Parola d'onore

di Bo_Belle
(/viewuser.php?uid=68976)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


I capitolo
CAPITOLO I

    Il sole cominciava a fare capolino. Si stendeva pigramente intorno alla fattoria, illuminando lievemente la grande quercia, riscaldando tiepidamente tutto intorno.  Il profondo silenzio dell’alba era rotto dalle piccole forme di vita che, indecise, cominciavano a muoversi tra l’erba. Era un freddo mattino di novembre, pesanti nuvole grigie si addensavano all’orizzonte.

    Erano ormai passate le sei. Tra poco i ragazzi si sarebbero svegliati. Dopo tanti anni si erano abituati. Certo Bo non ancora, la sua natura di dormiglione gli aveva impedito di acquisire questa pessima abitudine. Ma era migliorato, ormai a Luke bastava chiamarlo due volte: Bo, mugugnando, gli occhi impastati di sonno ancora pieni delle ragazze che aveva sognato, si svegliava.

    Una fattoria richiede impegno sin dall’alba e Jesse Duke aveva abituato i suoi nipoti a non poltrire, a non dormire più quando il sole è già spuntato. Quel giorno, invece, il vecchio Jesse avrebbe voluto lasciar dormire a lungo i suoi due ragazzi. Forse il sonno avrebbe alleviato il dolore, forse, soprattutto, li avrebbe tenuti al riparo da ciò che li aspettava.

    Jesse non sapeva che Bo e Luke non avevano chiuso occhio tutta la notte. Avevano visto che lo zio non si era ritirato nella sua stanza, che era rimasto per ore seduto sulla sua vecchia cara poltrona vicino al camino: sospiri profondi avevano accompagnato la sua veglia, lo sguardo intento a guardare fuori, nella speranza che i bagliori della luna  illuminassero la sua mente e il suo cuore.

    Lunghi sospiri avevano emesso anche Bo e Luke. E avevano pianto. In silenzio, sommessamente, Luke, che aveva cercato di nascondere le lacrime negli angoli degli occhi. Con singulti, soffocando i singhiozzi nel cuscino o sulla spalla del cugino Bo, gli occhi rossi, il volto rigato, il cuore gonfio.

    Inutili erano stati tutti i loro sforzi: nel buio della sua camera, sola,  rannicchiata tra le coperte, abbracciata al suo cuscino, in cerca di quel sostegno che quella notte nessuno avrebbe potuto darle, Daisy li aveva sentiti e anche lei aveva pianto. Le sue lacrime, calde, erano di paura: cosa sarebbe successo?

    Jesse aveva pensato tanto. Aveva pensato ai suoi ragazzi, a Martha, alla fattoria. E aveva pensato alla notte precedente. Cosa era successo? Perché era successo? E ora?  Cosa avrebbe dovuto fare? Cosa avrebbe potuto fare? Che ne sarebbe stato della famiglia Duke? Il vecchio Jesse si alzò ed uscì.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo II ***


capitolo II
CAPITOLO II

    Erano lei sei e mezzo, Luke uscì dalla sua camera. Vide che Jesse non era più seduto alla sua poltrona. Sussultò: dove era andato? Ebbe la tentazione di correre a cercarlo, ma si trattenne, Bo e Daisy si sarebbero alzati di lì a poco, cosa avrebbero pensato se non avessero visto né lui, né lo zio? Si diresse verso la doccia, passando vide che in cucina la colazione non era ancora pronta: non era mai successo.

    Daisy si alzò. Aprì la finestra, respirò la fredda brezza mattutina e tremò. Si guardò allo specchio: due profonde occhiaie solcavano il suo volto, gli occhi svelavano la notte travagliata. Si diresse verso l’armadio, lo aprì e guardò. Le t-shirts e i jeans non si addicevano all’impegno di quel giorno. Per la prima volta quella mattina non si sarebbe recata al lavoro al Boars Nest: non era mai successo.

    Bo era seduto in mezzo al letto, lo sguardo perso nel vuoto, la mente smarrita nei ricordi confusi di quella notte. Sollevò lo sguardo a guardare fuori: il cuore era un macigno, sospirò, ma un singulto gli mozzò il fiato. Si alzò di corsa e andò fuori sul retro della fattoria: si appoggiò e respirò a pieni polmoni. Poi si sedette, guardò all’orizzonte e si accorse che quel giorno non avrebbe voluto alzarsi: non era mai successo.

    Luke uscì dal bagno, un asciugamano intorno alla vita e i capelli bagnati. Si diresse nella sua stanza sbrigandosi, sapeva che Jesse non voleva che girassero svestiti per casa. La porta era aperta, Bo non c’era. Sussultò di nuovo: dove era? Si trattenne di nuovo dall’uscire a cercarlo, sapeva che sarebbe tornato, doveva tornare. Aprì l’armadio e sospirò: prese il completo blu, la camicia a quadri e la cravatta marrone. Si vestì e si guardò alla specchio: si vide uguale al solito, eppure terribilmente diverso: niente sarebbe stato più come prima.

    Daisy entrò in bagno preoccupata, perché la colazione non era sulla tavola? Aprì l’acqua calda e la lasciò scorrere sul viso: le lacrime bruciarono di meno. Uscì di corsa, sapeva che zio Jesse non voleva che girassero svestiti per casa. Entrò in camera e chiuse la porta: dove erano tutti? Certamente sarebbero tornati, dovevano tornare. Indossò i pantaloni scuri e il maglione blu a collo alto, si truccò poco, per coprire i segni della stanchezza. Sul suo volto riflesso nello specchiò balenò una certezza: niente sarebbe stato più come prima.

    Bo rientrò in casa, il fiato ancora corto. La doccia fu veloce, come la corsa verso la sua stanza, sapeva che zio Jesse non voleva che girassero svestiti per casa. La porta era aperta, e Luke? Richiuse, e se non fosse tornato? Ma lui doveva tornare! Si avvicinò all’armadio, lo aprì e prese la camicia beige, la cravatta, i pantaloni e il giubbotto marroni. Si vestì velocemente e corse in cucina.  Solo allora se ne accorse e si arrestò di colpo: e la colazione? Il groppo alla gola si sciolse e Bo scoppiò in un pianto dirotto: niente sarebbe stato più come prima!

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo III ***


capitolo III
CAPITOLO III


    Luke guardò in direzione del granaio. Gli arnesi da lavoro erano sistemati al loro posto. In un angolo c’erano il cesto con le uova fresche e il secchio con il latte appena munto. Maudine e gli altri animali stavano mangiando; in silenzio, almeno loro, facevano colazione. Il giovane girò intorno alla vecchia struttura: il pick-up bianco era sotto l’albero, come la macchina gialla. Ma Jesse? Luke sospirò, un unico pensiero in mente: “E’ tutta colpa mia”.

    Daisy sentì i singhiozzi di Bo provenire dalla cucina. Raggiunse di corsa il cugino e lo abbracciò. Lo strinse forte a sé e gli accarezzò i capelli. Lo cullò tra le sue braccia, scossa dai suoi singhiozzi irrefrenabili. Avrebbe voluto aiutarlo, dirgli che sarebbe andato tutto bene, ma non era capace di mentire. Cedette. Nascose il suo viso sulla larga spalla del suo pur piccolo cugino e diede via libera alle lacrime. Ma dove era ora zio Jesse? Daisy sospirò, un unico pensiero in mente: “E’ tutta colpa mia”.

    Bo tremava. Le lacrime scorrevano, i singulti erano dirompenti. Avrebbe voluto perdersi nell’abbraccio della cugina, sparire in una dimensione lontana, dove il futuro non avrebbe potuto spaventarlo, dove i ricordi non l’avrebbero potuto seguire, dove niente sarebbe stato irreparabile. Invece era lì: aveva paura, i ricordi lo tormentavano e…e…”Zio Jesse, dove sei? “ pensò. E subito dopo: “E’ tutta colpa mia!”.

    Luke rientrò all’improvviso. In una mano il cesto con le uova, nell’altra il secchio con il latte. Si arrestò di fronte ai cugini, abbracciati e in lacrime. Con gli occhi lucidi li guardò con intensità, rimanendo completamente immobile.

    Daisy sciolse l’abbraccio. Una mano sulla spalla di Bo, l’altra a sostenersi sulla spalliera di una sedia. Lo guardò con occhi tristi e profondi, barcollò di fronte al cugino più grande, incerta.

        Bo si staccò dalla cugina. Una mano tentò maldestramente di infilarla in tasca, l’altra la portò ad asciugare il naso. Volse gli occhi fuori dalla finestra sul lavello, ma senza guardare nulla. Si girò a cercare quelli sfuggenti di Luke. Andò verso di lui ma…

    “Prepariamo la colazione” disse il maggiore dei ragazzi Duke. Sentendosi un vigliacco, si era voltato e si era allontanato dal cugino.


Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Capitolo IV
CAPITOLO IV

Jesse Duke era stanco. Forse era il lavoro. Forse erano gli anni. Certo. Gli anni cominciavano a farsi sentire e il lavoro alla fattoria era sempre tanto. Bisognava prendersi cura degli animali, tutti i giorni mattina e sera. Bisognava pensare ai campi, ai raccolti dell’anno e alle coltivazioni che li sfamavano quotidianamente. Bisognava fare sempre attenzione agli arnesi, alle macchine. Tenerli a posto, ripararli, a volte purtroppo cambiarne i pezzi o ricomprarli. E poi c’era il granaio, bisognava tenere d’occhio pure quello. E la casa! Bisognava sempre riparare qualcosa lì: il tetto, il portico, gli infissi, le finestre, pure gli interni a volte. La casa. La vecchia casa dove avevano vissuto generazioni di Duke, i suoi bisnonni, i suoi nonni e i suoi genitori. La casa nella quale lui era nato e cresciuto, dove aveva messo su famiglia con Martha…la dolce Martha…dove aveva provato il dolore di sapere che non avrebbe avuto mai dei figli, ma dove aveva provato anche l’immensa gioia di accogliere Luke, Daisy e Bo…Jesse Duke sollevò lo sguardo e gli spenti occhi celesti fissarono l’orizzonte. Scosse la testa, Jesse Duke. Non riusciva a prendersi gioco del suo vecchio cuore. Non era il lavoro, né l’età a renderlo stanco. Non oggi.

    Il vecchio patriarca si appoggiò alla staccionata. Si girò e guardò indietro. Vide tutta la sua proprietà. L’aveva attraversata per intero quella mattina. Dall’aia, al granaio ai campi, a piedi, scrutando ogni zolla, ogni filo d’erba, ogni forma di vita. A volte il passo era venuto meno, a volte aveva avuto bisogno di abbassare sugli occhi il berretto rosso e di stringere intorno al petto la vecchia giacca blu per respingere l’insidiosa brezza di quella fredda mattina autunnale. Ma non si era fermato, Jesse. Aveva camminato per trovare una risposta. La terra, quella terra che lui difendeva con le unghie e con i denti aveva sempre aiutato i Duke, era sempre stato il perno intorno al quale aveva ruotato la vita di quella famiglia, fiero sangue della Georgia. Tanto volte il vecchio Jesse aveva temuto per sé e per i suoi cari e sempre, camminando attraverso quei campi, quasi fossero intrisi del puro spirito dei Duke, aveva trovato una risposta. Ma non oggi.

    Ripensò alla lunga notte appena trascorsa. Sospirò. Li aveva sentiti i suoi nipoti, piangere nelle loro stanze. Aveva sentito la dolce Daisy, quel bocciolo che all’improvviso, prima che lui stesso potesse veramente accorgersene, era diventato il più bello dei fiori. Aveva sentito il piccolo Bo, sfacciato viso d’angelo ancora barcollante sull’irto sentiero della vita. Luke non l’aveva sentito. Non si fa sentire quando piange il maggiore dei suoi ragazzi. Ma Jesse lo conosce. Lo sa che per quanto coraggioso sia, per quanto forte voglia dimostrarsi, la sera prima non può non aver pianto. E qualche lacrima l’aveva versata anche Jesse, lasciando che si inabissasse nelle profonde rughe del suo triste volto. Sarebbe voluto andare dai suoi nipoti, dire che sarebbe andato tutto bene, che lui aveva la risposta. Ma il vecchio Jesse non aveva trovato la risposta durante la sua lunga veglia notturna e non l’aveva trovata nemmeno quella mattina, tra le pieghe della terra dei Duke.
Il rumore di uno stormo di uccelli migranti lo distolse dai suoi profondi pensieri. Il sole era già alto. Jesse prese il suo vecchio orologio dal taschino e sussultò. Santo cielo! Le sette e mezzo! Era tardi e lui non aveva preparato la colazione. Non era mai successo e non sarebbe dovuto succedere. Non oggi.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo V ***


Capitolo V
CAPITOLO V

    Jesse, respirando affannosamente, spalancò la porta della cucina. I suoi tre ragazzi, seduti a tavola con il capo chino, sobbalzarono.
“Zio Jesse!” esclamò Bo, gli occhi ancora rossi e un fremito nella voce.
“Scusaci se ci siamo messi a tavola senza di te, ci siamo appena seduti…” seguì Daisy con incertezza “…Luke ha detto che sarebbe stato meglio cominciare e…”
“Si stava facendo tardi, mi dispiace” concluse Luke, un tono si scusa nella voce per aver assunto un ruolo che non gli competeva ancora.
Jesse volse i suoi occhi affettuosi verso Luke: “Hai fatto bene, decisione giusta” disse sorridendo dolcemente “E non scusatevi. Mi dovrei scusare io con voi per non..”
“Oh, no zio Jesse…” lo interruppe Daisy, contravvenendo alle regole della casa. Sorrise imbarazzata: “Luke stava per pronunciare la preghiera. Adesso che sei tornato, fallo tu”
Jesse guardò Luke, che annuì. Non perse tempo, si lavò le mani, si sedette a tavola, giunse i palmi e chinò il capo: “Signore, ti rendiamo grazie per il cibo che ci doni. Ti preghiamo di rendere forte la nostra famiglia” la voce si incrinò ” e di sostenerla nelle ore difficili. Amen”
“Amen”, risposero all’unisono, in un soffio, Luke, Daisy e Bo.

    Daisy servì lo zio e i cugini. Jesse guardò nel piatto. Le uova erano più strapazzate del solito, il bacon era troppo abbrustolito e il pane era completamente bruciato.
“Mi dispiace Jesse, devo aver tenuto il bacon sul fuoco troppo a lungo” si scusò Luke.
“E io ho esagerato nel mescolare le uova” aggiunse Daisy mortificata.
Bo si morse il labbro inferiore. “Zio Jesse…io mi sono completamente dimenticato del pane…”
“Oh, ragazzi, non preoccupatevi” li rincuorò Jesse, la voce sempre incrinata “Va tutto bene,  quello che conta è che abbiamo cibo sulla tavola e lo stiamo consumando insieme.”
Quelle parole crollarono come un macigno sui quattro. Le teste si chinarono, il silenzio era interrotto solo dal rumore delle posate.
Quella mattina non si mangiò con appetito in casa Duke, persino Bo sbocconcellò di malavoglia. Tutti si sforzarono comunque di consumare quanto si trovava nel piatto, perché alla fattoria non si sprecava cibo, mai, per nessuna ragione.
 
    Quando la colazione fu terminata Jesse guardò l’orologio. Erano le otto. Guardò i suoi ragazzi con uno sguardo indefinito. Incrociò lo sguardo di Luke, c’era un’apparente fermezza nel suo volto scavato. Si voltò verso Daisy e nei suoi occhi umidi colse una tristezza infinita. E Bo…il piccolo Bo, che cercava di imitare il cugino più grande ma che nei movimenti nervosi delle palpebre e dei suoi due splendidi specchi di mare tradiva paura.
“Abbiamo un’ora” sospirò Jesse. “Daisy, cara, ti dispiace sistemare tutto mentre io vado a prepararmi?” La ragazza balzò in piedi: “Certo, zio Jesse. Ci penso io”.
Il vecchio Duke si diresse verso la sua camera.
Bo e Luke si guardarono. Il maggiore si alzò e uscì sul portico, il biondino lo seguì lentamente.
“Bo, scusami per prima” disse Luke dopo una pausa breve, ma interminabile.
“Scusarti? Luke, ma per quale motivo?!” lo incalzò subito il minore, stupito.
Luke lo fissò negli occhi: “Per essermi sottratto al tuo sguardo, cugino. E per essermi voltato come un vigliacco. Io non so…”
“Luke! Smettila! Non sei stato un vigliacco, tu non sarai mai un vigliacco!” esclamò Bo con veemenza.
“Quando qualcuno cerca un appoggio e tu ti giri dall’altra parte sei un vigliacco. E io non dovrei comportarmi così con te, Bo” un tono di scoramento a segnare le ultime parole.
“Luke…” Bo non sapeva continuare la frase. Non era abituato a vedere Luke a testa bassa e sconsolato. Se Luke avesse ceduto, cosa avrebbe fatto lui?
Luke scese i gradini del portico e si diresse verso la Plymouth gialla di Daisy. Bo, impietrito, rimase immobile vicino al dondolo.

    Nella sua camera Jesse Duke si stava vestendo. Quel vestito nero inamidato, quella camicia bianca, troppo pulita, lo rattristavano profondamente. Si avvicinò alla specchiera per sistemarsi la cravatta. Lì, accanto alla vecchia bottiglia di profumo vuota di Martha, osservò le sue due fotografie preferite. A destra, da una bella cornice marrone, sorridevano un uomo e una donna innamorati, lui in piedi, lei seduta davanti, un angelo biondo sulle sue ginocchia, un bambino serio e una bimba dolcissima al suo fianco. Jesse accarezzò la foto, soffermandosi con le dita sul volto di colei che stava al centro. Poi si girò a guardare la vecchia cornice di sinistra, un pezzo dell’angolo in alto incollato in maniera imprecisa. Nove facce lo scrutavano da quella immagine sbiadita: un anziano uomo con folta barba bianca e una mansueta signora seduti al centro, sette baldi, robusti ragazzi a circondarli dietro. Sguardi fieri, scintillanti. Jesse Duke fissò a lungo quella fotografia: scrutò i volti di suo padre, di sua madre, dei suoi fratelli. Cercò nei loro occhi, negli occhi che solo i veri contrabbandieri della Georgia potevano avere, la risposta. Dopo lunghi momenti, ad un tratto, sobbalzò. Poteva essere?! Ma certo! Eccola la risposta! L’aveva trovata! Il vecchio cuore dei Duke non l’aveva tradito! Afferrò il cappello e uscì di corsa dalla stanza.

    Vicino alla macchina di Daisy, nei pressi del granaio i tre cugini attendevano con impazienza: erano le otto e mezza, si stava facendo tardi. Il vecchio Jesse si precipitò fuori, ansimando per la fretta. Dirigendosi verso il suo vecchio pick-up disse:
“Daisy, per favore, accompagna tu i ragazzi, io vi raggiungerò più tardi”.
I tre nipoti non credevano alle loro orecchie.
“Ma zio Jesse cosa stai dicendo?” chiese sbalordita Daisy.
“Cosa vuol dire che ci raggiungerai dopo?” – Bo non riuscì a trattenersi e alzò la voce più del dovuto – “Non puoi lasciarci andare soli, diglielo anche tu, Luke!”
“Jesse… –Luke cercò di mantenere la calma, facendo cenno al cugino di tenere un tono rispettoso – Jesse…stai veramente dicendo che dobbiamo andare da soli?”. La mano del ragazzo, istintivamente, aveva afferrato con forza il braccio dello zio.
Jesse aveva già aperto la portiera del furgoncino, ma quando sentì la stretta del nipote si bloccò: Luke non si sarebbe dovuto permettere. Si voltò a fissarlo, ma quando i suoi occhi infuocati si fissarono su quelli del nipote, forti e allo stesso tempo pieni di paura, il vecchio Jesse sentì un tuffo al cuore. Posò le mani sulle spalle del ragazzo, lo guardò con ferma dolcezza e gli disse: “Luke, sai che mai vi lascerei in una circostanza del genere se non fosse assolutamente indispensabile. Vi ho mai traditi?” – gli occhi a cercare conferma in quelli del ragazzo. Luke sospirò e scosse la testa. “Nipote mio, allora dovete fidarvi anche questa volta. Devo fare una cosa molto importante, ma tornerò dai voi. Te lo prometto.” Volse lo sguardo a Daisy, che osservava la scena incredula, e a Bo, che faticava a trattenere la rabbia, quasi fosse pronto ad esplodere in uno sfogo disperato.
“E ti prego, Luke, - aggiunse Jesse – spiegalo a tuoi cugini, specialmente a Bo. Posso capire dai suoi occhi che ha molta paura. Stagli vicino come farei io, so che puoi farlo, perché sei un ragazzo forte”. Le ultime parole furono accompagnate da un abbraccio tenero e vigoroso. Luke, trattenendo la forte commozione, osservò Jesse salire sul pick-up e partire.
“Come hai potuto lasciarlo andare , Luke?” urlò Bo appena le ruote sgommarono.
“Bo, dai, calmati” cercava di trattenerlo Daisy.
“Luke, come faremo senza di lui?” insisteva Bo.
Luke raggiunse il cugino. Cercava di tenere in mente che lui era un ragazzo forte.
“Daisy ha ragione, Bo” – gli disse nel tono più convincente possibile – “ti devi calmare. Oggi abbiamo bisogno di mantenere i nervi saldi. Ti prego”.
“Ma…Luke… - insistette Bo con rabbia – sai bene che sarà difficilissimo senza zio Jesse. Io non riesco a riconoscerlo. Cosa ci può essere di più importante?”
Luke sospirò: “Non lo so, Bo. Ma zio Jesse ha ragione, non ha mai deluso la nostra fiducia. Sono sicuro che non lo farà nemmeno oggi”. E rivolto a Daisy: “Coraggio, saliamo in macchina e andiamo”.
Daisy ubbidì e si mise subito al volante della sua auto. Bo montò sul sedile posteriore, non avrebbe mai pensato di poter essere così deluso e arrabbiato con lo zio. Luke prese posto davanti. Sospirava profondamente. Mentre l’automobile si allontanava dalla fattoria lui ripeteva a sé stesso che era un ragazzo forte.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


Capitolo VI
CAPITOLO VI


    La stanza era silenziosa e poco illuminata. La fioca luce del mattino autunnale filtrava attraverso i vetri della finestra, bagnati dalle prime piccole gocce che cominciavano a piovere dalle cupe nuvole scure che offuscavano l’orizzonte. Il ticchettio della pioggia, leggero e discontinuo, era l’unico rumore nettamente percepibile. Dietro la scrivania, sulla quale ogni cosa era disposta in perfetto ordine, sprofondato in una comoda poltrona, un uomo distinto di circa cinquant’anni sedeva pensieroso. Era appoggiato allo schienale, una penna tra le mani, che la avvitavano e la svitavano lentamente ma senza sosta. Lo sguardo era distante, gli occhi a guardare ben oltre la tormentata stilografica.

    Dopo un periodo di tempo indeterminato l’uomo appoggiò la penna sul tavolo, allineandola diligentemente al tagliacarte e ai timbri, disposti in fila davanti ad una risma di fogli fittamente scritti a macchina. Guardò l’orologio: le otto e mezza. Si alzò e si diresse verso la macchinetta del caffè. Lentamente, con gesti misurati e attenti, ne preparò una tazza; poi, appoggiandosi alla scrivania, aspirò il forte aroma inspirando delicatamente e infine ne assaggiò un sorso, che assaporò con gli occhi chiusi. Senza fretta, centellinandolo, svuotò la tazza, gli occhi fissati su un punto impreciso del quadro sulla parete di fronte, la mente persa in pensieri lontani.

    Riposta con cura la tazza sullo scaffale si diresse verso l’appendiabiti. Cercò, senza guardare, nella tasca sinistra di una giacca marrone ed estrasse una pipa, un piccolo involucro e un pacchetto di fiammiferi. In piedi, vicino alla porta, preparò il tabacco con gesti lenti ma sicuri per la consuetudine, gettando nell’apposito cestino gli scarti di quello usato. Infine fece ardere un fiammifero, strofinandolo contro la parte laterale della scatoletta, e accese la pipa. Inspirò profondamente la prima boccata, chiudendo gli occhi prima di espirare.

    Buttato il fiammifero spento andò a sedersi nuovamente sulla poltrona, questa volta rivolto verso la finestra. Portava la pipa alla bocca con la mano destra, a volte alternando questo movimento con quello della sinistra, che portava ora a lisciare il mento, ora a sistemare la chioma leggermente scomposta. Gli occhi erano diretti ad un punto indefinito della piccola piazza di Hazzard, le macchie colorate delle macchine in transito sotto la lieve pioggia incapaci di muovere il suo sguardo e di scuotere la sua mente, concentrata su quell’unico pensiero. Sempre lo stesso, da settantadue ininterrotte ore.

    Sollevò gli occhi ad osservare il cielo, sempre più cupo e tenebroso. Sospirò profondamente e appoggiò la testa allo schienale, la pipa fumante ancora nella mano, ora adagiata sul bracciolo della poltrona. Osservando il soffitto si concentrò. Dieci anni. Erano tanti. Con la mente cercò di ripercorrere, per l’ennesima volta, i ricordi. Dopo pochi istanti rinunciò. Non aveva più alcun senso, non oggi ormai. E’vero, erano tanti dieci anni, ma doveva accettarlo: era finita. Oggi, ormai, non aveva più senso pensarci.  Un moto di rabbia frustrata, repressa, mista a qualcosa di simile a nostalgia, salì dallo stomaco. Abbassò lo sguardo; la vista fu annebbiata dal fumo residuo della pipa. La spense, si fermò a riflettere per qualche attimo, mentre le nocche della mano sinistra battevano ritmicamente sul davanzale della finestra. Guardò l’orologio: le nove. Sorrise malinconico e sospirò. Basta, bisognava mettersi a lavorare.

    Posò la pipa nel posacenere, si mise gli occhiali, prese la stilografica e dei fogli da una carpetta appoggiata vicino alla macchina da scrivere, sistemando i timbri che si erano spostati. In quel momento sentì bussare alla porta. Sbuffando rispose: “Avanti!”.

La porta si aprì lentamente.
Gli occhi si spalancarono, lo stupore era enorme: “Cosa ci fai tu qui?”
La voce era sommessa ma ferma: “Posso entrare?”.
Il tono, dopo un attimo di attonita incredulità, fu risoluto: “Certo, accomodati!”.
Jesse Duke chiuse la porta ed andò a sedersi.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


Capitolo VII
CAPITOLO VII


    La stanza era piena di luce e immersa nella confusione. Il freddo bagliore dei neon bianchi si posava sui mobili, gli oggetti e le persone che riempivano l’ampio locale, conferendo loro un’aria desolatamente sinistra. Un brusio confuso, indistinto, fastidioso, accompagnava il continuo andirivieni da un vano attiguo, la cui porta veniva chiusa accuratamente ad ogni passaggio.

    Luke e Bo erano seduti accanto, le loro sedie appoggiate alla parete a sinistra dell’uscio d’ingresso. Erano composti, le spalle dritte, lievemente irrigidite, accostate alle spalliere; le mani, leggermente sudate, appoggiate sulle gambe. Luke guardava fisso davanti a sé, la mascella serrata; Bo percorreva, con sguardo perplesso, tutto lo spazio circostante, i denti a mordicchiare di tanto in tanto il labbro inferiore.

Nell’angolo apposto, seduta con le braccia conserte, stava Daisy. Emetteva profondi sospiri, cercando di leggere nei volti dei cugini i loro pensieri. Accanto a lei c’era Cooter, amico di tante avventure, da sempre pronto a condividere la loro sorte. Delicatamente, abbracciava la ragazza in un gesto di conforto.

    Il loro silenzio e la loro immobilità stonava pesantemente all’interno della stanza. Una signora bionda, i capelli raccolti ordinatamente in un raffinato chignon, andava avanti e indietro recando dei fogli in mano, riferendo su ogni particolare. Un uomo stempiato, gli occhiali leggermente storti, blaterava animatamente al telefono. Un giovane preciso e solerte si muoveva tra due scaffali, annotando i suoi appunti a voce alta. Una bella brunetta, dalle vistose ciglia finte, rispondeva educatamente ad un altro apparecchio che non smetteva di squillare, girando gentilmente le chiamate secondo richiesta. Un gruppo di quattro uomini in giacca e cravatta stava fumando vicino a una finestra, discutendo vivacemente una notizia che uno di loro mostrava dalla prima pagina di un giornale. Infine un ultimo signore, in maniche di camicia, guardava nervosamente fuori dall’altra finestra e, controllando insistentemente l’orologio, si asciugava il sudore sulla fronte.

    Ogni tanto Bo si voltava a cercare gli occhi di Luke con aria interrogativa, chiedendogli senza parlare, come solo due anime che hanno imparato a condividere tutto sanno fare, cosa stesse succedendo. Altrettanto silenziosamente Luke rispondeva, muovendo impercettibilmente le spalle, che non lo sapeva. A volte era poi Luke che si voltava a guardare Bo, con un’espressione preoccupata. Lo interrogava con i suoi profondi occhi blu, come aveva fatto mille altre volte in passato, chiedendogli se tutto andava bene. Bo immediatamente, nella stessa tacita maniera, rispondeva di sì con i suoi limpidi occhi azzurri .

    Ad un certo punto la porta d’ingresso si spalancò. Entrò, con passo sicuro e veloce, un ometto che indossava un cappello a larghe falde e recava un soprabito al braccio sinistro. La mano destra, invece, reggeva una valigetta. Al suo arrivò ci fu un attimo di silenzio, tutti, compresi Luke, Bo e Daisy, si voltarono a guardare; poi, mentre egli avanzava  velocemente nella stanza, il vocio riprese in maniera più misurata. Il signore in maniche di camicia, tirando un sospiro, si era fatto avanti a prendere il soprabito e la valigetta.
“Buongiorno, signore!” – aveva esordito con tono sollevato – “temevamo il peggio”.

“Buongiorno” – era stata la risposta alquanto fredda – “C’era un ampio tratto allagato sulla strada da Colonial City, la deviazione è stata piuttosto lunga. Quanto è il ritardo?”
L’altro, ricominciando a sudare, guardò nuovamente l’orologio. Erano le dieci. “Un’ora, signore” - si decise finalmente a dire.
L’ometto, appoggiando il cappello a larghe falde sull’appendiabiti, si diresse verso la porta che era sempre stata chiusa accuratamente ed entrando affermò: ”Ho bisogno di un altro quarto d’ora per fare una telefonata e firmare alcune carte, semplici formalità. Alle dieci e quindici inizieremo. Portatemi un caffè!”. Detto questo si chiuse la porta alle spalle e sparì. L’uomo in maniche di camicia corse dalla signora bionda con lo chignon a riferire del caffè e poi si avvicinò al giovane solerte per dare alcune indicazioni. I quattro uomini vicino alla finestra, avvolti in una nuvola di fumo, si davano delle complici gomitate e si scambiavano occhiatine, sorridendo in direzione di tanto ossequio.


    Luke, Bo e Daisy avevano osservato la scena immobili e in silenzio. Appena la porta si era chiusa alle spalle dell’ometto la ragazza e l’amico meccanico si erano diretti verso i due giovani. Daisy si era stretta a Bo, Cooter aveva appoggiato una mano sulla spalla di Luke.
“Luke…” esordì timorosa Daisy “e zio Jesse?”.
Il maggiore dei cugini sospirò. Bo fu preso dalla rabbia e urlò: “E’ incredibile, non riesco a credere che non sia venuto!”.
Luke, sforzandosi di mantenere la calma, lo afferrò al braccio: “Bo smettila! Abbassa la voce!”. Si guardava intorno: allo scatto d’ira del cugino tutti i presenti avevano interrotto, sorpresi, le loro chiacchiere, voltandosi in direzione dei ragazzi.
“Ma come faccio a smettere, Luke?!” continuò Bo con tono acceso. “Questo ritardo non era assolutamente previsto eppure di zio Jesse nemmeno l’ombra!”.
Luke si ricordò che lui era un ragazzo forte. Sospirò ancora una volta profondamente. Poi aggiunse: “Zio Jesse non ha mai tradito la nostra fiducia, non lo farà nemmeno questa volta”.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***


CAPITOLO VIII
CAPITOLO VIII


    Dalla sua postazione, la bella brunetta dalle ciglia finte richiamava con un ampio gesto della mano l’attenzione dell’uomo in maniche di camicia: “Signor Parker? Signor Parker! La prego, la desiderano al telefono!”. L’uomo trasalì: chi poteva essere? Non attendeva nessuna chiamata. Con sguardo perplesso si diresse all’apparecchio. “Pronto, parla Michael Parker… Oh…Buongiorno, signore!…Non ancora, signore, sono spiacente”. La mano andava ad asciugare il sudore della fronte con il fazzoletto. “Purtroppo c’è stato un increscioso quanto imprevisto ritardo dovuto alla pioggia e…come, signore?” La mano adesso non aveva più la forza di sollevarsi verso la fronte. “Ma…signore…come…”. L’ovale disegnato dalla bocca era oramai quasi perfetto. “Certo, signore” con tono rassegnato e pronto al peggio “riferirò senz’altro e attenderò il suo aggiornamento. Arrivederci signore”. Mise giù la cornetta e, sotto lo sguardo inquisitorio della brunetta, le cui ciglia finte ora battevano a ritmi vorticosi, deglutì a fatica. Con un profondo sospirò, prendendo in mano il vassoio con la tazzina di caffè che stava recando la signora bionda con lo chignon, si diresse timoroso verso il vano attiguo. Dopo aver bussato delicatamente e aver atteso il permesso, entrò lentamente.
    
    Nessuno all’interno della sala aveva posto la benché minima attenzione all’accaduto. I ragazzi Duke, in particolare, stavano ancora dibattendo sull’assenza dello zio e Luke, Daisy e lo stesso Cooter cercavano di far ragionare Bo. L’attenzione generale fu richiamata da delle urla, improvvise quanto perentorie, provenienti dal vano attiguo: “CHE COSA?!”. Tutti, stupiti, si voltarono a guardare in direzione della porta chiusa. “MA E’ ASSURDO! NON E’ POSSIBILE! MI RIFIUTO!” I presenti nella sala principale  adesso si guardavano l’un l’altro con grande perplessità. Seguì, nell’altra stanza, un silenzio breve eppure interminabile, dopodiché: “E’ CONTRO LA LEGGE! IO NON ME NE ASSUMO LA RESPONSABILITA’…E COMUNQUE NON PIU’ DI UN’ORA!”. Un altro breve silenzio attanagliò la stanza prima che, con lentezza esasperante, il signor Parker, come provato da mille fatiche, uscisse nella grande sala, decine di occhi stupefatti ad osservarlo ora madido di sudore. Provando, con il fazzoletto ormai bagnato, a riasciugarsi la fronte, l’uomo si diresse verso i ragazzi Duke. Al suo passaggio tutti rimasero sospesi, anche i quattro accaniti fumatori, che questa volta, colpiti da quelle urla impreviste, gli risparmiarono le risatine maliziose.
    
    “Signori” - esordì l’uomo, come privo di forze, con voce tremante – “Temo che dovrete attendere ancora”. “COSA?” – attaccò Bo, ormai privo di controllo, a voce altissima. Luke cercò di trattenerlo, mentre Daisy, sconfortata, abbracciava Cooter. L’uomo, intimorito dalla reazione di Bo, si era volto ora verso Luke, il quale, con una calma straordinaria, della quale nemmeno lui riusciva a comprendere la provenienza, disse: “La prego di scusare mio cugino” – e intanto guardava Bo – “Deve capirci, abbiamo già aspettato un’ora senza far niente, non è facile, si metta nei nostri panni…” la voce si stava maledettamente incrinando. Luke colse uno sguardo di comprensione nel volto impaurito del signor Parker; incoraggiato, continuò: “A che cosa è dovuto questo ritardo? E quanto si protrarrà?”. Il signor Parker, evitando di guardare Bo, ormai trattenuto a fatica, rispose: “Ecco, signori, il motivo non lo conosco. Anzi, sinceramente…” – e qui il tono diventava quasi confidenziale – “…questo ritardo appare inspiegabile. E per quanto riguarda i tempi, non so cosa dirvi, non ne ho idea”. Indietreggiò di fronte all’espressione torva di Bo. “Io riporto solo quanto mi è stato detto”. Luke lanciò un’occhiata di rimprovero a Bo, il quale, rendendosi conto dell’incolpevolezza del signor Parker, abbassò lo sguardo. Il cugino approvò, impercettibilmente, e disse: “A quanto pare non possiamo fare altro che aspettare. Grazie dell’informazione”. Parker annuì e, sperando, poco convinto, che per quel giorno le sue sventure fossero finite, andò a cercare un’aspirina.
    
    Nel brusio generale, che indifferente era ripreso, i cugini si guardarono sconfortati. “Questa attesa è terribile! E mi domando dove sia rimasto zio Jesse” – sospirava Daisy, trattenendo a fatica una lacrima – “E, Luke… Bo ha ragione, non è normale che lui in questo momento non sia qui!”. Luke la abbracciò. “Daisy, tranquilla”. Poi, con il capo, fece un cenno a Cooter, il quale capì subito: “Ehi Daisy” – disse con il tono più convincente che riuscì a trovare – “perché non mi accompagni a prendere dei caffè per i ragazzi?”. La giovane annuì e, dopo aver abbracciato anche Bo, uscì con l’amico.
Luke e Bo si rimisero a sedere. Bo sospirò e, a bassa voce confidò: “Sto perdendo la testa, cugino” – i biondi riccioli a coprire il bel volto chino – “E certamente non mi sto comportando da vero uomo”. Si morse il labbro. “Ma ho paura, Luke!” – voltandosi a cercare gli occhi del cugino. Li trovò stanchi. Luke gli mise una mano sulla spalla: “La paura è il più umano dei sentimenti, Bo. I veri uomini non si vergognano di avere paura. La paura è figlia della consapevolezza del rischio. Chi non calcola il rischio non è un vero uomo, Bo, è solo uno stupido incosciente”. Bo ascoltava. Sapeva che il cugino aveva vissuto paure più grandi. Cercava di essere comprensivo, ma non ci riusciva fino in fondo: lui aveva solo diciotto anni. “Luke” – chiese guardandolo negli occhi – “Tu hai paura?”. Con gli occhi fissi in quelli del piccolino, il maggiore rispose: “Sì, Bo. Ho paura”. Bo spalancò la bocca: “E di che cosa?”. Luke sospirò: “Di questa attesa dell’ignoto. Mi chiedo a cosa sia dovuta”. Seguì un attimo di silenzio. Erano come estraniati dal resto del mondo. “Bo” – il tono di Luke era quasi di preghiera – “Per favore, non dubitare mai più, mai più, di zio Jesse”. Bo tentennava: “Ma, Luke…”. Il tono del cugino divenne duro: “Mai Bo! Hai capito?”. Bo annuì. La convinzione di Luke, per lui, contava più della propria.

    Cooter aveva trattenuto Daisy fuori il più a lungo possibile. Voleva far svagare la ragazza, anche se in cuor suo sapeva che era una cosa impossibile. Così, dopo circa mezz’ora di scuse improbabili, si rassegnò a riaccompagnarla dai cugini, portando i caffè. L’attesa era diventata ormai insostenibile ed era resa ancora più insopportabile dalla incurante indifferenza con la quale ognuno, in quella grande sala, badava ai propri affari. L’unico che, per ragioni diverse, condivideva la stessa pena era il povero signor Parker, che stava sperimentando, con il suo martellante mal di testa, l’inefficacia di certa medicina moderna. Come i ragazzi Duke, egli guardava l’orologio insistentemente, disperandosi per la lentezza dello scorrere del tempo e desiderando, contemporaneamente, che quella ora concessa malvolentieri nel vano attiguo non passasse mai: temeva infatti guai maggiori.
E a ragione! La porta della stanza attigua si aprì e ne uscì un urlo: “PARKER!”. Il poveruomo corse trafelato, disperandosi: nel tempo trascorso nulla era cambiato, il sospirato aggiornamento annunciato nella telefonata non era arrivato. Cosa avrebbe fatto? Luke si era alzato, seguito dai cugini, giusto in tempo per udire: “NON VOGLIO SENTIRE ASSURDE RAGIONI, SMETTIAMOLA CON QUESTA FARSA!”. Il signor Parker, le cui maniche della camicia si erano miseramente srotolate, uscì e si avvicinò ai ragazzi: “Signori, tra pochi minuti vi faremo accomodare nella sala attigua per cominciare”. Luke annuì, Bo deglutì a fatica. Daisy si stringeva a Cooter che scuoteva la testa. Bo si avvicinò a Luke, che gli passò la mano dietro la schiena. Guardò l’orologio: le undici e mezza. Guardò verso l’ingresso principale. Daisy capì: “Luke,  e zio Jesse?”. Luke scosse la testa: “A questo punto temo che gli sia successo qualcosa”. Bo trasalì: “Ma allora dobbiamo andare a cercarlo, non possiamo lasciarlo…”. Il cugino maggiore lo bloccò: “Ora non possiamo assolutamente muoverci da qui, Bo! Sarebbero solo guai maggiori”. Bo non riusciva a crederci: “Ma Luke!...”. Prima che potesse aggiungere altro una voce fredda e neutra, proveniente dall’entrata del vano attiguo, li chiamò: “Lukas K. Duke e Beauregard Duke”. I cugini si lanciarono un fugace sguardo pieno d’intesa, poi, seguendo Luke, tutti si diressero verso la saletta.

    “Che  diavolo sta succedendo qui?!” Tutti si bloccarono, i ragazzi rimasero sulla porta del vano attiguo, voltandosi a guardare verso l’uscio d’ingresso della sala grande, da dove proveniva la nuova voce. Un uomo distinto, con gli occhiali, una giacca marrone e una pipa fumante in mano entrò di corsa. I Duke rimasero a bocca aperta.“Parker!” urlò l’uomo. Il poveretto, dietro una scrivania, sobbalzò: le maniche della sua camicia ormai vivevano di vita propria. “Buongiorno, signore!”. “Avevo detto di sospendere tutto, dove stanno andando quei ragazzi?” disse l’uomo indicando con il mento i Duke. Parker deglutiva a fatica: “Signore, lei non ha telefonato con gli aggiornamenti e il giudice…”. “Al diavolo il giudice!” lo interruppe il nuovo arrivato dirigendosi verso la sala attigua. “Andate a casa ragazzi!” disse rivolto a Bo e Luke, mentre, superandoli sulla porta, entrava nella stanza e chiudeva l’uscio. Nella grande sala, ora attraversata da un timido raggio di sole che faceva capolino dalla finestra, tutti erano sbalorditi. I ragazzi Duke e Cooter si guardavano l’un l’altro. Luke e Bo si volsero a guardare Parker, ormai accasciato su una sedia.

    “Zio Jesse!” gridò all’improvviso Daisy indicando la porta d’ingresso della grande sala. L’uscio si era infatti aperto e il patriarca dei Duke, respirando affannosamente stava avanzando verso i nipoti, che si avvicinarono. “Zio Jesse, finalmente sei arrivato!” lo accolse Daisy abbracciandolo. Il vecchio zio stava cercando di riprendere fiato: “Dannate scale! Non credevo che ci avrei messo tutto questo tempo a salire!”. Guardò i nipoti: Bo gli sembrò così sperduto e Luke così stanco! “Jesse, non sappiamo che succede…” - stava iniziando Luke – “…prima c’è stato…”. Jesse lo fermò con un gesto della mano. “Lo so, nipote mio” – disse volgendo loro uno sguardo amorevole – “So tutto. Andiamo a casa.” I ragazzi lo guardarono stupefatti. “Ma zio Jesse!” esclamò Bo. Lo zio gli mise una mano sulla spalla: “Ti fidi di me, Bo?”. Senza guardare il cugino, Bo rispose di sì. Jesse annuì e lo abbracciò, poi, respirando ancora faticosamente per la corsa, si girò verso la porta seguito dagli altri e uscì.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo IX ***


CAPITOLO IX
CAPITOLO IX

    Jesse Duke era seduto sul vecchio dondolo del portico. Ondeggiando lentamente si godeva gli ultimi raggi di luce di quella infinita, incredibile giornata. I cupi nuvoloni e la pioggia avevano lasciato il posto ad un sole debole e pigro che, pure, era riuscito a riscaldare il cuore di tutti i Duke dopo le tempeste dei tre giorni precedenti.
Aveva pensato tanto quel pomeriggio il vecchio Jesse, aveva ripercorso gli eventi di quelle ultime settantadue ore, che sarebbero rimaste impresse in maniera indelebile nella mente di tutti e che tanto profondamente avevano cambiato le loro vite.
    
    Ripensava a quella importante richiesta di whiskey da Nashville, al lavoro alla distilleria numero quattro, alle strategie per la consegna … lui avrebbe fatto da esca con Black Tillie lungo la 421, attirando i finanzieri, mentre i ragazzi, indisturbati, avrebbero trasportato il carico oltre il confine percorrendo le rotte segrete dei Duke … Daisy alla fattoria avrebbe gestito le comunicazioni radio … sarebbe filato tutto liscio come al solito, se non ci fossero stati Boss e Rosco…
“E’ stata tutta colpa mia. Come ho potuto essere così stupida, zio Jesse? Come ho fatto a non capire?! Ho sentito tante volte Boss e Rosco nominare Willow Creek… e quando sghignazzavano in quel modo al Boars Nest! Avrei dovuto immaginarlo!”.
“Daisy, cara, non prendertela con te stessa. Boss e Rosco hanno le mani in pasta in decine di affari loschi, come potevi sapere che quel giorno stavano parlando proprio di noi?”
No, la colpa non era della dolce Daisy. Lui, Jesse, sapeva che J.D. avrebbe provato ad incastrarlo anche questa volta. Eppure non si era preoccupato. E quando aveva trovato i microfoni-spia alla fattoria e dentro le loro auto era stato troppo tardi.

    Ripensava al fatto che aveva affidato troppe responsabilità ai suoi ragazzi e che, così giovani, li aveva posti in situazioni difficili, nelle quali è troppo complicato, addirittura impossibile, discernere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato…
“E’ stata tutta colpa mia. Che idiota sono stato, Jesse! Nemmeno un principiante avrebbe commesso una ingenuità simile. Quando ho visto il posto di blocco a Willow Creek avrei dovuto ricordarmi che il ponte era crollato e capire che volevano spingerci verso la riva del fiume per accerchiarci.”
“Luke, sei troppo severo con te stesso. Non è facile decidere cosa è giusto in pochi secondi e con la polizia alle calcagna, anche un contrabbandiere molto esperto avrebbe scelto quella soluzione”.
No, la colpa non era nemmeno di Luke. Lui, Jesse, sapeva che all’ennesima consegna i loro tragitti segreti potevano non essere più tanto sicuri, eppure non aveva ritenuto necessario cambiare il passaggio a Willow Creek, da sempre a rischio. Quando se ne era reso conto era stato troppo tardi.

    Ripensava al fatto che aveva esposto i suoi ragazzi a pericoli assurdi e in fondo ingiustificati, mettendo a repentaglio la loro stessa vita…
“E’ stata tutta colpa mia. Che codardo sono stato, zio Jesse! Perché mi sono fermato? Avrei  dovuto saltare il fiume, l’avevo fatto altre volte, con il Generale potevamo farcela anche questa volta. E invece… ho avuto paura…”
“Sia benedetta la tua paura, Bo! Credo che abbia salvato la vita a te e a tuo cugino. Saltare il fiume di notte, con un pesante carico di whiskey nel portabagagli e la pressione degli sbirri alle spalle sarebbe stato incosciente e pericolosissimo. Non sei stato un codardo, Bo. Ti sei comportato da uomo saggio e maturo”.
E certamente la colpa non era nemmeno del piccolo, grande Bo, che in pochi istanti aveva deciso di diventare improvvisamente adulto e di compiere la scelta più difficile per il suo orgoglio, ma più giusta per l’intero clan dei Duke e per lo stesso zio… che non avrebbe potuto sopravvivere al rimorso se qualcosa di terribile fosse succ….No! Non voleva pensarci Jesse!

    E poi c’erano stati l’arresto da parte dei finanzieri, le risate compiaciute di Boss e Rosco, che per una volta li avevano sconfitti… le due notti che i suoi ragazzi avevano trascorso nelle celle di Hazzard e l’atroce dubbio: cercare un avvocato per un processo la cui sentenza era già inevitabilmente scritta o pagare la salatissima cauzione per permettere ai suoi ragazzi di trascorrere un’ultima notte di libertà alla fattoria? Il vecchio Jesse non aveva esitato: non importa se aveva dovuto sborsare fino all’ultimo centesimo, chiedendo dei soldi in prestito ai suoi amici e ponendo un’ipoteca sulla sua amata fattoria… Luke e Bo avevano passato un’ultima notte a casa,  anche se l’avevano trascorsa piangendo, per colpa sua. Sì, perché la colpa era sua e Jesse lo sapeva. Aveva commesso delle imprudenze questa volta e soprattutto aveva sottovalutato un fattore molto importante: il mondo del contrabbando non si reggeva più sui valori in cui credeva lui, onore, rispetto, collaborazione… almeno non più per J.D. Hogg, accecato dal denaro… e lui avrebbe dovuto accettare ciò molto prima di mettere a rischio l’esistenza della sua stessa famiglia.
Infine c’erano stati tanti pensieri rivolti al vecchio, impavido spirito dei Duke e, quella stessa mattina, di fronte alle fotografie dei suoi cari, quell’idea che, seppur tanto incredibile e tanto dura da accettare, era l’unica possibilità rimastagli in questa situazione.

    Ora il vecchio Jesse, finalmente sereno, guardava i suoi nipoti che, terminati i lavori del pomeriggio, lo stavano raggiungendo. Daisy, sedendosi, lo abbracciò affettuosamente, i due ragazzi, in piedi, lo guardavano con occhi infinitamente grati. Nessuno aveva parlato, ma i loro sguardi valevano più di mille discorsi.
“Che ne dite di cenare presto e di andare a letto? Siamo tutti molto stanchi” disse lo zio. I nipoti annuirono. “Bene, allora …” – continuò Jesse – “… diamoci da fare, andiamo a preparare” sentenziò con leggerezza mentre si dirigeva in cucina seguito da Daisy.

    I due ragazzi rimasero sul portico, Luke intento a fissare la vecchia quercia, Bo con lo sguardo un po’ smarrito. Dopo qualche minuto la loro attenzione fu richiamata dal rumore di una macchina che si avvicinò e si fermò proprio davanti alla fattoria.
“Buona sera ragazzi”. Sguardo aperto,  pipa fumante in bocca e una manciata di fogli in mano, l’uomo distinto che Jesse era andato ad incontrare la mattina e che poi li aveva raggiunti in tribunale li salutò scendendo da una vecchia Mustang.
I due ragazzi gli vennero incontro sui gradini del portico: “Agente Roach, buona sera”.
“Vi vedo bene” – disse l’agente. E in tono scherzoso: “Meglio di stamane”.
“Ci può giurare, signore” – rispose Bo, il sorriso finalmente schietto e aperto.  
“Stamattina siamo usciti di casa diretti dal giudice Pennington, rassegnati ad una condanna certa con l’accusa di contrabbando e ad un viaggio per il penitenziario di Atlanta con biglietto di sola andata, almeno per i prossimi dieci anni…” aveva continuato Luke, con un tono indefinito.
“Dieci anni…  - lo aveva interrotto Roach – tanti quanti io ne ho trascorso a inseguire i Duke da quando mi hanno mandato in servizio qui ad Hazzard…”.
“Non ci saranno più di questi tempi” sospirò Bo.
“Già, avete vinto voi. Sarete contenti adesso!” – affermò Luke, questa volta con forte astio nella voce.
Bo lo guardò stupito: “Cugino, che ti prende?! Dovremmo essere grati all’agente Roach!”. Il maggiore abbassò lo sguardo e sospirò. L’agente lo guardò fisso. Aspirò dalla pipa e sorrise: “L’ho sempre saputo Lukas, che sei il più duro dei giovani Duke. Saresti stato un temibile avversario, se la nostra lotta fosse andata avanti”.
Luke rialzò gli occhi: “Bo ha ragione, se siamo a casa lo dobbiamo a lei. Le chiedo scusa per le mie parole, è solo che…” – lo sguardo fuggì di nuovo, a nascondere un’emozione che il giovane trovava imbarazzante.
Bo vide il cugino intento a trattenere una lacrima, si mordicchiò il labbro inferiore e gli posò una mano sulla spalla.
Roach li guardò. Non era abituato ad essere tenero, ma ora i suoi occhi erano pieni di indulgenza: “Non essere così severo con te stesso. Siete stati degli avversari formidabili, tra i più forti che mi sia mai capitato di inseguire, degni eredi di Jesse. Dovete ringraziare lui”. Una boccata di fumo si alzò dalla pipa.
“Zio Jesse ci ha detto del vostro incontro di stamattina” - riprese Bo.
Roach aspirò il fumo: “Non abbiamo vinto neanche noi, Luke. Ho sempre voluto incastrare vostro zio contando solo sulle mie forze, sul mio fiuto, sull’integrità dei miei uomini. Non ho mai voluto avere niente a che fare con i tranelli e le soffiate di Boss Hogg e di quel suo sceriffo Coltrane. Non ero in ufficio l’altra notte, se ci fossi stato io quando è arrivata la chiamata-radio di Hogg nessuno dei miei uomini si sarebbe mosso. Non voglio avere a che fare con chi non rispetta il codice etico del contrabbando.” – Si sistemò la cravatta: “Per questo quando vostro zio mi ha chiesto di fare in modo che vi fosse concessa la libertà condizionata, promettendo di porre fine alla sua attività, ho accettato. ”
“Abbiamo saputo della sua telefonata ad Atlanta…e della sua insistenza con l’autorità centrale della ATB… abbiamo capito solo allora il motivo del secondo ritardo al tribunale, dopo la sua telefonata” – disse Luke, gli occhi e la voce finalmente liberi da ogni tremolio.
“Avevo bisogno di guadagnare tempo con il giudice, non è stato facile convincere i capi della ATB” – lo interruppe Roach, con grande serietà – “La mia era una richiesta oggettivamente improponibile. Ma ho buoni amici in quella sede, collaboratori che mi stimano. E la prospettiva di porre comunque fine all’attività clandestina della famiglia Duke era troppo allettante per loro per porsi scrupoli di tal genere. Così hanno accettato”.
Bo e Luke ascoltavano in silenzio, la voce di Roach ora sembrava tradire un’ emozione.
Ma durò un attimo: “Comunque...” – si schiarì la voce il finanziere – “veniamo al dunque. Questi sono i vostri documenti “-  disse porgendo loro i fogli che aveva tenuto in mano tutto il tempo – “sono appena arrivati da Atlanta. Li dovrete consegnare al commissario Hogg, che li timbrerà e li custodirà al tribunale della Contea di Hazzard”.
I ragazzi scorrevano velocemente le pagine, cercando di coglierne il contenuto, ma troppo confusi per capire veramente.
“Vi dovrete presentare nel mio ufficio ogni quattro mesi, non potrete uscire dai confini della contea senza il permesso di Hogg, non potrete usare armi da fuoco e naturalmente dovrete tenervi alla larga da whiskey e distillerie”  - aggiunse con voce perentoria. “Sembra dura, ma potete ritenervi fortunati” – concluse con un ultimo sbuffo della pipa – “Oh… infine il Generale Lee. Per quello non c’è stato niente da fare. Dovrete andare a riprendervelo dallo sceriffo pagando una tassa”.
I ragazzi Duke lo guardarono con gratitudine.
“Grazie Agent Roach” dissero entrambi.
“Chiamatemi Andy” – chiosò l’uomo. “Ci vediamo tra quattro mesi, arrivederci”.
“Ci conti – risposero all’unisono i due cugini, mentre Roach saliva in macchina.
“Agente Roa…ehm…Andy!” – gridò Bo mentre il motore della Mustang rombava. Luke lo osservava sorpreso.
“Un’ultima cosa, per favore” – aggiunse il più giovane dei Duke.
Roach guardò dal finestrino il giovane che avanzava di qualche passo. “Che c’è, Bo?”.
Bo si  mordicchiò ancora il labbro. Poi prese coraggio: “Andy, lei ci ha spiegato perché ha accettato la proposta di Zio Jesse. Ma…perché ha deciso di fidarsi della sua promessa?”.
Roach fissò lo sguardo sulle ultime strisce di luce che scomparivano oltre l’orizzonte. Si voltò verso i due giovani che lo fissavano con grande intensità. Sorrise: “Perché Jesse Duke mi ha dato la sua parola d’onore”.
Il motore rombò con fragore e la Mustang si allontanò dalla fattoria, mentre i due cugini, con il cuore finalmente leggero, si aprivano in un sorriso.
Luke, che non si era mai mosso dal portico, aprì la porta e fece a Bo cenno di entrare.
Il biondino salì i gradini e lo precedette. Sulla soglia si fermò, si voltò verso il maggiore e chiese a bruciapelo: “Luke, andrà tutto bene, vero?”.
Luke sorrise, gli pose una mano sulla spalla e annuì: “Si, Bo. Andrà tutto bene”.


FINE

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=338563