“Abbiamo le foto del corpo,” MacTaggert tirò fuori da un
fascicolo una serie di fotografie e le allungò con cura sul tavolo di fronte a
Lehnsherr. “Per aiutarla a ricordare.”
“La mia memoria sta bene,” disse Lehnsherr burbero,
ignorando le foto. “È difficile dimenticare, soprattutto una scena come
quella.”
“Posso immaginare,” concordò Levine, osservandolo
minuziosamente. “Come reagì Xavier alla scena del crimine?”
Lehnsherr alzò le spalle. “In modo normale,” disse.
“Normale per lui o
normale in senso generale?” chiese scaltramente MacTaggert.
Lehnsherr fece un sorrisetto. I suoi denti risplendettero
nonostante la luce fioca, attribuendogli un’aria quasi sinistra sul volto.
“Ragazza astuta,” mormorò. “Lei sta imparando a fare le giuste domande.”
“Ora posso comprendere perché lei e Xavier siete stati
partener così a lungo,” replicò seccamente lei. “Siete entrambi due stronzi
condiscendenti.”
Il fastidioso sorriso di Lehnsherr si allargò. “Fa parte del
nostro charme. O così mi è stato detto. Di solito da Charles stesso.”
“Potrei scommetterci,” sibilò MacTaggert. “Ad ogni modo – ci
dica cosa accadde quando trovaste il cadavere.”
Lehnsherr scrollò le spalle. “All’inizio non accadde nulla.
Anche voi avete visto le fotografie.
Qualcosa del genere – non è uno spettacolo semplice. Non per me, e non per
Charles.”
“La trovò una scena angosciante?”
Lehnsherr lanciò un’occhiata al detective MacTaggert. “Penso
che tutti l’avrebbero trovata angosciante,” disse piano. “Alla vittima – Muñoz –
era stata scorticata la pelle e al suo posto erano state aggiunte delle scaglie
di rettile. Non fu semplice da guardare allora e non è semplice da guardare
ancora oggi.” Diede un’occhiata alle fotografie sul tavolo e con una smorfia le
spinse via.
“E come affrontò la situazione Xavier?”
Lehnsherr fece una pausa. “Lui – lui pareva come se stesse
per star male. Inizialmente pensai che sarebbe
stato male. Ma non lo fu, comunque.” Inclinò la testa assorto nei propri
pensieri. “Dirò questo di Charles – può apparire come il più apatico fra tutti,
ma in realtà è possibile che sia l’uomo più tenace che io abbia mai incontrato.
Sembrava stesse per collassare da un momento all’altro, ma due minuti più tardi
lo trovai col naso a pochi centimetri dal cadavere, come uno scienziato intento
a studiare una cavia.” Lehnsherr fece una risata nasale e scosse il capo. “Non
ho mai compreso se ne fossi impressionato o disgustato. Era capace di spegnere
le emozioni neanche avesse un interruttore nella testa.”
“E lei?”
“Io?” Lehnsherr stette in silenzio per un minuto. “Beh – io
feci quello che faccio sempre. Mi arrabbiai.”
*
“Figlio di puttana,”
mormorò Erik, i pugni serrati. “Dobbiamo trovare questo bastardo. Dobbiamo
trovarlo e dargli fuoco.”
“Sì al primo, no al secondo,”
disse distrattamente Charles. Era piegato di fianco al corpo, accigliato nel
notare i tagli seghettati che erano stati fatti nella carne. Il suo momentaneo
attacco di nausea pareva essersi dissolto: al suo posto vi era solo una
distaccata, fredda praticità. Con la coda dell’occhio, Erik notò gli sguardi
turbati che i poliziotti lanciavano al suo partner. Scagliò loro un cipiglio
arrabbiato e deliberatamente fece un passo in avanti, così da poter coprire
Charles alla loro vista. Non che gli importassero i pregiudizi – più che altro
gli importava cosa Charles pensasse dei loro sguardi.
Non avrebbe dovuto
preoccuparsi, comunque. A Charles, era chiaro, non poteva interessare di meno,
concentrato com’era sul proprio lavoro.
“Il rigor mortis mostra che è qui da
almeno dodici ore,” disse piano Charles, osservando la rigidità delle dita
della vittima. “Sebbene per il momento sia difficile affermarlo, soprattutto a
causa di tutto questo… rivestimento.”
Le labbra di Erik si
arricciarono e i suoi occhi tornarono sul corpo. Le mani gli si strinsero
immediatamente in due pugni e dovette guardar via prima di fare qualcosa di
stupido, condotto da una furia trasparente.
“Come è morto?” chiese
invece, nonostante fosse sicuro di conoscere la risposta.
Charles sospirò.
“Perdita di sangue,” disse miseramente, indietreggiando sui talloni e guardando
il corpo con aria triste. “Quasi probabilmente. Il flusso di sangue indica che
la vittima era-” esitò. “- che la vittima era viva quando fu scorticata.”
Erik si voltò
dall’altra parte, sentiva il sangue pulsare con rabbia nelle vene. “Merda,” sibilò, permettendo alla
propria furia di alimentare le sempre presenti fiamme della collera che si
deteriorava in lui. “Che cavolo è tutto questo, Charles? Qual è – qual è il punto?”
Charles si alzò in
piedi con lentezza in un leggiadro e bizzarro movimento, senza mai distogliere
gli occhi dalla scena di fronte a lui. “Non lo so,” disse cupamente, lo sguardo
ancora fisso sul povero, squallido corpo davanti a sé. “Ma qualunque cosa sia,
probabilmente ne vedremo ancora.”
*
“Perciò il messaggio dell’assassino le fu immediatamente
evidente quando vide il corpo di Muñoz?”
“Direi di sì,” Xavier sembrava sorpreso dalla domanda. “Sa,
era piuttosto ovvio.”
“Non per tutti,” mormorò Levine, incrociando le braccia e
acquistando una postura disordinata sulla sedia.
Xavier, seduto composto con una gamba poggiata elegantemente
sull’altra, si limitò ad alzare un sopracciglio. “Davvero?” chiese vagamente.
“Che sfortuna per lei.”
Levine si rizzò a sedere ma MacTaggert lo respinse con
impazienza all’indietro.
“Quindi lei fu capace di comprendere cosa stesse cercando di
trasmettere l’assassino sin dall’inizio?” chiese lei con scetticismo. “Non si
fece nessuna domanda su quale fosse il messaggio?”
“Beh, sì. Ma suppongo sia stato l’omicidio seguente a chiarire
il tutto,” La voce di Xavier era bassa, pensierosa. “Il messaggio, intendo. Su
quanto sia sottile la linea che separi l’uomo dalle bestie. E non sto parlando
delle vittime, nonostante quello che la scena del crimine avesse intenzione di
mostrarci. Io sto parlando di lui.” Xavier
si piegò in avanti, allora, i suoi occhi brillavano di un’improvvisa e vivida
intelligenza. “Dimenticatevi per un momento del DNA e delle sequenze del genoma
umano, detectives, dimenticatevi anche
dell’apparenza. Quello di cui sto parlando io è la coscienza. Coscienza e consapevolezza.
Perché, credetemi, questo è ciò che
veramente separa il genere umano dagli animali, non siete d’accordo? La nostra
abilità di sapere e comprendere e forgiare legami fra noi, e di sentire pentimento e senso di colpa e rimorso…”
Xavier si perse in se stesso per alcuni momenti prima di tornare lucido. “E
quindi quel che veramente separa l’uomo dagli animali è anche quel che separa
il nostro assassino dal resto del genere umano. Ha la sua ironia, vero?” Xavier
fece una pausa di riflessione. “Cercando di trasmetterci quanto poco le sue
vittime fossero separate dai nostri cugini animali, il nostro omicida in realtà
ci mostrò quanto poco lui fosse
distante dalle bestie.” Xavier fece un cenno d’assenso, riflettendo. “A dire il
vero ha il suo fascino, se ci pensate su – in una sorta di forma ciclica.”
MacTaggert e Levine, i quali erano stati seduti in silenzio
per tutta la durata del monologo, si scambiarono degli sguardi perfettamente
simili.
“E lui, signor Xavier?” chiese con delicatezza MacTaggert,
riuscendo a mantenere un volto impassibile. “Le cose di cui sta parlando…
pentimento e senso di colpa e rimorso… Lei
le sente? Riguardo al caso Muñoz?”
Xavier stette in silenzio per un minuto mentre osservava il
detective MacTaggert, la sua espressione indecifrabile intanto che prendeva un
sorso dal bicchiere di scotch. “Tutti si pentono,” pronunciò infine, riappoggiando
poi il bicchiere con attenzione. “E tutti si sentono colpevoli per qualcosa.
Non sono di certo l’unico in questo.”
“Non è quello che ha chiesto lei,” grugnì Levine, guardando
attentamente Xavier attraverso occhi semichiusi.
Xavier sollevò un sopracciglio e livellò Levine con uno
sguardo davvero poco impressionato. “Ci stavo arrivando,” disse freddamente.
Dopodiché sospirò e si girò verso il detective MacTaggert. “Onestamente?”
disse, scuotendo le spalle. “Sì, suppongo di provarne. È difficile non farlo,
guardando in retrospettiva. Avrei fatto le cose in modo differente se allora
avessi saputo quel che so adesso? Sì, certamente. Ma in effetti questo vale sempre.
Avrei saltato la colazione ieri se avessi saputo che quella sera non avrei
potuto cenare? No, non lo avrei fatto. Ma ieri saltare la colazione pareva
un’opzione perfettamente funzionale per me, soprattutto se avessi desiderato
evitare di rimanere bloccato nel traffico per tutta la mattinata, che sarebbe stata
la conclusione se mi fossi fermato a mangiare prima di uscire.
Quindi, vede, la sua domanda è effettivamente inutile,
detective MacTaggert. Quel che è successo è successo, e almeno che lei non
abbia poteri di precognizione o possa viaggiare nel tempo, allora non ha
davvero senso chiedermelo. Tutto appare
diverso quando si trova nel passato, ma in quel momento puoi fare solo quel che
pensi sia meglio.” Xavier sospirò e girò lo sguardo, allungando un braccio
verso il bicchiere. “In sincerità, cerco di non pensare troppo al passato,
specialmente in casi come questi. Una volta che ci sei dentro è difficile
uscirne fuori. Ti conduce verso ogni sorta di… complicazione.” Fece un sorriso
beffardo e prese un sorso di scotch. “Sa, io mi considero un uomo di scienza,
detective MacTaggert, e dopo una lunga e attenta riflessione ed esperimenti
ripetuti, sa cosa ho scoperto?” aspettò finché MacTaggert scosse il capo in
diniego prima di continuare. “Pentirsi? Senso di colpa? Non cambia
assolutamente nulla.”
*
“Sei proprio uno stronzo, Charles!” gridò Raven,
lanciandogli un’occhiata colma d’odio.
Charles non fece nulla
se non un piccolo spasmo di fronte alla sua rabbia. “Perché?” chiese con
freddezza. “Perché mi rifiuto di vederti ferita fisicamente o danneggiata
emozionalmente?”
“Perché sei un
dispotico bastardo che non ha alcun
diritto di interferire con la mia vita e con riesce a ficcarsi in testa che
sono abbastanza grande da poter fare quel che voglio!” sbraitò Raven.
Charles rimase ancora
immobile. “Sono tuo fratello,” disse con pazienza. “Tuo fratello maggiore. E credo che questo mi dia, in
effetti, il diritto di «interferire nella tua vita», come dici tu.”
“Oh vaffanculo,” lo
aggredì lei. “Sei un enorme ipocrita! Tu
sei diventato un poliziotto! Perché diavolo io non posso?”
“Perché ti
rovinerebbe,” disse franco Charles, piegando le braccia sopra il petto. “Perché
non voglio che tu veda le stesse cose che vedo io, e non voglio che tu ti
ferisca come molte delle persone con cui lavoro si feriscono. Perché, che tu ci
creda o no, io ti amo, Raven.”
“Non farlo, Raven gli
lanciò uno sguardo. “Non ci provare. Non puoi dire questo genere di cose, non
dopo quel che hai fatto.”
“Stavo cercando di aiutarti-”
“Hai fatto in modo che
non potessi fare l’esame per entrare alla polizia!” sibilò Raven furibonda.
“Quel che hai fatto è così
sbagliato, Charles, non posso crederci che stai cercando di giustificarti!”
“Mi sto
giustificando,” disse freddamente Charles. “E non me ne pento. Tu sei mia sorella, Raven. La mia sorellina. Dovresti sapere che farei di
tutto per proteggerti.”
“Oh santiddio, Charles,”
gemette Raven. “Non sono una bambina!
Perché non riesci a capire?” All’improvviso Raven si girò verso l’angolo della
stanza dove Erik sostava in silenzio; osservava tutto ma non faceva un
movimento per interferire. “Diglielo,
Erik – Diglielo! Lui ti ascolta!
Diglielo!”
Ma Erik non aprì
bocca.
Con occhi colmi di
lacrime per la frustrazione, Raven tornò su Charles, le sue mani strette in
pugni. “Non avevi nessun diritto di fare quello che hai fatto.” Disse con tono
conciso. “E non puoi continuare a trattarmi
come una bambina. Non puoi. E non lo permetterò. Dico sul serio, Charles. Io –
io non permetterò che tu lo faccia.”
Con un ultimo sguardo
che rispecchiava tradimento, si voltò e con un rapidità uscì dalla stanza.
Nel momento in cui fu abbastanza
lontana, la facciata calma di Charles lasciò il suo viso e le sue spalle
collassarono.
“Merda,” mormorò
piano.
Erik non disse nulla.
“Beh, forza,” disse
con acidità Charles. “So a cosa stai pensando. Puoi anche farti avanti e dirlo
ad alta voce.”
Erik non parlò subito.
Quando lo fece, il suo tono era completamente neutrale. “Sei un idiota.” Disse
semplicemente.
La mascella di Charles
si contrasse. “Felice che hai potuto toglierti questo peso dal petto.”
Erik scrollò le
spalle. “È la verità.”
“Allora?” chiese
Charles quando si accorse che Erik non aveva intenzione di apostrofare. “Non
vuoi aggiungere nient’altro? Non vuoi dirmi quanto sia sbagliato nasconderla
dal mondo solo perché io sono terrorizzato all’idea di vederla di fronte a
quanto orribili possano essere gli umani?”
“Pare tu stia già facendo
un ottimo lavoro,” gli fece notare l’altro seccamente, appoggiando la schiena
alla parete e fissando Charles. “Non penso tu abbia bisogno che io ti dica quel
che già sai.”
Charles sospirò e si
passò una mano sul volto. “Scommetto che pensi che io mi sia sbagliato?”
Erik non disse nulla.
Charles fece silenzio
per un momento. “Pensi che debba lasciarle fare quello che vuole, vero?” disse
infine, la sua voce quieta.
“Non penso che tu stia
facendo a nessuno dei due un favore impedendole di fare quello che vuole,”
replicò con calma Erik. “E – francamente? – penso che tu la stia
sottovalutando. Ha ragione quando dice che la tratti come una bambina. Forse
non lo vedi, Charles, ma è una donna adulta. È il momento che tu la tratti da
tale.”
Charles si limitò a
scuotere il capo. “Non posso farci niente, amico mio,” disse tristemente.
“Permetterle di fare questo… va contro qualsiasi mio istinto. Può anche
odiarmi, Erik, ma non smetterò mai di fare di tutto per proteggerla.”
“E non sto dicendo che
non dovresti,” disse Erik imparziale.
Charles fece una
risata. “No,” disse, il tono asciutto. “Stai solo dicendo che lo faccio in modo
sbagliato.”
Alzarono tutti e due
lo sguardo, i loro occhi si incontrarono ed entrambi si sorrisero.
“Forza,” disse
Charles, dando ad Erik una piccola gomitata sul fianco. “Offro io un drink.”
Lanciò ad Erik un’occhiata caustica. “Non posso parlare per te, ma all’improvviso
mi è venuta una certa sete.”
Erik non disse nulla,
fece un semplice cenno col capo e seguì Charles fuori dalla stanza.
*
“Mi faccia arrivare al punto, signor Lehnsherr,” disse con
fermezza MacTaggert. “Pensa che gli eventi nella sua vita personale e la sua
relazione col signor Xavier e sua sorella abbiano avuto qualche effetto sull’indagine
riguardo il caso Creed?”
Lehnsherr si prese un momento per pensare. “No,” disse
infine. “No, non penso sia andata così. Qualsiasi cosa si voglia dire su di noi
– qualsiasi cosa si voglia dire su Charles
– e so quali cose si dicono, detectives – posso
semplicemente affermare che non fu altro se non professionale durante il corso
dell’indagine.” Si accigliò. “Forse fin troppo
professionale. Una volta al lavoro non pensava a nient’altro. Compartimentalizzare – lo chiamava così.
Infilava tutto in piccole scatole nella sua testa e le archiviava per studiarle
in seguito. Era bravo in quello, Charles. In macchina potevamo volerci
ammazzare, ma nel momento in cui facevamo un passo oltre la portiera e andavamo
verso una scena del crimine, tutto scompariva. Via, come se non fosse mai
accaduto.”
“Vi succedeva spesso di ritrovarvi a volervi ammazzare l’un
con l’altro?” chiese Levine una gentilezza ingannevole.
Le spalle di Lehnsherr si alzarono con pacata insicurezza.
“Ci avete incontrato,” fu tutto quel che disse. “Che cosa ne pensate?”
*
“Maledizione,
Charles,” ringhiò Erik, stringendo il braccio di Charles e affondandoci le
dita. “Ti avevo chiesto di chiamarmi nel
caso avessi mai trovato una nuova traccia.”
“Ora sei qui, no?”
rispose con leggerezza Charles, chiaramente disinteressato di fronte a tutta
quella rabbia.
“Non grazie a te,”
grugnì Erik. Appariva infelice. “A che cosa stavi pensando? Venire qui da solo,
davvero? C’è una ragione se abbiamo un partner, Charles, e non è solo per scambiarci
i turni alla guida.”
“Ti preoccupi troppo,”
disse Charles senza alcun dubbio nella voce, alzando le spalle. “Tutto quel che
ho fatto è stato parlare con delle signorine molto gentili e fare qualche
domanda sulle nostre vittime. Difficilmente lo definirei pericoloso.”
“Puttane, Charles. Hai
fatto domande a delle gentili puttane.”
“Il mondo è bello
perché vario,” disse con semplicità l’altro. “Solo perché sono prostitute non
significa che non possano essere gentili.”
“Ci scommetto che sono
state gentili,” disse Erik di malumore. Fece un sospiro e si passò una mano sul
viso. “Questa volta hai perlomeno portato con te la pistola?” domandò, sebbene
dal tono di voce era chiaro che le sue aspettative non fossero troppo alte.
Charles gli lanciò uno
sguardo esaustivo. “Sai che odio portarla,” disse con aria di rimprovero. “E
difficilmente ne avrei avuto bisogno.”
Erik sollevò un
sopracciglio. “Chiaramente ne sai poco di prostitute,” disse seccamente.
In risposta anche
Charles alzò le proprie sopracciglia. “Se lo dici tu.”
Erik gli diede
un’occhiataccia. “Come minimo ce l’hai con te ora?”
Charles guardò fuori
dal finestrino.
Erik si fece fuggire
un sospiro. “Chiaramente non conosci bene neanche gli strip club,” mormorò,
massaggiandosi con stanchezza la fronte.
Charles non rispose,
ma dopo un momento di silenzio aprì la portiera dell’auto e iniziò a camminare
verso il palazzo situato qualche metro di fronte a loro.
Erik fece una
vibrazione irata con la gola prima di spingere la portiera alla sua sinistra e
uscire dall’auto, affrettandosi per raggiungere Charles. “Allora, ripetilo
ancora,” disse bruscamente. “Perché siamo qui?”
“Angel Salvadore,” disse con risolutezza Charles, dimostrando
nessun genere di ripensamento.
Erik fece un cenno
d’assenso. “Giusto,” disse. “Quindi pensi che il caso Salvadore
abbia una connessione col caso Muñoz?”
“Ne sono quasi certo,”
disse Charles cupamente. “Nessuno se ne accorse allora – come avrebbero potuto?
– ma ora, dopo Muñoz… beh, adesso è tutto più chiaro.” Fece un sospiro stanco.
“È una dei benefici del senno di poi, suppongo – cose che al primo sguardo
appaiono uniche e distanti tendono ad avere un significato davvero differente
quando viste in un contesto diverso. E in questo contesto,” il volto di Charles
si fece improvvisamente scuro, “Beh – in questo contesto il significato ha una
forma abbastanza sfortunata.”
“Abbiamo un serial
killer,” disse piano Erik, sentendo il proprio cuore sprofondare.
“Abbiamo un serial
killer,” confermò Charles, il tono altrettanto grave.
“Merda.”
“Direi.”
“Come abbiamo fatto a
non accorgercene prima?” intimò Erik, scuotendo il capo. “Il caso Salvadore era abbastanza inusuale – perché nessuno ha
approfondito? Perché è stato chiuso?”
Charles alzò le
spalle. “Per le solite ragioni, penso,” disse con stanchezza. “Una miscela di
ignoranza e incompetenza. E – come ho già detto – ora noi abbiamo il beneficio
del senno di poi. Le cose non potevano sembrare così ovvie allora.” Inclinò il
capo e osservò Erik. “Non puoi incolpare i poliziotti incaricati, Erik. Come
avrebbero potuto comprendere? Come avrebbero potuto sospettare di un serial
killer? Non c’erano altri corpi a
quel tempo – non c’era uno schema.”
“La pelle della sua
schiena fu intagliata a forma di due ali,” vociò Erik. “La carne tagliata dal
corpo. E hanno pensato che fosse
autolesionismo!”
Charles fece un sorrisetto.
“Sì, quella fu un’esagerazione,” sostenne beffardamente. “Ma come ho detto – fu
il prodotto di circostanze e coincidenze sfortunate. Il nome della ragazza era Angel – pensarono che con quel gesto
stesse facendo una sorta di asserzione. Aggiungici il fatto che alle spalle avesse
avuto precedenti di depressione e che come lavoro facesse la spogliarellista –
beh, videro quel che volevano vedere. I poliziotti di quel tempo non volevano affrontare l’idea che
magari ci fosse qualcosa di più sotto, che fosse qualcosa di più delle semplici
azioni di una ragazza depressa e mentalmente instabile – e, davvero, chi può
incolparli? Il pensiero di un serial killer in giro per strada non è semplice
da digerire, e il fatto che non ci fossero altre vittime…”
“Smettila di creare
scuse per loro, Charles,” lo aggredì Erik con rabbia. “Non fu solo il prodotto
della loro incompetenza – fu anche il prodotto di una completa indifferenza. Pensarono che nessuno si
sarebbe interessato di una spogliarellista
morta e perciò che differenza avrebbe fatto se avessero archiviato il caso come
un suicidio? Pensi sarebbe successo se a morire fosse stata una ragazza bianca
di buona famiglia? Non sarebbero stati così veloci ad archiviare il tutto,
allora, quelle patetiche, minimaliste e incompetenti teste di cazzo.”
“Non litigherò con
te,” disse stancamente Charles. “Perché hai ragione. Ovviamente ne hai. È
sempre la stessa storia, Erik. A nessuno importa della minoranza – i poveri,
gli immigrati, gli omosessuali, chi è diverso…
Nessuno vuole sentire parlare di loro. E il killer – il nostro assassino –
lo sa bene e ne ha fatto un vantaggio. Sta deliberatamente scegliendo quelle
persone che passano inosservate – in quale altro modo spiegheresti il fatto che
nessuno di noi abbia sentito parlare prima d’ora di altre vittime?”
“Pensi ce ne siano
delle altre?” chiese Erik, improvvisamente allerta. “Altre di cui non sappiamo
niente?”
“Ne sono certo,” disse
Charles con sobrietà. “È passato più di un mese dal caso Salvadore,
ma nota quanto lontano è già arrivato. Guarda quanto – quanto sofisticato sia l’omicidio di Muñoz in
confronto. In alcun modo è possibile che questi due siano i suoi unici omicidi,
Erik. Devono essercene degli altri…
ci siamo solo persi quelli di mezzo.”
“Hmm,”
Erik appariva turbato. “Penso tu abbia ragione.” Dopodiché lanciò a Charles una
mezza occhiata. “Ma forse è meglio che non chiami degli assassini «sofisticati»
di fronte ad altri, Charles. Già tutti credono che tu sia abbastanza strano
senza che pensino tu abbia qualche feticismo verso gli assassini.”
Charles corrugò il
naso. “Lo terrò… a mente.”
“Bene,” annuì Erik.
Poi sollevò un sopracciglio. “Entriamo in questo strip club o stiamo qua ad
aspettare per tutto il giorno?”
Charles fece un
sorriso beffardo. “Qualcuno è impaziente,” mormorò, prima di incamminarsi.
Erik lo osservò per
alcuni secondi, poi scosse il capo e lo seguì.
*
“Mi permetta di dirlo, signor Lehnsherr, ma lei e il signor
Xavier non avete molto in comune.”
Lehnsherr sbuffò all’affermazione. “Davvero?” disse
seccamente. “Come ha fatto a capirlo?”
“Quello che intende dire il mio collega,” entrò nella
conversazione MacTaggert, alleggerendo la situazione. “È che pare voi abbiate
due stili d’indagare completamente diversi.”
Lehnsherr annuì. “È corretto.”
“Il suo stile era più ordinato e trasparente, mentre quello
del signor Xavier era…” MacTaggert si fermò, cercando la parola più
appropriata.
“Un completo caos?” offrì Lehnsherr sarcasticamente.
“Beh, stavo per dire inusuale,
ma sì, penso funzioni anche così.”
Lehnsherr fece una risata sprezzante ma non disse
nient’altro, così MacTaggert continuò.
“Le cose non dovettero essere facili, considerando che
avevate due distinti e differenti modi di lavorare…” l’espressione di
MacTaggert era colma di pietà. “Mi racconti – avete mai sperimentato dei… conflitti quando dovevate investigare su
un crimine?”
“Conflitti?” Lehnsherr alzò con stanchezza un sopracciglio.
“Beh, sì,” disse lentamente, “Direi di sì.”
Levine si piegò in avanti. “E quanto spesso accadevano
questi conflitti?”
Lehnsherr fece una pausa per considerare la risposta. “Beh,”
disse dopo una lunga pausa, il suo volto accartocciato in una profonda
concentrazione. “Se mi ricordo correttamente, direi… praticamente ogni fottutissimo giorno.”
MacTaggert e Levine lo fissarono.
“Seriamente?” Levine non poté fermarsi dal chiedere. “Ogni
giorno?”
“E comunque siete stati partner per…” MacTaggert diede
un’occhiata al suo file.
“Tre anni, sette mesi e otto giorni,” disse Lehnsherr
affabilmente, il suo viso mostrò appena una luce tremolante quando sia Levine
che MacTaggert lo guardarono con sorpresa. “Cosa posso dire?” alzò le spalle. “Fu
il partener che più durò al mio fianco.”
“Quindi le piaceva?” chiese cautamente MacTaggert.
Gli occhi di Lehnsherr ebbero un bagliore mentre scrollava
le spalle e si portava la sigaretta alle labbra. “Non mi stava antipatico,”
disse obiettivamente. “Che è molto più di quello che posso dire di tutti gli
altri idioti che mi sono stati appioppati durante la carriera.”
“E cosa mi sa dire del resto del dipartimento?” chiese con
curiosità Levine, i suoi occhi sempre puntati su Lehnsherr. “Trovavano
simpatico Xavier?”
Lehnsherr non rispose immediatamente. “Era Charles,” disse
semplicemente, come se quello significasse tutto. “Era un buon detective. Non
mi è mai importato che cosa pensassero gli altri. Ma posso comprendere a come
siano arrivati alla conclusione che… Aveva uno sguardo davvero intenso, sapete.
Alcune volte si sedeva, ti guardava e non diceva una parola. Abbastanza
fastidioso, per molte persone. Sembrava come se stesse cercando di entrarti
nella testa e rubarti tutti i segreti. Alcune persone erano convinte che
effettivamente lo facesse,” Lehnsherr
sbuffò divertito. “Charles era molto perspicace, vedete. Lui sapeva sempre tutto… tutto quello che non
necessariamente era visibile. Per questo era così bravo nelle interrogazioni.”
“Lo chiamavano «Il Professore», mi pare?” mormorò
MacTaggert, consultando velocemente i propri appunti.
Lehnsherr annuì. “Penso abbiano considerato il nome «Il
Prete», all’inizio,” disse con divertimento. “Perché otteneva sempre delle
confessioni,” spiegò, quando notò le espressioni vuote di MacTaggert e Levine.
“Ma alla fin fine scelsero Il Professore… probabilmente a causa dei cardigan.”
“Cardigan?” Levine sollevò un sopracciglio.
Lehnsherr annuì nuovamente. “Sì,” appariva divertito. “A
Charles sono sempre piaciuti i cardigan. Sono sicuro lo abbiate notato quando
lo avete interrogato.”
“Xavier non indossava un cardigan durante l’interrogatorio,”
disse Levine un po’ accigliato, scagliando un sorrisetto allo sguardo lanciatogli
da MacTaggert.
Lehnsherr sbatté le palpebre, confuso. “Huh,”
disse dopo un momento, le sue labbra quasi si contorsero. “Questo è…
inaspettato.”
“Lei stava parlando di quanto Xavier fosse percettivo.” Si
insinuò MacTaggert prima che la conversazione potesse deragliare ulteriormente.
“Sì,” Lehnsherr sbatacchiò la sigaretta sulla tazza vuota,
osservando la cenere ricadervi all’interno. “Beh, la capacità di percezione di
Charles poteva essere utile con i criminali ma, come sono sicuro voi possiate
immaginare, non lo rendeva il ragazzo più popolare nell’unità. Non aveva nulla
contro gli altri – e non lo faceva di proposito – ma andava così.” Scrollò le
spalle. “Li intimoriva. Le persone hanno sempre paura di quel che non possono
spiegare, di quello che non possono controllare, dei loro segreti messi in
bella vista. E con Charles quella paura si trasformava in risentimento. Alla
fin fine non aveva molto supporto da parte dei suoi colleghi, nemmeno da parte
del capitano, perciò quando le cose divennero difficili…” La sua voce si
affievolì e invece di continuare prese una lunga boccata dalla sigaretta.
“Deve essere stato difficile,” disse MacTaggert, vagamente.
“Sono sicuro lo fosse,” concordò Erik, il tono leggero. “All’inizio
deve avergli dato molto infastidito. A Charles è sempre piaciuto il consenso
altrui, sapete. Ma le cose stavano così e lui ne era abituato. Quello che
dovete comprendere è che per Charles è sempre
andata così. Sempre. Sin da quando era giovane.”
“Cosa-”
“Chieda a Charles,” tagliò corto Erik. “Non che ve lo
racconterà. Ma non sono affari miei. Il mio punto è questo: lo disturbava il
fatto di non essere accettato? Sì, ovviamente. Ma ci è passato sopra. Charles è
forte. Molto più forte di quanto voi possiate immaginare. E credetemi, è
sopravvissuto a condizioni peggiori che un luogo di lavoro colmo di colleghi
amareggiati. Sapeva di non aver bisogno di amici: aveva il suo lavoro.”
“E aveva lei,” aggiunse piano MacTaggert, causando gli
sguardi che sia Levine che Lehnsherr le rivolsero.
Lehnsherr la osservò per un istante. “Sì,” disse infine.
“Suppongo di sì. Per un po’ di tempo.”
*
“È mai successo che la
signoria Salvadore si sentisse a disagio? Magari si
sentiva minacciata o inqueta nei confronti di qualche… cliente?”
La direttrice del
locale sbuffò. “Tesoro, tutte noi ci sentiamo in quel modo nei confronti di tutti i nostri «clienti», non c’è nulla
di strano o inusuale in questo.”
“C’è mai stato
qualcuno in particolare?” continuò
Charles con pazienza. “Qualcuno che l’abbia mai minacciata o le facesse più
paura di altri?”
La donna si limitò a
scuotere la testa. “No, nessuno. Ho detto le stesse cose l’anno scorso e le
ripeto adesso. Questo fu solo un altro, insensato omicidio e la nostra ragazza
è stata colei a soffrirne.”
“Quindi lei non crede
all’ipotesi del suicidio di Angel?” Chiese immediatamente Erik.
La donna sbuffò
nuovamente. “Questo è quello che ci hanno detto, ma non ci ho mai creduto,
nemmeno per un secondo. Conoscevo Angel,
ed era la più forte fra di noi. Non sarebbe mai scomparsa per andare a
suicidarsi. Forse non so cosa le sia accaduto, ma questo fatto lo so per
certo.”
Continuarono a farle
alcune domande per un po’, ma tutto quello che la donna poteva rivelare era già
stato dichiarato in precedenza ed era stato scritto nei rapporti della polizia.
Non c’era più altro da raccontare.
Nel momento in cui
Charles ed Erik stavano per andarsene, comunque, la donna fiatò un’altra
volta.
“C’è un’ultima cosa,”
disse, sembrando in conflitto con se stessa.
Erik e Charles si
girarono per guardarla.
“C’è… C’è forse
un’altra persona con cui potreste parlare.”
Cinque minuti più
tardi e una piccola, timida ragazza fu accompagnata nella stanza; aveva una
lunga coda di cavallo che ondeggiava amabilmente mentre li raggiungeva.
“Volevate parlarmi?”
chiese con tono nervoso, facendo un passo in avanti. Portava un enorme e grigio
pullover che copriva interamente la sua figura e la obbligava ad arrotolare le
maniche. “Di – di Angel?”
Charles scambiò uno
sguardo con Erik, il quale la guardava in modo cupo.
“Sì,” disse
affabilmente Charles, offrendole un caldo sorriso e un cenno di assenso. “Se
non ti dispiace. Il tuo nome è…?”
“Kitty,” disse la
ragazza per poi arrossire. “Beh, quello è il mio – in realtà è Katherine, ma tutti qui mi conoscono come Kitty.”
“Kitty, quindi,” disse
con cura Charles, facendo un altro sorriso.
La ragazza restituì il
sorriso con cautela. “Suona in modo diverso quando lei lo pronuncia.”
“È l’accento,” disse
Charles con confidenza e ciò gli fece guadagnare un ulteriore sorriso. Dopodiché
ritornò sui fatti importanti e guardò Erik, per poi piegarsi in avanti. “Kitty,
la direttrice ci ha detto che forse potresti raccontarci qualcosa su Angel Salvadore… qualcosa che non fu detto la prima volta.”
Kitty strisciò i piedi
per terra prima di annuire. “Sì,” disse a bassa voce. “Penso di sì.”
“Perché non hai mai detto
niente prima di adesso?” chiese Erik impetuosamente, apparentemente incapace di
fare silenzio.
Kitty lo guardò
nervosamente per un momento prima di alzare le spalle. “Non ero… grande
abbastanza per essere qui,” disse con imbarazzo, abbassando lo sguardo verso il
pavimento. “Lo so che non è passato tanto tempo – ma allora ero giovane e
stupida e non volevo essere allontanata dalle altre ragazze. Mi dispiace.”
Erik la studiò. “Non sembri
grande abbastanza per essere qui
nemmeno adesso,” grugnì,
accigliandosi nell’osservarla.
“Oh, sono legale,”
disse velocemente Kitty per poi arrossire e ritornare a guardarsi i piedi.
“Potresti raccontarci
qualcosa in più su ciò che accadde ad Angel Salvadore,
per favore, Kitty?” interruppe Charles con cortesia, sorridendole in modo
incoraggiante. “La conoscevi bene?”
Kitty esitò,
scagliando uno sguardo diffidente verso Erik, decidendo infine di concentrarsi
su Charles. “S-sì,” disse, apparendo abbastanza ansiosa. “Ero – ero amica di
Angel. Parlavamo molto. Lei – lei si prendeva cura di me quando ero appena
arrivata.”
Charles ed Erik
condivisero uno sguardo.
“Di cosa parlavate,
Kitty?” chiese Charles con un tono ancora dolce e piacevole.
Kitty alzò le spalle. “Le
solite cose. Gossip fra ragazze, gli uomini del club, il lavoro… cose così.”
“Angel non ti ha mai
parlato di cose inusuali? Qualcuno che potesse averla fatta sentire impaurita o
minacciata?”
Kitty scosse il capo.
“No,” disse, accartocciando le sopracciglia. “Non – non esattamente. Ma è
cambiata, più o meno, proprio prima – prima.”
“Cambiata?” Erik si
fece in avanti. “Che cosa intendi?”
“Beh,” disse Kitty
lentamente. “Qualche settimana… prima…
all’improvviso si è unita a questo – questo gruppo.”
“Gruppo?” domandò Erik
con attenzione. “Che tipo di gruppo? Una sorta di setta?”
“Forse?” Kitty
appariva incerta. “Non ne parlava molto. Cercava di tenerlo segreto, ma – ma
eravamo davvero unite.” Lo sguardo di Kitty si fece esausto. “Non poteva
tenermelo segreto per molto perciò mi rivelò che aveva trovato un posto dove avrebbe
potuto finalmente essere se stessa, dove avrebbe potuto volare più in alto e
sentirsi libera.”
“Libera?” chiese Charles
minuziosamente.
“Sì,” annuì Kitty.
“Libera da tutto questo.” Fece un
gesto alla stanza sudicia. “Era stanca di questa vita e voleva molto di più.
Diceva che il suo nuovo amico poteva aiutarla a scappare da tutto questo.”
Guardò le sue mani. “Disse che poteva aiutare entrambe.”
“Voleva portarti con
sé?” disse a bassa voce Charles.
Kitty annuì. “Disse
che prima avrebbe controllato, che doveva essere sicura dell’attendibilità.” Le
sue labbra tremarono. “E poi, quando lei fosse stata sicura che andasse tutto bene
mi sarebbe venuta a prendere e saremmo uscite da qui in cerca di una vita
migliore.”
Charles sorrise mentre
Erik strinse i pugni.
“Ovviamente non
accadde.” Kitty si strofinò gli occhi. “Pensavo sarebbe successo – e anche lei,
credo – ma poi incontrò lui.”
Sia Charles che Erik
si misero allerta.
“Lui?” chiese
gentilmente Charles, cercando di non farle pressione. “Di chi parli?”
Kitty scosse il capo.
“Non so,” disse, sembrando irritata. “Angel non ha mai detto molto su di lui.
Tutto quel che so è che ne era spaventata.” Si strofinò il naso. “Lui la
spaventava davvero tanto.”
“Ti ha mai detto il
suo nome?” chiese Charles, cercando di sopprimere l’urgenza che sorgeva.
“No,” disse
tristemente Kitty. “Penso che neanche lei sapesse chi fosse. Mi ricordo di una
volta, comunque, stava parlando di lui e non penso che avrei dovuto sentire, ma
– lo chiamò col nome più strano che io abbia mai sentito.”
“Nome?” fece pressione
Erik, il volto agitato.
“Sì,” Kitty era
accigliata, la sua espressione corrucciata per la concentrazione. “Magari me lo
sto ricordando sbagliato, ma era così strano, sapete?”
“Kitty,” disse Charles
con pazienza, appoggiando una mano sul braccio teso di Erik. “Qual era il nome
usato da Angel?”
Kitty si morse il
labbro. “Il Re Nero,” disse infine, la sua voce un bisbiglio. “Lo aveva
chiamato il Re Nero.”
*
“Come crede che gli altri poliziotti si sentissero intorno a
lei, signor Xavier?”
Xavier inclinò la testa e rimuginò sulla domanda. “Mi
tolleravano,” disse dopo un istante.
Le sopracciglia di Levine si sollevarono. “Tolleravano?”
ripeté, la voce colma di sarcasmo. “Di sicuro non sembra amichevole.”
Xavier rispecchiò la sua stessa espressione. “Sì,” concordò,
il tono di voce piatto. “Da qui infatti l’uso della parola tolleravano.”
Levine socchiuse gli occhi.
“Perché pensa che fosse così, signor Xavier?” chiese Moira,
guardandolo attentamente. “C’era qualche ragione per questo atteggiamento nei
suoi confronti?”
Xavier ci pensò su. “Sì,” disse infine. “Suppongo ci sia
stata.” Dopodiché alzò le spalle. “Suppongo che non apprezzassero il fatto che
fossi molto più intelligente di loro.”
Moira fece una pausa. “Mi scusi?” disse, sbattendo le
palpebre.
Xavier sospirò. “Non lo dico per essere rude, dovete
capire,” disse col più piccolo accenno di dispiacere nella voce. “Sto
semplicemente esprimendo un fatto, e il fatto è che quasi tutti in quella
stazione di polizia possedevano un’intelligenza media.”
“Uh. Huh?” Levine lo stava
fissando, incredulo.
“Questo di certo mi precludeva dal formare un’amicizia con
chiunque di loro,” Xavier continuò, imperturbato. “Ma la verità è che nessuno
ha mai davvero catturato il mio interesse, quindi non ho mai sentito il bisogno
di provarci. Inoltre, ero troppo differente dalla maggior parte di loro. Sono
sicuro lo abbiate pensato anche voi,” i suoi occhi si soffermarono su Levine.
“Che non fossi quel genere di persona che la gente si aspetta di veder
diventare un poliziotto.”
“Perché lei è diventato
un poliziotto, signor Xavier?” chiese Moira prima che Levine potesse dare
una riposta maliziosa.
Xavier scosse le spalle. “Idealismo, suppongo,” disse
vagamente, considerando la domanda. “Il desiderio di scioccare mia madre,
penso. Non aveva grandi aspettative sulle forze dell’ordine.” Vi era una nota
di soddisfazione nel sue parole.
“Quindi non lo fece per lo spirito di squadra?” disse
seccamente Levine.
Xavier sorrise. “Non specialmente,” ammise. “Lo spirito di
squadra, come dice lei, non si trovava nella mia lista dei requisiti a quel
tempo. Trovo… difficile mantenere delle amicizie, sapete.”
Levine sbuffò.
Xavier continuò. “Ho provato quel genere di cose, sapete?”
andò avanti, noncurante. “Cercare di avere amici e i tentativi e le
spiritosaggini e tutte quelle cose lì. Quando andavo all’università. Forse lo
avrei fatto ancora, se non avessi incontrato Erik. Ma l’ho fatto, e dopodiché
non mi sembrò necessario assecondare gli altri.”
“Lehnsherr aveva amici in polizia?” chiese Moira, curiosa.
“Era rispettato,” disse Xavier con diplomazia. “E le persone
lo ammiravano. Non direi che avesse – non era il tipo, vedete, e non è mai
stato «uno dei ragazzi», come si suol dire – ma lo stimavano comunque.”
“Ma gli altri non si comportavano così nei suoi confronti?”
Xavier alzò le spalle. “Posso incolpare solo me stesso per
questo,” disse, apparendo davvero ostinato. “Non ho mai provato a piacergli.
Spesso mi chiedo se è stato uno sbaglio,” dichiarò lentamente, meditando. “Le
cose sarebbero potute andare meglio se mi fossi preso del tempo cercando di
piacere a loro, invece di rassegnarmi alla loro tolleranza. Non sarebbe stato
difficile, dopotutto. Se avessi voluto avrei potuto piacergli.”
“Oh, davvero?” Levine sbuffò. Anche Moira pareva scettica.
“È vero,” disse Charles, alzando le spalle. “Le persone sono
come un gregge. Le opinioni di un gruppo su un individuo sono generalmente
basate sulle reazioni di altre persone sui loro pareri. Tutto quello che
bisogna fare è far sì di piacere ad una sola persona. Mostrare a qualcuno una
crepa nella tua corazza, e la gente sarà più disponibile con te,” fece una
pausa. “Almeno in teoria.” Ammise.
“E perché non ci provò?” chiese con curiosità Moira,
inclinando il capo. “Perché non ha mai fatto un tentativo?”
Charles sorrise. “Non ne avevo bisogno,” disse con
semplicità. “Avevo Erik.”
In realtà l’autrice al posto di far
bere un bicchiere di scotch a Charles gli faceva bere un bicchiere di vino, ma
poiché nel capitolo precedente aveva scritto scotch, poi vino e poi in generale
alcool, io ho voluto mantenere il drink che più, molto egoisticamente, mi
piaceva e il quale secondo me rispecchiasse il personaggio di Charles.
Se trovate qualche errore, vi prego di
correggermi!