo a seguire Adrian, interessata dai suoi discorsi.
“In realtà stavo per dire più conveniente economicamente, ma dopotutto penso che contino anche sull’effetto sorpresa. Quindi sconvolgente potrebbe andar bene”.
“Oh” dissi, ridacchiando anche io.
E proprio in quel momento Adrian si fermò. Mi resi conto che mi aveva portato davanti al mio edificio.
“Anche se brevi, passa buone vacanze, Melanie” mi disse sorridendomi, prima di proseguire per la sua strada.
“Anche tu” ero riuscita a dire appena, per poi voltarmi verso l’edificio in cui si trovava la mia stanza e quella di Cher. Misi da parte tutte le mie domande su Adrian e sorrisi. Andai all’interno fremendo. Dovevo solo sistemare le ultime cose e poi sarei stata pronta per partire. Per tornare a casa.
 
Pov Rachel

Continuavo a guardare la lancetta dell’orologio sopra la cattedra. Non ero molto attenta. Mi sembrava quasi di essere finita in High School Musical e di interpretare la parte in cui gli studenti continuavano a guardare l’orologio e a ripetersi “Summer time, summer time”. Ok, non ero affatto attenta. Non riuscivo ad ascoltare un fico secco di quello che Ant stesse spiegando. Ma come potevano biasimarmi? Dopo quell’ultima lezione io e Dave saremmo saliti in macchina, con Dover come unica direzione. Erano già passati due mesi da quando ero stata a casa e mi mancava da morire. Dopotutto avevo vissuto in quella piccola cittadella per anni.
Senza rendermene conto avevo iniziato a muovere la penna che avevo in mano, impaziente. E Lucy che si era voltata nella mia direzione, attratta dal movimento, ridacchiò e iniziò a scrivere con la matita sul suo quaderno. E io le prestai attenzione solo quando me lo fece scivolare davanti.
Nervosa? Aveva scritto con una calligrafia chiara e morbida.
Impaziente, per l’esattezza. Le risposi accanto, frettolosamente.
Lei lesse e ridacchiò.
Dai, mancano solo dieci minuti. Tic tac, tic tac. Scrisse, allungando il braccio.
Io annuii soltanto e tornai a guardare l’orologio. Otto minuti per essere precisi.
“La lezione è terminata. Buone vacanze”. Quelle parole pronunciate da Ant le captai perfettamente e dovetti trattenermi dall’alzarmi di scatto e dal fuggire dall’aula.
Recuperai tutta la mia roba e feci per uscire, ma ovviamente la fortuna non è mai dalla mia parte. Evidentemente il fato si burlava di me e non voleva che raggiungessi il mio ragazzo senza ostacoli.
“Signorina Miles, può fermarsi un attimo?” mi chiese Ant e io lo guardai in silenzio. Che cosa voleva adesso?
Evidentemente avevo un’espressione sorpresa perché aggiunse: “Si tratta del lavoro su Lincoln”.
Feci una smorfia involontaria. Oh no, era un lavoro che ci aveva assegnato due settimane prima e al quale non mi ero proprio applicata. A causa di uno studio intensivo di psicologia del diritto, che mi aveva portato via ogni spazio di tempo, mi ero ridotta a iniziare quel progetto la sera prima della consegna. Era stata una lunga notte. Dave, inoltre, aveva preso il raffreddore ed era diventato alquanto appiccicoso: ero finita a studiare sulla scrivania della nostra camera, con il portatile davanti come unica fonte di luce insieme ad un piccolo lumino. In sottofondo soltanto i colpi di tosse del mio ragazzo, che si era seppellito sotto le coperte.
Erano le due passate quando si era svegliato, lamentandosi della mia assenza nel letto. Ma io dovevo finire quel progetto e cercai di velocizzarmi il più possibile. Mezz’ora dopo avevo finalmente finito, anche se non soddisfatta di ciò che avevo creato. In ogni caso avevo spento tutto e avevo raggiunto Dave nel letto. Lui si era subito accoccolato su di me e io avevo istantaneamente dimenticato il progetto, baciando la fronte del mio ragazzo malaticcio, per poi seguirlo nel mondo dei sogni.
A quel punto, l’unica spiegazione era che il mio progetto faceva talmente schifo che Ant doveva per forza  farmelo notare e probabilmente rifare.
Mi avvicinai alla cattedra e aspettai in silenzio, guardando Ant che si rigirava il mio lavoro tra le mani.
“Devo ammettere che l’ho letto tutto in poco tempo” iniziò.
Io deglutii. Era troppo corto? Era solo quello il problema?
“Il che è un bene per lei, dato che più uno scritto mi colpisce, più impiego meno tempo per leggerlo”.
Cosa? Spalancai gli occhi per lo stupore.
“Signorina Miles, sono rimasto davvero colpito dal suo lavoro. È scritto molto bene. Se nel parlare ha le stesse capacità del suo scrivere, allora ha davvero molte possibilità di farcela”  disse, sorridendomi da dietro i suoi occhialetti.
Io ero sconvolta. Aveva realmente detto che gli piaceva il mio progetto? Quel lavoro che avevo fatto in una notte? Ma stavamo parlando davvero dello stesso lavoro? Andiamo, aveva sicuramente scambiato i progetti. O letto male il nome.
“Ne è sicuro?” dissi senza poterne fare a meno e poi arrossii. “Cioè, dice sul serio?” chiesi.
Lui annuì. “Dico sul serio. È un lavoro ottimo. Volevo solo dirle che potrebbe perfettamente usarlo per la sua tesi. E se vuole posso essere il professore a tal proposito” terminò, togliendosi gli occhiali e perforandomi con il suo sguardo profondo.
“Beh, sono ancora al primo anno, professore. Non è un po’ presto per la mia tesi?”. Ero molto stupita.
“Giusta osservazione. In questo modo avrà parecchio tempo per pensarci. E le consiglio di non mettere da parte questo argomento. Potrebbe tornare utile prima o poi. Ah, e complimenti per il suo voto. Può andare, signorina Miles. Buone vacanze” finì con un sorriso, aprendo uno dei suoi cassetti e infilando del materiale che aveva ancora sul tavolo.
“Grazie” riuscii soltanto a borbottare e voltandogli le spalle, andai verso l’uscita dell’aula.
Ant mi aveva appena detto che avrebbe voluto seguirmi nella tesi in futuro, solo dopo aver letto quel lavoro che nemmeno mi piaceva. E dove era finita la sua irritazione nei miei confronti?
Ma che cavolo…? Feci appena in tempo ad uscire dall’aula che le mie due amiche, ferme nel corridoio, mi assalirono: “Cosa ti ha detto?”. “Cosa voleva adesso?”.
Io guardai le due ragazze  e semplicemente dissi: “Gli è piaciuto il mio progetto su Lincoln”.
“Oh dio, veramente? Che fortuna, avrai un voto altissimo! Complimenti, Rachel” disse Zoe, mentre Lucy sorrideva divertita.
“Io lo avevo detto. Rachel ha fatto colpo su Ant” ridacchiò.
Io la guardai storto. “Ma che dici?” dissi, sollevando gli occhi al cielo.
Così facendo però notai l’orologio sulla parete.
“Cavolo, Dave mi starà aspettando. Devo proprio andare ragazze” dissi e loro annuirono.
Ci salutammo con dei brevi abbracci e ci augurammo una buona festa del Ringraziamento, prima di affrettarmi verso il mio appartamento, dove le valigie erano già pronte e con tutta probabilità Dave mi stava aspettando.

Pov Dave

Muoviti, Dave, muoviti. Ero dentro lo spogliatoio desolato. Stavo recuperando le ultime cose, come le scarpe da gioco e roba che tenevo nel mio armadietto. Per quei giorni di vacanza, sebbene fossero pochi, mi sentivo più tranquillo a portarli all’appartamento.
La palestra e tutti i suoi spazi erano silenziosi e vuoti e temevo quasi di poter rimanere chiuso dentro.
Muoviti. Afferrai le scarpe uscii in fretta da lì. Fin da quella mattina mi sentivo alquanto elettrizzato, così come Rachel. Nel nostro appartamento la frenesia e la felicità era stata palpabile.
Avevo quasi raggiunto l’ingresso quando mi fermai di colpo.
Il silenzio era stato spezzato da delle voci. E mi sembravano alquanto familiari. Vedevo perfettamente la porta d’ingresso davanti a me, ma non osai raggiungerla, dato che nel corridoio alla mia sinistra due persone stavano discutendo e se avessi continuato a camminare le avrei interrotte. Mi avrebbero visto.
Cercai di capire di chi si trattasse e solo dopo una frase riuscii a identificarli.
“E’ sempre la stessa storia, Lil. Perché devi fare di testa tua ogni volta?”. Si trattava di Peter e Lilian. Strano, era la prima volta che li sentivo intraprendere una conversazione. Di solito si lanciavano soltanto cenni del capo o piccoli sguardi. Non si rivolgevano la parola quasi mai.
“E’ una mia scelta” disse pacata la ragazza.
“Sì, è sempre una tua scelta. Lo era l’ultima volta e lo è adesso. Ma perché sei venuta a dirmelo?” chiese l’altro bruscamente.
“Lo ritenevo giusto”.
Peter rise. “Oh, certo. Lo ritenevi giusto. Come sulla storia di Jo, vero? Lilian, non puoi andartene”.
Andarsene? Ok, sapevo perfettamente che origliare in quel modo non era giusto, ma adesso le cose si facevano interessati. Di cosa parlavano quei due? Ed era più forte di me. Volevo sentire.
“Non me ne vado adesso, Pet” rispose secca la mora.
“Oh, giusto. Alla fine del semestre. Febbraio è dietro l’angolo, Lilian. E tu ci mollerai a metà campionato, lo capisci?” il nostro capitano era esasperato.
“Non avete mai avuto bisogno di me”.
Sentii Peter che sbuffava. “Dio, Lilian, tu non capisci. Io…” si bloccò di colpo e per alcuni secondi ci fu il silenzio.
“Tu cosa?” chiese Lilian a voce talmente bassa, che feci quasi fatica a sentirla.
Peter non rispondeva e io mi resi conto che mi ero ficcato abbastanza in affari che non mi riguardavano.
Decisi di fare qualche passo indietro e di camminare più pesantemente per farmi sentire. Immaginavo che entrambi si fossero girati e Peter disse: “Chi è?”.
Io uscii allo scoperto facendo finta di niente e mi voltai verso di loro, prima di uscire dalla porta di ingresso.
“Oh, ciao ragazzi” dissi e loro mi fecero un cenno con il capo.
“Ciao, Dave” mi rispose soltanto Lilian, mentre Peter mi osservava.
“Ho recuperato la mia roba dallo spogliatoio. Buone vacanze”.
“Anche a te, Carter” mi rispose Peter, mentre Lilian sorrideva.
E poi uscii all’esterno. Diavolo, adesso mi sentivo alquanto in colpa. Un appunto mentale, Dave: la prossima volta evita di farti gli affari degli altri. In quel modo, inoltre, ero riuscito soltanto a crearmi parecchi interrogativi. E a dirla tutta, in quel momento non ne avevo proprio bisogno. Scacciai quei pensieri e andai verso il mio appartamento. Era ora di tornare a casa.
 
Pov Chad

“Dove corri?” mi chiese mia zia, mentre scendevo le scale a due a due.
Avevo sul viso un sorriso ebete. Avevo un caldo pauroso e non riuscivo a stare fermo.
“Stanno arrivando!” esclamai, mentre afferravo la giacca e le chiavi della moto.
“Chi?” chiese Evan, uscendo dalla porta del salone.
“I Carter. Melanie!” dissi, avvicinandomi a mio fratello e afferrandolo per la gioia.
Sentii mia zia che rideva, mentre Evan si dimenava nella mia presa, urlando: “Mettimi giù”.
Risi anche io e lo lasciai andare. Afferrai il casco della moto che per una ragione a me sconosciuta, avevo portato all’interno la sera prima. Ero talmente distratto che non lo avevo messo sotto al sedile, come al solito.
“Ci vediamo dopo, ok?” dissi, aprendo la porta.
Loro annuirono e mi fecero dei versi affermativi. Mi chiusi la porta alle spalle, senza poter smettere di sorridere.
In pochissimi minuti arrivai davanti casa Carter, giusto in tempo per vedere la macchina di Dave che parcheggiava nel vialetto. Fremetti dall’eccitazione e parcheggiai la moto con poca grazia, in modo alquanto affrettato.
“Chad” mi salutò Dave, che era appena sceso dalla macchina con Rachel al seguito.
“Ehi, amico. È così bello rivederti” dissi, mentre ci scambiavamo un abbraccio.
“Già, anche per me” mi rispose lui, dandomi una pacca sulla spalla mentre si allontanava.
Poi mi voltai verso la biondina.
“Rachel” dissi, sorridendo.
“Chad” fu la sua risposta. Entrambi in un primo momento non sapevamo cosa fare, poi però ci avvicinammo e ci scambiammo un piccolo abbraccio, mentre Dave scoppiava a ridere.
“Allora, siete già diventati medici o avvocati?” chiesi, prendendoli in giro.
“Sì, beh. Potrei fare un’accurata analisi e diagnosticare il tuo alto livello di sarcasmo” rispose Dave e io feci una smorfia.
“Ok, parla come gli esseri umani, amico”. Rachel ridacchiò e Dave alzò gli occhi al cielo.
“Melanie dovrebbe essere qui a momenti, con mia madre”. Dave fece appena in tempo a dirlo, che il clacson di una macchina mi fece voltare di scatto.
E sentii il mio cuore che accelerava. Mi sentivo una quindicenne in preda agli ormoni, dopo aver visto la sua cotta.
Melanie era lì, nel lato del passeggero della macchina. I suoi capelli rossi legati in una treccia e un sorriso genuino sul viso. Dio, era così bella.
I nostri sguardi si incrociarono subito e i nostri sorrisi si allargarono.
La vidi scendere dalla macchina e i miei piedi si mossero da soli nella sua direzione. Non chiuse nemmeno lo sportello. “Chad!” esclamò, correndo verso di me. E in un lampo fu tra le mie braccia. La sollevai senza il minimo sforzo e lei mise le sue gambe intorno alla mia vita.
“Melanie” dissi guardando i suoi occhi verdi, prima di far toccare le nostre labbra. Era perfetto.
Sentii le gambe deboli e per un momento ebbi paura di non riuscire a tenerla. Era da troppo tempo che aspettavo di farlo. Nei sogni non era la stessa cosa. Affatto.
Assaporai le sue labbra morbide, per poi approfondire il bacio. Ci staccammo soltanto quando non avevamo più fiato.
“Mi sei mancata così tanto” sussurrai con gli occhi ancora chiusi.
Melanie poggiò la fronte alla mia. “Anche tu. Da impazzire”.
Finalmente dopo mesi, con la mia Melanie tra le braccia, mi sentivo di nuovo completo. Era proprio come doveva essere.
 

 
 
 


Angolo dell'autrice: I'm back! Olaa, amigos.
Ok, ci ho messo tantissimo tempo, lo so. Ma ho avuto un po' di fermento nella mia misera vita da studentessa/giocatrice di basket. Quindi sono riuscita a pubblicare solo adesso. Mi scuso per l'attesa.
Per giunta non sono soddisfatta di questo capitolo. Insomma, è di passaggio e fa un po' schifo. Ne sono consapevole. Ugh.
Voi che ne pensate??
Comunque, preparatevi! Dal prossimo capitolo (che non ho idea di quando pubblicherò) le cose si movimenteranno, ve lo assicuro.
Ringrazio tutti i miei lettori e recensori.
A presto xx
-Manu

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Capitolo 10
*** Falso Ringraziamento ***


Pov Chad

Non avevo mai pensato di poter sorridere tanto in un solo giorno. Ma era più forte di me: finalmente, dopo mesi di attesa potevo di nuovo abbracciare, toccare, baciare la mia Melanie, che sembrava ancora più bella di come l’avevo lasciata. Aveva iniziato a prendere l’abitudine di fare una treccia disordinata ai capelli: per dipingere o lavorare al college era l’ideale, aveva detto. E io l’amavo. Ancor di più, però, non vedevo l’ora di passare le dita attraverso i capelli e sciogliere quella treccia.
Anche quel vestito verde che portava le stava divinamente e creava un contrasto eccellente con i suoi capelli rossi. In conclusione, non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso neanche per un minuto.
Ero così preso da lei, che non mi ero neanche fermato a pensare che quello sarebbe stato il primo giorno del Ringraziamento che veniva festeggiato in grande dentro casa O’Connor. Mia zia era stata entusiasta di invitare i Carter (e Rachel, ovviamente) in casa nostra, così come aveva fatto con Ryan e la sua famiglia. Beh, il lato positivo del fatto che i Rage avrebbero festeggiato con noi, anche se al tempo lo pensavo erroneamente, era che la mamma di Ryan avrebbe potuto convincere mia zia che fossimo talmente bravi in quello che facevamo sul ring, da non doversi preoccupare. Dopotutto era quella che ridendo, ripeteva sempre a me e suo figlio: “Tanto lo so che siete sempre i vincitori della situazione. Ormai non c’è più da preoccuparsi”.
E all’epoca ero talmente ingenuo da credere che pensasse davvero così: o almeno, volevo che lo fosse. Andiamo. Non avevo la minima idea di come funzionasse il cervello di una mamma, tanto meno quella della signora Rage, sempre sorridente e pronta a tutto. In realtà, anche lei, così come mia zia, moriva dalla preoccupazione ogni volta che suo figlio metteva piede sul ring. Qualche volta veniva anche agli incontri per fare il tifo ed era davvero entusiasta di quanto fosse in gamba suo figlio. Non avrei mai pensato quindi, che le parole dette a mia zia sarebbero state alquanto diverse da quelle che mi aspettavo. Beh, furono comunque d’aiuto, tanto che poco dopo tempo avevo iniziato a notare un cambiamento, benché minimo. Mia zia continuava a proteggere e salvaguardare Evan, ma almeno aveva smesso di ripetermi quanto odiasse il mio lavoro. E questa cosa era davvero utile per il mio cervello, sempre pronto a rimuginare su tutto.
Proprio in quel momento, Evan venne a sedersi accanto a me, sul bracciolo del divano. Avevamo appena finito di mangiare e dopo ore seduti a tavola tra tacchino e quant’altro, adesso ci ritrovavamo in sala, a prendere il caffè e a guardare il calcio. Noi uomini eravamo tutti sistemati nei divani, mentre le donne erano sedute al tavolo, parlando di chissà cosa e tutte le loro voci ci facevano da sottofondo, eccetto quella di Blake, che non si sentiva da quando era arrivata. Continuava soltanto a lanciare sguardi fulminei a Melanie, che invece sembrava non accorgersene. Era agghiacciante, ma evitavo di fare commenti, così come Ryan. Sapevo che anche lui se ne era accorto, ma più che altro rideva della situazione.
Ritornai a qualche ora prima, quando Ryan e Melanie si erano salutati. Si erano dati un abbraccio di a malapena un attimo e quasi come due perfetti sconosciuti si erano chiesti a vicenda come stavano. Nient’altro. Sapevo perfettamente che i due non si guardavano di buon occhio: insomma, Ryan aveva sempre pensato che passassi troppo tempo con Melanie e che fossi troppo dipendente da lei. Da come la guardava, si capiva che non gli fosse molto simpatica. Una volta, qualche tempo prima, mi aveva detto esplicitamente che la riteneva troppo acida per i suoi gusti. “Andiamo, Chad. Ha un carattere forte. Troppo forte, non sarebbe proprio il mio tipo” mi aveva detto. E io avevo riso.
“Per fortuna. Così è molto meglio, no? È mia e non devo temerti” avevo detto scherzando.
“Beh, no. Ma continuo a chiedermi: con i caratteri di merda che avete entrambi, come fate a far funzionare le cose?”.
E lì non ero riuscito proprio a trattenermi ed ero scoppiato in una risata rumorosa. “Grazie tante, amico”.
“Figurati, furia” aveva sorriso divertito, dandomi una pacca sulla spalla.
Melanie dal canto suo, pensava che Ryan mi avrebbe portato sulla cattiva strada e anche se le ripetevo che lui non era davvero così, come la star del cinema che lei pensava, continuava a crederlo.
Con Melanie però ci stava una differenza: lei sapeva perfettamente quanto avessi bisogno del mio migliore amico, come lei aveva bisogno di Rachel e dopotutto si sforzava di farsi piacere Ryan. Anche lei, infatti, nonostante le sue lamentele, non voleva che io e lui litigassimo. Soprattutto adesso che lei era partita per il college.
Beh comunque, avevo ormai fatto l’abitudine ad entrambi i caratteri.
E sapevo che tutti e due mi erano indispensabili. Potevano anche non starci simpatici a vicenda, ma dopotutto non li costringevo mica a passare il tempo insieme. Ero io che dovevo farlo, non loro. Semplice, ma efficace.
Lasciai perdere i miei pensieri, afferrai mio fratello e me lo gettai di sopra.
“Ehi!” protestò, cercando di rialzarsi, ma io lo trattenni.
“Così stai più comodo, no?” dissi, ridacchiando e scombinandogli i capelli giocosamente.
“Chad! Mollami!” disse cercando di svincolarsi.
“Neanche un abbraccio al tuo fratellone?” chiesi ridendo.
“No. Stavo guardando la partita” disse spostandomi con le braccia.
“Chad, lascia in pace tuo fratello” mi ribeccò mia zia, dal tavolo dietro di noi.
Feci il broncio, mentre Evan tornava al suo posto. “Bene” affermai.
Lui sollevò gli occhi al cielo e tornò a guardare il televisore.
Quando aveva iniziato a diventare sempre più simile a me? Da quando aveva quegli atteggiamenti? Prima non avrebbe rifiutato di stare seduto su di me. E dopotutto piaceva ad entrambi coccolarci in quel modo. Evidentemente Evan stava crescendo e aveva superato quella fase. Sapevo che sarebbe successo prima o poi, ma aveva soltanto 10 anni. Pensavo che avrei dovuto aspettare un po’ di più.
Improvvisamente non avevo proprio più voglia di guardare la partita, così mi alzai e andai in cucina. Sospirai avvicinandomi alla finestra e guardai all’esterno: era tutto così immobile e la bella giornata sembrava quasi che ci sorridesse.
Sentii delle braccia intorno alla mia vita e sorrisi d’istinto.
“Ehi” disse Melanie, poggiandomi un bacio sulla schiena. Ruotai tra le sue braccia e l’attirai di più a me. La baciai per poi rispondere con un sorriso al saluto. “Ciao”.
“Tutto bene?” mi chiese.
“Sì” risposi semplicemente.
“Chad, non prendertela per Evan. Sai, è in quell’età in cui comincia a pensare che non ci sia meglio che essere come te. Cerca solo di imitare i tuoi comportamenti. Quando ho parlato con lui sta mattina non ha fatto altro che dirmi quanto sei stato fantastico in questi primi combattimenti e quanto fosse felice che glieli registrassi. Ti vuole sempre bene lo stesso”.
“Sì, ma io non ho mai rifiutato un suo abbraccio” risposi, ruotando gli occhi.
Lei sorrise: “Se foste stati soli non l’avrebbe fatto, credimi. Vuole solo mostrarsi come te davanti agli altri. Sai, un po’ sbruffone”.
“Ehi! Io non sono sbruffone” protestai.
“Ah no?” chiese lei sorridendo divertita.
Scrollai le spalle ridacchiando. “Beh, anche ad Evan riesce alquanto bene”.
“Sta imparando dal migliore” mi prese in giro Melanie, dandomi una pacca sul petto.
Io scossi la testa divertito per poi sospirare. “Sta crescendo troppo in fretta” dissi, affondando il viso nel suo collo.
Melanie ridacchiò. “Sarai un padre meraviglioso, Chad” affermò accarezzandomi i capelli.
Io non commentai, ma le alzai il viso e la baciai.
“Stasera vieni a dormire da me? Saremo da soli”.
Io la guardai con un sorrisetto. “Davvero?”.
“Sì, Dave va da Rach e mia mamma ha il turno di notte”.
“Anche nel giorno di festa?” chiesi.
“Già. Allora?”.
“Beh, allora è ovvio” risposi con un sorriso divertito.
Lei ridacchiò. “Bene. Non vedo l’ora” disse dandomi un bacio a fior di labbra. “Mi sei mancato tanto, Chad” terminò.
“Anche tu, babe” risposi, prima di essere trascinato di nuovo in salotto.
 
Pov Melanie

Non avevo neanche chiuso la porta di casa che io e Chad ci stavamo già baciando ardentemente.
La casa era silenziosa e i nostri respiri già affannati rimbombavano e saltavano da parete in parete.
Chad mi sospinse verso l’interno, chiudendo la porta con un piede e senza staccare le labbra dalla mie.
Dio, il suo sapore era così buono, familiare. Così casa.
Chad mi sollevò per i fianchi e io intrecciai automaticamente le gambe intorno alla sua vita.
“Mi sei mancata così tanto” sussurrò ad un soffio dalle mie labbra.
“Sono qui, Chad. Sono qui” dissi, accarezzandogli la guancia e passando il pollice sul suo zigomo.
“Sei qui” ripeté lui, prima di camminare verso il piano di sopra.
Iniziai a baciare la pelle del suo collo, nella sua parte più sensibile appena sotto l’orecchio. Giocavo con quella parte con le labbra, i denti e la lingua, fino a sentire le mani di Chad che si stringevano sulla mia schiena e un gemito usciva dalle sue labbra.
“Melanie. Dannazione… as-aspetta” balbettò, mentre entrava in camera mia, chiudendosi la porta alle spalle.
“Cosa, Chad?” chiesi in modo accattivante, riattaccando la mia bocca nello stesso punto. Volevo lasciargli un segno. L’indomani volevo vedere un succhiotto lì su, un segno rosso che marcasse il territorio. La gente doveva sapere che era mio.
Mi fece distendere sul letto, posizionandosi sopra di me e poggiandosi sui gomiti. Non riuscivo a vedere perfettamente i suoi muscoli contratti, ma bastava passarci le mani sopra per sentire quanto stessero lavorando.
“Dio. Ho aspettato così tanto per riavere questo” borbottò con il respiro accelerato.
“Allora sbrigati, Chad”.
Sentii che veniva scosso da una risata e poi si fiondò di nuovo sulle mie labbra. Giocò con il mio labbro inferiore usando i denti e non riuscii a controllare il gemito di piacere che emise la mia gola.
Mise le mani sotto la mia maglia senza preavviso, facendomi rabbrividire per la differenza di temperatura del mio stomaco e della sua mano.
Lo aiutai e la mia maglia finì sul pavimento. Chad si bloccò e guardò sotto di sé, abbassando la testa per baciare ogni singola parte del mio stomaco, per poi salire e senza staccare le labbra dalla mia pelle, si disfò anche del mio reggiseno. Sentivo la pelle che veniva baciata dalle sue labbra andare a fuoco e quando arrivò alla cicatrice al centro del mio petto, passai le dita tra i suoi capelli e strinsi.
Chad gemette e facendo pressione con la mano lo obbligai a sollevare la testa e a guardarmi negli occhi.
“Non farmi aspettare ancora” sussurrai e lui annuì.
“Scusa” disse. Mi bloccai per un attimo. Perché l’uso di quella parola? Chad non mi aveva mai chiesto scusa. Non quando stavamo per fare l’amore. Avevo sbarrato gli occhi confusa, ma lui non parve accorgersene, dato che si era allontanato un po’ per rimuovere la sua maglia e slacciarsi i pantaloni. Quella vista mi annebbiò la mente a tal punto da dimenticare quel pensiero che mi era passato per la testa. Quella preoccupazione mista a stupore.
“Chad, torna qui. Basta” lo incitai e lui si voltò a guardarmi con gli occhi spalancati per poi sorridere beffardo.
“Cosa vuoi, Melanie?”.
Chiusi gli occhi per un secondo, poi deglutii e risposi: “Voglio te, dannazione! Voglio te, Chad”.
Il suo sorriso si allargò e mentre si disfava dei jeans, anche io feci lo stesso con i miei pantaloni e i miei slip, prima di afferrarlo violentemente per il braccio e spingerlo verso di me.
Chad ghignò prima che le mie labbra si scontrassero di nuovo con le sue. La sua lingua si fece strada facilmente, come era abituata a fare e io poggiai la mano dietro al suo collo, lasciandolo fare e assaporandolo avidamente.
La mia mano libera scivolò lungo il suo corpo e sollevando l’elastico dei suoi boxer misi la mano all’interno, stringendola intorno alla sua erezione.
Chad abbassò la testa verso il mio petto e sibilò. “Cazzo” disse, serrando la mascella.
Il suo gomito tremava per lo sforzo: sapevo che non sarebbe riuscito a mantenere quella posizione ancora per molto, così presi il comando e togliendo il contatto con il suo membro, ottenendo un suo lamento involontario, poggiai entrambe le mani sul suo petto e feci in modo di ribaltare le nostre posizioni.
“Lascia che ti faccia sentire meglio, piccolo. Devo farmi perdonare in questi mesi d’assenza” dissi in modo accattivante, abbassando i suoi boxer. Non avevo ancora fatto nulla e il suo respiro era già accelerato.
“Chad”. Era così strano che non protestasse minimamente. Lui non amava quando ero io a prendere il controllo, ma in quel caso era così bisognoso che il modo non gli interessava minimamente.
“Mmh?” chiese lui, con gli occhi chiusi.
“Ti amo”.
Chad aprì gli occhi e mi guardò. “Sì” e tornai a lavorare con la mano. “Ti amo..” gemette “anch’io”.
Aumentai il ritmo, ma le sue dita mi cinsero il polso. “No… adesso. Non così”.
“Ssh, va bene anche così”.
Lo vidi scuotere la testa e allora mi fermai. Tornò alle posizioni originali e allungò un braccio verso il comodino, mentre mi baciava il collo e giocava con quella pelle sensibile.
“Stanno sempre lì?” espirò contro la mia pelle.
“Sì” e tirò fuori dal cassetto del comodino ciò che gli serviva.
“Continua a parlare, ti prego” disse Chad, mentre macchinava.
Risi. “Cosa vuoi che dica, piccolo?”.
“Non lo so, ma parla… Il mio nome. Va bene anche il mio nome” disse freneticamente e io lo accontentai.
Se era quello che voleva perché negarglielo? Dopotutto mi stava dando quello che volevo anche io.
“Chad…” e con il suo nome sussurrato in quella stanza semibuia, dopo mesi di lontananza, entrambi arrivammo al culmine, ritrovando la nostra pace.
 
Quando la mattina seguente aprii gli occhi il mio letto era completamente vuoto. Avevo un vago ricordo di Chad che si alzava, lasciandomi un bacio tra i capelli. Ma ero così stanca che non ero riuscita a dire una parola, né tanto meno capire cosa stesse facendo.
Mi stiracchiai allungando il braccio, ma colpii qualcosa che fece uno strano rumore. Voltai la testa e mi accorsi che si trattava di carta. Chad mi aveva lasciato un biglietto.
Sono andato in palestra. Ci vediamo più tardi. Ti amo. –C
Guardai l’orologio: chissà a che ora si era alzato. Dopotutto non erano neanche le dieci.
Mi alzai da lì e sorrisi, mentre un pensiero si formulava nella mia testa. Sì, sarebbe stata una buona idea.
 
 
La palestra in cui Chad si allenava poteva sembrare alquanto piccola, ma una volta entrati bisognava ricredersi. Ero stata lì parecchie volte e mentre guardavo l’edificio dall’esterno - dovevo ammetterlo - mi era mancato anche quello.
L’aria che si respirava lì dentro, a mio parere, era fin troppo tagliente, ma amavo vedere Chad a suo agio in quel modo, come se fosse finalmente nel posto giusto per lui.
Andai verso l’entrata sovrappensiero, a tal punto che quando aprii la porta non mi accorsi di una ragazza che stava uscendo, prendendo la direzione opposta alla mia e ci finii praticamente addosso, facendole cadere dei fogli che teneva in mano. “Oddio, mi dispiace” mi scusai, mentre lei con un gesto veloce raccoglieva i suoi fogli e sollevava lo sguardo, posandolo su di me.
Vidi un lampo di… cos’era quella: curiosità? Stupore? Attraversarla soltanto per un instante, prima di vederla sfoggiare un sorriso con tanto di fossette sul viso.
Istintivamente feci un passo indietro mentre quegli occhi chiari mi scrutavano e un brivido freddo mi attraversava la schiena. Avevo quella strana sensazione dentro di me, quella spia che ti si accende dentro quando vedi il pericolo. Ma perché quella ragazza doveva essere pericolosa?
“Tu sei Melanie, giusto?”. Quella semplice domanda sviò i miei pensieri.
“Io…” iniziai stupita. “Sì, sono Melanie. Ma tu come fai a saperlo?”.
La ragazza mi porse la mano. “Sono Juliet. Sai, la ragazza di Ryan”.
I miei occhi si allargarono per lo stupore, tanto da scordarmi di stringerle la mano che lasciò ricadere lungo il fianco, imbarazzata.
“Ryan ha la ragazza?” chiesi e quella Juliet doveva avermi presa per stupida dato il sorrisino che mi rivolse.
Solo che nessuna donna si era mai riferita a Ryan come ‘la sua ragazza’. Erano sempre e soltanto ‘sue amiche’. E non importava se se le portasse a letto più volte. Continuavano ad avere sempre e solo quell’appellativo. Era per quel motivo che quella frase mi aveva un attimo destabilizzata e una domanda mi era sorta in testa: << Perché Chad non mi aveva detto nulla di quella ragazza? >>.
“Beh, evidentemente sì” mi rispose, ridacchiando.
“Bene” continuai a fare la figura della stupida, ma adesso avevo bisogno solo di raggiungere il mio ragazzo. “Scusa ma adesso devo andare” aggiunsi frettolosamente, senza darle il tempo di rispondere.
“E’ stato un piacere, Melanie Carter” mi disse e io rabbrividii ancora una volta. Era appurato: nonostante non avessi la minima idea di chi fosse, quella ragazza era da tenere alla larga.
 
Entrai in palestra e andai spedita verso Chad, appoggiato ad un sacco con un sorrisino sulle labbra, mentre ascoltava qualcosa che Ryan stava raccontando.
Nessun altro fece caso a me, dopo che all’entrata avevo dato il mio nominativo, ricevendo un sorriso dalla guardia e il permesso di entrare.
Ryan fu il primo a vedermi e mise termine al suo discorso affermando: “Abbiamo visite, furia”.
E Chad si voltò incrociando il mio sguardo. Subito un sorriso dolce gli illuminò il viso. “Ehi, Mel” mi salutò, mentre io mi fermavo davanti a lui.
“Ciao” dissi, avvicinandomi per ricevere il veloce bacio che era già pronto a darmi. Fu appena un leggero contatto e una volta separati mi chiese: “Che fai da queste parti?”.
“Sono passata così tanto per. Sai, speravo che magari il mio ragazzo avesse già finito”.
Chad annuì. “Sì, in effetti abbiamo finito. Vado a farmi la doccia. Mi aspetti qui?” mi chiese.
“Certo”. Chad iniziò a camminare verso lo spogliatoio e io mi voltai verso Ryan, che adesso stava macchinando con i suoi guantoni.
“Complimenti, Ry. Non sapevo che avessi la ragazza” affermai e vidi benissimo i suoi occhi allargarsi e il suo viso alzarsi verso di me. Nello stesso momento Chad si era bloccato in mezzo al corridoio, voltandosi di nuovo verso di noi.
“Beh…” iniziò Ryan, lanciando una sguardo alla nostra sinistra, dove Chad aveva ripreso a camminare e ci aveva raggiunti. “Sai, Mel. Ho cambiato idea. La faccio a casa la doccia. Possiamo andare” disse, grattandosi la testa. Lo guardai frugare nel suo borsone, tirare fuori una felpa e indossarla.
“Ci vediamo più tardi, amico” disse a Ryan e senza lasciarci dire una parola, mi afferrò la mano e mi condusse all’esterno.
“Dammi le chiavi”. Chad allungò una mano verso di me, mentre andava verso il posto del guidatore della mia macchina parcheggiata.
“Come sei venuto fin qui?” chiesi allora, lanciandogli le chiavi.
“A piedi. Sai, non abbiamo preso la moto per andare da te ieri e…”.
“Ho capito” lo interruppi salendo in macchina.
Per tutto il tragitto che andava dalla palestra fin a casa sua decisi di rimanere in silenzio, nonostante stessi iniziando ad innervosirmi. Non capivo perché Chad si stesse comportando in quel modo. Più ci riflettevo, più pensavo che mi stesse nascondendo qualcosa. Ed ero intenzionata a scoprire cosa.
Quando aprì la porta di casa sua, vuota e silenziosa, lo avevo seguito di sopra perpetuando nel mio silenzio.
Mi gettai sul suo letto, mentre lui chiudeva la porta e iniziava a togliersi i vestiti e a gettarli sul pavimento.
Chad non mi guardava neanche. Potevo quasi sentire la sua mente che lavorava e un paio di volte aveva anche dischiuso la bocca, come se stesse per iniziare a parlare, ma alla fine avesse deciso di non farlo.
Era rimasto solo in boxer quando mi aveva finalmente rivolto uno sguardo e chiesto: “Ti va?” indicando la porta del bagno aperta.
“No” risposi secca e lui annuì un paio di volte, come se si aspettasse quella mia risposta, prima di darmi le spalle ed entrare in bagno. Non chiuse la porta, forse perché in quel modo avrei guardato, proprio come stavo facendo, il momento in cui si era tolto i boxer e aveva aperto il getto dell’acqua della doccia. Magari pensava di farmi cambiare idea, ma io non ero dello stesso parere.
Aspettai una decina di minuti, guardandomi intorno in quella stanza abbastanza ordinata, a parte la roba che aveva appena gettato per terra e un libro sulla scrivania. Libro? Di cosa si trattava? Mi alzai incuriosita e mi fermai davanti a quel pezzo di mobilio in legno.
‘Annuario scolastico 2010-11’. Perché quell’annuario stava lì e non in mezzo agli altri nell’ultimo scaffale della libreria? Feci per aprirlo, notando che una delle pagine risaltava tra le altre, avendo l’angolino in alto ripiegato.
Ma proprio quando stavo per aprirlo il getto dell’acqua si interruppe e le ante della doccia si aprirono, facendomi voltare verso quella direzione.
“Melanie?” la voce di Chad mi arrivò alle orecchie prima che lui, con un asciugamano intorno alla vita, entrasse nella mia visuale. Feci due passi di lato d’istinto, mentre lui distoglieva lo sguardo dal letto vuoto e lo puntava su di me. “Che fai?” mi chiese con curiosità, piegando la testa di lato.
“Niente, stavo guardando le nostre foto qui. Questa non c’era prima” dissi indicando quella fotografia in bianco e nero che ci raffigurava sotto il ciliegio di casa mia, seduti per terra, con me tra le sue gambe aperte. Ricordavo ancora quando era stata scattata: l’aveva fatta Dave un pomeriggio dell’estate scorsa con il suo cellulare. Aveva cercato di non farsi notare, ma non aveva calcolato che quel ciak sarebbe stato così rumoroso e noi ci eravamo voltati, fulminandolo con lo sguardo.
“Eravate così carini” aveva commentato ridacchiando, mentre Chad lo sbeffeggiava: “Non prenderti certe libertà solo perché adesso hai un I-Phone, Carter”.
Chad si avvicinò per capire di che foto stessi parlando. “Oh, sì. L’ho rubata da casa tua” mi disse, facendo un sorriso imbarazzato. Era così dolce… no, non mi sarei lasciata abbindolare dal suo sorriso e dai suoi addominali scoperti.
“Chad?” chiesi con tono greve, facendogli sparire il sorriso.
“Sì?” mi chiese allargando gli occhi, in attesa.
“Perché non mi hai detto che Ryan ha la ragazza?”.
E quella domanda lo spiazzò visibilmente. Aveva distolto lo sguardo e si era diretto verso la cassettiera, dandomi la schiena. Aveva gettato l’asciugamano sul letto e fece per prendere dei boxer puliti.
Guardai le sue spalle larghe e scolpite e la sua schiena levigata, per poi scendere più in basso e soffermarmi sul suo sedere. Dio, era così perfetto. Quel tipo di visuali mi erano mancate così tanto.
No, Melanie, no! Che stai facendo? Chad deve risponderti ad una domanda. Non lasciarti distrarre.
“Chad” lo chiamai un'altra volta, mentre si tirava su i boxer bianchi e poi si voltava di nuovo a guardarmi. Sospirò prima di dire: “Perché lui non ce l’ha”.
“Che significa?”. Adesso sì che ero confusa.
“Niente, lascia perdere”.
E fu in quel momento che la rabbia si fece spazio nel mio pannello di controllo qual era il mio cervello.
“No, che non lascio perdere, Chad! Io non capisco che sta succedendo e tu non vuoi spiegarmelo. Solo perché sono andata via, non significa che tu puoi prenderti certe libertà. Cos’è, adesso non mi dici più ciò che ti succede nella vita?”. Esagerazione. Quella era la parola giusta per classificare il mio discorso. Ma lì per lì non me ne resi conto.
“Come?” chiese Chad sorpreso, prima che i suoi occhi chiari diventassero due fessure e la sua mascella si serrasse.
“Hai capito, Chad!” esclamai alzando la voce e dandogli le spalle per raggiungere la finestra. Il sole di quella mattina era sparito e un tempo uggioso con tanto di nuvole colme d’acqua stava facendo capolino da dietro le montagne. Esattamente come il mio umore.
“Io ho capito solo che tu non ti fidi di me. E invece dovresti farlo”. Odiavo il fatto che riuscisse a mantenere quel tono di voce gelido e basso quando avevamo delle discussioni.
E quelle parole furono la goccia che fecero traboccare il vaso. Prevedibile.
“Come ti premetti?” sbottai, voltandomi di colpo. “Io mi fido di te e l’ho sempre fatto!”.
Chad sospirò, sedendosi sul letto e passandosi una mano tra i capelli.
“E allora, per una volta soltanto, non potresti evitare di arrabbiarti e fidarti come dici di fare? Ti spiegherò, promesso. Ho solo bisogno di chiarire delle cose”.
Sinceramente non avevo la minima idea di cosa stesse parlando e cosa potesse c’entrare la ragazza di Ryan con lui. Restai in silenzio per qualche secondo. Chiarire delle cose… quali cose? Chad era in mezzo a quella situazione più di quanto pensassi?
Fidati. È il tuo ragazzo. Fidati.
“Va bene” dissi alla fine, infilando le mani in tasca.
“Dici davvero?” mi chiese speranzoso e io annuii.
“Mi fido di te”. E il sorriso di Chad fu migliore e più importante di qualsiasi altra cosa.
“Grazie”. E ovviamente non riuscii a non ricambiare quel sorriso. Il sorriso di una persona che mostrava chiaramente quanto mi amasse. E anche tu lo ami. Fidati, Melanie. Fidati.

Se è vero che la notte porta consiglio, a me aveva portato sicuramente quello sbagliato. Quella notte, mentre fissavo il soffitto della mia camera non ero riuscita a smettere di pensare a ciò che Chad mi stava nascondendo. Pensavo che dopo due anni avessimo un rapporto tale da poterci dire tutto. Evidentemente per lui non era così.
Magari ti sta proteggendo. No. Da cosa doveva proteggermi? Io ero stata lontana da lui per mesi. Forse quella lontananza dopotutto ci aveva fatto del male. Forse il nostro legame non era più forte come prima. Ripensai a quella mattina, quando lui non aveva neanche commentato il fatto che io fossi arrabbiata. Non aveva provato ad interagire con me, come se non sapesse farlo, nonostante avesse intuito perfettamente che fossi arrabbiata. Lo avevo visto chiaramente dal suo sguardo.
E quell’annuario? Era di diversi anni prima. Gli anni in cui io non ero ancora a Dover. Perché Chad lo aveva riaperto? E quella pagina? Mi avrebbe spiegato qualcosa o era in quel modo da tempo: un segno dimenticato?
Avevo bisogno di risposte più che mai. La mia indole mi aveva sempre spinto a fare cose di quel tipo. Indagare, cercare risposte, soprattutto se c’erano di mezzo le persone che amavo. Dannata curiosità che andava ad unirsi con il mio senso di protezione verso i miei cari.
Ma Chad sa difendersi benissimo da solo. Ma tu vuoi solo sapere, vero Melanie?
Avevo sospirato e cercato di dormire, ma alla fine avevo faticato a farlo per tutta la notte.
Solo una cosa era certa: il giorno dopo avrei preso tra le mani quell’annuario. E forse avrei chiarito qualche mio dubbio.
 
Pov Chad

Sapevi che sarebbe finita in quel modo, vero Chad? Tu non eri veramente cieco come hai detto di essere. Stavi solo nascondendo l’ovvio. Sei stato codardo. Avevi paura della sua reazione e non volevi metterla in mezzo. O avevi paura della tua di reazione? Sei stato un codardo ed ecco a cosa ti ha portato. A quel litigio che ti ha fatto più male di quanto pensassi. A quelle parole pronunciate dalla sua bocca che non avresti voluto sentire.
“Forse è meglio prendersi una pausa”.
E adesso stai tremando. Come un bambino, come Evan quando veniva in camera tua nel cuore della notte, terrorizzato da un brutto sogno.
Hai paura che tutto possa finire. E forse hai ragione tu, proprio come le hai urlato contro: “E’ solo una stupidata! Cosa ti cambia se te l’ho detto o no? Io amo te, non lei. Lei non è nessuno”.
E quel tonfo adesso ti riecheggia nella mente: quando Melanie ha lasciato cadere quell’annuario per terra e tu non sei riuscito a guardarla negli occhi.
“Non è questione di gelosia, Chad. Noi stiamo insieme. Io ti avrei supportato. E tu mi hai esclusa. Pensavi che mi sarei arrabbiata? Guardami adesso! Adesso sì che lo sono, Chad!”.
La mano tra i tuoi capelli a stringerli con forza, cercando di non farti sovrastare dalle emozioni ancora una volta. Codardo.
“Torno a San Francisco”.
Ti alzi in piedi e tiri un pugno sul muro. Non ti importa se domani non potrai muoverla e dovrai fasciarla sotto al guantone. Non ti importa se dovrai nasconderla agli occhi di tutti e soffrirai il triplo al prossimo combattimento.
Ha preferito tornare al college un giorno prima e la colpa è solo tua.
Avete litigato per una cazzata.
“Mi hai mentito per tutto questo tempo”.
“Non ti ho mentito, Melanie! Ho solo omesso dei particolari”.
Risposta peggiore non avresti potuto dare. Codardo.
“Forse è meglio prenderci una pausa. Se non ci fidiamo in questo modo l’uno dell’altro significa che dopotutto qualcosa non va”.
Le sue parole ti avevano ferito così tanto. Era solo un altro sabato rovinato. Da lei. No, Chad, un altro sabato rovinato da te. La colpa è tua. Come fai sempre. Come hai sempre fatto.
Puoi dare la colpa a chiunque: a Sarah, che è tornata senza chiederti il permesso, mandando in crisi la tua vita ormai perfetta. Forse sei ancorato al passato più di quanto pensi. Ti ha sempre influenzato in negativo. Da quando tuo padre ti ha abbandonato: forse anche lui vedeva lo schifo che hai dentro. Da quando Sarah ti aveva abbandonato. E adesso lo stava facendo anche Melanie. E questo caso era stato solo il peggiore.
Puoi dare la colpa a Ryan, che si è lasciato abbindolare da quella bionda affascinante. Puoi anche darla a Melanie, che non ti capisce.
Ma alla fine la colpa è solo tua, Chad. Sei sempre stato così bravo a rovinare tutto. Anche per una cazzata.
Ma era in quel modo che andava. Cazzata su cazzata su cazzata… creava un’infinità di cazzate. E bastava una piccola scossa, indifferente e senza alcun effetto sugli altri ma non su di te, per far crollare tutto quello che avevi creato. Quella montagna di cazzate.
Continua a tremare, Chad. Perché non sai come andrà a finire. E forse, pensandoci quella è la tua paura più grande: paura del futuro. Paura dell’ignoto. Ma chi è che non ce l’ha? Ogni uomo ha paura di quello che verrà, di quello che può perdere e anche di quello che può ottenere.
Sei un codardo. Come tutti.
No, Chad, non ti illudere. Perché la tua vita dipende solo da te. E non dagli altri.
Bene, ma se dipende realmente da me sono fottuto.
Potrei sempre indossare quella maschera che sono bravo a portare e ad affermare che non mi frega niente di ciò che ho attorno, di ciò che mi sta accanto. Vivi e lascia vivere. Era stato il mio motto per anni. Potevo riportare di nuovo a galla quel Chad, giusto? Quello che si divertiva ad andare in giro primo dell’arrivo di una ragazza dai capelli color fuoco.
Scordateli.
Era impossibile scordarli. Come puoi scordarti di Melanie? E dopotutto era solo una pausa quella. Lei non aveva messo fine a niente e noi eravamo ancora una coppia.
In bilico. Eravamo su un ponte sgangherato sospeso nel vuoto. E in quel momento eravamo immobili, colti dalla paura di continuare. E la cosa peggiore era che Melanie avrebbe potuto trovare il coraggio e proseguire, arrivando di nuovo sulla terraferma. Proprio come aveva fatto quel pomeriggio quando sotto gli occhi sbalorditi della sua famiglia aveva fatto le valigie e se ne era andata. Perché forse, senza di me, in quel college pieno di persone simili a lei, stava meglio. Se ne era andata via da noi, da me. E forse quello era già il suo primo passo per superare il ponte.
Lei sarebbe potuta riuscirci.
Io no.
 
Pov Dave

Pensavo che tornare al college, dopo quei giorni a casa, sarebbe stato angosciante. Mi era mancata mia madre, mia sorella, Chad e Dover, ma dopotutto, visti gli ultimi eventi, tornare al college non era stato così brutto.
Sinceramente non capivo la scelta che aveva fatto mia sorella. Non capivo neanche perché lei e Chad avessero litigato. E forse era meglio continuare a stare nella mia ignoranza. Io le volevo un bene dell’anima, ma amavo anche quella libertà che ero riuscito ad ottenere in quei pochi mesi al college. La mia vita era cambiata e io, forse da egoista, non potevo che apprezzare quel fatto.
Quando ero piccolo amavo avere una sorella gemella. Avevamo la stessa età, condividevamo tutto. Ci capivamo al volo, come se le nostre menti fossero collegate e all’epoca sarebbe potuto essere realmente in quel modo. Ma crescendo le cose erano cambiate. La morte di mio padre, la malattia di Melanie e le mie innumerevoli responsabilità da fratello maggiore qual ero diventato.
Non avrei cambiato nulla delle scelte che avevo fatto in passato. Ero riuscito a mantenere in vita mia sorella e quella era la soddisfazione più grande. La sua vita era più importante della mia, quello era sempre stato il mio pensiero e le mie decisioni venivano prese in base a quello.
Ma adesso era giunto il momento in cui anche io potevo avere una vita che contasse. Potevo essere ciò che volevo: Melanie non aveva più bisogno di me.
E pensandoci bene, quella era proprio la vita che volevo. Gli allenamenti di basket che mi permettevano di respirare: erano il mio ossigeno. Studiare per diventare qualcuno nel mondo della medicina. L’amore per Rachel: nonostante tutto io e lei ci compensavamo a vicenda. E anche se molta gente non apprezzava quella ragazza bionda io ne ero innamorato. E quello non sarebbe cambiato facilmente. O almeno così credevo.
“Carter, non puoi essere sempre qui in anticipo! Come fai? Svelami il tuo trucco” Peter era entrato nello spogliatoio e aveva gettato la borsa sul pavimento, iniziando a cambiarsi, proprio come io stavo già facendo.
“Non ho nessun trucco, Pete. È solo guardare l’orologio e pensare che sia il momento giusto per andare in palestra. Anche se per me è sempre il momento giusto” terminai ridacchiando.
Era da quando ero tornato dalle vacanze, qualche giorno prima, che Peter Gallis, il nostro capitano della squadra si era avvicinato a me più di quanto mi aspettassi. Avevamo iniziato a chiacchierare per i corridoi e i viali del campus, scoprendo di avere molte cose in comune. Perché si fosse avvicinato? Non ne avevo idea. Forse le vacanze gli avevano portato consiglio e adesso pensava che fossi la persona adatta con cui poter interagire. In ogni caso, a me che ero il nuovo arrivo quel suo modo di agire nei miei confronti aveva fatto molto piacere.
“Beato te. Io odio il momento in cui devo preparare il borsone e devo uscire di casa. Anche se poi amo stare sul campo, lo sai” disse, smettendo di fare quello che stava facendo e distendendosi sulla panchina. Evidentemente pensava che fosse ancora troppo presto per prepararsi.
Avevo annuito soltanto, guardandolo in silenzio.
“Ah, Carter. Devo chiederti una cosa” disse poi, raddrizzandosi. “Sabato ci sarà una festa grandiosa negli alloggi di giurisprudenza. Noi della squadra ci andiamo ogni anno. Verrai anche tu, vero? Puoi portare anche la tua biondina. Quel tipo di festa viene allestita da dio. È da non perdere, davvero” e ovviamente il suo sorriso entusiasta mi aveva proibito di dire di no. Dopotutto se non ci fossimo divertiti nel weekend quando lo avremmo fatto? Così sorrisi a mia volta e ringraziai. “Ci saremo sicuramente”.

“Che mi metto?” era da due giorni che Rachel mi poneva quella domanda.
“Ancora, Rach? Abbiamo deciso quella gonna con la camicia nera. Ti stava da dio” risposi distendendo le gambe sul divano.
“Ma non sono troppo volgare?” mi chiese, sporgendosi in avanti e poggiando i gomiti sul tavolo della cucina.
Le lanciai uno sguardo scettico. “Credi davvero che ti farei uscire di casa in quel modo, se lo fossi?”.
Lei iniziò a ridacchiare. “No, hai ragione”.
“Appunto” dissi, allungando il braccio e afferrando il telecomando.
“E tu che ti metti?” mi chiese mentre veniva verso di me.
“Ah, qualcosa” dissi con un gesto sbrigativo della mano.
“Vuoi venire in tuta, per caso?” mi chiese divertita sedendosi sulle mie gambe, dato che occupavo tutto il divano.
“Ooh, magari” risposi, mentre lei scuoteva la testa.
“Sei sempre il solito, Dave. Possibile che non cambi mai?”.
“E’ perché dovrei cambiare, scusa? Non è così che mi ami?” le chiesi, prestando attenzione a lei e dimenticandomi di accendere così il televisore.
“Ti amerei in qualsiasi modo tu fossi, Dave. Ma sì, è così che ti amo”.
E io mi misi a ridere. “Vieni qui” dissi semplicemente e lei non se lo fece ripetere due volte, ricercando con avidità le mie labbra. “Ti amo anch’io, Rachel”.
 
Pov Melanie

L’aria calda di San Francisco mi aveva fatto stare meglio all’istante. Il campus era praticamente deserto. Tutti sarebbero tornati il giorno dopo e soltanto io e altri poveri sfigati come me, eravamo già lì quella domenica, decidendo di non sfruttare quelle vacanze fino in fondo.
Mi trascinavo dietro il borsone, per le vie ricoperte dagli alberi, facendo quel tragitto che ormai mi era alquanto familiare. Quello che mi avrebbe portato agli alloggi del settore D e fino alla mia camera.
“Melanie” riconobbi subito quella voce e non esitai, erroneamente, a girarmi verso di essa.
“Adrian” dissi, forse con più entusiasmo del dovuto. “Che ci fai qui?” chiesi, allontanando con un gesto della mano i capelli che mi erano ricaduti davanti agli occhi.
“Potrei farti la stessa domanda, lo sai?” ribatté con il suo solito sorrisino.
Dannazione, non aveva neanche torto. “Vacanze corte” dissi scrollando le spalle.
“Già, ti capisco” Adrian ridacchiò e non mi fece altre domande al riguardo. Lo ringraziai per quello. “Come stai?” mi chiese e onestamente quella non era una domanda di cui preoccuparsi. Andiamo, chiunque nella vita di ogni giorno spesso mentiva nel rispondere a quella domanda. Era quasi un riflesso abituale di tutti rispondere come stavo per fare io: “Bene. E tu?”.
“Starò meglio quando saremo a New York, sinceramente”. A quanto pare, Adrian continuava a distinguersi dalla massa, anche nel dare una semplice risposta ad una domanda formale.
“Già, hai ragione” ridacchiai.
Lui continuò a rivolgermi il suo sorriso, prima di dire: “Bene, dolce ninfa di sangue. Ci vediamo in giro”.
Aspetta, come mi aveva chiamata? Ero rimasta così spiazzata da quell’epiteto che non ero neanche riuscita a ricambiare in qualche modo. Ero solo rimasta a fissarlo, mentre andava via con il suo andamento leggero ed elegante.
Scossi la testa. Quell’incontro mi aveva lasciato un senso di inquietudine, ma sinceramente era l’unica cosa che, da quando avevo lasciato Dover, mi aveva fatto dimenticare per un po’ la questione di Chad. Quel ragazzo aveva sicuramente un potere enorme. Che non riuscivo ancora a comprendere del tutto, ma sicuramente di grande portata.

Quando aprii la porta della mia camera, ebbi la seconda sorpresa nel giro di un quarto d’ora. Avevo già calcolato di gettarmi sul letto e guardare un film, godendomi il silenzio e la pace che ci sarebbe dovuta essere lì dentro.
E invece mi sbagliavo. La cosa peggiore di tutte fu sentire quei singhiozzi che provenivano dal letto che non era il mio. Io non ero sola. Cher era lì.
Dalla porta riuscivo a vedere soltanto i suoi ricci, che uscivano dalla coperte e si spargevano sul cuscino. Non si era neanche accorta del fatto che avessi aperto la porta e io non avevo la minima idea di come farle sentire che non fosse più sola.
Così chiusi la porta mettendoci più forza del dovuto e cercando di fare rumore.
“Chi è?” disse a quel punto Cher, fermando il suo pianto e mettendosi a sedere.
“Cher, sono solo io”.
Lei si passò le mani sul viso e mi guardò con uno sguardo duro. “Non dovevi tornare domani tu?” mi chiese velenosamente.
“Sì” risposi, cercando di ignorare il suo tono e dandole le spalle per svuotare la borsa che avevo poggiato sul letto.
“Non puoi andare via e lasciarmi in pace?” chiese asciugandosi il viso.
“No, perché è anche camera mia. Però se vuoi ti lascio in pace e faccio finta che tu non sia qui”.
Lei mi guardò per un istante, prima di poggiare la schiena al muro e chiedere con voce ancora un po’ tremante: “Perché sei tornata prima?”.
“E tu perché stai piangendo?” chiesi, rispondendo con un’altra domanda.
“Non sono affari tuoi”.
Io scossi la testa e mi sedetti sul letto, intrecciando le gambe. “Potrei darti la stessa identica risposta. Oppure… dato che entrambe stiamo soffrendo… e forse pure per lo stesso motivo… possiamo mettere da parte i nostri conflitti e parlare”.
“Con te?” mi chiese, sollevando un sopracciglio.
“No, con il ragazzo che puzza di marijuana della porta accanto”.
E lei si mise a ridere, ma si coprì la bocca con la mano, probabilmente perché non voleva ridere per la mia battuta. Che poi era più una costatazione.
“Problemi d’amore?” tentai, prendendo quella risata come una sorta di invito alla tregua.
Lei si morse il labbro e poi sospirò. “Ho lasciato il mio ragazzo”.
“Perché?” chiesi soltanto.
“L’ho trovato a letto con un’altra” disse abbassando lo sguardo.
“Che bastardo” commentai, mentre lei rialzava lo sguardo e annuiva.
“Già. Ma chi se ne frega, morto un papa se ne fa un altro, giusto?” disse mentre un sorriso le spuntava sul viso.
E io non volevo essere cattiva o farle sparire il sorriso davvero, ma era stato più forte di me. “Poco fa stavi piangendo però”.
Lei mi guardò soltanto, forse pensando a cosa rispondermi, ma alla fine se ne uscì con: “E tu? Hai lasciato il pugile?”.
Scossi la testa. “Ci siamo presi una pausa”.
“Per la lontananza? Insomma, è normale. Le relazioni a distanza sono difficili. Soprattutto quando i ragazzi hanno i loro bisogni, sai? E poi ci sono gli stronzi come il mio, che invece voleva troppo e se ne faceva due contemporaneamente” commentò, spostando i ricci con la mano e iniziando a giocarci.
“Mi dispiace. Comunque no, non è per la lontananza” dissi, guardandomi le mani. “Quella non sembrava un grande problema”.
“E allora cosa?” mi chiese, colta dalla curiosità.
“Mi ha mentito. Non si è fidato di me e ha preso decisioni senza avvertirmi” risposi.
Lei stette in silenzio per qualche secondo prima di dire: “Sai, non vedo quale sia il problema. Insomma, se non se la stava facendo con nessuno a parte te per telefono… è già un ragazzo d’oro. Ma non mi immischio oltre. Le nostre confessioni per oggi sono state più che abbastanza”.
Io ridacchiai, ignorando la frase che aveva appena pronunciato su Chad. “Sì, hai ragione…”. Restammo in silenzio ancora per un po’, ognuna persa nei propri pensieri e alla fine, prima che i dubbi e i traccheggi mentali invadessero la mia mente, tornai a parlare. “Senti, dato che siamo qui entrambe un giorno prima del dovuto, che ne dici di uscire?”.
“Dove vuoi andare?”.
“Mmh, non so. In giro per San Francisco. A bere qualcosa, magari”.
Lei ci pensò solo per un secondo. “Sì, mi piace l’idea”.
E con quella frase mi fece capire che forse il nostro rapporto poteva prendere una piega diversa da quella che era stata fino ad allora.
 
Pov Rachel

Non credevo possibile che nella stessa serata sia io che Dave bevessimo tutto quell’alcol. Non che fosse avvenuto spesso. A nessuno dei due era mai piaciuto divertirci in quel modo: preferivamo stare sobri e goderci il momento. Ma quella volta, in quella festa collegiale era stato diverso.
Ci avevo messo davvero parecchio a prepararmi, al contrario di Dave che era tornato dall’allenamento già lavato e aveva solo indossato i jeans e la camicia che gli avevo preparato.
E ovviamente aveva dovuto aspettare me per poter scendere. Di solito ci avrei messo anche meno, ma quella volta volevo risultare presentabile. Ero la ragazza del nuovo giocatore della squadra di basket. Del mio Dave. E speravo che quella fosse la volta buona in cui li avrei potuti conoscere meglio e fare una buona impressione. Magari avrei incontrato la sua compagna lì e avremmo potuto chiacchierare un po’, nonostante non mi piacesse affatto il modo in cui stesse vicino al mio ragazzo. E quando mi accorsi che lei non era lì, quella sera, mi ero sentita alquanto sollevata. Sì, ero gelosa. Tremendamente. Ma chi non lo sarebbe stato dopotutto? Stavo parlando di quel Carter dal fisico perfetto, dai capelli ramati e gli occhi del verde più luminoso che avessi mai visto. Era bellissimo poter perdersi in quel luccichio che aveva sempre nello sguardo e potersi godere il suo modo di vivere la vita. Era un ragazzo così puro. Prima di conoscerlo non credevo che potessero esistere ragazzi di quel tipo.
Così quella sera eravamo usciti di casa e ci eravamo immersi in quel nuovo mondo. A quella festa sembrava veramente esserci tutto il college intero. La musica a volumi esagerati e l’alcol in quantità sopraelevate.
Ogni pochi minuti i compagni di squadra di Dave ci porgevano bicchieri colmi e noi ci eravamo solo integrati al gruppo. Soprattutto Dave si era lasciato andare completamente, divertendosi e continuando a bere senza rendersene conto. Continuava a ridere e scherzare con Peter e i suoi compagni, senza dimenticarsi di me e prestandomi attenzione di tanto in tanto. E forse dovevo fermarlo prima che superasse il suo limite. O forse non avrei dovuto allontanarmi da lui quando avevo intravisto le mie amiche e avevo passato un po’ di tempo con loro.
Se lo avessi fatto, non mi sarei trovata in quella condizioni, con un Dave troppo allegro e vispo, talmente tanto che non mi aveva dato neanche il tempo di aprire la porta di casa una volta rientrati, che si era già attaccato con la bocca al mio collo e aveva iniziato a tracciare quella scia di baci che mi stava facenda rabbrividire.
“Dave, aspetta” dissi, mentre lo tiravo in casa e chiudevo la porta.
“Non ce la faccio” mi disse semplicemente con un sorriso sul viso, prima di cercare le mie labbra. “Dio, è stato così divertente. Ho bisogno di…”.
“Di cosa?”.
Il suo sorriso si era ampliato e le sue mani avevano iniziato a vagare sul mio corpo. “Chiudere la serata in bellezza, amore”.
E non riuscivo neanche a ricordare come ci eravamo ritrovati per terra, prima di arrivare al divano, con Dave sopra di me, che continuava a ridere. “Oh mio dio” continuava a ripetere mentre cercava di sorreggersi con i gomiti per non schiacciarmi con il suo peso.
“Dave” dissi, cercando di smettere di ridere e passandogli una mano tra i capelli.
“Sì, sì mi sbrigo”. Non capii neanche il perché di quella sua frase, prima che iniziasse a spogliarsi.
“Dave, aspetta. Mettiamoci almeno sul divano!” dissi, mentre lui tirava su la mia maglia.
“Mmh, no. Qui va benissimo. Non posso aspettare” e non mi lasciò più protestare chiudendo la distanza delle nostre labbra e infilando la lingua nella mia bocca avidamente.
Mi godetti la sensazione e lo lasciai fare. Dopotutto il luogo in cui avveniva sarebbe stato indifferente, no?
Forse sarebbe stato un po’ scomodo per le nostre schiene, dato che avevamo passato la notte sul pavimento, avvolti in una coperta che Dave aveva afferrato dal divano. Ma alla fine, quello sarebbe stato soltanto l’ultimo dei nostri problemi.
 
 

Angolo dell'autrice: No, ok. Non sono morta! Rieccomi qui... Sì insomma ho solo avuto un blocco con questa storia per svariati motivi e mi dispiace. Non volevo farlo, giuro. E ovviamente la porterò a termine. Non so in quanto tempo, ma lo farò, non temete. Inoltre non sono previsti tantissimi capitoli per questo sequel, quindi continuo a ripetermi che ce la farò.
Scusate ancora e spero che il capitolo vi sia piaciuto. Kiss
-M
 

 
 
 

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