Il viaggio di Flora (/viewuser.php?uid=2627)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Arkhè ***
Capitolo 2: *** Pyr ***
Capitolo 3: *** Hydor ***
Capitolo 4: *** Ouranòs ***
Capitolo 5: *** Ghé ***
Capitolo 1 *** Arkhè ***
[I
primi tre capitoli di questo
racconto sono stati scritti a quattro mani con Ronin]
Nota
dell’autrice:
Questo racconto è ispirato a fatti e personaggi storici. La
ricostruzione degli
eventi e della cronologia, così come la caratterizzazione
dei personaggi, è
basata sulle relative fonti storiche accreditate. Nel delineare la
figura di
Alessandro di Macedonia e dei suoi contemporanei, mi sono rifatta ad
Arriano,
Plutarco e Curzio Rufo. Nel delineare il personaggio di Efestione ho
tenuto
conto di alcune teorie che gli attribuirebbero probabili origini
ateniesi,
anziché macedoni. La ricostruzione della sua vita
precedentemente all’incontro
con Alessandro è tuttavia di mia invenzione, dato che
Efestione appare nelle
fonti solo successivamente.
Il
presente racconto
si situa piuttosto in avanti nella cronologia alessandrina. Sulla via
del
ritorno dall’India, Alessandro si trova ad attaccare la
cittadella di una tribù
ribelle: i malli. Lì, a seguito di un gesto incosciente,
riceverà la ferita più
grave di tutta la sua vita: una freccia gli trapassa il polmone.
Efestione non
è con lui, avendolo preceduto con parte
dell’esercito, ed essendosi accampato
più a sud rispetto al luogo dell’incidente. Questo
racconto esplora le lunghe
ore in cui Alessandro lottò per la sua vita, e la silenziosa
attesa di
Efestione, quando tutto pareva perduto.
Per
l’occasione sono
stati ripristinati i nomi greci:
Alessandro:
Aleksandros
Efestione:
Hephaistion
Tolomeo:
Ptolemaios
Cratero:
Krateros
Liside:
Lysios
Nearco:
Nearkhos
Peucesta:
Peukestes
Perdicca:
Perdikkas
Leonnato:
Leonnatos
Filippo:
Philippos
Clito:
Kleitos
Il
viaggio
Arkhè.
Dolore
– aria che
gli scivola via dai polmoni.
Quando distingue
una figura sbiadita avvicinarglisi, la rabbia gli ferma il respiro in
gola
ancora per qualche momento, gli solleva il braccio e glielo fa
riabbassare con
forza – la luce scintilla per l’ultima volta sulla
lama che cala, mentre quella
figura di uomo si rapprende in se stessa e scompare.
D’improvviso
sente
la terra polverosa e calda sotto le ginocchia – poi
l’impressione di cadere
indietro, e non potrebbe dire per quanto tempo. Gli sembra di vedere
spacchi di
cielo attraverso le fronde dell’albero – poi
rovescia la testa di lato – e lì,
ombre grigie sono immobili attorno a lui, cominciano a muoversi
impazzite
mentre sfumano e scompaiono. Solo le loro voci restano.
Grida e clangore
nel buio – ondate di urla che fluttuano e si infrangono
contro la sua testa e
di nuovo si allontanano – di tanto in tanto resta solo il
ribollire di un
ansito faticoso, tagliato a metà dalle lame di un pauroso
silenzio.
Al di sopra delle
onde del mare buio una voce urla il suo nome – e per un
istante lui confonde
suoni e voci e si volta a cercare un volto che non trova. In un alone
improvviso di luce vede solo Peukestes chino su di lui, sente delle
mani
sollevarlo, finché attraverso i rami una freccia improvvisa
di sole lo trapassa
di nuovo e lo affonda in una penombra confusa di ombre rosse e calde
che gli si
confondono davanti.
Sente la propria
voce, ma non sa cosa sta dicendo.
Poi le ombre
scompaiono ancora, spazzate via da una nuova luce bruciante –
in un lampo
rivede lo scintillio feroce del sole sulle distese di gelo bianco e
bruciante
del Paropamiso, rivede le onde di oro rovente delle sabbie intorno al
punto
verde di Siwa – e per un istante i templi
dell’oracolo non gli sembrano altro
che granelli fra granelli, che rotolano nel vento e si disperdono
nell’aria e affondano
nella terra mentre qualche dio ride. Prova a sollevare un braccio per
coprirsi
il viso, ma non riesce a muoversi; stringe forte gli occhi, alza la
testa e li
riapre, per un attimo vede la mano di Peukestes stretta intorno al suo
polso, e
le sue dita striate di rosso. Così non può
prendere fiato.
La testa gli
ricade
di nuovo indietro. Sente ancora il suono incerto del suo respiro,
mescolato ai
mormorii confusi di Peukestes che urla su di lui e a quei fili rossi di
sangue
che si intrecciano sullo sfondo delle palpebre chiuse e si allargano in
una
macchia liquida e calda – per un momento è
convinto si tratti di onde arrivate
dall’oceano estremo per annegarlo e soffocargli il fiato in
petto, finché da
quella superficie scura riaffiora il viso di suo padre – la
cicatrice pallida
attraverso la palpebra destra serrata sull’orbita vuota, e
l’altro occhio,
incredulo e triste, spalancato su di lui, e la pupilla muta che gli
rimanda la
sua immagine – si rivede chino sul corpo tiepido, rivede le
larghe macchie rosse
che intridono la terra bianca della strada verso il teatro, riascolta
il suo
urlo, riascolta il silenzio rombante di sua madre, e
d’improvviso gli occhi di
lei si spalancano brillando, e tutto il resto (le onde e il volto
pallido di
Philippos e la terra che ha bevuto il sangue) affonda come un sasso
nell’abisso
di pece delle sue pupille e scompare nel balenio improvviso di una
lacrima
sottile e sola che rotola via veloce. Lui può solo guardare
i suoi occhi, grandi
e muti mentre cercano di bisbigliare parole segrete che solo una parte
lontana
di lui riesce a capire, verdi e freddi come le scaglie luccicanti di
due
serpenti che strisciano senza rumore e si arrotolano e spalancano
bocche
sibilanti e divorano le proprie code.
Poi, un guizzo
invisibile – e urla quando sente un dente affilato
affondargli d’improvviso nel
petto e mordere ancora. Spalanca di nuovo gli occhi e vede il viso
allucinato
di Peukestes che cerca di sorridere – e un altro morso, e un
altro viso. Ora
Aristoteles gli spalma qualcosa sul braccio ferito, e un ragazzo posa
la mano
sulla sua spalla e lo guarda, e sente la sua voce dolce e fresca che
gli parla
– “alogistos eis,
sei un incosciente,
perché ti butti sempre senza pensare?” –
gli sta dicendo – “devo sempre starti
dietro” – e lui vorrebbe rispondergli –
“io penso, Hephaistion” – ma il tempo
è
già cambiato con il respiro che ribolle di nuovo nel sangue
e brucia come il
vino rosso nelle fiamme che hanno consumato Persepolis. Si ferma a
guardare –
si ferma a guardare il fuoco che sale e sfida il cielo freddo di una
notte
urlante, ed Hephaistion gli è di nuovo vicino, lo prende per
un braccio e lo
scuote appena – “apoleipe,
vieni via,
lascia perdere, Alekos, lascia stare, vieni via” –
ma lui non si muove, continua
a fissare il fuoco come se finalmente lo riconoscesse. E le fiamme sono
sempre
più alte, e ora sono diventate silenziose, perché
non hanno più bisogno di
parole né di crepitii; si aggrappa ad Hephaistion e stringe
e non sa decidersi
a fare un passo indietro. E qualcuno lo chiama, da oltre il muro
silenzioso
delle fiamme – è una voce tremante, che striscia
incerta fino a lui – Kyrie.
Kyrie.
Vede Philotas,
con
gli spuntoni scheggiati e anneriti di sangue delle frecce macedoni
piantati in
petto, che lo saluta con un cenno del capo prima di ricominciare a far
rotolare
nella mano i dadi e gettarli, lentamente, sul terriccio melmoso di una
cella,
dove Kallisthenes è seduto con un foglio di papiro spiegato
sulle ginocchia,
impegnato a guardarlo con gli occhi concentrati e introvabili,
affondati nelle
orbite nere di un viso scheletrico.
Kyrie.
Parmenion lo
chiama
sorridendo sdentato e gli tende le braccia, e scopre il taglio profondo
nel
petto. E mentre lui resta fermo, raggelato, a guardare i lembi
slabbrati di
pelle, arriva alle sue spalle la voce stentata di Kleitos che biascica
qualcosa
su Philippos. Si preme le mani sulle orecchie per non ascoltare e si
volta
attorno per cercare Hephaistion, ma quando sente il suo braccio
chiuderglisi
sulle spalle, lo chiamano ancora.
Kyrie.
Qualcuno gli
solleva
la testa, e quando socchiude gli occhi vede su di sé le
maschere contorte e
violacee di persone che non crede di riconoscere. Qualcuno si china
appena e
ricomincia a parlare: “Kyrie, akoue
kyrie, tamein dei kai, Signore, ascolta Signore, bisogna
tagliare.” Sente
la sua stessa voce graffiargli la gola mentre sputa fuori le parole
– “fa’
quello che devi, sbrigati” – e in bocca il sapore
del sangue che scivola via
dalle sue labbra con un respiro e gli percorre la guancia.
Poi, il morso
più
profondo e velenoso di tutti.
Sente il proprio
urlo in un lampo di luce scura – rovescia la testa indietro a
torna a vedere il
buio di un cielo notturno, mentre le fiamme gli covano in petto e
stridono e lo
attraversano per allungarsi a divorare le stelle, finché non
rimane altro che
un infinito velo nero e gelido.
Ovunque guardi,
si
estende pianura deserta e spaccata dal sole nell’aria
polverosa.
Sotto i suoi
piedi
la terra scricchiola e granelli di polvere rossa si sollevano e
ondeggiano
pigri, urlano ammutoliti mentre fluttuano senza un senso e danzano
folli
(follli, folli, dove vorrebbero andare?) e ricadono lenti e sconfitti
–
sconfitta lenta, senza sangue – sconfitta silenziosa, senza
bagliori
d’armatura.
Pochi di quei
granelli non ricadono. Si arrampicano nell’aria, verso
l’alto e, quando
scompaiono, dei punti luminosi brillano nel cielo lontano oltre il velo
d’aria
bollente.
E la terra
scricchiola ancora mentre le mura di una città crollano alle
sue spalle. Ma lui
non si volta, e guarda i bagliori appuntiti oltre la polvere
– lui li vuole,
vuole bagliori d’armatura mentre la terra ondeggia e gli
chiede – “da dove
vieni?” Appoggia lo scudo ai suoi piedi, si toglie
l’elmo e ascolta le parole
antiche che arrivano correndo sul vento da ogni parte –
“chi sei?”
E lui si volta
attorno e urla – “quello che ti ha calpestato oltre
il confine.”
Pianta la spada a
terra – e la terra ruggisce e ondeggia, si spacca (taglio,
ferita, ferita
profonda, ferita veloce) – fragore di roccia che si infrange,
schiocchi di
lastre che si staccano – vento che sibila e ripete le sue
parole in ogni dove,
voragine che si spalanca.
Quando
l’eco del
grido si spegne, sente il sangue risalirgli la gola e uscirgli di bocca
– gli
manca il respiro d’improvviso mentre la terra ride appena.
Cade in ginocchio,
cerca di nuovo l’aria mentre la polvere gli si attacca al
palato, le mani si
tagliano sulle rocce lucide del bordo aspro della voragine e gli occhi
si
fissano su quel fondo lontano, oscurato da un’ombra
scintillante di bagliori
del colore del fuoco. E mentre guarda fisso, quasi dimentica di
respirare.
Sente una goccia di sangue scivolargli dalle labbra, la vede cadere
sempre più
veloce finché non riesce più a distinguerla; e
dopo qualche tempo, sul letto
d’ombra si alza un groviglio di fiamme che crepitano e
cominciano ad alzarsi.
Tende un braccio
sul vuoto – sente il calore del fuoco arrivare fino al palmo
pallido della sua
mano, sente che potrebbe cadere – ma qualcuno gli afferra una
spalla, e lo tira
indietro. “Vieni via, vieni con me. Sono qui.” La
voce di Hephaistion è ancora
fresca attraverso la polvere dell’aria, disperde il crepitio
rabbioso del fuoco
e lo scricchiolio della terra.
Si sente
d’improvviso stanco – sente la testa pesante sul
collo, non riesce a sollevare
il petto per prendere fiato, combatte per non chiudere gli occhi. Si
volta a
fatica per guardare Hephaistion – ma non lo trova.
Stringe gli occhi
e
li riapre – ma non c’è nessuno. Affonda
le mani nella polvere e si tira in
piedi.
Dietro di lui, la
pianura è oscurata d’improvviso da un ordinato
esercito di ombre schierate.
Guarda con gli
occhi che bruciano i loro contorni confusi e i loro visi informi, e
domanda a
bassa voce: “Dove sei?” Le ombre ondeggiano appena
e sibilano qualcosa di
incomprensibile. “Dove sei?” – si passa
una mano sul viso e la allontana
macchiata di sangue – “dove sei?”
– polvere bollente, macerie di una città
crollata – “dove sei?” – ombre
gelide, il suono irritante di un cavallo che si
avvicina da qualche parte – “dove sei?”
– il vuoto dietro di lui, ombra e
fuoco. “Dove sei?” – grida di nuovo, e
grida, e grida, finché non lo sente
rispondere.
“Qui.
Sono qui.”
Allora crolla a
terra senza sapere come.
Poi,
più niente.
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Capitolo 2 *** Pyr ***
Pyr.
Sole. Luce
abbacinante. Sudore e polvere.
E acqua.
Il fragore della
corrente che sembra ingoiare tutto, le voci degli uomini e i nitriti
dei
cavalli che gli si conficcano nelle tempie, come aghi dolorosi.
Si passa una mano
sulla fronte premendosi le dita tra le sopracciglia.
Suoni, odori
familiari come la sua stessa pelle, la cacofonia sconnessa
dell’accampamento –
sempre la solita, sempre uguale a se stessa.
Da qualche parte
il
pianto isterico di un bambino e la voce di una donna, lo scoppio
fragoroso di
una risata e, lontana, la musica bianca e soffocata di un aulos.
Dolore dietro le
palpebre. Calore. Sole indiano, senza pietà.
“Hephaistion,
ti
senti bene?”
Sussulta, come
fosse stato improvvisamente richiamato indietro da un sogno. I contorni
delle
cose ritornano vividi, quasi insopportabili sotto la luce accecante.
Socchiude gli
occhi
e scuote la testa. L’odore selvaggio dell’acqua lo
riassale con la violenza di
uno schiaffo.
“Sto
bene. Non
preoccuparti, Nearkhos. Ho solo avuto un capogiro.”
L’altro
sospira,
mettendogli una mano sulla spalla.
“Amico
mio,
lasciami dire che hai una pessima cera oggi. Forse ti sei preso una
qualche
febbre. Il povero Demostratos, l’altro giorno, si lamentava
nel letto con le
budella disciolte. Ne ha avuto per più di tre giorni, non la
riusciva proprio a
tenere. Questo maledetto clima indiano sta facendo diventare isterico
anche
me.”
Hephaistion si
sforza
di sorridere; il dolore alle tempie è un martellare
continuo, una pulsazione
ritmica e attutita dietro gli occhi. E l’acqua. Il sentore
dell’acqua che lo fa
impazzire.
“Non
è niente. Solo
un po’ di stanchezza. Ho appena finito il giro di ispezione e
passato in
rassegna le mie truppe; voglio che l’accampamento sia attivo
e pronto alla
partenza per quando Aleksandros tornerà, e questo vale anche
per le tue navi.
Ci metteremo in marcia non appena l’esercito sarà
qui e la tua flotta
dev’essere pronta a riprendere la navigazione il prima
possibile.”
Nearkhos
annuisce.
Hephaistion è sempre stato impeccabile e molto esigente
nello svolgere i suoi
compiti, è riuscito a organizzare l’immenso campo
base in poche ore, ed è grato
che sia lui a sovrintendere e coordinare i lavori di riparazione delle
navi. È
un uomo intransigente, lo conosce bene, ma nessuno riesce a eguagliare
la sua
efficienza.
Lui invece
è
diverso – cretese fino al midollo – e
l’acqua è il suo elemento. A terra si
sente mancare l’aria come un gabbiano insabbiato. Ma ha
dovuto adeguarsi.
Essere al seguito
di Aleksandros significa abituarsi a molte cose.
Si volta verso il
fiume a osservare la lunga fila di immense galee splendenti nel sole,
le lunghe
trireme dalle chiglie lucide e dalle polene scolpite, i piccoli e
leggeri
polischermi dipinti di rosso e l’intricata foresta di remi
inerti sotto il
sole.
La corrente
dell’Acesines è un rombo cupo, un suono basso e
continuo come il respiro
rabbioso di un gigante.
Quelle correnti
l’hanno colto di sorpresa, lui che conosce mari e fiumi come
il suo stesso
sangue – hanno afferrato le sue navi in un abbraccio letale,
subdolo come
quelle acque straniere e lontane.
I genieri di
Hephaistion sono al lavoro da due giorni ormai, ininterrottamente, e
presto le
imbarcazioni saranno pronte per riprendere la via del fiume, verso
l’oceano. Aleksandros
ne sarebbe rimasto molto soddisfatto, una volta tornato dalla sua
caccia.
Si volta verso
Hephaistion, che sembra di nuovo remoto e sofferente, la mano sulla
fronte
contratta e segnata da un solco profondo.
“Credo
che dovresti
andare nella tua tenda a riposare, Hephaistion. Ti ripeto che hai un
aspetto
terribile. I lavori stanno procedendo alla perfezione,
rimarrò io qui ad
assicurarmi che gli uomini seguano le tue istruzioni e non battano la
fiacca.”
Hephaistion
scuote
la testa e socchiude gli occhi scuri, incapace di sopportare
l’alone di luce
che sembra avvolgere tutto in un involucro soffocante, poi richiama con
un
gesto uno dei suoi attendenti.
“Devo
andare a
controllare i carri degli approvvigionamenti e lo stato delle scorte di
grano,
voglio farmi un’idea precisa delle nostre riserve prima di
rimetterci in marcia
verso l’Indo. Sarà un lungo cammino fuori dalle
rotte di rifornimento e non
voglio avere sorprese.”
Nearkhos alza le
spalle. Hephaistion ha un dono per queste cose, l’ha sempre
avuto fin dai tempi
di Mieza, quando studiavano assieme con il vecchio Aristoteles.
Riuscirebbe a
far quadrare un cerchio. Aleksandros vagheggiava di terre lontane e di
città
leggendarie; Hephaistion, adesso, gliele costruisce.
“Come
vuoi tu.
Passerò dalla tua tenda più tardi. Cerca di
riposare almeno un po’.”
Hephaistion lo
congeda con un sorriso veloce – più simile a una
smorfia – e una pacca sulla
spalla. Poi, si avvia nell’altra direzione.
L’accampamento
gli
scorre accanto, un’informe massa sfocata di sagome e profili,
ombre iridescenti
appena visibili dietro le palpebre socchiuse. Il respiro è
una lama affilata
nel petto, un fendente sanguigno che sembra lacerarlo a ogni passo.
Si ferma,
cercando
un appiglio – squarci intermittenti di rosso gli lampeggiano
davanti agli occhi
e su tutto una luce fulgida, cattiva.
“Mio
Signore
Hephaistion, che cos’hai, non ti senti bene?”
La voce
preoccupata
del giovane scudiero risuona distante, un’eco appena
percepibile dietro la
superficie appannata della coscienza.
“È
tutto a posto,
Aleksias. Suppongo solo di non essere fatto per questo stupido sole
indiano.”
Il ragazzo
annuisce
con energia – nervoso, sollecito. La vita pare crepitare in
lui, sembra
giovane, così giovane che guardarlo fa quasi male. Si chiede
se anche lui sia
stato così, un tempo – quanto tempo? Anni? A volte
sembrano solo migliaia e
migliaia di vite.
Le voci e i suoni
gli arrivano attutiti, come strisciassero sull’aria simili a
serpenti.
Gli schiamazzi
dei
soldati che giocano ai dadi o incitano i galli in un combattimento, le
risate
dei bambini e le grida delle loro madri, il suono dei flauti e il canto
degli
aedi, e poi il cicaleccio continuo dei mercanti e degli interpreti, le
cantilene dei giocolieri, il viavai degli schiavi. Un flusso costante
di rumori
e parole biascicate, di musica soffusa e frastuono assordante,
così familiare
da essere parte di lui, ma che adesso gli è estraneo come il
grido strozzato di
un nemico in agonia.
Dappertutto il
blaterare incomprensibile degli sciti e dei battriani, dei traci e di
quei
pochi indiani che hanno deciso di seguirli in cerca di fortuna. Ha
imparato
molti di quegli idiomi, eppure adesso gli arrivano simili a un
borbottio
indistinto, poco più che singhiozzi sconnessi, primordiali.
Infine, ecco il
colpo decisivo, come lo aspettasse. Uno scoppio di luce abbagliante
davanti
agli occhi, una ragnatela feroce di sangue che lo acceca, e il respiro
ricacciato giù in gola come una massa aggrovigliata di fili
incandescenti.
(Alekos)
Cade in
ginocchio,
incapace di respirare. Annaspa per ritrovare l’aria che
sembra essere scomparsa
improvvisa dai suoi polmoni, si aggrappa alla terra raschiando il suolo
polveroso e strappando fili d’erba avvizzita.
(Alekos)
Il ragazzo
è chino
su di lui, grida qualcosa ma non riesce a sentirlo, la sua faccia
è solo un ovale
sospeso, un’ombra informe e priva di significato.
Poi passa
–
violenta com’è arrivata – e lui
è risucchiato indietro con forza da artigli di
fuoco. Il mondo riacquista i suoi contorni, le voci tornano a essere
distinte,
riconoscibili.
(Alekos)
Si rimette in
piedi
a fatica, stentando a riprendere il controllo di un corpo che sente
improvvisamente estraneo e si sforza di sorridere al ragazzo,
impietrito dalla
paura.
“Mio
Signore, che
cos’è successo? Improvvisamente
tu…”
Hephaistion si
guarda attorno e nessuno, a parte loro, sembra essersi reso conto di
ciò che è
accaduto – sì, ma che
cosa è accaduto?
Che cosa? Appoggia una mano sulla spalla del giovane e la
stringe appena.
“Accompagnami
alla
mia tenda. Non preoccuparti, starò bene, ma adesso andiamo.
Ho bisogno di avere
dell’acqua.”
Si avviano
lentamente. Si sente barcollare ma cerca di rimanere in piedi. Un
sapore
metallico gli invade la bocca – il sapore del sangue.
(Alekos)
L’interno
della
tenda è fresco e in penombra. Per un attimo rimane quasi
accecato dall’oscurità
dopo l’abbacinate sole pomeridiano e si lascia cadere
pesantemente su una
sedia.
Il ragazzo gli
porta una bacinella e lui vi immerge le mani avvertendo una scossa
dolorosa. Se
le porta al volto che brucia come erba secca, e il contatto lo
riconduce alla
realtà. L’acqua è fredda, si conficca
come uno stiletto acuminato nella pelle.
“Va’
a chiamare il
generale Ptolemaios.”
Il giovane sbatte
le palpebre confuso, incapace di parlare. Hephaistion gli sorride
dandogli una
pacca sulle spalle.
“Sto
bene, non
preoccuparti. È passata. Adesso però
va’ a chiamare Ptolemaios.”
Aleksias rimane
ancora un istante a fissarlo in silenzio, poi sgattaiola via veloce,
richiudendo il lembo della tenda dietro di sé.
Hephaistion si
passa la mano sugli occhi. Non riesce nemmeno a pensare, sente solo
quel
rivoltante sapore di sangue e il sibilo serrato del suo respiro.
(Alekos
– oh, Alekos, stai bene?)
Il tavolo
è
ingombro di mappe, carte, dispacci, schemi e disegni che capisce solo
lui. In
un angolo giace dimenticato un foglio di papiro dove stava annotando i
turni di
guardia per le sentinelle della ronda notturna.
Lo afferra e la
mano gli trema. Ha sempre avuto una stretta salda come ferro, ma ora il
braccio
vibra come percorso da una febbre.
La tenda si apre
lasciando filtrare un’ondata di bianco e Ptolemaios si fa
avanti nello spazio
immobile, una figura scura stagliata contro la fulgida
luminosità dell’esterno.
Sembra annientato dal caldo e dal sole, ha il volto polveroso e segnato
dalle
rughe. Gli appare improvvisamente troppo alto e troppo magro,
l’ombra malata di
un estraneo.
“Non
hai una bella
cera, Ptolemaios. Che cosa c’è, Thais ti tiene
sveglio la notte?” Tenta una
risata che però non è niente più che
un gracchiare sordo.
“Senti
chi parla, e
tu invece? Sembri un morto che discorre, Hephaistion. Il ragazzo mi ha
detto…”
“Lascia
perdere che
cosa ti ha detto il ragazzo, sto benone. È solo che non
sopporto questo posto.
Un colpo di sole. Non morirò certo per questo.”
“Ah, no
di sicuro, non
con quella tua pellaccia dura. Nondimeno, faresti meglio a riposare un
po’. Non
ti sei fermato un attimo da quando siamo arrivati qui. Già
me lo sento,
Aleksandros. Dovesse vederti ridotto così, caverebbe gli
occhi a tutti noi.”
Hephaistion agita
la mano nell’aria in un gesto spazientito.
“Si
vede che non lo
conosci. Un amante dell’efficienza come lui ci caverebbe gli
occhi se
battessimo la fiacca, vorrai dire. E comunque sì, mi
riposerò un paio d’ore.
Puoi occuparti tu dei carri provviste e controllare gli stalli dei
cavalli? I
tessali sono efficienti, ma le baracche degli animali sono un disastro.
Hanno
usato foglie di palma e bambù, non è un riparo
sufficiente. Li ho messi a
lavoro, ma vanno controllati. Non voglio che i cavalli rimangano sotto
questo
sole, li ucciderebbe.”
Ptolemaios
annuisce. “L’avrei fatto comunque. Tu finisci di
dare un’occhiata ai turni della
ronda appena ti sei ripreso, sai che io impazzisco su quella roba.
Ah,” una
pausa, “è appena arrivato Krateros con i maledetti
elefanti.”
L’ha
detto quasi
per caso, è riuscito persino a sembrare indifferente. E
bravo Ptolemaios,
questo deve riconoscerglielo.
Hephaistion si
porta una mano alla fronte, massaggiandosi le tempie.
“Bene.
Ci penserò
più tardi. Gli elefanti vanno sistemati quanto
più possibile lontano dai
cavalli. Li spaventano.”
“Suppongo
che se ne
stia occupando lui in questo momento.”
“Tanto
meglio.”
“Vuoi
parlarci?”
Hephaistion si
allunga all’indietro sulla sedia, distendendo le gambe e
chiudendo gli occhi.
“Dei del cielo, no. È già abbastanza
che debba trovarmi con lui nello stesso
posto e sotto lo stesso cielo. Preferirei rimandare, se non ti
dispiace.”
“Non
era dell’umore
migliore, Hephaistion.”
“Lo
immagino. Non
gli va a genio di doversi trovare ai miei ordini in questo
accampamento. Non ha
mandato giù che Aleksandros abbia lasciato a me il comando
di questa spedizione, se
così possiamo chiamarla.”
Ptolemaios si
appoggia al tavolo ingombro, facendo cadere alcune carte che
raggiungono il
pavimento fluttuando pigre.
“Hai
detto bene,
una specie di spedizione. Né io né te abbiamo
trovato l’ombra di un solo
maledetto mallo. Dovevamo catturare i fuggiaschi, se non sbaglio. Tu
eri cinque
giorni di marcia avanti a lui, e io tre giorni indietro. Una trappola
perfetta.
Ma non se ne è visto nessuno. Scomparsi. La domanda
è: dove sono?”
Hephaistion si
passa una mano tra i capelli in un gesto nervoso. Si sono allungati,
dovrà
tagliarli prima o poi.
“E
c’è un’altra
cosa, Hephaistion,” continua Ptolemaios, “Krateros
si aspettava di trovare Aleksandros
all’accampamento. La sua marcia è stata rallentata
dagli elefanti e dalle
salmerie. Pensava che Aleksandros avrebbe sistemato la faccenda con i
malli nel
tempo impiegato per arrivare qui, e invece di lui nemmeno
l’ombra. Ora,
Krateros potrà anche non piacerti, ma non ha tutti i torti.
A quest’ora
Aleksandros avrebbe già dovuto essere
all’accampamento, e da un pezzo.”
Lo fissa in
silenzio, ma l’espressione di Hephaistion è
indecifrabile, i lineamenti lignei
e contratti di maschera.
“L’hai
detto anche tu, Ptolemaios. Non abbiamo trovato malli. A questo punto
è logico
pensare che si siano rifugiati tutti nelle loro roccaforti, nella
regione tra
l’Acesines e l’Hydraote, dove Aleksandros aveva
tutta l’intenzione di stanarli.
L’avranno tenuto occupato più del dovuto, dovresti
sapere che non è da lui
lasciare le cose a metà. Probabilmente sarà
già sulla via del ritorno. Ce lo
vedremo piombare qui da un momento all’altro.”
Ptolemaios
continua
a fissarlo in silenzio. Hephaistion sente di non riuscire a sopportare
quello
sguardo inquisitore un attimo di più.
Si alza, tentando
di non dare a vedere quanto gli costi, e si avvicina a un basso
tavolino in
legno intarsiato – un dono di Aleksandros – poi
afferra una coppa, versandosi
del vino.
“Se lo
dici tu. Hai
certamente ragione, sarà stato impegnato più del
previsto. Sì, sarà certamente
così.”
Hephaistion porta
la coppa alle labbra. La mano gli trema; con uno sforzo di
volontà riesce a
mantenere una presa ferma e ingoia il caldo liquido speziato tutto
d’un sorso. Il
vino sembra bruciargli nella gola, scavare un solco rovente fino alle
viscere.
Ptolemaios lo sta
ancora fissando.
“Hephaistion.”
Una
lunga pausa. “Lui sta bene, vero? Pensi che stia bene, non
è così?”
Hephaistion
sbatte
con forza la coppa sul tavolo, mandandola in frantumi. Il vino si
sparge come
una macchia di sangue sul ripiano, densa e viscosa. Gli sembra di
sentirne di
nuovo il sapore in bocca, nella gola – corrodergli la piaga
scavata dal vino.
Per un attimo trattiene il respiro mentre un grido gli si blocca nel
petto,
come un nodo di fuoco lancinante.
(Alekos)
Ptolemaios
è
rimasto a guardarlo a bocca aperta. Deve dirgli qualcosa.
“Sta
bene. Cosa
credi che direbbe se ti vedesse così, come una donnetta in
preda al panico?
Avanti, Ptolemaios, non è la prima volta che siamo lontani
da lui durante
qualche campagna, cosa ti fa pensare che possa essere diverso? Si
starà
divertendo a dare la caccia ai malli in lungo e in largo,
tornerà indietro non
appena avrà ritenuto conclusa la faccenda. Adesso facciamola
finita. Ci stiamo
comportando come due mogli isteriche, se non te ne sei
accorto.”
Ptolemaios emette
una risata nervosa, simile a un lamento.
“Non
posso darti
torto. Bene, finiamola qui. Vado a dare un’occhiata agli
elefanti e a parlare
con Krateros. Verremo qui tutti e due più tardi,
così possiamo finire di
esaminare quelle mappe. Tu intanto riposati. Hai davvero un aspetto
terribile,
se ancora non te l’ho detto.”
Hephaistion
impreca
tra i denti. “Neanche tu sei esattamente un fiore,
Ptolemaios. Se fossi Thais
ti terrei a debita distanza dalla mia tenda.” Si sforza di
ridere. “A ogni modo
farò come dici, e porta i miei omaggi di benvenuto a
Krateros.”
Ptolemaios gli
indirizza un insulto incomprensibile ed esce dalla tenda, nel caldo sole
diurno.
Hephaistion
rimane
per un attimo a fissare il lembo di stoffa che si ripiega su se stesso,
sigillando fuori i rumori insensati del campo e quella luce malata che
sembra
piantarglisi nella carne come un chiodo vivo. Si accorge con disgusto
che ha la
mano appoggiata sulla viscida chiazza di vino e la tira via con
un’imprecazione, facendo precipitare i cocci della coppa sul
pavimento.
Si sfila il
corsalino di tela e si lascia cadere sul letto, portando una mano alla
fronte.
La pelle scotta, è ruvida ed essiccata. L’aria
pare improvvisamente non
essergli più sufficiente, scivolargli via dalla gola come da
una ferita aperta.
(Alekos)
Occhi pesanti,
coltri di lana in una notte d’inverno – e il petto
che si alza e si abbassa
mentre l’aria esce a fiotti in un sibilo ininterrotto.
La
realtà scivola
via su di un piano inclinato verso il nulla, una discesa vertiginosa,
uno
stordimento che lo attira in una voragine di roccia spaccata e
dolorante, in
una terra di nessuno di città in rovina, Dei sconosciuti e
carne corrotta.
Fa un disperato
tentativo di tirarsene fuori mentre il terrore gli scava la gola come
una lama
appuntita, annaspa per ritrovare la strada, risalire verso la luce, ma
ecco che
la sente per la prima volta, ecco che sente la sua voce, chiara e
distinta come
un comando gridato in battaglia.
Dove
sei?
Si volta, e
percepisce le fiamme lontane arrivare fino a lui, raggrinzirgli la
pelle delle
braccia, ustionargli il volto come fossero lì, tutte
attorno, in una fornace di
calore.
Dove
sei?
Lo sta chiamando,
la voce emerge come un’onda dal passato, la voce del ragazzo
che adesso non è
più, quando nelle notti di Mieza invocava il suo nome dopo
aver sognato il
fuoco. Lo sogna ancora? Sono passati così tanti anni. Tanti,
tanti anni.
Dove
sei?
Eppure lo sta
chiamando, può sentire lo schianto acuminato del terrore
nella sua voce, e
allora si dibatte per uscire da quel vuoto incandescente, per
raggiungerlo, per
trovarlo.
Aleksandros
Lo chiama con
tutto
il fiato che ha in gola, ma la voce non esce sebbene possa sentire i
polmoni dilatarsi
ed emettere un fiotto d’aria violenta.
Aleksandros
Lo chiama ancora,
e
avverte l’aria riarsa muoversi attorno a sé,
scavargli un passaggio mentre si
sposta nel morbido bozzolo di calore, cercando di farsi strada tra le
rocce
aguzze e le lingue di fuoco.
Aleksandros
Lo percepisce
ancora prima di vederlo – il suo semplice esistere. Ne
è cosciente come lo è
sempre stato, la consapevolezza della sua presenza, il pulsare vibrante
della
sua vita, adesso attutito e veloce, ma vivo, caldo come il corpo
dell’uccellino
che una volta – in un’
altra esistenza?
– aveva tenuto tra le mani, per deporlo di nuovo nel nido da
cui era caduto.
Dove
sei?
Un urlo, ruvido e
disperato come un graffio.
Qui.
Sono qui.
Si sveglia con un
grido soffocato. La tenda è buia,
l’oscurità densa e vischiosa. Lo squarcio di
cielo che riesce a vedere è nero e striato
d’argento.
Si passa la mano
tra i capelli appiccicosi, gemendo piano. La pelle gli brucia ancora,
mentre il
sudore va asciugandosi lentamente sulle spalle nude.
Aleksandros
Lo mormora a voce
alta, il sussurro si rompe in un singhiozzo.
Aleksandros
Allunga la mano
verso l’oscurità invocando una risposta, ma
attorno a lui c’è solo tenebra
fredda e muta.
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Capitolo 3 *** Hydor ***
Hydor.
Lo hanno
morso ancora – ancora, e ancora. Alla fine non è
più riuscito a distinguere la
tregua dal dolore e ha smesso di sperare in un soffio d’aria
tranquilla.
Nell’ultimo,
incalcolabile istante di calma ha rivisto un ragazzo fermo sul margine
di un
dirupo – il crepitio di una pietra che rotola e rimbalza
lungo la parete di
roccia e salta in un vuoto senza suono.
Poi la
terra
si è spalancata ancora e per l’ultima volta sotto
i suoi piedi, e lui non ha
più avuto il tempo di guardarsi attorno per cercarlo. Si
è lasciato precipitare
senza un grido. E ha pianto quando ha capito che, per la prima volta,
non ha
più forza per combattere.
Ma forse
è
così che doveva andare, da ogni tempo. Forse tutto era stato
preparato.
Nel buio
caldo, la grande mano divertita di un dio senza volto stringe il suo
cuore.
–
– –
Leonnatos
è
chino su di lui, con la mano sospesa sopra il suo petto. Non osa
toccarlo.
Riesce a guardare per qualche momento le labbra pallide, poi stringe
gli occhi
con forza. Sa che, quando li riaprirà,
lui sarà lì a fissarlo con un
sopracciglio sollevato, e gli chiederà cosa
vuole.
Ma riapre
gli
occhi e non è cambiato niente.
I
mormorii di
Perdikkas e Peukestes lo infastidiscono. Si rialza lentamente, e si
allontana
di un passo senza voltarsi. “Come sta, iatré?”
Gli altri
sussurri cadono mozzi e senza senso nella penombra della tenda, e il
medico
sospira senza alzare la testa. Seduto in un angolo, continua a macinare
qualcosa in un pestello, le spalle curve e i capelli che gli ricadono
sul viso.
Si vede solo la piega infastidita delle labbra strette. “Non
riesci a vederlo
da te, come sta?”
Il rumore
sordo del mortaio.
Perdikkas
apre la bocca per dire qualcosa, ma senza rendersene conto la richiude
lentamente mentre osserva con occhi stupiti
l’immobilità di Aleksandros.
“Adynaton
esti. Non è possibile.” Una delle
candela guizza per l’ultima volta e si
spegne – un lampo rosso e oro balena più forte e
scompare. Per qualche momento
è certo di essere rimasto senza luce e, mentre fruga nella
penombra, vede a
fatica i guizzi incerti di altre fiamme.
“Adynaton,”
ripete senza accorgersene.
Peukestes
lo
guarda infastidito con la coda dell’occhio, e scuote la testa
con una smorfia. Non pensare a cosa
è impossibile, ora.
Si passa una mano sulla faccia. “Iatré,
non era questo che volevamo
sapere. Sai cosa intendiamo.”
“Sì.”
Philippos bagna il mortaio in una ciotola su un tavolo vicino e
riprende il suo
lavoro. Gli altri aspettano, ma non dice altro.
Poi,
l’eco
della ciotola che viene sbattuta a terra e continua a oscillare.
Leonnatos la
guarda a denti stretti, con il braccio ancora sospeso e la mano
contratta,
finché non la schiaccia sotto un piede. “Allora, iatré,
ci prendi in
giro?”
Philippos
si
ferma, guarda le schegge di coccio rosso confuse sul pavimento.
“Non l’avresti
fatto se lui fosse stato sveglio.”
Peukestes
posa una mano sulla spalla di Leonnatos e lo tira indietro.
“Se lui fosse stato
sveglio noi non saremmo qui.”
“Bene.”
Il
medico lascia il pestello sul tavolo e con un sospiro si china a
raccogliere i
pezzi della ciotola. “Avete intenzione di distruggere tutto,
allora?, perché
lui non è sveglio?” Rigira i frammenti impolverati
fra le mani e in silenzio
prova a farli combaciare ancora. Ma ne manca uno, e capisce
all’improvviso che
non potrà ritrovarlo. Gli tremano le labbra
finché non le stringe in una
smorfia.
Perdikkas
si
riscuote con un brivido. Gli bruciano gli occhi. “Ma lui si
sveglierà. Dicci
solo fra quanto.”
“Ah,
sì. Tra
quanto. Quanta sicurezza.” Si alza con le mani premute sulle
reni, e resta
fermo a guardare Aleksandros. “Quanta sicurezza. Siete sicuri
che andrà proprio
come volete.” Scioglie il nodo di un panno che tiene legato
alla cintura, ne
stringe lentamente un’estremità e la immerge nel
pestello. “Non giocate a fare
come lui. Non ne siete capaci.” Si avvicina al letto.
“Perdereste, lo sapete.”
Leonnatos
vorrebbe dire qualcosa, ma mentre lo osserva passare il panno sul viso
di
Aleksandros pensa d’improvviso di aver già fatto
troppo rumore. Si morde un
labbro e si ritira di qualche passo, fermandosi nell’ombra
dietro alle spalle
di Peukestes.
Philippos
non
lo vede; preme il panno sulla fronte liscia e immobile, e non sa come
parlare.
“Non ho la vostra sicurezza. Tantomeno so quando si
sveglierà.”
(Sono
stanco. Tu sei stanco, mio Re?)
Lo guarda
–
viso pallido, orbite scure, labbra socchiuse – e il soffio
d’aria che va e
viene dal foro nel fianco, sottile e lento. “È
come morto, ma respira ancora.”
(Sei
stanco, mio Re, o solo lontano?)
“Credi
che
possa sentirci?”
Philippos
non
capisce chi abbia parlato. Si volta verso di loro, ma non trova che tre
statue
di sale coperte di vestiti militari, fisse e concentrate.
“Non
lo so.”
“La
verità è
che non sai niente.” Leonnatos cerca qualcosa da aggiungere
ma non riesce.
Scuote la testa confuso. “Eis korakas,
iatré. Va’ in malora, medico
maledetto,” sputa fuori, poi si volta e se ne va silenzioso.
“Ha
ragione.”
Philippos prende una mano di Aleksandros e la solleva appena.
“Non so niente.”
La lascia andare; la osserva ricadere.
“Solo
lui può
saperlo.”
–
– –
Niente di
più. Niente di meno.
Il suo
maestro gli parlava della morte – ma non sapeva.
I
filosofi
parlano della morte – ma non sanno.
Sogni e
inganni – campi infiniti, vite da scegliere e destini presi
in sorte per
disegni sconosciuti, occasioni perse o guadagnate. Sogni e inganni
costruiti
con pazienza e attenzione, senza sapere e senza cattiveria. Quante
belle
parole.
La
realtà è
buio silenzioso e caldo.
(Ma
c’è ancora una realtà, qui?)
Niente di
più. Niente di meno.
Ha
l’impressione di soffocare. Ma non è possibile. Adynaton,
come ha detto
qualcuno – o l’ha solo sognato?
Poi, in
un
solo momento
(ma
c’è ancora il tempo, qui?)
viene la
paura.
Non
è la
paura di uno scontro che abbaglia come il sole meridiano e subito viene
offuscato dalle nuvole bollenti di polvere e dalle urla. Non è
la paura lucida e
pungente che scarnifica i contorni delle realtà e illumina i
graffi sanguinanti
nascosti in ogni limite. Non è così. Se lo fosse,
lui non ne avrebbe timore.
È
la paura
dell’eternità inconcepibile –
dell’eternità buia e calda e umida, soffocante e
viscosa come un panno nero imbevuto di veleno.
Si
attacca
alla pelle, serra le palpebre, chiude la bocca. È la paura
di occhi che non
hanno luce per vedere, di una lingua che non ha voce per urlare, di
pensieri
informi che non troveranno più le parole per esprimersi.
La paura
di
qualcuno che non potrà più chiamare
(sì,
ma chi?)
e che non
troverà più nessuno a rispondergli.
Allora
vuol
dire questo, essere un’ombra?
Cerca di
gridare – e sente l’eco riflessa della sua voce, ma
non la sua voce.
È
questa, la
notte che cala sugli occhi?
–
– –
Philippos
rialza di scatto la testa. Con una smorfia infastidita riappoggia la
schiena
indolenzita al bordo del tavolo e si passa una mano sulla fronte
stanca. Si
guarda attorno confuso, socchiudendo gli occhi che bruciano.
Sono
rimaste
accese poche lampade – punti rossi. Le altre si sono spente,
una a una, senza
fare rumore – l’aria densa della notte è
scivolata sotto i margini della tenda,
e ha preso l’odore delle erbe mediche e dell’olio
bruciato. Peukestes è ancora
lì, vicino a lui – dorme con le braccia distese
sul tavolo, la testa appoggiata
su un gomito piegato.
Lo scuote
appena, e quando lo vede scrollare la testa e rialzarla subito, pensa
per un
istante se non potrebbe accadere lo stesso con Aleksandros; forse
potrebbe
scuoterlo per una spalla e chiamarlo indietro – basterebbe?
Guarda la mano
pallida abbandonata sul lino e si morde un labbro.
“Come
sta?”
La voce di Peukestes è roca di sonno, ma suona
improvvisamente sveglia. Gli
occhi lucidi vagano sulla figura immobile senza capire.
“Come
prima.”
“Allora
perché mi hai svegliato?”
“Perché
sta
come prima. Puoi andartene a dormire altrove invece di spezzarti la
schiena sul
tavolo.”
Peukestes
alza le spalle e non risponde. Sì. Cosa stiamo
facendo qui? Si guarda
attorno per cercare qualcosa da bere ma l’unica brocca che
riesce a vedere è su
uno sgabello lontano, e non ha la forza di alzarsi. Cosa ci
sto a fare qui?
Si osserva le dita nodose distese sul piano del tavolo, e senza alzare
lo
sguardo domanda: “Tu stai facendo il possibile, vero iatré?”
Sente il
fruscio del vestito di Philippos avvicinarsi e fermarsi
d’improvviso.
“Voi
state
impazzendo tutti. Quell’altro mi accusa di non sapere niente,
e sta bene. Tu
dubiti che io stia trascurando qualcosa di proposito, e questo no.
Siete allo
sbando.”
“Io
non
dubito niente, iatré.” A un
tratto gli sembra che le sue dita non siano
più altro che delle informi macchie chiare contro lo sfondo
scuro del legno
chiazzato dal vino. “E lo sbando, quello vero, deve ancora
venire. E vedrai che
non tarderà. Lo riconosceremo tutti, quando
arriverà. Ah, sì, eccome se lo
riconosceremo.”
“Non
mi
riguarda, soldato.” Philippos si sciacqua le mani in una
bacinella e volta le
spalle a Peukestes. “Io devo occuparmi di lui, e basta. Per
il resto dovete
vedervela voi.” Si avvicina al letto lentamente –
sente un sibilo continuo
nelle orecchie; scuote la testa per scacciarlo, ma quello peggiora.
“Ah,
iatré, è il
favorito degli Dei. Lo
devono salvare, e lo salveranno.”
“Ah
sì?” Il
medico si china su Aleksandros e scioglie con attenzione i nodi delle
garze
strette attorno al petto.
“Guardalo.”
Allenta le bende – una a una. “Guardalo
ora.”
Peukestes
lancia
un’occhiata veloce alla
figura bianca, alla linea slabbrata e rossa e viola su quel petto
– odiosa e
oscena come il dito di un dio indifferente che prema sotto la pelle e
gli scavi
dentro curioso, cercando qualcosa. Non riesce a guardare ancora
– non ce la fa
– sul tavolo, le sue mani incolori sono così
estranee che lo tranquillizzano.
“Non
riesci a
guardarlo?” Nella voce di Philippos non
c’è scherno – non
c’è irrisione – non
c’è quasi niente. Solo l’eco di una
certezza che si ripresenta ogni volta con
la pretesa di essere ascoltata.
“Gli Dei lo devono
salvare. Proprio tu,
Peukestes?, tu hai tolto la freccia dal polmone del divino figlio di
Zeus, e mi
vieni a parlare di Dei?” Passa un dito sul taglio e storce la
bocca. “Se lui
muore, muore l’unico dio che io conosca, l’unico
che tutti noi abbiamo
conosciuto. Non gli resta che salvarsi da solo.”
(Sempre
tutto da solo, mio Re?)
Sente il
rumore di qualcosa che si rovescia, poi la luce ondeggia in brevi lampi
rossi
accesi da un impercettibile soffio d’aria quando Peukestes
esce dalla tenda.
–
– –
Da solo
è
come se stesse camminando.
Potrebbe
far
impazzire chiunque – il semplice non riuscire a sapere, non
riuscire a capire.
Soffi
d’aria
che gli vengono incontro, lo sfiorano e muoiono contro la sua pelle
– sulla sua
pelle – nella sua pelle – buio nel buio –
ombra nell’ombra – le risacche senza
tempo di vecchi sogni mai sognati, di pensieri inespressi e lasciati
andare, di
parole appena sussurrate.
Poi,
tutto
torna a lui – violentemente –
nell’istante lunghissimo di un battito di ciglia.
Forse gli
uomini non sono altro – immagini e fantasie sullo sfondo
delle palpebre
socchiuse di Kronos, condannati a dissolversi quando il vecchio per un
momento
spalancherà gli occhi sull’abisso buio e
luccicante dell’eternità e darà inizio
al suo pasto.
Il vento
caldo e nero gli porta rumori attutiti.
Bisbigli
lontani.
La
cantilena
inquietante di una filastrocca sconosciuta, scandita da una voce tesa e
sottile
che lo osserva nel buio.
Le risate
di
bambini che si nascondono la bocca con le mani.
Poi, il
mormorio rassicurante delle onde.
Per un
momento gli sembra di vedere il luccichio della spuma che avanza
leggera sulle
creste d’acqua, avvicinandosi alla riva inesistente
– sempre più vicino. Ma
forse non è altro che il riflesso del suo desiderio
irrealizzato che torna a
lui e lo schiaffeggia e lo deride per l’eternità
– l’ultimo sogno
irraggiungibile nel buio e nel caldo – megale
thalassa, thalassa, il
grande mare.
Ha corso
e
sanguinato per una vita, e ora nel suo pugno non ha che il suono amaro
dell’unica meta che gli è sfuggita. Ma anche
questo diventerà sempre più debole
e si dissolverà – e poco dopo, chissà,
svanirà anche lui.
Non ha
paura.
Solo,
sperava
che non sarebbe rimasto solo – lo credeva – lo
sapeva.
Lui
gliel’aveva promesso.
Gliel’aveva
promesso.
Fino
alla
fine. La
fine di tutto. Insieme.
Ora la
fine
gli respira addosso, e lui non c’è.
Cerca di
ascoltare meglio, di sentire se le onde portano anche l’eco
della sua voce.
Ma le
risate
dei bambini diventano all’improvviso troppo forti –
e il suono del mare aumenta
come se fosse reale, e il vento lo stesse gonfiando
di più e di più.
Poi,
qualcosa
di liscio e freddo gli sfiora una mano e una voce infantile gli parla
all’orecchio: “Era questo che volevi.” E
altre due voci riprendono – “la fine”
– “il limite”.
Poco
più
lontano, lungo la riva invisibile, altre cominciano a parlare in una
lingua
sconosciuta. “Sei arrivato dove volevi.”
–
“Thalassa.”
–
“È questo
che senti. Il vero Oceano.”
–
“Gli altri
sono solo pallidi riflessi, cosa credevi?”
–
“È questo
che senti. Il vero limite. Quello che cercavi, quello che volevi.
–
“Oltre non
c’è altro. Sei arrivato al vero limite. Dove solo
noi siamo.”
Silenzio.
Resta solo la bambina che canta lontano – ha ripreso la
filastrocca di prima.
Gli fa
male
la testa. Cerca di premersi le mani sulle tempie e di sentire
l’eco della voce
che lo chiama, da oltre il mare nero – perché lui
sa che lo sta chiamando.
Deve
essere
così.
Lo sta
chiamando.
–
– –
“Come
va?”
Perdikkas spiana con un piede la polvere ammucchiata a terra e si mette
a
sedere.
Peukestes
strappa un filo d’erba ingiallita e lo fa scorrere fra le
dita. “Male.”
“Gli
uomini
sono preoccupati.” Si guarda intorno con gli occhi socchiusi.
Gli bruciano dal
sonno, ma non riesce a dormire. “Si stanno
agitando.”
Sotto di
loro
– attorno a loro – brillano i punti dei fuochi
accesi nell’accampamento, sotto
il cielo che schiarisce lentamente.
Peukestes
si
caccia lo stelo fra i denti e lo morde con la fronte contratta.
“E
nell’accampamento a sud?”
“Li
ho fatti
avvisare subito, lo sai.”
“E
non ti
hanno mandato nessuna risposta?”
Perdikkas
si
piega in avanti e punta i gomiti sulle ginocchia.
“Quale
risposta avrebbero dovuto mandare?” Si stringe nelle spalle.
“Dovremmo
avvisarli di nuovo?”
Si volta
verso l’ombra che vede al suo fianco e la osserva –
si riconosce nella schiena
incurvata, nella testa bassa, nel luccichio degli occhi arrossati che
cercano
di guardare lontano e battono e ribattono contro l’orizzonte
che sbiadisce.
“Per
dirgli
cosa?”
Un cane
abbaia da qualche parte vicino a loro; si sente il tintinnio di una
catena, poi
il verso lungo e cupo di un animale sconosciuto.
“Quanto
tempo
è passato, ormai?”
“Questa
è
l’alba del quarto giorno.” A oriente, banchi di
nebbia umida e vischiosa si
accendono di una strana luminescenza bianca.
“Credevo
fosse di più.”
“Perché?,
ti
sembra poco?” Con una smorfia, Perdikkas si sfila il pugnale
dalla cintura e
traccia dei segni nella polvere, contando di nuovo in silenzio.
“No.”
Peukestes sputa via il filo d’erba e ne strappa un altro.
Comincia a piegarlo e
a spezzarlo. “No. È solo che…”
“Sì,
lo so.”
L’altro alza di nuovo le spalle. “Sembra molto di
più, non è così?”
Peukestes
annuisce in silenzio. Poi volta la testa dall’altra parte, e
continua a voce
bassa: “Cosa faremo se non andrà bene?”
Silenzio.
In
lontananza una sentinella chiama, e un’altra risponde. Di
nuovo silenzio. Poi:
“Non pensarci nemmeno. Gli Dei non devono sentirti.”
“Philippos
dice che gli Dei non se ne preoccupano. Che si sono voltati
dall’altra parte.
Può salvarsi solo lui.”
“Sì.”
Perdikkas osserva i riflessi opachi correre sulla lama del pugnale
mentre la
muove. “Solo lui può salvarsi.
D’altronde, credi che potremmo aiutarlo in
qualche modo ora?”
“Noi?
Non
credo.”
“Noi
no. Noi
non possiamo.” Con un movimento improvviso del polso conficca
la punta del
pugnale nella terra e resta a guardare la lama oscillare in silenzio.
“È solo
lui che può salvare tutti noi.”
“E
nell’altro
accampamento?”
“Che
vuoi
dire?” Si mette in piedi e si appoggia a un palo scheggiato
alle sue spalle.
Peukestes
si
stringe nelle spalle. “Lo sai. Ptolemaios, Nearkhos. Ormai ci
sarà anche
Krateros.”
“Sì.”
Incrocia le braccia sul petto con un sorriso strano. Non li ha elencati
tutti.
“E poi?”
“Poi
c’è
anche lui.” Peukestes continua a
strappare piccoli pezzi del filo d’erba
mentre si alza in piedi. “Come staranno?”
“Peggio
di
noi.”
“A
volte
credo che potrei impazzire. Tutto quello per cui ho sputato sangue se
ne
potrebbe andare in un soffio.” Apre la mano e osserva i
frammenti d’erba cadere
oscillando nell’aria stantia, finché non riesce
più a distinguerli nella
penombra. “Non so pensare come potrebbe essere stare
peggio.”
“Allora
prova
a pensare a come starà lui esattamente
ora.”
Peukestes
incrocia le braccia sul petto e si dondola sui talloni.
“Credi che saprebbe
aiutarlo?”
“Ah,
non lo
so.” Perdikkas agita una mano infastidito. “Non so
cosa pensare, non ho nemmeno
voglia di pensare. Forse. Lo sai come sono, loro. Da quando eravamo
ragazzi.
Sono sempre stati…” si ferma cercando qualcosa
nella penombra. A est, la nebbia
che galleggia sull’orizzonte si fa sempre più
chiara. “Sono sempre stati… loro.
Non so come spiegartelo, ma tanto lo sai anche tu. A volte ho avuto
l’impressione che noi saremmo potuti esserci o non esserci, e
per quei due non
avrebbe fatto alcuna differenza.”
“Sì.
A volte
erano insopportabili.” Un sospiro più forte
– vorrebbe fare una risata, ma
riesce a sputare fuori poco più di un rantolo.
“Ti
ricordi
quella volta?, quando noi eravamo seduti lì intorno al pozzo
e loro…” e adesso
succede una cosa strana – risente il sole e l’aria
fresca di primavera sul
viso, l’odore della resina degli alberi e dell’erba
bagnata, rivede la linea
d’ombra del tetto del portico e i visi di tutti, riascolta la
voce di
Aristoteles e il sussurro di Hephaistion e la risata squillante di
Aleksandros
– è tutto lì, nei suoi occhi, nella sua
pelle, nella sua mente – ma non riesce
a trovare una sola parola. Una sola parola che sappia tirar su un lampo
di
immagine da quel pozzo di ricordi e rovesciarlo nell’aria
afosa che odora di
piante sconosciute. Poi, un solo pensiero gli attraversa la mente con
un sibilo
e gli si conficca nel cuore – ma eravamo veramente
noi?
E dopo
tutte
le veglie, le ferite, gli assedi, le battaglie, ha paura come non ne ha
mai
avuta.
Poi, un
po’
alla volta, riprende a sentire la voce di Perdikkas che ha ricominciato
a
parlare.
“Se
Philippos
ha ragione, siamo tutti nelle mani di Aleksandros, non è
così?”
“Sì.
Ma non è
una novità.”
La nebbia
a
est si infiamma d’oro, ma loro non si muovono.
–
– –
Ed
è tutto?
Rumori e
odori che sanno di mare e che pizzicano sulla punta della dita.
Questo, e
nient’altro?
Tutto qui?
Cascate
di
vite che naufragano in una distesa fragorosa.
Corse,
tensioni, risate, lacrime, sangue, sudore, vittorie, ferite –
e alla fine,
questo.
Eccolo
– Thalassa
– è qui, davanti a te –
intorno a te – non sei contento, ora? – non sei
felice, ora?
No. (Tutto qui?)
La
perfezione
è sempre poco più in là – un
tuffo oltre gli scogli – un passo oltre la linea
dell’acqua – una vela che guadagna il nuovo
orizzonte.
La
perfezione
è qualcosa che manca – qualcuno
che non
c’è.
(Qualcuno che non
c’è.)
Forse un
giorno i pescatori vedranno il mare agitato in tempesta, stringeranno
fra le
dita bagnate le sponde di legno delle loro barche e, per calmare le
onde,
chiederanno dove sei, e da soli risponderanno che tu sei ancora vivo, e
ancora
regni.
E le onde
si
calmeranno – sì, le onde si calmeranno. Si
ricorderanno di te, che le volevi
solcare – di te, che le hai guardate senza saperlo
– di te, che sull’ultimo
orlo del tempo hai scelto di tornare a casa.
(Casa)
E tu per
ora
guardi il buio e ricordi il fantasma di un nome sconosciuto e non
riesci a
ritrovarlo mentre le voci dei bambini ti cantano nelle orecchie per
tenerlo
lontano.
Urli
dentro
di te per fare spazio – e poi – ecco – casa.
Credi di
averla cercata per una vita, correndo e inciampando e rialzandoti su
tutte le
terre – avanti e avanti e avanti.
Ma solo
ora,
per un attimo, ricordi quello che hai sempre saputo.
Casa
– il
profumo tiepido di chi ti dorme
accanto la notte prima della battaglia – una ciocca di
capelli neri fra le dita
– una parola mormorata all’orecchio – un
sorriso regalato nel momento in cui
nessun altro avrebbe osato, né voluto.
E occhi
scuri. Così scuri.
La voce
che
ti sta chiamando e che non riesci a sentire – i bambini
urlano troppo.
Ma ti sta
chiamando – lo sai.
Lo sai.
E allora
non
resta che una cosa da fare.
L’ultima.
(L’ultima)
È
la sola
cosa che non puoi perdere. Per il resto, non ci può essere
altro.
L’oceano
resta lì a guardarti, freddo e nero e infinito come il tempo
– i
bambini urlano la loro cantilena – e tu lotti per te e per lui
– per
l’ultima cosa che ti resta, e l’unica che forse hai
mai avuto.
L’unica
che
forse hai mai avuto.
–
– –
Philippos
si
rimette a sedere.
Guarda le
bende sporche attorcigliate a terra come vecchi serpenti – si
guarda le mani
che da qualche tempo hanno cominciato a tremare quando è
molto stanco – guarda
il suo Re – e chiude gli occhi.
Gli
sembra di
pensare qualcosa, o forse di sognarla – gli sembra che
trascorra un solo istante,
e di sentire una voce. Non sa se lo stanno chiamando – forse
Perdikkas, o
Peukestes, Leonnatos, o chi altro? Gli fa male la testa e non vuole
svegliarsi.
Gli piacerebbe restare così. Poi un soffio d’aria
fredda gli fa correre un
brivido lungo la schiena e, quando si risveglia,
c’è lui che lo sta guardando.
È
solo lo
scintillio degli occhi lucidi sotto le palpebre socchiuse, nello strano
intreccio di ombre e luci ondeggianti.
In un
attimo,
la sensazione di trovarsi di fronte a uno sconosciuto lo attraversa e
resta
sospesa nell’aria, poi si allontana strisciando.
Philippos
raddrizza la schiena raggelato – “basileu”
– e non dice altro. Osserva
quei bagliori e ne ha paura – non ricorda di averli mai visti
– di averli mai
visti così. Ha visto
quegli occhi
illuminati da ghiaccio e fiamme, ma mai così. Nella sua
mente vortica una
domanda soffocata dalla paura – chi sei, tu?
– che gli riecheggia fra
cervello e cuore. Poi vede l’ombra di una mano che cerca di
sollevarsi e che
ricade stanca, la testa che ruota verso di lui, la luce che investe il
viso e
le labbra socchiuse – e lo riconosce.
“Basileu”
– si alza con le mani contratte e gli si avvicina con un
sorriso stirato che
non riesce a trattenere – “basileu”
– immerge una coppa in una ciotola e
con un lembo del vestito asciuga le gocce che scivolano sui bordi
– “basileu”
– solleva la testa di Aleksandros (la pelle bollente fra i
capelli sudati), e
gli avvicina il calice alle labbra bianche.
“Cerca
di
bere, basileu, è importante.”
E
Aleksandros
prende un sorso, forse due – poi volta il viso con una
smorfia.
Philippos
insiste ancora, finché un nuovo sguardo non lo fa
allontanare. Si morde un
labbro guardando distrattamente le ciotole piene di erbe tritate e le
garze
ancora pulite, poi gli appoggia una mano sulla fronte: “Devi
riposare, Re.”
Gli occhi
di
Aleksandros lo osservano lontani.
“Tutto
questo
è un buon segno.” L’aria gli scivola via
fra i denti stretti mentre ripensa
alle sue parole, sproporzionate e contratte fra la voglia di correre
fuori e
avvertire gli altri, e una paura strana che non lo lascia muovere.
“Buon segno,
sì. Ma devi ancora riposare.”
Il viso
pallido e immobile che ha di fronte lo gela all’improvviso
con un pensiero.
Parla piano, spaventato dall’idea di essere sentito e da
quella di non avere
una risposta: “Capisci quello che ti sto dicendo, vero, basileu?”
Una
freccia
d’ombra attraversa quegli occhi stanchi, e Philippos non
riesce a trattenere un
sorriso. “Sì, mi capisci, Re.” Si china
a sfiorare le bende sul petto che si
alza lentamente nel respiro. “Forse in fin dei conti
Peukestes aveva ragione, e
gli Dei ci sono vicini. Ora cerca di riposare.” Si passa una
mano sugli occhi e
si volta per uscire velocemente.
“Iatré.
Philippe.”
La voce
roca
e sconosciuta lo raggiunge alla schiena – colpo di lancia che
lo inchioda di
fronte allo spacco della tenda rossa e lo fa voltare. “Dimmi,
Re.”
Il viso
di
Aleksandros è scivolato di nuovo nella pozza
di oscurità, e non riesce a vederlo –
da lì arrivano solo il luccichio degli occhi e la voce
sconosciuta.
“Gli
Dei.
Sono dei bambini.” E cantano il
destino
degli uomini in filastrocche orribili. Solleva appena una
mano e osserva
Philippos voltargli le spalle incerto, e scomparire in silenzio.
Chiude
gli
occhi pensando.
–
– –
Non sa
quanto
tempo sia passato.
Ha
pensato –
pensato – cercato di ricordare.
Nel buio
degli occhi chiusi che gli ricorda l’infinito nulla di un
mare nero, ha saputo
e capito che non c’è più niente
– niente di certo – niente di raggiungibile
–
se non una cosa.
E tutte
le
strade di un mondo sognato e di un mondo smentito convergono in un solo
punto.
Il solo
punto a cui ora vuole tornare.
È
l’unica
cosa di cui è certo quando riapre gli occhi e li socchiude
di nuovo, improvvisamente,
alla luce delle lampade. I frammenti dei suoi pensieri e brandelli di
suoni e
immagini lasciati alle spalle lo hanno portato di nuovo lontano, e le
voci
oltre la parete oscillante della tenda lo richiamano indietro.
Sente
Philippos parlare velocemente a bassa voce, e lo immagina con le
braccia tese e
le mani contratte sulle spalle di qualcuno.
“No.
Non mi
interessa.”
“Voglio
vederlo.” Peukestes?
“Sì.
Potresti
anche vederlo, se non fossi sicuro che con te entrerebbe anche questo
qua.”
Un
sospiro
nervoso, poi la voce di Perdikkas che non riesce a restare bassa.
“Iatré,
è importante. Fammi passare.”
“Ti
ho già
spiegato. Non puoi farlo preoccupare, ora.”
“È
il Re.” La
voce sale e diventa quasi stridula nello sforzo di non urlare.
“Lui deve…”
“Deve
riposare. Sta ancora male, stupido. Tu non entri.”
Silenzio.
Peukestes mormora qualcosa, Perdikkas risponde con la voce tesa:
“Non prendo
ordini da te, medico. E…”
Aleksandros
solleva la testa verso il fondo della tenda – “pauesthe!
Smettetela…”
poi si lascia andare di nuovo, domandandosi se l’abbiano
sentito. Neppure lui
riesce a riconoscere la propria voce, ma non è una cosa che
gli interessi.
Sente qualcosa di liquido risalirgli la gola, e mentre tossisce per
allontanarlo gli arriva il suono dei passi che si avvicinano,
improvvisamente
timorosi.
Li
osserva
entrare uno alla volta, con la testa bassa e gli occhi che in silenzio
lo
scrutano dal basso, spalancati nelle orbite arrossate.
Perdikkas
si
avvicina a passi grandi e si ferma all’improvviso, con un
sorriso largo e
tremante bloccato sul volto. Peukestes resta a guardarlo da lontano,
mentre gli
occhi gli si fanno lucidi.
Philippos
entra per ultimo, con le spalle curve e il livore della preoccupazione
sul viso
appuntito dalla stanchezza.
“Re.
Aleksandre.” Il sorriso di
Perdikkas
trema ancora e si infrange in una smorfia di sollievo, dimentica di
tutto.
“Siamo così felici, Aleksandros. Così
felici. Non puoi sapere.” Si rigira
qualcosa fra le mani.
Aleksandros
accenna un sorriso sollevando un angolo della bocca e sente le punture
insignificanti degli spacchi che quel movimento gli apre sulle labbra
ancora
secche. Solleva un dito indicando la custodia stretta fra le dita
pallide di
Perdikkas.
“Quella.
La
cosa importante.”
“Che…”
Perdikkas lo guarda confuso per un istante, poi abbassa gli occhi
imbarazzato
sull’astuccio di cuoio e ne fa scivolare fuori
l’estremità di una pergamena.
Rimane a osservarla quasi sorpreso, e cerca inutilmente un aiuto negli
occhi di
Philippos – ma Philippos gli volta le spalle e si avvicina al
Re, cerca di
aiutarlo a sostenere la testa. Perdikkas fa scorrere la pergamena fuori
dalla
custodia con un sospiro.
“Sì,
era
questa la cosa importante. Ma forse aveva ragione il medico. La cosa
importante
sei tu.”
Aleksandros
allontana Philippos con un gesto della mano e un altro sorriso amaro.
“Leggi.”
Perdikkas
srotola incerto un lembo del foglio: “Al generale
Hephai…” comincia e si ferma.
La voce gli trema e sente di non poterla controllare (non
l’ha mai dovuto fare
prima – non ha mai tremato così neppure negli urli
più alti delle battaglie).
Sente che leggere tutto è tanto inutile quanto importante.
Si passa una mano
sulla fronte contratta.
“Basta
che tu
firmi, Aleksandre. Firma, e
fa’
sapere che sei ancora vivo. Alcuni non ci credono. E
nell’accampamento a sud,
loro… loro non sanno.”
Vede la
maschera dura e bianca del viso di Aleksandros – ciocche di
capelli bagnate di
sudore intrecciate sulla fronte, labbra bianche, occhi lontani sotto le
sopracciglia che tremano contratte – capisce cosa sta
pensando e non parla
oltre. Non ne ha il coraggio.
Non ci
sono
parole.
“No.
Non
firmo.” Con il respiro spezzato Aleksandros cerca di alzarsi
su un gomito.
Philippos
gli è di nuovo accanto, una mano sulla spalla e i denti
stretti per
ingoiare il nervosismo. L’unico modo per provare a farlo
ragionare.
“Sta’
giù,
Re. Non puoi muoverti così.”
Ma
Aleksandros lo ignora. Non ha voglia di aspettare – non
può aspettare. Perché
aver sofferto tanta fatica, tanto dolore, se ora deve aspettare ancora?
C’è
forse qualcosa di utile o buono, al di fuori di lui?
Qualcosa per cui
valga la pena anche solo sforzarsi di vivere?
(No –
no, non c’è altro –
nient’altro
oltre la cantilena spaventosa degli Dei annoiati, e il rumore delle
onde che
erodono il tempo).
“Voglio
che
sia inviata un’altra lettera. Una nuova.”
Osserva i
visi confusi e sbiaditi degli altri, punta gli occhi a terra cercando
ancora le
parole che gli servono e che continuano a sfuggirgli – vuole
solo poter tornare
presto ai suoi pensieri. “Deve dire che io sarò
all’altro accampamento.
Presto.” Annuisce lentamente soffiando fuori l’aria
con un sibilo. “Presto.”
Si lascia
ricadere disteso socchiudendo gli occhi. L’ultima cosa che
vede è la bocca
incredula di Philippos che si volta verso gli altri cercando un
appiglio, e
poco dopo arriva il suono secco delle sue parole:
“È impossibile. Fuori
discussione.”
“Iatré.
Decido io cosa è in discussione.” Si accorge di
non riuscire a parlare a lungo.
Ha bisogno di aria. Ma ormai non è importante.
C’è solo una cosa importante.
“Io sarò lì. Presto. Tre giorni da
ora.”
Philippos
si
batte le mani sulle gambe. “Come?” Sente che
potrebbe urlare. “Non puoi
cavalcare. Non ti lascio cavalcare, Re.”
“Non
cavalco.” Si passa la lingua secca sugli spacchi della
labbra. “Scendiamo sul
fiume.”
Nessuna
risposta, per così tanto tempo. Spera che se ne siano andati
senza rumore, che
lo abbiano lasciato finalmente solo con quello che vuole pensare; ma
d’un
tratto sente fremere la voce tesa di Peukestes –
“sarà tutto pronto, Re” – e i
passi suoi e di Perdikkas che si allontanano.
Quando
socchiude gli occhi, lì con lui è rimasto solo
Philippos – le spalle curve e un
bicchiere vuoto che gli pende dalle dita.
“Philippe.
Efcharistò, Philippe. Grazie.”
Philippos
solleva le braccia e le lascia ricadere senza forza.
“Forse
sto
diventando vecchio, Re. E forse tu sei pazzo.”
“Sì.
Ma tu
vuoi che io guarisca.” Si ferma per raccogliere le ultime
parole e gli ultimi
respiri. “Per questo devo andare. Non
c’è altro modo.” Philippos non ha
capito,
ma ora non importa.
Ora non
c’è
altro d’importante.
Solo
arrivare
presto a casa.
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Capitolo 4 *** Ouranòs ***
Ouranòs.
Gli
uomini si
sono radunati davanti alla sua tenda.
Non
saprebbe
dire quanti sono, da lontano gli appaiono come un indistinto groviglio
di
corpi, sagome appuntite stagliate contro i profili scuri
dell’accampamento.
Per un
attimo
teme che siano solo ombre e si chiede se non stia ancora sognando, se
tutto ciò
non sia nient’altro che l’orribile conclusione di
un incubo durato troppo a
lungo.
La voce
di
Ptolemaios lo riscuote dal suo stordimento, riportandolo bruscamente
alla
realtà.
“Ci
saranno
almeno una trentina di soldati, Hephaistion. Forse di più.
Era prevedibile. Ora
che hai intenzione di fare?”
Hephaistion
alza il viso e gli uomini sono ancora lì – li
hanno visti avvicinarsi e adesso
vengono loro incontro sparsi in piccoli gruppi, sguardi accesi e
fiduciosi
sulle facce stanche.
Hephaistion
socchiude gli occhi, sforzandosi di delineare i volti, di
richiamare i
nomi alla memoria. Conosce quegli uomini. In un altro momento, di loro
potrebbe
elencare ogni singola ferita, ogni battaglia, persino il nome del loro
cavallo.
Uomini onesti, soldati fedeli e instancabili. Sono l’esercito
che ha condotto
tutti loro oltre montagne e pianure, fuoco e ghiaccio –
attraverso terre ostili
e cieli stranieri.
Uomini
leali.
I suoi uomini.
Eppure in
questo momento non riesce a discernere un singolo nome, un qualche
particolare
che possa far affiorare un ricordo, una faccia, una parola amica
scambiata davanti
al fuoco di un bivacco o gridata nello schianto fragoroso della
battaglia.
Vuoto.
Tutto
è vuoto umido e soffocante.
Sente che
dovrebbe fare uno sforzo per ricordare, basterebbe un nome, uno
soltanto. Pensa
di dover loro almeno questo – i suoi uomini si aspettano
qualcosa da lui, è tenuto
a rammentarsi di loro. Ma crepe
dolorose di memoria continuano ad aprirsi nella mente offuscata,
lasciando solo
tracce di rosso dietro le palpebre chiuse.
Intanto
Ptolemaios si è fermato e i soldati paiono ignorarlo. Sono
tutti concentrati su
di lui, stanno tutti guardando lui –
ma poi perché, nel
nome degli Dei?
È
pronto ad
affrontare tutto ma non questo. Non
queste facce interrogative, questi sguardi perduti che sembrano
chiedere – esigere
– risposte che non riesce a dare
neppure a se stesso. Risposte a cui non vuole pensare.
Non ancora.
Fa un
passo
avanti, nonostante la sensazione che la terra stia per squarciarsi e
inghiottirlo vivo, e apre la bocca per parlare – senza sapere
che cosa dirà –
ma i polmoni sembrano dilatarsi a vuoto, risucchiando aria in un
rantolo.
Un uomo
dai
capelli biondi e gli occhi di un azzurro profondo si stacca dal gruppo
e si
avvicina a lui, esitante. Gli poggia una mano sulla spalla.
Un nome.
Finalmente
riesce a richiamare un
nome e tutto sembra tornare alla memoria in un flusso impetuoso, la
consapevolezza riassalirlo feroce come una lama di luce, con il suo
carico di
suoni, odori, voci, colori troppo vividi perché possa
sopportarli.
Per un
attimo
prova la tentazione di tornare indietro e rituffarsi in
quell’oblio ovattato di
non-realtà. È meno dolorosa, è meno
esigente e sembra avvolgerlo in una coltre
tiepida e protettiva – anche se tutto puzza di morte.
Ma sa di
non
poterlo fare e si aggrappa di nuovo
a
quel nome, nitido e sonoro e familiare come il calore di un respiro in
una
mattina d’inverno.
Lysios.
Suo
fratello.
Ha gli
occhi
cerchiati e il viso stanco, persino un accenno di barba sulla pelle
liscia
delle guance, ma è lui, non c’è dubbio,
lo riconoscerebbe a occhi chiusi, suo
fratello.
Annaspa
per
trovare le parole, aggrappandosi al calore della sua mano sulla spalla,
e la
gola riarsa sembra rivoltarsi contro di lui in una serie di conati di
vomito.
È
Ptolemaios
che viene finalmente in suo aiuto. Caro, vecchio Ptolemaios,
perennemente
maldestro eppure così tempestivo allo stesso momento.
“Che
cosa sta
succedendo qui, Lysios? Sbaglio o questi fannulloni sono uomini del tuo
squadrone?”
Lysios si
volta verso di lui e, per un attimo, Ptolemaios ha la sconvolgente
impressione
di sentire il suo collo scricchiolare mentre ruota sul perno delle
spalle.
Poi la
sensazione passa, e resta solo Lysios con i suoi occhi stanchi e la
pelle
tirata sugli zigomi pallidi.
“No,
non ti
sbagli.”
Ptolemaios
fa
un gesto spazientito con la mano, mentre i soldati si raggruppano
l’uno accanto
all’altro, sempre in silenzio, sempre con la stessa
espressione di stolido
smarrimento sulle facce smagrite.
Hephaistion
si passa una mano sulla fronte. Sente quegli sguardi su di lui, posarsi
irrequieti sul suo volto, frugargli tra le pieghe della pelle, in cerca
di
risposte.
Ptolemaios è in torto: non ci sono solo gli uomini di Lysios; soldati
del quarto Ilai di cavalleria,
certo, ma anche
uomini dei reparti di fanteria, ipaspisti sfregiati dalle cicatrici e
cavalleggeri tessali dai ruvidi capelli rossi; opliti greci con le
spade che
penzolano dai fianchi e traci dipinti di blu; agriani dalle iridi
cerulee e
spalle robuste come orsi, e perfino qualche giovane scudiero troppo
intimidito
per fare qualcosa di più che puntare testardamente gli occhi
verso il terreno.
Il dolore
alla testa sembra tornare con la violenza di una piena. Sente la
stretta di
Lysios intensificarsi sulla sua spalla, farsi quasi dolorosa.
“Sei
tu il
loro comandante, Lysios.” La voce di Ptolemaios risuona
stanca nell’aria
notturna, “questa è la tua Ilai,
ragazzo, e non sei il loro tetrarca per nulla, non certo per farli
bivaccare
davanti a questa tenda come un branco di scansafatiche. Dunque vorresti
spiegarci che cosa…”
Hephaistion
scuote la testa, impercettibilmente, e la frase di Ptolemaios resta
troncata a
metà, sospesa in mezzo a tutti loro.
“Immagino
che
siano qui per fare delle domande, non è
così?”
Lysios si
volta verso di lui, annuendo.
“È
così,
Hephaistion. Gli uomini erano nervosi e preoccupati. Non avevo altra
scelta, mi
dispiace. Vogliono parlare con te, è l’unico modo
per… per farli calmare.”
Per un
attimo
Hephaistion sembra vacillare, come colpito da un schiaffo. Ptolemaios
prova
l’istinto di agguantarlo per un lembo del mantello, ma dopo
un istante
Hepahistion è di nuovo eretto, lo sguardo dritto davanti a
sé, e Ptolemaios
torna a chiedersi se non abbia immaginato anche questo.
Osserva
il
suo volto, le occhiaie profonde, la pelle segnata dalla stanchezza e si
rende
improvvisamente conto di quanto sia vicino al limite, di quanto poco
gli manchi
per crollare, una volta per tutte.
Come ha
potuto non rendersene conto prima?
“Abbiamo
già
detto agli uomini tutto ciò che sapevamo,”
scandisce a voce alta, lo sguardo
ancora fisso su Hephaistion. “Non c’è
nulla che né io né tuo fratello possiamo
aggiungere in merito.”
I
soldati,
raccolti in cerchio attorno a loro, sembrano dare segni di nervosismo a
quelle
parole – piedi che si spostano nella polvere, armi che
oscillano e tintinnano
nel buio – ma il silenzio rimane palpabile. Assoluto.
“…
Perdikkas
ha inviato una lettera in cui ci informava che il Re è stato
colpito da una
freccia durante l’assedio al fortilizio dei malli, quattro
giorni fa. Versa in
condizioni gravi, ma è vivo, sebbene al momento del
dispaccio non avesse ancora
ripreso conoscenza…“ Ptolemaios sposta gli occhi
sulla colonna dei soldati ma i
loro sguardi sono ancora puntati su Hephaistion, che continua a tacere.
“…
Al momento
non possono dirci quando potrà raggiungerci, né
abbiamo avuto nuove
sulle sue condizioni, ma se ci fossero stati peggioramenti
sta’ certo che
l’avremmo saputo…” fa una pausa,
trattenendo il respiro, poi aggiunge
sottovoce: “… e non sono io a doverti ricordare
che mantenere la disciplina tra
i propri uomini è di vitale importanza, in un momento come
questo.”
“Le
voci che
si sentono in giro per l’accampamento sono diverse,
Ptolemaios, se solo tu ti
prendessi la briga di ascoltarle,” lo interrompe Lysios in un
bisbiglio. “Gli
uomini credono che Perdikkas non abbia detto la verità. O
che noi teniamo
nascosto qualcosa…”
“Che
sciocchezza!” Ptolemaios alza il tono tutto d’un
tratto e il brusio che aveva
cominciato a diffondersi tra le file dei soldati cessa di colpo.
“Non c’è nulla
che non sia stato letto o detto in pubblico. Il Re è ferito
ma starà bene, e
raggiungerà l’accampamento non appena gli
sarà possibile. Al momento non
sappiamo di più, e non c’è altro da
aggiungere.”
Un
vecchio si
avvicina silenzioso, mettendosi davanti al cerchio dei soldati.
Hephaistion
alza gli occhi e incrocia lo sguardo liquido e stanco
dell’uomo. Sa bene chi è,
un anziano arciere di sangue cretese che conosce da sempre, sin da
quando era
poco più che una recluta nei reparti di cavalleria al
comando di Philippos.
Si chiama
Koinus, si ricorda bene di quando gli insegnava a tendere
l’arco – così tanti
anni prima – le volte in cui i soldati venivano a prelevare
lui e gli altri
ragazzi a Mieza, per condurli al campo d’addestramento dove
venivano educati
alle armi. Ricorda la solida cittadella fortificata a non
più di mezza
giornata a cavallo da Beroia, a sud del fiume Haliakmon e vicino ad
Aigai, dove
era di stanza un contingente permanente incaricato di presiedere i
confini
attorno alla vecchia capitale. Venivano portati lì ogni
mese, sotto il comando
di Kleitos e Parmenion, affinché imparassero finalmente cosa
voleva dire essere
uomini.
Cosa
voleva
dire essere macedoni.
Koinus
l’aveva visto ancora imberbe – un giovane soldato
inesperto e dalle braccia troppo magre per scoccare una freccia o impugnare saldamente una
spada –
mentre adesso è il suo comandante, la sua unica guida in
questo accampamento
dimenticato dagli Dei e lontano miglia e miglia dalla sua terra.
È
il suo
comandante e deve qualcosa a Koinus, deve qualcosa a tutti coloro che,
come
lui, li hanno seguiti fin qui, destinati probabilmente a morire sotto
cieli
sconosciuti e stelle indifferenti. Alza il volto, fissando gli occhi in
quelli
azzurri del soldato.
“Parla,
Koinus.”
La sua
voce risuona
chiara e sicura come sempre, lui stesso ne rimane sorpreso. Tutti gli
sguardi
sono di nuovo su di lui, anche quelli di Lysios e Ptolemaios, che hanno
smesso
di discutere.
“Parla,
non
avere paura.”
Il
soldato
raddrizza le spalle, si guarda attorno, poi torna a puntare le iridi
azzurre nelle
sue.
“Tutti
abbiamo sentito quello che ha detto Ptolemaios. Il Re è
ferito. Il Re tornerà.
Ma tu…” Fa una pausa, fissando il volto del suo
comandante, “tu, che cosa pensi
veramente, Hephaistion? È tutto quello che vogliamo sapere.
Tutto quello che ci
serve di sapere in questo momento.”
Il
silenzio è
perfetto. Uomini per loro natura chiassosi e selvaggi sono annichiliti
da una
paura muta.
Hephaistion
vorrebbe gridare che non sa nulla, vorrebbe voltare le spalle e
nascondersi nel
buio della sua tenda, fino a dimenticarsi di esistere. Ma questo non
gli è
permesso. L’angoscia per l’ignoto e gli sguardi
svuotati, lo stupore muto e il
terrore strisciante sono concessi ai soldati, non ai generali.
Non a
lui,
quantomeno.
Distende
la
schiena e solleva la testa, ritrovando la postura sicura che i soldati
hanno
imparato a riconoscere – e a seguire – in battaglia.
“Il
Re sta
bene,” scandisce, e anche la voce risuona ferma, taglia
l’aria notturna come
una lama affilata. “Abbiate fiducia in lui. È
forte, lo è sempre stato, e lo
sarà anche stavolta. Tornerà presto da tutti
noi.”
Un brusio
leggero sembra spandersi tra i soldati, correre di bocca in bocca come
l’onda
placida di una risacca. Le sue parole hanno l’effetto di un
incantesimo, una
formula arcana e segreta con il potere di distendere i volti e guarire
i cuori
feriti dal dubbio e dalla paura. Occhiate eloquenti corrono da un uomo
all’altro, e bisbigli e sussurri, persino lo scoppio
improvviso di una risata.
Koinus
annuisce, poi si volta verso i compagni e si riunisce a loro,
mescolandosi alla
folla. Come guidati da un segnale silenzioso, gli uomini cominciano ad
allontanarsi alla spicciolata, a disperdersi tra le ombre. Nel mormorio
indistinto delle loro voci, a Hephaistion è parso di udire
anche il salmodiare
sommesso di una preghiera.
Si volta
verso Ptolemaios e non si stupisce di leggergli
l’incredulità negli occhi,
oltre a un sollievo troppo grande per essere espresso a parole. Non
dice nulla,
si limita ad annuire, poi gli volta le spalle ed entra nella tenda,
seguito
dall’amico e da suo fratello.
I pochi
attendenti e i segretari presenti all’interno si discostano
per farli passare,
poi, a un cenno di Ptolemaios, escono in silenzio, lasciandoli soli.
Hephaistion
si lascia cadere sulla sedia davanti al suo tavolo e alza la testa al
soffitto;
la tenda è in penombra, rischiarata solo dal fuoco di un
paio di bracieri
lasciati accessi. La candela sulla scrivania illumina la pergamena che
giace
aperta, spiegazzata dalla foga delle troppe riletture. Chiude gli
occhi, non
sopportandone la vista; quel maledetto dispaccio dice tutto e niente: è vivo, ma non ancora cosciente.
Troppo
poco per la sua sanità.
Troppo
poco
per continuare a respirare.
Lysios e
Ptolemaios sono rimasti in piedi, muti e a disagio; può
sentirli a occhi chiusi
mentre lo osservano, le borchie di bronzo che tintinnano nei movimenti
impercettibili, le troppe domande che avvelenano anche loro, e a cui
non può
dare risposta.
Viene
riscosso da una voce concitata fuori dalla tenda, un latrare rabbioso
che
riconoscerebbe anche nello schianto della battaglia. Apre gli occhi in
tempo
per vedere Krateros irrompere all’interno, seguito da
Nearkhos e da un altro
paio dei loro uomini più fidati.
“L’accampamento
è allo sbando, rischiamo una rivolta!” abbaia
Krateros, senza dar tempo a
nessuno di rivolgergli un saluto, ”e voi tre cosa fate? Vi
rintanate qui come
volpi spaventate?”
Ptolemaios
gli rivolge uno sguardo che è come una sferzata.
“Grazie per essercelo venuto a
dire, Krateros. Ci era sfuggito questo particolare.”
Krateros
ringhia qualcosa a bassa voce, poi fissa Hephaistion, che è
rimasto in
silenzio. Si avvicina al tavolo e prende in mano il dispaccio,
facendoci
correre sopra lo sguardo.
“Maledetto
Perdikkas,” inveisce, stringendo la lettera nel pugno,
“cosa aspetta a mandare
altre notizie? Lo farei a pezzi, se ce l’avessi
davanti.”
“Forse
non ci
sono nuove da inviare, ci hai pensato?” risponde Lysios,
“le sue condizioni
sono gravi ma stabili, l’hai letto anche tu. Avremo un nuovo
dispaccio non
appena…”
“Te
lo dico
io cosa avremo!” urla Krateros, facendolo sobbalzare,
“Aleksandros è morto, e
quegli idioti non sanno come dircelo. Ecco qual è la
verità!” Sbatte la lettera
sul tavolo, nel silenzio generale; l’unico rumore, i suoi
respiri pesanti e lo
scoppiettio del fuoco nei tripodi.
“Dobbiamo
mandare un altro dispaccio,” continua, la voce più
bassa, “ad Antipatros. Se
Aleksandros è morto, la reggenza deve averne notizia quanto
prima.”
“È
tutto
quello a cui sai pensare adesso?” Hephaistion alza la testa,
la voce arrochita
dopo il lungo silenzio. Ma il tono è fermo. Ha sopportato lo
strazio di una
lenta agonia negli ultimi quattro giorni, non intende sopportare anche
lui. “Il
tuo squisito senso pratico ti fa
onore,
Krateros.”
Krateros
inghiotte un respiro, poi scoppia in una risata nervosa, che
è come un colpo
alle orecchie stanche di Hephaistion.
“Tu
non hai
motivi per preoccuparti, vero?” lo incalza, guardando in
basso verso di lui,
“fossi in te comincerei a farlo, invece di ritirarti qua a
guaire come un cane
senza il padrone. Come farai quando lui
non sarà più qua a proteggerti?” Un
altro scoppio di risa cattive. “Non hai
paura di rimanere senza il tuo potere, philaleksadros?”
Hephaistion
si alza di scatto, rovesciando la sedia. Si sente salire in gola tutta
l’esasperazione covata per giorni, lasciata a sobbollire
nell’attesa e
nell’impotenza. Ora vuole solo sputarla fuori in un grumo di
veleno mortale, e
questo maledetto gliene sta dando l’opportunità.
Oh, sì.
Per un
attimo
potrebbe persino amarlo.
“Se
Aleksandros muore, sei tu quello a perdere tutto,” sibila,
facendo un passo
verso di lui. “Sei tu l’amico
del Re, non
io, come mi hai ben ricordato.” Gli si pianta davanti, le
vene che si gonfiano
nelle mani strette a pugno. “Pensaci bene, Krateros. Pensa
bene a quel che
dici, prima di riaprire quella latrina che hai per bocca.”
Krateros
si
lascia di nuovo andare a una risata pesante, scheggiata di rabbia.
Anche lui fa
un passo avanti, il petto che ora quasi sfiora il suo.
“Finalmente una reazione
dall’altero Hephaistion,
il prode
Hephaistion, sempre così controllato e sicuro di ogni cosa.
Fai vedere chi sei
veramente una volta per tutte, figlio d’una troia
ateniese!”
Ptolemaios
si
slancia verso di loro, intercettando lo sguardo omicida negli occhi di
Hephaistion, ma è troppo tardi. Hephaistion l’ha
già afferrato per il collo
della tunica e sbattuto contro il tavolo, un boato rabbioso che gli
sale dal
petto.
“Stavolta
ti
ammazzo davvero,” ringhia, e sa di essere pronto a farlo,
“un’altra parola e ti
cavo gli occhi con le mie mani.”
È
solo un
attimo: in un urlo di rabbia, Krateros lo afferra per le braccia e lo
spinge
via, avventandosi contro di lui con le mani ad artiglio. Lo colpisce
alla
mandibola, torcendogliela con uno schiocco sinistro; Hephaistion
grugnisce
qualcosa, il sangue che gli ribolle in bocca, ma in un istante
è di nuovo su di
lui, agile e pronto, a sferrargli pugni nel ventre con tutta la forza
che ha in
corpo.
Krateros
sbatte contro il tavolo e finisce a terra, rovinando come un cinghiale
abbattuto – ed Hephaistion è subito su di lui, le
mani strette al collo, mentre
l’altro si dibatte furioso, gli occhi iniettati di sangue, la
voce un rantolo
rabbioso.
È
vagamente
consapevole delle urla di Ptolemaios e delle invocazioni di Lysios, le
orecchie
sono piene solo del rombo del sangue e del gorgoglio di Krateros sotto
le sue
dita.
Si sente
afferrare da sotto le braccia e spingere indietro con violenza, la voce
di
Lysios che grida qualcosa – “Phai!”
– e per
un attimo ha l’istinto di
voltarsi e prendere a pugni anche lui.
Ptolemaios
si
è inginocchiato accanto a Krateros, e lo sta aiutando a
rialzarsi. Quest’ultimo
tossisce e sputa sangue mentre si rimette in piedi, sorreggendosi al
compagno.
Hephaistion
continua a dibattersi per liberarsi, grida e impreca – la
nube opprimente di
rabbia che non accenna a sciogliersi: è ansioso di gettarsi
in quella tempesta
fino a rendersi incosciente – fino a dimenticare tutto.
“Basta
così!”
L’urlo acuto di Ptolemaios lo riscuote da quella furia cieca
con la violenza di
uno schiaffo. “Vi sembra questa la circostanza di mettervi a fare
a pugni come due
ragazzine isteriche? Cosa direbbe Aleksandros se vi vedesse ora?”
Hephaistion
sussulta a quel nome – l’unica parola in grado di
riportarlo in sé, come un
richiamo dei vivi nel regno dei morti – e sente le energie
scivolargli via, le
gambe farsi molli. È grato a suo fratello per sorreggerlo,
l’unica cosa che gli
impedisce di finire a terra in un cumulo pietoso, ma un attimo dopo
ritrova la
forza e raddrizza la schiena, avvertendo la stretta di Lysios farsi
più
leggera.
“Puoi
lasciarmi,” dice, voltando appena la testa. Poi, rivolto a
Ptolemaios: “Sono
calmo ora.”
Ptolemaios
tiene a sua volta una mano stretta attorno al polso di Krateros, che
è rimasto
immobile ad ansimare, i segni sul collo che stanno già
diventando violacei.
Anche lui, però, sembra aver ritrovato il controllo,
nonostante l’odio che gli
appanna gli occhi.
Quello,
però,
c’è sempre stato.
Hephaistion
si stacca dal fratello e si passa una mano tra i capelli, tentando di
ritrovare
un contegno. “Mi dispiace,” ammette, scoccando
un’occhiata a Krateros, “ho
perso la testa. Non avrei dovuto.”
“È
il
nervosismo. Ma dobbiamo rimanere uniti in questo momento.” La
voce di Ptolemaios
è placida e monocorde, come parlasse a un bambino.
“Soprattutto in questo
momento.”
Nessuno
ritiene prudente aggiungere altro. Ptolemaios e Krateros si scambiano
uno
sguardo, poi quest’ultimo si avvia borbottando verso
l’uscita, la mano poggiata
sul collo, seguito a breve distanza da Nearkhos e dai suoi uomini.
Anche
Ptolemaios gli va dietro, non prima di aver rivolto un ultimo sguardo a
Hephaistion. “Vedi di riposare un po’. Ci
riaggiorneremo domattina all’alba.”
Poi, senza aggiungere altro, esce anche lui.
Hephaistion
sospira – un suono strozzato, più simile a un
lamento. Si tocca la mandibola
dolorante e inghiotte una sorsata di sangue. I denti sono ancora tutti
lì, ma
quel bastardo gli ha quasi disarticolato la bocca. Sputa a terra una
boccata di
saliva rossa e poi si siede su uno dei divani, prendendosi la testa tra
le
mani. Le tempie pulsano così tanto da stordirlo.
Si sente
addosso gli occhi di Lysios, che dopo un attimo va a sedersi sul divano
davanti
al suo, uno sbuffo stanco mentre si lascia cadere sui cuscini.
“Non
è da
te,” esordisce dopo un po’, il tono guardingo,
“perdere così la calma, voglio
dire.”
Hephaistion
sospira di nuovo. Alza la testa, lo sguardo che brucia. Sta per dirgli
di
andarsene e lasciarlo in pace una buona volta, ma poi ci ripensa. Suo
fratello
lo sta guardando con quegli occhi che ormai conosce bene, occhi davanti
ai
quali ogni stilla di severità cade miseramente.
E,
assieme a
quella, crolla ogni difesa, col fragore di una montagna che si
polverizza.
“È
davvero
così che mi vedono tutti?” domanda
d’impulso, senza pensare, “come un
approfittatore? È questo che ho ottenuto, dopo una vita
d’impegno?” Ricaccia
indietro un singhiozzo. “Davvero pensate che io stia
sfruttando Aleksandros per
il mio interesse?”
La sua
voce è
quasi un grido. Lui stesso stenta a riconoscersi. Le parole gli
bruciano nella
gola; forse, semplicemente, era da troppo tempo che continuava a
inghiottirle.
Lysios
scuote
il capo, lentamente. Si alza a prendere una pezzuola da uno dei bacili,
la
intinge nell’acqua e poi gliela porge.
“Nessuno
ti
vede così, a parte Krateros, s’intende,”
dice, toccandogli la spalla. Torna a
sedersi, mentre Hephaistion si passa la pezza bagnata sulla bocca,
imbrattandola di sangue.
“Sei
sempre
il solito, Phai, non cambierai
mai,”
continua Lysios, allungandosi all’indietro sui cuscini,
“sempre a prenderti la
responsabilità di ogni cosa. Ti sentiresti responsabile
anche di un foruncolo
sul culo di Erakles.” Fa un pausa, fissandolo negli occhi.
“La verità è che
Aleksandros è rimasto in piedi solo grazie a te. Gli hai
dedicato la tua vita.
Per questo sei l’unico a cui i soldati danno
ascolto.” Una smorfia dolorosa a
queste parole. “Per questo sei l’unico che ha il
diritto di dirci qualcosa.”
Hephaistion
sente un gemito sfuggirgli dalle labbra, il muggito di una bestia
ferita.
L’angoscia, il terrore, la preoccupazione insopportabile
– tutto questo lo
riassale con la violenza di un fiume che rompe gli argini. Deve
appoggiare i
gomiti alle ginocchia per non cadere. Vorrebbe solo raggomitolarsi in
un angolo
e morire, ma sa che non può farlo. Che non deve
farlo.
“Pensi
che
sia vivo?” dice finalmente, pronunciando le parole che ha
tenuto seppellite per
giorni come un segreto sacrilego.
“Lysios
sospira. “E tu?”
“Sì.”
“Allora
è
vivo.”
La voce
di
suo fratello è piena di sollievo. Di convinzione. Vorrebbe
poter condividere la
stessa sicurezza, ma la verità è che adesso ha
solo se stesso a cui potersi
affidare. La luce abbagliante che ha guidato la sua esistenza
è lontana,
affievolita. Un bagliore nel buio. Spera solo che non si sia ancora
spenta del
tutto.
Appoggia
la
schiena al divano e si porta una mano agli occhi. La bocca pulsa e fa
male, le
labbra si stanno già gonfiando. Le sfiora appena, sentendole
calde.
“Te
lo
ricordi quell’antico affresco in una delle sale del palazzo,
a Pella?” domanda,
dopo un po’.
Lysios
sembra
colto di sorpresa. “Quello che raffigurava
Prometheos?”
Hephaistion
annuisce. “Era terribile. Prometheos incatenato alla roccia,
le viscere sparse
sugli scogli.” Preme le dita sulle labbra, strappandosi un
gemito. “E l’aquila
che le beccava vorace, in quel suo pasto osceno.”
“Era
tremendo, sì. Ma perché ci pensi
adesso?”
“Prometheos
fu punito per la sua ambizione,” risponde Hephaistion,
ricordando l’orrore che
aveva provato di fronte a quel dipinto. Aleksandros, invece, ne era
affascinato. “A volte mi chiedo se non ci siamo spinti troppo
il là,” sospira,
“se lui non sia andato
troppo oltre.
Se tutta questa hubris non abbia
attirato l’ira degli Dei, e ora ne stia pagando il
prezzo.” Guarda il fratello,
che è rimasto in silenzio. “Forse, avrei dovuto
fermarlo quando ero ancora in
tempo.”
“Sai
che non
era ciò che voleva.”
Hephaistion
annuisce. “Lo so.” Ma sa anche quanto possa essere
alto il prezzo di una tale
sfida. Quanto può essere costato a lui.
Si passa
una
mano sul volto; per un attimo l’anello che indossa
all’anulare brilla nella
penombra. Lysios pare notarlo e gli rivolge un sorriso.
“Lo
porti
ancora?”
Hephaistion
si irrigidisce mentre volta la mano a guardare il rubino incastonato
nell’oro:
un sole rosso in rilievo sfolgora sulla pietra, incandescente come la
luce che
c’era il giorno in cui l’ha trovato.
Lo
ricorda
bene.
“Già.
È
sempre al mio dito, come una maledizione.”
“Non
avevi
detto di avere fatto un voto?”
Hephaistion
non risponde. Chiude gli occhi e ritorna a un giorno lontano nella
memoria –
così lontano che a volte ha temuto fosse solo un sogno,
portato dagli Dei per
ingannarlo e fargli credere in false e crudeli speranze.
Era solo
un
bambino, ed era stato scelto assieme ad altri ragazzi ateniesi per
portare le
corone di alloro ai vincitori dei giochi, nello stadio di Delphi.
Era la
prima
volta che si allontanava dalla città e sua madre
l’aveva accompagnato. Ricorda
bene l’eccitazione, la gioia nell’avvistare la
città sacra ad Apollo, mentre il
carro si apprestava alle mura e il tempio del Dio aveva sfolgorato del
bianco
dei marmi, nella luce abbacinante del mattino.
Aveva
pensato
a quel tempio – la casa del sole – la cella sacra
che custodiva l’omphalos,
l’ombelico del mondo intero –
e si era sentito commuovere, mentre il carro entrava in
città e attraversava le
strade piene di gente festante e di mercanti chiassosi, di bestie e
viaggiatori
arrivati da ogni parte a celebrare Apollo.
La sera
era
rimasto seduto su uno dei colli antistanti il tempio, a osservare il
sole che
si allungava all’orizzonte in una striatura sanguigna, mentre
i colonnati si
coloravano di rosa e lo stadio veniva preparato per i giochi. Per un
attimo,
aveva udito una voce possente dentro di sé, un richiamo
dolce e imperioso a cui
non aveva potuto sottrarsi. Si era sentito benedetto dalla mano del
Dio, e
aveva pianto, ringraziandolo per tanta, immeritata benevolenza.
Il giorno
dopo, sua madre aveva trovato un anello su uno dei banchi del mercato,
un
piccolo monile d’oro con l’effige del sole, e
glielo aveva comprato, dando
probabilmente fondo a quel che restava dei suoi pochi averi.
L’aveva fatto
perché aveva visto il modo in cui lui aveva guardato quel
gioiello – era un
segno di Apollo, un richiamo segreto rivolto a lui – e lui
soltanto.
L’aveva
custodito come la cosa più cara: appeso al collo, quando
ancora gli andava
largo – e poi al dito, una volta uomo. E quando era arrivato
in Macedonia, e
aveva visto l’effige solare sugli scudi e sulle insegne di
Philippos, aveva
capito.
Era da
sempre
stato destinato ad Aleksandros. Il Dio gli aveva indicato la strada e
lui aveva
saputo seguirla, senza timore di abbracciare il suo fato.
Aveva
giurato
che avrebbe consacrato la sua vita ad Apollo, se gli avesse dato la
forza di
proteggere il suo astro – se avesse protetto Aleksandros. Ma
presto si era reso
conto che quel giuramento era al di là delle sue forze di
mortale.
Aleksandros
ha in sé sangue divino, e chi è lui, invece? Un
semplice uomo, incapace persino
di aiutarlo a esaudire il suo desiderio. Il suo sogno più
grande. Ricorda
ancora gli occhi di Aleksandros, quando – davanti
all’ultimo limite – ha dovuto
voltare le spalle, tornare indietro, sospinto dalla codardia dei
soldati, dalla
stanchezza dei corpi e la viltà delle anime.
Non ha
potuto
far niente se non seguirlo di nuovo – come sempre –
ma non se l’è mai
perdonato.
Quando
sognava il fuoco, e si svegliava gridando, lui che faceva se non
abbracciarlo e
cullarlo, per farlo calmare? Quando le lance e le spade si conficcavano
nelle
carni del divino figlio di Zeus, cosa mai poteva fare lui, figlio di
mortali,
per alleviare il suo dolore?
E ora
Aleksandros è lontano – forse morto davvero
– e ancora è impotente, ancora può
solo attendere e sperare che Aleksandros si salvi da solo –
come ogni volta.
“È
diventato
stretto, non riesco più a toglierlo,” risponde
finalmente, lasciando ricadere
la mano. “E dovrei farlo. Quel voto è stato
sciolto molto tempo fa.”
Lysios
sospira, poi scuote la testa, lentamente. “Non essere
sciocco. Tu l’hai salvato
dalla sua pazzia.”
Ed
Hephaistion vorrebbe piangere a quelle parole – vorrebbe
scagliare via
quell’anello che gli brucia al dito – vorrebbe
baciarlo e implorare Apollo di
avere pietà di lui, dei suoi dubbi di uomo fatto di carne e
sangue, della sua
viltà.
Vorrebbe
chiedergli solo di riportarlo a casa.
Ma tace.
Sfiora di nuovo il rubino, piccola pietra fredda del colore del sangue,
e
ricaccia indietro ogni parola.
“È
stato lui
a salvare me,” dice, rialzando la testa. “Io
l’ho soltanto seguito.”
“E
ne sei
pentito?”
Una lunga
pausa, mentre entrambi si fissano negli occhi.
“Mai.”
Con un
sospiro, Lysios si alza dal divano e si stiracchia, gemendo piano.
“Credo che
ora me ne andrò a dormire,” annuncia,
avvicinandosi a lui e toccandogli una
spalla. “E faresti bene a farlo anche tu. Ptolemaios ha
ragione.”
Hephaistion
annuisce, mentre stringe la mano del fratello e poi lo guarda avviarsi
verso
l’ingresso e uscire fuori, nella notte scura.
Si
riadagia
sui cuscini, la testa che pulsa, la bocca dolorante. Porta una mano
alla fronte
e la sente calda, essiccata. Non un filo d’aria filtra nella
tenda, e il
lucernario sul soffitto mostra solo uno spicchio di cielo brillante di
stelle.
Da
qualche
parte, fuori, qualcuno sta suonando il flauto. È un suono
sommesso, ovattato,
che si insinua all’interno, raggiungendolo in flebili volute
malinconiche.
La musica
cresce, e poi cala – gli ricorda il moto delle maree, quando
le osservava dalla
cala del Falero e si domandava che cosa davvero facesse respirare il
mare. Lo
turbava e lo commuoveva al tempo stesso.
Volevi vedere il
mare, pensa, la gola
chiusa da un groppo
di lacrime che non è mai sceso – volevi
toccare il limite. E io volevo darti tutto, ma l’unica cosa
importante non ho
potuto impedire che ti fosse strappata. Avrei dato la vita per farti
arrivare
al mare, Alekos. Ora la darei soltanto per vederti tornare.
Sente le
palpebre farsi pesanti, la notte che invecchia poco a poco, lenita dal
fluire
della musica e cullata dal sonno.
Ho nostalgia di
te. L’ho
sempre avuta, anche prima di incontrarti. Come si può volere
così tanto
qualcosa che ancora non si conosce? Tu lo sai, Alekos? Lo senti questo
richiamo?
Hephaistion
si lascia andare alla deriva nel suono di una cantilena che arriva da
lontano –
dai confini reconditi di un sogno mai sognato. E nel rumore calmo delle
onde.
Si
risveglia
con la luce che gratta dietro le palpebre, il corpo indolenzito, le
labbra un
bozzo di carne gonfia e infiammata. Fa per toccarsele ma viene riscosso
dal
vociare rumoroso degli uomini all’esterno che gridano e
invocano, urla sguaiate
che gli si conficcano nelle tempie doloranti.
Si
solleva
dal divano un attimo prima che Ptolemaios irrompa nella tenda, seguito
da
Lysios e da Krateros. In mano ha un astuccio di cuoio e lo guarda con
la faccia
arrossata, gli occhi così sgranati che paiono volergli
uscire dalle orbite.
“Che
succede?” quasi grida Hephaistion; il torpore del sonno
scivola via in un
istante.
“È
arrivato
un nuovo dispaccio,” risponde Ptolemaios, mangiandosi le
parole, “è stato
consegnato adesso.”
Glielo
porge.
Hephaistion glielo sfila dalle mani e per un attimo sente tremare le
sue. Sa
perché Ptolemaios non l’ha ancora aperto, quel
dispaccio. È convinto, come
tutti, che debba essere lui a leggerne per primo il contenuto.
Qualunque
esso sia.
Con gesti
lenti, come maneggiasse un groviglio di serpenti, scioglie il laccio
che tiene
chiuso l’astuccio – poi lo apre, facendosi
scivolare la pergamena nel palmo. La
spiega, e poi legge.
La
rilegge. E
poi la legge ancora.
Le gambe
gli
cedono, ed è costretto a sedersi – la pergamena
gli sfugge dalle mani, finendo
a terra in uno svolazzo.
“Che
gli Dei
ti maledicano!” E questo è Krateros. “Ci
vuoi dire che c’è scritto, sì o
no?”
Hephaistion
soffoca un singhiozzo; si porta una mano alla fronte e per un attimo
vorrebbe
che tutti loro sparissero – che lo lasciassero solo per non
dover rialzare il
viso e mostrare al mondo quanto sia inerme – quanto sia
fragile e vulnerabile
in questo momento.
Ma
Krateros
ha ragione. Non è qualcosa che possa tenere solo per
sé, sebbene lo desideri.
Sebbene voglia solo piangere, fino a sfinirsi.
Si china
a
raccogliere la pergamena. Poi, si rimette in piedi e dà
l’annuncio, ritrovando
la sua voce di sempre.
“Aleksandros
è vivo.” La gioia trabocca da lui, al di
là del pudore e di ogni contegno. La
lascia fluire libera, in un unico fiotto dissanguante. “E
sarà qua tra tre
giorni.”
Tutto il
resto non conta.
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Capitolo 5 *** Ghé ***
Ghé.
Non
c’è stato
bisogno di far presidiare il fiume: l’intero esercito si
è radunato a fissare
l’acqua, come se la corrente impetuosa fosse una fune di
sicurezza tesa verso
di loro e in grado di riportarli a riva. E forse è proprio
così, riflette
Hephaistion mentre continua a cavalcare avanti e indietro lungo
l’argine,
osservando gli uomini schierati ordinatamente sotto il sole.
Ha
impartito
il comando perché era la cosa giusta da fare, ma nessun
soldato si è sottratto
al suo dovere, non certo quel giorno.
E quando
le
navi sono state finalmente avvistate, al largo della confluenza, tutti
hanno
saputo – e hanno creduto.
Non
è stato
necessario annunciare l’adunata: le truppe si sono allineate
spontaneamente
lungo le banchine, le donne e i bambini che accorrono da ogni angolo
dell’accampamento, urlando e schiamazzando.
Stava
controllando lo stato delle provviste insieme a Ptolemaios quando
è giunta la
notizia, e insieme si sono fatti strada tra i ranghi fino al pontile,
dove
Krateros stava già aspettando, scalpitante e nervoso come un
vecchio stallone.
Anche
Hephaistion
sente la tensione corrergli dolorosa lungo la spina dorsale –
i soldati l’hanno
anticipata, scossi da un fremito che li fa vibrare come la scarica di
una
tempesta estiva.
Stanno
tutti
fissando le navi che si avvicinano assieme al loro carico: il Re,
restituito
alla sua gente dal fiume che li ha tenuti separati, o solo un cadavere
muto e
freddo da consegnare agli imbalsamatori. Nessuno ne ha parlato a voce
alta, ma
la domanda la può leggere inespressa nei loro occhi e nello
spasmo delle
bocche e delle mani.
Hephaistion
sa che è vivo – ne è certo come che il
sole continuerà a sorgere e la luna a
tramontare, portando la marea. Ci sono verità
incontrovertibili nel mondo
naturale, come avrebbe detto Aristoteles – ogni altra cosa
non è pensabile e Aleksandros
è sempre stato una forza della natura. Eppure, non
può fare a meno di piantarsi
le unghie nei palmi come un ragazzino ansioso incapace di mantenere la
calma.
Le
imbarcazioni sono abbastanza prossime da scorgere le tre file di
rematori
vogare in direzione della sponda, e udire gli ordini del trierarca sul
ponte,
che prepara gli uomini per l’attracco.
Abbastanza
vicine da poter vedere il Re.
Il suo
corpo
giace su una lettiga posta sopra un rialzo della trireme principale, i
paracieli scostati. Anche da quella distanza il riflesso dorato dei
capelli è
sufficiente per togliere ogni dubbio. Ed è immobile, le mani
pallide incrociate
sul petto.
Quella
inerzia, così innaturale per lui, gli fa drizzare i peli
sulle braccia, e anche
Ptolemaios rabbrividisce al suo fianco, trattenendo il respiro. Solo
che ora
c’è un nuovo rumore che sale dalla terra e scivola
sull’acqua fino a morire tra
le onde – un mormorio di tale strazio e dolore che neanche il
lamento di tutte
le ombre d’Averno potrebbe essere più
insopportabile. C’è il terrore della
perdita nel gemito dei soldati – nei singhiozzi e nel brusio
frantumato delle
voci – e l’angoscia di anime perdute che mai
più rivedranno la luce.
Per un
attimo, Hephaistion deve combattere la tentazione di accovacciarsi a
terra e
premersi le mani sulle orecchie; con la coda dell’occhio
riesce a scorgere
Ptolemaios che fissa la nave a sguardo sbarrato mentre Krateros sembra
congelato sul posto.
In Persia
è
costumanza piangere i defunti stracciandosi le vesti, ma questo
è molto più di
una tradizione o una mera abitudine: è un raglio strappato
al cuore da un
dolore troppo grande per essere immaginato. È reale, ed
è ciò che significa
restare senza di lui.
Un
istante
dopo, nell’attimo che segue il silenzio, Aleksandros solleva
la mano in saluto,
piantandola nel cielo.
Dentro il
fragore di gioia assordante che esplode come il ribollire di schiuma
attorno a
lui, Hephaistion lancia un’occhiata alla nave e
all’uomo sopra la lettiga.
Oh,
sì, sa
bene di cosa si è trattato: un’entrata ad effetto,
certo – ma ancor di più è
stata una lezione.
L’hanno
rinnegato sulle rive dell’Hyphasis, rifiutandosi di
proseguire al di là del
confine estremo, fin nell’ignoto più assoluto; gli
hanno preferito la sicurezza
del ritorno, perfino fatto intendere che avrebbero potuto fare a meno
di lui. E
adesso lo sanno – hanno avuto un assaggio di quello che
significherebbe
perderlo davvero. Sa anche che sarebbero disposti a perdonarlo se
venissero a
sapere che l’ha fatto apposta, come un amante devoto
è disposto a soprassedere
i capricci di un cuore ferito.
Bastardo,
pensa
Hephaistion, reprimendo un
singhiozzo che ha il gusto del pianto, meraviglioso,
pazzo, adorato bastardo – e finalmente il sorriso
lo vince, la risata che
erompe chiara come il sole mentre getta la testa indietro, ferendosi
gli occhi
contro la luce.
Quando
riabbassa lo sguardo e lo punta sulla nave in attracco, deve imporsi di
non
slanciarsi sul ponte e saltare addosso ad Aleksandros, per scrollarlo
fino a
inculcargli in testa un po’ di buonsenso. Ptolemaios per sua
fortuna lo afferra
prima, serrandolo in un abbraccio soffocante, e persino Krateros gli
assesta
una pacca sulla schiena che per un soffio non gli fa sputare i denti.
“Non
ho mai
dubitato!” esclama quest’ultimo, un ghigno osceno
disegnato sulla barba scura,
“neanche per un momento. Stupido ragazzo che non è
altro, ma gli Dei lo
adorano. Non ho mai dubitato, io.”
Hephaistion
ride di nuovo, e si volta a osservare la nave che viene agganciata alla
banchina con le corde lanciate dai servienti, afferrate da terra e
assicurate
ai piloni di legno. Mentre la passerella viene abbassata e la lettiga
del Re
sollevata nel ruggito delle truppe che si raccolgono intorno,
Hephaistion si
impone di distogliere lo sguardo per riportarlo sulle file di ufficiali
rimasti
impietriti dietro di lui.
“Formate
i
ranghi!” abbaia, “e tenete questo branco di idioti
lontano dal pontile prima
che lo facciano collassare in acqua!”
Ptolemaios
barcolla mentre la folla lo spintona in una nuova ondata di entusiasmo.
Hephaistion lo aiuta a rimettersi in piedi e gli avvicina le labbra
all’orecchio, per sovrastare il frastuono selvaggio di urla e
schiamazzi.
“Rientriamo
alla tenda prima di finire schiacciati. Non c’è
modo di parlargli se restiamo
qua.” Per un attimo sorride alla sorpresa che riesce a
leggergli in faccia, in
una smorfia di comicità involontaria: forse si era aspettato
di vederlo
slanciarsi su Aleksandros per ricoprirlo di baci appassionati, magari
incitato
dalla folla festante. Ma non ce n’è bisogno: ha
già incontrato i suoi occhi
mentre si avvicinava sull’acqua, e per ora è
sufficiente. Che i soldati si
prendano pure questo momento – lui avrà il suo
molto presto.
Faticano
a
riguadagnare la strada per la tenda, spintonando le truppe e tirandosi
dietro i
cavalli tenuti per i finimenti.
Fermo di
fronte all’entrata, persino da quella distanza Hephaistion
riesce a scorgere la
lettiga del Re venire issata sulle spalle dei portantini e poi
trasportata a
riva, gli uomini che le fluttuano attorno come stormi di uccelli, le
mani
levate in adorazione.
Aleksandros
rivolge un sorriso a tutti, seduto dritto sulla lettiga, le labbra che
si
muovono senza che lui riesca a sentire i nomi con cui certamente saluta
ciascuno di loro. I portantini sono costretti a fermarsi ogni poco, per
permettere ad Aleksandros di stringere le mani e accettare le
benedizioni
mentre gli uomini gridano il suo nome in un ritmo serrato, come
l’incitazione
che precede una battaglia.
A
metà della
strada, Hephaistion lo vede alzare una braccio e arrestare i portatori.
Osserva
la concitazione dei servi che scattano immediatamente al suo ordine e,
poco
dopo, la folla si apre in due ali per far passare uno scudiero con un
cavallo
condotto alla cavezza.
Hephaistion
trattiene il respiro: la bestia è un castrone addestrato e
tranquillo che serve
più a far scena che altro, ma nonostante questo deve di
nuovo reprimere
l’urgenza di raggiungere Aleksandros e scrollarlo per un tale
sfoggio di
vanità. Solo l’orgoglio lo trattiene –
il proprio, e quello del Re. Sa bene per
quale motivo lo stia facendo: vuole dimostrare ai suoi uomini di essere
in
grado di arrivare alla tenda come un soldato e non come un infermo, ma
questo
non rende il gesto meno sconsiderato – non se pensa al dolore
che deve provare
e che gli legge in faccia quando finalmente monta in groppa, tendendo
le labbra
in una smorfia che gli si conficca nel cuore.
Gli
uomini –
almeno loro – sembrano gradire la prodezza, e le incitazioni
si fanno più
chiassose quando Aleksandros sprona il cavallo e prende ad avanzare, il
viso
puntato in avanti come fosse a una parata, e non invece in procinto di
stramazzare a terra morto e stecchito da un momento
all’altro.
Qualcuno
ha
anche trovato dei fiori e ora hanno preso a lanciarli verso di lui,
pavimentando
la sua marcia con un tappeto di colori sgargianti e profumi stordenti.
Solo
cinquanta passi – Hephaistion li ha contati nella testa, ma
gli sembrano
comunque un’eternità, specie quando Aleksandros
scivola a lato dell'animale,
perdendo l’equilibrio. Lo scudiero lo sostiene prontamente e
lo aiuta a
rimettersi eretto senza che le truppe festanti si siano rese conto di
nulla,
continuando a premere da tutti i lati e a sospingerlo avanti.
Infine,
il
cavallo giunge alla tenda, e Aleksandros è davanti a lui,
pallido per la
sofferenza, le labbra che tremano – ma gli occhi sono accesi
da quella luce che
conosce bene, e che ora brilla più fulgida che mai.
“Hephaistion,”
lo sente sussurrare prima di scivolare di nuovo, solo che ora
è lui a
sostenerlo e a prenderlo tra le braccia mentre smonta da cavallo
– i soldati
che esplodono in un boato selvaggio di gioia e approvazione.
“Tutta
questa
scena e neanche ti reggi in piedi,” lo rimprovera Hephaistion
e intanto lo
stringe a sé, aspirando il suo odore e lasciandosi avvolgere
dal calore ardente
della sua pelle. Le lacrime premono per uscire e fa giusto in tempo a
ricacciarle indietro con uno sforzo di cui non si sarebbe creduto
capace.
Alza la
testa
per rivolgere un cenno a Ptolemaios, che lo precede nella tenda assieme
a Krateros
– poi finalmente entra anche lui, il braccio attorno alla
vita di Aleksandros,
richiudendo il lembo di stoffa dietro le spalle e lasciando libero
l’esercito
di gridare al cielo la sua esultanza.
Una volta
dentro, lontano dagli occhi adoranti, Aleksandros sembra lasciar
trapelare i
segni della sua debolezza; Hephaistion li percepisce nel modo in cui si
appoggia contro di lui e gli stringe la stoffa del chitone,
tirandogliela sulle
spalle. Lo sostiene con facilità e lo aiuta a raggiungere
uno dei divani,
facendocelo adagiare sopra.
Aleksandros
gli sorride, ancora accesso dalla gloria mentre affonda tra i cuscini,
il volto
cereo e zuppo di sudore.
“L’hai
sentito?” chiede, scoprendo i denti in un ghigno soddisfatto.
“Questo sì che è
un benvenuto. Dovrei morire più spesso, fa meraviglie per la
reputazione.”
“Stai
sanguinando,” è tutto quel che riesce a rispondere
Hephaistion in un tono
strozzato. Con gli occhi, rivolge un muto segnale a Ptolemaios
– che annuisce e
lascia la tenda senza dire parola.
“Non
è
nulla.” Aleksandros si tira su un poco, raddrizzando il
busto. “E ho sete.
Portatemi del vino.”
“L’acqua
andrà benissimo.” Hephaistion si china ad
aggiustargli i cuscini dietro la
schiena e allunga un braccio ad afferrare la caraffa sul tavolo vicino.
“Penso
che
l’occasione si presti a qualcosa di un po’
più forte, a dire il vero, e
Krateros tiene sempre della buona brodaglia da parte, se non ricordo
male.”
A
Hephaistion
non sfugge la tensione nelle sue labbra mentre lo dice, ma sa anche che
preferirebbe morire che ammettere la sofferenza; così tace,
e rimane zitto
persino quando Krateros si avvicina con un ghigno, portando una coppa
ricolma
di liquido color rubino.
Aleksandros
ne ingoia metà in un unico sorso mentre Ptolemaios fa di
nuovo il suo ingresso
nella tenda con Philippos al seguito.
Il medico
trattiene il respiro quando Aleksandros lo saluta alzando il calice e
rivolgendogli un sorriso sfacciato. “Certamente non vorrai
rimproverarmi una
piccola celebrazione con i miei amici, non è vero?”
“Io
non ti
rimprovero niente,” risponde asciutto Philippos,
“anche se mi chiedo perché
continui a dare ascolto al mio giudizio.”
Aleksandros
si lascia andare a una risata, che si trasforma ben presto in un
accesso di
tosse. “Ah, iatré,”
riesce a dire tra
le lacrime, “se davvero vuoi riprendermi, faresti meglio a
metterti in fila.
Immagino di dovermi attendere un reale rimbrotto, se queste facce mi
dicono il
vero. Molto bene, soldati,” e si rivolge a tutti loro come se
stesse ascoltando
delle perorazioni, “sono tutto vostro. Mi rimetto alla vostra
clemenza.”
Il tono
è
leggero, ma ci vuole ben altro per ingannare Hephaistion;
l’affilatezza della
lama è ben nascosta sotto la superficie placida della sua
voce, assieme a una
nota di risentimento. Bene, pensa – si merita tutto
ciò che sta per arrivargli,
ma ciò non significa che debba piacergli.
Anche
Ptolemaios, che lo conosce da quando era un bambino, sembra aver colto
quella
sfumatura irritata perché si limita ad annuire e a
incrociare le braccia al
petto.
“Di
sicuro ci
hai elargito il peggior spavento della nostra vita,”
pronuncia a bassa voce.
Krateros,
invece, non sarebbe in grado di vedere un cinghiale in una stanza
neanche se ce
l’avesse davanti; aspetta impaziente che il medico finisca di
tendere alla
ferita e rimpiazzi le bende e, dopo averlo osservato lasciare la tenda,
esclama: “Si può sapere a che gioco pensavi di
giocare?” I peli scuri della
barba sembrano fremergli sotto le labbra. “Potrai anche
credere di essere
figlio di un dio, se tuo padre non era abbastanza uomo da renderti
fiero di
lui, ma questo non ti rende immortale!”
Hephaistion
trasalisce appena al commento, e si volta a osservare il Re. Krateros
è andato
a colpire una nota dolente, e non c’è traccia di
scherzo nel suo tono.
Gli occhi
di
Aleksandros si sono fatti scuri, ma pare che l’abbia presa
bene, o meglio:
sembra più un uomo che si stia sottoponendo a una seduta di
frustate, in attesa
del colpo successivo e ben determinato a non lasciarsi sfuggire un
lamento.
Non che
non
se lo meriti, pensa mentre raggiunge il divano vicino e si siede in
silenzio.
Il suo turno arriverà più tardi, per ora vuole
solo assistere. Si scopre a
tremare appena, la testa inspiegabilmente leggera, come dopo una
ubriacatura.
“So
bene di
non essere immortale,” risponde Aleksandros in tono cauto,
“ho abbastanza
cicatrici per provarlo. Ma sono anche un Re, ed era
necessario.”
“Lo
definirei
più irresponsabile a essere sincero,” si
intromette Ptolemaios prima che
Krateros possa peggiorare la situazione. “Esporti a un tale
pericolo… sei stato
fortunato a uscirne vivo.”
“Lo
so.” Le
nocche di Aleksandos sono bianche là dove tiene le dita
serrate attorno alla
coppa, ma la voce resta salda e misurata. Una bella dimostrazione di
volontà –
questo, Hephaistion glielo deve proprio concedere.
“Ah,
quindi
lo sai,” sbuffa Krateros. “Dovresti essere accecato
dalla pazzia per non
rendertene conto. Ti fermi a pensare, qualche volta? Irresponsabile
ragazzo.”
Alza le mani in un moto di disgusto. “Saltare da solo in quel
fortino dopo che
le rampe erano collassate… Sei diventato idiota o
cosa?”
Aleksandros
sembra prendersi del tempo per rispondere, inspirando a fondo e
socchiudendo
gli occhi.
“Sono
solito
guidare le mie truppe con l’esempio,” scandisce
lentamente. “Dalla prima linea.
Ed è quello che ci ha condotto fin qua. Gli uomini non
seguirebbero un codardo
pronto a nascondersi in fondo ai ranghi. È di macedoni che
stiamo parlando, e
non dovrei essere io a ricordartelo.”
“Lo
erano,
prima che tu lasciassi entrare persiani, indiani e altri maledetti
barbari nel
tuo esercito,” scatta Krateros, ormai oltre ogni ragione e
prudenza.
Ptolemaios
fa
un passo avanti e lo tocca sulla spalla.
“E
questo
cosa ha a che fare con la faccenda?” Stavolta, la nota
minacciosa nella voce di
Aleksandros è più accentuata, ma sembra
rimetterla subito a briglia,
riprendendo a parlare in tono incolore. La sua ira è tradita
solo dal vago
tremito nelle mani. “Non mi sono mai tirato indietro davanti
al pericolo, e non
l’ho fatto stavolta. Non manderei mai i miei uomini a
fronteggiare qualcosa che
non sono in grado di affrontare io stesso.”
“Non
hai
bisogno di dimostrarlo,” interloquisce Ptolemaios, scoccando
un’occhiata
d’avvertimento a Krateros. “Gli uomini sanno che
non temi nulla. Ma devi
pensare al futuro. Abbiamo bisogno di te. E non ci possiamo permettere
di
perderti. Coraggioso o no, non avresti mai dovuto agire in modo tanto
sconsiderato.”
“Perdikkas
mi
ha già detto le stesse cose,” ribatte Aleksandros
irritato. Ha terminato il
vino ma tiene ancora in mano la coppa come se volesse giocarci. In
realtà,
osserva Hephaistion – che ha rialzato la testa dopo essersela
tenuta tra le
mani per tutto il tempo – sembra piuttosto che la voglia
stringere fino a
frantumarla.
Krateros
si
lascia andare a una risata sonora. “Ci scommetto che te le ha
dette. E
scommetto anche che non hai ascoltato una sola parola.”
“Sto
ascoltando te.”
“Ah,
davvero?
Che la tua testa di mulo sia maledetta, ragazzo. Ti sei quasi fatto
uccidere
senza una ragione. Non sei un soldato qualunque, e non dovresti
comportarti
come se lo fossi.” Ora sta urlando. “Sei un Re, e
non ci servi a nulla se
muori. Ce la fai a ficcarti la verità in quella testaccia
dura?”
Hephaistion
li sente entrambi trattenere il respiro. In Persia, un uomo che
parlasse in
questo modo al Grande Re sarebbe messo a morte col fuoco, e verrebbe
ritenuto
un atto di misericordia. In Egitto, finirebbe sepolto vivo e urlante,
lasciato
alle bocche affamate degli scarafaggi. In Macedonia, il sovrano
potrebbe
riuscire a infilzarlo con la lancia – dipenderebbe dalla sua
mira e da quanto
ubriaca è l’Assemblea dei Pari.
Invece
quello
che Aleksandros sembra fare ora, è fissare un punto vuoto
nella stanza, gli
occhi d’argento aperti sul volto pallido come la morte. A
ogni modo pare
sufficiente a ridurre Krateros all’immediato silenzio.
“Che
cosa
vuoi che ti dica?” La sua voce suona dura e piatta come una
moneta. E senza più
una stilla di fiato. “Che mi dispiace? Va bene allora. Mi
dispiace se mi sono
fatto quasi uccidere per dar la caccia a un nemico che ci avrebbe
tenuti
inchiodati quaggiù e fatti a pezzi, per poi lasciarci
affogare nel fiume.”
Sepolto nel tono gelido c’è un rantolo basso,
sibilante. “Mi dispiace se ho
guidato il mio esercito a una vittoria che ha reso sicura la nostra
posizione e
rimosso ogni minaccia prima di metterci in navigazione. Mi dispiace di
essermi
ricordato che sono un uomo. Ora sei soddisfatto?”
Sull’ultima
parola la voce si rompe in un ansito, e Ptolemaios gli rivolge uno
sguardo
esasperato.
“Non
è che
non avresti dovuto combattere, Alekos,” dice,
“è solo che vorremmo che avessi
più cura di…”
“Non
lo
capisce!” si intromette di nuovo Krateros, incapace di
frenare la lingua, “non
lo intende che questa non è l’Iliade e che abbiamo
bisogno di un Re e non di…”
“Lasciatelo
in pace!” Hephaistion rialza la testa con uno scatto. Si
sente bruciare gli
occhi mentre fissa gli altri due. E la rabbia vibra in ogni parola.
“Per l’amor
degli Dei, lasciatelo in pace una buona volta!”
Nella
tenda
cala il silenzio – interrotto solo dal respiro pesante di
Aleksandros, che gli
arriva alle orecchie come una stilettata. Per un attimo tutti gli
sguardi sono
su di lui, ed Hephaistion li accoglie a testa alta, raddrizzando le
spalle.
Krateros
si
lascia sfuggire un grugnito di frustrazione. Si volta nella sua
direzione e
scuote la testa, guardandolo come se gli fosse cresciuta la coda.
“Gli
idioti
vanno sempre a coppia, vero?” raglia. “La faccenda
è seria, non è uno scherzo
innocente, tantomeno…”
“Lo
sa. E lo
sappiamo tutti,” sbotta Hephaistion, i denti serrati. Stenta
a riconoscere la
propria voce, tanto è vibrante di rabbia.
“L’avete ripetuto fino alla nausea.
Perché ora non vi tappate la bocca?” Li guarda
entrambi, socchiudendo gli
occhi. “O devo chiudervela io?”
Ptolemaios
si
affretta a interromperlo prima che possa dar seguito alle minacce.
“Bene. Direi
che non hai torto. È stata una stupidaggine e siamo tutti
concordi
nell’ammetterlo. Dunque possiamo considerare chiusa la
faccenda, dico bene?”
Gli rivolge un’occhiata di avvertimento – non che
sia sufficiente a
intimorirlo, non in questo momento.
Krateros,
invece, sembra averla colta e pare calmarsi, anche se controvoglia.
Hephaistion
non dice nulla, si limita a lanciare sguardi affilati come pugnali
all’indirizzo di tutti prima di riprendersi la testa tra le
mani, cominciando a
massaggiarla.
“Mi
ritengo
diffidato,” sente dire Aleksandros, il fruscio dei cuscini
quando si riadagia
sul divano. “E prometto di non rifarlo. Non che mi sia
piaciuto molto questa
volta.”
“Spero
proprio di no.” Questa gli è uscita
così, dura e secca, ma Hephaistion non ha
alcuna intenzione di rimangiarsela – ah, no. E che sia
dannata la Reale Ira e
tutto il resto.
Li
ascolta
parlare di organizzazione e di procedure per un po’: la
necessità di
acquartierare le truppe che hanno scortato Aleksandros, in attesa di
essere
raggiunti da Perdikkas con il grosso dell’esercito nei giorni
successivi, dopo
aver assicurato Multan e i territori circostanti con
un’ultima sortita. Li
sente discutere di un amministratore corrotto in qualche
città a ovest, e di
quanto abbia alzato le tasse nella sua provincia, azzoppando il
commercio – ma
è solo rumore di fondo. A ogni modo la riunione dura poco,
ed è bene che sia
così. Aleksandros è esausto, e non bisogna essere
ciechi per vederlo: il volto
è ancora più pallido, gli occhi arrossati.
“Grazie,”
lo
sente dire, “per aver tenuto tutto in piedi. Siete stati
impeccabili.” Si
prende una pausa per respirare, ed emette di nuovo quel rantolo
affaticato.
“Adesso, però, ho bisogno di riposare. Al resto
penseremo più tardi.”
“Ce
ne
occupiamo noi,” risponde Ptolemaios, preparandosi a uscire.
“Non devi darti
pena.” Rivolge un’occhiata a Krateros che lo
raggiunge sulla soglia. Ma lo
sguardo di Aleksandros ora è soltanto per lui.
“Hephaistion,”
dice, il tono che non ammette repliche – ma non gli sfugge la
nota dolce al di
sotto. “Tu invece rimani qua.”
Hephaistion
si rimette in piedi e lo raggiunge all’altro capo della
stanza. Afferra uno
sgabello e si siede accanto a lui, poi prende una pezzuola e la tuffa
nel
bacile, passandogliela piano sulla fronte, fino alle sopracciglia.
“Ah,
questo è
piacevole.” Aleksandros gli sorride dal basso. “Non
vuoi rinfacciarmi anche tu
la mia stupidità? Devi aver aspettato giorni per
farlo.”
Hephaistion
scuote lentamente la testa. Neanche un’ora fa aveva pronta la
ramanzina fino
all’ultima parola, ma ora gli sembrano frasi vuote e senza
importanza.
“No,”
risponde semplicemente.
Aleksandros
lo osserva quieto per qualche istante, poi distoglie lo sguardo,
puntandolo
sulla coppa che ancora stringe in mano. “Lo puoi fare, se
vuoi. Me lo merito.”
“Se
lo sai,
allora non ne hai bisogno,” risponde Hephaistion a bassa
voce. Si stupisce di
ritrovarla tanto ferma. “Inoltre, ti tratterrebbe dal
ripeterlo di nuovo?”
“Non
lo
rifarò.” Ha ribattuto subito, il dolore che sembra
appannare di poco la
certezza del tono.
Hephaistion
sospira piano. “Fino a quando non lo riterrai di nuovo
necessario.”
Lascia
andare
la pezza e riempie la coppa con acqua fresca; Aleksandros la sorseggia
lentamente, poi alza gli occhi a incontrare di nuovo il suo sguardo.
“Mi
sei
mancato.”
È
un sussurro
a cui Hephaistion risponde chinandosi, e poggiandogli un bacio sulla
fronte
accaldata. “Sono qua.”
Le
fasciature
sono di un bianco abbagliante – catturano lo sguardo,
così fuori luogo sulla
pelle chiara di Aleksandros. Gli occhi continuano a scivolargli
lì sopra, fin
quando non si sorprende a fissarle. Ciò che nascondono si
è quasi preso la vita
di entrambi.
Aleksandros
nota la sua occhiata e pare comprendere, ma di questo ormai non
dovrebbe più
stupirsi.
“Vuoi
vederla?” domanda gentile. Hephaistion solleva la testa, poi
torna a fissare il
bendaggio. Annuisce, una volta. Segue con gli occhi Aleksandros, che
poggia le
dita sulla stoffa per poi farle ricadere un attimo dopo.
“Dovrai
farlo
tu,” dice, “Io non…” ma le sue
mani sono già lì.
E
tremano;
ordina a se stesso di essere lieve, si impone una presa salda e pulita,
ma le
dita continuano a frustrarlo. Se comunque gli ha fatto male mentre
trafficava
con i lembi di stoffa, Aleksandros se l’è tenuto
per sé, come sempre.
Poi,
d’improvviso, la fasciatura si sfila via e la ferita
è allo scoperto.
È
un’oscenità
sul suo corpo giovane e forte, un sacrilegio che grida la peggiore
vendetta.
Non
profonda,
perché Philippos l’ha ricucita come e dove ha
potuto; il fulcro, tuttavia, è un
buco di carne cruda, un orrendo occhio rosso spalancato sul fianco. I
contorni
sono gonfi e lividi; la freccia l’hanno dovuta sradicare,
tagliarla via pezzo
per pezzo – così ha detto Philippos. Altri sono
morti per ferite come questa.
“Ah…”
Hephaistion si lascia andare a un guaito di dolore. Con infinita
delicatezza
poggia un dito sul bordo di quell’oltraggio e sospira.
Abbassa la testa e
sfiora la carne mortificata con le labbra, muovendole appena e
assorbendone il
calore innaturale. Lo sente bruciare in gola e negli occhi, assieme al
riflusso
di lacrime che non è ancora riuscito a versare. Poi, rialza
la testa e ricopre
la ferita con le bende, fin quando il tremore nelle dita non cessa e il
pianto
è di nuovo rimesso al suo posto, dietro il confine degli
occhi.
“Alekos,”
cerca di sorridergli, ma il tentativo si infrange in una smorfia.
“Guarda le
cose che fai a te stesso.”
“Io,”
risponde Aleksandros implacabile, “sono un completo
idiota.”
“Sì,
lo sei.”
Gli è uscita con una tale sicurezza, come gli avesse detto
che il cielo è blu,
che Aleksandros non può fare a meno di scoppiare in una
risata. Cauto, però,
perché il buonumore deve costargli un bel po’ con
quel fianco martoriato. Ma
c’è poco da fare, ed è sempre stato
così tra di loro: non hanno mai avuto
bisogno di trattenere i colpi.
“Sono
stato
aiutato nel farmela, questa ferita. Non posso prendermi tutto il
merito.”
Hephaistion
sente il riflusso scuro e feroce della collera risalirgli la gola e
incendiargli la faccia. E qualcosa, di questa brutalità,
deve avere colto di
sorpresa Aleksandros, che infatti ora lo fissa come fosse stordito
– o
spaventato.
Ma negli
occhi legge anche la comprensione – non quella del compagno,
o dell’amico di
una vita. È l’anima dell’amante quella
con cui gli sta parlando, ma è una voce
che non ha mai avuto bisogno di parole.
“L’uomo
che
ha fatto questo…” Persino il tono gli esce nero;
si sente addosso uno sguardo
terribile, ma Aleksandros lo sostiene senza battere ciglio.
“Morto,”
risponde. “Ogni creatura che respirava.”
Questo
per un
attimo lo coglie di sorpresa. Non è qualcosa a cui
l’esercito si abbandona
facilmente – nulla che le truppe di Aleksandros abbiano mai
fatto. Persino a
Tyrus e a Gaza era stata riservata una maggior misericordia. Ma non
erano
andate tanto vicine a uccidere il loro Re, no.
“Non
è stato
dato nessun ordine. I soldati… sono impazziti. E non si sono
fermati.” Nella
vibrazione della voce è evidente che Aleksandros non
l’avrebbe voluto. “Tu che
cosa avresti fatto?” gli chiede a bassa voce.
Hephaistion
si concede una pausa prima di rispondere. Certe cose non si pronunciano
senza
cautela. “Li avrei uccisi.”
“Tutti
quanti?”
“Tutti.
E
quello, in particolare, l’avrei ammazzato
lentamente.”
Aleksandros
sembra lasciarsi avvolgere dalle sue parole e poi farsele filtrare
dentro, fino
ad affondare nella pelle e dietro gli occhi. Non può non
sapere che i suoi
uomini farebbero questo per lui – che l’hanno
già fatto. Forse, è solo un
sacrificio che deve essere compiuto, il prezzo per restargli accanto.
Con la
mano
debole e fradicia di sudore, Aleksandros afferra una delle sue e la
stringe.
Può sentire l’energia nella presa – una
forza inviolabile che come sempre è
pronto a condividere.
“Gli
Dei
abbiano pietà per i miei nemici.”
“Abbiano
pietà per i tuoi amici, vorrai dire.” Hephaistion
gli stinge le dita a sua
volta. Stavolta, il sorriso che sente distendersi sulle labbra gli
sembra più
naturale, o così spera che appaia. Sa solo che gli
è mancato, e che è inutile
cercare le parole per esprimerlo; non è mai stato bravo con
quelle – è
Aleksandros, tra i due, quello dei grandi discorsi. Così
resta in silenzio e
lascia che siano carne e respiro a parlare per lui, le loro mani
intrecciate, e
il fiato che per un attimo viene a mancare.
“È
stato
molto difficile?” domanda Aleksandros dopo la lunga pausa.
“Sono venuto non
appena ho potuto. Quello che voglio dire
però…” sembra lottare con le frasi,
cosa strana per lui. “Le dicerie. Hai creduto
che…”
“No,”
risponde lui pronto. “E sei stato uno sciocco a correre qua
così presto.” Gli
solleva la mano per portarsela alle labbra, così da
soffocare l’affilatura nel
tono. “Io sapevo. Ma…”
“Mi
dispiace.”
“Oh,
Alekos,”
lo interrompe e la voce gli esce strozzata, per quanti sforzi abbia
fatto nel
tenerla a bada. “Temevo di sbagliarmi.”
“Mi
dispiace.”
Hephaistion
gli rivolge un cipiglio che manda lampi. “La vuoi finire di
ripeterlo?”
Aleksandros
ricambia con un tuono. “E tu vuoi chiudere la bocca e
baciarmi una buona
volta?”
Hephaistion
sorride e lo accontenta subito, restando a lungo sulle sue labbra, fin
quando
Aleksandros è costretto a staccarsi per riprendere fiato.
“L’ho
sentito, sai?”
“Certo
che
l’hai sentito,” ansima Aleksandros, rosso in viso.
“Hai la mano proprio lì
sopra.”
Hephaistion
gli rivolge un ghigno divertito e si china a baciarlo di nuovo.
“Non quello,
stupido. La ferita.” Sospira sulle sue labbra, mentre gli
prende la testa tra
le mani, carezzandogli le tempie con i pollici. “Ho sentito
la freccia quando
ti ha colpito. O quando sei caduto, non lo so. Ma era anche dentro di
me.”
Per un
istante Aleksandros tace, si limita a fissarlo prima di allungare una
mano per
sfiorarlo sui capelli. Poi, finalmente: “Philè.”
“Non
farlo
mai più.”
“Ti
ha fatto
male?” Sembra non voler desistere. Vuole sapere – e
la sua espressione è
strana; pare nascondere un mistero a cui non vuole davvero pensare
– o forse
desidera soltanto dimenticare.
Hephaistion
inclina la testa, pensoso. “Non esattamente. Era
più la consapevolezza di
qualcosa che non andava.” Scuote la testa, irritato. Non
è propriamente così,
ma ha sempre avuto difficoltà a mettere in parola il legame
che condivide con
Aleksandros da tutta la vita. Quando erano ragazzi, e aveva cominciato
a
percepire le sue emozioni e i moti del suo cuore, aveva creduto di
essere pazzo.
A ogni
modo
la sua espressione dev’essere abbastanza eloquente per lui,
che annuisce con
sicurezza.
“Anch’io
ero
certo che fossi con me,” dice a occhi socchiusi. Ha ancora
quello sguardo
strano, come se fosse stato colpito dalla violenza di una profezia. O
forse è
solo un segreto che non può rivelare – che non
può, o non vuole.
“Mi
hai
salvato la vita,” dice semplicemente, e sembra non voler
aggiungere altro. Gli
solleva la mano che indossa l’anello con l’effige
solare e se la porta alle
labbra, baciando il rubino. Muove la testa per premerselo contro la
bocca,
soffocando un sospiro.
Se
Hephaistion avesse avuto ancora dei dubbi sul significato delle sue
parole,
quel gesto è sufficiente a cacciare via ogni
perplessità e ad aprire di nuovo
le coltri buie che per un attimo gli hanno avvolto il cuore. Qualunque
cosa
Aleksandros abbia trovato, nel viaggio oscuro e terribile che per
giorni li ha
separati, ha deciso di tenerlo per sé, e gli va bene,
è pronto ad accettarlo.
Può portare il peso di un segreto, ora che il Sole
è tornato a risplendere
sulla sua vita – ed è un fardello piccolo e
immenso, come l’anello che sente di
nuovo bruciare al dito.
“Sai
che non
potrei mai lasciarti andare,” risponde in tono pratico.
“Mai, finché avrò
vita.”
“Patroklos?”
Ora va meglio. Il sorriso che gli rivolge è di nuovo il suo
– caldo e luminoso.
“Patroklos.”
Hephaistion si prende un istante per riaccomodare il cuore nel petto,
una volta
ancora. È così stupido a volte, il suo cuore:
sembra gonfiarsi e contrarsi nei
momenti meno opportuni, così che il torace gli diventa di
colpo stretto e la
gola gli duole. Ma passa dopo un attimo – passa sempre, resta
solo il calore.
Guarda di
nuovo il volto pallido e sudato di Aleksandros e lo racchiude ancora a
coppa
tra le mani, sospirando. “Dormi ora. Hai bisogno di
riposo.”
Fa per
alzarsi ma Aleksandros lo trattiene; l’energia nella sua
presa è sorprendente.
Fino a un attimo prima sembrava che non sarebbe riuscito neanche a
sollevare un
dito, mentre ora lo stringe come se non volesse mai lasciarlo andare.
“Resta
qua.”
È poco più di un sussurro, ma non
c’è bisogno che alzi la voce; Hephaistion lo
sentirebbe sempre e comunque.
Si
riaccomoda
sullo sgabello e gli prende di nuovo le mani nelle sue, ricambiando la
stretta.
“Sempre,”
risponde. “Sempre, Alekos.”
Se i
sacrifici sono qualcosa che deve essere fatto – pensa,
perdendosi di nuovo nei
suoi occhi opachi e insondabili – le promesse sono
ciò che rende dolce il
consacrarsi a questo dio di fuoco e calore, che illumina i suoi giorni.
Chiude
gli occhi
e si china a baciarlo, una volta di più.
Fine
Note:
1)
Come specificato nell’introduzione, questo racconto trae
ispirazione da un
evento realmente accaduto nella vita di Alessandro. Nel 326 a.c.
l’esercito di
Alessandro raggiunge il fiume Hyphasis – odierno Beas
– nel nord dell’India. Al
tempo era considerato il punto più estremo mai raggiunto da
un conquistatore
occidentale, e le truppe, fiaccate dalla lunga campagna e dalle
estenuanti
battaglie contro le popolazioni indigene, si rifiutano di proseguire
oltre,
nonostante il desiderio ardente di Alessandro di passare il confine e
raggiungere quello che al tempo si credeva il ‘grande mare
accerchiante’ che
racchiudeva il mondo.
La
frattura tra il Re e l’esercito sarà violenta, e
questo porterà Alessandro a
rinchiudersi nella sua tenda per giorni, incapace di accettare
l’ammutinamento
dei suoi uomini. La querelle si conclude con la risoluzione di tornare
indietro, verso la Persia, sebbene sia una scelta molto sofferta per
Alessandro, e che non mancherà di rimarcare al suo esercito.
Sulla
via del ritorno, durante la navigazione lungo gli affluenti
dell’Indo,
l’esercito si imbatte nella bellicosa tribù dei
malli, e il Re decide di
soffocare la rivolta violenta degli indigeni, così da
assicurarsi il territorio.
Come specificato nel racconto, Alessandro spedisce una parte
dell’esercito, al
comando di Efestione, verso sud, mentre la restante parte, agli ordini
di
Cratero, rimane indietro, al fine di intercettare i fuggitivi
dell’attacco
frontale che Alessando intende sferrare alla cittadella dei malli,
nella
località conosciuta con il nome di Multan.
L’assedio
si rivela lungo e faticoso, e Arriano narra di come le truppe fossero
restie a
gettarsi nella carica, com’era invece loro costume abituale,
rendendo la presa
della cittadella sempre più laboriosa.
Questo
è alla base del gesto sconsiderato di Alessandro: quando le
scale vengono
approntate sulle mura, e il Re si rende conto che i soldati non sono
pronti
come sempre a gettarsi a capofitto sull’obbiettivo, decide di
dare l’esempio, e
si arrampica da solo in cima a una delle scale, saltando dentro le mura
brulicanti di malli. Sempre Arriano racconta di come
l’esercito pare
riscuotersi di fronte a quell’atto di coraggio estremo e,
preoccupati per le
sorti del loro Re, si affastellano sulle scale per seguirlo
immediatamente. Il
peso fa crollare le rampe, con i soldati al seguito, e Alessandro si
trova
isolato sull’altro lato, ricevendo la freccia nel polmone,
che per poco non lo
uccide. È tratto in salvo da Perdicca, e dal resto dei
soldati, che in breve
tempo l’hanno raggiunto, ma giacerà in coma per
giorni, tra la vita e la morte.
L’aneddoto della lettera e della discesa del Re lungo il
fiume, dopo pochi
giorni, risponde a verità, come lo è il suo
fingersi per qualche istante morto,
per poi alzare il braccio, acclamato dai soldati.
2)
Cratero è uno dei generali più prominenti nel
gruppo di collaboratori di
Alessandro, e la sua acrimonia nei confronti di Efestione –
peraltro reciproca
– è ben documentata. Cratero era un uomo fidato e
un valido soldato, ma era un
macedone vecchio stampo, molto scettico nei confronti della fusione
attuata da
Alessandro tra persiani e macedoni, e che invece Efestione aveva
appoggiato fin
dall’inizio. Questo, oltre alle differenze caratteriali, ha
portato i due a
scontrarsi più volte, tanto che le fonti riportano di un
alterco
particolarmente acceso, che il Re in persona è dovuto
intervenire a sedare,
ricorrendo alle minacce. Dopo questo episodio non ci sono
più menzioni di litigi
tra i due uomini, ma in una situazione come quella descritta dal
racconto, ho
ipotizzato che, con Alessandro lontano, potesse essersi manifestata una
recrudescenza dell’astio esistente tra loro, come infatti ho
descritto.
Un
dettaglio interessante è il modo in cui Alessandro era
solito appellare
entrambi: se Efestione era philalexandros
(l’amico di Alessandro), Cratero era chiamato philobasileus
(l’amico del Re), a sottolineare la differenza
profonda nel tipo di rapporto. Alla luce di questo va colto il rimarco
che
Efestione rivolge a Cratero nel capitolo quattro.
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