Half Heroes

di The Custodian ofthe Doors
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Jake Mason- Quando non ambisci al successo. ***
Capitolo 2: *** Mitchell- L'inadeguatezza di un Re. ***
Capitolo 3: *** Katie Gardner- Leggi Fondamentali. ***
Capitolo 4: *** Lee Fletcher- Scocca la Freccia. ***
Capitolo 5: *** Chris Rodriguez- Figlio di Nessuno. ***
Capitolo 6: *** Travis e Connor Stoll- Pacchetto completo. ***
Capitolo 7: *** Malcom- Generale senza gradi. ***
Capitolo 8: *** Drew Tanaka- La missione del Samurai Disonorevole. ***
Capitolo 9: *** Castore e Polluce- Come le Menadi di notte. ***
Capitolo 10: *** Nyssa- Come chi non sarai mai. ***
Capitolo 11: *** Clovis- La sabbia bianca di Pitch Black. ***
Capitolo 12: *** Butch- La luce del Prisma. ***
Capitolo 13: *** Lou Ellen- Non c'è trucco, non c'è inganno. ***
Capitolo 14: *** Michael Yew- Obblighi sociali. ***
Capitolo 15: *** Ethan Nakamura- La legge del Taglione. ***
Capitolo 16: *** Clarisse La Rue- La Guerra non finisce. ***
Capitolo 17: *** Miranda Gardiner- Crescere Rigogliosi. ***
Capitolo 18: *** Lacy- Troppo piccola. ***
Capitolo 19: *** Silena Bouregard- Bellissima confusione. ***
Capitolo 20: *** Will Solace- Punto di Rottura. ***
Capitolo 21: *** Charles Beckendorf- Onore ad Efesto. ***
Capitolo 22: *** Octavian- Sangue annacquato. ***
Capitolo 23: *** Gwen- La luce in fondo al tunnel. ***
Capitolo 24: *** Dakota- Per dimenticare. ***



Capitolo 1
*** Jake Mason- Quando non ambisci al successo. ***


Half Heroes


1. Jake Mason- Quando non ambisci al successo.


Cercò di sistemarsi meglio sul letto, le bende e le medicazioni tiravano ovunque e gli procuravano fitte continue, bruciori che gli ricordavano costantemente come e soprattutto cosa lo aveva ferito, un qualcosa che lui, che un vero capo cabina di Efesto, avrebbe dovuto risolvere o per lo meno gestire al meglio.
Ed era tanto evidente quanto imbarazzante che lui non ci fosse riuscito.
Un drago.
Un dannatissimo, gigantesco, micidiale drago di bronzo celeste, in grado di sparar fuoco, di volare -se solo gli si riuscisse ad aggiustare l'ala- e che ama benzina e tabasco, che per carità divina, i gusti sono gusti, ma da quando Jake aveva cominciato a dare la caccia a quel bestione aveva cominciato anche a sviluppare un odio terribile verso qualunque cosa contenesse tabasco che persino i suoi fratelli lo prendevano in giro.
Ma cosa poteva farci lui? Ogni volta che preparava – aveva preparato- quella dannata brodaglia per attirare il drago lo assaliva una nausea come poche. La sentiva partire dal fondo dello stomaco, risalirgli sino alla bocca di questo e premere, insinuandosi tra polmoni e diaframma, iniettandosi nel cuore per poi colare nelle arterie e da lì in un attimo raggiungere tutto il corpo al ritmo delle pulsazioni cardiache.
Non era solo nausea, Jake lo sapeva bene, sapeva che era paura, terrore di sbagliare – ancora- di non riuscire a rendere giustizia del suo nome, della sua famiglia e di suo padre, ma ancora di più, del suo predecessore.
L'ombra illustre di Charles Beckendorf aleggiava su di lui in ogni istante e Jake si sentiva scrutato da un giudice, costantemente sotto prova, costantemente in esame. Come si può prendere il posto di un eroe? Di colui che ha accettato la morte per far scappare chi avrebbe salvato il mondo, colui che tutti ricorderanno.
Oh, si, ne era sicuro: per anni la gente avrebbe raccontato del coraggioso figlio di Efesto morto facendosi saltare in aria assieme alla base nemica, ma nessuno, nessuno, avrebbe mai ricordato il ragazzo che era salito al comando della Nove dopo di lui. Era solo un puntino, una scintilla che non riusciva a trasformarsi in fiamma perché un altra scintilla, ben più forte e possente di lei, si era già trasformata in fuoco, rubandole tutto l'ossigeno.
E si sentiva in colpa dopo questi ragionamenti, a pensare che se suo fratello fosse stato un po' meno eroico ora lui non avrebbe dovuto dimostrare nulla, ma era più forte di sé. Non sarebbe mai stato al suo livello, non avrebbe mai preso quel dannato, e magnifico -aggiunse la sua mente in automatico-, drago e se mai ci fosse riuscito, era sicuro che ci avrebbe lasciato le penne.
Così rimaneva fermo in quella dannata cabina che un tempo aveva tanto amato perché simbolo di casa e protezione, di famiglia, e che ora gli ricordava solo quanto fosse inadeguato. Senza nulla che potesse distrarlo o rallegrarlo, perché i figli di Efesto sono fatti così, non sono troppo bravi con le persone, con i sentimenti, non sono bravi a consolare o a motivare. I figli d'Efesto vedono le cose così come stanno e nel suo caso la verità era che quel ruolo non era proprio adatto a lui, che Jake a fare il capo non era proprio portato.
Fissò lo sguardo sul letto centrale, il più bello e il più ambito, il letto maledetto, ed un moto di invidia, rabbia e rimpianto gli salirono in gola: Perché? Perché Charles era morto e aveva lasciato a lui tutto il peso della sua magnifica dipartita? Perché nessuno dei suoi fratelli lo aveva sfidato per prendere il suo posto? Lui non voleva essere il capo di nulla, lui voleva solo vivere la sua fragile e pericolosa vita da semidio, senza altre responsabilità che quella della sua vita stessa.
Voleva solo rendersi utile, essere quello che era stato suo fratello per lui, un esempio.
Ma è questo, si rimproverò con amarezza, scacciando le lacrime che gli erano salite agli occhi con il dorso del braccio ingessato, era questo quello che ti meritavi quando volevi diventare il faro che qualcun altro era stato per te, quando volevi diventare un eroe, un capo, ma non ambisci al successo.








Salve lettore,
Questa serie si basa sulla più semplice e banale scelta: quella di mostrare per una volta piccoli spaccati della vita di quegli eroi citati ma mai veramente partecipi se non per poche righe.
Non troverete le avventure dei protagonisti, dei grandi eroi, ma di coloro che malgrado le gesta, più o meno nobili, non sono mai stati elevati sul podio dei primi. Detto ciò, alla prossima!

TCofD.

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Capitolo 2
*** Mitchell- L'inadeguatezza di un Re. ***


Half Heroes


2. Mitchell- L'inadeguatezza di un Re.


Essere figli di Afrodite portava tanti vantaggi: primo tra tutti, eri irrimediabilmente bello. Non importa cosa tu facessi, come cercassi di nasconderti, era come se un enorme scritta lampeggiante segnalasse a tutto il mondo che, si: eri bello come il sole.
Un altro vantaggio era la facilità con cui convincevi la gente a far tutto ciò che volevi, lingua ammaliatrice o meno, il tuo charm era tale che chiunque si sentisse chiedere un favore da te provava il forte desiderio di appagarti come mai nella sua vita. Certo, gli altri semidei erano più difficili da convincere, ma questo solo perché – secondo lui- erano ormai abituati “all'influsso” della Dea dell'Amore.
I figli di Afrodite erano sempre a conoscenza di tutto, di ogni cosa che si svolgesse al campo, detenevano il record di pettegolezzo verso le altre cabine e anche verso la propria. Perché è inutile dirlo: se c'è tanta bellezza in un solo posto, e tanta consapevolezza di esserlo, non si poteva sperare che i proprietari di tale dote non si parlassero amabilmente alle spalle.
E ce n'era per tutti! Ogni singola persona di quella rosea cabina aveva nel suo armadio e sotto al suo letto di veli, vecchi scheletri secchi e altri con la carne ancora attaccata alle bianche membra.
Come una pianta di estrema bellezza, che sprigiona il profumo più dolce e rapisce con i colori più spettacolari scaglia il suo mortifero veleno anche contro i propri simili, nella lotta per la sopravvivenza, così la cabina 10, dall'apparente perfezione, sussurrava parole di scherno e svelava segreti proibiti.
Lui? Mitchell era il Re.
Lo era sempre stato, gli veniva naturale. Sia al campo che a scuola, circondato da quell'aura di impalpabile bellezza, adorato dalle ragazze e silenziosamente ammirato da quei ragazzi che non riuscivano a capire, non accettavano, che un maschio potesse occupare i loro pensieri e, fin troppo spesso, le loro fantasie.
Ah, che vita magnifica era quella: quanto la mattina sul bus tutti lo salutavano e si facevano un po' più in la, nella speranza che si sedesse al loro fianco, quando i professori gli sorridevano accondiscendenti e il suo armadietto era sempre pieno di lettere, quando una festa non era tale se anche lui non aveva ricevuto l'invito; quando il suo unico obbiettivo era quello di diventare Re della scuola, non di sopravvivere.
Si guardava fisso allo specchio, sistemandosi i capelli castani con movimenti automatici, senza neanche pensarci, la cabina vuota gli faceva da silenzioso sfondo, mentre gli occhi ambrati si soffermavano su un letto preciso, quello della prima delle sue sorelle.
Non che non gli piacesse parlar male degli altri, era un figlio di Afrodite, ma Drew...lei aveva un che di inquietante e Michell non si riferiva solo al fatto che, con quella sua dannata lingua ammaliatrice, costringesse sempre tutti, - persino i suoi fratelli!- a far tutto ciò che voleva; non si riferiva certo allo sguardo affascinante e glacialmente spietato con cui ti esaminava, senza cercar neanche di nascondere il suo disappunto, no. Era altro, altro che non sarebbe mai uscito, che non poteva uscire, dalla cabina numero dieci. Altro che invece di fargli provare odio, rancore ed invidia verso quella sua sorella così forte, gli stringeva il cuore, gli faceva provar pena, rimorso e rabbia, perché lui, il Re, non poteva far nulla per cambiare le cose.
Forse perché, se chiudeva gli occhi, Mitchell riusciva ancora a sentire il suo pianto soffocato contro il cuscino. Riusciva a vedere i suoi occhi scuri diventare lucidi di lacrime trattenute, i singhiozzi compressi nel petto, unico baluardo fermo ed apparentemente impassibile davanti al corpo esanime e sfregiato della dolce, coraggiosa e bellissima capo-cabina, riverso sulle strade di New York. Riusciva quasi a toccare il dolore e lo sconforto per quelle perdita, la disperazione che aveva portato aggiungersi a quella per la perdita di tanti altri. Sentiva le mani di sua sorella stringersi al suo braccio in una presa di doloroso strazio, sentiva il suo corpo muoversi in automatico ed abbracciarla e la maglia sporca bagnarsi di lacrime, ma non riusciva a ricordare chi fosse.
Se chiudeva gli occhi però, riusciva ancora a sentire la voce di Silena che canticchiava bassa nelle serate d'estate, quando solo le cicale, il vento e l'acqua l'accompagnavano nel suo mormorio dolce.
Forse perché ricordava i vecchi giorni, ormai parte di una vita lontana, di un passato mai esistito, quando tutto era tranquillo, quando nessuna profezia si doveva avverare, il tempo era tutto per loro, per essere dei ragazzi e null'altro, un luogo dove i suoi amici lo guardavano con occhi sognanti, pieni d'invidia e di ammirazione, seguendo ogni suo passo.
Ma era tutto passato, solo un ricordo, una traccia invisibile nelle pieghe del tempo, che il signore di questo aveva cancellato con la sua ricomparsa.
I ricordi si rincorrevano dietro alle iridi ambrate, riportando a galla il dolore e l'inadeguatezza che sentiva calati sopra di lui come una cappa indistruttibile. Neanche la rabbia riusciva a deformare i suoi lineamenti da angelo come l'acido aveva fatto con il volto di Silena.
Era perfetto: la superficie lucida rimandava quell'immagine che Mitchell ora odiava e in uno scatto d'ira lanciò il primo oggetto che gli si parò davanti contro il sé racchiuso nella cornice attaccata al muro.
Centinaia di frammenti caddero come stelle sul tappeto rosa, mentre il ragazzo perfetto, bellissimo e senza problemi di una vita fa, scompariva dalla sua vista offuscata dalle lacrime.
Distrutto! Era tutto distrutto. Lui, il suo passato, la sua felicità e lo specchio. Era un uomo che si era troppo a lungo trastullato nella sua immagine per allenarsi davvero, per rendersi conto che la sua bellezza non lo avrebbe protetto per sempre da quel destino di cristallo che aspetta ogni figlio degli Dei, per accorgersi che un giorno avrebbe dovuto combattere per sé e per chi amava. Ma era troppo tardi, la guerra era finita e fuoco e vento avevano portato via le ceneri di quegli ultimi eroi, di coloro che erano stati così coraggiosi da accettare la morte, da porsi in prima fila a protezione dei propri compagni.
Era troppo tardi per essere un eroe.
Le lacrime trattenute troppo a lungo non erano altro che rimpianti, la conferma dell'inadeguatezza di un Re.



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Capitolo 3
*** Katie Gardner- Leggi Fondamentali. ***


Half Heroes


3. Katie Gardner- Leggi Fondamentali.


Si era sempre impegnata a fare tutto al meglio, suo padre glielo aveva insegnato sin da bambina, quando sorprendendola a fissare il compito in classe, a fissare quella “C” che non le piaceva per niente, le aveva detto con con un mezzo sorriso in volto << “più ti impegni, più le cose riescono bene.”>>.
Non lo aveva capito subito, anzi, si era anche arrabbiata: lei si impegnava sempre, anche per quello stupido compito, non era certo colpa sua se la maestra le aveva messo una “C”, era evidente che il problema fosse della materia stessa, Katie non era sicuramente portata per la matematica.
Spostò delle vecchie agende per far posto sulla scrivania impolverata, da quanto tempo non tornava a casa? Alla sua vera casa? Probabilmente mesi, dalla battaglia del Labirinto come minimo, il che faceva esattamente tre mesi e ventidue giorni.
Si, Katie era diventata brava con la matematica alla fine e il ritrovarsi quel vecchio compito sotto al naso le fece affiorare un sorriso tanto simile a quello con cui suo padre aveva cercato di consolarla allora. Aveva imparato anche ad essere paziente, col tempo, ad aspettare con la stessa calma zen che non aveva quando gli Stoll combinavano guai al campo o alla sua cabina. Perché se voleva vedere i risultati migliori, allora doveva attendere. Ma l'attesa non le avrebbe fatto trovare due figli di Ermes a caso più tranquilli al suo rientro, né le avrebbe concesso sogni privi d'incubi o voci terrorizzate e volti sfregiati dal dolore, quello no.
Strinse il vecchio foglio a quadri tra le mani e si sedette sulla sedia girevole, cominciando a dondolarsi mollemente, senza gioia, mentre un cipiglio pensieroso le curvava le sopracciglia e scuriva lo sguardo.
C'era qualcosa di stramaledettamente sbagliato in quel luogo, nella sua cameretta, nella sua casa, qualcosa che non andava nelle scale silenziose e nel leggero rumoreggiare che veniva dal giardino, dove suo padre stava lavorando per farle una qualche sorpresa. La sua testa non riusciva a capire cosa fosse però, cos'era cambiato dall'ultima volta che era stata tra quelle mura, rimettendo in ordine per la millesima volta una scrivania che si riprometteva sempre di lasciar pulita; neanche impegnandosi ci riusciva e, di conseguenza, si arrabbiava.
Storse il naso e lasciò che il foglio scivolasse a terra, lasciandosi andare contro lo schienale della sedia e chiudendo gli occhi.
Cos'era cambiato?
Un suono secco la fece scattare in piedi come una molla, la mano che correva a stringere l'elsa della spada che non aveva attaccata alla cinta. Nulla, la pezza bagnata che aveva portato per pulire il banco era scivolata a terra. Era solo la pezza, nient'altro, non c'erano mostri, non c'erano armi e non c'erano morti.
Non era la casa ad essere cambiata, era lei.
Se ne accorse come ci si accorge di non aver spento la luce in una stanza, e rabbrividì.
Era tutto sbagliato, tutto quanto quello che era successo e soprattutto a chi era successo. Non ebbe neanche la forza di riavvicinare la sedia, si accasciò a terra come aveva fatto prima quello straccio, ripiegandosi su se stessa, ma zuppa di dolore, paura e inopportuno sollievo, anzi ché d'acqua.
Lo chiamano rimorso del sopravvissuto, ma lei non sapeva se sarebbe riuscita a convivere con quell'orribile e veritiera frase che le era balenata nella mente quando, alla fine di tutto, aveva fissato i corpi esanimi dei suoi compagni ed era stata felice, perché “almeno io sono ancora viva, meglio loro che me”. Oh, l'orrore di quel momento era stato agghiacciante, come...come...come nulla, nulla in tutta la sua vita.
Come si poteva continuare a vivere così? La guerra era finita, certo, ma se non c'erano più ferite visibili, fisiche, da curare nell'anima tutti ne avevano fin troppe e per Karie era impossibile che un essere, un “sistema”, continuasse la sua esistenza con quelle premesse, con quei vuoti riempiti dal sangue di chi hai imparato ad amare e non avresti mai conosciuto se non fosse stato per quel destino fragile e infame a cui ogni divin genitore aveva costretto la propria progenie.
Afferrò il compito di matematica e tirò sul col naso: alla fine l'aveva recuperata quella “C”, era diventata brava, aveva finito le elementari con una rossa “A+” che la riempiva ancora d'orgoglio, si era impegnata al massimo e tutto era riuscito al maglio, ma sapeva che questa volta non sarebbe bastato impegnarsi, questa volta non aveva speranze di recuperare ciò che aveva perso con la guerra.
Era tutto andato, distrutto.
Poteva solo mettere da parte ogni cosa, sperando egoisticamente di riuscire a dimenticare tutti quei corpi, tutti quei drappi, quelli verdi che lei stessa e i suoi fratelli avevano deciso di ricamare d'oro per quelli di loro che non ce l'avevano fatta, -erano così tanti,- divorati dalle fiamme assieme ai corpi così giovani, distrutti, nella materia e nella vita che avrebbero potuto vivere.
E allora i suoi fratelli si alzavano dalla pira, scostando il drappo e implorandola di salvarlo, di salvare quel pezzo di stoffa, le chiedevano perché, perché avesse dovuto usare il loro filo, quello che le parche avevano tessuto anni addietro. Così Katie si rendeva conto che lo spago dorato che aveva tagliato per ricamare i drappi era il filo della vita dei suoi fratelli, che era stata lei, con la sua debolezza e la sua stupidità ad ucciderli tutti, che era lei la capo cabina e non aveva fatto nulla per salvarli, che era solo un inutile figlia di Demetra, che sua madre non le aveva mai dato un potere degno di tale nome e che, ancora una volta, tutto si stava distruggendo davanti ai suoi occhi.
Scosse con vigore la testa, poggiando poi la fronte contro il pavimento freddo, nella speranza che tutti quei pensieri, quei sogni che ormai non riusciva più a distinguere dalla realtà, fluissero via.
Ma solo la distruzione regnava nella sua testa, coperta dalla spessa protezione dell'osso frontale e da quella fina e pallida della sua pelle, ora segnata da più cicatrici di quante non ne avesse mai avute.
Era consapevole che tutto quello fosse ridicolo, - inutile piangere- il tempo non si sarebbe riavvolto a nastro per ridarle il sonno e tutte quelle anime perdute. Sarebbe servito tempo, tutto il tempo che Crono aveva rubato loro e anche più, per far si che la distruzione e la desolazione lasciassero il posto alla creazione e alla vita, dopo tutto, una quercia non diventa tale in un battito di ciglia, doveva attraversare tanti passaggi, subire tanti mutamenti.
Mutamenti?
Si alzò con fatica da terra, facendo leva con le braccia e sedendosi in ginocchio. Lo sguardo abbracciò tutta la camera e si soffermò sulla libreria che conteneva tutti i libri di Katie Gardner la studentessa, non la semidea. Lì, tra tutti, individuò al primo colpo un grosso tomo grigio e blu e nonostante tutto il dolore, la vergogna e lo sconforto che provava da tre mesi e ventidue giorni a questa parte si costrinse ad un piccolo mezzo sorriso, supportato dal suo “istinto da giardiniera”, come lo chiamava Travis, che le diedero la forza di alzarsi e far qualche passo tremante verso la finestra che dava sul piccolo giardino.
Come ogni brava giardiniera, Katie sapeva che nulla era perso, che una foglia, un fiore o un frutto caduto, non sono sprecati, che torneranno ad unirsi alla terre e a nutrirla, che faranno ancora parte di questo mondo. Così come sapeva -sperava con tutto il suo cuore- che il sacrificio dei suoi compagni non fosse stato vano, che grazie a loro il mondo sarebbe stato più sicuro, che dall'Ade avrebbero osservato orgogliosi la pace propagarsi per ogni dove, sapendo che era merito loro.
Sapeva che tutta quella distruzione non era tale, che era solo apparente, che era solo dentro ogni sopravvissuto che ancora non era riuscito a vedere la luce. Sapeva che non c'era nulla da ricreare.
Perché glielo aveva suggerito proprio il suo vecchio libro di fisica: Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto muta. E così come quel principio anche loro sarebbero mutati, il dolore si sarebbe trasformato in forza e in dolce ricordo, ricordo di coloro che non c'erano più.
Ogni cosa sarebbe tornata al proprio posto, lentamente, ma sarebbe successo.
Doveva essere così, era una delle leggi fondamentali del mondo.
Doveva essere così per forza.

Pregò.


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Capitolo 4
*** Lee Fletcher- Scocca la Freccia. ***


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4. Lee Fletcher- Scocca la Freccia.


Lee amava le gare e le sfide di ogni genere, era un figlio di Apollo, amava la confusione della battaglia come la calma piatta e placida dell'infermeria.
Vi trovava molti punti in comune in entrambi i luoghi: da una parte la lotto per la gloria, dall'altra quella per la vita. Un piacevole paradosso univa i luoghi fondamentali della sua vita, così come univa le due parti scisse e alle volti invisibili del carattere di suo padre.
E ora quella sfida gli ricordava come non mai quanto la gente desse per scontato l'essere del più famoso tra i gemelli, e di conseguenza di tutti i suoi figli.
Lo avevano messo in squadra con Clarisse ma stranamente gli andava bene. Non che non si stesse facendo domande, ovviamente il temperamento della prima dei figli di Ares gli dava da pensare, se avrebbe preteso di comandare la ricerca, di essere lei a riportare il “tesoro”, se avrebbe ascoltato almeno una parola delle sue, eppure tolti questi piccoli particolari, era più che tranquillo.
Voleva vincere quella dannata gara, con tutti i mezzi possibili immaginabili.
Si sistemò la faretra sulle spalle, controllando velocemente di avere abbastanza frecce e pizzicando la corda dell'arco per assicurarsi fosse ben tirata. Lo sguardo vagò per i suoi fratelli che ancora non erano stati accoppiati, li vide nervosi e scontenti della decisione del nuovo maestro, Quintus, e si concesse un sorrisino divertito prima di scuotere la testa e incamminarsi verso Clarisse.
La ragazza svettava tra i suoi fratelli, i capelli lisci tenuti legati da una coda di fortuna e l'immancabile bandana rossa che le copriva la fronte. Non disse nulla quando lo vide, lo fissò solo negli occhi e poi annuì.
Vincere quella gara, con questi presupposti, sarebbe stato semplicissimo.
Al suono del corno si lanciarono in avanti nel buio della foresta, Lee sentiva il vento fendergli il volto e le foglie scricchiolare in modo impercettibile sotto i suoi piedi, un rumore unico, simbolo della perfetta intesa tra i due ragazzi.
Uno scorpione, dovevano solo trovare uno scorpione, quello giusto, si ripeteva.
Poi un suono distinto gli fece voltare il capo: oltre Clarisse, che correva alla sua sinistra con la lancia elettrica pericolosamente protesa in avanti, a circa una decina di metri da loro vide Percy Jacksone e Annabeth Chase ed una scintilla di rabbia si accese nel suo petto.
Era arrivato da pochissimo e già Chirone l'aveva convocato per non si sa quale motivo, probabilmente per metterlo a parte di quello che era successo nell'anno trascorso, persino la Chase si era seduta al tavolo di Poseidone per confabulare con quel ragazzino.
Ripuntò lo sguardo verso il bosco scuro, stringendo i denti e cercando di non pensare a certe cose in quel momento, non quando doveva vincere una gara. Eppure la piccola scintilla si stava lentamente trasformando in fiamma, nutrita dal vento che tirava quella notte, e Lee si ritrovò a pensare per la millesima volta al “perché”, perché quel ragazzino fosse costantemente al centro di tutto, del campo, delle profezie, delle battaglie, delle imprese, dei guai. Oh, ma Lee sapeva perfettamente perché: Jackson era il figlio di uno dei pezzi grossi, lui e Talia Grace, ma la ragazza era prontamente uscita di scena scaricando, ancora, tutto il peso della salvezza su quel ragazzino.
Sia ben inteso: Lee non moriva certo dalla voglia di rischiare la vita più di quanto non facesse ogni dannato giorno, non voleva essere il fulcro rotante di una profezia destinata a decretare la vittoria o la caduta del mondo come lo conosceva, però...però voleva di più.
Quanti anni aveva passato in quel maledetto campo? Ad allenarsi con l'arco, con la spada, a scalare i muri in fiamme e curare compagni che non aveva scelto, ma con cui si era ritrovato a condividere ogni respiro d'ossigeno in attesa di quel “ qualcosa in più", della resa dei conti che li avrebbe raggiunti tutti, prima o poi.
Lee voleva rispetto, voleva una missione tutta sua per dimostrare quanto fosse forte, per dimostrare che non era solo un figlio d'Apollo che si alzava all'alba, lanciava qualche freccia, faceva la crocerossina e poi il menestrello. Lui era di più. Ed era l'invidia quella che gli rodeva l'anima ogni volta che posava lo sguardo su Percy Jackson, su quel ragazzino frutto dell'infrazione di un giuramento secolare, che era piombato nelle loro vite a distruggere l'equilibrio precario che avevano costruito. Non doveva far nulla per essere speciale, tutti lo reputavano un grande eroe e sembrava che solo quel cretino, quel pivello, come lo chiamava Clarisse, non si rendesse conto di quanto i semidei del campo facessero affidamento su di lui.
“Tanto c'è Jackson, che è il figlio di Poseidone, a sistemare le cose.”
“Oh, hanno infranto le regole e hanno seguito Clarisse nella sua missione, ma si! Perché dobbiamo punirli!”
Sempre liscia, la passava sempre liscia per poi aggirarsi per le cabine con quella faccia da cucciolo disagiato e abbandonato che si ritrovava, come se stesse costantemente piagnucolando perché “non si era integrato”, “non si era fatto degli amici”...gli Dei solo sapevano quanto e perché lo odiava, solo loro, perché Lee non lo sapeva proprio.
Forse lo sapeva, ma non voleva ammetterlo
Clarisse scartò a sinistra e lui la seguì. In effetti la stava seguendo da un bel po' senza rendersene conto, come se la ragazza l'avesse lasciato ai suoi pensieri prendendo in mano la situazione. Probabilmente era così e, detto tra noi, questa era una delle caratteristiche che più apprezzava della massiccia figlia di Ares: a meno che non volesse prenderti per il culo, Clarisse si disinteressava a tutto ciò che non la riguardava. Questo l'aveva resa la compagna d'arma preferita di Lee. Poteva sfogare tutta la sua rabbia e la sua peggiore espressione funesta quando si allenava con lei, di certo la La Rue non si sarebbe mai fermata per chiedergli cos'era che lo angosciasse a tal punto da cercare di ucciderla.
Probabilmente avrebbe solo cercato di ucciderlo a sua volta
E Lee ne aveva fin troppa di rabbia da sfogare.
La lama della figlia della Guerra si spostò in avanti, fendendo impercettibilmente l'aria ed indicando qualcosa di fronte a loro, arrestando la corsa. Seguendo lo scintillio bluastro della tensione elettrica della lancia il biondo si ritrovò ad assottigliare lo sguardo per scorgere meglio quel corpo in movimento tra il fogliame scuro. Essere figli del dio del Sole ti dava una fantastica resistenza alla luce, ma Artemide non era stata altrettanto gentile con i suoi nipoti e la Luna non li aiutava quasi mai.
Poi lo vide: uno scintillio simile a quello della lancia ma più prolungato e rossiccio, come di rame esposto alla luce. Lo scorpione si muoveva guardingo tra i tronchi, una sacca nera attaccata al dorso.
Si voltò lentamente verso Clarisse per preparare l'attacco e solo all'ora si rese conto di quanto avevano camminato, senza mai incontrare qualcuno poi.
L'altra rispose al suo sguardo confuso con un alzata di spalle. Li aveva tenuti lontani dagli scontri con i compagni e li aveva portati dritti ad una preda? Batté le palpebre e prese una freccia, la compagna gli fece cenno di uccidere il mostro, mentre lei si avvicinava silenziosa puntando al trofeo.
Non sapeva se lo stesse facendo per poter prendere lei la corona d'alloro, perché non lo reputasse abbastanza forte da sostenere un corpo a corpo o che altro, ma fu più che soddisfatto della spartizione.
Sistemò la freccia e respirò a fondo, chiudendo per un attimo gli occhi. Doveva concentrarsi.
Ripensò a tutti i ragionamenti di prima, alla rabbia, alla delusione, al senso di rivalsa che si agitava in lui e per un attimo vide davanti a se tutti quei ragazzi che erano stati riconosciuti per il loro valore da combattenti, mentre lui rimaneva solo quello che “combatteva a distanza e restava al sicuro”. Strinse la mascella, i muscoli del collo si tesero fino allo spasmo, la rabbia cieca e crudele di suo padre che si impossessava di lui.
Perché spesso la gente si dimenticava di com'era, chi era in verità Apollo.
Tutti lo vedevano come un cretino, un eterno adolescente che se ne sbatteva dei problemi, ma scordavano la crudeltà di un uomo, di un dio che aveva ucciso per molto poco, per diletto, per rabbia, per gelosia, aveva scorticato vivo un satiro per invidia e massacrato ciclopi per un affronto.
Perché Apollo e Ares condividevano la stessa spietata crudeltà, quella stessa che li aveva fatti nemici tante volte, e dallo strano luccichio nello sguardo di Clarisse, ora fisso nel suo, seppe che la ragazza era della sua stessa idea.
Respirò ancora trattenendo per poco il fiato, questa volta sarebbe stato lui l'eroe, suo sarebbe stato il podio e la gloria. Quei due bambini potevano anche essere prediletti dagli dei -in non si sa bene qual modo- ma non gli avrebbe lasciato la sua vittoria.
Di nuovo rabbia e invidia, collera pura mista ad uno strano senso di soddisfazione all'idea di aver la vita di un essere, seppur mostruoso, tra le mani, lo scorpione si trasformò in uno dei suoi mille “rivali”, di coloro che erano stati glorificati dagli Dei e dai loro compagni.
E solo una frase rimbombava come lo scoppio di un ordigno della mente del giovane, mentre volti amici si rincorrevano davanti a lui:
Socca la freccia.
E Lee lo fece.
E quando Clarisse estrasse la corona d'alloro e gliela mostrò un conato di vomito gli inacidì la bocca facendolo barcollare.
Aveva ucciso il mostro e con lui tutti quei semidei. Era stato un bene che la giovane, per una volta in vita sua, avesse evitato lo scontro. Cosa avrebbe fatto a chiunque avesse incrociato il suo cammino quella notte?
La parte più oscura del dio del Sole ora si quietava come una bestia soddisfatta e tornava nella sua tana.
Ma chi era davvero il mostro? Colui che uccideva senza distinzione o colui nel cui animo albergava la folle scintilla del traditore, disposto ad uccidere i suoi compagni per dimostrare di essere il migliore?


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Capitolo 5
*** Chris Rodriguez- Figlio di Nessuno. ***


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5. Chris Rodriguez- Figlio di Nessuno.


Non aveva avuto una vita facile, sarebbe stato stupido ed inutile affermare il contrario. Era stato fortunato a nascere oltre il confine messicano, questo si, ma l'uomo che aveva portato lui e la sua famiglia nel vivo del sogno americano non voleva più saperne di lui, suo padre, non voleva riconoscerlo.
E la cosa più frustrante era che tutti al campo sapevano chi fosse.
Si rigirò il coltello fra le mani, sovrappensiero, dondolandosi col piede sull'amaca che aveva intrecciato tra i pali delle ultime file dei letti a castello della cabina undici, quelli vicino alle finestre. Da quella postazione poteva vedere i margini del bosco, dove di tanto in tanto passeggiavano semidei e si affacciavano ninfe e satiri. Forse sarebbe dovuto uscire anche lui, a far due passi, ad allenarsi, a far qualcosa di degno di suo padre, così magari l'avrebbe riconosciuti. Scosse la testa con vigore, che importava?
Cosa sarebbe cambiato se Ermes si fosse degnato di riconoscerlo?
Nulla, ecco cosa, proprio nulla.
Sarebbe rimasto in quella cabina troppo piccola per così tante persone, troppo affollata, troppo rumorosa e per l'amor degli Dei anche troppo sporca. Non avrebbe avuto un letto tutto per se, un posto più largo al tavolo e dei fratelli veri, più “intimi” con cui conversare e lamentarsi di quanto sia difficile la vita da semidio.
No, Chris lo sapeva che non sarebbe cambiato niente, eppure la sua situazione, il suo stato gli pesava come un macigno sulla schiena.
Perché? Perché se non cambiava niente, se tutto sarebbe rimasto com'era in quel momento, suo padre non voleva riconoscerlo? Ermes non aveva una moglie da non far infuriare come Zeus, che problema c'era nel far apparire quel cazzo di stemma al neon sulla sua testa?
Un attimo. Solo un secondo, si accende la luce, lui la vede, si spegne, va a dire a Chirone che, ehi! Dopo ben cinque anni che sto chiuso in questo buco a farmi il culo dalla mattina alla sera finalmente mio padre, l'essere che ha permesso la mia nascita, che dovrebbe volermi bene, proteggermi ed indicarmi la strada, si è degnato di palesare al mondo che Chris Rodriguez è suo figlio!
Stronzo egoista. Ecco cos'era suo padre e tutti gli altri Dei.
Ma a loro non importava: erano solo poveri piccoli mortali, potevano sfruttarli quando volevano, chiedergli qualunque cosa e minacciarli di morte. Cosa spinge un essere così potente e millenario ad impegnarsi in una relazione genitore-figlio, a perderci tempo, addirittura a sdoppiare la loro divina essenza per seguire più di un figlio in contemporanea! Quando potevano benissimo ordinare e venir obbediti?
Era il potere, il fulcro di tutto.
Non c'entravano le parentele, la famiglia e lo spirito genitoriale, per gli Dei loro erano solo pedine sacrificabili e facilmente rimpiazzabili. Dopotutto per loro nove mesi erano attimi ed una decina d'anni spiccioli. Erano proprietà privata, “io l'ho messo al mondo, io lo sfrutto come voglio. E si: se voglio mandarlo a morire ce lo mando”.
Gli saliva un voltastomaco ogni volta che ci pensava ed il problema di Chris era che ci pensava un po' troppo spesso.
All'incirca da cinque anni a questa parte, amico.
Afferrò saldamente il pugnale per il manico e fissò la lama, al centro di essa una piccola clessidra era stata incisa con mano leggera, se non avesse saputo dove cercare, Chris non se ne sarebbe mai accorto.
Quell'arma per lui significava “opportunità”, “salvezza”, qualcosa che non gli era stato mai offerto e per di più, proprio da un suo fratello.
Gli si prospettavano davanti due scelte: rimanere al Campo Mezzosangue, aspettare che la guerra scoppiasse, perché sarebbe scoppiata, ed anche a breve, sperare di vincere contro un esercito dieci volte più grande, più cattivo, motivato e meglio armato. Avrebbe dovuto combattere una guerra potenzialmente letale per assicurare agli Dei i loro troni dorati, per consolidare il loro potere, come se gli stesse dicendo “Ma si, dai, mi piace essere usato come un fazzoletto, chi non sogna di essere uno schiavo suicida pronto alla morte appena il suo padrone chiama?”. In quel caso sperava di morire in battaglia, magari così suo padre avrebbe avuto pena di lui e non lo avrebbe consegnato alle fiamme con un drappo arancione con su ricamato un cavallo alato.
Oppure poteva andarsene, prendere tutti i suoi pochi averi e incamminarsi verso est, verso Los Angeles, la California ed il Monte Tam… sapeva che ogni giorno una macchina scura aspettava per un ora dalle due del pomeriggio alle tre, l'ora subito dopo il pranzo, quando i semidei erano tutti presi dai cavoli loro e non prestavano attenzione agli altri. Quella macchina lo avrebbe portato lontano dal Campo, dai suoi “fratelli-non-fratelli”, dagli Dei e da quei pochi amici che si era fatto.
Gli era stato assicurato che avrebbe trovato una cabina ad aspettarlo, piccola certo, ma tutta sua, silenziosa e pulita, da condividere con se stesso e la sua coscienza.
“Perché all'inizio tutti quanti abbiamo dei ripensamenti sui nostri amici lasciati indietro, cosa ne sarà di loro? Sono semidei come noi, hanno diritto di essere liberi...”
Ma poi passava, dicevano: ti rendevi conto che molti di loro non erano stati riconosciuti, altri invece si, ma poi erano stati ignorati. E allora ti assaliva la rabbia, perché non sono, siamo, carne da macello, non possono trattarli in questo modo.
Avrebbe potuto scegliere di combattere per la sua libertà, per un mondo senza Dei. Certo, si sarebbe dovuto scontrare contro chi rimaneva fedele a quei bastardi, contro quelli che erano così deboli da non riuscire a staccarsi dalle loro divine sottane, o contro coloro che per qualche infame decisione del Destino erano amati, rispettati o quantomeno considerati dal proprio genitore.
Però poi sarebbe stato libero.
Aveva ragione Luke, doveva scegliere, far qualcosa, non poteva rimanere per tutta la via ad attendere la sua fine, così come l'avrebbero scelta gli Dei.
Fece scivolare le dita sulla lama e la scagliò dalla parte opposta della stanza, dritta sul simbolo di Ermes attaccato sopra alla porta. Un tacito ma chiaro segno di sfida, uno sfreggio.
Sarebbe andato via, avrebbe scelto la libertà. Guardò con astio, rabbia e tristezza, il cielo, un grumo di desolazione e senso di tradimento che si spandeva nel suo petto.
Suo padre non provava neanche a fargli cambiare idea.
Perché in fondo Chris voleva essere fermato e gli sarebbe bastato un segno, non necessariamente il suo riconoscimento, anche uno stupido rumore, un lampo in cielo, qualcosa.
Afferrò lo zaino e ci infilò dentro persino l'amaca, era sua, aveva faticato per farsela e per tenersela, non l'avrebbe lasciata a quelli così fortunati da poter dire di essere Figli di Ermes.
Si fermò sulla porta, staccando il coltello dallo stipite superiore, l'uscio aperto ed il sole cocente che si insinuava tra le tegole malandate dalla veranda della cabina undici.
Un segno, solo un segno e si sarebbe fermato, avrebbe rimontato l'amaca e buttato il coltello.
Solo uno.
Ma non arrivò.
Ingoiò il boccone amaro come fiele che gli impastava la bocca, tirando sul col naso e strofinandoselo con la mano. Non avrebbe pianto, aveva quindici anni ormai, sarebbe stato forte, neanche una lacrima o un singhiozzo, non gliel'avrebbe data vinta, no, non avrebbe pianto per l'abbandono di quel posto, di casa e di tutto ciò che rappresentava. Non l'avrebbe fatto, come nessuno l'avrebbe mai fatto per lui.
Dopotutto, chi mai piangerebbe per il tradimento di un figlio di nessuno?



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Capitolo 6
*** Travis e Connor Stoll- Pacchetto completo. ***


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6.Travis e Connor Stoll- Pacchetto completo.


Travis amava suo fratello –minore-, lo amava come se fosse il suo gemello. Al diavolo l'orgoglio per una volta! Si, amava suo fratello e nulla e nessuno sarebbe mai riuscito a fargli cambiare idea.
Così Connor amava suo fratello -maggiore- come non avrebbe mai amato nessuno in vita sua, forse neanche sua madre. Non andava certo a sbandierarlo ai quattro venti, ad affiggere striscioni e comporre sonate, ma sapeva che Trav ci sarebbe sempre stato, per lui, a dispetto di tutto e tutti.
Ma erano stufi, stufi di essere Travis e Connor, Connor e Travis. Non solo Travis, non solo Connor, sempre insieme.
Non c'era via di scampo.
Un tempo la cosa li emozionava: piccole pesti sempre a macchinare qualcosa, non li si distingueva, non era possibile dire chi fosse chi. Era divertente essere “gemelli”, stessi vestiti, stessi capelli, stesso faccino da malandrini e occhi vispi identici come se gli uni fossero lo specchio degli altri. Tutto era un emozione, tutto era magnificamente divertente.

<< E se te lo chiedono, noi siamo gemelli!>>
<< Perché? Non lo siamo davvero?>>


Ora la cosa cominciava a dargli sui nervi.
Travis era convinto che le prime avvisaglie si fossero viste fin dall'inizio, quando sua madre li riusciva a riconoscere solo per l'altezza mentre gli altri brancolavano nel buio ed erano costretti a chiedere.
Quante volte avevano fatto impazzire maestri e professori, continuando a scambiarsi le parti?
Connor era convinto che la famosa goccia, no, non quella che fa traboccare il vaso ma quella che ti informa che stai per arrivare all'orlo, fosse caduta durante il suo primo anno di scuola media, secondo anno per Travis, quando una ragazza gli mollò un ceffone in faccia scambiandolo per suo fratello e a nulla erano valse tutte le spiegazioni che ehi! Io non sono Travis!
Entrambi erano certi, però, che il culmine si fosse raggiunto al Campo.
Lì nessuno li conosceva, nessuno sapeva come distinguerli e soprattutto, nessuno sapeva che non fossero gemelli.
Sembrava che, chi li cercava, si aspettasse di trovarli sempre e comunque insieme, più di una volta era addirittura successo che qualcuno si avvicinasse a Travis chiedendogli perché non fosse con Connor e vice versa.
Quando poi Travis si era innamorato di Katy Gardner le cose erano precipitate: Connor, che prima aveva riso e poi lo aveva preso in giro fino allo sfinimento, a forza di sentire le maldicenze altrui, si era convinto che il fratello lo avrebbe abbandonato per andar dietro alla gonnella di quella sciroccata della Gardner, mettendo la testa apposto e dimenticandosi del loro duo.
Travis si era chiesto cosa avrebbe dovuto fare, invece: era innamorato di quella sciocca ragazzina che li rincorreva sempre e ovunque quando ne combinavano una delle loro, ma per una prima -forse ennesima- volta, quella ragazzina, Travis, la voleva solo per se.
Niente Travis e Connos, solo uno, solo lui.
Prima o poi, dopotutto, anche suo fratello si sarebbe trovato la sua dolce metà ed era meglio che imparassero il prima possibile a star divisi.
Ad essere Solo Travis e Solo Connor.
E così si erano inevitabilmente separati. Perché non si può aver un rapporto di coppia in tre, ed i due fratelli erano così stanchi di essere “gemelli”.
Ma quando la battaglia contro Gea era in fine scoppiata, quando le catapulte romane avevano lanciato i primi proiettili infuocati sul campo, Travis aveva avuto paura.
Paura per la sua casa, per i suoi amici, i suoi fratelli, per Katy e soprattutto, sopra tutti, per Connor. Dov'era? Perché in un momento come quello, quando il mondo era sull'orlo del baratro e ancora una volta solo degli adolescenti senza alcuna possibilità di scelta dovevano necessariamente salvarlo, suo fratello non era con lui?
Correva per il campo di battaglia senza badar a nessuno, schivando colpi e mostri, spingendo via chi gli capitava dinnanzi, nel bel mezzo della mischia Travis cercava terrorizzato quegli occhi così simili ai suoi, pregando tutti gli Dei di non trovarli vitrei e persi.
Perché ne sarebbe morto, ne era certo.
Quando suo fratello -minore- lo avvistò tra tutti, dietro la patina lucida che il fumo, l'ansia e la paura avevano calato davanti alle iridi chiare e corse verso di lui abbracciandolo e ignorando la guerra che li circondava, quando si guardarono ancora negli occhi, specchi perfetti d'emozione e sollievo, per poi voltarsi risoluti e trovarsi spalla a spalla, con lo stesso identico ghigno stampato in faccia, entrambi ebbero la certezza che se Thanatos avesse reclamato le loro anime quel giorno, le avrebbe dovute accettare entrambe, che nessuno di loro avrebbe permesso all'altro di andarsene da solo.
Trevis e Connor, pacchetto completo.



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Capitolo 7
*** Malcom- Generale senza gradi. ***


Half Heroes


7. Malcom- Generale senza gradi.


Annabeth Chase è la fiera e giovane, la più giovane, capo-cabina di Atena. Lei è stata al fianco del grande Percy Jackson, aiutandolo a ritrovare la folgore, accompagnandolo in tutte le missioni più pericolose, ha sorretto il cielo, esplorato il labirinto. Ha visto Crono, trovato il marchio, sconfitto Aracne, salvato l'Atena Parthenos, caduta nelle profondità del Tartaro e uscitavi più forte che mai, lasciando tutti senza parole, combattendo contro i Giganti al fianco degli Dei.
Gloria ed onore alla prima figlia di Atena. E grazie a tutti.
E' rancore, dolore ed abbandono la patina scintillante che illumina il sorriso di Malcom, falso e perfetto come la foschia delle figlie di Ecate. Sua sorella è al centro dello spiazzo tra le cabine e saluta e ringrazia i suoi amici, i suoi valorosi compagni, tutti li riuniti per salutarla, tutti così felici per lei e tristi per la sua imminente partenza.

“Oh, come faremo adesso senza di te Annabeth?”
“ Non sarà più lo stesso il campo!”
“ Ormai sei qui da così tanto tempo che non ricordo come fosse senza di te!”
“ Reggeremo una settimana! Poi il campo sprofonderà nel panico senza te che organizzi tutto!”


Si, certo, senza di Annabeth il campo sarebbe in breve crollato al suolo, senza di lei che, come un ragno -rabbrividì a quel paragone- reggeva le fila di ogni evento e lezione, che organizzava ogni turno e ogni gioco.
Certo.
Ma dov'era Annabeth quando la cabina sei fu punita per la sua fuga alla volta del Vello?
Quando la paura ed il dubbio dilagavano per ogni dove, il sospetto che viscido strisciava nelle vene di ogni semidio, portandolo a guardare con ansia il prossimo, colui con cui aveva diviso una vita?
Dov'era quando bisognava addestrarsi per la guerra?
Chi ha portato la cabina di Atena sul campo? Chi li ha armati? Chi ha curato i feriti e coperto i cadaveri, trasportandoli in un luogo silenzioso e sicuro per poterli piangere in pace, mentre lei era sull'Olimpo ad illuminare il cielo di blu?
Chi accoglieva i nuovi arrivati e teneva sotto controllo i vecchi, quando lei girava come una trottola per l'America alla ricerca del fidanzato, usando i suoi fratelli e tutti gli altri semidei come se fossero la sua personale armata e potesse deciderne senza dover chiedere a nessuno?
Chi era stato?
Lui. Era stato Malcom.
Malcom si era preso carico di tutti i problemi di una cabina popolata da gente che si credeva superiore in tutto e si metteva costantemente nei guai, i cui membri spesso finivano in infermeria perché aveva detto una parola di troppo ad un semidio che non riusciva in qualcosa che per loro era “così semplice e scontato” e poi le prendevano. Lui girava per il campo alla ricerca dei suoi fratelli più grandi, per chiedergli il favore di far lezione ai più piccoli e sentirsi rispondere che “lui non era il loro capo cabina” che l'avrebbero fatto solo se fossero venuti Chirone o Annabeth a chiederglielo. Lui che restava sveglio la notte per consolarla e dirle che l'avrebbe trovato Percy. Malcom, nessun altro.
E aveva mia ricevuto un “grazie”? Un “ottimo lavoro Malcom”?
No, mai.
Per tutti gli anni della guerra, Annabeth era stata capo cabina ricevendone solo gli onori e scaricando, inconsciamente o meno, tutti gli oneri su Malcom.
Sua “sorella” non gli aveva neanche chiesto di prendere il suo posto, quando era partita per l'Europa, non si era minimamente preoccupata per chi avrebbe gestito tutti i suoi fratelli. E se non si era sprecata per questo, forse Malcom non si sarebbe neanche dovuto stupire più di tanto, quando si rese conto che la sua amata sorellona non si era neanche degnata di informarlo che si sarebbe trasferita a Nuova Roma, figuriamoci.
Ormai lei era un eroina, lo era sempre stata, dal primo momento in cui aveva messo piede nel campo una buona stella l'aveva illuminata. E se le aveva portato tanti pericoli in questa vita, le aveva promesso anche le più splendenti fortune.
Sarebbe stata per sempre “La capo cabina di Atena”, anche adesso che se ne stava andando, che stava abbandonando tutto per vivere una vita normale, che ne aveva bisogno...come se loro invece avessero vissuto una vita rose e fiori e non capissero il suo dolore e la sua voglia di tranquillità.
E come lei sarebbe rimasta il loro “capo” anche una volta abbandonato il campo, i suoi abitanti, i suoi ricordi e i suoi fantasmi, lui sarebbe finalmente diventato l'effettivo capo-cabina di Atena.
-Lo era sempre stato- gli soffiava una vocina nella testa.
Ma nessun onore, nessun rispettoso saluto, niente gloria, per un generale senza gradi.


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Capitolo 8
*** Drew Tanaka- La missione del Samurai Disonorevole. ***


Half Heroes


8. Drew Tanaka- La missione del Samurai Disonorevole.


Bella e perfetta si ammirava allo specchio, il paese del Sol Levante brillava nel suo volto come il disco rosso sulla loro bandiera. In ogni suo movimento c'era la grazia di una geisha, la maestosità della peonia, la leggiadria del fiore di ciliegio che danza nel vento e la struggente bellezza dell'esplosione del Fuji, le cui colate incandescenti striano la candida neve, portatrice di leggende mistiche.
E letale come una Katana è la sua lingua di veleno, che troppo a lungo si è trastullata nell'idea di aver sempre con sé l'antidoto che avrebbe rimediato alle sue ferite.
Ora non più.
Come un samurai sconfiggeva i suoi nemici con implacabile perizia e impassibile giustizia, il suo verbo era legge - non quella del più forte ma del più subdolo -, ammaliante e persuasivo come un serpente tentatore, adesso libero di uccidere senza temer il suo predatore.
Non la capiscono, non l'hanno mai capita, Drew, il suo bisogno di potere, di attenzione; lei deve essere al centro dei riflettori, perché è l'amore crudele, quella spiacevole parte dell'amore che tutti vorrebbero ignorare, far finta che non esista e che la Dea della Bellezza brilli tra rose prive di spine; è la vendetta dell'amante, il dolore del ferito. Ferito come la sua mano, che nasconde a tutti e che solo La Rue ha visto- gliela curò lei, quella notte, senza proferir parola- e solo allora Drew comprese perché Silena le volesse tanto bene.
Ma Drew rimane predatore ed una volta guaritale la mano, quella stessa con cui ha toccato il volto di Silena, tornerà a caccia. Perché è nella sua natura, perché il dolore si trasforma in abbandono e l'abbandono in rabbia, la rabbia in odio.
Perché è morta?
No, perché si è fatta ammazzare?
Ribolle di bile acida come il veleno che uccise sua sorella, Lei non avrebbe fatto la stessa fine, perché era più forte e indipendente, Drew non sarebbe morta per terzi ne tanto meno per “pagare un debito” e con lei nessuno della cabina dieci, mai più.
E non sarebbe successo neanche con quella finta eroina della McLean. Perché gli eroi non esistono, Drew l'ha imparato a sue spese, e neanche lei le avrebbe impedito di onorare il suo giuramento. Piper non poteva sconfiggerla, non davvero.
Drew era il veleno e Piper solo acqua corrente che sciacqua la feria. L'antidoto di Drew, alla sua rabbia, al suo odio, al suo dolore, era morto sfregiato dall'acido.

“Coraggiosa Silena.” dicevano.
“Stupida Silena!” urlava.

Lo aveva fatto per amore, per essere perdonata dal suo Charlie, dai suoi amici, dal campo intero, ma Drew non avrebbe fatto lo stesso errore, nessuno l'avrebbe più fatto, a costo di distruggere ciò che sua madre rappresentava, a costo di distrutto l'amore.
Il suo personalissimo seppuko, un'arte che in Occidente nessuno capiva e avrebbe capito in futuro, l'accettazione di un errore, di ciò che aveva sporcato il nome di quanto più grande un uomo aveva e che esso decideva di pagare con la sua vita. Nessuna lama avrebbe però visto il suo sangue, nessuna candida veste si sarebbe macchiata del rosso vitale; con impietosa freddezza si disse disposta a recidere le radici dell'amore con la lama che era diventata la sua rabbia, pronta a rinunciare alla felicità se questa era sinonimo di dolore, se questa gli avrebbe tolto ancora un compagno.
Nessuno la capiva né l'avrebbe mai fatto, lei era solo la bellissima, subdola, perfida e superficiale Drew Tanaka e la sua missione sarebbe rimasta sempre in cattiva luce, come l'eroe che uccide chi poteva essere salvato, come la bestia che per sopravvivere uccide la preda innocente, come il samurai che per onore uccide i suoi cari.
Nessuno avrebbe mai capito lei e il suo credo, era questa la missione di un Samurai disonorevole.


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Capitolo 9
*** Castore e Polluce- Come le Menadi di notte. ***


Half Heroes


9. Castore e Polluce- Come le Menadi di notte.


C'è una strana chimica col mondo quando sei un figlio di Dioniso, tutto ti pare sostare in una strana letizia, nella calma agitata che precede una tempesta, tutto sosta sull'orlo del baratro della follia, tutto, te compreso. Ma in due, almeno, ci si da manforte.
Sono tralci di vite quelli che nascondono i loro passi, quando la notte escono dalla loro cabina incuranti del coprifuoco e delle possibili punizioni. Chi mai punirebbe i figli del direttore del Campo? Ma di più di tutto: cosa gliene importerebbe a loro padre se finissero nei guai?
Dioniso non è poi un chiacchierone, non si ferma certo a parlare con i suoi gemelli, a chiedergli come va, no, alle volte, quando lo incrociano, Castore e Polluce possono dire con sicurezza di vedere il rimorso negli occhi del padre.
Ancora una volta una sottile linea che divide l'amore di un genitore dal rimorso di un marito.
Sottile come un filo.

Si tengono per mano mentre camminano verso il bosco, la fioca luce di Artemide cala sulle fronde ma non le supera disegnando un delicato motivo di ricami d'ombra, la Dea bambina non li aiuterà a fuggire dal coprifuoco del campo, non ha mai nutrito grande favore nei confronti dei figli del Dio dell'ebrezza.
Eppure quella sera neanche una divinità potrebbe immischiarsi nei loro piani. E' un richiamo antico e primitivo quello che gli risuona nel corpo, battendo furioso nella cassa toracica e soffiando gli ottoni dei loro polmoni. Sono le corde vocali che vibrano come le corde di un'arpa, quando ogni cosa si fa sfocata come immersa nella calura estiva: l'astro minore sembra brillare improvvisamente di più, il vento è dolce e scuote rami e foglie in una sinfonia di fruscii e tintinnii misteriosi quando le stelle cominciano ad accendersi come tante candele, fuochi fatui in una notte speciale che ricorderete per la vita ed oltre, sfortunati gemelli, che sarà il vostro unico ricordo indelebile, che neanche le praterie degli inferi ed il loro confuso sottrarre rimembranze vi potrà levare.
Siete li insieme, mano nella mano, spalla contro spalle, ognuno la roccia dell'altro, il suo appiglio, a comprendere per la prima volta il senso della parola “estasi”.
E dalle rocce sgorga miele e latte, floride fronde vi accolgono, mentre ninfe ballano ipnotiche nelle chiazze di luce lunare, seguendo sussurri lontani e vicini, la forza mostruosa ed antica degli Dei è in voi e ruggisce rendendo ancora più sottile quella linea che distingue i folli dalla monotonia della vita.
Ma ora i sussurri sono urla, il miele veleno ed il latte è sangue, sangue dei vostri amici, dei vostri nemici, sangue rosso come i rubini e verde come la bile, oro scintillante che non dona nessun guadagno. Dalle rocce sgorgano mostri e cadaveri sono raccolti tra la sterpaglia spenta.
L'estasi non esiste, è solo il terrore, è mera illusione e folle speranza, quella che tutto finisca e che il giorno porti via il dolore e la morte.
E quando guardi per l'ultima volta tuo fratello, Polluce, il tuo gemello, quella perfetta metà di te, ti accorgi di star varcando la sottile linea che divide la vita dalla morte ed il tuo unico pensiero è che lo lascerai solo, solo ad affrontare le notti sfocate come la calura estiva, solo ad affrontare il fuoco degli Dei che gli incendierà il petto, mentre la linea si assottiglierà e non avrà più nessuno appoggio, nessun appiglio che gli ricordi da che parte è la realtà e da quale la follia, solo ad affrontare un altro baratro, quello della pazzia.
Ed è solo la follia che ti spinge ad urlare, il dolore lancinante di un corpo diviso in due, di chi si sente strappare a metà e non capisce più se è la parte viva o quella morta che alberga in lui, è la cieca furia dell'oblio che ti dona la forza sovrumana. Sei oltre il baratro Castore, come tuo fratello oltre l'Ade, come un equilibrista sulla corda tesa nel cielo, che non capisce più quale siano le stelle e quale sia la terra, come un malato senza più la un arto, che crede ancora che questo sia parte di lui. Come il pazzo che non capisce quale sia la realtà e quale l'inferno partorito dalla sua folle mente.
Come le Menadi di Notte.

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Capitolo 10
*** Nyssa- Come chi non sarai mai. ***


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10. Nyssa- Come chi non sarai mai.


Jake aveva ragione e lei lo capiva solo ora. Ridotto in quel modo era toccato a lei prendere il posto dei capocabina e con questo i suoi oneri. Si, non c'era più neanche un onore nell'essere il primo figlio di Efesto, solo panico, senso d'impotenza e delusione, un miscuglio letale che si mescolava con tutti quei demoni lasciati dalla guerra e si insinuava tra crepe che ormai sarebbero dovute esser risanate se non dal tempo almeno dalle medicine.
Ma quando mai un figlio di Efesto era stato fortunato? Neanche loro padre lo era, figuriamoci loro, poveri e piccoli mortali costantemente aggrediti dal fato e dalla noia degli Dei.
Si era detta, però, che se fosse stato necessario lei ci sarebbe andata in missione, davvero, si era proposta per un motivo, aveva pensato molto, giungendo alla conclusione che quello era un suo compito, suo e di nessun altro, era pronta al suo destino. Ma poi era arrivato il ragazzino.
Spuntato dal nulla, era caduto dal cielo inseme al principe di questo – un principe che tecnicamente non sarebbe dovuto esistere -; le sue mani si incendiavano, il fuoco non lo lambiva e l'invidia era serpeggiata nei loro animi, gonfiandosi come un mare in tempesta.
Chi era quel moccioso? Cos'aveva più di loro? Perché lui si e gli altri no? Perché i servigi che avevano porto a loro padre e all'Olimpo non gli erano valsi lo stesso fantastico dono che quel ragazzino aveva ricevuto alla nascita?
Ogni infantile pensiero si era fatto largo nella sua mente, alimentato da una vocina indignata ed amareggiata che le suggeriva che forse -forse - se anche un altro figlio di Efesto avesse avuto quel dono ora lei e Jack non sarebbero in quelle condizioni; pensieri affogati nel sollievo di non dover andare a morire in missione, a non dover reggere anche lei il confronto con l'eroe della cabina 9. La vergogna per i suoi pensieri l'aveva colpita forte come il battere del martello sull'incudine: Aveva paura di doversi dimostrare all'altezza di suo fratello ed era invidiosa di non aver i poteri di un altro. Altro che ora stava scalzando il ricordo di Charles.
Perché Leo Valdez era un grande eroe, quello della profezia dei sette, che aveva costruito l'Argo II, visitato Nuova Roma, solcato i mari ed approdato nel vecchio mondo, per altri assolutamente inaccessibile e pericoloso, era quello che aveva trovato la soluzione per distruggere Gea, era quello morto-ma-non-morto, era la nuova attrazione e tutti si scordavano -di nuovo- di loro, della cabina 9 che aveva forgiato le armi e le corazze per la guerra, che aveva costruito ordigni e trappole, che riparava edifici distrutti e bighe da combattimento, che aveva tributato alla guerra tanto sangue e sudore, che aveva visto morire più di una volta, - ma solo una per davvero- il suo capocabina.
Era la lotta tra l'amore e lo sdegno per Beckendorf e l'ammirazione e l'orgoglio per Valdez, quella che infuriava nel cuore di Nyssa, ma certo era l'invidia per entrambi, per coloro come chi non sarai mai.



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Capitolo 11
*** Clovis- La sabbia bianca di Pitch Black. ***


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11. Clovis- La sabbia bianca di Pitch Black.


Buio, nella sua testa l'unica cosa che regnava era uno spesso strato nero. Nero come la notte, come le tenebre, come l'ombra nella sua cabina o come quando infilava la testa sotto le coperte.
Cosa poteva fare lui in quel momento?
Un esplosione e la terra tremò, ricordandogli che i Romani stavano attaccando, che quei ragazzi così simili eppure tanto diversi da loro avevano deciso di bombardare il capo -casa sua- con proiettili di fuoco.
La guerra imperversava, i semidei correvano in ogni dove, finendo di montare trappole, aiutando amici feriti, rendendosi utili come Clovis non riusciva a fare in quel momento. Lui non era portato per il combattimento, non si era mai allenato, lui dormiva!
Si sarebbe volentieri ritirato nella sua cabina, infilato sotto le coperte e pregato suo padre di cadere al più presto in un sonno profondo, perché sperava ardentemente che tutto ciò che si agitava attorno a lui fosse solo un sogno, un orribile e terribilmente reale sogno, nulla di più. E per svegliarsi da un sogno hai solo tre possibilità:
O qualche buon anima si rende conto che stai avendo un incubo e ti sveglia;
O ti rendi conto che quello è un sogno e tutto si dissolve (cosa che ovviamente questa volta non funzionava);
O ti rimettevi a dormire ed il paradosso scompariva nella luce soffusa della tua camera.
Ma nulla, nulla di nulla questa volta l'avrebbe salvato, era la fine, la resa dei conti e lui non aveva armi abbastanza potenti per fare la sua parte.
Clovis non era mai stato incline al combattimento o alla violenza, lui preferiva rimuginare sugli eventi e trovare una soluzione che mettesse tutti d'accordo. Preferiva dare risposte a domande a cui neanche l'oracolo sapeva rispondere, o persino affrontare terribili battaglie, ma nel sicuro e a lui famigliare mondo dei sogni. Lì era più facile combattere, cercare, scoprire, viaggiare.
Viaggiava per i meandri di quella o l'altra dimensione, vedeva cose che gli altri nemmeno potevano immaginare, al limite dell'assurdo e dell'impossibile, insinuandosi nei sogni delle persone, nei loro ricordi, interferendo con i viaggi-ombra e con i poteri dell'aldilà.
“Sogna meno forte!” gli avevano gridato una volta, ma in quel momento sognare “forte” era l'unica cosa che poteva offrire ai suoi compagni, l'unica cosa che volesse davvero fare.
E la guerra proseguiva.
Non erano soffici spire di sabbia dorata quelle che costruivano lo scenario in cui era immerso, nessun uomo dalla scintillante veste impalpabile stava disegnando le immagini davanti ai suoi occhi. No, erano nere scie dense come inchiostro e labili come il fumo che riempivano di terrore Clovis, come il fumo che saliva dagli edifici in fiamme, come l'inchiostro rosso che sgorgava dalle ferite dei guerrieri.
Mostri senza coscienza e senza pietà dilaniavano corpi coraggiosi, anime impavide si fronteggiavano sul campo, mentre figli dello stesso padre incrociavano le lame e si promettevano morte.
Il tremore che scosse il suo corpo lo fece vacillare, le frecce degli arcieri piovevano come gocce malefiche, la terra si scuoteva dal suo sonno e reclamava potere, vendetta.
Clovis poteva sentire i sogni di ogni anima andare in frantumi come il vetro più delicato, quando i loro corpi cadevano a terra come frutta matura, privati del soffio della vita.
Dal ramo cadevano le gocce del Lete, ma lui non poteva dimenticare di essere inutile, perlacea e cupamente luminosa come le bacche di quel ramo, era sabbia bianca e soffocante quella che lo stava risucchiando verso il suolo, in un limbo di dolore, terrore e disgusto, per sé, per ciò che lo circondava.
Ma malgrado il colore, Pitch Black era l'unico proprietario del suo animo.


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Capitolo 12
*** Butch- La luce del Prisma. ***


Half Heroes


12. Butch- La luce del Prisma.


Fin da quando era piccolo aveva sempre trovato estremamente affascinante l'arcobaleno.
Era la strada per la ricchezza, per la fortuna, per l'amore. Portava alle possenti porte di Asgard, conduceva a palazzi di cristallo che galleggiavano alti nel cielo. Era il sorriso di un angelo, la preghiera di perdono del cielo alla terra, per aver sfogato tutta la sua rabbia, le sue lacrime, il suo dolore sull'inerme amata.
Era il raggio incolore che colpiva l'ancor più incolore cristallo per aprirsi nel più meraviglioso ed incredibile ventaglio di colori, come un pavone che orgoglioso faceva la ruota. L'arcobaleno lo faceva sentire meglio e se si sdraiava sul letto a testa in giù e guardava fuori dalla finestra vedeva proprio un sorriso felice e sembrava rivolto proprio a lui.
Butch vedeva i colori dell'arcobaleno in ogni cosa, in ogni persona, animale o pianta, ogni essere per lui brillava di magnifici colori.
Con il passare del tempo Butch imparò che la luce che entrava nel cristallo – poi avrebbe imparato essere un prisma- era bianca e che il bianco era la totale assenza i colori. Eppure lui non capiva, se prendeva una girandola colorata e la faceva ruotare forte, questa diventava bianca, e quindi aveva in se tutti i colori, ma se provava a mischiare tutte le sue tempere gli veniva fuori uno strano miscuglio marroncino-griggiastro- tendente al nero.
La prima crisi filosofica ed esistenziale di Butch si risolse con un gran mal di testa e tanta confusione.
A sedici anni disse a suo padre di volersi fare un tatuaggio e si sarebbe ricordato per tutta la vita la faccia del tatuatore, avvolta da una leggera nebbiolina rossastra, quando gli aveva detto di voler un arcobaleno. Quando suo padre non sentiva aveva aggiunto che “ era per sua madre”, come a giustificarsi, perché in effetti era un po' da femmina e lui era un armadio a due ante e un po' si vergognava; ma c'era anche qualcosa di maledettamente giusto in quella frase che fece annuire comprensivo l'omone, spandendo una soffusa luce color salmone per tutto lo studio.
L'uomo gli disse che nei riccioli bianchi delle nuvole avrebbe scritto “Iris” perché per la dea degli arcobaleni e gli avrebbe portato fortuna.
La luce giallo vitalità e rossa d'amore si mescolò nello sguardo di suo padre, l'orgoglio brillava arancione nelle iridi normalmente scure.

Ora quelle nuvole erano tagliate di netto da una ferita, nessuna luce particolare illuminava la scia di una lama nemica -mostri? Giganti? Romani?- che gli aveva strappato quei riccioli candidi e con loro il nome di quella che effettivamente era sua madre. La guerra era finita, non davvero però, bisognava curare i feriti, bruciare i cadaveri, ricostruire palazzi e sanare menti, inseguire tutti i mostri che erano usciti dalle porte della Morte e ricacciarli all'inferno. E per ora non erano neanche lontanamente a buon punto.
L'infermeria e la casa Grande erano una bolgia, l'ospedale da campo era gremito di persone, a lui le sue ferite le aveva pulite e fasciate una figlia di Demetra, una ragazzina dal volto provato dalla stanchezza che si era scusata di non poter far di più, di non potergli dare dell'ambrosia e del nettare perché servivano per i feriti. Di chiamare un figlio di Apollo per qualche taglio e tanti lividi, neanche a pensarci, era tra i fortunati, tra quelli che potevano fare e alle volte gli veniva in mente che forse erano più fortunati i malati, che dovevano pensare solo a se stessi e non agli altri, che non dovevano vedere tutta quella distruzione e quell'orrore, protetti dalla pesante cortina nera che era il coma del ferito.
Poi vedeva passare ragazzi distrutti, che comunicavano la morte di un altro compagno, l'ennesimo adolescente deceduto per una guerra che non doveva conoscer, di cui avrebbe dovuto sentir parlare solo nelle ore di mitologia e capiva che effettivamente il peggio era restare e assistere a tutto ciò.
Vedeva il nero denso del sangue secco sporcare gli abiti di quell'ennesimo corpo e la nausea gli saliva alla bocca dello stomaco, stroncandogli di netto il respiro: non ce la poteva fare a spostarne un altro, ogni volta che toglievano delle macerie spuntava un cadavere, ormai il conteggio dei morti e dei feriti superava quello dei vivi ed i dispersi, dopo tre giorni, si sperava solo di non trovarli già con un principio di decomposizione. Fece leva sulla barella per non crollare ed una mano gli batté sulla spalla: Clarisse gli passò vicino mormorando qualcosa sul rimettere a posto il tatuaggio, una cosa come “te lo rimetto a nuovo un giorno di questi”, poi si avvicinò al cadavere, un fantoccio bianco con la maglia arancione, il cui colore sembrava risucchiato dal pallore innaturale ed azzurrino della pelle, spostò con inimmaginabile delicatezza la ragazza di Ermes che piangeva il fratello e prese il defunto in braccio, come se stesse dormendo, come se fosse la cosa più naturale, come se fosse l'ultima gentilezza che potesse porgergli.
Non aveva la più pallida idea di come facesse a toccarlo così, mentre tutti cercavano di sfiorarli il meno possibile, cercando di non sentire il contatto di quella pelle fredda ed inerme, così terribilmente simile alla consistenza della carne da macello. Ma quando la ragazza gli passò di fianco, in quella gigantesca spirale nera che risucchiava tutti i colori – tutta la luce - Butch poté giurare di aver visto uno scintillio rosso sangue avvolgere il corpo della guerriera, qualcosa di innaturale in quell'ambiente, qualcosa di mortalmente umano e neanche lontanamente divino.
In tutto quel grigiore sprigionato dalla tragedia lo spirito combattivo di Clarisse, di chi non si arrende mai, vibrava dei caldi toni del rosso sangue, sangue vivo e pulsante come quello di un cuore sano che batte contro tutti e tutto.
Come poteva essere “colorata” in mezzo a tutta quella disperazione? Non una sola scintilla di luce filtrava il pesante mantello della morte, eppure Clarisse brillava, mentre lui si sentiva solo un vetro rotto in mezzo a centinaia di frammenti suoi fratelli, rotto dalla guerra, dal dolore, dal non essere riuscito a fare di più, dallo sconforto per la grama vittoria, dalla colpevolezza infondata di chi resta e dal desiderio di chiudere gli occhi e non riaprirli più, di non dover più vedere tutto quello.
Poi un altro scintillio. Tra le corsie si muoveva veloce un figlio di Apollo, Will Solace urlava contro Clarisse La Rue che prima o poi anche lei si sarebbe dovuta far visitare, il giallo accecante del mezzogiorno gli brillava in testa come una corona. La ragazza che lo aveva medicato si fece largo tra lui ed il suo compagno di lettiga portando in mano un cesto di erbe, il verde della sua anima inondò la stanza seguendo la scia del giallo di Will e colpendo in pieno il blu elettrico degli occhi di Jason Grace, che voleva alzarsi dal letto a tutti i costi ed aiutare; poi il rosa shocking della piccola Lacy della 10, arruffata come un pulcino mentre puliva con attenzione il viso sporco di un semidio ancora svenuto, vicino a lei il viola porpora di Castore che disinfettava ferite avvelenate.
L'azzurro di un figlio di Ermes che portava da mangiare, l'arancio dei capelli tinti di Lou Ellen che blaterava di patriottismo del capo, il verde acqua della pelle di una ninfa che portava notizie, in un punto indefinito della sala l'oro di un figlio di Nike e l'argento di una cacciatrice di Artemide che collaboravano come una macchina perfetta.
Butch ama i colori quasi quanto gli arcobaleni, perché questi ultimi sono la prova che anche dopo la più terribile tempesta tornerà il sole che si specchierà nelle migliaia di piccole gocce come un raggio di luce rimbalza nelle sfaccettature di un prisma, e forse li ama così tanto perché essere figlio di Iris gli fa vedere davvero i colori, perché anche se lui ora è un vetro rotto ed il campo è la confusione che si lascia la tempesta alle spalle, la vita e la voglia di vivere sono la luce che si specchia nelle gocce e ci sono anime forti e valorose che stanno già risplendendo per riportare i colori nel loro piccolo mondo.
Perché li amasse prima, gli arcobaleni, non saprebbe spiegarlo, perché erano il sorriso degli angeli, la strada per l'amore, per la ricchezza e la felicità, per tanti motivi confusi ed uno strano ed inspiegabile senso d'appartenenza, ma ora Butch lo saprebbe dire con certezza: Ama gli arcobaleni perché vi vive in mezzo, perché ogni anima ha un colore e per ricominciare, per ricominciare a vivere, tutti quei colori collaborano e coesistono senza sopraffare gli altri, ma dando vita a splendide sfumature, che riunite tutte assieme formano il bianco cangiante della luce che colpisce il prisma pieno si sfaccettature che è la vita.


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Capitolo 13
*** Lou Ellen- Non c'è trucco, non c'è inganno. ***


Half Heroes


13. Lou Ellen- Non c'è trucco, non c'è inganno.


Il cilindro è vuoto, la scatola non ha doppio fondo, la spada non è retrattile, con una stretta di mano non prenderete la scossa.
Il palco è allestito, i tendaggi rossi coprono lo scenario che tra poche ore mostrerà il meglio di se, lasciando stupore tra tutti i presenti. Il mago fa i suoi ultimi preparativi, i baffi dritti ed il frac rosso, una macchia di colore che brilla sulla camicia bianca costretta nella lucida giacca nera.
Ed i sipari si aprono, il marrone laccato del legno è terra battuta su cui i guerrieri stanno in piedi come tanti burattini in attesa di ordini, con i fili trasparenti che poggiano tra la polvere, gli occhi vuoti d'ansia e paura, è il battito terrorizzato dei loro cuori, del sangue che martella nella testa, la lugubre orchestra che suona l'inizio dello spettacolo, mentre lentamente il marciare dei nemici detta il ritmo della sonata.
Ma è pure illusione, nebbia che acceca e distoglie l'attenzione.
Continuate a fissare la scatola signori, non distraetevi. Sono giochi da prestigiatori per una semidea che non sa combattere davvero, che si domanda cosa ci faccia lì, a chi potrebbe essere d'aiuto, chi si preoccuperebbe per lei, se persino sua madre ha preferito palesarsi alla figlia di usa sedicente strega piuttosto che alla sua.
Perché sono inutili le convinzioni della gente attorno a lei: la foschia ci nasconde, la nebbia densa dei figli di Ecate crea mondi ed illusioni, ma sono proprio queste e niente più, illusioni.
E lei non ce la può fare, non può nascondere tutti, non può creare muri e scudi che proteggano ogni compagno. Puoi illudere la mente, convincerla che la tua spada non scalfirà la parete, ma non durerà per sempre.
Non ce la farà, se lo sente, lo sa per certo. La paura gli si scioglie nello stomaco come il frac del prestigiatore, i lembi rossi grondano sangue e tingono le maglie. La sua nebbia non impedirà a nessuno di essere ferito, di morire, non può ingannare Thanatos che attende silenzioso in piedi sulla Cabina di Zeus. Lui sa, già sa. Li vede tutti i fili trasparenti che tengono quelle marionette di carne ed ossa e sangue pulsante, quel groviglio di sentimenti e di timori, i tormenti di una vita troppo breve e troppo ingiusta che si attorcigliano come serpenti in una cesta. Il Dio più bello di tutti, che con un solo sguardo ti rende le ginocchia molli ed il respiro flebile, così bello da morire, di cui tutti agognano un bacio, il mortal gesto di un amore pietoso e rassegnato, sa.
Lo può vedere, si, lei può, e si domanda se anche i suoi fratelli lo stiano osservando, se si facciano rapire dalla sua presenza, se si sentono già spacciati come si sente lei.
Ma non perdete la concentrazione, ancora signore e signori, non dovete perdere di vista il mago o lui potrebbe fregarvi. I giochi di un prestigiatore abile di mano son come i furti del più fine ladro, ma questi, invece che ori e gioielli, rubano stupore ed ammirazione, la certezza che non può essere vero, che debba esserci un trucco, la povera assistente non può esser stata segata in due, non può esser stata infilzata con mille spade.
Così Lou Ellen prega, mentre il suo cervello si rifiuta di credere al tormento che la circonda. Deve esserci un trucco, deve esserci per forza, ciò che le bagna le mani non può essere sangue vero, è un illusione, pura illusione del suo cervello. Le spire dense della magia di sua madre non possono tradirla così, quando difese fantasma si infrangono in rivoli di fumo e grida strozzate.
Ed uno ad uno tutti i fili son tirati su, le marionette attaccano e difendono, vivono e muoiono.
Il filo trasparente luccica contro il sole e le scintille della battaglia, per un attimo sono visibili e raccontano la vita di un essere. Sa cosa sta per succedere, se lo sente nelle vene, ed è pura illusione quella che la spinge a credere che, se nascondesse quel filo, esso sarebbe salvo. Ma non c'è tempo, non c'è mai e la paura è sempre nemica dei lavori ben fatti. Il filo vibra, il mago perde la presa, la marionetta che sembrava muoversi da sola crolla a terra vuota di ogni cosa che una volta la riempì.
Il filo è reciso dalla lama di una marionetta uguale a quella, nella vita, dalle forbici impietose di tre anime a cui fu affidato il compito più brutto, nell'aldilà.
Son troppi i burattini a terra, troppi quelli alle cui spalle Thanatos promette riposo, che bacia dolcemente accompagnandoli a terra, son troppe le anime che si spingono sulle punte per poter arrivare alla labbra del dio, troppi gli occhi lucidi come biglie divenuti improvvisamente dipinti sbiaditi e crepati.
L'esplosione finale annuncia il termine dello spettacolo, ma nella vittoria, nello sconcerto, nell'incredulità generale, il Nero figuro continua a camminare leggero e pesante sul palco distrutto, togliendo dalle braccia di chi li ama ragazzini morti per qualcosa che Lou non capisce e non capirà mai. Continua a fissare quell'uomo bellissimo e si ripete che forse, morire tra le sue braccia è la cosa migliore che possa capitare a tutti loro.
Lo spettacolo è finito, ma per mettere in ordine lo scenario ci vorrà ancora tanto tempo, saranno centinaia la marionette da aggiustare, altre solo da accompagnare nel modo più umano possibile dall'Angelo Nero, altre ancora solo da bruciare, perché niente potrà dargli nuovi fili per stare ancora in piedi e partecipare al prossimo numero.
E' la vita di un semidio, di tutti quanti, e neanche le promesse degli Dei ed i loro giuramenti potranno cambiare le cose, nessun grande Eroe, ricoperto di mille onori e portato in gloria potrà convincere quegli esseri che loro sono più che semplici marionette.
E' la guerra, è la vita, è il dolore, la gioia e la morte. E' la vittoria che non sa minimamente di vittoria. La nebbia, copre nemici, cadaveri, sopravvissuti, copre il dolore e ti illude che presto tornerà il sole.
E non c'è trucco, non c'è inganno, la foschia t'illude e copre tutto, anche il suo rancore.


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Capitolo 14
*** Michael Yew- Obblighi sociali. ***


Half Heroes


14. Michael Yew- Obblighi sociali.


Aveva paura, ne aveva più di quanto non amasse ammettere e in quel momento avrebbe tanto voluto aver al suo fianco uno dei figli di Ares. Ma no: lui era il capo della Sette e aveva l'obbligo morale -sociale- di litigare con Clarisse, che fosse la vigilia di una guerra predetta decenni prima o meno.
Cos'era poi? Perché avevano litigato?
Oh, si, ma certo, quel dannato carro volante o quel che cazzo era, avevano litigato per quello, si.
Si passò una mano tra i capelli scuri con fare nervoso, erano appena arrivati sotto l'Empire e stavano aspettando gli ordini di Annabeth, che per carità divina, Michael non aveva la minima intenzione di litigare anche con la progenie di Atena, ma in quel momento avrebbe tanto voluto che fosse Chirone a dirigere gli spostamenti e i posti di blocco, così, solo per aver dalla loro un migliaio circa di anni d'esperienza.
Che poi Annabeth era una bambina, poteva anche aver sorretto il cielo, ma restava una bambina a cui era stato dato il potere di disporre delle vite altrui a sua discrezione.
Ma stette zitto.
Di sicuro, pensò, se ci fosse stata Clarisse adesso le avrebbe urlato contro che un appostamento del genere non era di nessun utilità e che era meglio prenderli alle spalle, sorprenderli, ma qualcuno vedeva forse la figlia di Ares? No? E qualcuno sapeva il perché?
L'impulso di alzare la mano al suo stesso commento sarcastico gli formicolò lungo il braccio, mentre spingeva lo sguardo verso sud, nel vano tentativo di veder a cosa andassero incontro e soprattutto di non vedere i volti tesi e terrorizzati dei suoi compagni.
Sentiva ogni fibra del suo corpo fremere, l'iperattività che tirava ogni nervo, come un cocchiere che sprona il cavallo all'azione, come aveva fatto lui giorni addietro con i pegaso e la fottuta biga volante.
Che gli Dei maledicano quella biga e il giorno in cui l'abbiamo trovata.
Non sa che ordine sia stato dato, sa solo che tutti i suoi fratelli si sono mossi e che si stanno dirigendo verso un punto preciso e Michael ci potrebbe scommettere tutto, tutto ciò che aveva, che quello sarebbe stato il primo luogo dove avrebbe visto il sangue delle progenie di Apollo colorare le strade.
Ed un figlio di Apollo, del dio degli Oracoli, potrebbe mai sbagliare il suo pronostico?
No, certo che no.
Il profilo del ponte gli si era presentato come una massa bluastra tendente al grigio, la pesantezza di una notte costretta in un sonno forzato gravava sulla sua pelle e Michael ebbe lo strano impulso di scappare via di li, di tornare al campo e chiedere scusa a Clarisse, sarebbe bastato quello per far si che i figli della Guerra calassero sulla città in una fanfara di urla e canti di battaglia, battuti al ritmo di scudi e spade che cozzavano assieme e lame che si scontravano. Il fiume passava lento ed inquieto distante da loro, poteva sentirne il gorgoglio ed era quasi sicuro che Jackson si fosse buttato il quel putridume di sporcizia e inquinamento che era diventato il corso. Lui doveva solo aspettare e disporre i suoi fratelli sul ponte, nel modo migliore per difendere una delle tante, troppe, entrate al quartiere.
Come avrebbero fatto? Ma soprattutto, ce l'avrebbero fatta? Qualcuno di loro sarebbe tornato vivo?
Se prima aveva evitato lo sguardo dei suoi fratelli ora lo cercava, anelando di veder i loro bei volti famigliari come un disperso in mare anela l'aria.
Visi chiari e scuri, tirati di paura, decisi, ansiosi, arrendevoli, combattivi e...giovani, troppo giovani per rischiare di morire per esser immortali. Rischiare poi? No, doveva essere realistico, accettare la cosa, stavano andando a morire tutti, dal primo all'ultimo. Perché sette figli di Apollo non possono fermare un invasione.
L'ironia di quella composizione lo sorprese: il sette era il numero di suo padre, della sua cabina, era il giorno del suo compleanno e i giorni che aveva passato al campo da non riconosciuto prima che una freccia ed un sole gli brillassero in capo.
Guardò i suoi fratelli e pregò che tutti e sei tornassero al campo base, che restassero in vita. Li guardò e pregò di ricordare i loro volti, i loro nomi e le loro storie, le loro voci e le loro risate, le battute, le litigate e i momenti più belli, anche una volta arrivato nell'Ade.
Perché i nemici erano arrivati e solo loro non potevano farcela, non potevano vincere ed era colpa sua se le persone a cui teneva più della sua vita sarebbero morte, aveva tradito la sua famiglia.
Il tremore dell'asfalto sotto i suoi piedi era assordante, gli faceva ballare i timpani e gli prometteva solo il peggio, il sudore che scivolava dalla sua fronte e sulle sue mani lo soffocava come litri e litri d'acqua. Era spacciato, lo erano tutti. Voleva solo scappare e mettersi a piangere in un angolo scuro, lontano da tutti, disperandosi come ogni ragazzino quindici anni avrebbe fatto davanti ad una guerra, ma neanche per quello aveva la forza, lo sgomento gli gonfiava la lingua in bocca e gli toglieva il respiro, mentre tutto si faceva velato e le grida dei suoi fratelli gli distruggevano il cuore, taglietto dopo taglietto, con meticolosa e dolorosa solennità.
Perché? Perché dovevano morire? Perché non era un ragazzo come tutti gli altri?
Lui voleva solo vivere in pace, voleva solo andare a scuola e prendere brutti voti, tornare al campo e litigare con i figli di Ares, con quelli di Ermes; voleva discutere d'arte con i figli di Atena e cantare la sera davanti ad un falò che si colorava delle mille luci degli animi dei suoi amici.
Amici che non avrebbe più rivisto.
La voce di Percy Jackson gli arrivò stranamente chiara: chiamava la ritirata, avrebbe fatto crollare il ponte. E con la stessa chiarezza con cui la voce lo aveva raggiunto, la consapevolezza che se fossero tutti scappati nessuno avrebbe loro coperto la fuga si fece largo a gomitate nella sua testa.
Guardò ancora i suoi fratelli, gettò un occhiata alle sue spalle dove le urla degli altri lo incitavano a correre, dove più lontano i suoni della battaglia lo avvertivano che l'attacco era su più fronti e presto ci sarebbe stato bisogno di medici. Guardò il cielo scuro e pianse, perché non avrebbe potuto guardare il rovente sole e chiedere scusa a suo padre per la sua stupidità, non lo avrebbe più rivisto, non avrebbe più rivisto sua madre che lo aspettava con ansia a casa. Non avrebbe preso il diploma, non si sarebbe laureato e ubriacato, non avrebbe mai guidato e mai detto “ti amo”, non avrebbe amato, non avrebbe più vissuto.
Pianse come mai aveva fatto nella sua vita, ma si congratulò con se stesso quando la voce gli uscì ferma, urlando a tutti di scappare, mentre lui seguiva il consiglio dei fratelli e correva, correva verso la morte. Un aura d'oro lo avvolse e gli parve quasi che suo padre lo stesse baciando sulle guance, come faceva la mamma quando la rendeva fiera, le frecce comparvero magicamente nelle sue mani e capì che Apollo lo stava aiutando a morire con onore.
Michael era il capo della settima cabina, quello che aveva litigato con i figli di Ares per una stupida biga volante, una biga che probabilmente avrebbe portato tutti alla morte. Correva come mai aveva fatto, con suo padre che lo spingeva e lo proteggeva dagli attacchi, con le grida dei suoi fratelli che lo rincorrevano cercando di fermarlo, pregandolo straziati nel capire il suo gesto, senza sapere che sentirli vivi lo spronava solo a perseguire il suo obbiettivo.
Il rombo di un esplosione ed il suolo si piegò, senza riuscire a fargli perdere la presa sull'asfalto, continuando a frenare i suoi nemici, stupiti da quel gesto, da quell'attacco suicida.
Michael era il leader della sua cabina, lo era diventato dopo suo fratello Lee, morto anche lui troppo giovane in una battaglia che si era svolta in un luogo che avrebbe dovuto proteggerli, sperava che dopo di lui sarebbe salito al comando Will, perché era il più buono tra di loro e non avrebbe mai litigato con Clarisse, non avrebbe commesso il suo stesso errore.
Michael Yew era il primo figlio di Apollo e mentre precipitava nel fiume assieme a tonnellate di cemento e mostri si disse con tono beffardo e terrorizzato, chiudendo gli occhi sgranati e velati dalla fine, che come tale, come capo, aveva l'obbligo morale – e sociale- di morire, con la sua paura e la sua stupidità, per i suoi fratelli e per tutti i suoi amici. Per la giusta causa.


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Capitolo 15
*** Ethan Nakamura- La legge del Taglione. ***


Half Heroes


15.Ethan Nakamura- La legge del Taglione.


Lui non lo sapeva, non poteva sapere. Lui non era stato riconosciuto da sua madre quando era al Campo in pace e serenità, non sapeva com'era, come ci si sentiva ad essere parte di qualcosa. Nessun simbolo luminescente gli aveva gridato l'appartenenza alla sua famiglia, nessun misericordioso dio era calato su di lui per far chiarezza, per salvarlo dai mostri che lo tormentavano, dentro la sua anima e fuori.
Era troppo tardi quando successe, o forse aveva aspettato proprio il momento peggiore, col senno di poi, sapendo chi era sua madre, questa gli sarebbe sembrata l'opzione più probabile, ma la dea che gli aveva dato la vita sussurrò al suo orecchio proprio quando tutti si preparavano per l'attacco di Crono al Campo, quando quel luogo che lo aveva preso con sé solo per dovere stava per accogliere tutti quegli esseri affini, quei mostri che lui sentiva suoi fratelli molto più dei semidei che gli ronzavano attorno come api operose, quando ormai Ethan aveva fatto la sua scelta già da molto tempo e gli mancava solo l'ultimo passo per abbandonare per sempre quel confine che un tempo per lui fu franco e che non era diventato altro che l'ennesima prigione.
Era la vendetta che si accese scintillante nel suo cuore, ardendolo vivo senza ucciderlo, alimenta dall'odio e dal potere di sua madre.
Nessuno si era stupito più di tanto quando il simbolo violaceo era apparso sopra la sua testa, non c'era stato neanche tempo per uno stupido inchino, come da prassi. No, non si poteva pensare a questo in un momento del genere; però il Campo intero si era fermato per un paio d'ore per assistere al finto funerale di quei due pariti per distruggere la Principessa Andromeda, ma non potevano fermarsi un secondo per lui, per battergli la mano sulla spalla e dirgli che forse questo era un buon presagio, che sua madre lo vegliava nel momento del bisogno.
Il ricordo della nave lo innervosì più di quanto già non lo fosse, e pensare che ci sarebbe dovuto esser anche lui la sopra, che Jackson non si era fatto il minimo scrupolo a mandare tutto a puttane, ad uccidere assieme ai mostri anche tanti altri semidei, tanti ragazzi come loro. La bile gli risalì nello stomaco, bollendo e ribollendo rabbiosa: avrebbe avuto la sua vendetta, si, ora lo sapeva con certezza, come avvertiva la battaglia giungere facendo tremare la terra, riempiendo di terrore tutte quelle fragili figurette bardate da guerra e non pronte a morire. Come sentiva lo spirito di sua madre carezzargli l'orecchio con parole soavi, proposte di vittoria, di gloria. Non l'aveva vista, no, lei no, ma il Rosso si, quello lo aveva visto. Il rosso denso e grumoso del suo sangue, quando gli era stato proposto “quel qualcosa in più”, la promessa d'indipendenza, di forza, di rimanere nella storia.
Ma qual'era il prezzo?
Occhio per occhio. Ecco il conto.
Ricordava il dolore lancinante, mentre due dita incandescenti s'infilavano nella sua cavità oculare e stringevano senza pietà o delicatezza il bulbo fremente, che come se avesse vita propria tremava nella preghiera di esser risparmiato, mentre al suo fianco il gemello piangeva disperato la sua dipartita. Poi improvvisamente la consapevolezza che qualcuno si stava avvicinando, che il campo si sarebbe presto animato di cadaveri, di anime che avrebbero gridato le loro maledizioni, invocato la loro vendetta. Non era più la sicurezza della guerra che si faceva vicina, era l'avvertire, il sentire, che qualcosa di simile a lui stava per arrivare.
Dentro le trincee i nemici erano eruttati dal Pugno di Zeus, mostri spaventosi a fianco di semplici ragazzini come loro si erano palesati con modi silenziosi riversandosi contro altri semidei che si urlavano muti ordini da una parte all'altra, mentre la terra cominciava a tingersi di rosso come il suo sangue.
Il clangore delle spade senza voce, i ruggiti afoni e solo le sue urla a riempirgli le orecchie sotto le quali l'alito velenoso di sua madre faceva da sfondo con la sua risata.
Eppure in tutto quel dolore, in tutte quelle urla -le sue­- con il suo bulbo oculare stretto in pugno, Ethan sapeva che potevano vincere, che avrebbero vinto, che la sua cecità non sarebbe stata vana, che solo un miracolo avrebbe salvato il Campo.
Il miracolo c'era stato, ovviamente, come potevano essere sfortunati gli eroi?
Erano solo una massa di frignanti ragazzini che si autodeprimevano piangendo la tranquilla vita che non avrebbero mai avuto, che si dannavano per poter sopravvivere e si illudevano di essere gli unici a provare quel dolore. Non capivano, non volevano capire, che dal lato opposto al loro c'erano altri ragazzi del tutto identici al loro stupido riflesso che temevano per le stesse cose, che avevano tributato tanto, forse troppo, a quella battaglia, ma che a differenza di chi era rimasto fedele all'Olimpo avevano avuto il coraggio di staccarsi da chi li aveva gettati in quel gioco senza vincitori solo per il puro gusto di farlo, non volevano capire che dall'altra parte c'erano ragazzi che erano disposti a dare tutto per la propria libertà, per il proprio onore e la propria felicità, per la vita che gli Dei si divertivano a dargli e togliergli a loro piacimento.
Si rodeva il fegato nella rabbia di chi non lo capiva, di chi si ostinava a seguire quei falsi dei, nel rimpianto di aver abbandonato la sua famiglia, nel dolore per aver perso un occhio della testa ma non aver ancora ottenuto niente.
Ma poi si fermava e prendeva un bel respiro. Non era mica uno stolto Ethan, sapeva che doveva aspettare, che loro erano numericamente più forti e più organizzati, che prima o poi la vita avrebbe servito a tutti il suo conto.
Si ripeteva che non gli importava, sino a che non ci credeva, e allora, quando vacillava si ricordava dei suoi veri compagni, di chi lo aveva trovato e curato, malgrado in quel momento il dolore lo avesse fatto cieco.
Ethan si fidava di loro, avvertiva la vendetta, la delusione e la rabbia impregnare i loro cuori fino a farli marcire, assieme ad un miscuglio di altri sentimenti che non gli interessava conoscere. Paradossalmente gli erano bastati quei sentimenti tormentati per fargli capire che quello era il suo posto, che la sua fiducia non sarebbe andata ad un sorriso gentile ed un incoraggiamento vuoto, ma alle dure parole di un rapporto militare, ad un ragazzo dal volto da uomo che gli diceva di fare attenzione ma di non rimanere li fermo a far nulla, che se volevano realizzare il loro sogno dovevano combattere, anche senza un occhio.
Si erano presi cura di lui, con i loro modi spicci e concisi, lo avevano addestrato ed Ethan era diventato forte, era diventato importante, si era sentito per una volta parte di qualcosa.
Ironico.
Tutte quelle anime tormentate gli erano affini, comprendevano il suo dolore, l'abbandono e la rabbia e anche mentre per la seconda volta tutto il suo mondo si tinse di rosso, Ethan seppe che non avrebbe mai dimenticato i loro volti, le loro voci, le loro storie, la paura di morire, la voglia di tornare a casa e riabbracciare chi li amava, le lacrime nascoste e la grande forza di chi aveva deciso di ribellarsi; non avrebbe dimenticato la voglia di vendetta nei confronti di chi li aveva messi al mondo per gioco o per errore e poi si era stufato come un bambino con un giocattolo nuovo.
No, non li avrebbe dimenticati, così come non sarebbero stati dimenticati dai “buoni”, che per tutta la vita avrebbero convissuto con il peso delle loro morti. Eroi che si credevano salvi ma che furono maledetti da ogni singolo ragazzino che, terrorizzato, esalò l'ultimo respiro senza poter vedere il loro sogno realizzato. Quei vincitori che avevano salvato solo chi amavano, solo chi ne valeva la pena, e non lui dalla sua oscurità.
Avrebbero avuto ciò che si meritavano, ciò che gli spettava.
La gloria ha un prezzo, come ogni cosa. Scheletriche figure di ragazzi, bambini morti per colpa dell'abbandono dei genitori, della famiglia, degli dei, degli amici, li avrebbero tormentati per sempre come tormentavano l'anima di Ethan che per l'eternità si sarebbe domandato se aveva fatto la cosa giusta, se aveva lottato inutilmente per un sogno utopistico che non avrebbe mai raggiunto. Se sua madre non l'avesse fregato e gli avesse presentato un conto più alto del dovuto, o se magari abbia cercato di salvarlo, di renderlo cieco per non fargli vedere quanta crudeltà il mondo ospitava, quanto al giustizia non fosse sempre giusta.
Sarebbe stato il suo tormento eterno, come eterni sarebbero stati gli incubi dei vittoriosi.
Occhio per Occhio. Era questa la legge del Taglione.

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Capitolo 16
*** Clarisse La Rue- La Guerra non finisce. ***


Half Heroes


16. Clarisse La Rue- La Guerra non finisce.


Quando era piccola, nella sua bella cameretta celeste, le storie di guerra erano solo fiabe della buona notte, in cui il soldato “sconfiggeva” il nemico, lo “mandava al tappeto”, ma non lo uccideva mai. Suo nonno era seduto sulla sua sedia a dondolo con il sigaro spento tra le labbra e le raccontava le sue avventure durante la guerra, quando era un ragazzino nella vecchia Europa nazista ed il mondo era grigio, ma dove alla fine arrivavano sempre i Ribelli, mai gli Alleati, e salvavano la situazione.
Aveva otto anni quando, per la prima volta, un soldato polacco morì per salvare una donna, la prima volta in cui la guerra portò via la vita di un uomo lo fece in modo coraggioso ed ammirevole, degno di un eroe. Il soldato sarebbe sempre stato ricordato da tutti per la sua azione e tanti ragazzi si sarebbero arruolati nell'esercito spinti dalla sua storia.
Aveva sempre otto anni quando suonarono alla porta di casa e lei andò ad aprire tranquilla: un marine in divisa di tutto punto voleva parlare con il Signor La Rue, Clarisse era sua nipote e il nonno non c'era, ma lei era brava a ricordare tutto e avrebbe riportato il messaggio. Quando il colonnello si era tolto il cappello, piegandosi sulle ginocchia, e le aveva chiesto sorpreso se non fosse la figlia di Vittoria, Clarisse aveva scoperto che la guerra non finiva sempre bene, che chi moriva non lo faceva solo per salvar innocenti, che il convoglio di sua madre era stato attaccato dai Ribelli che nei racconti del nonno erano buoni e che dopo ben quattro mesi Vittoria La Rue e la sua squadra erano dati per “dispersi in battaglia”, almeno quelli di cui non era stato recuperato il cadavere e tra questi non rientrava la sua mamma.
Quando il nonno era tornato Clarisse gli aveva chiesto com'erano davvero le guerre, cosa dovesse aspettarsi sul serio, de poteva sperare che sua madre ritrovasse la strada di casa.
Aveva otto anni, un nonno che con sguardo lontano le diceva tante verità che forse un bambino non dovrebbe sapere, una mamma dispersa ed un papà in missione e quindi al momento irrintracciabile.
Ne aveva compiuti nove da tre mesi quando un cargo riportò tanti soldati e suo padre in America – il suo vero papà, non gliene importava una mazza se non lo era per i dottori-, ne erano passati altri due prima che sua madre tornasse ammaccata, stanca ma viva, pochi giorni prima che scoprisse ancor di più com'era la guerra dalle stesse labbra che le baciavano la testa e le dicevano che andava tutto bene.
Quando ad undici era arrivata al Campo era convinta di avere una marcia in più degli altri, perché se Gleeson aveva ragione, sarebbe andata anche lei in missione prima o poi e a differenza degli altri già sapeva quanto fosse spietata la lotta per la vita.
A diciassette di era data della stupida silenziosamente, senza che nessuno lo sapesse tranne il nonno che le aveva dato ragione, perché col cazzo che lo sapeva com'era: un conto era sentirlo raccontare, un altro era viverlo. La Battaglia del Labirinto, la missione nel Labirinto e ancor prima quella nel Mare dei Mostri erano solo il preludio di una guerra che avrebbe lasciato solo fuoco, cenere, dolore e morte alle sue spalle; solo sangue e rimpianti tra le sue mani.
Clarisse aveva sempre amato la guerra, lo scontro fisico, il dolore del pugno quando impatta l'osso dello zigomo, il sapore ferroso del sangue sputato tra le bestemmie le imprecazioni e le promesse di più dolore di quanto non fosse umanamente possibile sostenere. Ma quando il ghiaccio si era sciolto ed era caduta a terra senza che nessuno la fermasse – Chris sapeva che le avrebbe prese se solo c'avesse provato- un senso di vuoto ed incompletezza l'aveva attanagliata, stretta sullo stomaco, come quando si trattiene il fiato nell'attesa di qualcosa. Cos'era successo? Avevano vinto? Si, ma a quale prezzo? Silena e Michael erano solo due dei centinaia di cadaveri di quel giorno, Marcus e Lara due dei suoi fratelli che solo lei era riuscita ad identificare nei pupazzi scheletrici e corrosi dall'acido che erano stati rinvenuti, l'unica a mettere fine alle speranze di chi li dava per dispersi da qualche parte a combattere ancora.
Non era riuscita neanche a piangere, non ne aveva avuto la forza.
Quando poi un lampo blu aveva colorato il cielo, aveva lasciato per un momento i cadaveri dei suoi compagni ed era salita sull'Olimpo. Ma neanche le lodi di suo padre erano servite a tanto, neanche la consapevolezza di essere la prima figlia di Ares ad aver ricevuto la benedizione del dio; poco dopo era di nuovo a vegliare quei corpi che non si sarebbero mai più alzati, a dire a Malcom che era stato un degno figlio di Atena; a dire a Will che sarebbe stato un ottimo capo-cabina, per Michael, per Lee; a curare in silenzio la mano bruciata dall'acido di Drew; a stringere quella di Chris. Sola pur in mezzo a tanti suoi compagni che non sapevano se festeggiare o disperarsi, sola con quello strano groviglio di sensazioni che non capiva, di aspettativa di non sapeva cosa.
Suo nonno le disse che doveva solo imparare a conviverci, che non si dimentica mai, ancor di più se gli orrori della guerra avevano coinvolto la tua gioventù, avevano intaccato con la realtà un mondo che doveva essere solo di sogni e futuro. Non avrebbe mai voluto questo, le disse in uno dei suoi rarissimi slanci di sentimentalismo, né per lei né per sua madre, perché la guerra è la medicina per un malato terminale, è la droga che non ti lascerà neanche dopo che ti sei disintossicato. Ma forse era anche colpa sua, per un figlio della guerra com'era lui era impossibile non contaminare anche la sua progenie.
Clarisse aveva pregato e solo Chris lo sapeva. Pregato in ginocchio, con le mani giunte ed il capo chino nel grande tempio del Campo, quando Jackson era comparso e lei sapeva che stava per arrivare un'altra guerra, che sarebbe giunta quando nessuno era ancora guarino se non, paradossalmente, chi era stato al centro di tutto e si era preso le peggio botte.
Aveva pregato perché non voleva scendere in guerra, non potevano reggere un altra guerra, che questa volta sarebbe stata più sanguinosa della precedente, che avrebbe fatto più male e coinvolto più persone, che lei se lo sentiva perché era figlia della guerra, ne era figlia tre volte e pure nipote, perché era l'unica che sapeva e non si illudeva che tutto sarebbe passato, che l'avrebbero dimenticato.
Forse era assurdo, ma Clarisse odiava aver ragione e lo odiava ancor di più se si trattava di guerre, perché su quelle neanche l'oracolo la batteva.
Ma, come ovvio, aveva ragione e la Guerra contro Gea, preannunciata dalla Grande Profezia dei Sette era arrivata in tutto il suo terrificante dolore ed aveva mietuto più vittime della precedente, aveva lasciato più ferite e le aveva lasciate più profonde. Non aveva fatto altro che affondare le unghie affilate su cicatrici ancora aperte o appena rimarginate, percorrendo quelle venature rosate e sputandoci sopra il suo veleno. Ovunque si girasse Clarisse vedeva morte e dolore, la guerra che danzava su note stonate di colpi e lamenti, la morte che accorreva da ogni dove ad afferrar corpi inermi, e ancora una volta, per assurdo, odiava la guerra con la stessa forza con cui l'agognava.
Voleva solo uccidere quanti più mostri, vendicare i caduti, sfogare la rabbia e la paura che per mesi l'avevano infettata, lei, la sua casa, la sua famiglia. Era una bestia che sente l'odore del sangue, un drogato in astinenza che scoppia alla disperata ricerca di una dose.
Non sarebbe mai finito, era un circolo che si sarebbe ripetuto per sempre.
Clarisse aveva diciannove anni appena compiuti quando l'esplosione sancisse la fine della guerra, di Leo Vandez, del sogno di Beckendorf, del drago, degli scontri tra Romani e Greci, della Profezia dei Sette, la fine di troppe cose, troppe vite, ma non di tutto, non abbastanza.
Aveva diciannove anni, tante ferite di cui una veramente brutta sull'addome, quando fu la prima a scavalcare le macerie e raggiungere Jason Grace mezzo morto, quando portò il suo corpo e quello di tanti altri feriti nell'ospedale da campo, quando un Will pallido, tremante, stanco e determinato le chiese come stava e lei rispose “incazzata e occupata”, quando il suo ragazzo la trovò tutta intera e avrebbe solo voluto baciarla, ma lei aveva appena preso dalle braccia di Thanatos un suo fratello, lo teneva in braccio malgrado pesasse il triplo di lei con tutta l'armatura e Clarisse non voleva parlare perché sapeva che se avesse aperto bocca lo avrebbe fatto solo per urlare e piangere disperata e non se lo può permettere, non ora, non davanti a tutti, non davanti a chi non ce l'ha fatta o non ce la farà più a breve.
Clarisse è l'unica che non usa le lettighe, che prende in braccio ogni corpo esanime per poter un attimo chinare la testa e chiedergli scusa per non averlo salvato, per dirgli che è stato un eroe e che verrà sempre ricordato, che lei lo farà, che non sarà un altro soldato polacco, che ora ci penserà lei ai suoi cari, sarà lei l'ufficiale in divisa a suonare alla porta di sua madre.
Lo fa per non pensare al dolore, per non doversi rendere conto davvero di quanti fratelli si sono trucidati tra di loro per non si sa quale motivo, per non pensare che i “dispersi” lo saranno per sempre, che domani tutti cercheranno di dimenticare, di soffocare il dolore, il rimpianto, la morte.
Gliele grida la Guerra tutte queste verità, mente Thanatos cerca di tappargli le orecchie con le mani sporche di sangue, mente Demios cerca di arrotolare tutti i fili che ha lanciato su quei ragazzi, di riprendersi il terrore il più velocemente possibile.
Clarisse è cresciuta con le storie di guerra come favole della buona notte, nessuno moriva ed i Ribelli, non gli Alleati, erano i buoni come i Jedi contro l'Impero. Aveva otto anni quando è morto il primo soldato, dal nome che sempre verrà ricordato, come un eroe. Sempre otto quando ha scoperto che non sempre i Ribelli sono buoni, che possono esserci “dispersi in battaglia”, che un ufficiale in divisa alla tua porta non è mai un buon segno e che neanche “i nostri ragazzi” sono sempre buoni, che loro sono i cattivi di qualcun altro. Aveva otto anni quando le era stato detto che poteva “sperare” ma che le speranze sono spesso vane. Ne aveva nove quando aveva scoperto com'erano le guerre, che si facevano troppo spesso -quasi sempre- per il potere e quasi mai per la pace, che i nomi dei soldati nessuno se li ricordava, che il soldato polacco era morto invano perché poi la donna era stata fucilata.
A undici credeva di sapere cosa l'aspettasse, a diciassette tutto era crollato nella spirale oscura del dolore ed aveva imparato che le guerre ti portano via tutto, anche la forza per piangere chi hai perso. Quella era l'età in cui aveva cominciato a capire la guerra.
I morti non l'avrebbero lasciata, neanche quando a diciotto anni la vita sembrava bloccata in uno stato di stallo, di stasi, che preannunciava la più rovinosa delle tempeste.
Clarisse aveva diciannove anni quando la sua odiosamente amata guerra aveva stretto di nuovo le mani attorno al suo collo cercando di soffocarla, quando aveva pensato che quella volta non ce l'avrebbe fatta e creduto che la lama entrata nel suo addome sarebbe stata quella fatale, la morte, il riposo del guerriero, la fine.
Ma era ancora viva, incapace di star ferma, obbligata a sfogare il tormento del suo animo burrascoso con la ricerca dei corpi, perché in pochi avrebbero sopportato il ritrovamento dell'ennesimo cadavere, perché solo lei l'avrebbe abbracciato e poi consegnato all'ultimo calore della pira, promettendogli di non dimenticarlo, di vivere anche per lui
Derideva chi sperava fosse tutto un sogno, lo faceva con l'ironia cinica e impietosa di chi soffre e sapeva già in precedenza che sarebbe successo, con la forza di chi è ferito e rinuncia alle cure perché ci sono cose più importanti da fare. Si faceva cieca allo sguardo triste di Chris, quello ferito dei suoi fratelli, quello preoccupato di Will ed andava avanti per cercare di non pensare all'orribile verità di cui sembrava l'unica tesoriera.
Clarisse aveva diciannove anni, tante cicatrici addosso quanti ricordi dolorosi, una ferita che sembrava essersi calmata da sola e non gli vomitava più sangue ad ogni movimento, un amico insopportabilmente stressante che le gridava che prima o poi anche lei si sarebbe dovuta far curare, un ragazzo preoccupato che sapeva essergli vicino, che comprendeva il suo dolore come solo un folle comprenderebbe un altro folle, dei fratelli che volevano già alzarsi dal letto, lo sguardo scintillante come il sangue e come l'aura che l'avvolgeva; un padre dio della Guerra, due genitori Marines ed un nonno con il sigaro spento che cercava di fargli capire com'era la guerra, la vita, senza farcela entrare.
Aveva una casa distrutta e tanti amici a cui dire addio, tanti nomi marchiati a fuoco nella testa e vergati d'inchiostro sul costato sinistro. Tanto, troppo, dolore per una persona sola e tanta, troppa, speranza che sapeva essere vana. Aveva un “milite ignoto” tatuato tra i nomi di tutti i suoi compagni caduti ed una terribile verità che, sperava con tutta se stessa, i suoi amici non avrebbero mai scoperto.
Perché la forte ed inarrestabile Clarisse dentro era solo frantumi, rimorso, testardaggine e dolore, ma una cosa l'aveva ormai accettata da anni: La Guerra non finisce.
Mai.




Salve lettore, è da un po' che non mi affaccio su questo “angolo autore”, ma di questo giro mi tocca farlo per esprimere al meglio ciò che ho provato a scrivere: Per prima cosa io adoro Clarisse, l'ho amata dalla prima riga che la citava, così, a buffo. Nella mia testa Clarisse è sempre stata figlia della guerra su tutti i fronti, anche nella sua famiglia mortale e anche se fa la dura e la strafottente sono convinto che sia di quelle persona che pensano troppo e parono la bocca per dire il contrario e far vedere a tutti che è forte. Sempre secondo la mia testa, Clarisse ha sofferto molto la morte di tutti quei ragazzi perché si sente in parte colpevole, sono morti per la guerra e la guerra è suo padre, e lei non è riuscita a proteggerli. In ultimo, me la immagino amica di Will perché...niente, sono diversi e mi fa ridere pensare che siano amici. Rifiuta le cure perché “è forte” e non le serve niente e Chris, povera anima, la segue in silenzio consapevole di non poter far nulla per aiutarla.
Oh, questa me la stavo dimenticando! Clarisse ha dei tatuaggi, ne ha tanti perché è una tosta che butta giù le porte a calci e rutta in faccia alla gente a sfreggio e tra i tanti, sul costato sinistro ha tutti i nomi dei ragazzi morti nelle battaglie e nelle missioni, tutti i suoi compagni, gli amici, per non dimenticare.
Detto ciò, ho finito davvero. Non so se questo è l'ultimo capitolo perché tecnicamente la storia è dedicata ai mezzi eroi e nella mia lista figurano un figlio di Efesto e una di Afrodite che però tutti ricordano come eroi, e quindi non so se possa infilarceli in mezzo, bha, e un certo figlio di Apollo che mi dicono dalla regia sia diventato piuttosto popolare e quindi, che ne so, lo reputate un mezzo-eroe come questi sedici, pardon, diciassette, sfigati?
Se ha qualche buon diavolo viene l'illuminazione divina, parli. O taccia, a discrezione sua. In qualunque caso, Yo lettore, alla prossima, forse.
TCotD.

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Capitolo 17
*** Miranda Gardiner- Crescere Rigogliosi. ***


Half Heroes


17. Miranda Gardiner- Crescere Rigogliosi.


Non aveva capito il sollievo nello sguardo di Kaite quando aveva detto che la sfidava, che voleva diventare lei la nuova capo cabina, ma se ne era resa conto. Aveva capito perfettamente cos'era, il lampo di luce che aveva illuminato le iridi spente ormai da così tanto tempo, che per un solo istante avevano scintillato come quando la guerra era finita. Dopo la guerra tutto era cambiato, Miranda lo aveva sentito dire tante volte che “la guerra cambia tutto” e non aveva faticato a credervi: era ovvio che una battaglia avesse delle conseguenze, che non ci fossero solo vittorie gloriose e sfilate trionfali; lei lo sapeva che c'erano anche il dolore e le ferite, i corpi dei caduti e le armi macchiate e le mani imbrattate di sangue che neanche la pioggia ed il tempo sarebbero riuscita a strappare dalle narici dei sopravvissuti.
Sapeva tutto questo, o meglio, credeva di sapere, di aver capito.
Il fatto era che Miranda la guerra non l'aveva vista, che lei non c'era a New York quando i ponte presieduto dai figli di Apollo era crollato, quando i fiumi si erano ripresi e i mostri erano calati sulla città come una nube di fumo. Lei non era lì quando ai suoi fratelli fu detto che dovevano restare nelle retrovie a curare i feriti, perché le Cacciatrici erano troppo impegnate a combattere e i figli di Apollo erano troppo pochi in confronto ai bisognosi d'aiuto. Non aveva subito l'umiliazione di sentirsi dire che potevano far a meno di loro in strada, che anche se le ancelle di Artemide erano più brave erano anche essenziali sul fronte, per poi esser comunque comandati a bacchetta da queste qualora tornassero alla base, non aveva visto lo sguardo ferito di Kaite scacciato dalla sua forza di volontà, ora in frantumi sul fondo di quelle biglie sporche di polvere che erano i suoi occhi.
No, Miranda era lontana, era a casa e non aveva visto niente, aveva solo sentito, ma comunque credeva di capire, di sapere come ci si sentiva.
E lei si sentiva arrabbiata.
Questa era la verità, Miranda era arrabbiata perché, come molte altre cabine, alla sua non erano spettati i giusti onori, non era stato tributato il giusto rispetto né sul campo né fuori da esso. Aveva visto sua sorella, il suo punto di riferimento diventare la mera ombra di ciò che era stata, appassire lentamente come molti altri.
Perché ricordava i suoi fratelli più grandi guardare tutti loro negli occhi e dirgli di mettersi in salvo, di fuggire se potevano e tornarsene a casa, che erano troppo giovani per ciò che sarebbe successo di li a breve. Forse perché ricordava la forza dei suoi amici, la voglia di vivere, quel fuoco che gli scoppiettava nel petto. Non lo sapeva dire con certezza, aveva tante idee, tante motivazioni e tutte che la portavano a covare quel confuso, aspro e contorto senso di rabbia.
L'erba che fungeva da pavimento nella cabina numero quattro era meno verde di come se la ricordava, se ne era resa conto quando era tornata per i funerali, erba appassita come le anime di chi aveva combattuto. Oh, il mostro che le era entrato nel petto! Miranda era convinta che la Dea Nemesi avesse scrutato dentro di lei e le avesse lasciato quel cucciolo apparentemente innocuo che ora le graffiava le pareti della cassa toracica.
La gente sembrava non accorgersene, continuava a guardare avanti e cercava in tutti i modi di dimenticare, di non guardare la lapide su cui erano segnati tutti quei nomi, guardando invece a Percy Jackson come all'eroe che non avrebbe mai più permesso una simile cosa, ricordando solo il suo coraggio e non quello di tutti gli altri, di quelli che erano morti. I ringraziamenti e gli onori erano finiti con la messa funebre.
Ma lei non poteva accettarlo. Miranda voleva essere di più, più di un nome che sarebbe stato inciso su un monumento quando sarebbe prematuramente passata a miglio vita durante un combattimento, quando i grandi eroi si sarebbero salvati per la grazia divina e loro altri sarebbero caduti come petali da una corolla troppo grande, che sacrifica la sua cerchia esterna per preservare polline e stami; voleva riportare la sua cabina in primis e poi tutto il resto del campo all'antico splendore, quando anche loro erano reputati eroi, alla pari di tutti gli altri e non di pochi eletti.
Avrebbe agito con pazienza e minuzia, agendo sui suoi cari come una botanica a cui viene affidato un giardino sull'orlo della morte, potando le foglie secche ed i ricordi dolorosi, estirpando erbacce incolte dagli animi malandati, piantando semi di speranza e gioia e vedendoli poi, finalmente, rinascere a nuova vita dalle loro ceneri.
Che mai più nessuno osasse sottovalutare la forza di una figlia di Demetra, che nessuno la reputasse inferiore, perché una cosa che Miranda aveva davvero capito, era che ogni persona era indispensabile per il loro mondo e gli Dei, personificazione di tutti i vizi e le virtù degli uomini, ne erano la chiara dimostrazione, con il loro Olimpo e l'equilibrio precario con cui da millenni governavano la Terra.
Concentrò tutta la sua forza dentro di sé, lasciandola poi defluire con un unica grande onda.
I fili d'erba appassiti come soldati stanchi rialzarono la testa assumendo il portamento fiero che era giusto loro avessero, margherite e fiori da campo nacquero a rimostranza che erano loro i più forti tra i loro fratelli; i vasi appesi al soffitto allungarono i loro tralci e l'albero che sosteneva il tetto della cabina fiorì rivelando le prime gemme di un frutto fertile.
Era questo che i figli di Demetra avevano in sé, la vita e forza per metterla al mondo.
Miranda osservò fiera il suo operato: presto tutto il Campo avrebbe sorbito la stessa sorte e avrebbe rivisto tutti i suoi fratelli, i suoi amici, gli eroi di un'infanzia, alzarsi e rinascere, per crescere ancora forti e rigogliosi.


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Capitolo 18
*** Lacy- Troppo piccola. ***


Half Heroes


18. Lacy- Troppo piccola.


Di tutti i suoi fratelli, Lacy aveva la sfortuna di essere la più piccola. Non che la cosa l'avesse mai infastidita, prima di arrivare al Campo, perché ciò comportava la salvezza in molte cose: ogni atto veniva perdonato, ogni desiderio accontentato e le cose spiegate con più garbo che agli altri. Essere piccoli aveva tanti vantaggi e Lacy, complice la sua adorabile bellezza che la faceva definire da tutti “la bambina più bella che abbia mai visto”, ne approfittava come dovrebbe fare ogni degno figlio di sua madre.
Ma proprio quando aveva superato l'arco di legno, quando era entrata in quella cabina tutta così deliziosamente rosa e aveva conosciuto la sua ancor più deliziosa capo-cabina, aveva dovuto ricredersi, almeno in parte.
Silena era stata la dolcezza fatta persona, e finché era ancora in vita le aveva spiegato bene che al Campo le cose erano un po' diverse che fuori. La ricordava ancora farle l'occhiolino e rivelarle che malgrado le cose fossero diverse, anche lì a loro figli di Afrodite era permesso un po' più di quanto non lo fosse agli altri.
<< Ma tieni ben a mente una cosa, cara: anche se tutti amano accontentarci questo non ci esenta dal fare la nostra parte come semidei. Forse siamo quelli che vivono più tranquilli, ma i mosti non ci risparmiano solo perché siamo di bell'aspetto.>>
Oh, quanto era vero!
Purtroppo però conobbe Silena troppo tardi: pochi giorni dopo il suo fidanzato partì per una missione per non tornare mai più, il suo corpo non venne mai ritrovato e la bella e dolce sorella che l'aveva accolta e accudita con l'amore di una famiglia si era trasformata in un fantasma di dolore e rimpianti.
La guerra era ufficialmente scoppiata mesi dopo e Lacy non era abbastanza addestrata, non sarebbe stata di alcun aiuto ma solo d'intralcio a Manhattan, era troppo piccola, ed era stata rispedita a casa.
Al suo ritorno al Campo credette fermamente che avessero perso: se la vittoria sarebbe dovuta esser il mantenimento del mondo così come lo conoscevano, allora dovevano aver fallito alla grande perché Lacey sapeva perfettamente che quell'ambiente, quel posto, non era il suo Campo, non era la sua famiglia, non era il suo mondo.
O per lo meno non lo era più.

La seconda grande profezia di quel secolo, invece, Lacy la visse tutta, decisa più che mai a non lasciare di nuovo la sua casa, di non abbandonare di nuovo i suoi amici. Era cresciuta ora, poteva esser d'aiuto, se non sul campo almeno in infermeria.
Non aveva la più pallida idea di cosa dovesse aspettarsi, di cosa sarebbe successo, come e quando, ma lo sentiva nell'aria, avvertiva come un'energia statica che le faceva rizzare i peli sulle braccia.
Drew aveva ragione, avrebbe dovuto cominciare a farsi la ceretta, solo perché erano biondi non voleva dire che quei peli non fossero antiestetici.
Scosse la testa e strinse le trecce basse con cui si era acconciata i capelli, alle sue spalle gli altri si muovevano inquieti, i Romani erano accampati fuori dalla barriera che ogni momento diventava sempre più debole.
Sentiva i brividi che le percorrevano veloci i muscoli, la consapevolezza che quella sarebbe potuta essere la sua ultima giornata di vita le strinse lo stomaco e le fece venir voglia di vomitare. Improvvisamente tutto quel delizioso rosa la stomacava, come la più stucchevole delle caramelle, la bellezza perfetta dei suoi fratelli la irritava con la sua inutilità: Silena aveva avuto ragione, nessuno di loro sarebbe stato risparmiato perché bello, non sarebbe riuscita ad accettarlo neanche se fosse stato vero poi, l'idea di salvarsi mentre tutti i suoi amici perivano...Perché era questo che sarebbe successo, molti di loro sarebbero morti e non avrebbero più visto la luce, niente più sveglia presto la mattina e colazione al padiglione, niente più allenamenti e fila per le docce.
Si strinse nelle spalle e si abbracciò forte la vita, lei non voleva morire, non voleva farlo, era ancora troppo piccola per morire. Ma al contempo non avrebbe accettato di esser di nuovo al sicuro mentre i suoi amici combattevano per la vita.
Una mano le si poggiò sulla testa e la ragazzina si voltò per incontrare il volto bello e serafico di Drew. In assenza di Piper era lei la capo cabina, un ruolo che, malgrado i suoi modi, le calzava a pennello e Lacy per quanto amasse Piper, per quanto l'ammirasse, non ce la vedeva proprio a comandare i figli dell'amore.
Aveva detto, la giovane McLane, che le persone belle non mentivano, riferendosi certamente all'abitudine di Drew di sparlare e utilizzare la lingua ammaliatrice per convincere tutti a fare ciò che voleva, ma in quel momento Lacy era più che convinta che quella sorella che aveva visto come un'eroina, come la salvezza di tutta la capanna, avesse spudoratamente detto una bugia.

Corse con quanta più forza avesse in corpo, la paura che alimentava il piccolo cuore pompando adrenalina in tutte le terminazioni venose, lanciandosi di tanto in tanto occhiate spaventate alle spalle. La corazza che le fasciava il busto era il macigno più pesante che avesse mai dovuto sollevare, una protezione che ora la intralciava soltanto facendo recuperare terreno a quel guerriero in armatura scintillante che la stava rincorrendo, l'elmo lucido dal quale non si riuscivano ad intravedere gli occhi e che le facevano pensare che fosse un automa quel gigante che passo dopo passo la stava raggiungendo.
Non voleva morire, non così, magari in modo più glorioso, per salvare un amico… no, no, lei non voleva morire e basta, era troppo piccola per morire, non aveva neanche dodici anni, doveva finire le medie, voleva andare al liceo, il ballo di fine anno… e suo padre? Cosa sarebbe successo? Si sarebbero presentati alla porta di casa sua e avrebbero comunicato la notizia? Gli avrebbero mandato una lettera? Ci sarebbe andata Piper, perché era la capo cabina? Avrebbe reso il suo dolore più lieve con il dono di Afrodite? Ma poi, era viva? Erano riusciti a sconfiggere i Giganti?
No, non c'erano riusciti, se no in quel momento starebbero tutti li a combattere.
Le lacrime gli offuscavano la vista, i singhiozzi le si spezzavano in gola facendole male, facendole desiderare solo di fermarsi e vomitare, con il sapore acido dei succhi gastrici a mischiarsi alla sensazione vischiosa del muco che le colava lungo la trachea.
Voleva solo salvarsi.
Un corpo cadde improvvisamente ai suoi piedi e lei vi inciampò senza possibilità di schivarlo.
Alzò la testa il necessario per rendersi conto che quello davanti a lei era un ragazzo di Efesto, un ragazzo di un paio d'anni in più di lei. Gli occhi erano spalancati, vuoti come quelli di una bambola, ma comunque pieni dello stesso terrore che riempivano i suoi. La bocca semiaperta da cui colava un misto di sangue e saliva, la tempia destra inesistente, così rossa da sembrare nera.
L'urlo che lanciò si sarebbe propagato per tutto il campo se la battaglia non fosse stata così rumorosa. Arretrò senza più riuscire a controllare le lacrime davanti a quel corpo che lei conosceva, che aveva conosciuto e che ora non c'era più, non c'era più…
Il guerriero aveva rallentato il suo passo, sicuro che ormai il suo obbiettivo non sarebbe più scappato, in preda ad un attacco di panico che la faceva gridare trapanandogli i timpani. Lacy si voltò verso il soldato con gli occhi sgranati, tremante più della terra stessa che si muoveva a ritmo delle esplosioni causate dalle catapulte; lo guardò senza riuscire a vedere i suoi occhi, senza riuscire a pensare ad altro se non che non poteva morire, non voleva morire, non era giusto.
<< Ti prego. Ti prego, non mi uccidere. Per favore, ti scongiuro. Non voglio morire. Ti prego.>> i singhiozzi spezzavano le sue preghiere, mente quel soldato alzava la spada pronto a togliergli la vita come era successo al cadavere vicino a lei.
La luce della lama balenò per un attimo nell'aria densa di fumo, polvere, sangue, grida e preghiere vane agli Dei, e Lacy non riuscì a staccargli gli occhi di dosso neanche nel momento in cui riuscì finalmente a vedere quelli del ragazzo davanti a lei; perché questo era, un ragazzo, era solo un ragazzo come lei in cui la bambina poté vedere i suoi stessi sentimenti, le sue stesse paure. Neanche lui voleva morire, anche lui era troppo giovane e voleva ancora fare tante cose nella sua breve vita. Ma la lama che usciva dall'esiguo spazio tra il busto e l'elmo non lasciava vie di scampo.
Thanatos attraversò il metallo che nascondeva il viso del ragazzo per posargli un bacio freddo come la morte sulle labbra socchiuse dallo stupore.
Per un attimo il mondo girò come una trottola e Lacy fu costretta a voltarsi e vomitare tutto ciò che aveva in corpo senza riuscir a smettere di piangere.
<< Stai bene?>> La voce famigliare di un assassino le sfiorò la mente, due corpi erano riversi affianco a lei: quello di un ragazzo che conosceva e quello di uno sconosciuto, accomunati da più tratti di quanti non credessero, primo tra tutti una morta violenta ed insensata.
Sopra di loro, svettante come una regina, Drew teneva stretta in pungo una spada strana, fine e regolare, con il manico terribilmente simile alla lama. Una katana avvolta da una strana nebbiolina violacea, come il colore preferito di quella sorella che aveva sempre tanto temuto e che ora, finalmente, le dava un valido motivo per farlo. L'asiatica aveva ucciso quel ragazzo, l'aveva fatto per salvarla, per salvare proprio lei ed ora controllava con gli occhi d'ossidiana ogni movimento attorno a loro. Fece un passo avanti afferrandola per un braccio e rimettendola in piedi e Lacy non riusciva a vedere altro che le condizioni in cui versava la sorella, con i vestiti sporchi e strappati, macchiati di sangue e terra, le braccia coperte da bracciali di bronzo celeste ammaccati e rigati come se avessero parato troppi colpi; i capelli lisci ed arruffati, il trucco sbavato che la facevano somigliare ad una di quelle maschere inquietanti della sua tradizione. Ma più di tutto gli occhi neri, freddi come la pietra, vuoti come pozzi. La scintilla luminosa della vita mancava tanto nelle iridi dei cadaveri quanto in quelle degli assassini.
<< Mettiti al riparto, non puoi combattere. >> era stato un ordine deciso e perentorio, privo della lingua ammaliatrice ma mille volte più suggestivo, non ammetteva repliche. E Lacy fece come gli fu detto, perché in quella guerra lei non poteva far niente, non era utile a niente, era troppo piccola, troppo debole per far altro se non intralciare i suoi compagni.
" Ma sono viva, sono ancora viva, sono viva. "

Quando la guerra finisce e il cielo esplode in fiamme e terra dorata sottilissima, Lacy non è al riparo.
E' inginocchiata a terra, l'armatura abbandonata affianco a lei, il busto bianco e tremante esposto al sole impietoso, la fascia rosa del top che pare un pugno in un occhio ma è ciò che permette a Mitchell di individuarla tra tante armature, gusci vuoti che ospitano ancora il corpo inerme e molliccio di crostacei morti arenati sulla spiaggia.
E' inginocchiata davanti ad un ragazzo anche lui senza armatura, con una ferita grande quanto una mano aperta sul basso ventre, a premergli la sua maglia contro, ripetendogli che tutto andrà bene, che si salverà alla fine, che stanno arrivando i rinforzi.
Ha già visto troppi cadaveri, non vuole che anche lui diventi uno di loro.
Mitchell le corre incontro con le lacrime agli occhi, felice che almeno lei sia salva, tra tanti caduti e feriti. Ma Mitchell è anche più grande di lei, ha già affrontato una guerra, sa com'è, cosa succede, e forse è il suo occhio più allenato che gli fa capire subito che quel ragazzo non ce la può fare, che sta morendo e che nessuno lo può salvare.
O forse è solo quell'infantile speranza che accomuna tutti i bambini a far credere il contrario alla figlia di Afrodite.
Lacy gli regala il sorriso più splendente che abbia visto fino a quel momento, sollevata oltremodo di poter finalmente vedere qualche faccia amica salva.
<< Mitchell! Vieni qui, aiutami! Bisogna chiamare qualcuno, sta molto male e sta soffrendo tanto, ha bisogno di un medico.>>
Poi si volta verso il ragazzo, Brian, un romano come quello che ha cercato di ucciderla ore prima ma che è andato incontro alla morte per mano di Drew, per dirgli di stringere i denti, che stanno arrivando i soccorsi.
Il ragazzo piange e basta, piegando le labbra in una smorfia che potrebbe essere un sorriso.
<< Lacy...>>
<< Lasciala stare.>> Drew appare al suo fianco, con la katana incrostata di sangue e lo sguardo più vuoto e determinato di prima. Lei sa cosa vorrebbe fare il fratello, dirle che il ragazzo è spacciato, che deve arrendersi, ma glielo impedisce.
Guarda dritto negli occhi quel Brian e capisce che anche lui sa che non ce la potrà fare, singhiozza più forte e cerca di annuire, alzando una mano per portarla su quella della piccola Lacy.
<< Continua a far pressione sulla ferita, Mitchell tu via a chiamare aiuto, serve un figlio di Apollo o uno di Asclepio, ora.>> Non gli permette di replicare e Lacy sorride ancora di più, perché presto tutto finirà, tutto si sistemerà, lo salveranno.
Si concentra di nuovo su quel ragazzo, raccontandogli che gli piacerebbe vedere come stanno messi loro a Nuova Roma, che magari quando guarirà le potrà fare da guida, da Cicerone si dice, giusto Brian? E lui potrebbe visitare il Campo, certo quando sarà di nuovo in piedi, ma ci vorrà poco, i loro figli di Efesto sono i migliori, senza toglier niente ai romani ovviamente. Ma forse prima vorrà rincontrare sua madre o suo padre. Di che divinità sei figlio? Oh, Marte? Il nostro Ares? Forte!
Non vede Lacy lo sguardo addolorato di Mitchell che corre a chiedere aiuto, quello spento di Drew che si mette a scavare nelle macerie, a togliere elmi e controllare le pulsazioni sanguigne, non la vede neanche chinarsi su un ragazzo che le chiede il favore più grande e pesante del mondo, perché non ce la fa più, sta solo morendo lentamente, il suo corpo è schiacciato da una trave e lui morirà quando la solleveranno.
Non vede quella lama fine e sporca tentennare per un attimo in aria prima di calare dritta nel cuore malandato e morente del ragazzo, non nota neanche che quel ragazzo è uno dei loro, un figlio di Demetra che chiede di dire ai suoi fratelli che gli vuole bene ed è fiero di loro, di dire a suo padre che c'ha provato, a resistere, che lo ama come nessuno al mondo ed è stato il padre migliore che potesse capitargli.
Lacy sente solo il figlio di Apollo che arriva di corsa e gli dice che gli dispiace, che il ragazzo, Brian, è morto, ma che lei gli è stata vicina e lo ha accompagnato da Thanatos, che si è appena sollevato dal volto del figlio di Demetra e ora carezza con tristezza il capo di Drew, che cerca di nascondere un singhiozzo in un colpo di tosse.
Lacy vede solo Brian con il volto bagnato di lacrime e sangue, con quella smorfia di dolore che le pare un mezzo sorriso ed ha la certezza che non ha fatto abbastanza, è stata inutile anche per lui, non lo ha salvato come gli aveva promesso.
A undici anni e mezzo Lacy chiude gli occhi cerulei di Brian, un ragazzo romano che non conosce e che per quanto ne sa potrebbe anche esser stato il fratello di quello che ha cercato di ucciderla, un ragazzo che doveva avere all'incirca quattro anni in più di lei, che era figlio di Marte e voleva diventare pretore, che doveva dire a sua madre che lo avevano bocciato in spagnolo, che doveva prendere la patente e che sarebbe stato felice di vedere il loro Campo in piedi e di farle da guida nel loro e che ora è morto.
E con lui, con la fine della guerra, Lacy dice addio anche alla sua innocenza e alla sua infanzia.
Il mondo è rosso e nero, l'adolescenza è il tormento dell'anima e per Lacy lo è nel modo più terribile. Ebe le sorride mesta, la dea della giovinezza ha perso per sempre un'altra dolce anima i cui candidi sogni di bambina sono ora macchiati dalla guerra che le rimarrà addosso anche dopo la morte.


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Capitolo 19
*** Silena Bouregard- Bellissima confusione. ***


Half Heroes


19. Silena Bouregard- Bellissmia confusione.


Si guardò attorno per assicurarsi che nessuno dei suoi fratelli fosse nelle vicinanze, ma la cabina più leziosa del Campo era completamente vuota, Apollo brillava così tanto quel giorno di primavera che era un affronto rimanere al chiuso e non godere della sua magnifica presenza.
Sospirò tra il sollevato e lo sconfortato, le sarebbe piaciuto tanto star anche lei fuori a godersi il Sole, ma aveva altro da fare, doveva pensare, ragionare per bene. Si sistemò meglio sul letto più ampio della Cabina 10, sprofondando nei cuscini morbidi come nuvole che lo decoravano e lasciandosi assalire da quel misto di sentimenti indefiniti che le attanagliava il cuore da quasi una settimana a quella parte.
Era giusto? Stava facendo la cosa giusta? Era a fin di bene, no? Era per tutti i suoi compagni, per i suoi fratelli, per un futuro migliore.
Giusto?
Tirò fuori dalla tasca dei pantaloncini crema una piccola scatolina, così minuscola che avrebbe potuto contenere solo un anello, un anello per un bambino, ma che Silena sapeva contenere ben altro.
Il cofanetto era nero, di velluto morbidissimo e lucido come il guscio di un coleottero, bombato proprio come l'insetto. Lo aprì con lentezza e cura, trattenendo il fiato mentre la dita lunghe e smaltate di rosso tremavano sugli angoli stondati, esercitando la pressione necessaria per sollevare il coperchio, lasciando che i piccoli cardini argentati ruotassero sul perno che li univa.
Uno scintillio metallico risplendette per tutta la cabina, inondando le pareti rosate di un riflesso freddo che alla ragazza parve spingersi in ogni angolo di quell'ambiente famigliare, scatenando in lei sensi di colpa che non avrebbe dovuto avere.
Chiuse di scatto la scatola e poi gli occhi, sicura che il suono secco delle due metà che si scontravano fosse rimbombato per l'intero Campo, che tra poco qualcuno sarebbe venuto a chiederle se stesse bene.
L'idea la fece saltare sul posto, rinfilò la scatolina nella tasca anteriore degli short e si ravvivò i capelli con le mani, sorridendo tesa al suo riflesso, gli occhi azzurri come il cielo di quella magnifica giornata la scrutarono sgranati, mostrandole tutta la sua tensione.
Doveva uscire di lì, assolutamente, fare due passi e fingere che andasse tutto bene, che non ci fossero problemi. Anche perché non c'erano, no? Che cosa stava facendo di male lei? Nulla, non aveva fatto nulla.
Non ancora.
Quando quel pensiero le attraversò veloce la mente i suoi piedi si mossero comandati da una forza esterna, corse veloce verso la porta e la spalancò, rimanendo bloccata sulla soglia.
Il Sole splendeva, illuminando tutto con la sua luce calda e chiara, spietata, che le mostrava la purezza di un luogo incontaminato, di un porto franco, di casa. Abbacinata da tanta luminosità si sentì mancare il fiato, le ginocchia tramarono obbligandola a poggiare il peso di tutto il suo corpo contro lo stipite, il legno angolato che le premeva sulla spalla nuda, le chiacchiere e le risate degli altri semidei che le riempivano le orecchie, assordandola e chiudendola in una gabbia di sensazioni che si andavano solo a sommare a quei sentimenti inquieti che le agitavano il petto, aggiungendo una sbarra dietro l'altra alla gabbia dorata che le si stava innalzando attorno.
Cosa doveva fare?
Sembrava che il mondo intero la guardasse in attesa, mostrandole a sfregio la bellezza che ospitava, sussurrandole che se tutto ciò sarebbe andato in fiamme sarebbe stata solo colpa sua. Sua e di nessun altro.
Cosa doveva fare?
Il colpo del diaframma l'avvertì che aveva smesso di respirare, che l'aria non circolava più nel suo bel corpo e che presto sarebbe svenuta. Ma a chi sarebbe importato? Chi si sarebbe preoccupato di lei? Era solo una figlia di Afrodite, lo sapevano tutti che loro erano deboli, che svenivano se sollecitati dal troppo sforzo o da situazioni pericolose, dai troppi sentimenti. Lo sapevano tutti che non erano fatti per l'azione, che era inutile dargli un qualunque ruolo di rilevanza. I figli della Dea dell'Amore erano bravi solo a parlare, solo quello.
Si mosse inferma sulle gambe tremanti, sentiva le rotule sussultare nelle ginocchia, minacciando di cedere da un momento all'altro e lasciandola cadere come una bambola, ma strinse i denti e aumentò il passo, scendendo i gradini rosa sbiaditi e avviandosi di buona lena verso il bosco, in un qualunque luogo in cui nessuno l'avrebbe vista.
Ma più si addentrava nel Campo più l'angoscia le scivolava lungo la schiena, entrandole sotto pelle e riempiendola di sudore freddo. Perché la stavano tutti guardando? Cos'avevano da fissarla in quel modo? Ma lo facevano sempre?
Sorrisi che le erano sempre parsi cordiali e amichevoli ora le apparivano finti e freddi, saluti vuoti dettati dall'abitudine o dall'educazione. Le parole sussurrate erano tutte rivolte a lei, ai suoi movimenti guardinghi, al suo sguardo febbrile.
Cosa sapevano? Perché le parlavano alle spalle?
Lo sapevano.
Si bloccò nel mezzo della strada, terrorizzata dai suoi stessi pensieri.
Lo sapevano.
La stavano fissando per quel motivo, perché lo sapevano.
Sapevano tutto, era spacciata. Cosa avrebbe detto loro? Come si sarebbe giustificata?
Le parve di sentire il suo nome e ciò la riscosse abbastanza da farle riprendere quella sua infinita marcia verso un posto più appartato e sicuro. Ma lo era davvero? Stava al campo, quello sarebbe dovuto essere il posto più sicuro di tutti, l'unico inviolabile e inaccessibile dalle forze nemiche. Eppure Silena non poteva far a meno di domandarsi chi fossero i nemici, quando questi erano ragazzi, semidei come lei, amici e fratelli, li si poteva definire come tali? Come nemici? Per di più, se erano i figli degli Dei a muoversi contro di essi, la barriera il avrebbe respinti? Avrebbe negato il passaggio, la sicurezza, ad un adolescente perché aveva deciso di schierarsi contro gli dei? La barriera era selettiva?
La guardò, mentre continuava a camminare, fissava quella barriera invisibile.
Lui le aveva detto che dovevano riuscire ad entrare per poter arrivare a quanti più compagni possibili, per mostrargli al verità, parlare con loro e spiegarli a cosa stavano andando incontro. Ma loro erano mezzosangue, quindi perché non si introducevano semplicemente al campo e chiedevano udienza? Il suo sguardo venne bloccato dalla casa grande, quell'edificio azzurrognolo che era simbolo e sede del potere delle divinità al campo stesso e la ragazza rise delle sue stesse domande, facendosi scappare un verso di scherno per sé stessa. Sciocca Silena, era ovvio che non potevano, che gli Dei li avrebbero fulminati.
La verità era che si sentiva confusa, confusa come i suoi pensieri e le sue domande, che le vorticavano caotiche per la testa. Cosa doveva fare? Era giusto? Lo voleva? Era sbagliato?
Le veniva da piangere e basta, non voleva prendere quella decisione, non voleva farlo, però si sentiva obbligata, doveva dargli una risposta. Si sentiva di tradire tutto l'affetto e la fiducia che era stata riposta in lei, ma dall'altra parte era stanca di veder soffrire i suoi cari, gli amici di sventure di una vita che non potevano appropriarsi della propria perché il loro divin genitore si annoiava e aveva altri piani per lui. Silena poi ci credeva nel lato buono degli Dei, doveva essercene uno, anche loro erano fatti di bene e male come gli uomini, tutti quanti compresa sua madre. Afrodite era la dea che più di tutti ispirava sentimenti positivi, il bene, una divinità benigna, ma Silena sapeva quanto potesse essere terribile e cattiva, non si illudeva. Però le voleva bene, anche se non avevano quel gran rapporto e lei aveva abbandonato suo padre e non le aveva concesso una famiglia come si deve o degli amici che non rischiavano di morire da un momento all'altro e…
Si ritrovò accasciata al suolo, coperta dagli alberi e dalle fronde, a piangere disperata senza sapere più nulla, la tabula rasa nella sua mente l'affliggeva come una spada conficcata nell'addome.
Cosa doveva fare?

<< Mamma… ti prego...>> mormorò tremante tra un singhiozzo e l'altro.
Ma nessuna parola le giunse, nessun segno caritatevole, una carezza o un suono. La dea più amabile si era di nuovo dimenticata di lei, impegnata in chissà cosa così tanto da non sentire le preghiere di una figlia sull'orlo di un esaurimento nervoso e in piena crisi di panico.
Perché non le dicevano cosa fare? Era stato così per tutta la sua vita, devi essere brava, devi comportarti bene, andare bene a scuola, non litigare, lasciare casa e andare al campo, devi rimanere lì, non devi uscire, non devi scappare ma non puoi combattere come vuoi, non devi disobbedire, non devi vivere.
Piegata su se stessa sentì la pressione della scatolina sulla coscia e si tirò su quel tanto che le bastava per riuscire a sfilarla dalla tasca, la strinse forte nel pugno e si lasciò cadere di nuovo, un singhiozzo più forte degli altri rimbombò nella foresta.

“Mi serve il tuo aiuto, a me, ai nostri compagni, a tutti noi e tu sei l'unica che può farlo. Loro non credono che tu sia abbastanza forte, ti deridono perché sei figlia dell'Amore e non vuoi imbracciare armi, ti giudicano solo dalla mera facciata che è tua madre e non si impegnano a guardare oltre, a conoscerti, a chiedersi se sei anche tu così, solo finzione, sorrisi, bellezza e parole vuote, o se sei molto di più. E io invece lo so: sei dolcezza e attenzione, dedizione verso i compagni, verso le tue cause; hai degli ideali solidi, che non possono essere piegati, ma sei sempre disposta ad ascoltare, a parlare con gli altri e spiegare. Sei bella come la tua anima Silena ma non mi illudo, so che hai dei difetti perché tutti li abbiamo, nessuno è perfetto. Il mio è quello di prendere troppo sul personale le faccende, di chiudermi in un solo obbiettivo, in un combattimento anche più grande di me, che forse non supererò, solo per dimostrare agli altri che posso farcela invece. Il tuo Silena è che sei troppo buona, sei troppo attaccata a chi ti ha teso una volta la mano, alle regole. Ti barrichi dietro ai falsi miti perché ti hanno detto di farlo, ma l'obbedienza va guadagnata, non imposta.”

Quelle parole le rimbombarono nella mente come se gliele stessero dicendo in quel momento, come una registrazione infinita.
Erano vere, erano sentite, ci credeva davvero in quello che le stava dicendo.

“ Ho bisogno di te. Abbiamo bisogno di te. Sei l'unica che può farcela, perché nessuno si aspetterebbe mai che la buona Silena alzi la testa e lotti per la giusta causa, che non si faccia assoggettare. Tu sei la nostra speranza. Combatti Silena, combatti per noi, per tutti noi. Per la nostra libertà.”

Era così? Alla fine era per questo che stavano lottando, per la libertà, per il futuro che se no non avrebbero mai avuto.
Si mise seduta e si impose di calmarsi, di respirare e asciugarsi le lacrime. Decise di fare un ultimo tentativo, di sperare nella sincerità e nella bontà di sua madre e pregò.
Pregò gli Dei di dirgli cosa fare, di consigliarla e spiegarle perché stavano combattendo, perché dovevano morire tutti quei ragazzi, perché da millenni loro si divertissero ad usarli come giocattoli e poi buttarli via. Ed ebbe la sua risposta.
Il silenzio fu la spiegazione più concreta che potesse ottenere, fu lo schiaffo più forte che ricevette in tutta la sua piccola, breve e fragile vita. Agli Dei non interessava darle spiegazioni, non importava tenersela fedele, non gli importava e basta.
Tirò su con il naso e aprì con mani tremanti la scatolina di velluto nero, sul cuscinetto di raso brillava un ciondolo, una piccola falce d'argento che segnava definitivamente la sua decisione, il suo partito, ciò per cui decideva di combattere, per i suoi fratelli e non per degli Dei falsi e bugiardi. Le aveva fatto un regalo, nient'altro che un regalo costellato di parole suadenti come i serpenti del dio dei ladri, ma molto più vere, molto più sentite e concrete di tutti i silenzi a cui era costretta da sempre.
Silena strinse il ciondolo nel pugno e chiuse gli occhi, nella sua mente un messaggio che viaggiava per miglia giungendo ad un ragazzo dagli occhi azzurri ed il volto sfregiato dal dolore e dalla sfrontatezza nati dall'abbandono.
Ed era bello, era bellissimo sapere di poter finalmente fare la differenza, di esser utile, essenziale per qualcuno, per la giusta causa. Bellissimo e confuso come i demoni che avrebbero tormentato la sua anima per tutto il tempo che l'avrebbe divisa dalla morte, finché essi non sarebbero affogati nell'acido assieme a lei, nella notte in cui gli Dei, come già infinite volte prima di allora, avrebbero toccato il fondo.



Un giorno qualuno avrebbe detto che Silena Bouregard era un eroe, null'altro che un eroe e nessuno avrebbe avuto il coraggio di replicare contro chi avrebbe pronunciato quelle parole. Ma la verità, triste ed amara come solo lei può essere, avrebbe sussurrato nei loro cuori, per sempre, che forse la dolce Silena aveva solo ceduto ai sensi di colpa, che forse, che sicuramente lei non era stata altro che un ennesimo figlio smarrito e abbandonato che non aveva trovato un appiglio in quel mare in tempesta che era la vita di ogni semidio. Tutti commettono errori e Silena aveva pagato il suo con il conto più alto. Era davvero giusto ricordarla come un esempio?


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Capitolo 20
*** Will Solace- Punto di Rottura. ***


Half Heroes


20. Will Solace- Punto di Rottura.


C'erano tre punti di raccolta per i feriti, tutti collegati da lunghi capannoni che fungevano da corridoi per il passaggio delle barelle, si stendeva dalla Casa Grande all'infermeria stessa, passando per un punto intermedio che era l'ospedale da campo. Erano tutti riuniti alla rinfusa, Romani e Greci, l'infermeria ospitava le sale operatorie e i ragazzi che vi erano appena usciti, nei piani superiori della Casa c'erano coloro che non ce l'avrebbero fatta, chi era spacciato e doveva solo attendere che Thanatos trovasse un attimo di respiro per giungere a dare anche a lui l'ultimo bacio, il più dolce e fatale.
L'ospedale da campo era un tripudio di ferite differenti, di malattie di ogni tipo, un continuo via vai di gente che portava altri feriti, che spostava corpi, che portava oggetti e medicinali, che portava acqua e cibo, assistendo tanto i pazienti quanto i medici.
Da quanto tempo era in piedi a lavorare? Dalla battaglia se non errava, quindi come minimo da due giorni. Non si era mai fermato, non aveva dormito se non quei due minuti che cadeva in coma su una sedia appena vi si poggiava sopra. C'era chi continuava a ripetergli che dovevano stabilire dei turni, che non potevano fare una tirata unica perché c'era rischio che la loro stanchezza facesse più danni che altro, ma Will, così come tutti suoi fratelli, ne era sordo.
Si asciugò il sudore con il dorso della mano, era stanco morto. Quella stupida battuta nella sua testa lo fece sorridere amaramente: c'era davvero chi era morto e quello non era lui.
Con un gesto automatico poggiò una mano sulla spalla di Nico e lo rispedì lungo disteso sul lettino, << Prova a muoverti di nuovo e questa volta ti do una botta in testa.>> non rimase neanche per sentire la sua replica, non lo guardò neppure, non ne aveva tempo.
Si districò nel labirinto di lettini e barelle che affollavano lo spiazzo coperto, lanciando occhiate a destra e manca, fermandosi di tanto in tanto a controllare qualche fasciatura e a cambiare bende. Scambiò due parole con i suoi fratelli, un ragazzo Romano, figlio di Apollo come loro, li avvertì che il loro pretore, pardon, ex pretore e nuovo Pontifex, voleva alzarsi a tutti i costi dal letto e andare ad aiutare, a scavare tra le macerie per cercare i superstiti.
Ancora una volta Will si ritrovò a piegare le labbra in un sorriso senza gioia: perché, c'era ancora qualcuno vivo? Aveva visto la lista che era stata stilata, tra feriti, morti e dispersi, il numero ammontava a duecento qualcosa, forse. Non ne era sicuro. Ma era così stanco.
Un pianto improvviso allarmò tutti i guaritori riuniti a fare il punto della situazione, una ragazzina singhiozzava disperata accasciata sul corpo di quello che forse era suo fratello, tutta l'attenzione si catalizzò su di loro e presto Will poté vedere più di una persona voltare lo sguardo e asciugarsi le lacrime: un altro, ne era morto un altro. Chi era, cosa avesse fatto, per che parte avesse combattuto, se avesse ucciso altri ragazzi, se aveva dei sogni o una famiglia, Will non lo sapeva, la sua unica certezza era che ne era morto un altro e lui non aveva potuto far nulla per salvarlo.
Un altro.
Quanti erano ora? Avevano superato il centinaio?
Nessuno si mosse, nessuno aveva la forza di toccarlo, quel fantoccio bianchiccio sporco di sangue.
Al limitare del suo campo visivo scorse dei ragazzi appena accorsi, qualcuno doveva averli chiamati perché avevano delle lettighe, ma non uno solo si mosse, soprattutto quando la ragazzina chiamò il nome del fratello morto e Will, così come tutti i greci presenti nella sala, lo riconobbero. Uno di loro, un figlio di Ermes di diciassette anni, che stava al campo da quando ne aveva nove, che tutti loro avevano conosciuto, con cui avevano parlato, combattuto, giocato, vissuto per un po' nell'illusione di poter avere una vita normale.
Poi una figura si mosse, facendosi strada tra tutti gli altri: Clarisse si avvicinò a Jenny e la scostò con una delicatezza inaspettata dal cadavere di David, la sostenne per le spalle e la fece sedere ai piedi della barella di un figlio di Atena che si allungò per sfiorarle una gamba e poi abbracciarla quando si lasciò cadere su di lui sempre più distrutta. Clarisse invece si voltò verso il corpo e solo allora Will registrò che non aveva una lettiga con sé, ma lei era Clarisse e il biondo già sapeva cosa avrebbe fatto. Si chinò su di lui e lo prese in braccio, sollevando quel peso morto come se fosse un bambino addormentato, facendogli poggiare la testa contro la sua spalla e quasi cullandolo nel suo ultimo viaggio verso la pira che avrebbero acceso quella notte.
Quanto sarebbe stata grande? Quanti corpi c'erano? Quanto avrebbe bruciato? Avrebbero mai smesso di ardere i loro fratelli?
La ragazza camminò nel completo silenzio dell'ospedale da campo, persino Jenny aveva smesso di piangere, svenuta per lo sforzo tra le braccia di qualcuno che, seppur ferito, non accennava ad abbandonarla, a lasciarla cadere, forse inconsciamente imitando la presa salda della figlia di Ares. Quando gli passò accanto l'occhio gli cadde sul fianco della giovane, la maglia mimetica completamente nera come buona parte della gamba sinistra, una ferita sicuramente, e ancora più sicuramente molto profonda e brutta. Eppure lei era ancora in piedi e spostava cadaveri che nessuno di loro voleva toccare, come nessuno di loro riusciva più a fare. Come non riusciva più a fare neanche lui, non avrebbe sopportato ancora per molto.
Era pallido, stremato, sporco di terra e sangue, sangue ancora fresco e non suo, ma dei pazienti che cercava di curare inutilmente, di tutti coloro che uscivano dalle sale operatorie improvvisate, dall'Infermeria che ormai non li conteneva più. Aveva voglia di urlare e piangere finché tutto non fosse finito, finché il dolore non lo avrebbe privato dei sensi e lasciato a terra svenuto, ed assieme alla stanchezza arrivò anche la botta di rabbia. Non riuscì a staccare lo sguardo dalla ferita della ragazza e quando lo fece, quando lei era ormai vicina alla porta, intercettò quello di Chris, che silenziosamente gli confermava quanto anche l'indistruttibile Clarisse stesse raggiungendo il punto di rottura.
A passo di marcia avanzò tra le barelle, i capelli sparati in ogni direzione, incrostati di gli dei solo sapevano cosa, gli occhi sgranati e cerchiati di nero lo facevano apparire inquietantemente simile ai tanti corpi che avevano bruciato; quando le parole eruppero dalle sue labbra screpolate erano forti e decise, intrise di quella rabbia sorda, cieca e ruggente che solo il dolore e l'impotenza sapevano dare.
<< Dovrai farti controllare anche tu prima o poi!>> Glielo urlò contro e Clarisse neanche si girò.
Non poteva fare così, lui già lottava ogni minuto contro chi si sporgeva oltre il baratro della morte, non poteva andar dietro anche a chi stava bene, a chi se la sarebbe cavata con una fasciatura ed un po' di riposo, standosene fermo e buono senza dover necessariamente fare il coglione e mettersi in lista anche lui per la sala operatoria, dovevano dargli una mano ad alzarsi, non a cadere ancora più giù. Non poteva farcela cazzo.
Chiuse gli occhi e si passò una mano sul viso, sotto i suoi polpastrelli pieni di tagli da lama, i graffi sulle sue guance gli fecero rimpiangere i giorni in cui solo un rasoio orientato nella direzione sbagliata per poter prendere ogni pelo di quella tanto agognata barba, di quel distintivo ed innegabile segno di maturità, del suo essere finalmente un uomo, poteva regalargli. Perché era ancora in piedi e non in un angolo a piangere, a lasciarsi scuotere dalle convulsioni che avrebbero sfogato tutta la tensione del suo corpo?
Oh, giusto, lui era un dottore. Era un guaritore, di quelli che non lottano in prima persona ma che lo fanno solo assieme agli altri, al paziente che incoraggi, a cui dici che non puoi farcela da solo, che se vuole vivere ti deve aiutare, deve dire al suo corpo di risvegliarsi e lottare, di mettere in moto gli anticorpi e riunire tutte le sue piastrine lì dove ce n'è bisogno, di avvisare i globuli rossi che c'è da fare i turni doppi. Ma alla fine neanche i combattenti se la stavano cavando meglio, tutti i suoi fratelli che con l'arco facevano magie e che avevano sulla coscienza non solo i semidei che non erano riusciti a salvare ma anche quelli che avevano ucciso loro sul campo. Per un attimo rimase congelato, c'era qualcuno in quella sala che aveva prestato cura a chi aveva ferito? C'erano ragazzi che si erano impegnati con la feroce spietatezza di un assassino ad uccidere il loro nemico per poi trovarsi pochi secondi dopo inginocchiato al suo capezzale cercando di salvarlo con la stessa foga con cui prima aveva affondato la lama nel suo corpo?
Il brivido che gli carezzò la schiena ebbe anche la forza di stringersi attorno al suo stomaco e fargli salire la nausea, aveva una voglia incredibile di vomitare e poi lasciarsi cadere a terra. Solo questo.
Solo questo.
Non riusciva a ricordarsi le dinamiche degli ultimi quatto giorni, o forse erano cinque? Se qualcuno fosse entrato in magazzino e gli avesse chiesto che medicinale aveva somministrato neanche mezzora prima a quel figlio di Efesto sarebbe stato in grado di dirgli solo che era qualcosa per calmarlo, che di sicuro quel ragazzo aveva bisogno di uno psichiatra, uno vero, e che avrebbe passato il resto della sua vita in preda ad attacchi di panico, come quella ragazza che saltava ogni volta che c'era anche il più piccolo scoppio, come quel ciocco nel fuoco delle pire, come quell'altro che aveva una crisi isterica tutte le volte che sentiva pronunciare “serrate i ranghi” la frase che i centurioni romani avevano ripetuto per tutta la guerra, prima contro di loro poi contro i giganti. E probabilmente lo psichiatra sarebbe servito anche a lui. Ma non aveva tempo, non ora per lo meno, lo avrebbe trovato dopo, quando tutto si sarebbe calmato. Forse.
Prese un respiro profondo e cercò di concentrarsi, di ricordare cosa stesse facendo in magazzino, cosa cercasse, ma i suoi occhi vedevano solo macchie sfocate ed indistinte. Li strinse forte e si stropicciò la faccia con le mani martoriate. Gli serviva solo un attimo per riprendere fiato, la verità era questa, era andato lui a cercare chissà cosa solo per poter staccare un attimo, aveva operato per sei ore solo il giorno precedente e non ricordava più come fosse sdraiarsi su un letto e, a dirla tutta, non sapeva neanche se voleva ricordarlo, ultimamente tutte le persone che vedeva farlo, che vedeva adagiate su un qualcosa di simile ad un giaciglio erano ferite, gravemente ferite, in procinto di morire o direttamente morte. Forse avrebbe avuto problemi con i letti per un bel po' di tempo dopo di quello.
Il rumore delle porte di legno, il cigolio di quei cardini vecchi, lo sfiorò a mala pena, lasciando entrare i rumori dell'infermeria che prima teneva magnificamente occultati. Però, la sua stanchezza gli giocava proprio brutti scherzi, gli pareva quasi di sentire delle risate.
<< Eccoti!>> Si richiuse, tornò il silenzio.
Will girò appena la testa, assicurandosi di aver riconosciuto la voce e la sua proprietaria, si voltò poi verso di lei, poggiando la schiena agli scaffali. I suoi reni esultarono per quel minuscolo sostegno.
<< Non dovresti entrare nel magazzino, c'è un motivo per cui a voi e ai figli di Efesto è vietato.>>
Rimproverò blandamente, senza eccessiva convinzione ma con un tono neutro ed apatico che delineava il suo stato d'animo. Ma Clarisse neanche se ne curò, fece un passo avanti con quel suo sorriso beffardo, quel ghigno che Will aveva imparato a conoscere e riconoscere in tutte le sue versioni e sfumature. E in quel momento sembrava soddisfatto, come se fosse riuscita a fare qualcosa per gli altri impossibile.
Come quando prese a pugni i suoi fratelli e divenne la capo cabina.
Un pensiero stupido, appartenente ad una vita fa, che Will non sapeva neanche se fosse la sua di vita o quella di un altro, letta da qualche parte. Eppure il ghigno era proprio quello, che urlava “ce l'ho fatta, è tutto merito mio” ed in effetti, questa volta glielo poteva concedere.
<< Dettagli, non facciamo più le bombe con le soluzioni alcoliche da anni. >> perché, lei lo ricordava ancora cosa facevano prima della guerra? << E poi sono quelli della undici che non possono entrare, a noi è stato revocato il divieto.>> Un altro passo, le mani sui fianchi, il petto gonfio d'orgoglio.
Aspettava palesemente che Will le chiedesse cosa ci fosse, perché lo stava cercando e così l'accontentò.
<< Cosa devi dirmi Clarisse? E' successo qualcosa?>>
Il sorriso, sorriso vero, che si aprì sul volto ancora sfregiato della ragazza illuminò tutto il magazzino semibuio, una luce così accecante che Will non poté far a meno che paragonarla ai primi raggi che suo padre lanciava sulla terra dopo ogni notte, che sapevano di rivalsa, di nuovo, di vita, di speranza.
<< Sono finiti.>>
Non comprese subito il significato di quelle parole, non capiva cosa fosse finito ma ironicamente si disse che di certo lui e tutti gli altri guaritori erano “finiti” da un bel pezzo.
Clarisse parve capire la sua confusione e sorrise ancora di più, alzando il mento in altro, verso il cielo e gli Dei.
<< I dispersi, sono tutti finiti, ho trovato l'ultimo un'ora fa. Non c'è più nessun altro da cercare, li abbiamo trovati tutti. Questa sera si accende l'ultima pira.>>
E si, era proprio orgoglio quello che ribolliva nella voce della ragazza, quel tono marcato su quel “ho trovato”. Lo aveva fato lei, ovviamente, Will non aveva dubbi che lei fosse rimasta una dei pochi ancora con la forza di scavare e con i nervi abbastanza saldi da non impazzire davanti all'ennesimo cadavere.
Quella sera avrebbero acceso l'ultima pira...non poteva crederci… e prima che potesse anche solo metabolizzare l'informazione la voce dell'altra risuonò ancora nell'ambiente.
<< E non solo. Stanno smontando le sale operatorie aggiuntive, quelle standard che abbiamo sono più che sufficienti.>>
Silenzio.
Non c'erano più dispersi, non c'erano più cadaveri da cercare, non c'era più nessuno che attendeva sotto le macerie, si sarebbe accesa l'ultima pira e se le altre sale venivano smontate significava che non c'era più un numero così elevato di pazienti che rischiavano l'arresto respiratorio o cardiaco da un momento all'altro, che non dovevano più essere portati d'urgenza sotto i ferri per richiudere ancora quella ferita, bloccare l'ennesima emorragia. Significava che nessuno si aspettava più di dover operare più di due ragazzi.
Non era finita, no che non lo era, ma ne stavano uscendo, ne stavano uscendo davvero.
Le gambe gli si fecero più molli di quanto non lo fossero da troppo tempo, i muscoli stremati ricevettero l'informazione dal cervello, non c'era più bisogno di restare rigidi e sull'attenti, in attesa delle grida strazianti di qualcuno che stava morendo, non c'era più bisogno di economizzare l'energia e prenderla da dove non c'era, inventarsela pur di restare in piedi. Le rotule tremarono nella loro sede, così come la sua spina dorsale, la fascia renale cominciò a lanciargli tante di quelle stilettate che avrebbe visto bianco se solo anche le sue retine non avessero deciso che vedere non era più necessario, che rischiare di bruciare come una pellicola cinematografica non era necessario. La salivazione aumentò di botto, così come diminuì il suo controllo, i polmoni cominciarono ad accartocciarsi e allargarsi spasmodicamente, la gola si contrasse e gli impedì di emettere qualunque suono, mentre un ronzio si impossessava delle sue orecchie ed i polpastrelli delle mani formicolarono togliendogli il tatto.
Ne stavano uscendo, che non era come dire che era finita, ma era un inizio.
L'ultima pira, nessun disperso, nessuno che rischiava di morire ogni secondo.
Se non fosse stato in quelle condizioni avrebbe sentito il suono delle suole di plastica delle scarpe che fanno presa sul pavimento, schiacciate al suolo dalla forza dei muscoli delle gambe di qualcuno che invece non si dava pace per evitare di crollare come stava facendo lui ora; avrebbe sentito il leggero ringhio di Clarisse quando si era buttata sulle ginocchia in scivolata per prenderlo al volo e non farlo franare a terra. Quello era il suo limite: Will si era trattenuto per quasi due settimane, altro che sei giorni come credeva lui, aveva stretto i denti e si era imposto di non mollare mai, finché ce ne fosse stato bisogno, finché qualcuno, anche solo una persona, avrebbe avuto bisogno di lui. Ed ora che i Romani se ne stavano andando, ora che tutti erano più o meno stabili, Will poteva finalmente soffrire come tutti gli altri, come non aveva potuto fare perché “ lui era un medico e doveva mantenere la calma e la lucidità, dare speranza a tutti i suoi pazienti e i loro famigliari”.
Lasciò che Clarisse lo stringesse a sé, le si aggrappò alla maglia, alle spalle, alle braccia piene di tagli ma senza neanche una benda. Sprofondò il volto sul suo petto, nella piega del collo, disperato e distrutto, singhiozzando in preda a spasmi e convulsioni che si era ironicamente autopredetto e che ora lo scuotevano dal profondo del suo torace, per andare a rimbombare in quello della figlia di Ares che, silenziosa, semplicemente lo stringeva e lo cullava, incurante di potergli fare male, consapevole che in quel momento l'importante era sentire che qualcuno c'era, che non si era soli, che un appoggio per non affogare era lì per noi ed era solido, vero, non l'effimera speranza di un folle sopravvissuto.
Ed improvvisamente tutti i ricordi che la sua mente aveva accantonato per permettergli di continuare a lavorare tornarono prepotenti nella sua mente: la preparazione, la ronda, l'arrivo di Nico, della statua, i Romani che li avevano aiutati, i canti di guerra, i proiettili di fuoco, le catapulte, le grida, il rumore delle armi e la terra che tremava. Quando era corso al campo e si era ritrovato a doversi difendere da altri ragazzi, da mostri, dai Giganti senza sapere se sarebbe sopravvissuto.
Ora sentiva tutta la paura di morire e lui non voleva. Glielo disse, lo singhiozzò a Clarisse che lo strinse ancora di più e gli rispose che non sarebbe successo, che era passato, con quella sua strana voce gentile e bassa, un po' impacciata forse, maledettamente sbagliata su di lei perché era una figlia di Ares e non avrebbe dovuto consolare nessuno. E quando lo avevano chiamato per curare il primo ferito grave? Simon, un figlio di Demetra che gli era morto tra le braccia, o meglio, con un suo braccio infilato nell'addome per toglierli una scheggia di proiettile. Non lo aveva salvato, la doccia fredda non era riuscita a sfiorargli neanche le spalle prima che arrivasse qualcun altro, urla disumane, due ragazzi in armatura ne sostenevano un terzo a cui era stato strappato un braccio. Non aveva salvato neanche lui, aveva perso troppo sangue e loro non potevano fagli una trasfusione, non in quel momento, non sul campo, e lui era morto mentre gli cauterizzavano la ferita con un ramo infuocato proprio da un colpo simile a quello che aveva ucciso Simon. Uno dopo l'altro, ne erano arrivati troppi e lui non ne aveva slavati altrettanti.
E Clarisse gli disse che lo sapeva, che non era colpa sua, che sapeva che non ce l'avevano fatta, che loro guaritori erano troppi pochi. Che doveva solo sfogarsi, che aveva fatto il possibile ma che non sempre, quasi mai, il possibile era sufficiente.
Urlò come avevano urlato tanti dei suoi pazienti, disperato e straziato, sollevato che stesse finendo, distrutto perché significava che non avrebbero mai potuto riportare indietro i caduti, tutte quelle povere anime, quei poveri bambini morti. Lo sentiva, il dolore fisico dell'incompetenza, dell'inadeguatezza, dell'impotenza. Era solo un figlio di Apollo, ma ancora di più, era solo un ragazzino di diciassette anni, ne avrebbe fatti diciotto ad Agosto, ne avrebbe fatti -futuro- diciotto ad Agosto, ma tanti altri non avrebbero più festeggiato il proprio compleanno, non avrebbero più riso e pianto come stava facendo lui, niente più sofferenze e gioie, niente più vita.
Non li aveva salvai, non c'era riuscito, non era un buon arciere, un buon combattente… non era neanche un buon guaritore.
Pianse aggrappato all'amica, perché si Clarisse poteva fare la dura quanto voleva ma era sua amica e basta, per un tempo che gli parve infinito, fino a consumarsi le corde vocali e finire le lacrime. Si ritrovò stremato e mezzo incosciente, senza riuscire a tenere gli occhi aperti, abbandonando tutto il suo peso morto sul Clarisse, sicuro che l'avrebbe sorretto come aveva fatto con tutti quei feriti, con tutti quei morti. Chissà quanti ne aveva sollevati, se lui pesava come qualcuno di loro, se sopportare il suo peso le ricordava qualche corpo in particolare e se si fosse stancata di sentirsi schiacciata dalla pressione di un ennesimo essere privo di sensi. Stava quasi per scivolare nel baratro dello svenimento quando un ultimo barlume di coscienza gli lanciò nella mente un'ennesima domanda: per lui la goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stato l'annuncio dell'amica, ma per lei cosa sarebbe stato? Ebbe il tempo di preoccuparsi per questo, di realizzare che se lui aveva passato come minimo mezz'ora a piangere, tremare, dimenarsi ed urlare in preda ai nervi ormai a pezzi, Clarisse forse avrebbe fatto anche di peggio perché lei era così stupida da trattenersi ancora per mesi e mesi prima di scoppiare.
<< Ci sono… ci sono anch'io per te.>> gli soffiò piano, le palpebre tremule che gli mostravano un'immagine sfocata dell'amica, il volto non più fiero ed orgoglioso ma cinereo e tirato, un frammento di ciò che era dentro lasciato scappare fuori.
<< Lo so, ma non ce n'è bisogno. Pensa solo a riposare, non sei utile a nessuno così.>> Quella era la cosa più dolce e sentimentale che Will potesse aspettarsi e fu anche l'ultima cosa che sentì prima di lasciarsi andare come aveva visto fare a troppe persone ma mai come fecero loro.
Quello era stato il suo limite, il suo sfogo.
Il giorno dopo sarebbe andato di persona a cercare Clarisse, a ringraziarla per avergli dato la notizia in privato, realizzando che lei doveva aver intuito quella sua reazione; la trovò che raggruppava con un rastrello le ceneri delle pire di quella notte, a sentir lei era tutto normale, aveva ottenuto il permesso di chiamare i famigliari dei feriti e farli venire a prendere, per portarli a casa e avere un po' di pace, poi sarebbe andata a trovare tutti i genitori dei caduti e lo avrebbe fatto anche da sola se nessuno avesse avuto le palle per accompagnarla. Will aveva ascoltato tutto in silenzio, annuendo alle volte, se voleva l'avrebbe accompagnata lui ma prima doveva farsi medicare.
Erano fermi sotto il portico distrutto del padiglione del teatro, Will fasciava con lentezza ed accuratezza i tagli e le ferite di Clarisse, alcuni addirittura infetti, quella cretina aveva come al solito esagerato. La rimproverava e si lasciava rispondere male, lasciava che parlasse a sproposito e a vanvera, consapevole che quello invece era il suo di modo di sopportare tutto, di togliere acqua alla sua brocca per evitare che una goccia la facesse straripare.
Cercando i riprodurre la normalità, di imitare quei gesti e quelle dinamiche di una vita fa, Will cercava anche di evitare che la sua amica si spezzasse come aveva fatto lui, anche se in fondo sapeva che, come tutti gli altri, già lo era dentro e forse da molto prima di tutti loro.
Perché in fondo erano umani, erano solo dei ragazzini e come tali avevano tutti quanti i loro limiti, quel confine labile che divideva la forza dal dolore, la perseveranza dall'ossessione, la tenacia dalla pazzia, e forse la Dea Bendata era troppo straziata da quello scenario per concedergli il suo favore, per impedire ad un ennesima anima di raggiungere il punto di rottura da cui mai nessuno è in grado di riprendersi completamente.

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Capitolo 21
*** Charles Beckendorf- Onore ad Efesto. ***


Half Heroes


21. Charles Beckendorf-Onore ad Efesto.


Stava andando tutto bene, bhé, più o meno. Stava per arrivare una grande guerra, una di quelle che venivano preannunciate decenni se non millenni prima da vecchi oracoli tutti rinsecchiti e ciechi che scrutavano il fumo emanato dalle erbe aromatiche e dai sacrifici con il loro occhio interiore, ascoltando le mute parole di un dio cieco quasi quanto loro e mai veramente preoccupato per il futuro che sussurrava alle orecchie dei suoi favoriti. L'anno prima una dea era stata rapita, un Titano era fuggito dalla sua eterna prigionia (che sia mai che qualcuno osasse dirlo davanti agli dei, sorreggere la volta celeste per impedire ad Urano di riabbracciare Gea e distruggere tutto per ricrearlo da principio era un grande onore), senza dimenticare che nel giro di..quanto? Sei mesi scarsi? Non solo avevano trasformato la loro principale fonte di protezione in una semidea, una figlia dei pezzi grossi che, guarda caso, non sarebbe mai dovuta esistere, ma si erano ritrovati con la suddetta immortale battagliera votata ad Artemide (viva le faide famigliari) e avevano anche recuperato altri due figli dei pezzi grossi, incredibilmente non frutto dell'infrazione dei patti poiché nati prima della profezia, di cui una si era unita alla sovra citata Artemide e poi era perita miseramente e l'altro era diventato un mina vagante pronto ad ucciderli tutti come ad aiutarli, dipendeva da come gli girasse quel giorno. Oh, e non c'era da dimenticarsi del mitico figlio di Poseidone anche lui, tu guarda il caso, nato quando non sarebbe mai dovuto nascere, e grazie a tutti per aver rispettato l'epico patto fatto per proteggere il mondo (l'Olimpo) e l'umanità (gli dei) dalla distruzione.
Si passò una mano sulla testa, i capelli corti come una coperta ispida sulla nuca già imperlata di sudore. Stava facendo le valige, come dicevano i ragazzi che lo incontravano per il campo.
Hai fatto le valige Beckendrof ?
Come se lui stesse partendo per una vacanza.
No, assolutamente no, non era una vacanza quella, lo sarebbe stato se fosse rimasto al Campo, dove le cose andavano bene. Era più che altro una persona a farle andare per il verso giusto, almeno a lui, s'intende. Silena. La sua bella e dolce Silena. Quanto tempo avevano sprecato a guardarsi di sfuggita, a sorridersi in modo impacciato ed arrossire alla presenza dell'altro? Troppo, decisamente troppo per Charles, ma finalmente potevano rimediare, lo avevano fatto fino a quel giorno e lo avrebbero fatto per i restanti due, finché non sarebbe partito.
Già. Sarebbe partito in missione, lui e Percy Jackson, solo loro due contro la Principessa Andromeda ed il suo esercito, contro la base mobile di Castellan che per qualche assurdo motivo aveva deciso di stazionare su un campo non proprio neutro, ma in quello proprio del suo compagno d'avventura, forse il fatto che avesse scelto proprio il mare era un monito a tutti loro, ma questo, in quel preciso istante, non era la sua principale preoccupazione.
Tutta la sua concentrazione era per un paio di occhi blu, belli come nulla al mondo, che gli facevano contorcere lo stomaco e accelerare il battito cardiaco, che lo rendevano debole e fortissimo allo stesso tempo e che gli chiedevano silenziosi di non andare, di non farlo.
Silena ultimamente era strana, non che gli altri fossero tranquilli, c'era sempre in mezzo una grande profezia a rompergli l'anima e tutte quelle belle cose lì, ma Silena era diversa, lui lo sentiva che qualcosa non andava, che la preoccupava, ma non gliene parlava. Forse non si fidava di lui, forse non lo reputava abbastanza forte, ma glielo avrebbe dimostrato, sarebbe sceso in campo, sarebbe andato in missione e ne sarebbe tornato vincitore, così che anche la sua Silena potesse finalmente vederlo per ciò che era, potesse rendersi conto che anche lui era un eroe al pari degli altri.
Alzò deciso la testa, orgoglioso del suo stesso pensiero, per poi sgonfiarsi lentamente quando un sussurro sibillino gli strisciò in un angolo della mente.
Se tornerò.
Un brivido gli calò impietoso per la schiena, una lame gelata che gli carezzava la colonna vertebrale, una vertebra alla volta, insinuandosi nel suo stomaco come aghi di ghiaccio, come il sudore freddo della malattia che ti stringe le mani umidicce e screpolate alla bocca dello stomaco, che ti passa sulle labbra il sapore acido e amaro dei succhi gastrici e del vomito alla semplice menzione della verità che ti attende.
Stava per andare in missione.
Stava per andare in missione per la prima volta, nella tana del lupo, solo con un ragazzino di quindici anni con l'intenzione di distruggere una nave carica di mostri. Che poi, erano solo mostri, vero? Non c'erano altri ragazzi là sopra, giusto? Non stavano per andare ad ammazzare altri semidei come loro, si? Ma perché? Perché si era cacciato in un guaio del genere? Mettere del fuoco greco su una nave e aspettare che bruci all'infinito tutti i cadaveri che l'avrebbero alimentata più dell'ossigeno stesso, affidandosi alla protezione di un singolo ragazzo. Per carità divina, non avrebbe voluto nessun altro al suo fianco in una situazione del genere, Percy era il semidio più forte che conoscesse nonché l'unico in grado di aiutarlo in alto mare, neanche la figlia di Zeus sarebbe stata adatta come lui in quel caso, eppure… non c'era modo di nasconderlo, a soli due giorni dalla partenza Charles aveva paura come mai nella sua vita.
Non voleva morire, era uno dei punti cardine di ogni semidio. Ti insegnano che non sei come gli altri, che metà del tuo patrimonio genetico non esiste, che non può essere trascritto, che metà del tuo sangue deriva dall'oro più puro e che ciò significa che tutti lo vogliono e che non vivrai mai quanto quei mortali che non hanno niente di meglio di te se non la vita che vivono. Eppure nulla, neanche le parole ripetute fino alla nausea, fino a perdere di significato, possono preparare una persona a morire, ad accettare la morte. E Charles non ha la più pallida idea di come facessero tutti quegli eroi antichi a scendere in campo di battaglia senza indugio mentre lui era ridotto ad una figura appallottolata e tremante, schiacciata contro il muro della fucina, nascosta dietro al suo tavolo da lavoro.
L'avrebbe più rivisto? Avrebbe fatto altri esperimenti, inventato cose magnifiche su quel banco? Avrebbe catturato il Drago e lo avrebbe aggiustato, usandolo come arma contro Crono? Avrebbe mai presentato Silena a sua madre? O semplicemente visto uno dei suoi fratelli crescere e prendere il suo posto?
Ma soprattutto, perché aveva questa strana certezza di morte?
Forse perché siete due ragazzi contro una nave di mostri…
Scosse con vigore la testa, le braccia serrate attorno allo stomaco, doveva riprendersi. Sarebbe andato in missione tra due giorni, avrebbe piazzato l'ordigno e poi avrebbe fatto saltare tutto in aria una volta a debita distanza, senza che ne lui ne Percy ci rimettessero la vita. Avrebbe distrutto una nave di soli mostri e sarebbe tornato a casa. Si, tutti lo avrebbero acclamato come eroe, gli avrebbero riconosciuto il suo valore, la sua forza, quella stessa forza con cui aveva presentato e perfezionato il suo piano, quella stessa convinzione con cui aveva esposto a Percy cosa avrebbero dovuto fare. Avrebbe dimostrato a tutti quanti che era degno di essere ricordato assieme a tutti i grandi del Campo e della storia, che era degno del suo posto a capo della Cabina, di quello al fianco della sua Silena, che era un uomo degno di una ragazza magnifica quanto lo era lei. Avrebbe dimostrato a tutti che i figli di Efesto non erano solo fabbri, non erano solo goffi ed insensibili. Perché in fondo Charles lo sapeva che lo stava facendo soprattutto per suo padre e per Silena, per dimostrare a loro di potergli star vicino, di meritarsi il loro favore, il loro amore. Voleva solo scappare, abbandonare la missione e nascondersi nell'angolo più solitario e remoto della terra, ma non poteva farlo e non lo avrebbe fatto, aveva un onore, non solo il suo, da portare in alto fieramente, ma anche quello di suo padre.
E la gente lo avrebbe acclamato, si ripete alzandosi ed evitando accuratamente qualunque superficie riflettente che potrebbe restituirgli il suo sguardo terrorizzato e vuoto, lo acclameranno eroe, lo porteranno in gloria e urleranno al cielo il suo nome.
Onore a Charles Beckendrof , Capo della Cabina Nove, figlio di Efesto, grande eroe del campo. Onore ad Efesto.
Chissà perché, in quel momento, fu certo che quelle sarebbero state le precise parole che avrebbero detto i suoi fratelli al suo funerale.
Onore e gloria a Charles, onore ad Efesto.

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Capitolo 22
*** Octavian- Sangue annacquato. ***


Half Heroes


22. Octavian- Sangue annacquato.


Quando arrivò per la prima volta al Campo Giove sapeva già come comportarsi, sapeva già cosa aspettarsi. Lo avevano cresciuto per tutta la sua piccola e breve vita ripetendogli quanto fosse importante la Legione, quanto si dovesse impegnare, che grande onore fosse far parte di quel mondo, essere in quel posto che la sua famiglia si era guadagnata di diritto generazioni addietro quando nacque il loro illustre antenato figlio del dio del Sole, quando il sangue di Apollo si era mischiato al loro dando vita alla grande e facoltosa discendenza che ora formava le radici della sua famiglia.
Tenere alto l'onore, dimostrare chi era, diventare forte, importante, temuto e rispettato.
Ah, la facevano facile loro, c'erano già passati, avevano fatto il loro dovere e ora se ne stavano tranquilli nella loro casa a Nuova Roma a godersi la vita tranquilli, i ricordi degli anni passati sotto l'arme sbiaditi, cancellati, corretti e riscritti per diventare ciò che era giunto alle sue orecchie: gesta di gloria e sacrificio, di imprese formidabili e impossibili.
O meglio, impossibili per loro, ma del tutto all'ordine del giorno per i suoi compagni.
Quegli stupidi ed insulsi semidei che potevano vantarsi di discendere direttamente da un dio del Panteon, non come lui, non come la sua famiglia che doveva accontentarsi di quelle tracce scialbe ormai rimaste nelle loro vene mortali.
Se c'era una cosa che più di tutti Octavian aveva sempre invidiato di tutti i soldati della Legione, era il sangue. Non li capiva proprio, non riusciva ad immaginare come fosse poter dire che la propria madre o il proprio padre erano divinità, che erano Dèi.
Mio padre è un dio.
Cosa si prova a dirlo, eh? Che sapore ha la consapevolezza di esser nati da qualcosa di più grande di noi, d'incomprensibile per la stolta e piccola mente umana? Non lo sapeva e mai l'avrebbe saputo.
No, certo che no, lui dopotutto era solo un discendente un figlio di un figlio di un figlio di un dio, una catena che si perdeva nel passato e più anelli aggiungeva più diluiva quel magnifico e gigantesco potere che era l'Icore dorata che aveva dato la vita a quel suo trisavolo un secolo fa.
Si era comunque impegnato per arrivare dov'era ora, non era stato facile certo, aveva dovuto davvero sputare sangue per essere reputato al livello dei veri semidei, ma c'era da dire, da specificare con grandissima enfasi, che tanto sangue aveva versato lui, tanto ne aveva fatto sputare a quegli stolti idioti che pregavano mamma o papà di assisterli dall'Olimpo.
Il sangue, per Octavian, era sempre stato la cosa più affascinante del mondo, la più importante, la più ambita. Forse era per questo che aveva scelto quella specializzazione, quella disciplina che tutti tenevano in gran considerazione ma che nessuno voleva davvero raggiungere e far sua. Essere l'Augure della Legione era un onore, un titolo che ti elevava sopra i tuoi compagni, che ti metteva in condizione di discutere con il Senato, di influenzarlo, di guardare dritto negli occhi il Pretore e dirgli che era un grandissimo deficiente se pensava di andare in missione dopo quello che lui -lui e nessun altro- aveva visto in quelle viscere.
Oh, i racconti delle visioni mistiche degli Oracoli lo avevano da sempre colpito, da quando le Sibille avevano cominciato a scrivere i loro rotoli e tramandarli nel tempo, da quel momento per Octavian era cominciato il vero ed onorevole passato degli indovini. Altro che stupido oracolo di Delfi! Loro si limitavano a vedere ciò che sarebbe successo per grazia divina, era Apollo a mandargli quelle visioni, era il suo grande antenato a dar loro tutto quel potere. Le Sibille invece, gli Auguri, loro se lo prendevano quel potere, come solo un Romano poteva fare.
Forse era nata così la sua fissazione per i libri Sibillini, degli esseri mortali avevano avuto la forza ed il potere di trascrivere le verità del mondo, della vita, passato, presente, futuro, tutto in rotoli che anche gli uomini avrebbero potuto leggere. Avevano messo a portata di tutti un potere che solo gli Déi e i loro protetti potevano ostentare. Erano riuscite a vedere dove neanche i figli dei Titani erano riusciti. E lui ne era diventato semplicemente ossessionato.
Aprivano le loro prede, le loro vittime sacrificali e vi leggevano dentro le storie che le Moire avevano tessuto anni addietro attorno al filo della loro vita. Nel sangue che scorreva sull'altare vedevano l'orrore delle viscere e osservavano l'immutabile scorrere del tempo e degli eventi.
Un potere senza fine, un potere che non dipendeva dagli Déi così tanto quanto quello dell'Oracolo.
Questa era la sua idea, questa era la sua illusione.
Forse avrebbe dovuto capirlo all'ora, quando i suoi parenti avevano così palesemente depennato la verità del loro passato per riscriverlo con parole altisonanti che lo avevano illuso di poter essere all'altezza di chi viveva senza metà patrimonio genetico, di quegli inutili ragazzi che lo guardavano con palese indifferenza, con superiorità, perché loro erano figlio di Déi e lui no.
Quanto potesse bruciare quella semplice constatazione dei fatti, forse i suoi compagni non ne avevano idea, forse non si rendevano conto che con le loro parole stavano solo alimentando un fuoco nato dall'invidia e dal senso di inferiorità che da sempre aveva attanagliato il suo animo.
Il figlio di un dio non si sarebbe sentito inferiore a nessuno, l'inferiorità se la si prendeva da soli, concedendo agli altri di essere superiore a noi. Questo Octavian l'aveva imparato ben presto: se dai ad una persona la possibilità di innalzarsi sopra di te, questa la prenderà al volo. Ma se non gli concedi spazio di manovra non potrà sopraffarti. E se era vero che fisicamente non avrebbe mai potuto battere nessuno, verbalmente avrebbe piegato anche i mari e i cieli al suo volere, avrebbe piegato un dio, il suo di dio e si sarebbe preso la gloria che la sua famiglia si limitava ad inventare negli aneddoti raccontati ai raduni.
Se la forza bruta non lo avrebbe portato in alto, lo avrebbe fatto la sua voce: morbida come velluto, calda come i raggi del sole che diede i natali alla sua dinastia, la voce di un leader ferma e sicura, inflessibile e impossibile da contraddire, perché lui era l'Augure e solo lui sapeva ciò che gli Déi volevano. La voce di una sirena ammaliatrice che nascondeva il mortifero veleno della sua saliva, la lama tagliente della lingua, il sibilo inquietante e tormentato delle sue insinuazioni. Avrebbe raggiunto il potere come mai nessuno prima di lui e lo avrebbe fatto alle sue regole, solo le sue e al diavolo i semidei, gli avrebbe mostrato quanto valeva il loro sangue, quanto importasse per lui, come potesse distruggerli senza che questo restasse a macchiargli le mani a vita.
Le osservò attentamente, le sue mani, lunghe e affusolate, nodose ed eleganti, sarebbero state le mani perfette di un pianista, con le unghie corte curate e pulite, pulite come ora non lo erano. Una sottile linea rossa delimitava la parte bianca dell'unghia da quella rosea del carniccio, tra le mille linee labirintiche delle sue impronte digitali il filo rosso del sangue si spandeva mostrando il disegno che normalmente solo la vicinanza avrebbe rivelato, le nocche erano piene di goccioline, una più corposa e intraprendente delle altre era colata sul dorso sino ad arrivare al polso. Octavian fissava il pugnale che teneva ancora stretto nella mano, non quello rituale, un banalissimo pugnale da mischia ora ricoperto di una patina rossa, lucente e vagamente trasparente, poteva vedere il metallo dorato reso roseo dall'alone del fluido vitale, sporcatosi quando la lama era penetrata nella carne, intingendosi in ciò che per tutta la vita aveva e avrebbe diviso Octavian dai suoi commilitoni.
Sangue, solo e semplice sangue.
Soluzione di globuli rossi, piastrine, globuli bianchi, proteine, vitamine e cos'altro? Che altro c'era dentro quello stupido liquido che lo incriminava? Che lo rendeva diverso?
Sangue, solo semplice e stupido sangue.
Bellissimo ed affascinante come solo ciò che può dare la vita è. Una vita che però era stata comunque spezzata, nonostante la composizione semidivina di quel fluido.
Si, i geni degli Déi non avevano comunque salvato la sua vittima, non avevano comunque impedito alla lama di affondare e scendere sempre più all'interno di quel corpo, di raggiungere il centro nevralgico di quell'anima e di strapparla al mondo, alla vita.
Fissava incantato il pugnale sporco di sangue.
Quando era diventato Augure si era illuso che le sue vittime sarebbero state vere ed invece lo avevano confinato a distruggere stupidi peluches che non facevano altro che renderlo ancora più ridicolo e impotente agli occhi degli altri.
Ma, oh, glielo avrebbe fatto vedere lui, avrebbe dimostrato a tutti quegli sciocchi quanto potesse essere forte, terribile, potente ed intelligente un semplice discendente, come sarebbe stato in grado di piegare gli Déi, uno alla volta, al suo volere, come avrebbe convinto il Senato e i Pretori, come avrebbe portato dalla sua i Centurioni e tutti i soldati. Avrebbe raggiunto la vetta, sarebbe diventato il solo ed unico Cesare, proprio come aveva fatto millenni addietro quel semplice ma essenziale discendente di Venere, avrebbe comandato sopra tutti, sopra tutto.
Con quello stesso pugnale sporco di sangue, nel mezzo dei giochi e della confusione, carezzò la pelle pallida e delicata del suo braccio, una linea rossa e densa s'aprì sul bianco smorto del suo arto e colò veloce verso terra, macchiando i pantaloni mimetici ed i gambali metallici, senza che il dolore sfiorasse quella mente folle ma lucida.
Avvicinò il pugnale al taglio e li scrutò entrambi attentamente, come in tranche: Nulla. Non vi era nulla di diverso tra il suo sangue e quello di un semidio, non cambiava il colore, non cambiava la consistenza, il modo in cui si espandeva per il reticolato della sua epidermide o nel modo in cui la gravità lo spingeva verso il terreno. Nulla.
Nulla.
Strinse il pugno e tornò alla realtà: grida spaventate gli fecero capire che l'avevano trovato, il semidio a cui aveva gentilmente chiesto un po' di sangue per quel raffronto così essenziale per lui ora era riverso in una pozza rossa, attorniato dai suoi compagni che cercavano di capire cosa fosse successo, chi fosse stato così sciocco o sconsiderato da ferire mortalmente uno di loro.
Uno di loro. Semidei.
Oh, ma glielo avrebbe fatto vedere lui a quegli orgogliosi figli degli Déi, a quei fantocci senza anima, mossi dalle mani dei loro stessi genitori, gli avrebbe mostrato quanto l'Icore nel loro corpo non li avrebbe fatti resistere al suo potere, alla sua forza.
Avrebbe mostrato a tutti loro cosa sarebbe stato in grado di fare il dolore e la determinazione di un semplice discendente, quando quel sangue annacquato avrebbe distrutto, sottomesso e comandato, quello d'oro degli Déi.














Salve Lettore, mi prendo un piccolissimo spazio per informare, a chi la cosa potesse interessare, che i semidei Greci sono finiti e che da qui cominceranno i Romani, che in effetti son ben pochi, quindi credo proprio che la storia stia in fine giungendo al suo termine.
Grazie per aver letto e per l'attenzione.
Yo,
TcotD.

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Capitolo 23
*** Gwen- La luce in fondo al tunnel. ***


Half Heroes


23. Gwen- La luce in fondo al tunnel.


Essere un Romano non è facile, non è facile in generale essere un semidio ovviamente, ma far anche parte della Legione è davvero un'impresa difficile. I tuoi problemi cominciano quando scopri chi sei, quando vieni portato nel territorio di Lupa, quando vieni addestrato a sopravvivere a tutto e tutti, anche ai tuoi stessi compagni, a vivere letteralmente tra le bestie. Poi devi raggiungere il Campo Giove, devi essere così forte da trovare la strada e rimanere intero sino al tunnel che divide il mondo mortale dalle colline di Nuova Roma, quello, tecnicamente, è il primo territorio franco che trovi, quello è la tua ultima possibilità di ripensarci, l'ultimo luogo in cui sarai un semplice semidio, un semplice ragazzo sfortunato nato dal capriccio di una divinità. Superato il tunnel, tornato alla luce, non sei più nessuno, se non un soldato.
Ripensandoci a mente fredda, dopo la fine della guerra, forse Gwen avrebbe detto che la differenza tra Greci e Romani era proprio tutta lì: i primi erano semidei che si allenavano per sopravvivere, i secondi soldati addestrati a combattere e morire per la Legione.
Morire era la prima cosa che mettevi in conto quando Lupa ti portava nel suo tempio, quando quell'essere così antico ti guardava negli occhi e ti parlava con una voce che non aveva, dritta nella tua testa, come se improvvisamente fossi in grado di capire il linguaggio degli animali. Ma poi, Lupa, era un animale? Era una Dea costretta in quella forma? Non ne aveva la più pallida idea lei, ma certo non si era mai azzardata a chiederlo.
Quando poi avevi terminato il tuo “apprendistato” con i lupi, quando varcavi quel confine sicuro – sicuro dai mostri, non dagli altri lupi del branco con cui ti allenavi ogni giorno, con cui vivevi- l'ipotesi di morire in modo cruento mentre cercavi di arrivare al Campo era ciò che non avevi il coraggio di dire a voce, era la paura che non riuscivi a comunicare a Lupa quando ti chiedeva cosa stessi aspettando per andartene. Gwen ancora lo ricordava quel momento, quando se ne era stata ferma sul confine franco e aveva voltato la testa verso la Dea con un nodo alla gola così stretto che temette che non sarebbe mai più riuscita a parlare, sempre che fosse sopravvissuta. Però a quel punto il tuo viaggio per diventare un Romano era già iniziato e non potevi tornare indietro, non ne avevi il coraggio.
Ma tra tutte le cose che Gwen aveva affrontato, tra tutti gli allenamenti, le lotte con i lupi, quelle con i mostri, gli allenamenti sfiancanti con la Legione prima e poi con la sua Coorte in particolare, di tutta una vita al Campo Giove, di una Grande Guerra e della terra che trema, dei proiettili di fuoco, dei passi dei giganti e delle urla dei suoi compagni, Gwen avrebbe ricordato meglio di tutto il suo primo ingresso al Campo. Nessun ricordo avrebbe mai soppiantato per importanza e per significato quella lunga corsa contro il tempo.
Le sembrava quasi di riviverlo ogni volta, anche in quel momento, avvolta nel maglione pesante, con una tazza di tea bollente tra le mani e la vista di Nuova Roma imbiancata dalla prima neve dopo la Guerra contro Gea, anche dopo tutto quel tempo, tutti quegli anni, Gwen ricordava quel giorno come se fosse appena accaduto.

Le bruciavano le gambe, le sentiva letteralmente in fiamme, così come i suoi polmoni, come i bicipiti che imploravano pietà e le articolazioni delle mani che la pregavano di rilassarsi e lasciar cadere la pesante spata che stringevano ancora spasmodicamente.
Si lanciò uno sguardo da sopra la spalla, i capelli scuri le andarono sul visto ma non le impedirono di vedere i mostri che la rincorrevano: l'avevano individuata pochi chilometri dopo il Tempio, quando la ragazzina ancora pensava di esser al sicuro, che nessuno si sarebbe spinto così vicino ai territori di Lupa, ma si sbagliava di grosso a quanto pare. Nella sua testa, come un mantra, si ripeteva che doveva solo raggiungere la collina ed entrare nella gigantesca apertura tondeggiante del tunnel, solo quello e sarebbe stata salva.
L'aria che le entrava nei polmoni sembrava priva di ossigeno, non le dava nessun sollievo e l'appesantiva solo, illudendo il suo cervello di necessitare d'altro, che quelle boccate sincopate che tirava ad ogni passo la stavano solo intralciando. Non sapeva dire neanche da quanto tempo, effettivamente, stesse correndo, ma sapeva perfettamente che era troppo e che se non avesse avvistato quel dannato tunnel entro cinque minuti si sarebbe fermata e si sarebbe lasciata sbranare dai mostri, solo questo, e poi basta, fine a tutti i suoi problemi compreso il primo e più rilevante: la sua vita.
Se la morte era la prima cosa che mettevi in conto da semidio, era anche vero che capivi subito quanto tutti i tuoi problemi derivassero dalla tua stessa esistenza, ergo, la tua vita era il tuo problema principale. Eppure a dodici anni Gwen non voleva morire, non aveva la minima intenzione di farlo e malgrado si ripetesse che “tra cinque minuti mi fermo” si ritrovava sempre a posticipare la cosa, altri cinque minuti, solo altri cinque, come un bambino che chiede alla madre altro tempo per giocare, solo che quello non era un gioco e lei non avrebbe mai più chiesto a sua madre di aspettare quei dannati cinque minuti per prendere Dan ed impedirgli di far tana libera tutti.
Quanto poteva essere grande la paura della morte?
O forse non era paura, la sua era mancanza di coraggio, non ne avrebbe mai avuto abbastanza per lasciarsi morire.
Ma se entro cinque minuti non avrebbe avvistato quell'entrata, allora si sarebbe davvero fermata e questa era la sua ultima parola.
Quasi come se le avessero letto nel pensiero un apertura tondeggiante le apparve sul fianco della montagna, i suoi muscoli guizzarono tutti assieme nel loro tremore, il dolore che sentiva in quel momento era nullo a confronto della sua gioia, al sollievo che le si aprì nel petto e che le fece salire le lacrime agli occhi. Ce l'aveva fatta, ce l'aveva fatta, era arrivata, gli dei solo sapevano quanto era felice. Un ultimo sprint, la suola delle scarpe da ginnastica che slittava sulla ghiaia e che le faceva perdere per un momento la presa sul terreno, ma non aveva importanza, non più.
Si fiondò nell'apertura lanciandosi a terra e lasciando scappare un singhiozzo sollevato che venne immediatamente amplificato dalla cava e subito dopo ingoiato dai ruggiti dei mostri.
Cosa stava succedendo?
Si voltò quel tanto che bastava per vedere un artiglio sporgersi verso di lei, superando l'arcata di cemento e raschiando la terra battuta del tunnel.
No.
No, no, no, no, cosa stavano facendo? No, i mostri non dovevano superare il tunnel, non potevano, la protezione… aveva urlato, non era stata in grado di far altro. Si era alzata da terra graffiandosi palmi e ginocchi, scivolando più volte, sbattendo contro le pareti e correndo come aveva fatto per tutto il suo viaggio, come se quella fosse l'ultima cosa che avrebbe fatto in vita sua.
Le lacrime scendevano copiose dal volto sporco, la spata era troppo pesante, le sue braccia troppo deboli, le cosce in fiamme ed i polpacci ormai insensibili al dolore si muovevano per inerzia come caricati in precedenza e poi lasciati al loro moto perpetuo. Non ce l'avrebbe fatta, non quella volta, se lo sentiva.



Un dolore lancinante ad un fianco, la fredda lunghezza di una lama che si faceva spazio nella sua carne sino ad intingersi nel suo sangue, il bruciore improvviso allo stomaco e tutte le forze che abbandonavano il suo corpo.
Attorno a lei i rumori dei Giochi di Guerra, gli ordini lanciati sopra le urla dei soldati che caricavano il nemico, i Centurioni che chiamavano a gran voce l'adunata, serrare i ranghi per impedire che la quinta facesse breccia tra le forti resistenze dei pavesi e arrivasse alle porte già bagnate dall'acqua che il figlio di Nettuno aveva convogliato a se.
Cos'era? Perché faceva così male?

Il tunnel pareva non voler più finire, un incubo che si srotolava dinnanzi a lei senza darle tregua. La fine era lontana, o vicina, dipendeva da dove guardasse la cosa: lontana l'uscita dal corridoio, vicina la sua fine. Stava…



...morendo.
Stava morendo.
Si lasciò scivolare a terra incapace di reggersi ancora sulle gambe provate dallo sforzo della carica e da quello della ferita. Perché questo era, una profonda ferita al fianco destro da cui ora sgorgava sangue, vomitava quel fluido rosso e denso come un giorno, tanti anni prima, una fessura nel muro aveva vomitato mostri.
La terra bagnata le diede un finto ed illusorio sollievo, solo una carezza contro un muscolo contuso, solo un soffio delicato su un ginocchio sbucciato.
Stava davvero morendo? Era sopravvissuta a tutto quello solo per morire durante degli stupidi Giochi di Guerra alla vigilia di quella che probabilmente sarebbe stata la fine del mondo? Si portò una mano al fianco senza riuscire a fermare il singhiozzo che ruppe la resistenza delle labbra serrate e dei denti digrignati tra loro, l'urlo terrorizzato di una ragazza la sfiorò appena mentre quella figlia di Efesto della quarta coorte si precipitava verso di lei per portarle soccorso, chiamando a gran voce figli di Apollo che la soccorressero il più velocemente possibile. Ben preso anche altre grida si unirono a quel coro che spezzò il fiato dei giochi e attirò l'attenzione del Pretore Arellano che planò col suo destriero verso di lei, una macchia chiara nello sporco polveroso e infangato della distesa dove erano state allestite le macchine da guerra.
Faceva male, faceva così male che non le sembrava vero, come se la vita sgorgasse via dal suo corpo assieme al sangue, eppure non perdeva lucidità, non le si appannava la vista, non cominciava a sentire i suoni più ovattati, l'illusione della sordità creata solo dallo sconcerto iniziale si presentò in tutta la sua assenza quando cominciò a capire fin troppe parole, comprendere fin troppi discorsi di tutti coloro che le si affaccendavano attorno.
Con la coda dell'occhio vide un guizzo giallo, quasi albino, ed uno più scuro, come di metallo sporco di sangue, ma poi qualcuno lo coprì e Gwen desiderò solo smettere di sentire, fare come raccontavano tutte le storie, sentir la forza abbandonarla e con quella la sua lucidità. Perché non se ne andava? Perché era tutto ancora così chiaro?
Una figura scura avanzò tra le persone, solo la mera ombra di se stesso, null'altro che un illusione, null'altro che uno spirito incatenato lontano dal suo regno che riusciva a lanciare un frammento di se oltre i gioghi di ferro.
Chiuse forte gli occhi mentre mani esperte si alternavano sulla sua ferita- troppo profonda- un flash bianco che le tolse il respiro per un secondo che seppe d'eternità.

La figura tondeggiante di un'apertura, le porte tagliafuoco chiuse ma le maniglie rosse ben in vista, i ruggiti dei mostri le toglievano solo quella poca forza che ancora aveva, le lacrime bruciavano come fuoco, marchiandola con la paura e la vergogna della sua debolezza. Come poteva sopravvivere al Campo Giove se non riusciva neanche ad arrivarci?
Poi voci umane le solleticarono i timpani e Gwen non avrebbe mai saputo dire se se le fosse immaginate, se stesse delirando o se esistessero davvero, si lanciò verso le porte come si era lanciata oltre l'entrata del tunnel ma questa volta l'aspettava l'impatto freddo del metallo, le pesanti porte che scivolavano ben oliate sui cardini lucidi e l'erba pungente come aghi che le pungolò la pelle quando cominciò a cadere oltre la collina che s'alzava come a protezione della città di Nuova Roma.
Il mondo girò su se stesso, rotolando così veloce da confondere il cielo con la terra in un'unica spirale verde-bluastra, voltandosi come una trottola impazzita, la testa che sbatteva contro la superficie battuta, la schiena che le lanciava stilettate ogni volta che impattava il suolo, il sapore del sangue nella bocca, il polso bruciava così tanto da sembrarle congelato, sicuramente rotto, come minimo slogato, il ginocchio invece doveva esserle uscito di sede, le sembrava di sentire il vento sulle ossa, e la voglia di vomitare le crebbe così grande in corpo che probabilmente fu vinta solo dallo sfinimento, dal suo cervello che l'avvertiva che non avevano più l'energia neanche per far contrarre le pareti dello stomaco.
Una linea scura volò sopra la sua testa, un mostro gridò agonizzante esplodendo nell'aria, un altro guizzo scuro, erano frecce? Poi un fulmine. No, non se lo era sognata, era proprio un fulmine che preciso e letale aveva colpito gli altri due mostri rimasti disintegrandoli all'istante.
Fu l'ultima cosa che vide, una figura piccola, forse poco più di lei, che fluttuava sopra la sua testa contornata da fulmini, i capelli biondi e gli occhi dello stesso colore di quelle scariche elettriche.
Bianco.
Nero.



Il clamore della battaglia, le armi che cozzavano contro gli scudi, una figura più alta di lei ma non più massiccia, i capelli biondi come se il sole li avesse scoloriti, gli occhi azzurri di quella particolare sfumatura data solo dalla follia e dal genio – che troppo spesso erano la medesima cosa- poi il dolore.
Bianco.
Nero.

Non morirai, non oggi.
I medici continuavano a tamponare la ferita, qualcuno doveva aver portato delle flebo, riusciva a sentire l'ago nel braccio.
Lontano da lei, oltre tutti i semidei, oltre Reyna che urlava ordini, superando i suoi compagni, un paio di occhi verdi come il mare che secondo tutti avrebbero presto rimpiazzato quelli blu d'elettricità, -ma non per te, o per gli altri della quinta, non per gli amici di una vita- dietro tutto questo c'era solo un vortice nero che pareva ingoiare tutti i colori.
Era quella la morte quindi? Se l'era immaginata come un bell'uomo che veniva a darti l'ultimo bacio, non come l'ennesima galleria da percorrere, che sfortuna.
Doveva alzarsi e andare verso quella porta vero? Superare anche quell'ennesima entrata tondeggiante come aveva fatto una vita fa con il tunnel, era giusto?
Non morirai.
No? E perché?
Perché nulla più chiude le Porte e la tua anima è libera di fare ciò che crede.
Ciò che crede...rimanere o andare? Come poteva scegliere?
Oh, in verità era facile, molto facile scegliere. Lo era stato tanti anni prima, quando ad ogni minuto che passava se ne concedeva altri, quando avrebbe mollato tra altri cinque minuti, quando si era buttata contro quella porta ed era caduta. Dritta nella luce, dritta al sicuro, a Nuova Roma, dai suoi amici o da quelli che lo sarebbero stati a breve, vivere, perché in fondo Gwen non era abbastanza coraggiosa per lasciarsi morire.

La figura s'abbassò lesta atterrando leggera al suo fianco, un ragazzino di non più di nove anni, la pelle abbronzata pareva dorata come i suoi capelli. S'inginocchiò vicino a lei e le mise una mano sulla spalla, << Resisti, è finita, sei arrivata al Campo Giove, non morirai, non oggi.>> Aveva alzato quegli occhi blu elettrici dai suoi scuri per posarli lontano, come se seguisse i movimenti di qualcuno, il rumore dei passi che anticipò quello delle voci che chiedevano al ragazzino se andasse tutto bene, qualcuno che lo rimproverava persino per essersi buttato all'attacco senza attendere ordini, per averla salvata senza che nessuno gli dicesse che poteva farlo.
Ma il bambino pareva non smuoversi, il volto serafico come quello di un adulto, come quello di un soldato.
Provò a parlare, a dirgli qualcosa, chiedergli scusa anche, ma solo rantoli bassi uscivano dalle sue labbra spaccate e sporche di sangue e terra. Il bambino riportò l'attenzione su di lei e le sorrise, le sorrise
timidamente, come se non vi fosse abituato e avesse paura di farlo male.
<< Tranquilla, sei al sicuro ora, sei tra amici.>>



Ed era vero, lo era stato per molto tempo, sin da quando quel bambino le aveva salvato la vita e poi chiesto se voleva far parte della sua stessa Coorte, se le andava bene.
Sino a quando non aveva capito cosa significasse essere un soldato, fino a quando quella che era diventata casa sua si era trasformata in un eterno inno al loro amico scomparso, a quello stesso bambino che a modo suo il aveva uniti; fino a quando non era apparso quell'altro e fino a quegli stupidi giochi che le avevano portato via tutto ma non le avevano tolto niente.
Era stata una decisione fin troppo semplice, forse un Romano, un vero Romano non l'avrebbe accettata, ma Gwen era umana, prima che Romana, e aveva paura proprio come ne aveva avuta a dodici anni quando si era lanciata contro quella porta.
Oltre il baratro, dalla parte più luminosa, altri cinque minuti, tutto il tempo che le serviva per stringersi al proprio corpo e voltare la testa alla luce in fondo al tunnel.
Non era la sua ora, non ancora.

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Capitolo 24
*** Dakota- Per dimenticare. ***


Half Heroes


24. Dakota- Per dimenticare.


I giardini di Bacco sono desolati a quell'ora della notte, gli unici che ci passano sono i lari che non hanno nulla da fare e i soldati di guardia, che costeggiano il perimetro dei giardini e non vi entrano mai.
Dakota odia quei giardini.
Forse perché tutti gli dicono che è “il suo posto”, che lì è dove dovrebbe sentirsi meglio di tutti, più vicino a suo padre, al suo mondo. Ma a lui cosa importa? E soprattutto, per quale dannato motivo vorrebbe essere più vicino a suo padre?
Li supera senza neanche degnarli di uno sguardo.
Dakota odia la maggior parte delle cose che riguardano suo padre, il suo divin genitore, ma se le tiene per se, sorride quando gli fanno una qualche battuta, difende il suo onore – seppur blandamente-, gli fa i dovuti tributi nel tempio assieme ai suoi fratelli. Ma sono davvero suoi fratelli quelli? Quando arrivò al Campo Giove gli spiegarono come funzionava la discendenza divina su piano genetico, un affare che Lupa non aveva mai avuto interesse ne voglia di spiegargli, non che lui glielo avesse chiesto, sia chiaro. Gli avevano detto che tecnicamente lui non aveva metà patrimonio genetico, che se gli avessero fatto delle analisi non sarebbe risultato nulla di soprannaturale e divino, e non perché i mortali non potevano vedere oltre la foschia e tutte quelle puttanate li, ma semplicemente perché non ne aveva, non c'era traccia divina in lui così come in nessuno dei suoi sedicenti fratelli o dei miglia di poveri sfigati nati come lui con la santa spada di Damocle sul collo. Si metta in chiaro un altro punto, Dakota era felicissimo di essere nato e venuto al mondo, solo avrebbe preferito di gran lunga che suo padre se lo tenesse nei pantaloni e che lasciasse il problema “inseminazione” a un povero cristo a caso. Essere semidei era una grandissima rottura di coglioni oltre che una fregatura, ma poteva conviverci, poteva vivere tutta la sua gioventù nel disperato tentativo di sopravvivere ed imparare a difendersi, poteva andare in missioni suicide al limite della stupidità solo perché durante la sua ultima sessione di birdwatching Minerva si era scordata il binocolo sull'albero su cui stava appollaiata, ma che poi nessuno s'azzardasse a riprenderlo se faceva battute sconvenienti sul fatto che una dea vergine amasse osservare gli uccelli di nascosto. Poteva anche marciare al passo dei tamburi, poteva costruire le armi per i Giochi di Guerra, vedere le altre Coorti prendere per il culo a quinta ma tacere di colpo quando Jason gli passava davanti con la sua stola da pretore. Poteva accettare di sentire gli sproloqui di Ottavian che squartava orsetti di stoffa con quello sguardo da folle omicida che sembrava dirti “attento a come parli che la prossima volta uso te come vittima sacrificale”. Poteva accettare Reyna che quasi li schifava quando li trovava a ridere e scherzare come dei normalissimi ragazzi la sera alle terme. Poteva sopportare tutto questo al fianco di tutti quei ragazzi che avevano il suo stesso destino marchiato a fuoco assieme all'aquila romana e gli anni della loro permanenza nell'arme, consapevole che doveva solo stringere i denti e tirare avanti, che prima o poi sarebbe diventato grande e sarebbe potuto andare al college di Nuova Roma e vivere davvero come un ragazzo normale. Poteva davvero sopportare tutto in nome di quella meta, anche l'esistenza di un campo di Greci, non gliene fregava un cazzo di quegli altri sfigati tanto quanto lo erano loro, ma non poteva sopportare come questi vivessero.
Gwen gli aveva battuto una mano sulla spalla e gli aveva detto di non rosicare, che loro le grane le avrebbero avute dopo, quando sarebbero usciti dal Campo Mezzosangue e non avrebbero avuto un posto sicuro come Nuova Roma era per loro, ma non era servito a nulla, non gli aveva tolto quel sapore acido dalla bocca ogni volta che ripensava a come lui avesse vissuto la sua infanzia, agli allenamenti di Lupa, alle cicatrici d'artiglio che si sarebbe tenuto per tutta la vita, mentre quei ragazzini venivano addirittura cercati e scortati al Campo per garantire la loro sicurezza, non come loro semidei romani, che venivano mandati da una dea antica e letteralmente animalesca che li cresceva come i suoi cuccioli e poi li spingeva fuori, nel mondo, nel pericolo, senza neanche dirgli buona fortuna. Il problema del riconoscimento, poi, era comune a tutti, solo che lì, dai Greci, venivano addirittura riuniti per “famiglia”, vivevi con i tuoi fratelli, con gli animi più affini ai tuoi, non con chi ti capitava in Coorte, e ben presto Dakota aveva capito che non sempre quell'anima pia che ti faceva da garante per introdurti nella sua Coorte era il prototipo di tutti i suoi residenti. Loro passavano il giorno ad allenarsi e la notte a pattugliare il perimetro, i greci, se gli andava, seguivano le lezioni al campo o si facevano i beneamati affari loro, coltivavano le fragole e si facevano scherzi cretini, la cosa più pericolosa era il muro di lava, le corse con le bighe le avevano eliminate perché troppo cruente, la caccia alla bandiera consisteva nell'entrare nel bosco e cercare un pezzo di stoffa, e che i suoi amici dicessero quel che volevano ma no, No, non era minimamente come i loro Giochi di Guerra, non dovevi star attento ai proiettili delle catapulte, non era il campo di prova su cui si vedevano le tue capacità e si assegnavano gradi nell'esercito, non era il luogo dove avresti potuto portare alla vittoria la tua Coorte o ricoprirla di vergogna, loro si giocavano i turni alle docce. E che andassero tutti al Tartaro, i romani avevano le terme, erano anche più progrediti, cazzo.
Oh, ma i poveri Greci si sono scontrati contro Crono in persona, poverini, con l'aiuto delle Cacciatrici e quello di un esercito di morti viventi, poveri cuccioli, chissà come dev'essere stato terribile vedersi ringraziare dagli Dei stessi, salire sull'Olimpo.
Erano davvero molti i motivi per cui Dakota odiava i greci, davvero parecchi, ma se fosse stato sincero con se stesso avrebbe saputo dire a primo colpo cosa gli pesava di più.
Mr D.
Che era il loro Dioniso e il suo Bacco.
Suo, che parolone.
Dakota non aveva mai visto suo padre, lo aveva solo messo al mondo e poi si era disinteressato di tutto, comparendo a mala pena per riconoscerlo, che poi, lo sapevano tutti che se non fosse stato così bravo a far crescere tralci di viti e a confondere la gente il caro paparino non si sarebbe mai né reso conto che lui era suo figlio, né sprecato a riconoscerlo.
Vigliacco bastardo e pure fedifrago. Lo sapeva perfettamente perché c'aveva messo tanto, avrebbe dovuto ammettere a sua moglie, ancora un volta, che l'aveva tradita e che da quel tradimento c'era pure uscito qualcosa. Non aveva mia risposto a nessuna delle sue preghiere, non gli era mai apparso in sogno, però la gente pretendeva che lui lo rispettasse e venerasse, che gli facesse offerte, che pregasse per il suo favore in battaglia, che fosse fiero di essere suo figlio e che si impegnasse per rendere l'altro fiero di essere suo padre, ma se lo ricordava almeno?
Dakota sorrideva, lo faceva spesso, con fare canzonatorio, spensierato, divertito, anche senza motivo, mentre dentro di se si rodeva l'anima per ogni cosa, la follia di Bacco che gli faceva saltare i nervi al primo tocco, l'instabilità emotiva di un dio che giocava sull'ebrezza e che, paradossalmente, era la condizione in cui ragionava meglio.
Strinse la bottiglia che teneva tra le mani e chiuse gli occhi per prendere un respiro profondo. I Greci vivevano con suo padre praticamente, lo vedevano ogni giorno mentre lui non sapeva neanche come fosse fatto davvero. La rabbia gli bussò prepotente nel torace, prese un generoso sorso di vino e buttò la testa indietro, una delle colonne cadute del campo dei Giochi di Guerra a fungergli da appoggio, il cielo stellato e senza luna a fargli compagnia assieme ad una bottiglia di vino rosso. Okay, forse più di una.
Probabilmente di tutte le cose che riguardavano, rimandavano e concernevano suo padre, il nettare rosso dell'ebbrezza -ma anche bianco o rosato non gli faceva schifo- era l'unica cosa che amava senza riserve. L'alcol gli ottenebrava la mente, portandolo lontano dai problemi terreni ma rendendolo incredibilmente lucido e attivo su molti altri fronti, come quello dei suoi rimorsi, come l'autocommiserazione che provava nel ripetersi che era stupido essere invidiosi di altri semidei solo perché non avevano mai conosciuto la durezza dell'Impero, per correggersi subito dopo e dirsi che non gli importava, che avrebbe continuato ad odiarli, loro e la libertà del Campo Mezzosangue, loro e tutto quello che di bello avevano. Ma poi cos'era di bello? Cos'era la libertà? Una vocina gli suggerì che era quella cosa che avrebbe ottenuto arrivato ai diciotto anni, quando sarebbe entrato al college, ma un'altra gli sussurrava che ora quella fortuna l'avrebbero avuta anche i suoi cugini di NY, che ora loro avrebbero vissuto un'infanzia ed un'adolescenza tranquilla e blanda e che poi avrebbero anche potuto contare sulla protezione delle mura di Nuova Roma.
Si portò le mani tra i capelli e soffocò un grido di frustrazione, la testa che gli scoppiava divisa tra rabbia e risentimento, tra pena e rammarico, tra odio e sconforto. Gli Dei erano guariti dalla loro schizofrenia ma lui invece sembrava essere nel pieno della propria, muovendosi come un contorsionista tra le macerie di una guerra ed il dolore che aveva lasciato dietro di sé. Avevano perso così tanto, lottato tanto, se solo fossero stati uniti sin da subito, se solo non fosse stato per quella stupida, stupidissima statua di Minerva o di Atena o di quel che cazzo era.
Non controllò ancora la sua voce ed un lamento si alzò dai detriti, per un folle attimo gli parve che il suono si propagasse nelle bottiglie vuote, rimbombando ancora e ancora nell'eco infinito che era tipico delle conchiglie.
I Greci avevano la libertà, loro la protezione, non erano così diversi, avevano solo punti di forza opposti. No, loro avevano fin troppi vantaggi, quegli eroi, quei favori divini, gli Dei li preferivano a loro, ai Romani. Che si fottessero tutti, gli Dei avevano paura dei Romani, perché erano forti, perché non avevano bisogno della protezione divina, Roma si era conquista il proprio regno con il sudore ed il sangue dei suoi legionari, con le strategie e l'intelligenza dei suoi centurioni, con la forza e la leadership dei suoi Pretori e poi del suo Imperatore. Loro avevano soggiogato tutto il mondo antico, il più vasto dei regni, per proporzione e per forze possedute, per quel tempo, come nessuno sarebbe mai stato in grado di fare dopo. Avevano sconfitto i Greci, erano più forti di tutti. Erano pronti a tutto, al sacrificio, alle perdite, alle...
Gli venne da piangere, erano davvero così forti? Erano davvero così pronti a morire? Un singhiozzo gli squassò il petto, ingoiò l'aria che gli ferì la gola come un colpo di cannone, come una di quelle palle di fuoco che avevano sparato contro i semidei Greci, perché erano più forti, perché avevano ucciso ragazzi come loro? Perché sembrava tutto difficile? Perché era tutto così confuso?
La notte senza luna avrebbe dovuto calmargli i nervi, niente della forza bruta delle Baccanti avrebbe dovuto sfiorarlo ma la pazzia invece si era infilata nelle sue vene direttamente da quello stesso sangue che l'aveva generato, Bacco si era quietato assieme ai suoi fratelli ma solo ed unicamente per scaricare in lui la follia che per mesi l'aveva attanagliato? Era così confuso.
Allungò la mano tremante, tastando il terreno alla cieca sino ad incontrare qualcosa di liscio e freddo, il collo della bottiglia gli scivolò sotto le dita e Dakota si sbrigò a stapparla e berne tutto il contenuto, senza prendere fiato, tutto d'un colpo.
Dakota odiava tante cose di suo padre, dei Greci, odiava tutto ciò che invidiava e rimpiangeva in entrambi, ma il vino, quello sarebbe sempre stato la sua cosa preferita. Perché non era animato, non poteva giudicarti come uno sconosciuto, non ti guardava con rammarico come una amico, cercando di capirti e fallendo miseramente, non ti ignorava come tuo padre, era un oggetto inanimato che non si faceva un'opinione di te, che non gliene fregava nulla di chi eri e cosa avevi fatto, stava semplicemente lì, pronto a festeggiare con te i successi della vita e a farti dimenticare i suoi dolori annegando dentro di lui.
Così Dakota se ne stava sdraiato a terra, nella piana dei Giochi di Guerra, tra i ruderi e le impronte lasciate dai Giganti qualche tempo prima – quanto? Non lo ricordava più, non ricordava nulla- a bere una bottiglia dopo l'altra, per allontanare il dolore, per tenersi impegnato, per provarci ad andare avanti, per dimenticare.
Per dimenticare e basta.









Salve Lettore.
Siamo giunti alla fine di questa storia, i miei mezzi eroi sono tutti stati chiamati a raccolta e spero di avergli dato degna vita e degna interpretazione.
Grazie a chi ha letto uno, due o tutti i capitoli, a chi si è fermato, trovando il tempo per lasciare un commento e darmi quella piccola botta di autostima che nessuno mai disdegna e anche a chi non mi ha insultato per gli errori grammaticali che sicuramente sono disseminati per ogni capitolo, questa credo che sia la cosa più sentita.
Detto ciò, qui si chiude bottega,
Yo Lettore,
TCotD.



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