The Long Bright Dark

di lachatblanche
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno ***


Note dell’autrice: È da diverso tempo che avevo questo in mente (ho incominciato a scrivere subito dopo che la prima serie di TD finisse), e finalmente posso postarla. Per favore, perdonate la mia scarsa conoscenza sul lavoro della polizia – spero che comunque abbia senso!

 

Il testo normale rappresenta la narrativa presente, mentre il testo in italic rappresenta la narrativa passata. Può aiutarvi immaginare Charles ed Erik come in DOFP nel presente e come in XMFC nel passato.

 

Spoiler per la serie di True Detective. 

 

Note personali: Ho amato il telefilm sopracitato e da tempo volevo scriverci qualcosa, poi, come una manna dal cielo, lachatblanche ha iniziato a scrivere questa meraviglia e perciò ho deciso di condividerla con tutto il fandom italiano.

 

È la mia prima traduzione e ho cercato di attenermi allo stile dell’autrice e di far trapelare il più possibile l’atmosfera descritta. Devo ammettere che questa sia una delle mie fanfic preferite, ultimamente, e semplicemente dovevo tradurla. Per qualunque gaffe, vi prego di correggermi.

 

Attenzione! La storia è ancora in corso. Per ora sono usciti 7 capitoli su 10 e l’autrice posta più o meno ogni mese. Io non sono velocissima a tradurre, causa scuola, ma cercherò di andare il più veloce possibile. Comunque, se sapete leggere l’inglese, vi consiglio caldamente di leggerla in lingua originale.

PS. Non avete bisogno di conoscere la serie tv per leggerla e gli spoiler non sono così tanto spoiler. Ho aggiunto il rating arancione solo perché così l’autrice potesse vedere la storia, ma in realtà è rating rosso. Più che altro per la descrizione di scene pesanti.

 

Detto questo, ecco i link:

Autrice

The Long Bright Dark

 

 

 

 

 

The Long Bright Dark

 

 

L’ufficio era quieto. Il ventilatore elettrico ronzava, le sue lame turbinavano compiendo un grazioso arco sul soffitto, spezzando il breve silenzio della stanza. L’unico ulteriore suono proveniva dai muti respiri degli occupanti dell’ufficio, che sedevano rivolgendosi sguardi colmi di riserbo e completa antipatia, due di loro separati dal terzo da una funzionale scrivania in metallo.

 

Il silenzio si prolungò per alcuni momenti, accrescendo maggiormente più i secondi trascorrevano. Un minuto più tardi, tuttavia, e la calma fu interrotta da una netta e tagliente osservazione.

 

“Questo è un completo spreco di tempo.”

 

I detective MacTaggert e Levine si girarono l’una verso l’altro, rivolgendosi uno sguardo vigile. “Signor Lehnsherr”, incominciò il detective Levine, “Ne abbiamo già parlato, noi-”

 

“Sì, detective, è corretto” arrivò una brusca replica. “Ne abbiamo già parlato. Ampiamente. Nel rapporto che scrissi dodici anni fa. Lo stesso rapporto, infatti, che si trova proprio di fronte a lei.”

 

Al tono ostile, sulla fronte del detective MacTaggert si creò un corrugamento, e dopodiché la donna s’incupì, osservando l’uomo davanti a lei.

“Per cortesia non renda tutto più difficile, Signor Lehnsherr,” disse piano. “Lei sa cosa c’è in gioco con tutto questo. Molto probabilmente più di chiunque altro. Lei sa che cosa abbiamo di fronte.”

 

La mascella dell’ex detective Erik Lehnsherr si contrasse, e le sue dita si strinsero tanto da far sbiancare le nocche. Dopo un momento di silenzio, ad ogni modo, le sue spalle si rilassarono piano piano e con la testa fece un brusco segno di assenso. “Sì,” disse infine. “Comprendo.” Dopodiché inclinò il capo e li esaminò con sguardo riflessivo. “… E, come sono sicuro che sappiate, anche Charles lo sa.” Poi lentamente indietreggiò contro lo schienale della propria sedia e alzò un sopracciglio. “Presumo che anche lui sia stato qui, no? Che anche lui abbia dovuto sopportare tutta questa…” si fermò, cercando di trovare l’esatta parola per descrivere la situazione, “Solfa?”

 

Levine e MacTaggert si scambiarono uno sguardo diffidente.

 

“Sì,” disse MacTaggert dopo una pausa. “È stato qui.”

 

Lehnsherr si lasciò sfuggire una risata priva di umorismo. “Allora sono sorpreso che in qualche modo voi abbiate bisogno di me. Sono sicuro che Charles non poteva essere più che disposto a raccontarvi tutto ciò che sa. È sempre stato il più gradevole fra noi due, nonostante tutti gli altri suoi difetti. Non ho dubbio sul fatto che lo abbiate trovato davvero molto servizievole.”

 

Levine e MacTaggert condivisero l’ennesimo sguardo.

 

“Il signor Xavier – il suo ex partner – è quel genere di persone sempre di aiuto, giusto?” chiese MacTaggert con noncuranza.

 

“Oh sì,” il sorriso di Lehnsherr si fece aspro. “Charles è sempre stato molto d’aiuto. Sempre curioso e interessato a tutto e tutti… Sempre impossibilitato a lasciare le cose come stavano.” Tentennò e rivolse ai detective Levine e MacTaggert un freddo e amaro sorriso. “Sempre così impaziente di aiutare.”

 

*

 

Tredici anni prima.

 

 

“Hai bisogno di aiuto con quello, Erik?”

 

“No,” replicò in breve Erik, senza alzare gli occhi dal suo lavoro. “Va’ via.”

 

Charles, naturalmente, prese la risposta come un invito per appollaiarsi sulla scrivania e guardare oltre le sue spalle. “Che cosa stai facendo, comunque?”

 

“Lavoro d’ufficio” grugnì Erik, senza distogliere lo sguardo dai fogli. “Qualcuno dovrà pur farlo.”

 

“E sono sicuro che tu lo fai in modo ammirevole,” disse Charles obiettivo, dandogli un colpo sulla spalla.

 

Erik grugnì nuovamente ma permise il tocco, prima di dirigere di nuovo la sua attenzione sul lavoro da fare.

 

Già due settimane di partnership e avevano solamente iniziato a comprendersi l'un con l’altro. Erik Lehnsherr era quel genere di persona che infilava il naso nel proprio incarico e si appuntava ogni pensiero e seguiva qualunque indizio e traccia, mentre il sistema di Charles era un po’ più… confuso. Erik era tentato di dire che Charles non lo avesse per nulla un sistema, ma aveva visto come si comportava se confrontato con una scena del crimine. Forse non prendeva appunti, e forse non archiviava rapporti o compiva qualcosa che avesse un merito tangibile, ma lo aveva un processo proprio. Ed era, semplicemente, di genere mentale, ecco tutto.

 

Ad Erik non importava più di quel tanto. In realtà preferiva essere quello che faceva tutti i compiti – in tal modo poteva essere sicuro che fossero stati fatti bene.

 

“Fammi sapere se ti servo per qualcosa,” disse Charles amabilmente, dandogli un ulteriore pacca sulla spalla, la quale iniziò a pizzicargli. “Sono ad una chiamata di distanza”.

 

“Charles, sei seduto a meno di cinque passi da me,” disse Erik seccamente. “Difficilmente ho bisogno di fare una telefonata.”

 

Charles sorrise. “Non stavo parlando solo di adesso,” disse con un sorriso, prima di alzarsi dal tavolo. “Beh, ti faccio le mie scuse ma ora ho un sospettato da interrogare.”

 

Erik lo guardò silenziosamente andar via, la propria fronte corrucciata. Poi, scuotendo la testa, tornò al proprio rapporto e iniziò a digitare al computer.

 

Non doveva preoccuparsi più di quel tanto di avere Xavier come partner ancora per molto, ne era certo. Se ne sarebbe andato molto presto.

 

Tutti lo facevano.

 

*

 

“Cosa mi sa dire sulla sua affidabilità?” chiese MacTaggert, chinandosi lievemente in avanti. “Direbbe che Xavier è qualcuno su cui contare?”

 

“Beh, quello dipende interamente dalle circostanze,” disse Lehnsherr seccamente, riportando la schiena contro la sedia. “Si poteva contare su di lui per scrivere un rapporto dopo aver finito un caso? No, non si poteva. Si poteva contare su di lui nel portare una dannatissima pistola quando andava a fare il proprio dovere? No, non si poteva. Ci si poteva affidare a lui nell’essere una rottura di palle per assolutamente ogni secondo di ogni giorno?” Lehnsherr inclinò la testa come se fosse assorto nei propri pensieri e dopodiché sorrise freddamente. “Ma ovviamente” fece una pausa. “Ma questo non è ciò che mi ha chiesto, ad ogni modo, giusto, detective MacTaggert? No – lei voleva sapere se Charles era un buon partner… un buon detective.”

 

“E lo era?”

 

Lehnsherr incontrò i suoi occhi. “Era il migliore,” mormorò piano. “Charles non era forse il miglior agente di polizia, ma era il più eccellente detective nel quale mi sia mai imbattuto.” I suoi occhi vagabondarono su entrambi i detective MacTaggert e Levine. “Prima o dopo.”

 

“Quindi era una persona affidabile,” disse fermamente MacTaggert, prima che Levine potesse interrompere. “Era – generalmente parlando – onesto e leale?”

 

Lehnsherr si girò nella sua direzione, allora, le sopracciglia che gli si alzavano lentamente. “Oh, non direi così,” disse a tono basso. “Ma, ecco – essere affidabile non è la stessa cosa di essere leale, no?”

 

*

 

“Il signor Lehnsherr parla molto bene di lei nel file del caso.”

 

Xavier alzò lo sguardo dalla foto che stava osservando dei detective MacTaggert e Levine che stringevano le mani col sindaco. “Davvero?” chiese vagamente, reclinando il capo nella loro direzione. “In un rapporto di più di dieci anni fa? Com’è interessante.”

 

MacTaggert lo ignorò. “Ha scritto che fu essenziale per il caso e che le sue capacità e le sue intuizioni facevano di lei un detective insorpassabile,” continuò. “Ha detto che era uno degli uomini più intelligenti che lui avesse mai incontrato.”

 

Xavier appariva poco interessato alle sue parole. “È questo quel che ha detto?” disse con dolcezza, lasciando vagare gli occhi sulle pareti dell’ufficio. Poi alzò le spalle. “Oh beh, se Erik ha detto così allora deve essere vero.”

 

Levine strinse gli occhi. “Quello era sarcasmo?” domandò, guardando con sospetto Xavier.

 

Xavier alzò un sopracciglio. “Sarcasmo?” ripeté, la sua faccia completamente inespressiva. “Lungi da me.”

 

MacTaggert fece un sospiro impaziente mentre Levine si lasciò sfuggire un ringhio. “Non importa,” disse lei, scuotendo la testa. “Ma torniamo a parlare della relazione fra lei e l’ex detective Lehnsherr, signor Xavier. Andavate d’accordo?”

 

A quella domanda, Xavier si arrestò, sembrando per la prima volta da forse dopo l’inizio dell’interrogatorio coinvolto. “Se andavo d’accordo con Erik…” ripeté pensieroso, grattandosi la guancia non rasata mentre rimuginava sulla risposta. “Beh… penso che la risposta corta sia sì… perlomeno per quanto uno potesse andare d’accordo con lui, suppongo.” Agli sguardi interrogativi di MacTaggert e Levine fece un sorriso asciutto. “Probabilmente non lo sapete ancora, ma Erik – L’ex detective Erik Lehnsherr, come lo chiamate voi – lui non è la più… piacevole persona che si potrebbe incontrare. Sebbene ironicamente,” La bocca di Xavier si contrasse in un mezzo sorriso, “era parzialmente la sua misantropia che lo rendeva così tanto interessante. Senza menzionare le sue capacità da detective.”

 

“Lo ammirava, quindi?” chiese alla leggera MacTaggert.

 

“Erik è un uomo ammirevole,” rispose amabilmente Xavier.

 

“Quella non era una risposta.”

 

“Non lo era?” batté piano le palpebre Xavier. “Ah, beh. Allora mi scusi.”

 

MacTaggert sospirò. “Lei vuole essere cooperativo con noi, vero signor Xavier?”

 

“Ma ovviamente,” Xavier piegò la testa. “Perché? Non si capisce?”

 

MacTaggert fece un sorriso sottile. “Non particolarmente.”

 

“Le mie scuse,” disse affabilmente lui. “Non avevo realizzato. Questo è il problema con le interazioni umane, vede,” scosse le spalle. “Tutto è soggettivo. Quello che per lei può sembrare non cooperativo, per me può apparire premuroso e utile. Alla fin fine, abbiamo entrambi ragione – io sono simultaneamente cooperativo e non cooperativo. Affascinante, vero?” Xavier prese un sorso dal bicchiere di alcool, molto fuori luogo, di fronte a lui. “Ciò accende una luce sulle limitazioni della comunicazione umana.”

 

“E cosa suggerirebbe?” disse impazientemente MacTaggert. “Che ci dovremmo evolvere nel leggere la mente?”

 

Il sorriso di Xavier si fece asimmetrico. “Questo sarebbe terribilmente utile, non pensa?”

 

“Oh certo,” disse Levine cupamente. “Se potessimo leggere nella mente, allora io e il detective MacTaggert non dovremmo stare qui seduti ad ascoltare queste cavolate.”

 

“Esattamente quel che pensavo io, detective,” mormorò Xavier, indirizzando deliberatamente verso Levine un sorriso dolce.

 

“Ora basta,” disse stancamente MacTaggert. “Signor Xavier, per cortesia si attenga alle domande che le vengono rivolte e pensi con accuratezza alle risposte che vuole dare. Questo è molto importante. Dobbiamo scrivere questo rapporto nel modo più completo e chiaro possibile.” Lei si fermò, allora, inclinando la testa di lato mentre guardava Xavier, la sua espressione leggermente diffidente. “Non credo che lei e Lehnsherr abbiate discusso del caso recentemente, esatto?”

 

“Se ne ho discusso con Erik?” ripeté con sorpresa Xavier. Sbatté una volta gli occhi e poi, lentamente, si portò il bicchiere di scotch alle labbra. “Detective MacTaggert,” fremette, scuotendo la testa. “Lei ha veramente bisogno di far meglio le proprie ricerche.”

 

MacTaggert alzò un sopracciglio. “Oh? E perché mai, signor Xavier?”

 

“Perché, detective,” disse freddamente Xavier, incontrando i suoi occhi, “Non parlo con Erik Lehnsherr da quasi dieci anni.”

 

*

 

“Puoi parlarmi, sai.”

 

“Posso?” il tono di Erik era asciutto. “E io che pensavo fosse un sistema unidirezionale.”

 

Charles lo guardò dal sedile del passeggero dove sedeva. “Stai per caso insinuando che parlo troppo?”

 

“Non stavo insinuando proprio un bel niente.”

 

“Sei un idiota.” Charles appariva abbastanza lieto del discorso.

 

“E tu parli troppo. Abbiamo entrambi le nostre colpe, sembra.”

 

Tutti hanno le proprie colpe, Erik. È solo che alcune sono più perdonabili di altre.”

 

Erik si girò e gli diede un’occhiata. “Stai assumendo che io trovi la tua colpa di parlare troppo una colpa perdonabile.”

 

Charles fece un sorrisetto all’osservazione. “Oh, ma io so che è così”

 

Le sopracciglia di Erik si alzarono. “Lo sai?”

 

Charles sorrise nuovamente. “Io penso che tu trovi difficile ammettere che non sono altro se non spaventosamente piacevole da ascoltare e meravigliosamente erudito.” Sorrise un poco all’espressione non impressionata di Erik, prima di alzare le spalle e tornare con la schiena contro il sedile. “La verità sta nel fatto che siamo agenti di polizia, Erik. Se qualcuno al mondo conosce quali siano le colpe umane, quelli siamo noi. Noi non facciamo altro se non trovarci faccia a faccia con le colpe umane e, più spesso che altro, queste colpe non sono scusabili.” Chiuse gli occhi, sembrando determinato e con ogni scopo a farsi una dormita lì, in macchina. “Davvero, se non lasciamo passare le piccole colpe, allora finiremo probabilmente in un manicomio. E per quanto affascinante saresti in una camicia di forza, Erik, io preferirei veramente che non ti accadesse.”

 

Erik fece silenzio per un momento. Dopodiché sospirò. “Mi farai un interrogatorio sulla mia sanità mentale ogni qualvolta chiederò un momento di pace?”

 

Il sorriso di Charles si allargò. “È possibile,” disse con fattibilità, i suoi occhi ancora chiusi mentre si allungava contro il sedile. “Perché, avevi in piano di chiederlo spesso?”

 

Erik gli fece un sorriso ironico. “Non più,” borbottò, prima di fare pressione sull’acceleratore e continuare la guida.

 

*

 

“Vede, questa è la questione con Charles,” disse freddamente Lehnsherr, facendo un tiro corto di sigaretta. I suoi occhi erano del colore dell’ardesia, e non facevano trapelare nulla. “Gli piaceva parlare. Poteva parlare di qualunque stramaledettissimo soggetto che esistesse – e spesso lo faceva, purtroppo.” Lehnsherr restò in silenzio per un momento. “C’era solo una cosa su cui non accennava parola,” disse infine. “Solo un argomento che non voleva mai toccare. Ed era quello su se stesso. Non parlava mai della sua vita personale e non parlava mai del suo passato. Non è che mi interessasse così tanto – e non è come se io fossi mai stato disposto a condividere la storia della mia vita con la gente – è solo che con Charles era veramente evidente. Poteva parlare per ore riguardo assolutamente tutto, ma cercare di estorcergli qualche racconto sulla sua famiglia era come cercare di cavar sangue da una rapa: senza senso e dannatamente frustrante.”

 

Levine lo guardava mentre lui si portava la sigaretta alle labbra e ne prendeva una boccata. “È divertente,” disse, il suo viso sgombro di qualunque espressione. “È esattamente la stessa cosa che Xavier ha detto su di lei.”

 

La faccia di Lehnsherr si fece dura. “Sì, beh, Charles è un fottuto bugiardo,” disse aspramente, un bagliore di emozione gli attraversò il volto per la prima volta. “È meglio che lo aggiungete ai vostri punti nella lista delle cose che sapete su Charles Xavier. Può sembrare e parlare come un perfetto principe ma in realtà ha la lingua di uno stramaledetto serpente.”

 

“Lo sa a causa di un’esperienze personale?” chiese svogliatamente Levine.

 

Lehnsherr gli lanciò uno sguardo minaccioso. “Era il mio partner,” disse piattamente. “Ovviamente ne ero fottutamente consapevole.”

 

“Quindi non le ha mai raccontato della sua famiglia?” chiese MacTaggert, il suo tono neutrale. “Non si è mai aperto riguardo loro?”

 

Lehnsherr esitò. “Mi disse che tutta la sua famiglia era morta,” disse infine. “Ognuno di loro. Eccetto Raven. Raven Xavier.”

 

“Lei deve essere…” Levin consultò i propri fogli. “La sorella?”

 

“Sorellastra,” corresse Lehnsherr. “Difficile a dirsi, però. Erano attaccati come sanguisughe l’uno all’altra. Beh,” si fermò. “Lo erano, perlomeno.”

 

“Prima del suo arrivo,” aggiunse Levine.

 

Lehnsherr fece una risata indignata. “È quel che vi ha raccontato lui?”

 

“Ha detto che alcune cose cambiarono dopo la prima cena che avevate avuto insieme.”

 

“Oh sì, cambiarono,” disse Lehnsherr cupamente, schiacciando la sigaretta fra le dita, “Non mi chieda se in meglio.”

 

*

 

“Lo sai, non posso far altro che pensare che tu non mi voglia qui,” disse Erik con freddezza, guardando Charles con un’espressione di pigra curiosità. “E, davvero, mi sentirei insultato… se non per il fatto che neppure io vorrei essere qui.”

 

Charles fece un sorriso sardonico. “Non è che non ti voglia qui, Erik.” Disse, una nota di scuse nella voce. “È solo che…” la sua voce si affievolì, non completando la frase.

 

Erik lo osservò silenziosamente per un istante. “Le persone pensano che io sia riservato,” disse lui alla fine. “Ma tu – tu innalzi tutto ad un altro livello, Xavier.” Soffiò fuori una risata. “Siamo partner da – quanto? – tre mesi adesso? E non sapevo che tu avessi una sorella fino a quando non mi hai detto che mi stava invitando a cena.”

 

“Ti abbiamo invitato insieme per cena,” lo corresse Charles, sembrando leggermente esasperato. “L’invito veniva da entrambi.”

 

“Si noti che sta escludendo dal racconto la parte dove ho dovuto costringerlo a farlo!” li raggiunse una chiara voce femminile alle spalle, con una nota canzonatoria nell’accento.

 

Girandosi, gli uomini furono accolti dalla vista di Raven Xavier che camminava nella loro direzione in un’aura di capelli biondi, con un sorriso allegro stampato in volto. Si precipitò verso Erik, sempre sorridendo, e allungò una mano per stringere la sua.

 

“Ciao, tu devi essere Erik,” disse entusiasticamente, i suoi occhi scintillavano mentre lo osservava da capo a piedi. “Sono Raven, la sorella di Charles. Immagino che lui ti abbia raccontato assolutamente nulla su di me.”

 

“Immagini giusto,” disse Erik secco, stendendo il braccio per poi stringerle la mano.

 

“Lui mi ha detto tutto su di te, ovviamente,” disse Raven con disinvoltura, continuando a scuotergli la mano con vigore. Dopodiché si girò in direzione di Charles con un’occhiata subdola. “Sebbene pare che abbia dimenticato di raccontarmi quanto tu sia terribilmente affascinante.”

 

“Raven,” disse Charles laconico, guardandola severamente. “Stai facendo sentire Erik a disagio.”

 

Raven alzò gli occhi al cielo, ciò nondimeno lasciò andare la mano di Erik e fece un passo all’indietro. “Forza,” disse, battendo le ciglia e voltando il capo con uno scatto verso il salotto alle sue spalle. “Puoi sederti al mio fianco.”

 

Gettando uno sguardo verso Charles, che in risposta semplicemente scosse le spalle con impotenza, Erik raddrizzò la schiena e, rivolgendo a Raven un cenno di assenso, la seguì all’interno della sala da pranzo.

 

*

 

“Sapete, siete terribilmente pazienti riguardo tutto ciò.” Xavier poteva aver avuto più di un bicchiere, ma i suoi occhi erano limpidi e completamente concentrati. Chiaramente, lui era un uomo capace di sopportare i suoi drink. “Riguardo i miei ricordi sul mio partner.” Piegò il capo e studiò i due detective di fronte a lui. “Di sicuro preferireste se slittassi alla parte divertente…?”

 

“Parte divertente?” chiese bruscamente MacTaggert.

 

Xavier alzò un sopracciglio con stanchezza. “Era una semplice espressione, mia cara. Mi scusi – detective.” Sembrava e dava l’impressione di apparire dispiaciuto, sebbene ci fosse qualcosa nei suoi occhi che faceva trapelare un affilato diletto. Dopodiché si ricompose e si raddrizzò sulla sedia. “Ma sì, sicuramente preferireste continuare… sui punti salienti dell’investigazione?”

 

“A momenti arriveremo al ritrovamento del cadavere di Muñoz,” disse placidamente Levine. “Per ora vorremmo che lei continuasse su questa strada. Come ha reagito Lehnsherr all’invito a cena con sua sorella?”

 

Xavier sospirò. “Quella maledetta cena,” mormorò, i suoi occhi girovagarono verso un angolo abbandonato del freddo, grigio ufficio. “Lì fu dove le linee iniziarono a farsi confuse, sa. Quella maledetta cena…”

 

*

 

“Allora, Charles mi ha raccontato che non hai una famiglia?”

 

Erik incontrò gli occhi della padrona di casa e scrollò le spalle. “Ce l’avevo una volta,” disse sgarbatamente. “Ora non più.” I suoi occhi vagarono su una foto poggiata alla mensola del caminetto che ritraeva i fratelli Xavier stretti uno al fianco dell’altra, due grandi sorrisi sui loro volti. Loro erano gli unici che apparivano nelle dozzine di foto disseminate per tutta la casa.

 

“È triste,” disse simpateticamente Raven. Poi, “Ce l’hai una fidanzata?”

 

Charles sbuffò. “Discreta, Raven. Davvero discreta.”

 

Raven gli lanciò un’occhiataccia dall’altro lato del tavolo e con velocità ri-direzionò lo sguardo su Erik. “Allora?” chiese, rivestendosi con un sorriso.

 

Erik la osservò per un momento. Dopodiché scosse il capo. “No,” disse. “Nessuna fidanzata.” Rivolse lo sguardo verso Charles.

 

“Questo è un male,” disse Raven, nonostante il suo tono intendesse il contrario.

 

“Non davvero.” Erik alzò le spalle.

 

“Oh,” sbatté le palpebre lei. “Beh – immagino di no.”

 

“Puoi anche smetterla, Raven,” disse con delicatezza Charles. “Erik non è fatto per la compagnia umana. Preferisce covare i propri pensieri da solo.”

 

“E tu preferisci covarli in compagnia.” Rispose senza giri di parole Erik, veloce come una pallottola.

 

Ci fu una pausa.

 

Huh,” disse Raven pensierosa, guardando con attenzione fra loro due. “Solo pochi mesi e il tuo partner ti ha già compreso. Stai perdendo colpi, fratello.”

 

Charles lanciò uno sguardo di rimprovero ma Erik scrollò il capo.

 

“No,” disse, osservando le lame della propria forchetta toccare un singolo pisello nel piatto, “In qualche modo dubito che nessuno abbia mai compreso completamente Charles.”

 

Poteva sentire gli occhi di Charles perforargli il fianco del volto, ma non alzò lo sguardo.

 

Hmm,” Raven lo stava guardando con interesse. “Beh, forse non hai compreso completamente Charles, ma tu sei definitivamente colui che ci si sia avvicinato di più; non diresti, Charles?”

 

“Oh sì,” Charles alzò lo sguardo dal piatto e sorrise. “Gli ho permesso di incontrarti, no?”

 

“Solo perché ho insistito,” rise Raven. Si rivolse ad Erik. “Ho davvero dovuto scuotere Charles per questo, sai. Non gli piace invitare persone a casa, solo se proprio deve.”

 

Erik si guardò intorno ma, sorprendentemente, non chiese il perché. Invece alzò un sopracciglio. “Perché eri così entusiasta di incontrarmi?”

 

Raven alzò le spalle. “Sei il partner di Charles, giusto? Perciò sei colui che è responsabile per tenere in salvo mio fratello. Pensavo di dover incontrare quell’uomo.” Fece una pausa. “In più, Charles non riusciva a star zitto su di te negli ultimi-”

 

Raven!” farfugliò Charles, apparendo scandalizzato.

 

Raven sorrise semplicemente a Charles e poi virò nuovamente la propria attenzione verso Erik; Erik, ciononostante, stava osservando Charles con interesse.

 

“Cosa stavi dicendo su di me?” chiese lui curiosamente, corrucciato.

 

Charles lanciò uno sguardo truce a Raven, che gli sorrise con amore prima di alzarsi dal tavolo. “E questo è il mio segnale per alzarmi a prendere altro vino,” disse con un largo sorriso. Si fermò prima di lasciare la stanza. “Hai bisogno di nulla, Charles? Penso che abbiamo un po’ di succo d’arancia da qualche parte.”

 

Charles scosse il capo. “No, no, sto bene. Beh – tranne la parte dove mi hai appena imbarazzato.”

 

Raven semplicemente gli sorrise prima di voltarsi e fuggire dalla stanza.

 

“Succo d’arancia?” chiese Erik dopo un attimo.

 

Charles alzò le spalle. “Sei troppo acuto per non aver notato il fatto che non ho toccato vino questa sera, o in nessun punto durante le poche settimane in cui ci siamo conosciuti. Sono sicuro che lo hai già capito.”

 

Erik gli fece un piccolo cenno di assenso. “Problemi?” chiese senza pretese.

 

“Ce ne erano,” rispose Charles con tono simile. “Ma sono tutti cessati quando ho deciso di attaccarmi al succo d’arancia.”

 

Erik fece sì col capo. Dopodiché, come se si sentisse in una sorta di contrattazione e fosse in debito, offrì burberamente, “Recentemente ho smesso di fumare.”

 

Hmm,” Charles prese un sorso d’acqua. “Ho notato.”

 

Erik alzò un sopracciglio. “Niente ti sfugge, vero?” mormorò.

 

Charles inclinò la testa di lato, considerando. “No,” disse di seguito. “Non davvero.”

 

E continuarono in un piacevole silenzio finché Raven non tornò col vino.

 

*

 

“Sembra che i propositi di Xavier siano stati fatti a pezzi,” borbottò Levine, voltandosi e alzando un sopracciglio verso MacTaggert.

 

MacTaggert non volle rispondere, ma i suoi occhi slittarono sulla sigaretta nella mano di Lehnsherr.

 

Lehnsherr fece una piccola risata e deliberatamente se la portò alle labbra. “Immagino che alla fin fine abbiamo entrambi compreso che se qualcosa avrebbe dovuto farci cadere in basso, non sarebbero stati i nostri vizi,” disse seccamente. Dopodiché fece un cenno a Levine. “Cosa le ha fatto dire quello di Charles? Non posso dire di esserne sorpreso ma anche così dubito che si sia presentato all’interrogatorio puzzando d’alcool. A meno che non sia cambiato più di quanto io possa immaginare.”

 

MacTaggert lanciò un’occhiataccia a Levine, che semplicemente scosse le spalle. “Xavier era perfettamente presentabile,” disse lei infine, sospirando con un accenno di esasperazione. “Ma non avrebbe risposto alle nostre domande senza che prima gli avessimo dato – come lo ha chiamato?”

 

Un’adeguata libagione”, le arrivò in aiuto Levine.

 

“Oh sì,” il sorriso di MacTaggert era sottile. “Senza un’adeguata libagione.

 

Lehnsherr non si preoccupò di coprire il proprio sorriso ironico. “Beh, beh,” mormorò. “Guarda un po’. Ha creato un gioco di potere. Ben per lui.”

 

“Quasi,” MacTaggert non era evidentemente impressionata. “Ma stiamo divagando. Lei prima disse che Xavier era un uomo molto riservato sulla sua vita privata. Perché pensa che infine avesse deciso di invitarla a casa, quella sera?”

 

Lehnsherr alzò un sopracciglio. “Penso?” la derise. “Non penso. Lo so. Mi invitò perché sua sorella insistette. Se fosse stato per lui, sono sicuro che non avrei nemmeno saputo che lei esistesse.”

 

MacTaggert si piegò in avanti. “Era protettivo nei suoi confronti?”

 

“Era iperprotettivo nei suoi confronti,” rispose schiettamente Lehnsherr. “Voleva tenerla rinchiusa in una campana di vetro e lontana dalla realtà. Ha cercato di fare del suo meglio, in ogni caso. Ma lei non era molto d’accordo, comunque.”

 

“Si è ribellata?” chiese curiosamente Levine.

 

“Non all’inizio,” disse Lehnsherr, alzando le spalle. “Amava suo fratello, vede. Erano da soli in quell’enorme casa e si attaccavano una all’altro. Non era qualcosa che si potesse rompere facilmente.”

 

“Ma poi arrivò lei.”

 

“Ma poi arrivai io,” ripeté Lehnsherr. Lentamente portò la sigaretta alla bocca. “Non che tutto ciò che successe in seguito fosse colpa mia. Suppongo che Charles abbia detto il contrario? Che tutto fosse colpa mia?” Quando né Levine né MacTaggert reagirono, lui sospirò. “Sì, beh – non lo fu. Fui più che altro… un catalizzatore. Semplicemente, velocizzai quel che sarebbe comunque successo.”

 

*

 

“Raven vuole diventare una poliziotta,” disse all’improvviso Charles mentre guidavano verso l’indirizzo dato dalla radio della polizia, le sue mani strette forti al volante. “Ha detto che lo ha sempre voluto e ora che è ventunenne vuole unirsi alla polizia.”

 

Erik gli lanciò uno sguardo. “Cosa le hai detto?”

 

“Le ho detto, «Ma certo, Raven, che puoi farti dipingere un tiro a segno sul petto e farti sparare come stile di vita.» Cosa cavolo pensi che le abbia detto?”

 

Erik alzò le spalle. “Sei un idiota.”

 

La mandibola di Charles si contrasse. “Perché? Perché non voglio che la mia sorellina sia confrontata col peggio dell’umanità quotidianamente?”

 

Tu lo fai.”

 

“Sì, lo faccio,” concordò Charles. “E questo è il perché io non voglia che lei si unisca alla polizia. Pensi che io voglia vederla faccia a faccia con le stesse cose di cui dobbiamo occuparci? Pensi che io voglia questo per lei?”

 

Erik scosse il capo. “Sei un ipocrita.”

 

“Siamo tutti degli ipocriti,” disse lui insipidamente. “Sono passato sopra quel difetto umano tanto tempo fa.”

 

Accostarono a lato della strada, esattamente dietro a quella che pareva una flotta di macchine della polizia. Uscirono dalla macchina nel momento in cui un agente correva nella loro direzione.

 

Detectives,” l’uomo fece un cenno del capo ad entrambi, un’espressione che pareva di sollievo gli decorava il volto. “Siamo lieti di avervi qui.”

 

Charles lo salutò di rimando. “Qual è il problema esattamente?”

 

“È-” l’uomo esitò, una strana espressione gli attraversò la faccia. “È… forse dovreste vedere con i vostri occhi?”

 

Erik e Charles si scambiarono uno sguardo.

 

“Ci incuriosisce,” disse Charles lievemente, sebbene la sua faccia si fosse oscurata. “È davvero qualcosa di così strano?”

 

Il poliziotto deglutì. “Questa è una città tranquilla, detectives,” disse, guardandoli seriamente. “Tranquilla e occupata da persone decenti. Il massimo che accade qui è qualche ladro, magari qualche incidente stradale causato da alcool o altre sostanze. Ma questo…” scosse il capo, il volto pallido come un lenzuolo. “Un semplice omicidio sarebbe orribile, ma questo-” vacillò. “Questo casino è una vera e propria merda, se me lo lasciate dire, signori.”

 

“Ma certo,” disse Charles. Poi guardò velocemente Erik. “Come ho già detto, m’incuriosisce. Adesso, se non le dispiace – ci faccia strada.”

 

Seguirono il poliziotto non molto lontano, verso uno spazio libero. Era facile notare perché il cadavere non era stato ritrovato prima – il luogo si trovava un po’ lontano dal sentiero battuto e non sarebbe stato visibile dalla strada. Solo qualcuno che fosse passato per quello sgombero avrebbe potuto vedere qualunque cosa che si trovasse là.

 

Superarono altri poliziotti, ed era chiaro il disconforto nei loro occhi. Continuarono a camminare, comunque, senza fermarsi, finché non arrivarono ad una curva del sentiero. La seguirono e procedettero fino a quando non fossero più circondati dagli alberi e fosse così possibile vedere, lì, di fronte a loro-

 

“Ecco, vedi,” disse Charles dopo un minuto, la sua espressione seria. “Questo è perché non voglio che mia sorella diventi un poliziotto.”

 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo due ***


“Abbiamo le foto del corpo,” MacTaggert tirò fuori da un fascicolo una serie di fotografie e le allungò con cura sul tavolo di fronte a Lehnsherr. “Per aiutarla a ricordare.”

 

“La mia memoria sta bene,” disse Lehnsherr burbero, ignorando le foto. “È difficile dimenticare, soprattutto una scena come quella.”

 

“Posso immaginare,” concordò Levine, osservandolo minuziosamente. “Come reagì Xavier alla scena del crimine?”

 

Lehnsherr alzò le spalle. “In modo normale,” disse.

 

“Normale per lui o normale in senso generale?” chiese scaltramente MacTaggert.

 

Lehnsherr fece un sorrisetto. I suoi denti risplendettero nonostante la luce fioca, attribuendogli un’aria quasi sinistra sul volto. “Ragazza astuta,” mormorò. “Lei sta imparando a fare le giuste domande.”

 

“Ora posso comprendere perché lei e Xavier siete stati partener così a lungo,” replicò seccamente lei. “Siete entrambi due stronzi condiscendenti.”

 

Il fastidioso sorriso di Lehnsherr si allargò. “Fa parte del nostro charme. O così mi è stato detto. Di solito da Charles stesso.”

 

“Potrei scommetterci,” sibilò MacTaggert. “Ad ogni modo – ci dica cosa accadde quando trovaste il cadavere.”

 

Lehnsherr scrollò le spalle. “All’inizio non accadde nulla. Anche voi avete visto le fotografie. Qualcosa del genere – non è uno spettacolo semplice. Non per me, e non per Charles.”

 

“La trovò una scena angosciante?”

 

Lehnsherr lanciò un’occhiata al detective MacTaggert. “Penso che tutti l’avrebbero trovata angosciante,” disse piano. “Alla vittima – Muñoz – era stata scorticata la pelle e al suo posto erano state aggiunte delle scaglie di rettile. Non fu semplice da guardare allora e non è semplice da guardare ancora oggi.” Diede un’occhiata alle fotografie sul tavolo e con una smorfia le spinse via.

 

“E come affrontò la situazione Xavier?”

 

Lehnsherr fece una pausa. “Lui – lui pareva come se stesse per star male. Inizialmente pensai che sarebbe stato male. Ma non lo fu, comunque.” Inclinò la testa assorto nei propri pensieri. “Dirò questo di Charles – può apparire come il più apatico fra tutti, ma in realtà è possibile che sia l’uomo più tenace che io abbia mai incontrato. Sembrava stesse per collassare da un momento all’altro, ma due minuti più tardi lo trovai col naso a pochi centimetri dal cadavere, come uno scienziato intento a studiare una cavia.” Lehnsherr fece una risata nasale e scosse il capo. “Non ho mai compreso se ne fossi impressionato o disgustato. Era capace di spegnere le emozioni neanche avesse un interruttore nella testa.”

 

“E lei?”

 

“Io?” Lehnsherr stette in silenzio per un minuto. “Beh – io feci quello che faccio sempre. Mi arrabbiai.”

 

*

 

“Figlio di puttana,” mormorò Erik, i pugni serrati. “Dobbiamo trovare questo bastardo. Dobbiamo trovarlo e dargli fuoco.”

 

“Sì al primo, no al secondo,” disse distrattamente Charles. Era piegato di fianco al corpo, accigliato nel notare i tagli seghettati che erano stati fatti nella carne. Il suo momentaneo attacco di nausea pareva essersi dissolto: al suo posto vi era solo una distaccata, fredda praticità. Con la coda dell’occhio, Erik notò gli sguardi turbati che i poliziotti lanciavano al suo partner. Scagliò loro un cipiglio arrabbiato e deliberatamente fece un passo in avanti, così da poter coprire Charles alla loro vista. Non che gli importassero i pregiudizi – più che altro gli importava cosa Charles pensasse dei loro sguardi.

 

Non avrebbe dovuto preoccuparsi, comunque. A Charles, era chiaro, non poteva interessare di meno, concentrato com’era sul proprio lavoro.

 

“Il rigor mortis mostra che è qui da almeno dodici ore,” disse piano Charles, osservando la rigidità delle dita della vittima. “Sebbene per il momento sia difficile affermarlo, soprattutto a causa di tutto questo… rivestimento.”

 

Le labbra di Erik si arricciarono e i suoi occhi tornarono sul corpo. Le mani gli si strinsero immediatamente in due pugni e dovette guardar via prima di fare qualcosa di stupido, condotto da una furia trasparente.

 

“Come è morto?” chiese invece, nonostante fosse sicuro di conoscere la risposta.

 

Charles sospirò. “Perdita di sangue,” disse miseramente, indietreggiando sui talloni e guardando il corpo con aria triste. “Quasi probabilmente. Il flusso di sangue indica che la vittima era-” esitò. “- che la vittima era viva quando fu scorticata.”

 

Erik si voltò dall’altra parte, sentiva il sangue pulsare con rabbia nelle vene. “Merda,” sibilò, permettendo alla propria furia di alimentare le sempre presenti fiamme della collera che si deteriorava in lui. “Che cavolo è tutto questo, Charles? Qual è – qual è il punto?”

 

Charles si alzò in piedi con lentezza in un leggiadro e bizzarro movimento, senza mai distogliere gli occhi dalla scena di fronte a lui. “Non lo so,” disse cupamente, lo sguardo ancora fisso sul povero, squallido corpo davanti a sé. “Ma qualunque cosa sia, probabilmente ne vedremo ancora.”

 

*

 

“Perciò il messaggio dell’assassino le fu immediatamente evidente quando vide il corpo di Muñoz?”

 

“Direi di sì,” Xavier sembrava sorpreso dalla domanda. “Sa, era piuttosto ovvio.”

 

“Non per tutti,” mormorò Levine, incrociando le braccia e acquistando una postura disordinata sulla sedia.

 

Xavier, seduto composto con una gamba poggiata elegantemente sull’altra, si limitò ad alzare un sopracciglio. “Davvero?” chiese vagamente. “Che sfortuna per lei.”

 

Levine si rizzò a sedere ma MacTaggert lo respinse con impazienza all’indietro.

 

“Quindi lei fu capace di comprendere cosa stesse cercando di trasmettere l’assassino sin dall’inizio?” chiese lei con scetticismo. “Non si fece nessuna domanda su quale fosse il messaggio?”

 

“Beh, sì. Ma suppongo sia stato l’omicidio seguente a chiarire il tutto,” La voce di Xavier era bassa, pensierosa. “Il messaggio, intendo. Su quanto sia sottile la linea che separi l’uomo dalle bestie. E non sto parlando delle vittime, nonostante quello che la scena del crimine avesse intenzione di mostrarci. Io sto parlando di lui.” Xavier si piegò in avanti, allora, i suoi occhi brillavano di un’improvvisa e vivida intelligenza. “Dimenticatevi per un momento del DNA e delle sequenze del genoma umano, detectives, dimenticatevi anche dell’apparenza. Quello di cui sto parlando io è la coscienza. Coscienza e consapevolezza. Perché, credetemi, questo è ciò che veramente separa il genere umano dagli animali, non siete d’accordo? La nostra abilità di sapere e comprendere e forgiare legami fra noi, e di sentire pentimento e senso di colpa e rimorso…” Xavier si perse in se stesso per alcuni momenti prima di tornare lucido. “E quindi quel che veramente separa l’uomo dagli animali è anche quel che separa il nostro assassino dal resto del genere umano. Ha la sua ironia, vero?” Xavier fece una pausa di riflessione. “Cercando di trasmetterci quanto poco le sue vittime fossero separate dai nostri cugini animali, il nostro omicida in realtà ci mostrò quanto poco lui fosse distante dalle bestie.” Xavier fece un cenno d’assenso, riflettendo. “A dire il vero ha il suo fascino, se ci pensate su – in una sorta di forma ciclica.”

 

MacTaggert e Levine, i quali erano stati seduti in silenzio per tutta la durata del monologo, si scambiarono degli sguardi perfettamente simili.

 

“E lui, signor Xavier?” chiese con delicatezza MacTaggert, riuscendo a mantenere un volto impassibile. “Le cose di cui sta parlando… pentimento e senso di colpa e rimorso… Lei le sente? Riguardo al caso Muñoz?”

 

Xavier stette in silenzio per un minuto mentre osservava il detective MacTaggert, la sua espressione indecifrabile intanto che prendeva un sorso dal bicchiere di scotch. “Tutti si pentono,” pronunciò infine, riappoggiando poi il bicchiere con attenzione. “E tutti si sentono colpevoli per qualcosa. Non sono di certo l’unico in questo.”

 

“Non è quello che ha chiesto lei,” grugnì Levine, guardando attentamente Xavier attraverso occhi semichiusi.

 

Xavier sollevò un sopracciglio e livellò Levine con uno sguardo davvero poco impressionato. “Ci stavo arrivando,” disse freddamente. Dopodiché sospirò e si girò verso il detective MacTaggert. “Onestamente?” disse, scuotendo le spalle. “Sì, suppongo di provarne. È difficile non farlo, guardando in retrospettiva. Avrei fatto le cose in modo differente se allora avessi saputo quel che so adesso? Sì, certamente. Ma in effetti questo vale sempre. Avrei saltato la colazione ieri se avessi saputo che quella sera non avrei potuto cenare? No, non lo avrei fatto. Ma ieri saltare la colazione pareva un’opzione perfettamente funzionale per me, soprattutto se avessi desiderato evitare di rimanere bloccato nel traffico per tutta la mattinata, che sarebbe stata la conclusione se mi fossi fermato a mangiare prima di uscire.

Quindi, vede, la sua domanda è effettivamente inutile, detective MacTaggert. Quel che è successo è successo, e almeno che lei non abbia poteri di precognizione o possa viaggiare nel tempo, allora non ha davvero senso chiedermelo. Tutto appare diverso quando si trova nel passato, ma in quel momento puoi fare solo quel che pensi sia meglio.” Xavier sospirò e girò lo sguardo, allungando un braccio verso il bicchiere. “In sincerità, cerco di non pensare troppo al passato, specialmente in casi come questi. Una volta che ci sei dentro è difficile uscirne fuori. Ti conduce verso ogni sorta di… complicazione.” Fece un sorriso beffardo e prese un sorso di scotch. “Sa, io mi considero un uomo di scienza, detective MacTaggert, e dopo una lunga e attenta riflessione ed esperimenti ripetuti, sa cosa ho scoperto?” aspettò finché MacTaggert scosse il capo in diniego prima di continuare. “Pentirsi? Senso di colpa? Non cambia assolutamente nulla.”

 

*

 

“Sei proprio uno stronzo, Charles!” gridò Raven, lanciandogli un’occhiata colma d’odio.

 

Charles non fece nulla se non un piccolo spasmo di fronte alla sua rabbia. “Perché?” chiese con freddezza. “Perché mi rifiuto di vederti ferita fisicamente o danneggiata emozionalmente?”

 

“Perché sei un dispotico bastardo che non ha alcun diritto di interferire con la mia vita e con riesce a ficcarsi in testa che sono abbastanza grande da poter fare quel che voglio!” sbraitò Raven.

 

Charles rimase ancora immobile. “Sono tuo fratello,” disse con pazienza. “Tuo fratello maggiore. E credo che questo mi dia, in effetti, il diritto di «interferire nella tua vita», come dici tu.”

 

“Oh vaffanculo,” lo aggredì lei. “Sei un enorme ipocrita! Tu sei diventato un poliziotto! Perché diavolo io non posso?”

 

“Perché ti rovinerebbe,” disse franco Charles, piegando le braccia sopra il petto. “Perché non voglio che tu veda le stesse cose che vedo io, e non voglio che tu ti ferisca come molte delle persone con cui lavoro si feriscono. Perché, che tu ci creda o no, io ti amo, Raven.”

 

“Non farlo,” Raven gli lanciò uno sguardo. “Non ci provare. Non puoi dire questo genere di cose, non dopo quel che hai fatto.”

 

“Stavo cercando di aiutarti-”

 

“Hai fatto in modo che non potessi fare l’esame per entrare alla polizia!” sibilò Raven furibonda. “Quel che hai fatto è così sbagliato, Charles, non posso crederci che stai cercando di giustificarti!”

 

“Mi sto giustificando,” disse freddamente Charles. “E non me ne pento. Tu sei mia sorella, Raven. La mia sorellina. Dovresti sapere che farei di tutto per proteggerti.”

 

“Oh santiddio, Charles,” gemette Raven. “Non sono una bambina! Perché non riesci a capire?” All’improvviso Raven si girò verso l’angolo della stanza dove Erik sostava in silenzio; osservava tutto ma non faceva un movimento per interferire. “Diglielo, Erik – Diglielo! Lui ti ascolta! Diglielo!”

 

Ma Erik non aprì bocca.

 

Con occhi colmi di lacrime per la frustrazione, Raven tornò su Charles, le sue mani strette in pugni. “Non avevi nessun diritto di fare quello che hai fatto.” Disse con tono conciso. “E non puoi continuare a trattarmi come una bambina. Non puoi. E non lo permetterò. Dico sul serio, Charles. Io – io non permetterò che tu lo faccia.”

 

Con un ultimo sguardo che rispecchiava tradimento, si voltò e con un rapidità uscì dalla stanza.

 

Nel momento in cui fu abbastanza lontana, la facciata calma di Charles lasciò il suo viso e le sue spalle collassarono.

 

“Merda,” mormorò piano.

 

Erik non disse nulla.

 

“Beh, forza,” disse con acidità Charles. “So a cosa stai pensando. Puoi anche farti avanti e dirlo ad alta voce.”

 

Erik non parlò subito. Quando lo fece, il suo tono era completamente neutrale. “Sei un idiota.” Disse semplicemente.

 

La mascella di Charles si contrasse. “Felice che hai potuto toglierti questo peso dal petto.”

 

Erik scrollò le spalle. “È la verità.”

 

“Allora?” chiese Charles quando si accorse che Erik non aveva intenzione di apostrofare. “Non vuoi aggiungere nient’altro? Non vuoi dirmi quanto sia sbagliato nasconderla dal mondo solo perché io sono terrorizzato all’idea di vederla di fronte a quanto orribili possano essere gli umani?”

 

“Pare tu stia già facendo un ottimo lavoro,” gli fece notare l’altro seccamente, appoggiando la schiena alla parete e fissando Charles. “Non penso tu abbia bisogno che io ti dica quel che già sai.”

 

Charles sospirò e si passò una mano sul volto. “Scommetto che pensi che io mi sia sbagliato?”

 

Erik non disse nulla.

 

Charles fece silenzio per un momento. “Pensi che debba lasciarle fare quello che vuole, vero?” disse infine, la sua voce quieta.

 

“Non penso che tu stia facendo a nessuno dei due un favore impedendole di fare quello che vuole,” replicò con calma Erik. “E – francamente? – penso che tu la stia sottovalutando. Ha ragione quando dice che la tratti come una bambina. Forse non lo vedi, Charles, ma è una donna adulta. È il momento che tu la tratti da tale.”

 

Charles si limitò a scuotere il capo. “Non posso farci niente, amico mio,” disse tristemente. “Permetterle di fare questo… va contro qualsiasi mio istinto. Può anche odiarmi, Erik, ma non smetterò mai di fare di tutto per proteggerla.”

 

“E non sto dicendo che non dovresti,” disse Erik imparziale.

 

Charles fece una risata. “No,” disse, il tono asciutto. “Stai solo dicendo che lo faccio in modo sbagliato.”

 

Alzarono tutti e due lo sguardo, i loro occhi si incontrarono ed entrambi si sorrisero.

 

“Forza,” disse Charles, dando ad Erik una piccola gomitata sul fianco. “Offro io un drink.” Lanciò ad Erik un’occhiata caustica. “Non posso parlare per te, ma all’improvviso mi è venuta una certa sete.”

 

Erik non disse nulla, fece un semplice cenno col capo e seguì Charles fuori dalla stanza.

 

*

 

“Mi faccia arrivare al punto, signor Lehnsherr,” disse con fermezza MacTaggert. “Pensa che gli eventi nella sua vita personale e la sua relazione col signor Xavier e sua sorella abbiano avuto qualche effetto sull’indagine riguardo il caso Creed?”

 

Lehnsherr si prese un momento per pensare. “No,” disse infine. “No, non penso sia andata così. Qualsiasi cosa si voglia dire su di noi – qualsiasi cosa si voglia dire su Charles – e so quali cose si dicono, detectives – posso semplicemente affermare che non fu altro se non professionale durante il corso dell’indagine.” Si accigliò. “Forse fin troppo professionale. Una volta al lavoro non pensava a nient’altro. Compartimentalizzare – lo chiamava così. Infilava tutto in piccole scatole nella sua testa e le archiviava per studiarle in seguito. Era bravo in quello, Charles. In macchina potevamo volerci ammazzare, ma nel momento in cui facevamo un passo oltre la portiera e andavamo verso una scena del crimine, tutto scompariva. Via, come se non fosse mai accaduto.”

 

“Vi succedeva spesso di ritrovarvi a volervi ammazzare l’un con l’altro?” chiese Levine una gentilezza ingannevole.

 

Le spalle di Lehnsherr si alzarono con pacata insicurezza. “Ci avete incontrato,” fu tutto quel che disse. “Che cosa ne pensate?”

 

*

 

“Maledizione, Charles,” ringhiò Erik, stringendo il braccio di Charles e affondandoci le dita. “Ti avevo chiesto di chiamarmi nel caso avessi mai trovato una nuova traccia.”

 

“Ora sei qui, no?” rispose con leggerezza Charles, chiaramente disinteressato di fronte a tutta quella rabbia.

 

“Non grazie a te,” grugnì Erik. Appariva infelice. “A che cosa stavi pensando? Venire qui da solo, davvero? C’è una ragione se abbiamo un partner, Charles, e non è solo per scambiarci i turni alla guida.”

 

“Ti preoccupi troppo,” disse Charles senza alcun dubbio nella voce, alzando le spalle. “Tutto quel che ho fatto è stato parlare con delle signorine molto gentili e fare qualche domanda sulle nostre vittime. Difficilmente lo definirei pericoloso.”

 

“Puttane, Charles. Hai fatto domande a delle gentili puttane.”

 

“Il mondo è bello perché vario,” disse con semplicità l’altro. “Solo perché sono prostitute non significa che non possano essere gentili.”

 

“Ci scommetto che sono state gentili,” disse Erik di malumore. Fece un sospiro e si passò una mano sul viso. “Questa volta hai perlomeno portato con te la pistola?” domandò, sebbene dal tono di voce era chiaro che le sue aspettative non fossero troppo alte.

 

Charles gli lanciò uno sguardo esaustivo. “Sai che odio portarla,” disse con aria di rimprovero. “E difficilmente ne avrei avuto bisogno.”

 

Erik sollevò un sopracciglio. “Chiaramente ne sai poco di prostitute,” disse seccamente.

 

In risposta anche Charles alzò le proprie sopracciglia. “Se lo dici tu.”

 

Erik gli diede un’occhiataccia. “Come minimo ce l’hai con te ora?”

 

Charles guardò fuori dal finestrino.

 

Erik si fece fuggire un sospiro. “Chiaramente non conosci bene neanche gli strip club,” mormorò, massaggiandosi con stanchezza la fronte.

 

Charles non rispose, ma dopo un momento di silenzio aprì la portiera dell’auto e iniziò a camminare verso il palazzo situato qualche metro di fronte a loro.

 

Erik fece una vibrazione irata con la gola prima di spingere la portiera alla sua sinistra e uscire dall’auto, affrettandosi per raggiungere Charles. “Allora, ripetilo ancora,” disse bruscamente. “Perché siamo qui?”

 

“Angel Salvadore,” disse con risolutezza Charles, dimostrando nessun genere di ripensamento.

 

Erik fece un cenno d’assenso. “Giusto,” disse. “Quindi pensi che il caso Salvadore abbia una connessione col caso Muñoz?”

 

“Ne sono quasi certo,” disse Charles cupamente. “Nessuno se ne accorse allora – come avrebbero potuto? – ma ora, dopo Muñoz… beh, adesso è tutto più chiaro.” Fece un sospiro stanco. “È una dei benefici del senno di poi, suppongo – cose che al primo sguardo appaiono uniche e distanti tendono ad avere un significato davvero differente quando viste in un contesto diverso. E in questo contesto,” il volto di Charles si fece improvvisamente scuro, “Beh – in questo contesto il significato ha una forma abbastanza sfortunata.”

 

“Abbiamo un serial killer,” disse piano Erik, sentendo il proprio cuore sprofondare.

 

“Abbiamo un serial killer,” confermò Charles, il tono altrettanto grave.

 

“Merda.”

 

“Direi.”

 

“Come abbiamo fatto a non accorgercene prima?” intimò Erik, scuotendo il capo. “Il caso Salvadore era abbastanza inusuale – perché nessuno ha approfondito? Perché è stato chiuso?”

 

Charles alzò le spalle. “Per le solite ragioni, penso,” disse con stanchezza. “Una miscela di ignoranza e incompetenza. E – come ho già detto – ora noi abbiamo il beneficio del senno di poi. Le cose non potevano sembrare così ovvie allora.” Inclinò il capo e osservò Erik. “Non puoi incolpare i poliziotti incaricati, Erik. Come avrebbero potuto comprendere? Come avrebbero potuto sospettare di un serial killer? Non c’erano altri corpi a quel tempo – non c’era uno schema.”

 

“La pelle della sua schiena fu intagliata a forma di due ali,” vociò Erik. “La carne tagliata dal corpo. E hanno pensato che fosse autolesionismo!”

 

Charles fece un sorrisetto. “Sì, quella fu un’esagerazione,” sostenne beffardamente. “Ma come ho detto – fu il prodotto di circostanze e coincidenze sfortunate. Il nome della ragazza era Angel – pensarono che con quel gesto stesse facendo una sorta di asserzione. Aggiungici il fatto che alle spalle avesse avuto precedenti di depressione e che come lavoro facesse la spogliarellista – beh, videro quel che volevano vedere. I poliziotti di quel tempo non volevano affrontare l’idea che magari ci fosse qualcosa di più sotto, che fosse qualcosa di più delle semplici azioni di una ragazza depressa e mentalmente instabile – e, davvero, chi può incolparli? Il pensiero di un serial killer in giro per strada non è semplice da digerire, e il fatto che non ci fossero altre vittime…”

 

“Smettila di creare scuse per loro, Charles,” lo aggredì Erik con rabbia. “Non fu solo il prodotto della loro incompetenza – fu anche il prodotto di una completa indifferenza. Pensarono che nessuno si sarebbe interessato di una spogliarellista morta e perciò che differenza avrebbe fatto se avessero archiviato il caso come un suicidio? Pensi sarebbe successo se a morire fosse stata una ragazza bianca di buona famiglia? Non sarebbero stati così veloci ad archiviare il tutto, allora, quelle patetiche, minimaliste e incompetenti teste di cazzo.”

 

“Non litigherò con te,” disse stancamente Charles. “Perché hai ragione. Ovviamente ne hai. È sempre la stessa storia, Erik. A nessuno importa della minoranza – i poveri, gli immigrati, gli omosessuali, chi è diverso… Nessuno vuole sentire parlare di loro. E il killer – il nostro assassino – lo sa bene e ne ha fatto un vantaggio. Sta deliberatamente scegliendo quelle persone che passano inosservate – in quale altro modo spiegheresti il fatto che nessuno di noi abbia sentito parlare prima d’ora di altre vittime?”

 

“Pensi ce ne siano delle altre?” chiese Erik, improvvisamente allerta. “Altre di cui non sappiamo niente?”

 

“Ne sono certo,” disse Charles con sobrietà. “È passato più di un mese dal caso Salvadore, ma nota quanto lontano è già arrivato. Guarda quanto – quanto sofisticato sia l’omicidio di Muñoz in confronto. In alcun modo è possibile che questi due siano i suoi unici omicidi, Erik. Devono essercene degli altri… ci siamo solo persi quelli di mezzo.”

 

Hmm,” Erik appariva turbato. “Penso tu abbia ragione.” Dopodiché lanciò a Charles una mezza occhiata. “Ma forse è meglio che non chiami degli assassini «sofisticati» di fronte ad altri, Charles. Già tutti credono che tu sia abbastanza strano senza che pensino tu abbia qualche feticismo verso gli assassini.”

 

Charles corrugò il naso. “Lo terrò… a mente.”

 

“Bene,” annuì Erik. Poi sollevò un sopracciglio. “Entriamo in questo strip club o stiamo qua ad aspettare per tutto il giorno?”

 

Charles fece un sorriso beffardo. “Qualcuno è impaziente,” mormorò, prima di incamminarsi.

 

Erik lo osservò per alcuni secondi, poi scosse il capo e lo seguì.

 

*

 

“Mi permetta di dirlo, signor Lehnsherr, ma lei e il signor Xavier non avete molto in comune.”

 

Lehnsherr sbuffò all’affermazione. “Davvero?” disse seccamente. “Come ha fatto a capirlo?”

 

“Quello che intende dire il mio collega,” entrò nella conversazione MacTaggert, alleggerendo la situazione. “È che pare voi abbiate due stili d’indagare completamente diversi.”

 

Lehnsherr annuì. “È corretto.”

 

“Il suo stile era più ordinato e trasparente, mentre quello del signor Xavier era…” MacTaggert si fermò, cercando la parola più appropriata.

 

“Un completo caos?” offrì Lehnsherr sarcasticamente.

 

“Beh, stavo per dire inusuale, ma sì, penso funzioni anche così.”

 

Lehnsherr fece una risata sprezzante ma non disse nient’altro, così MacTaggert continuò.

 

“Le cose non dovettero essere facili, considerando che avevate due distinti e differenti modi di lavorare…” l’espressione di MacTaggert era colma di pietà. “Mi racconti – avete mai sperimentato dei… conflitti quando dovevate investigare su un crimine?”

 

“Conflitti?” Lehnsherr alzò con stanchezza un sopracciglio. “Beh, sì,” disse lentamente, “Direi di sì.”

 

Levine si piegò in avanti. “E quanto spesso accadevano questi conflitti?”

 

Lehnsherr fece una pausa per considerare la risposta. “Beh,” disse dopo una lunga pausa, il suo volto accartocciato in una profonda concentrazione. “Se mi ricordo correttamente, direi… praticamente ogni fottutissimo giorno.”

 

MacTaggert e Levine lo fissarono.

 

“Seriamente?” Levine non poté fermarsi dal chiedere. “Ogni giorno?”

 

“E comunque siete stati partner per…” MacTaggert diede un’occhiata al suo file.

 

“Tre anni, sette mesi e otto giorni,” disse Lehnsherr affabilmente, il suo viso mostrò appena una luce tremolante quando sia Levine che MacTaggert lo guardarono con sorpresa. “Cosa posso dire?” alzò le spalle. “Fu il partener che più durò al mio fianco.”

 

“Quindi le piaceva?” chiese cautamente MacTaggert.

 

Gli occhi di Lehnsherr ebbero un bagliore mentre scrollava le spalle e si portava la sigaretta alle labbra. “Non mi stava antipatico,” disse obiettivamente. “Che è molto più di quello che posso dire di tutti gli altri idioti che mi sono stati appioppati durante la carriera.”

 

“E cosa mi sa dire del resto del dipartimento?” chiese con curiosità Levine, i suoi occhi sempre puntati su Lehnsherr. “Trovavano simpatico Xavier?”

 

Lehnsherr non rispose immediatamente. “Era Charles,” disse semplicemente, come se quello significasse tutto. “Era un buon detective. Non mi è mai importato che cosa pensassero gli altri. Ma posso comprendere a come siano arrivati alla conclusione che… Aveva uno sguardo davvero intenso, sapete. Alcune volte si sedeva, ti guardava e non diceva una parola. Abbastanza fastidioso, per molte persone. Sembrava come se stesse cercando di entrarti nella testa e rubarti tutti i segreti. Alcune persone erano convinte che effettivamente lo facesse,” Lehnsherr sbuffò divertito. “Charles era molto perspicace, vedete. Lui sapeva sempre tutto… tutto quello che non necessariamente era visibile. Per questo era così bravo nelle interrogazioni.”

 

“Lo chiamavano «Il Professore», mi pare?” mormorò MacTaggert, consultando velocemente i propri appunti.

 

Lehnsherr annuì. “Penso abbiano considerato il nome «Il Prete», all’inizio,” disse con divertimento. “Perché otteneva sempre delle confessioni,” spiegò, quando notò le espressioni vuote di MacTaggert e Levine. “Ma alla fin fine scelsero Il Professore… probabilmente a causa dei cardigan.”

 

“Cardigan?” Levine sollevò un sopracciglio.

 

Lehnsherr annuì nuovamente. “Sì,” appariva divertito. “A Charles sono sempre piaciuti i cardigan. Sono sicuro lo abbiate notato quando lo avete interrogato.”

 

“Xavier non indossava un cardigan durante l’interrogatorio,” disse Levine un po’ accigliato, scagliando un sorrisetto allo sguardo lanciatogli da MacTaggert.

 

Lehnsherr sbatté le palpebre, confuso. “Huh,” disse dopo un momento, le sue labbra quasi si contorsero. “Questo è… inaspettato.”

 

“Lei stava parlando di quanto Xavier fosse percettivo.” Si insinuò MacTaggert prima che la conversazione potesse deragliare ulteriormente.

 

“Sì,” Lehnsherr sbatacchiò la sigaretta sulla tazza vuota, osservando la cenere ricadervi all’interno. “Beh, la capacità di percezione di Charles poteva essere utile con i criminali ma, come sono sicuro voi possiate immaginare, non lo rendeva il ragazzo più popolare nell’unità. Non aveva nulla contro gli altri – e non lo faceva di proposito – ma andava così.” Scrollò le spalle. “Li intimoriva. Le persone hanno sempre paura di quel che non possono spiegare, di quello che non possono controllare, dei loro segreti messi in bella vista. E con Charles quella paura si trasformava in risentimento. Alla fin fine non aveva molto supporto da parte dei suoi colleghi, nemmeno da parte del capitano, perciò quando le cose divennero difficili…” La sua voce si affievolì e invece di continuare prese una lunga boccata dalla sigaretta.

 

“Deve essere stato difficile,” disse MacTaggert, vagamente.

 

“Sono sicuro lo fosse,” concordò Erik, il tono leggero. “All’inizio deve avergli dato molto infastidito. A Charles è sempre piaciuto il consenso altrui, sapete. Ma le cose stavano così e lui ne era abituato. Quello che dovete comprendere è che per Charles è sempre andata così. Sempre. Sin da quando era giovane.”

 

“Cosa-”

 

“Chieda a Charles,” tagliò corto Erik. “Non che ve lo racconterà. Ma non sono affari miei. Il mio punto è questo: lo disturbava il fatto di non essere accettato? Sì, ovviamente. Ma ci è passato sopra. Charles è forte. Molto più forte di quanto voi possiate immaginare. E credetemi, è sopravvissuto a condizioni peggiori che un luogo di lavoro colmo di colleghi amareggiati. Sapeva di non aver bisogno di amici: aveva il suo lavoro.”

 

“E aveva lei,” aggiunse piano MacTaggert, causando gli sguardi che sia Levine che Lehnsherr le rivolsero.

 

Lehnsherr la osservò per un istante. “Sì,” disse infine. “Suppongo di sì. Per un po’ di tempo.”

 

*

 

“È mai successo che la signoria Salvadore si sentisse a disagio? Magari si sentiva minacciata o inqueta nei confronti di qualche… cliente?”

 

La direttrice del locale sbuffò. “Tesoro, tutte noi ci sentiamo in quel modo nei confronti di tutti i nostri «clienti», non c’è nulla di strano o inusuale in questo.”

 

“C’è mai stato qualcuno in particolare?” continuò Charles con pazienza. “Qualcuno che l’abbia mai minacciata o le facesse più paura di altri?”

 

La donna si limitò a scuotere la testa. “No, nessuno. Ho detto le stesse cose l’anno scorso e le ripeto adesso. Questo fu solo un altro, insensato omicidio e la nostra ragazza è stata colei a soffrirne.”

 

“Quindi lei non crede all’ipotesi del suicidio di Angel?” Chiese immediatamente Erik.

 

La donna sbuffò nuovamente. “Questo è quello che ci hanno detto, ma non ci ho mai creduto, nemmeno per un secondo. Conoscevo Angel, ed era la più forte fra di noi. Non sarebbe mai scomparsa per andare a suicidarsi. Forse non so cosa le sia accaduto, ma questo fatto lo so per certo.”

 

Continuarono a farle alcune domande per un po’, ma tutto quello che la donna poteva rivelare era già stato dichiarato in precedenza ed era stato scritto nei rapporti della polizia. Non c’era più altro da raccontare.

 

Nel momento in cui Charles ed Erik stavano per andarsene, comunque, la donna fiatò un’altra volta. 

 

“C’è un’ultima cosa,” disse, sembrando in conflitto con se stessa.

 

Erik e Charles si girarono per guardarla.

 

“C’è… C’è forse un’altra persona con cui potreste parlare.”

 

Cinque minuti più tardi e una piccola, timida ragazza fu accompagnata nella stanza; aveva una lunga coda di cavallo che ondeggiava amabilmente mentre li raggiungeva.

 

“Volevate parlarmi?” chiese con tono nervoso, facendo un passo in avanti. Portava un enorme e grigio pullover che copriva interamente la sua figura e la obbligava ad arrotolare le maniche. “Di – di Angel?”

 

Charles scambiò uno sguardo con Erik, il quale la guardava in modo cupo.

 

“Sì,” disse affabilmente Charles, offrendole un caldo sorriso e un cenno di assenso. “Se non ti dispiace. Il tuo nome è…?”

 

“Kitty,” disse la ragazza per poi arrossire. “Beh, quello è il mio – in realtà è Katherine, ma tutti qui mi conoscono come Kitty.”

 

“Kitty, quindi,” disse con cura Charles, facendo un altro sorriso.

 

La ragazza restituì il sorriso con cautela. “Suona in modo diverso quando lei lo pronuncia.”

 

“È l’accento,” disse Charles con confidenza e ciò gli fece guadagnare un ulteriore sorriso. Dopodiché ritornò sui fatti importanti e guardò Erik, per poi piegarsi in avanti. “Kitty, la direttrice ci ha detto che forse potresti raccontarci qualcosa su Angel Salvadore… qualcosa che non fu detto la prima volta.”

 

Kitty strisciò i piedi per terra prima di annuire. “Sì,” disse a bassa voce. “Penso di sì.”

 

“Perché non hai mai detto niente prima di adesso?” chiese Erik impetuosamente, apparentemente incapace di fare silenzio.

 

Kitty lo guardò nervosamente per un momento prima di alzare le spalle. “Non ero… grande abbastanza per essere qui,” disse con imbarazzo, abbassando lo sguardo verso il pavimento. “Lo so che non è passato tanto tempo – ma allora ero giovane e stupida e non volevo essere allontanata dalle altre ragazze. Mi dispiace.”

 

Erik la studiò. “Non sembri grande abbastanza per essere qui nemmeno adesso,” grugnì, accigliandosi nell’osservarla.

 

“Oh, sono legale,” disse velocemente Kitty per poi arrossire e ritornare a guardarsi i piedi.

 

“Potresti raccontarci qualcosa in più su ciò che accadde ad Angel Salvadore, per favore, Kitty?” interruppe Charles con cortesia, sorridendole in modo incoraggiante. “La conoscevi bene?”

 

Kitty esitò, scagliando uno sguardo diffidente verso Erik, decidendo infine di concentrarsi su Charles. “S-sì,” disse, apparendo abbastanza ansiosa. “Ero – ero amica di Angel. Parlavamo molto. Lei – lei si prendeva cura di me quando ero appena arrivata.”

 

Charles ed Erik condivisero uno sguardo.

 

“Di cosa parlavate, Kitty?” chiese Charles con un tono ancora dolce e piacevole.

 

Kitty alzò le spalle. “Le solite cose. Gossip fra ragazze, gli uomini del club, il lavoro… cose così.”

 

“Angel non ti ha mai parlato di cose inusuali? Qualcuno che potesse averla fatta sentire impaurita o minacciata?”

 

Kitty scosse il capo. “No,” disse, accartocciando le sopracciglia. “Non – non esattamente. Ma è cambiata, più o meno, proprio prima – prima.”

 

“Cambiata?” Erik si fece in avanti. “Che cosa intendi?”

 

“Beh,” disse Kitty lentamente. “Qualche settimana… prima… all’improvviso si è unita a questo – questo gruppo.”

 

“Gruppo?” domandò Erik con attenzione. “Che tipo di gruppo? Una sorta di setta?”

 

“Forse?” Kitty appariva incerta. “Non ne parlava molto. Cercava di tenerlo segreto, ma – ma eravamo davvero unite.” Lo sguardo di Kitty si fece esausto. “Non poteva tenermelo segreto per molto perciò mi rivelò che aveva trovato un posto dove avrebbe potuto finalmente essere se stessa, dove avrebbe potuto volare più in alto e sentirsi libera.”

 

“Libera?” chiese Charles minuziosamente.

 

“Sì,” annuì Kitty. “Libera da tutto questo.” Fece un gesto alla stanza sudicia. “Era stanca di questa vita e voleva molto di più. Diceva che il suo nuovo amico poteva aiutarla a scappare da tutto questo.” Guardò le sue mani. “Disse che poteva aiutare entrambe.”

 

“Voleva portarti con sé?” disse a bassa voce Charles.

 

Kitty annuì. “Disse che prima avrebbe controllato, che doveva essere sicura dell’attendibilità.” Le sue labbra tremarono. “E poi, quando lei fosse stata sicura che andasse tutto bene mi sarebbe venuta a prendere e saremmo uscite da qui in cerca di una vita migliore.”

 

Charles sorrise mentre Erik strinse i pugni.

 

“Ovviamente non accadde.” Kitty si strofinò gli occhi. “Pensavo sarebbe successo – e anche lei, credo – ma poi incontrò lui.”

 

Sia Charles che Erik si misero allerta.

 

“Lui?” chiese gentilmente Charles, cercando di non farle pressione. “Di chi parli?”

 

Kitty scosse il capo. “Non so,” disse, sembrando irritata. “Angel non ha mai detto molto su di lui. Tutto quel che so è che ne era spaventata.” Si strofinò il naso. “Lui la spaventava davvero tanto.”

 

“Ti ha mai detto il suo nome?” chiese Charles, cercando di sopprimere l’urgenza che sorgeva.

 

“No,” disse tristemente Kitty. “Penso che neanche lei sapesse chi fosse. Mi ricordo di una volta, comunque, stava parlando di lui e non penso che avrei dovuto sentire, ma – lo chiamò col nome più strano che io abbia mai sentito.”

 

“Nome?” fece pressione Erik, il volto agitato.

 

“Sì,” Kitty era accigliata, la sua espressione corrucciata per la concentrazione. “Magari me lo sto ricordando sbagliato, ma era così strano, sapete?”

 

“Kitty,” disse Charles con pazienza, appoggiando una mano sul braccio teso di Erik. “Qual era il nome usato da Angel?”

 

Kitty si morse il labbro. “Il Re Nero,” disse infine, la sua voce un bisbiglio. “Lo aveva chiamato il Re Nero.”

 

*

 

“Come crede che gli altri poliziotti si sentissero intorno a lei, signor Xavier?”

 

Xavier inclinò la testa e rimuginò sulla domanda. “Mi tolleravano,” disse dopo un istante.

 

Le sopracciglia di Levine si sollevarono. “Tolleravano?” ripeté, la voce colma di sarcasmo. “Di sicuro non sembra amichevole.”

 

Xavier rispecchiò la sua stessa espressione. “Sì,” concordò, il tono di voce piatto. “Da qui infatti l’uso della parola tolleravano.”

 

Levine socchiuse gli occhi.

 

“Perché pensa che fosse così, signor Xavier?” chiese Moira, guardandolo attentamente. “C’era qualche ragione per questo atteggiamento nei suoi confronti?”

 

Xavier ci pensò su. “Sì,” disse infine. “Suppongo ci sia stata.” Dopodiché alzò le spalle. “Suppongo che non apprezzassero il fatto che fossi molto più intelligente di loro.”

 

Moira fece una pausa. “Mi scusi?” disse, sbattendo le palpebre.

 

Xavier sospirò. “Non lo dico per essere rude, dovete capire,” disse col più piccolo accenno di dispiacere nella voce. “Sto semplicemente esprimendo un fatto, e il fatto è che quasi tutti in quella stazione di polizia possedevano un’intelligenza media.”

 

“Uh. Huh?” Levine lo stava fissando, incredulo.

 

“Questo di certo mi precludeva dal formare un’amicizia con chiunque di loro,” Xavier continuò, imperturbato. “Ma la verità è che nessuno ha mai davvero catturato il mio interesse, quindi non ho mai sentito il bisogno di provarci. Inoltre, ero troppo differente dalla maggior parte di loro. Sono sicuro lo abbiate pensato anche voi,” i suoi occhi si soffermarono su Levine. “Che non fossi quel genere di persona che la gente si aspetta di veder diventare un poliziotto.”

 

“Perché lei è diventato un poliziotto, signor Xavier?” chiese Moira prima che Levine potesse dare una riposta maliziosa.

 

Xavier scosse le spalle. “Idealismo, suppongo,” disse vagamente, considerando la domanda. “Il desiderio di scioccare mia madre, penso. Non aveva grandi aspettative sulle forze dell’ordine.” Vi era una nota di soddisfazione nel sue parole.

 

“Quindi non lo fece per lo spirito di squadra?” disse seccamente Levine.

 

Xavier sorrise. “Non specialmente,” ammise. “Lo spirito di squadra, come dice lei, non si trovava nella mia lista dei requisiti a quel tempo. Trovo… difficile mantenere delle amicizie, sapete.”

 

Levine sbuffò.

 

Xavier continuò. “Ho provato quel genere di cose, sapete?” andò avanti, noncurante. “Cercare di avere amici e i tentativi e le spiritosaggini e tutte quelle cose lì. Quando andavo all’università. Forse lo avrei fatto ancora, se non avessi incontrato Erik. Ma l’ho fatto, e dopodiché non mi sembrò necessario assecondare gli altri.”

 

“Lehnsherr aveva amici in polizia?” chiese Moira, curiosa.

 

“Era rispettato,” disse Xavier con diplomazia. “E le persone lo ammiravano. Non direi che avesse – non era il tipo, vedete, e non è mai stato «uno dei ragazzi», come si suol dire – ma lo stimavano comunque.”

 

“Ma gli altri non si comportavano così nei suoi confronti?”

 

Xavier alzò le spalle. “Posso incolpare solo me stesso per questo,” disse, apparendo davvero ostinato. “Non ho mai provato a piacergli. Spesso mi chiedo se è stato uno sbaglio,” dichiarò lentamente, meditando. “Le cose sarebbero potute andare meglio se mi fossi preso del tempo cercando di piacere a loro, invece di rassegnarmi alla loro tolleranza. Non sarebbe stato difficile, dopotutto. Se avessi voluto avrei potuto piacergli.”

 

“Oh, davvero?” Levine sbuffò. Anche Moira pareva scettica.

 

“È vero,” disse Charles, alzando le spalle. “Le persone sono come un gregge. Le opinioni di un gruppo su un individuo sono generalmente basate sulle reazioni di altre persone sui loro pareri. Tutto quello che bisogna fare è far sì di piacere ad una sola persona. Mostrare a qualcuno una crepa nella tua corazza, e la gente sarà più disponibile con te,” fece una pausa. “Almeno in teoria.” Ammise.

 

“E perché non ci provò?” chiese con curiosità Moira, inclinando il capo. “Perché non ha mai fatto un tentativo?”

 

Charles sorrise. “Non ne avevo bisogno,” disse con semplicità. “Avevo Erik.”

 

 

 

 

In realtà l’autrice al posto di far bere un bicchiere di scotch a Charles gli faceva bere un bicchiere di vino, ma poiché nel capitolo precedente aveva scritto scotch, poi vino e poi in generale alcool, io ho voluto mantenere il drink che più, molto egoisticamente, mi piaceva e il quale secondo me rispecchiasse il personaggio di Charles.

 

Se trovate qualche errore, vi prego di correggermi!

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Capitolo 3
*** Capitolo tre ***


“Pare lei abbia avuto alcune difficoltà col signor Xavier durante la vostra collaborazione, signor Lehnsherr.”

 

Lehnsherr a malapena guardò MacTaggert. “Definisca difficoltà.”

 

“Beh – differenze di opinione.”

 

Lehnsherr sbuffò. “Questo accade a tutti,” disse, roteando gli occhi. “Se lavori con qualcuno giorno dopo giorno è destino non sopportarsi un po’.” I suoi occhi vagarono dal detective Levine a Moira e dopodiché alzò un sopracciglio. L’espressione di Moira non cambiò, nonostante ciò Lehnsherr fece un sorriso beffardo prima di continuare. “Sicuro, Charles era un rompipalle,” ammise con un’alzata di spalle. “Ma era fatto così e io l’ho accettato.”

 

“Quindi non avete mai litigato su questioni importanti?”

 

“Prima della fine?” Lehnsherr fece passare un momento di riflessione e poi scosse il capo. “No, non davvero. Non mi crede?” Alzò un sopracciglio agli sguardi blandi dei detective. “Sono sicuro che voi abbiate controllato la nostra documentazione. Nessuno dei due si è mai lamentato dell’altro. Sono anche sicuro che vi siate accorti di questa peculiarità abbastanza in fretta.”

 

“Sono poche le lamentele che diventano ufficiali,” risposte Moira alzando le spalle con ostinazione. “Dovevo esserne certa.” A seguire alzò il mento. “Le è mai capitato di richiedere uno scambio partner, signor Lehnsherr?”

 

Lehnsherr scosse la testa. “No.”

 

Moira e Levine rimasero in silenzio.

 

Lehnsherr guardò entrambi e poi fece un sospiro. “Charles era un bravo detective,” disse, del tutto annoiato di fronte al loro scetticismo. “Più che buono, in effetti – era eccellente. Ne avevo avuti abbastanza di partner al di sotto delle capacità standard che mi aspettavo da un detective per comprendere quanto lui fosse raro, quindi credetemi – non lo avrei scambiato con nessuno ancora per molto.”

 

“Direbbe che Xavier sia stato un detective migliore di lei?” chiese MacTaggert, apparendo sinceramente incuriosita.

 

Lehnsherr stette in silenzio per un momento. “Era caotico,” disse infine. “Disordinato e arrogante e non sapeva seguire un ordine se da questo ne fosse dipesa la sua vita.”

 

“Eppure…” infierì MacTaggert.

 

“Eppure” sospirò Lehnsherr. “Eppure direi di sì – alla fin fine, non considerando tutta la dannata burocrazia e gli stereotipi sui detective – allora sì. Charles era un detective migliore di me.”

 

“E perché mai?”

 

Lehnsherr guardò con freddezza Moira prima di rispondere. “Charles ha qualcosa che io non ho,” disse con calma, accavallando lentamente una gamba sull’altra.

 

“Che cosa?” chiese con curiosità MacTaggert.

 

Lehnsherr sbatté gli occhi e poi alzò le spalle. “Immaginazione,” disse, e si portò la sigaretta alle labbra.

 

*

 

“Qualunque cosa sia, è più grande di quel che ci aspettavamo,” disse Charles sovrappensiero, morsicandosi il labbro inferiore mentre Erik guidava lontano dallo strip club. Diede una sfogliata ad un vecchio ed economico diario che timidamente Kitty gli aveva consegnato; lo aveva tenuto al segreto fra le sue cose, e adesso Charles stava studiando velocemente la calligrafia irregolare di Angel, le sue parole spesso cancellate o scritte sui bordi delle pagine, corrucciando la fronte nel tentativo di comprenderle. “Quello che posso dire è che sembra sia coinvolta più di una persona. Kitty ha detto che si unì ad un gruppo. Erik – un intero gruppo.” Fece una pausa, girando il capo per guardare accigliato fuori dal finestrino. “Quanto pensi sia grande un «gruppo»?” rifletté pigramente. “Pensi che sia più grande di una massa? Più piccolo di un’assemblea? Deve essere più piccolo di una setta…”

 

“È irrilevante,” lo interruppe bruscamente Erik prima che potesse continuare. “Stai operando su supposizioni, Charles. Non significa niente. Sappiamo entrambi che la ragazzina non conosceva nulla di tutto questo – tutto quel che ci ha detto erano dicerie. Questa storia della setta su cui ti sei fissato potrebbe non avere nulla a che fare con l’omicidio di Salvadore.”

 

“Non possiamo essere sicuri che sia una setta, Erik,” sibilò Charles con aria di rimprovero, sebbene fosse giunto ad una pagina del diario di Angel interamente coperta con le parole Il Re Nero, e poi solo una: Genosha. “Ma suppongo che possiamo affermare con certezza che ci sia un legame fra questo e la morte di Angel Salvadore. Sarebbe una coincidenza incredibile se non fosse così.”

 

“Giusto,” disse sarcasticamente Erik. “Perché le coincidenze non capitano mai.”

 

“Al contrario,” ribatté Charles con tono leggero. “Accadono sempre. Ecco perché sono coincidenze. Questo, però…” l’espressione di Charles si fece scura e i suoi occhi tornarono sul diario stretto nelle sue mani. “Tutta questa storia del Re Nero… non mi piace, Erik. Non mi piace affatto.”

 

“La ragazzina avrà probabilmente sentito male,” disse Erik sprezzante, guardando con rabbia la strada. “Non gli darei molta attenzione – lei stessa ha ammesso di non essere sicura di cosa avesse sentito.”

 

“E se non fosse così?” fece pressione Charles. “Se avesse sentito correttamente?”

 

“Allora forse stavano parlando di pezzi degli scacchi,” schioccò Erik. “Magari Angel Salvadore si era unita ad un club di scacchi.”

 

Charles si girò nella sua direzione con un sopracciglio sollevato. “Non credi seriamente a questa storia, vero?”

 

Erik lo guardò. “Ovviamente no,” disse in modo burbero. “Ma non significa che sia impossibile. È possibile tanto quanto la tua teoria del genio criminale, per dirne una. Cosa? Non dirmi che non era quello a cui stavi pensando.” Disse con sguardo di sfida.

 

Charles alzò le spalle. “Stavo pensando più che altro ad un’organizzazione criminale…” mormorò implacabilmente.

 

Erik si lasciò sfuggire una bestemmia. “Cristo,” biascicò. “Perché diavolo mi è stato accollato un partner come te? Non puoi semplicemente costruire castelli in aria, Charles. Non hai alcuna prova per le tue supposizioni. Non c’è alcuna logica!”

 

“Come la logica presente in tutti quegli omicidi?” chiese piano Charles. “Come la logica che vede Armando Muñoz e Angel Salvadore e Dio sa chi altro ammazzati?”

 

Erik si morse la lingua e continuò a guardare con rabbia il parabrezza della macchina. “C’era una logica,” disse infine, senza mai incontrare gli occhi di Charles. “Non sto dicendo che sia una logica sana e decente, ma è comunque logica. Semplicemente non sappiamo di che tipo sia, per ora.”

 

“La logica di un pazzo è difficilmente logica,” disse a voce bassa Charles, ma non apostrofò oltre il proprio pensiero.

 

Erik sospirò. “Quindi siamo d’accordo nell’essere in disaccordo,” disse con rassegnazione, facendo pressione sull’acceleratore.

 

Charles fece un sorriso e si girò per guardarlo. “Oh, amico mio,” disse affettuosamente. “Non è sempre così?”

 

*

 

“Mi racconti ancora la procedura, signor Xavier. Cosa successe dopo l’interrogatorio dei… colleghi della signorina Salvadore?”

 

Xavier sollevò un sopracciglio. “È tutto scritto nel rapporto, detective. Sono sicuro che lei lo abbia letto.”

 

“Non importa, mi piacerebbe sentirlo con le sue parole, per cortesia,” disse Moira, imperterrita.

 

Charles fece una smorfia. “Beh… mi dispiace comunicarle che la mia memoria presenta diverse lacune negli ultimi tempi,” disse in tono di scuse. “Lei mi sta chiedendo di raccontarle fatti accaduti una decade fa, sa.” Sospirò. “Ho paura di non poter essere un narratore affidabile. Farebbe meglio a controllare nel rapporto.”

 

“Paura di mandare tutto a rotoli, Xavier?” chiese Levine, i suoi occhi socchiusi. “Paura di dire qualcosa di incriminante?”

 

Xavier si voltò nella sua direzione. “Incriminante?” ripeté, la sua voce colma di disprezzo nonostante lo sguardo neutrale e franco. “Che idea curiosa. Come potrei mai incriminarmi, signor Levine?”

 

“Me lo dica lei,” grugnì Levine. “E per lei è detective Levine.”

 

Xavier sorrise. “Errore mio,” disse candidamente, sembrando piuttosto divertito. “Pare che mi sia difficile da ricordare. E invece lei, detective MacTaggert,” Xavier si girò verso di lei con l’ombra di un sorriso caldo stampato in faccia. “Pare che io non abbia nessuno problema a ricordare il suo titolo.”

 

“Cosa dovrebbe significare-” iniziò Levine, ma Moira stava già parlando.

 

“Perdoni l’opinione,” disse seccamente, ignorando Levine. “Ma lei non pare nutrire molto rispetto per i membri della sua stessa professione, signor Xavier.”

 

Xavier alzò lo sguardo in sorpresa. “Oh, ma non è vero,” disse, sembrando genuinamente stupito. “Generalmente riserbo un gran rispetto verso la polizia, glielo prometto.”

 

“Generalmente?” ripeté scaltramente Moira.

 

Il sorriso in risposta di Xavier fu lento e sottile. “Sì,” disse, il tono asciutto. “Vede detective, non è la professione che non rispetto. Sono gli individui che la esercitano ad essere un problema.”

 

*

 

“Grazie per averci ricevuto, detective Dukes,” disse gentilmente Charles. “Immagino che debba essere molto occupato al momento.”

 

Erik lanciò a Charles uno sguardo asciutto. Il detective Frederick Dukes non sembrava occupato. La sua scrivania non era ricoperta di fogli ma di pacchetti di cracker e scatole di ciambelle, e c’era anche un velo di polvere di zucchero sul colletto della sua camicia e sulla sua spaventosa e vasta pancia. Era un miracolo che l’uomo potesse sedersi dietro la scrivania.

 

“Siamo sempre felici di poter aiutare i colleghi del nostro dipartimento affilato,” disse vagamente il detective Dukes, sebbene lo sguardo imbronciato tradisse le sue parole. “Come posso aiutarvi, detectives…”

 

“Xavier e Lehnsherr,” rispose in tono amabile Charles, nonostante sapesse che difficilmente l’uomo avrebbe ricordato un nome più difficile di «Smith». “E siamo qui per parlare dell’omicidio di Mortimer Toynbee. Lei è il detective affidato al caso, giusto?”

 

“Ah,” Dukes si sollevò dalla sedia, cercando di togliersi lo zucchero dalla divisa. “Il caso Toynbee. Come lo chiamate voi.” Guardò Charles ed Erik con sospetto. “C’è una ragione precisa perché voi siate interessati al mio caso, signori?” Il mio fu palesemente sottolineato nella frase.

 

Erik e Charles si scambiarono uno sguardo. “Crediamo sia legato ad uno dei nostri casi, detective Dukes,” disse Charles tornando a guardarlo in faccia. “E che faccia parte di una serie di omicidi che sono stati commessi nella nostra contea. Forse ne ha sentito parlare.”

 

“Sì, penso di sì,” rimuginò Dukes, grattandosi il suo super secondo mento. “Un ragazzo scorticato, giusto? L’ho visto al telegiornale.”

 

Le labbra di Erik si pressarono. “Doveva essere lui,” disse, la sua voce velata da un tono oscuro.

 

“E voi pensate che il nostro uomo, Toynbee, sia un’altra vittima di quello psicopatico?” chiese Dukes, apparendo del tutto ignaro all’espressione sempre più scura di Erik.

 

“Esatto.”

 

Dukes si grattò il mento. “È un grosso salto nel vuoto quello che sta facendo, detective.”

 

“Non davvero,” disse con noncuranza Charles. “Tutte le nostre vittime sono state mutilate in qualche modo, esattamente come la sua. Non è un gran salto nel vuoto supporre-”

 

“A Toynbee è stata strappata la lingua,” lo interruppe Dukes, roteando gli occhi. “Non l’accomunerei al fatto di essere scorticati!”

 

“Non è differente,” disse Charles cautamente.

 

Dukes emise un suono impaziente. “Questo è il problema con i tipi come voi,” soffiò irritato scuotendo la testa. “State sempre a pensare che ci siano delle connessioni da fare.”

 

Erik si fece rigido. “Quali tipi come noi?” chiese con tono pericoloso, la voce bassa, ma Dukes parve non accorgersene. Stava guardando Charles, invece.

 

“Sa,” disse con noncuranza. “Qui è abbastanza lontano dal suo dipartimento, detective.”

 

Le sopracciglia di Charles si sollevarono. “La città qui affianco, detective Dukes,” disse con semplicità. “Siamo infatti come dei vicini di casa, in qualche modo.”

 

“Fa nulla,” continuò Dukes. “È abbastanza strano e improvviso per un assassino tagliare a pezzi della gente in un luogo così lontano.”

 

Il sorriso di Erik diventò sottile. “Gli assassini non tendono ad avere una giurisdizione, detective,” disse freddamente.

 

“No,” acconsentì Dukes, la sua espressione pensierosa. “Ma gli agenti di polizia sì.”

 

Erik sentì la schiena di Charles irrigidirsi. “Sta forse insinuando che non ci aiuterà, signor Dukes?”

 

Dukes alzò le spalle. “Sto solo facendo un’osservazione,” disse con pigrizia mentre si appoggiava per bene sulla sua sedia, il suo grosso stomaco pressato contro la scrivania. Gli occhi gli si socchiusero, “Ed è detective Dukes.”

 

Charles fece un debole sorriso. “Come dice lei,” asserì gentilmente, ma non disse nulla di più.

 

Dukes li guardò per un momento, dopodiché sospirò. “Lasciatemelo dire,” disse con un’esagerata bontà. “Ecco quello che farò. Farò portare qui il caso e voi due fenomeni potrete dargli un’occhiata – ma solo qui dentro, mi avete sentito? Non potete portarvelo fuori e non potete fare delle fotocopie. Questa è un’indagine ancora in corso, mi capite?”

 

La mascella di Erik si contrasse. “Abbiamo capito,” disse bruscamente.

 

Dukes lo studiò per un momento con i suoi grandi occhi porcini ricolmi di diffidenza per poi offrire un cenno di assenso soddisfatto e, allungando un enorme braccione, fare pressione sul pulsante del microfono posto sulla sua scrivania. “Allerdyce!” strascicò il nome. “Portami in ufficio il caso di Toynbee.” Si sentì un’imprecazione provenire dal microfono poco prima che Dukes allontanasse il dito dal bottone.

 

“Arriverà a minuti,” disse, gesticolando verso la porta con aria annoiata.

 

Due minuti più tardi si sentì bussare alla porta e un giovane ufficiale dai capelli disordinati e una settimana di barbetta entrò. “Ecco a lei, capo,” borbottò, lasciando cadere il file sulla scrivania e facendo così spostare alcune confezioni di ciambelle. “Il caso Toynbee.”

 

Dukes indicò Charles ed Erik con una sventolata di mano. “Daglielo a questi due,” brontolò. “Sono loro che l’hanno voluto.”

 

Allerdyce guardò entrambi con interesse, per poi passare il file fra le mani di Charles. “Ecco qui,” disse, facendo un sardonico sorrisetto quando la mano di Charles passò sopra a quella che sembrava con molto sospetto come una macchia di ketchup stampata sul fascicolo. “Non c’è molto da leggere. Toynbee ha avuto qualche precedente ma erano cose da niente – taccheggio, furto con scasso – quelle cose lì.”

 

“Causa del decesso?” chiese Erik, scrutando il fascicolo fra le mani di Charles.

 

Allerdyece sorrise. “È soffocato,” disse seccamente. “Nel suo stesso sangue. Per via della lingua tagliatagli… ma immagino che voi sappiate di quella parte della storia.”

 

“Vedo che l’esame tossicologico è risultato negativo,” mormorò sovrappensiero Charles. “Ma sembra ci siano delle escoriazioni sul polso di Toynbee e intorno al collo, come se qualcuno avesse tentato di tenerlo fermo al suolo… magari persino guardandolo soffocare.”

 

Allerdyce annuì. “Sì, è quello che immaginavo.” Roteò gli occhi al cielo quando Dukes tossicchiò. “Va bene, è quello che noi immaginavamo.” Lui ed Erik si scambiarono un’occhiata. Allerdyce gli fece un sorriso asciutto e poi continuò. “In più ci sono escoriazioni anche sullo stomaco e alcune costole rotte. Quel poveraccio si è preso davvero tante botte.”

 

“Pare proprio così, no?” sussurrò Charles, girando una pagina del file. Si fermò d’improvviso quando notò una pagina aggiunta nel fascicolo. “Cos’è questa?” chiese con tono sorpreso.

 

Persino Dukes si girò per guardare che cosa avesse catturato la sua attenzione. Quando la vide si lasciò sfuggire una risata fragorosa. “Questa?” rise. “Questa è un’importante pezzo di testimonianza, detective. Non lo vede?”

 

Charles fremette e, come Erik, si girò verso Allerdyce, il quale alzò le spalle e gli fece un sorriso pungente.

 

“Abbiamo fatto alcune domande alla famiglia di Toynbee,” spiegò, apparendo quasi dispiaciuto. “Abitava con sua sorella e la figlia di lei. La sorella era fuori la notte dell’omicidio ma la bambina era in casa ed entrambe hanno affermato che Mort fosse in casa per curare la nipote quella notte.”

 

Dukes fece una risata nasale. “Stava di sicuro mentendo par fare in modo che non chiamassimo i servizi sociali in merito ad una bambina lasciata sola in casa.”

 

“Quanti anni ha la bambina?”

 

“Cinque,” disse Dukes.

 

“Sette,” corresse Allerdyce. “La bambina ha sette anni, e ci ha detto che lo zio Mort era in casa quella notte e lei lo ha visto mentre lo rapivano.” Si fermò e fece un gesto per indicare il file. “Quello è un disegno che fece per rappresentare il rapinatore.”

 

Charles abbassò lo sguardo sulla pagina di fronte a sé. Su di essa era stato disegnato – a tutti gli effetti – il diavolo.

“Ha detto che il diavolo ha rapito suo zio?” disse Erik scettico, anche lui intento nell’osservare l’immagine, i suoi occhi si soffermarono sui goffi tratti di una matita rossa e sull’aggiunta di una lunga coda rossa con un punto disegnato all’estremità.

 

Allerdyce scrollò le spalle. “Questo è quello che ha detto lei,” disse con un cipiglio di scuse.

 

“Perché mai direbbe una cosa del genere?” chiese Charles corrucciato.

 

“La madre della bambina – la sorella di Toynbee – è una svitata ossessionata dalla religione,” disse Allerdyce aggiungendo un'altra alzata di spalle. “Possiede circa un centinaio di crocifissi in casa. La bambina è probabilmente cresciuta con la convinzione che tutti gli uomini cattivi fossero come il diavolo.”

 

Charles sospirò. “È possibile.” Disse, passandosi una mano sul volto.

 

“Sapete una cosa,” Disse magnanimamente Dukes, posando le dita sul suo enorme stomaco. “Per lo spirito di cooperazione, detectives, ecco cosa farò per voi.” Gesticolò verso il disegno con un sorriso stampato sul volto. “Questo disegno di cui siete tanto appassionati? È vostro!”

 

Charles sbatté gli occhi. “Mi scusi?” chiese sbigottito.

 

Il sorrisetto di Dukes si allargò maggiormente. “Come ho detto,” fece una smorfia soddisfatta. “Quel disegno è vostro ora. Potete tenervelo. Per la vostra indagine.”

 

“Ma a lei non serve?” chiese Charles, indignato. “Se la bambina è un testimone oculare, allora di sicuro-”

 

“Ce lo riprenderemo se mai ne avessimo bisogno, detective,” disse Dukes con condiscendenza.

 

Charles girò lo sguardo da Allerdyce, il quale portava un’espressione sofferente stampata sul viso, ad Erik, la cui faccia si era oscurata. Sospirò. “Grazie,” disse piano, recuperando il disegno dal fascicolo e con gentilezza mettendolo fra le proprie cose. “Lo terremo al sicuro nel caso ne abbiate mai bisogno.”

 

L’espressione compiaciuta sulla faccia di Dukes mostrava esattamente quanto fosse possibile quel pensiero.

 

“Non capirò mai come quell’uomo sia potuto diventare un detective,” digrignò i denti Erik circa una quindicina di minuti più tardi, quando sia lui che Charles ebbero lasciato finalmente l’ufficio di Dukes in seguito ad una mattina sprecata. “Quell’uomo è un vero idiota.”

 

“È stato straordinariamente inutile, sì,” convenne Charles, camminando a gran passi lontano dall’edificio.

 

Erik si fece torvo, la sua espressione improvvisamente contemplativa. “Pensi che fosse corrotto?” chiese insicuro.

 

Charles scosse la testa. “No,” sospirò. “Non corrotto, solo incompetente.”

 

Erik fece uno sbuffo. “Quasi quasi è peggio.”

 

Charles sorrise. “Non hai pazienta per l’incompetenza, vero amico mio?”

 

Erik gli lanciò uno sguardo pungente. “Charles,” disse con una cadenza strascicata. “Tenendo conto che sei il primo partner che non ho ancora minacciato di strangolamento e che non si è rassegnato dopo due settimane al mio fianco – cosa ne dici? Tra l’altro,” aggiunse offrendo una breve, obliqua occhiata a Charles. “Non è come se fossi l’unico qui intollerante all’incompetenza…”

 

Il sorriso di Charles si allargò. “Ovviamente hai ragione,” disse, facendo un’alzata di spalle. La sua bocca si contorse, “Solo che io lo nascondo meglio.”

 

*

 

“Ho guardato il suo rapporto, signor Xavier-”

 

“Felice di sentirlo.”

 

“Certo,” MacTaggert gli fece un sorriso sottile. “E da quello che ho letto sembra che lei e Lehnsherr siate saltati alla conclusione del serial killer abbastanza in fretta.”

 

Xavier apparve vagamente sorpreso. “Ci arrivammo in fretta?” meditò, suonando pensieroso. “Non potrei dirlo con certezza. Personalmente, ho sempre pensato che ci avessimo messo abbastanza tempo per arrivarci.”

 

“Il caso Salvadore si verificò mesi prima di quello di Muñoz,” disse con calma MacTaggert. “Non era nemmeno un suo caso. Ma dopo Muñoz all’improvviso lei si è convinto che l’uomo che cercavate fosse un serial killer.”

 

“Non furono solo Salvadore e Muñoz,” disse impetuosamente Xavier, prima di appoggiarsi indietro e alzare le spalle. “E cosa posso dire? Sono bravo nel vedere gli schemi. Alla fin fine si riduce sempre tutto a questo. Schemi.”

 

“Intende nel lavoro di un poliziotto?” si accigliò Levine.

 

“Nel lavoro di un poliziotto,” annuì Xavier. “E in tutto. Nella vita. Nella storia. Con le persone.” Gettò uno sguardo verso Levine. “Tutti sono prevedibili se li conosci bene.”

 

“La ringrazio per quest’affascinante divagazione, signor Xavier,” disse freddamente MacTaggert prima che Levine potesse rispondere. “Dev’essere la centesima volta nell’ultima ora.”

 

Xavier sorrise.

 

“Ora,” MacTaggert abbassò lo sguardo sul file stretto nelle sue mani. “Se è possibile rimetterci al lavoro, stavamo parlando della sua realizzazione riguardo a come gli omicidi fossero il lavoro di un serial killer.” Sfogliò fra le pagine del file. “Qui si dice che lei, signor Xavier, fosse interessato al caso Toynbee.”

 

Xavier alzò lo sguardo su di lei e dopodiché annuì. “Sì,” disse. “Calzava con lo schema.”

 

“Mutilazioni fisiche,” dichiarò MacTaggert con un cipiglio pensieroso. Xavier fece sì col capo. “E questo le fece credere di avere un serial killer fra le mani?”

 

“In realtà l’idea nacque prima,” ammise Xavier. “Il caso Toynbee confermò semplicemente quel che già sospettavamo.”

 

MacTaggert alzò un sopracciglio. “Con difficoltà potrebbe chiamare questa una conferma, signor Xavier,” disse dubbiosa. “Con solo tre casi per supportare la sua teoria.”

 

Xavier scosse le spalle. “Le regole di Mosca1, detective,” disse con semplicità. “Lei sa cosa dicono. La prima volta è un caso, la seconda una coincidenza, …”

 

“La terza è premeditazione,” finì MacTaggert, assottigliando gli occhi. “Capisco. Sfortunatamente, signor Xavier, pare che io fossi assente il giorno in cui insegnarono Fleming all’accademia come parte del protocollo di polizia. Mi dica, il suo superiore pensò che la sua spiegazione fosse accettabile?”

 

“Oh sì,” disse Xavier senza alcuna esitazione. “McCone era un uomo davvero intelligente. Capì immediatamente su cosa stessimo lavorando e ci diede campo libero col caso. Era con noi sin dall’inizio.”

 

*

 

Erik e Charles si scambiarono uno sguardo cauto mentre si sedettero sulle sedie di fronte al commissario capo McCone. Non si erano particolarmente sorpresi della convocazione; McCone era per natura un burocratico e, in quanto capo del dipartimento, spesso li chiamava cosicché potessero tenerlo aggiornato sul loro carico di lavoro.

 

Sin dall’inizio del caso Muñoz erano stati convocati circa cinque volte nelle ultime due settimane.

 

“Ebbene?” esigé McCone, girandosi per guardarli. “Cos’è questa storia di voi due che andate a dar fastidio ai dipartimenti limitrofi calpestando i piedi altrui?”

 

Charles inclinò la testa di lato. “Calpestando i piedi altrui, signore?” chiese sbattendo le palpebre con curiosità.

 

McCone gli lanciò un’occhiataccia. “Non guardarmi con quello sguardo da cerbiatto, Xavier,” ringhiò. “Sai molto bene di che cosa sto parlando.”

 

L’espressione piacevole di Charles rimase imperterrita. “In realtà, signore, non lo so,” disse con calma, alzando il mento. “Non ricordo di aver dato fastidio a nessun dipartimento o di aver calpestato i piedi a qualcuno.”

 

“Perché non l’abbiamo fatto,” disse risolutamente Erik, piegandosi in avanti sulla sua sedia e assottigliando lo sguardo. “Non abbiamo infastidito nessuno e sicuramente non abbiamo schiacciato i maledetti piedi di qualcuno.”

 

“Beh, questo non è quello che ho sentito io,” disse McCone cupamente, tirando fuori un foglio e sbattendolo con violenza sulla scrivania. “Ho una lamentela da un certo detective Dukes che dichiara che voi due siete stati un disturbo giù al suo ufficio.”

 

Erik e Charles si scambiarono un’occhiata prima che Erik si girasse verso McCone e facesse una detestabile sbuffata. “Se intendi il fatto che abbiamo forzato quell’idiota incompetente ad alzare quel suo pigro-”

 

“Siamo stati molto gentili,” interruppe Charles affabilmente, sorridendo a McCone quando si girò verso di lui con occhi semi chiusi. “E tutto quello che abbiamo fatto è stato solo chiedere di poter vedere i file di un suo caso. Nient’altro.”

 

“Questo non è quello che dice lui,” disse McCone, il tono feroce. “Dice che voi due siete stati problematici e offensivi.”

 

“Lo assicuro, non è stato così,” disse con calma Charles, sebbene la sua mascella fosse tesa. “Non abbiamo fatto nulla per legittimare una lamentela.”

 

“Beh, Dukes dice-”

 

“Credi che ce ne freghi qualcosa di che cosa dice quell’uomo?” lo aggredì Erik irritato. “È una barzelletta vivente, McCone. È stupido e tardo e incompetente, e dubito che abbia mai fatto un solo lavoro decente come detective in vita sua. Mi stai davvero dicendo che credi di più alle sue parole che alle nostre?”

 

“Credo al fatto che voi due siate una coppia di problematici,” disse McCone seguito da un sospiro, passandosi una mano sul volto. “Ma se dici che non avete fatto nulla di male, Erik, allora ti credo.”

 

“A me non crede, signore?” chiese innocentemente Charles.

 

McCone sbuffò. “Oh ti credo,” disse scuotendo la testa. “Ma – e non mi fraintendere, Xavier – in qualche modo trovo sia necessario ricordarmi di dover prendere tutto ciò che dici con le pinze.”

 

La fronte di Charles si corrucciò. “Che cosa strana,” mormorò, ma non apostrofò oltre.

 

McCone lo fissò per un istante prima di sospirare. “Ma stiamo divagando,” disse, sistemandosi meglio sulla propria sedia, “Qualcuno di voi due ha qualcosa di nuovo su cui fare rapporto? Oltre a Dukes, ecco.”

 

Erik e Charles si scambiarono uno sguardo ricolmo di significato. Finora erano stati molto riservati nel discutere del caso con McCone. Adesso, comunque, pareva fosse arrivato il momento di fargli sapere che cosa stava accadendo.

 

“Forse abbiamo qualcosa,” iniziò Erik cauto, preoccupandosi di guardare Charles che in cambio gli fece un cenno di assenso. “Ma non siamo ancora sicuri se sia una traccia tangibile.”

 

“Abbiamo interrogato alcune colleghe di Salvadore,” spiegò Charles di fronte allo sguardo inquisitore di McCone. “E abbiamo scoperto-”

 

“Fermi, fermi, fermi,” McCone alzò una mano a mezz’aria, interrompendoli. “Salvadore? Angel Salvadore?”

 

Erik e Charles si guardarono e dopodiché annuirono contemporaneamente. “Sì, signore.”

 

McCone li osservò perplesso. “Che cosa… il caso Salvadore è chiuso, voi ragazzi dovreste lavorare sul caso Muñoz!”

 

Charles fece un sorriso angusto. “Sì, signore,” disse con calma. “Ma abbiamo ragion di credere che Salvadore e Muñoz siano stati uccisi dallo-”

 

Whoa,” McCone tirò nuovamente su una mano. “Uccisi? La tua memoria deve avere qualche problema, Xavier, perché il caso Salvadore è stato decretato come un suicidio.”

 

“Oh, non ho dimenticato,” disse Charles risolutamente. “Semplicemente non approvo.”

 

Le sopracciglia di McCone balzarono all’insù. “Oh,” disse, la sua voce gocciolante di sarcasmo. “Non approvi. Beh ovviamente non approvi. Adesso riapro il caso semplicemente perché lo dici tu, cosa ne pensi?”

 

“Se non le dispiace,” disse Charles gentilmente. “Sarebbe davvero d’aiuto.”

 

“Peccato,” scattò McCone, guardandolo male. “Quel caso è chiuso, detective. Non ci curioserai oltre, mi hai capito?”

 

“Ma-”

 

“Maledizione, Xavier,” McCone gli lanciò uno sguardo truce. “Ho appena chiuso una telefonata con lo stramaledetto Consigliere e gli ho promesso personalmente che il caso Muñoz è un avvenimento unico che lo avremmo chiuso al più presto possibile. Non vuoi farmi apparire come un bugiardo, vero?”

 

“Meglio bugiardo che incompet-”

 

“Lehnsherr,” lo fermò McCone. “Tieni il tuo partner sotto controllo o Dio mi aiuti perché altrimenti farò in modo di mettervi come responsabili del traffico per il prossimo mese.”

 

Erik non disse nulla. Si limitò a girarsi verso Charles. Dopo un momento, Charles sospirò e girò gli occhi da un’altra parte, gesticolando ad Erik di prendere le redini.

 

McCone sollevò un sopracciglio. “Oh?” chiese del tutto non entusiasta all’idea.

 

“Ci sono segnali per cui Salvadore facesse parte di una qualche sorta di gruppo o setta. È possibile che questo gruppo abbia un legame con la sua morte. Il suo assassinio.”

 

“Questo è tutto molto interessante, ma non vedo cosa possa avere in comune con-”

 

“È stata fisicamente mutilata, signore,” lo interruppe Erik. “Proprio come Muñoz. Proprio come Toynbee. Proprio come tutti gli altri là fuori su cui dobbiamo ancora lavorare.”

 

Le labbra di McCone si assottigliarono. “Cosa stai cercando di dirmi esattamente, Lehnsherr?” esigé, restringendo gli occhi. “Dillo, forza.”

 

Erik lanciò prima un’occhiata a Charles, il quale annuì, prima di tornare su McCone. “Sto dicendo che abbiamo sotto mano un serial killer, signore,” disse francamente, guardando dritto negli occhi McCone. “Sto dicendo che pensiamo ci sia un serial killer là fuori che sta cacciando e mutilando le sue vittime, e che pensiamo ce ne saranno molte di più.”

 

McCone rimase a fissarli. “… Un serial killer,” disse insipidamente. “Voi due pensate che abbiamo sotto gli occhi uno stramaledettissimo serial killer?”

 

“Sì, signore.”

 

McCone chiuse gli occhi e imprecò. “Maledizione, che cazzo non va in voi due?” domandò. Dopodiché guardò male Erik. “Mi sarei immaginato un’idea così squinternata da parte di Xavier, ma tu, Lehnsherr? Sai molto bene di non dover dire cagate simili.”

 

“Non lo direi se non pensassi fosse vero, signore.” Disse Erik con fermezza, guardando davanti a sé e incontrando lo sguardo di McCone. “Quadra tutto. Le vittime, il modus operandi – ha tutto senso.”

 

“Per chi?” si lamentò McCone, abbassando gli occhi sulla sua scrivania e guardandola torvo.

 

Charles ed Erik si scambiarono un’occhiata.

 

Dopo un attimo, McCone gemette e si massaggiò gli occhi. “La stampa avrà una cavolo di giornata campale con questa storia,” soffiò, adocchiando con tristezza gli articoli di giornale incorniciati al muro in cui lo si ritraeva mentre scuoteva la mano col Consigliere. Sospirò e scosse nuovamente il capo. “Una cavolo di giornata campale,” mormorò amaramente.

 

Charles ed Erik si lanciarono l’ennesimo sguardo.

 

“Questo significa che ci crede, signore?” chiese Charles sembrando pieno di speranza.

 

Il volto di McCone si decorò di un sorriso beffardo. “Non voglio,” disse piattamente. “Ma è meglio confrontarlo ora che vedercelo poi messo nel culo in futuro. No,” disse scuotendo la testa. “Non possiamo ignorarlo. Voi ragazzi seguite la vostra idea del serial killer, ma – e ascoltatemi bene ora – tenetelo nascosto. Non voglio che tutto il dipartimento sappia che stiamo cercando un serial killer e sicuramente non voglio neanche che la cazzo di stampa lo venga a sapere. Mi avete capito?”

 

“Sì, signore,” Erik eseguì un cenno risoluto.

 

“Capito,” aggiunse Charles, anche lui annuendo.

 

McCone grugnì. “Bene,” disse, tornando a guardare i file posti sulla sua scrivania. “E adesso uscite immediatamente dal mio ufficio e andate a lavorare su questa vostra teoria del serial killer, e per l’amor del cielo – fatelo in fretta. Prima catturiamo questo psicopatico meglio è.” Fece un sorrisetto e poi girò uno sguardo colmo di risentimento verso il telefono. “Adesso, se voi ragazzi mi potete scusare, ho una telefonata da fare.” Sospirò. “E credetemi quando vi dico che il Consigliere non sarà felice di tutta questa storia.”

 

 

 

 

 

1 Le Regole di Mosca sono delle regole generali che si dice si siano evolute durante la Guerra Fredda per essere usate dalle spie che lavoravano a Mosca.

Nell’Internetional Spy Museum a Washington le regole sono le seguenti (per leggerle tutte cliccare il link seguente di Wikipedia©):

·         Non presumere

·         Non andare mai contro il tuo istinto

·         Non guardare mai indietro; non sei mai completamente solo

·         Murphy ha ragione (legge di Murphy in cui tutto quello che può andare male andrà sicuramente male)

·        

 

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