this tainted love you've given

di theuncommonreader
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Un regno per un altro ***
Capitolo 2: *** II. Le due volte in cui lo odiò ***
Capitolo 3: *** III. Il decimo giorno ***
Capitolo 4: *** IV. L'aquila e il serpente ***
Capitolo 5: *** V. Enodia ***
Capitolo 6: *** VI. La vecchiaia insegna ogni cosa ***
Capitolo 7: *** VII. Madri ***
Capitolo 8: *** VIII. Conoscere inizia col domandare ***
Capitolo 9: *** IX. La Fanciulla impossibile in cima al vulcano ***



Capitolo 1
*** I. Un regno per un altro ***


uno

PREMESSA

 

Questa storia a capitoli, formata inizialmente da drabble e flash scritte per la maggior parte in occasione dello stesso event, segue il filone narrativo del ratto di Persefone, focalizzandosi sul rapimento stesso, ma anche sugli avvenimenti precedenti e successivi. 

Si tratta di un'interpretazione personale ma non arbitraria, che si basa su quella orfica e su versioni meno note del mito, che vedono una Persefone non solo coinvolta nelle decisioni che riguardano il proprio destino (certo lo stesso guidato dai maschi della sua famiglia), e dunque partecipante attiva, se non organizzatrice, del rapimento da parte di Ade, ma anche in una relazione incestuosa col padre, Zeus, frutto della quale sono Dioniso Zagreo (la seconda incarnazione di Dioniso, secondo l'Orfismo) e Melinoe (che figura anche come figlia di due padri, Zeus Olimpio [lo Zeus canonico] e Zeus Ctonio [altro appellativo di Ade]). 

Nella versione del racconto più diffusa si parla di una profezia a Demetra che vede la figlia, all'epoca decisa a preservare la sua verginità nonostante il corteggiamento da parte di più di uno dei fratelli divini, rapita da uno sposo segreto - Zeus, appunto, che puntualmente la raggiunge nel nascondiglio dove Demetra l'ha condotta e, sottoforma di serpente, si unisce a lei in un rapporto descritto di solito come non consensuale.

Nello spirito di questo racconto, Persefone, o Kore, nella sua prima incarnazione, non gioca il ruolo della vittima di violenza da parte del padre, ma da lui viene sedotta; per quanto ingenua, è perfettamente consensiente e, nel suo particolare modo, "innamorata" del genitore; un innamoramento malato, ma derivato più dalle sue esperienze di vita, dalla sua psicologia in quel preciso momento del suo percorso che non da una manipolazione da parte di Zeus.

Date le tematiche delicate (che comunque ho segnalato negli avvertimenti) e sottolineando che le scene erotiche sono appena accennate, come da regolamento, mi pareva doveroso fare questa premessa: in alcun modo voglio esaltare l'incesto, che comunque è profondamente parte della cultura greca per quanto riguarda le divinità e che dunque non desidero eliminare, o minimizzare la portata stupro o le vittime di esso; semplicemente, punto a seguire un sentiero alternativo in cui KorePersefone non viene ridotta, come troppo spesso accade nel mito, all'oggetto delle mire di qualcuno, la figlia di qualcun altro, la moglie di un altro ancora, ma viene posta in una situazione contorta ma non privata di poteri decisionali; ugualmente, fictional o meno, questa raccolta non è un'apologia dello stupratore, poiché, per quanto è possibile restando nell'ottica del tempo, Zeus quanto Ade rispettano i desideri di KorePersefone interamente, dal punto di vista sessuale, e in quanto versione accettata, se non comune, nel mito, non ne segnalerò un OOC.   

Detto questo, per chi vorrò continuare a leggere, auguro a tutti una buona lettura.







this tainted love you've given








I.

u

regno 

per

un 

altro






 

Il ventre è appena arrotondato sotto le pieghe della veste – posandovi il palmo della mano, il seme d’Olimpo che lì ha gettato radici è poco più che la morbidezza di una carne già tenera. Le dita di Zeus lo prendono a coppa, si tendono per carezzarlo, e Kore, avvolta nell’abbraccio di Morfeo, non si oppone.

Zeus solleva lo sguardo sul viso chiaro di lei, abbandonato nel sonno come il suo corpo è abbandonato contro il proprio: ignaro, se non innocente. No, non più innocente: Zeus lo ha esplorato con le labbra, con le mani, con la lingua. Lo ha avviluppato nelle proprie spire, lo ha iniziato alle gioie che, sciocca bambina, Kore aveva voluto precludersi per  amore di Demetra e dei suoi capricciosi puntigli.

Kore è un fiore che lui ha fatto sbocciare, che presto darà il suo frutto profumato come i suoi capelli, fragrante come la sua pelle, succoso come il sapore del sudore che si raccoglie sotto i piccoli seni quando la imporpora un’eccitazione che neppure fa passare per vergogna.

Deve essere quella schiettezza, a farlo impazzire, quella incrollabile fedeltà a se stessa: Kore è mutevole come un temporale, ma vibra e sfavilla come i suoi fulmini in ogni sfumatura di sé.

Le dita risalgono sul petto coperto di ruvida stoffa, lo carezzano, esitano a lasciare andare quella tenerezza – ma deve.

Piano, prende un respiro tra le ciocche quasi bianche dei capelli di lei, sciolte sul pagliericcio che accoglie i loro amplessi nella loro tana di serpente.[1]

Quando può tenerla contro di sé a questo modo, la figlia dagli occhi gemelli dei propri, Zeus darebbe l’Olimpo per gli Inferi – un’eternità lontani da Demetra, lontano dagli artigli rapaci di Era.  

(Ma sarà Kore a dover far quello scambio, e lui a lasciarla andare.)



NOTE:

[1]:  Secondo il mito, Zeus si sarebbe presentato nella grotta dove Kore si era rifugiata, dopo la profezia a Demetra, sotto le spoglie di un serpente.

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Capitolo 2
*** II. Le due volte in cui lo odiò ***


II.

le due volte

in cui lo 

odiò






 

Kore non riesce a confessarlo.

Non a sua madre, che tanto ha fatto per tenerla al sicuro dai maschi e dalle loro voglie; non ad Artemide, non ad Atena, che hanno ripudiato Afrodite e le sue arti, e considerano ogni manifestazione dell’amore un insulto alla loro castità tanto gelosamente custodita.

E' facile ripetersi, sdraiata nel kliné, una mano sul ventre la cui rotondità si fa sempre più ardua da nascondere sotto la veste, che deve dar prova di coraggio, di spirito di iniziativa. Facile, quando le pelli coprono le conseguenze di quanto sul momento, ora perduto e così sbagliato, è parso inevitabile come il cadere della pioggia, il roboare dei fulmini.

Eppure, quando l'occasione è quella giusta, e le ancelle tacciono, e Demetra la stringe al petto generoso coprendola di amorose carezze, le frasi che le escono dalla gola, solo abbozzi strozzati, sono sempre quelle sbagliate.

Quando Artemide si presenta col suo seguito di vergini, invitandola a tornare a correre nell’ebrezza della caccia, o Atena la invita a visitare il palazzo che i suoi supplici hanno eretto per lei di recente nella città col suo stesso nome [1], Kore non ha da offrire che dinieghi e scuse affrettate.

Ad ogni giro sulla volta celeste del carro di Helios, il fardello nel ventre si fa più grande e pesante e quello nel cuore la schiaccia come un macigno. Siede, una mano sulla curva appena accennata, fissando le onde del mare che lambiscono la soffice spiaggia sabbiosa.

L’unica a cui potrebbe affidare il peso di quel segreto dalle ore contate non c’è, inghiottita da chi raramente sputa fuori, delle vittime, persino la buccia. Erebo è un mistero, per Kore come per la maggior parte degli Olimpi, ma v’è poco da dubitare che Leucippe[1], la sua cara Leuce, vi rimarrà: l’oceano di terra si è chiuso sopra di lei come le fauci di una bestia affamata.

La desolazione nella voce di sua madre, quando le ha raccontato del rapimento, riecheggia in Kore come l’eco in un antro vuoto.

Non ha mai incontrato quel fratello di Demetra, quello zio che ha scelto di farsi seppellire tra le ricchezze nel ventre della terra, e ben pochi pensieri gli ha dedicato nel corso della sua esistenza; ora che ha condotto Leuce ben oltre la portata della sua mano, però, l’indifferenza ha preso a trasformarsi in un odio quieto, sopito, ma pronto a morderla.


La pancia è grossa come certi frutti dolci dalla scorza dura, verde cupo, quando la notizia giunge volando sulla scia dei sandali di Hermes. È sola, in quei giorni, lontana da sorelle e compagne. Tanto sola che persino la voce le è diventata superflua; ogni pensiero sembra vivere e morire con la creatura nel ventre, così grande, così scomoda nello spazio angusto.

Celata agli occhi del mondo, è facile chiudere anche le orecchie; ma quando Ecate porta l’annuncio funesto avvolto nella sporta coi doni di sua madre, lo sgomento coglie Kore come la colgono le doglie.

Leuce è un pioppo bianco sulle rive di un fiume infernale; Leuce non è più.

E mentre, accucciata, si contorce per aprirsi e diventare la porta sulla vita per il figlio che porta in grembo, a denti stretti, le dita seppellite nella pelle tenera dell’avambraccio di Ecate, Kore lascia che le spire dell’odio l’avvolgano senza rimpianti, e senza rimpianti tra le lacrime e il sudore invoca l’Invisibile, maledicendo il suo nome.



NOTE:

[1]:  Ho immaginato un palazzo di Atena che sorga nel sito dell'odierno Partenone (a sua volta eretto dopo la distruzione del tempio di Atena Poliàs nel 480 a.C).

[2]: Altro nome di Leuce.

                                                

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Capitolo 3
*** III. Il decimo giorno ***


tre
III.

Il decimo 

giorno






Il decimo giorno. [1]

Il fanciullo senza nome si libera in parte dalla costrizione delle fasce, agitando le gambe rosee. Kore segue la linea soffice di un minuscolo tallone, quella morbida del calcagno, con la punta di un dito.

Stringe il fardello caldo e palpitante contro il seno gonfio di latte, accosta i petali grinzosi delle labbra affamate al capezzolo e sorride una smorfia di pianto quando esse si chiudono, una morsa dolce attorno alla carne sensibile.

« Piano, zagreo… » redarguisce senz’astio, solleticando la tenera pianta di un piedino nudo. [2]

« Un nome importante. » [3]

Non lo ha sentito arrivare, ma Ecate, accucciata lì accanto, solleva il muso canino dal suolo polveroso, orecchie sensibili di bestia tese. La gola di Kore si chiude, strozza un verso di tormento ed estasi. All’ombra della palma [4], la distesa placida del mare verde-blu rumoreggia quieta come i loro respiri, il succhiare di Zagreo e il tamburo del proprio cuore.

Zeus posa lo sguardo di nuvola sul fanciullo che, irrispettoso, gli preferisce la poppa; ma Zeus Olimpio non la prende a male: sotto la barba, le labbra carnose si curvano ed egli sorride (sorride quando è gentile, sorride quando è crudele). « Figlia mia » la saluta, paterno, riempendo la distanza tra loro, baciandole la fronte salata di salsedine e sudore. « Mia amata »   e Kore si assaggia sulla bocca di lui, si succhia dalla sua lingua.

Ecate si alza, guarda, va. Zeus prende il suo posto, contro il tronco, e la sabbia fresca lo accoglie come il grembo di una madre; Kore, nel lasciarsi abbracciare, è meno certa.

Senza fretta, Zeus denuda del tutto il corpo del figlio dal lino delle fasce, esplorandolo nei suoi anfratti col compiacimento negli occhi - quelli di Kore, appresso, un’ombra: assieme, risalgono dai piedi alle cosce paffute, il minuscolo fallo tra di esse (Zeus si abbandona a un sorriso più largo); il profilo del torace, il braccio sollevato perché un palmo minuto possa riposarle sul seno in un gesto di possesso.

A fatica Kore è capace di staccarsi da tanta perfetta simmetria; ma le grandi mani di Zeus si allungano per accogliere il fanciullo tra loro, senza riguardo per la creatura affamata che, in cambio caccia un ruggito di protesta, graffiandole le orecchie.

« Dioniso », [5] mormora Zeus, come basso è il mormorare lontano dei fulmini quando spira aria di tempesta; ma è la sorpresa che la coglie alla meraviglia nel tono, quasi non abbia altra creatura al mondo, Zeus Keruranio [6], che possa chiamare frutto dei suoi lombi.

(Fugace, si domanda se una volta era lei, al sicuro nella coppa di quelle mani, ancora calda del ventre di Demetra; se lei sia più che la copia pallida di sua madre, il fantasma di carne di quel tempo passato.)

Il sorriso si attenua, sul volto di lui. «Ma Zagreo sarà il suo nome », decreta, e Kore assottiglia occhi e labbra, perché non le sfugge la ragione, e sotto la maschera di pelle e sale bianco, la prudenza soffoca a fatica l’urlo dell’ira. Tace, complice in quel delitto, ma le dita pugnalano la sabbia umida e scura, affondano come lame di daga.

« Le cime d’Acaia [7] gli faranno da culla, le sue bestie, da insegnanti. »

Non la terra del padre [8]; l’Acaia. Foreste di selce e ossidiana per celarlo dagli occhi di Era; un mare a strapparlo a sua madre. Kore guarda suo figlio, i piedi nudi puntati contro le dita di Zeus, e inizia a dire addio.

« E di me che ne sarà? », chiede, quando è certa che la voce non tremerà dal caldo e dal freddo che dentro la scorticano. « C'è grotta abbastanza remota, quale luogo abbastanza lontano dagli artigli di Era ? »

« A ciascuno di noi è richiesto un tributo, Fanciulla. ».

Fanciulla. Persino pronunciando il suo nome egli mente, perché anche quello gli ha offerto in sacrificio. Kore si alza a fatica, e per la prima volta, una sola, lo sovrasta; e la vampa della collera si fa solo più alta alla vista della creatura addormentata che egli si stringe al petto.

« Mi domando quale sia il tuo, padre », sibila, poiché anche lei sa essere un serpente, e si sente avvelenare, « Oltre a quello che ti sei scelto.» Se ha provato mai compassione per Zeus, in passato, o per la moglie-prigione che si era imposto, ora gliela augura, come si augurano le pestilenze.

Le guance di lui si fanno porpora, e la imita scattando in piedi, incombente su di lei quanto la montagna innevata da cui prende il nome.

« Rinunciare a te, sciocca ragazza, è il mio prezzo da pagare. » Il tuonare della voce pare nascergli dal ventre e rimbomba nell’infinitesimale intervallo tra il rollare di un’onda e l’altra. Lo sguardo di Kore corre a Zagreo – che però pare troppo allettato dal sonno per lasciarsi tentare da un brusco risveglio. Torna dunque a Zeus, e specchiano gli occhi negli occhi, e il silenzio si gonfia tra loro come una vescica – scoppia in una falcata rapida, in un bacio purulento che lascia icore e amarezza sulle loro labbra.

 «Ma ciascuno di noi ha un posto, nell’ordine delle cose; è tempo che tu reclami il tuo », [9] sussurra contro di esse, e Kore lo detesta, questa creatura così imponente, così mutevole, ora padre, ora amante, che pretende da lei che sia egualmente cangiante.

Altrettanto fieramente, lo ama.

Gli addii sono muti; un’ultima volta li divora, padre e figlio, mentre assieme raggiungono il cocchio di Zeus, oro sul verde della macchia erbosa che scurisce sul biancore della sabbia.  

« Uno sposo verrà a reclamarti, in segreto. » La voce di Zeus è un conato di bile, neppure un ordine, ma un fatto della vita.

Kore pensa a Demetra, che, in Trinacria [10], regge il gioco delle apparenze. Se la figura, ansiosa che lei torni a presiedere con lei ai riti, a correre tra le ninfe di Artemide, una qualunque al suo seguito; a coglier fiori con Atena e la cara Ciane.

La sua tenera madre, che non si rende conto che Kore è persa, ed è sola a doversi ritrovare; che quanto i Cronidi sottraggono non può esser restituito né sostituito.[11]

« Attendi. Sarà cosa buona per tutti », continua Zeus, e se vuol convincere di ciò anche se stesso, lo cela abilmente. Monta agile sul cocchio, Zagreo al sicuro contro il petto imponente. Kore è in più pezzi di quanti possa contare, e non c’è replica giusta che non sia il silenzio.

Eppure, egli esita, si attarda. Stringe le redini, si imbianca le nocche.

« La vita attecchisce nelle terre più aride, e certi fiori sbocciano persino sulla sabbia. Così farai tu»

Poi, con uno schiocco di briglie, le strappa via il cuore.



Più tardi accanto a lei giunge Ecate, ancora una cagna nera come i tori di Creta. Avvicina il muso, e Kore la cerca con le braccia vuote, che disperatamente desiderano qualcosa da stringere nel loro cerchio desolato. Helios dal mare punta l’occhio su di loro, accaldando il suo corpo senza poter scioglierne il ghiaccio tra muscoli e pelle.

Inginocchiata sulla sabbia bianca, Kore immerge il viso contro il collo di Ecate, e all’odore muschiato di quanto ora non più è pelliccia ma pelle, fonde il sale di sudore e lacrime.




NOTE:

[1]: Al decimo giorno dal parto, nell'Antica Grecia avveniva il riconoscimento del bambino da parte del padre.

[2]: Uno dei significati del nome Zagreo, letteralmente "a piedi nudi".

[3]: Il secondo significato del nome Zagreo, letteralmente "grande cacciatore".

[4]: Albero che protegge le partorienti e le giovani madri.

[5]: Letteralmente "figlio di Zeus".

[6] : Un attributo di Zeus.

[7]: Una regione prevalentemente montuosa del Peloponneso.

[8]: Una volta sfuggito a Crono, Zeus venne allevato a Creta.

[9]: Una vaga citazione da Mulan.

[10]: Antica denominazione della Sicilia derivata dalla forma triangolare dell'isola.

[11]:  Intende, tra le altre cose, il rapimento di Leuce.

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Capitolo 4
*** IV. L'aquila e il serpente ***


quattro

IV.

L'aquila 

il serpente







Un mare grigio separa cielo e terra, dalle soffici onde che si infrangono senza suono sulle cime d’Olimpo.

L’odore umido della pioggia attraversa la finestra e aleggia nella stanza, mescolandosi alla fragranza penetrante dei fiori di loto [1]. Distrattamente, Zeus strofina una ciocca scura sul morbido candore del braccio di Era che, disturbata nel sonno, gli dà le spalle, strappandogli via il lenzuolo.

Abbassa le palpebre sugli occhi ancora appesantiti dal bacio di Morfeo, tendendo l’orecchio per cogliere il frusciare sussurrato dell’acqua – Kore che gli parla senza parole.

Curioso fatto, nessuna lamentela gli è giunta all’orecchio per quell’interminabile rovescio primaverile. Helios, pigramente sospeso sui i loro capi, e così affannato a insinuare l’occhio luminoso negli affari mortali, non ha fatto motto sulla cortina di nubi che gli blocca lo sguardo; né i Gemelli [3], tanto ligi al dovere, levano le voci per reclamare i loro diritti sulla Volta Celeste. Gea, sempre pronta a lagnarsi di questo e di quello, non dà segno di ribellione e lascia che le gocce sciolgano il cappuccio nevoso e bagnino il viso, bevendo con la gola spalancata.

È tiepida, la Primavera, riporta Hermes, di ritorno dai suoi viaggi fra Cielo e Terra, ma la pioggia è gelida – e c’è qualcosa di pacato, nel suo tono, scevro dal solito canzonare.

Impossibile dire quanto ancora durerà tanta mitezza dalla sua stirpe polemica. È bene godersi quel temporaneo dono di Eirene, quella quiete intorpidita e intorpidente quanto il profumo ritrovato degli abbracci di Era. [4]

Zeus costringe un sospiro tra le labbra serrate, aprendo gli occhi lentamente. La vista per un attimo annebbiata, pure distingue i contorni della figura ritta di fronte al klinè. Rapide sbattono le palpebre e Zeus si alza a sedere, sicuro che non si tratti di un’illusione; i muscoli, sotto la pelle, si tendono impercettibilmente, e non si sforza di celare l’espressione irritata mentre, il più silenzioso possibile, abbandona il letto senza voltarsi, sperando nel sonno pesante di Era e certo di venire seguito.

Oltre le porte del tàlamo, cerca i figli di Styx senza trovare traccia dei loro capi biondi ma inghiotte lo sdegno - c’è tanto tempo per pensare a una punizione adeguata – e si volta, schiaffeggiandola con la propria nudità.

« Dov’è il fanciullo? » 

Le braccia a croce sul petto generoso, gli occhi di Demetra sono le zanne snudate di un serpente, pronti ad affondare e mordere. Non lasciano i propri, e in essi, seppur così diversi dal liquido sguardo di Era, arde la medesima collera.

Zeus pensa, in fretta.

« Ovunque io desideri che egli sia », replica, poiché non c’è gentilezza che possa ammansire quella sorella sfuggente – la più affine a Gea per indole e temperamento.

« Deve stare con sua madre », è la risposta secca, il viso brunito, increspato, pulsante di icore. « Bella considerazione le hai offerto sinora, e protezione alcuna contro i pericoli del mondo. Non contento, le sottrai l’unica consolazione dall’oltraggio che ha dovuto subire.»

Non imbraccia più l’arco, Demetra, o la lancia, ma l’aratro; non guida agili cavalli alla battaglia, ma pigri buoi nei campi. Eppure, ancora gli si ribella, fiera come quando non copriva ancora il bel corpo di panni da graia… [5] e irrispettosa, come una sposa mai sarebbe potuta essere.

« Ho ben considerato il destino di mia figlia e così ha fatto lei, con una saggezza ben maggiore di quanto tu dimostri, Demetra.» Il tono duro, di rimprovero. Ha domato Gea, domerà anche Demetra - per volere o per forza. Che però si avvicina, il mento sollevato, gli occhi fissi nei suoi in atto di pura sfida.

« Ci ho pensato, invece, amato fratello L’ultima parola è una stilettata familiare. « E, a mio giudizio, il tuo prezioso onore di padre vale nulla contro la felicità della mia sola bambina. Ma hai ragione: come potresti capire, tu, che ti riproduci con la voracità di una fiera in primavera? »

Le guance di Zeus si imporporano di sdegno, le dita gli tremano dal desiderio di ghermirla e scrollarle via l'insania dalla mente: è il suo re, se davvero non lo considera più un fratello (o un amante). Non è creatura che trattenga gli appetiti o dalle tentazioni; dunque la afferra per le braccia, affondando i polpastrelli nella carne morbida, nella pelle calda (quanto la ricordava. Quanto quella di Kore).

« Silenzio! », intima secco, sibilando come una serpe, gli occhi assottigliati dall’indignazione. « E’ qui che ti inganni: nel pensare che il tuo giudizio abbia qualche peso paragonato al mio! Il bambino crescerà al sicuro, lontano da occhi indiscreti; Kore riprenderà la sua vita, lontana abbastanza da non rappresentare tentazioni per noialtri. Che altro vuoi di più da me, dea? Già troppa magnanimità di ho dimostrato in passato, permettendoti di vivere tra i mortali come una ninfa qualsiasi! » 

La sta scrollando, ora, ma Demetra non demorde né si divincola. Non v’è timore nel suo sguardo, e le guance di Zeus si arrossano di più, e la rabbia suona la sua lingua come uno strumento.

« Kore è una figlia più devota di quanto mai tu sarai sorella, e sa bene quale sia il suo posto; è ora che impari quale è il tuo! »

Una strana sensazione lo attanaglia, e pure se è Demetra che le sue mani stringono, quasi gli pare di avere di nuovo la cedevole forma di Kore tanto vicina – che gli manca, quasi avesse dato via un pezzo di sé abbandonandola. La pioggia scorre sotto di loro, attorno a loro, senza spegnere la sua ira, ma macchiandola di malinconia acre.

« Tu scambi l’impotenza per consenso! », replica Demetra, per nulla placata. « Che consenso può esserci di fronte a suo padre, di fronte al suo re? Noi tutti dobbiamo piegarci al tuo arbitrio, e, quando è scomodo per te dare un giudizio, tanto felicemente ci abbandoni nelle mani di chi è sotto di te, sotto di noi, persino! Ma no, non io, e non mia figlia. »

« Sarebbe potuta andare in modo diverso, per te, se in passato avessi fatto scelte più savie. »

La risata di lei è bassa, e gelata. « E finire al posto di Era, a procreare i tuoi eredi e subire i tuoi tradimenti? Preferire, come avrei preferito allora, l’Averno! »

È vicinissima, ora, e i loro respiri si mescolano, concitati in quella battaglia sussurrata. « Non il mare, Demetra? », domanda, poiché sa come ferire.

Se l’espressione di lei si vela, è solo un attimo; un lieve tremolare di labbra, di nuovo in una dritta linea coraggiosa.

Il capo di Zeus duole, quanto doleva quando Atena premeva per uscirvi; dimentica Era, nell’altra stanza, e ogni prudenza – e si china, preme la bocca contro quella di lei, assetato, la pioggia ancora nelle orecchie.

Non è come baciare Kore.

Non c’è bisogno affamato, in Demetra; i denti di lei affondano nelle sue labbra, ma Zeus non la lascia, la preme contro di sé: perché ha goduto, ad averlo dentro, una volta; perché è bene che ricordi che è stata debole, al suo cospetto, che gli si è offerta; perché l’abbraccio di Era è tanto distante – e Kore tanto presente.

Gli pare che ceda, Demetra; e appena ha tempo per un folle gioire, che quella lo batte, imprimendo l’ombra delle dita sulla sua grancia, sullo zigomo.

Lo stupore lo fa sussultare – e sua sorella gli sfugge, rapida, sguscia via.

« Sai ancora di lei », gli sputa tra i denti. Disgustata. Ma, subito, si riprende « Fai dunque come credi, divino Zeus.»  Nello sguardo, una dichiarazione di guerra. « Chiniamo il capo ai tuoi ordini. »

La mente di Zeus sta tornando sua, scivolando dalla stretta della rabbia; guarda Demetra, per un attimo ancora confuso – la lascia andare, come quella prima volta, tanto tempo fa. Come allora, fissa l’orlo del suo abito finché non sparisce, ed è solo, di nuovo. Di nuovo in controllo di sé.

Non ha che un attimo di requie, tuttavia: bianche braccia serpeggiano attorno ai suoi fianchi nudi; il calore di un corpo contro la schiena, l’odore dei fiori di loto.

« Dove sono i figli di Styx? », domanda Era, la voce bassa del primo mattino, rauca come quella di un gatto. Zeus scuote il capo, lesto a riprendersi, a posare le mani enormi su quelle piccole di lei, e carezzarle.

Non riceve che un cenno vago, in risposta, ma se lo trova curioso, lo tiene per sé.

« Cosa fai già alzato, caro sposo? » chiede allora, e si districa, per andargli di fronte; lo osserva, liquida, placida, e non ha bisogno di parole. “Ah… il solito mal di capo. Vieni, vieni a sdraiarti. » Allaccia un braccio al suo, sollecita. Zeus non si lascia guidare, ma la scruta dietro il sorriso rassegnato.

« Temo, con mio grande cordoglio, di doverti lasciare ora, mia amata. » Una vaga nausea gli chiude la bocca dello stomaco; nonostante ciò, le carezza la chioma scura, libera. « Il mio mattino, purtroppo, sarà piuttosto pieno. »

E intenso.

Si lecca le labbra, con discrezione, prima di chinarsi a baciare in scusa quelle di Era: il sapore suo e di Demetra si mischiano, nella sua bocca.

Si è concesso sin troppo tempo. Aquila e drago non possono coesistere: nessuno può vivere, se l’altro sopravvive. [6] 


NOTE:

[1]: Fiore sacro ad Era, in quanto simbolo di primavera e rinascita. 

[2]: In quanto personificazione della primavera, ho pensato che Kore controlli la stagione anche dal punto di vista climatico, e dunque possa comunicare attraverso la pioggia con Zeus, che di essa è la divinità.

[3]: Apollo e Artemide.

[4]: In alcune varietà, il loto non solo ha un profumo stordente, ma anche proprietà soporifere.

[5]: Letteralmente, "vecchia". Le Graie sono divinità nate coi volti di donne anziane e le chiome canute.

[6]: Una storica citazione da Harry Potter: Il prigioniero di Azkaban, di J.K. Rowling.

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Capitolo 5
*** V. Enodia ***


cinque

V.

Enodia






Lo sguardo si perde, scivola sulla vasta distesa di terra [1] – solo stringendo gli occhi le arriva il ritmico moto delle onde;  la soffice, liquida barriera di nembi e pioggia che cela la Sposa al Cielo [2] e a chi lo abita si congiunge  con la distesa del mare, troppo lontano per coglierne il sale nell'aria umida.

Leuce aborrirebbe quella prigione di roccia, le strangolerebbe in gola il respiro; e Kore, l’odierebbe anche lei, in un presente diverso – una diversa svolta degli eventi che le vedesse ancora assieme, le braccia intrecciate, a incoraggiarsi a vicenda a portare pazienza; a sussurrare, per consolarsi, di un giorno in cui a Kore saranno concesse le libertà di Artemide e Atena.

Accade che improvvisi lampi di lucidità penetrino la nebbia in cui s’è avvolta, in cui soffoca le voci dei supplici che premono per sfondare la barriera del silenzio; allora, Kore immagina di poter tornare a quel tempo, quando ancora non aveva incrociato lo sguardo di Zeus e trovatovi se stessa  quando non gli aveva ancora concesso più di quanto una figlia dovrebbe.

Alle sue spalle, il tàlamo è quieto.

Il chiacchiericcio delle ancelle nei suoi quartieri la sfianca. Benedice e maledice in egual misura l’assenza di Demetra, che gliene sottrae la metà; è grata che quelle che restano si siano arrese a relegarsi nel gineceo senza più cercare di avvicinarla.

Ha tentato di interessarsi a loro, di interessarsi al palazzo intero, ma non riesce a curarsene; ha perso il conto dei giri di Helios sulla volta del cielo e le ore cadono interminabili quanto la pioggia.

La stanza di Demetra è il perfetto nascondiglio. Osserva il mondo, non vista, e quando la veglia, infine, la esaspera, si trascina nel kliné della madre. Sul lenzuolo, aleggia ancora il suo profumo.

Ma non può aiutarla Demetra, da viva, più di quanto Leuce possa farlo da morta.

 Si tocca il ventre vuoto, si stringe nell’himation. [3]

Pensa a Zagreo, tra i monti. Nel cerchio amoroso delle braccia di qualche ninfa, magari. Oscilla: vuol gettarsi ai piedi di quella ninfa, baciare la terra dove cammina e seminarle dietro una scia di fiori a profumarle la via; vuol stringere le dita attorno al suo esile collo, e spegnerne l’anelito di vita  volente o nolente, si gode ciò che è suo: lo vedrà crescere, camminare, correre.

La pioggia, aldilà della finestra, si fa più intensa.

Solleva gli occhi,  li punta in alto; cerca segni del cocchio, dei draghi che lo tirano, sinuosi, di un biondo diverso dalle dita di Helios; inutilmente, lo sa, ma ha imparato a preferire la paralisi dell’attesa al futuro sterile che le succede.

Guarda, dunque, e non si cura dello scricchiolare bagnato contro il pavimento. L’odore di cuoio, di umido, le invade le narici, annunciandole la nuova venuta ben prima che quella la chiami.

Non si allarma, ma i muscoli si fanno più duri della pietra che la accoglie.

« Despoine [4]. »

 Girarsi a guardarla è arduo, ma Kore volta il viso a fatica, contro volontà.

Gocce di pioggia rotolano sulle guance lisce di Ecate - il chitone corto, i calzari da caccia che ancora indossa lordi di fango; la schiena dritta sotto il peso di arco e faretra, le membra composte nell’immobilità del predatore.

Kore si costringe a incrociarne, a sostenerne lo sguardo mutevole.

Che non lascia scampo.

 « Angelos. [5] Ti ascolto. »

Avanza, Ecate, e non si inchina.

« Ti porto lamenti da cielo e da terra. Helios domanda accesso ai mortali, Nefele [6] chiede riposo. Hai dissetato la Terra; ora la ubriachi, e i semi marciscono nel ventre materno. I fiumi si ingrossano, e le bestie stremate sono inghiottite dai flutti. La Cacciatrice non caccia, e il Signore di Erebo leva lo sguardo verso l’alto e domanda. »

« Erebo...?» domanda, e non prova timore nel pronunciare quel nome. La tensione si fa acida, tra le sue labbra. « Cosa importa, all’Invisibile, se fuori tuona e da qualche parte piove? »

Le emozioni cangiano negli occhi di Ecate come una fiamma, e come una fiamma, Kore non riesce ad afferrarli.

« Con le tue lacrime anneghi i tuoi figli, e affolli i suoi banchi anzitempo, e oltre misura. Distruggi quell’Ordine che tanto gli preme. »

« Tanto preme, l’Ordine, ai figli di Crono, eppure quanto è facile per loro disdegnarlo a convenienza. »

Kore salta in piedi, lascia cadere l’himation sulla pietra calda del suo corpo gelato. La rabbia si accende dalla sommità del capo, scende sul volto contratto rendendolo porpora, si chiude sui pugni stretti nello sdegno.

« Forse che è Cosmos [7] rapire una figlia di Oceano alle sue rive, e trascinarla in un regno a cui non appartiene? Quante remore si è fatto, Zeus Ctonio [8], Signore degli Inferi, quando si è trattato delle faccende sue? Non abbastanza, e così mio padre, l’Olimpio [9] : forse pensava al Cosmos mentre giaceva con la sua stessa figlia, concepiva con lei e poi le strappava quel seme che appena ha gettato radici per trapiantarlo tra le braccia delle montagne? »

Sibila, Kore, e, nel sibilare, spruzza veleno e lacrime. Fuori, la pioggia bussa sulla pietra, e un lampo attraversa il muro di nubi.

Il volto di Ecate non si adombra; lo sguardo, fermo e impazzito assieme, non concede terreno.

« Qualunque cosa accada, è un tassello nel mosaico del Fato. Persino quando dal Cosmos sconfina nel Caos. »  

Alla prima occhiata, pare impossibile che quella creatura sia tanto più antica di sua madre, persino per la loro razza. Finché non si inciampa nei suoi occhi e non se ne rimane consumati. Ma Kore arde di collera anche lei. Si rifiuta di lasciarsi rabbonire da quel bel parlare che tanto le ricorda Zeus.

« Dimmi del Fato, dunque, Ecate. Rivelami il mio, tu che tutto sai e nulla dici. »

Kore è consapevole che è lo sfogo di una bambina, quello, il pianto dirotto che la sferza, oltre la finestra scuote le foglie sulle chiome degli alberi. Non ha colpa, Ecate, delle loro scelte sbagliate, non ha colpa di dover mantenere il silenzio; ma su qualcuno deve rovesciare la rabbia che suppura, sotto la pelle, che gonfia la mente di umori infetti.

« Parlami, figlia di Perse », soffia, le guance fredde di dolore e calde di vergogna sotto quegli occhi di fuoco.

Si domanda cosa vedano: forse, la bambina verso cui tanto più affetto dimostrava un tempo; forse la creatura urlante che ha aiutato a sgravarsi, paonazza e pulsante di vita; forse, la bestia che, aggrappata al suo collo, lo ha inzuppato di lacrime.

Ecate abbandona contro la parete arco e faretra; si fa vicina, le preme una mano sulla sua spalla e, con delicatezza, la costringe a sedersi sulla pietra dura oltre la barriera dell’himation, occupando il posto vuoto - di Demetra, di Leuce - accanto a lei. Subito, toglie la mano; se la posa sul grembo, intrecciandola all’altra, la schiena dritta mentre inizia a parlare.

« Ordine e Fato non sempre percorrono lo stesso sentiero: è difficile trovare il punto dove l’uno diverge dall’altro; non sono preda e cacciatore: chi insegua e chi corra, raramente è chiaro. » esordisce, solenne, e la sua voce ha un suono antico.

« Il Destino mi ha posto sotto di te, sotto tua madre, che mi porta il tuo medesimo rancore. Mi fece, lei, la tua stessa domanda in un tempo passato, quando di te non c’era che una promessa nel suo ventre. La vita è un cerchio. »

Non è un tono duro, il suo; non vi è calore, né ostilità. La tranquilla ineluttabilità degli eventi pare permearla, e Kore le invidia quella pace. Tende le orecchie a catturare ogni sfumatura che colora le sue parole, ma esse sono grigie ed enigmatiche come il cielo di fuori.

 « Oggi, come allora, non posso dirti tutto. Posso dirti alcune cose. Posso dirti che, di fronte al bivio, hai scelto tu la direzione. Hai creato tu stessa il tuo Ordine – sola, hai forgiato la tua catena e la tua prigione. Molto hai guadagnato, e di più hai dato in cambio; tornerà in equilibrio, l’asse della tua bilancia. »

Non è improvviso, il tremore che la scuote: principia sulle ciglia; si allarga sul volto per nulla provato; si estende per tutto il corpo esile – e quando Kore si aggrappa a un ginocchio nudo, la pelle lì arde come lingua di fuoco, e, ugualmente, muta.

Non è la giovane bagnata di pioggia, che le parla, ora, ma una dea dal volto di madre, appena segnato d’età. Dondola su se stessa, scossa come dalla corrente, ma il tono resta placido come mare in bonaccia.

« Stimi ben misero il tuo potere, ma è in tuo potere ottenerne di più; tra le braccia del Padre hai perso il tuo nome, ma ciò che è perso, non è perduto. La tua è una pelle di serpente: il nuovo già ti cresce addosso. Tenteranno di lavarlo via nelle acque di Pafo, ma non pagherai di nuovo il vecchio tributo; il primo ti macchiò le cosce; le labbra, l’ultimo, quando, colto il fiore senza frutto, assaggerai il frutto senza estate. »

Si piega in avanti, e la scura criniera di capelli si imbianca; il volto si incrina e accanto a sé, lentamente e all’improvviso, c’è una graia, che la pugnala con lo sguardo antico. La bocca è una linea dritta, rugosa; pochi denti affilati spuntano dalle gengive secche, eppure, Kore comprende ogni motto, quasi la voce glielo sussurrasse entro i confini del capo.

« E quando il serpente mangerà l’altro serpente, esso diverrà un drago; ma la vita è un cerchio: penserai di essere arrivata, e scoprirai di dover ancora partire. »

Ecate si affloscia, le muore tra le braccia. Contro ogni senso, Kore trattiene il fiato – il temporale pare, come lei, sospeso a un filo.È impossibile, ma non respira, Ecate, ne è certa. Il petto non si alza, non si abbassa sotto il chitone.

È un corpo morto, quello contro il suo.  

La sorregge, agghiacciata, le scosta i capelli dal volto… è fanciulla, di nuovo. Le palpebre fremono, gli occhi di fiamma la fissano, vigili in un attimo.

Si scioglie dalla sua presa, Ecate, si siede diritta, il viso volto nella sua direzione.

Nel silenzio che segue, Kore trema un poco, si concede di gonfiare d’aria il petto; lascia che il tremore scivoli via, liquido, dalle membra.

« … Non mi hai detto nulla », le esce di bocca, e si picchierebbe per tanta ingratitudine, ma pensiero e parole sembrano seguire direzioni diverse. La meraviglia ancora le colma gli occhi, dietro le iridi.

« Ti ho detto abbastanza. » Ecate rassetta la benda che le trattiene le ciocche scure; se prova stizza, lo tiene per sé. La vergogna di Kore, d’altra parte, fa capolino dalle guance, dallo sguardo abbassato.

« Soffri, ed è giusto. Cerchi la solitudine, la sicurezza della tana: ti comporti in accordo con la tua natura. » Si alza, le si mette di fronte, le gambe larghe, la posa del guerriero.

« Si avvicinano le Procaristerie [10]. Chiunque tu sia, ora, quelli le cui voci ti ostini a soffocare, dipendono da te come fossero tua carne. La Primavera è tempo di gioia [11]. Di nascita. Non è Cosmos che porti la morte. Non è Cosmos che tu dimentichi chi sei. »

Parole che bruciano, sulla pelle. La colpa è un sassolino che cade in un pozzo.

« Se quanto ti serve è sentirti viva », conclude, allontanandosi da lei e recuperando arco e faretra, « Vieni con me. E caccia. »


Le dita rosee di Eos sfiorano il volto di Urano.

Sotto il manto di umide fronde, corrono assieme, cagna e fanciulla.

Non piove più.



NOTE:

[1]: Il pezzo è ambientato ad Agrigento, dove sorge un tempi dedicato a Demetra in stile dorico, costruito attorno al 407 AC. Nel pezzo, antecedente, la roccia in cui il tempio venne scavato funge da palazzo di Demetra.

[2]: Urano e Gea, progerinitori dei Cronidi.

[3]: Una mantella leggera.

[4]: Appellativo che Persefone divide con Demetra ed Ecate (a volte identificata come una dea a sé, figlia di Demetra e Poseidone). Letteralmente, "signora".

[5]: Appellativo di Ecate, letteralmente "messaggera".

[6]: Divinità delle nubi.

[7]: Il concetto di ordine che domina la concezione dell'universo nell'Antica Grecia.

[8]: Altro nome di Ade.

[9]: Appellativo di Zeus, letteralmente "di Olimpia".

[10]: Feste che si svolgevano ad Atene il 21 marzo in onore di Kore, Demetra e Atena, alle quali i magistrati della città facevano offerte. 

[11]: Si allude a una teoria in cui il termine "Kore", nel parlato, avesse anche il significato di "gioia".

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Capitolo 6
*** VI. La vecchiaia insegna ogni cosa ***


sei

VI.

La vecchiaia 

insegna 

ogni 

cosa







« La pioggia è cessata. »

Si incontrano a metà strada, la giovane e la vecchia, sul sentiero sconnesso dei campi. La terra umida, un mare nero sotto la pelle nuda, le appesantisce l’orlo della veste lacera, e brividi piacevoli partono dalla pianta del piede scalzo e risalgono lungo le gambe stanche.

Piacevoli, ma ben poco ristoro per quel corpo mortale da nonna che le è toccato indossare, ulteriore precauzione al mantello di Nyx. L'altra si è avvolta in un simile simulacro, nascondendo il peso degli anni dietro l'aspetto di fanciulla di verde età.

In lontananza, Eleusi tace.

Le membra di Demetra accolgono grate la fede dei suoi abitanti, che ridona energie alla dea sfiancata; poca pace trova però la sua mente, mentre gli occhi cercano quelli antichi dell’altra, il cui volto – troppo liscio per non essere maschera di carne – è poco più di un profilo nella luce fioca della luna calante.

« Ringrazio per questo. Chi, non saprei. » Sospira provata, posando una mano sulla fronte increspata di rughe. « I Mortali non contano le loro fortune, ché non mai manca un dio a cui votarsi. »

Dita sottili si stringono attorno alle sue, di un fresco diverso dell’aria notturna, e il loro tocco è quello che ricorda. Ricambia la stretta, abbassando l’altra mano e posandola su quella che si stringe sulla propria.

« Allora, affidati a me, chedeia, [1] ascolta chi ha quattro orecchie [2], tutte al tuo servizio. » Mai si è fatta scrupoli, la sua nutrice, a ricordarle che la vecchiaia insegna ogni cosa, e il passare del tempo l'ha lasciata immutata nello spirito. Pure nel buio, Demetra sa che le sta sorridendo in quel suo modo agrodolce che colora le sue memoria di giovane dea. La presa cambia, gentilmente la tira verso il suolo umido, e Demetra si concede di essere docile, di riposare contro la culla addormentata che è la madre di sua madre.

Si siede accanto a lei, Calligeneia, le dita ancora intrecciate alle sue; il passare del tempo non ha mutato neanche le sue carezze. Demetra, nascosta dal mantello dell’oscurità, batte le palpebre sugli occhi bagnati.

« I flutti sussurrano di accadimenti segreti, stranezze per gli stolti, parole alate [3] per chi sa ascoltarle. Il figlio di tua figlia vive: ninfe di fiume lo allevano a Mesatis [4], e il fanciullo prospera trai monti di Acaia. »

« L’acqua è la cosa più grande », replica Demetra in un sussurro, poiché le cose dette possono essere udite [5], e il sollievo è ambrosia che le scalda l’icòre. « Ma perché tanta segretezza? Zeus non ha mai badato troppo all’onta dei figli bastardi, suoi o dei suoi figli; non c’è sposo che possa offendersi all’indiscrezione di Kore, se non quello malvagio che le ha tolto l’onore. » La bocca le si piega in una smorfia di odio, le dita strizzano quelle di Calligeneia con troppa forza. « Gli ho fatto visita », rivela, la stizza nella voce, il disgusto al ricordo di quel bacio che le ha strappato. « E quanta cura le riserba, alla figlia che così a lungo tanto bene ha ignorato. Troppa cura, troppo tardi. »

Frasi amare, nella notte. Ma lo conosce troppo, Zeus, da fratello e da amante, per farsi incantare da certi suoi bei discorsi. Sul momento non ha fatto caso a come, tenendola per mano, l’abbia sviata dalla questione importante. Un altro padre in ogni maniera tenterebbe di salvare le apparenze quando la figlia che si professa vergine mette al mondo un fanciullo fuori dai voti del matrimonio; un altro padre.

Il segreto è nella segretezza, ne è certa; così, lambiccandosi la mente, a malapena prende nota dell’esitare della balia, di solito tanto sciolta di lingua. Con un gesto del capo la esorta a parlare, e quando la tensione nelle sue dita non si scioglie, anche Demetra si allarma, si piega un poco in avanti col busto.

« C’è risposta anche a questa domanda, signora, ma dovrai ascoltare con orecchie di dea, non col cuore di madre. Più e più volte mi hai detto che credi tua figlia assalita da un qualche balordo; uno non comune, magari, di questi Mortali in cui al sangue si mischia l'icòre - o non sarebbe sfuggito alla mia guardia con tanta facilità », mormora Calligeneia, abbassando il capo in segno di vergogna. « Ma presta attenzione alle parole di chi conosce le creature femminili, perché ti giuro sullo Styx che dico solo cose vere. Il bambino non è frutto di seme mortale, Demetra, né è un mezzosangue. »

Demetra trattiene il respiro, scostandosi appena, ma le dita di Calligeneia restano attorno alle proprie con insospettabile fermezza, per una ninfa della sua età.

« Come puoi sapere per certo, senza mai tu stessa averlo veduto? E l’icòre di Kore deve avergli dato di per sé certi poteri…»

« Perché, mia signora, quel che tanto fa parlare le Naiadi è la sua somiglianza col figlio di Maia. »

« Spiegati meglio », la sprona Demetra, a disagio sulla terra scura quasi da essa spuntassero spini. « Spiegami perché metti in dubbio la purezza della mia unigenita, vecchia folle, prima che io ti batta!  »

« Calma, ragazza! » esclama l’altra, con l’autorevolezza della balia sulla fanciulla. « Calmati e ascolta! Il fanciullo, come un serpente, muta di continuo! Cambia d’aspetto, tramutandosi in questo o quell’animale, e, da tanto poco al mondo, già in quella forma è capace di cacciare! Le fattezze sono quelle di un comune bambino, ma sulla fronte corna gli spuntano, corna di drago! »

Un gemito sfugge trai denti serrati di Demetra, ma la balia, per farle gentilezza, le dimostra poca pietà. « Uno sposo divino facilmente avrebbe potuto eludere la sorveglianza mia e dei tuoi draghi, intrufolarsi nella grotta di Kore e consumare l'unione; e quante volte! Più che abbastanza per concepire un figlio, cosa che accade, sì, ma è ben rara con un solo accoppiamento affrettato. »

« E dunque, Kore mi avrebbe mentito. »

« Non le hai forse celato la mia presenza tu stessa? Non dire è mentire, Demetra, e ricordo che tu per prima, fanciulla dei suoi anni, sapevi bene come aggirare i divieti della tua signora madre. »

« Non vuol dir nulla », si affretta Demetra a interromperla, che non osa sperare, « che lo sposo sia divino o mortale. Forse che gli dei hanno per le dee più riguardo degli stalloni per le giumente in primavera? »

« Ah, ma per tua stessa ammissione, mai Kore ha parlato di accoppiamenti rapaci. Solo, ha celato il nome del padre – e verso di lui pronuncia discorsi di odio, o di paura? Le leggi negli occhi il terrore che scorre sotto la pelle della femmina violata? »

 Demetra ascolta quelle parole e vola, vola con la mente alla gravidanza di Kore, rievoca l’immagine malinconica della figlia dal ventre gonfio e lo sguardo lontano; al ratto, al bambino, al destino infausto di Leuce ha imputato quella malinconia, ma mai Kore ha mostrato raccapriccio ad esser toccata, o disgusto; mai  ha guardato un maschio, divino o mortale, col timore nello sguardo.

Oh, sapere che non ha sofferto quell'onta! Come se un peso si sollevasse dal cuore, la fa librare leggera nell'aria notturna; ma, se non è stata costretta, era allora consenziente...

Innamorata. Il peggior malanno della mente. [6] E ora, tragedia annunciata, il suo cuore è spezzato. Dev'esser così. Non è il suo corpo ad esser stato rapito, è il suo animo; e Demetra torna a schiantarsi a terra, poiché ha assaggiato il dolore di un simile lutto, ne conosce il corrosivo lambire; per tutta la vita ha tentato di proteggerla, quella figlia destinata a seguirla anche in questo. 

Ristoratrice, la mano di Calligeneia si posa sulla sua schiena, la massaggia, e non è quella liscia del suo travestimento, ma la nodosa della sua infanzia.

« Via, chedeia, via. Avrà avuto le sue ragioni, come te quando è stato il tuo tempo. E, come te, di fronte al bivio, ha scelto sua madre e i suoi voti. »

Demetra si tende. Calligeneia getta sale su una ferita aperta.

« … Non parlarmi di bivi e crocicchi. »

« Ahh… di nuovo hai bisticciato con Ecate. Per questo non l’hai portata con te. » La sua voce è quella paziente della nutrice che la corregge per l’ennesima marachella, quasi fosse un poco tarda. « Ecate è legata dalle sue promesse: dice quanto le è concesso di dire. »

La stessa cantilena, per tutti quegli anni. Demetra comprende il legaccio dei voti, ma cert'altri legami, in casi straordinari, dovrebbero superarli per importanza. Anche Ecate è madre; dovrebbe capire che nulla può competere con un essere che da uno si divide in due. Conosce l'amore infinito che Demetra porta per Kore, i sacrifici che in nome di quell'amore ha compiuto.

La sua più cara compagna, la chiama, eppure le elargisce solo silenzi. 

Demetra stringe i denti a quell'ennesima fitta di dolore.

« Mai abbastanza! »

« E noi, questo, lo sfrutteremo a nostro vantaggio. »

La fronte aggrottata, ora, Demetra solleva il capo, cercando il volto della vecchia nutrice, ora illuminato dalla falce della luna. Sorride, sdentata, una vecchia volpe fiduciosa. Unica tra quanti Demetra conosce, le riesce di sorridere ed esser grave nel medesimo istante. « Se la pelle di leone non basta, figlia mia, mettiti quella di volpe [7]: fatti furba. Molti della tua razza favoriscono draghi e serpenti. Il figlio di Leto, per esempio, o il signore della Guerra... che, se la vecchiaia non mi toglie il lume della ragione, entrambi hanno corteggiato Kore, quando il Divino Padre vi ha chiamate all’Olimpo. E, casualità, dalle acque di Pafo mi giunge notizia che Zeus si intrattiene con Cipride, la quale di nuovo è invitata ai banchetti di Era. »

Demetra si raddrizza, le orecchie tese all’ascolto.

« Certo », continua la vecchia, persa nel suo ragionare, « all’apparenza poco c’entra col piccolo Cacciatore che Kore ha dato alla luce. Ma ben strana coincidenza, che la dea dal bel sorriso torni in auge di questi tempi, quando la ferita del figlio di Era [8] è ancora tanto fresca e il riso, alle sue spalle di marito cornuto, o in faccia, è ancora inestinguibile. [9]. »

Dov’è che vuoi arrivare, nutrice, vorrebbe domandarle, forse che davvero vecchiaia e solitudine ti han fatto perdere il senno? Non si azzarda, tuttavia. Il giudizio di Calligeneia è sacro per lei quanto quello di Zeus per tutti gli altri.

« Se anche fosse Ares lo sposo », e Demetra altamente ne dubita, nel proprio cuore: il bellicoso figlio di suo fratello tutto pare tranne che il dio a cui Kore concederebbe una seconda occhiata, « pensi davvero che Zeus si scoprirebbe tanto generoso da riammettere Afrodite per ammansirla nei confronti di Kore? Per… proteggerla dagli effetti dell'Amore, quando lui stesso neppure tenta, per sé? Fosse anche, resta il dilemma… perché tanta improvvisa, paterna premura? »

« O, magari, così vuol far credere a un occhio che lo sta a guardare. Vale la pena di porvi la mente, non credi? », domanda la vecchia, e Demetra le scopre un poco troppo entusiasmo di pettegola nella voce arrochita. « L’identità dello Sposo è la chiave. Kore ancora non sa che ero lì io a farle la guardia, è così? »

Scuote il capo, Demetra, per l’ennesima volta domandandosi dove la balia voglia arrivare.

« Allora, non troverà nulla di cui preoccuparsi per una piccola riunione della famiglia, in occasione delle Procaristerie.»

« … Pensi si confesserebbe con te? »

« Mia cara, con tutto il rispetto e tutto l’amore che ti porto, le orecchie che da così tanto tempo se ne stanno attaccate al mio capo sono molto più grosse delle tue, e più comprensive. »

« Davvero la credi tanto sciocca dal rivelare a te, la più vecchia alleata di sua madre, quel nome, che maledetto esso sia? »

« Non sciocca… solo, bisognosa di sfogarsi. E del resto, ricorda poco di me, forse nulla. Abbastanza da credere che l’età m’abbia intontito. O azzittito. »

« Calligeneia… »

« Certo, Ecate vedrebbe oltre questa piccola messa in scena… ma del resto, lei già conosce quanto ci preme sapere; come è obbligata a non rivelare a te certe cose, così con Kore avrà la bocca cucita, se è destino che questo nome tu lo venga a sapere...»

Demetra vuol bene ad Ecate, davvero; ma l’idea di vederla sulle spine come ella ha messo lei, al momento, è piuttosto allettante.

«... Se così è, dai retta, glielo caverò dalle labbra, alla tua Kore. E nulla lega me al silenzio. »

La sua bocca rugosa si posa sul capo ingrigito di Demetra con l’amore di un madre. « Rasserenati, chedeia: prima scopriamo quel nome… poi penseremo a cosa potrai fartene. Magari, Zeus si scoprirà generoso una seconda volta – tanto generoso da restituirlo, questo fanciullo cornuto che tanto gli preme di far sparire. »

Ne dubita, Demetra, in cuor suo; sua figlia, però, è un tesoro che va protetto da quanto di brutto infesta il mondo, e non potrà farlo, se il pericolo resta invisibile, ragiona. Il suo compito è mostrarle la vita, tenerle la mano affinché la volpe non due volte venga presa al laccio. [10]

(Sotto la pelle della madre-leonessa, l’idea sola, finalmente, di poter battere il fratello in qualcosa –  di averlo in pugno in qualunque modo – per la prima volta dopo un tempo tanto lungo da parere infinito, inconsapevolmente le strappa un sorriso.)



NOTE:

[1]: Letteralmente, "mia diletta".  

[2]:  Letteralmente, "ascolta chi ha visto e ascoltato molte cose".

[3]: Espressione omerica che si riferisce a parole "efficaci", che subito colpiscono nel segno l'ascoltatore.

[4]: Antica città dell'Acaia.

[5]: Antico proverbio greco.

[6]: Una citazione da Platone.

[7]: Antico proverbio greco: letteralmente, appunto, "farsi furbi".

[8]: Efesto.

[9]: Espressione omerica: il riso inestinguibile degli dei alla vista di Afrodite e Ares colti in flagrante e catturati dalla rete di Efesto.

[10]: Proverbio greco: "non fare lo stesso errore due volte".

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Capitolo 7
*** VII. Madri ***


sette

VII.

Madri







V’è qualcosa, nell’odore di una madre.

Una sfumatura che non riesce a decifrare, neppure lei che è la Primavera; lei che conosce il profumo di ciascuno dei fiori che nascono nel grembo della terra scura. Lo ha avvertito stringendo Ecate nella sua forma bestiale: sotto il muschio, sotto il sudore, sotto le proprie lacrime.

L'aveva addosso nei loro lunghi giorni di caccia, mentre, predatrici, si accucciavano tra la vegetazione ancora umida di pioggia in quell’attesa che piega i muscoli, vicine tanto che le loro ginocchia si sfioravano.

E lo avverte ora, avvolta nell’abbraccio di Demetra, morbido e duro a un tempo, il volto premuto contro l’incavo del suo petto caldo. Dita delicate si intrecciano alle ciocche libere della sua chioma, e Kore si chiede se quell’essenza impossibile da replicare venga da dentro, dal ventre vuoto, dal cuore pieno; se lo serbi la pelle, come serba l’acre della traspirazione; se solo l’odorato sottile di un figlio, che conservi il ricordo del latte materno succhiato dal seno, riesca ad apprezzarlo realmente.

Quell'odore, Kore lo beve avida, se ne disseta – e intanto si aggrappa forte al corpo dolce di sua madre, curandosi ben poco delle occhiate del loro seguito, che le scivolano sulla schiena come le gocce di una pioggerella sottile.

Ma il cielo, sopra di loro, è sereno e ridente. 

Helios li spia benevolo con l’unico occhio fiammeggiante, parate a festa come sono, ancora nell’ordine della processione; di certo approva, il Sole, che ad ogni suo passo la terra stiri le membra appesantite dal sonno e le piante levino i capi verdi dal terreno sassoso dell’Ellade – ricambiando lo sguardo e spalancando le corolle in lenti, ampi sorrisi.

Quel giorno, i fiori colorano di piacere le guance della terra.

Kore si stacca, solleva il volto, e il sorriso di Demetra è un campo biondo di grano spazzato di brezza - per un attimo non esiste che lui.

« Signora. »

Chronos è un dio avaro. Demetra volta il viso di lato, e Kore, con gli occhi, la imita.

La figura si avvicina a loro senza fretta alcuna, procede con incurante sicurezza – per nulla perturbata nel passare accanto ai draghi scalpitanti legati al cocchio di Demetra. Alle sue spalle, il palazzo bianco di Atena incombe su di lei come una montagna innevata – su di lei, su di loro, sulla città neonata che l’ha preferita a Poseidone. [1]

È bella, Nike. Anche quando si arresta di fronte a loro, pare fluttuare nel bianco accecante delle ali a riposo nonostante i piedi nudi siano ben piantati a terra. Il volto, libero dai capelli scuri trattenuti dalle fasce, ha qualcosa della venustà di Ecate.

Sorride, e ogni suo sorriso pare di trionfo. Dietro di lei, due vergini abbigliate modestamente chinano i capi rasati [2].

Demetra non è tutta gaiezza, quando allaccia il braccio a quello di Kore saldamente, e non ricambia il sorriso della compagna di Atena. Non quanto dovrebbe. Se sia perché Nike giunge al posto di Atena o per la somiglianza con Ecate, Kore non lo saprebbe dire.

« Belle caviglie. [3] »

« Vi porto gli onori e i saluti di Poliàs [4], Grade Madre e Fanciulla, e la preghiera di perdonare la sua assenza. »

Kore trattiene un verso. Dubita che Atena, con tutta la sua sapienza e umiltà, sia capace di domandare sinceramente il perdono di qualcuno, per colpa vera o presunta tale.

« Il messaggero del Polimete [5] è giunto stamane, mentre le dita rosee di Eos ancora pizzicavano il carro del Sole, portando le nuove che ella attendeva sulla sua nuova armatura; non molto tempo era passato che ella già lo seguiva sull’Olimpo, smaniosa di tornar presto per salutare il tuo ritorno, Madre, e accogliere Kore come si conviene. Ma il viaggio è lungo, ed è ricaduto su di me l’onore di ricevervi, povera sostituta e ambasciatrice del suo rammarico. »

Tutto quel gran sfoggio di bel parlare allo scopo di placare Demetra susciterebbe in Kore ilarità incontrollabile – se cosa esiste che possa placarla, certo non sono i lunghi discorsi – non fosse che la preoccupazione non la spegne sul nascere.

Demetra le dà voce per entrambe.

« La tempestività non figura tra i mille talenti di Efesto. Non è ignoto a nessuno. Comprensibilmente vorrà indossarla domani, ed è savia a recarsi da lui di persona, seppur io sia convinta che, di lei, egli abbia preso le misure sin troppo per bene.  Ma di certo non è andata sola da suo fratello, mia nipote. » Le linea delicata delle sopracciglia è aggrottata e il tono è amaro, mentre già prendono a camminare; il loro seguito è silenzioso quando varcano l’enorme entrata, e il candore dei marmi le avvolge come un’aura di luce. 

Nella piega delle labbra di Nike v’è un pozzo di segreti.

« Ha ritenuto prudente che i miei fratelli l’accompagnassero, poiché il carico sarà certo troppo pesante perché un cocchio solo lo trasporti; e il Divino Padre, nella sua saggezza, ne ha convenuto con lei, liberandoli brevemente dai loro obblighi a questo scopo. »

« Il padre Zeus rivela una disposizione quanto mai generosa, di questi tempi. Dev’esser l’aria di primavera. Tra le stagioni, è sempre stata la sua favorita. »

Ah. Persino Kore in qualcosa può vincere.



In Atena v’è un nonsoché di Zeus.

Non negli occhi, no. Quelli di lui sono più simili ai propri, gemelli; sono chiari, incolori, quanto le iridi di Atena specchiano il vivace ceruleo del cielo.

Eppure, nonostante il viso non faccia una piega mentre le sue ancelle rasate le ungono il corpo di olio, e rosa, mirra e cannella [6] addolciscono l’aria, la fissità del suo sguardo verso un unico punto lontano oltre la finestra, oltre la città neonata, ricordano a Kore il padre che dividono nell’icòre – ma non nelle attenzioni. Non per lungo tempo.

Scaccia il pensiero funesto, storcendo il naso appena.

Il volto di Atena resta immutato, e che sia inutile cercare segni di malumore, in quella tavola piatta, Kore lo sa; tuttavia, esita a parlare, e abbassa il capo e gli occhi sulle dita intrecciate strettamente. Sotto di lei, il materasso del kliné pare fatto di nuvola, ciononostante si agita, su di esso. Sente una ruga di preoccupazione solcare fronte, e i palmi lievemente sudati.

Il silenzio le pesa sullo stomaco, ancora gonfio di nettare e del fumo dei sacrifici. Posa le mani giunte sul ventre come a proteggere quel vuoto, accorgendosene a malapena.

« Avverto il tuo disagio, sorella. »

La voce di Atena è bassa, ma lo stesso la fa sussultare, rialzare la testa mentre, con le unghie, si tormenta i polpastrelli.

« Quando la pioggia è cessata, pensavamo che ti fossi fatta passare il mal d’animo, Artemide ed io. Invece, ora che ti vedo, mi pari ancora fuori di te. »

Gli occhi di Kore saettano alle due giovani ai lati di Atena, le orecchie ancor più evidenti sui crani tondi e liberi dalle chiome. Dondola i piedi, strisciando le piante sul pavimento.

Atena legge nei suoi pensieri senza che debba pronunciare parola.

« Lasciateci », ordina, e quelle si inchinano, rispettose. Atena sorride loro gentile, mentre già si affretta a indossare la lunga veste e a stringersi la vita del cinto. Si chiede se qualcuno l’abbia mai vista davvero nuda.

Anche svestita, porta la castità come una corazza. Ancora una volta, Kore si chiede cosa farebbe, cosa farebbero Artemide e lei, sapendo che fine ha fatto la propria.

Allentare lo spasmodico intreccio di dita le dà quasi dolore. Kore tende una mano – Atena la prende con la delicatezza di un’amante e la forza di chi stringe la lancia.

Anche la colpa ha un sapore, ed è umido.

« Ero in pena per te, stamane », le rivela, cambiando argomento solo a metà, momentaneamente scacciando il pensiero di Artemide, un altro nodo al suo stomaco già troppo stretto. « Venendo a sapere che hai fatto visita ad Efesto. »

« Mio fratello ha avuto ogni riguardo. Ha plasmato per me dal bronzo una corazza che è difficile ne esistano pari sotto l’occhio di Helios per bellezza e possanza. L’indosserò domani; e sopra, la clamide [7] che conciò per me dalla pelle di Aex [8]. » Un sorriso aleggia sulle sue labbra, sereno.

Kore vorrebbe domandarle altro: vorrebbe chiedere se ha perdonato Efesto per l’oltraggio che le ha arrecato; se quei goffi tentativi di domandarle perdono hanno raffreddato il suo giusto rancore.

È così arduo immaginare Efesto in preda alla collera. L’immagine di lui, il volto ripulito dai fumi della fucina, il rossore evidente mentre le porge come pegno la collana che, insieme al suo amore, sua moglie ha rifiutato, mal si accorda con quella di lui steso sopra ad Atena, lei che lotta per la propria verginità – la gonna sollevata, il seme di Efesto che le bagna la coscia mentre grugnisce su di lei come bestia, lercia di fuliggine e lussuria.

Ma così è.

« Allora, sarai certo la più bella, domani », le dice, perché Atena è modesta, ma è femmina. « Il bagliore del bronzo ci farà scomparire, mia madre e me. »

« Per un verso o per l’altro, eclissare Demetra è davvero impossibile. »

Kore ricorda di aver avuto un simile pensiero. Soffoca la stretta al cuore con un sorriso.

« Tra me e te, invece, sarebbe una gara più equa se non fossi tanto pallida, Kore ». Atena si concede di scherzare solo un momento, ma le tiene la mano, mentre le si siede accanto, e poi la osserva da sotto le ciglia scure con aria grave. « Perdona la mia insistenza. Ma so bene cosa ti affligge. »

Kore si tende e negli occhi ha la nebbia.

« Lo comprendo. »

Impossibile, che davvero sappia. Impossibile. O non le stringerebbe a quel modo la mano.

« Un dolore grande, ma non insuperabile. Il passare del tempo ti curerà, e pur se il distacco ti paia bruciare come ti avessero strappato uno degli arti, capirai un giorno che a tutto c’è senso. Nei piani del Fato il caso non esiste. Anche questa sofferenza sarà un filo nella tua tela… »

Vuole domandarglielo. Ne ha bisogno. Vuole domandarle se davvero capisce, se, per lei, staccarsi da quel figlio che non ha neppure portato in grembo, realmente abbia fatto tanto male. Se, ora che egli regna su Atene [9], Atena rimpianga di non averlo visto crescere, quel figlio rapace, quel frutto del dolore di Efesto e del suo stesso oltraggio.

Apre le labbra e ne esce un gemito.

« Lo sappiamo, Artemide ed io. »

Kore si ferma. Chiude la bocca.

« Entrambe abbiamo perso un’amica.  Artemide più d’una, invero. Non ti abbandona, quel dolore, ma si affievolisce. »

Uno spasmo attraversa le dita di Kore, ancora intrecciate a quelle di Atena. « Il lutto è ancora tanto fresco. » La voce è rauca come non parlasse da giorni. « Non riesco a vedere un giorno in cui non avvertirò la sua mancanza. »

Sente gli occhi umidi e chiude le palpebre, stringendole tanto che le ciglia sfiorano le guance.

Così gentile, il tocco di Atena. Così amoroso, il suo tono. Lei, che è dea della saggezza, di certo farebbe luce sulle parole di Ecate, quella profezia che le toglie il sonno la notte. Le parole le prudono sulle labbra.

« Credimi. La morte di Pallas è stata per me altrettanto severa. Ancora di più perché è la mia mano, ad averla uccisa. Che sia stato per sbaglio non ha alleviato il peso della colpa, o la mia solitudine. E Artemide, tradita da così tante delle sue fanciulle, più di tutti comprende quanto Leuce ti abbia ferita, fuggendo con... ah, ancora non ci credo. Ma conosci Artemide: vorrebbe solo che ti confidassi, e se ti rivolge aspri pensieri, è solo gelosia per l’amore che mostri ad un’altra. »

Le parole le prudono sulle labbra, e Kore le lecca via.

Riapre gli occhi, con un fremito di ciglia. « Sono spiacente di causarvi dispiacere. Ma devi avere ragione, sorella. Il tempo curerà questa ferita. »

Siede su un materasso di nuvola, eppure si sente così stanca.  

« I nostri giorni passati assieme mancano a me per prima. Magari, quando tutti i fiori saranno spuntati e sarà momento di frutti, potreste venire a trovarmi in Trinacria. A trovarci, Ciane e me. »

« Con la gioia nel cuore. E Ciane, mi ha sorpresto che tu l'abbia lasciata a tua madre. »

Nello sguardo di Atena, v'è quasi un rimprovero.

« Le occorreva una compagna fidata che la assistesse nei suoi viaggi, mentre Ecate vegliava su di me: il suo cammino è lungo, e in forma mortale non è prudente andar sole.»

Non è neppure una reale menzogna.

« Di certo », concorda Atena, e Kore avverte durezza nel suo tono; ma è solo un attimo. « Da quando è qui non trova pace, poi. Comprensibile sia di umore particolare. In verità, prima di oggi, non ricordo l’ultima volta che l’ho vista sorridere. »

La sua povera, tenera mamma. Se solo alle volte, come un rampicante, coi suoi abbracci non la strangolasse…

« Lasciare la Trinacria non la rende mai troppo felice. » Più accuratamente, tornare in Ellade. Ma Kore non lo dice. « Sai quanto sia facile a contrariarsi e difficile a lasciare andare i malanimi. »

Atena annuisce. « Mi solleva che tu sia qui. Le mie ancelle cominciavano realmente a temerla. Da quando poi è salita sull’Olimpo, è semplicemente intrattabile. Impossibile definirla diversamente. » Qualcosa di simile a un broncio le cala sul volto mentre abbandona la solita diplomazia.

Le orecchie di Kore quasi si separano dal cranio e cadono come frutta matura, nel drizzarle all'ascolto.

« L’Olimpo? » domanda stupidamente, la sorpresa che le allarga gli occhi.

Atena le riserva un’occhiata, come a una bambina un poco tarda. « Non sapevi? La tua pioggia cominciava sul serio a far danni: naturale che qualcuno si sia lamentato - neppure Artemide ne era molto felice, te lo avranno riferito. Si saranno rivolti a nostro padre, e anzi, Zeus ti ha riservato grande indulgenza, a discuterne con lei sola. Pensavo che, in seguito, lei t'avesse parlato... Neppure Era sapeva, mi dice Bia. Ed è meglio così. »

Atena continua il discorso, ma Kore l’ascolta a malapena. « Da quando Pafia è tornata sull’Olimpo, difficile dire chi sia d’umore più cupo, tra lei e tua madre. Nostro padre è stato prudente ad evitare un incontro. »  

Pafia. Pafo. La parola emerge, nella sua mente ossessionata.

Kore si costringe a sorridere un dolce sorriso che quasi le pare non le appartenga. Muterai, le ha detto Ecate. Ma cercheranno di fare in modo che non accada.

« Parlerò io con lei, Atena. Sei stata fin troppo indulgente. Rassicura le tue ancelle ed esortale a stringere i denti sino a domani. »

Domani.

La cerimonia sarà breve – il viaggio verso casa, interminabile.




NOTE:

[1]:  Ho posto il palazzo di Atena sull'Acropoli, lì dove sorgeva il tempio di Atena Poliàs, poi sostituito col Partenone. 

[2]: Un'usanza arcaica vedeva le donne e gli uomini consacrati ad Atena rasarsi il capo in segno di appartenenza alla dea. 

[3]: Un appellativo di Nike, tra le altre divinità.

[4]: Appellativo di Atena. Letteralmente "protettrice della città".

[5]: Un appellativo di Efesto. Letteralmente "ingegnoso, dalle mille arti".

[6]: Atene era famosa per la produzione di questo particolare olio per il corpo.

[7]: Un mantello corto che si indossava sopra l'abito. Nel caso di Atena, è una delle tante interpretazioni dell'Egida che la dea indossa (alternativamente anche una corazza o uno scudo).

[8]: Figlia di Helios, una bestia dalle sembianze di serpente che, in alcune versioni, fornì la pelle per l'Egida di Atena.

[9]: Erittonio, uno dei primi re di Atene, viene detto figlio del seme di Efesto che, durante il suo tentativo di stuprare Atena (su esortazione di Poseidone dopo l'abbandono di Afrodite), scivolò via dalla coscia della dea, fecondando Gaia, la terra.

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Capitolo 8
*** VIII. Conoscere inizia col domandare ***


otto

VIII. 

Conoscere

inizia col

domandare




 

 

Una fragranza particolare le solletica l’olfatto.

Impossibile trovare parole per descriverla appieno, a qualcun altro o a se stessa, tanto è sfuggente. Non saprebbe dire con certezza neppure se il profumo ancora aleggi attorno a loro o se, semplicemente, si sia insinuato nelle sue narici e lì si sia annidato dalla mattina quando, di fronte all’altare di pietra imbrattato dal sangue dei sacrifici, ne ha avvertito il primo sentore, mentre i semi d’orzo piovevano loro attorno. [1]

Lo ha percepito, sconosciuto e alieno, pure celato da quello dello stucchevole, metallico liquido colato dalle gole spalancate di pecora e scrofa, e, dopo, camuffato dai fumi inebrianti della carne arrostita sul braciere mentre, tutti insieme, divinità e mortali, sedevano a banchetto [2]; un retrogusto, sottile e pesante assieme, facile da confondere con i teneri effluvi dei fiori spalancatisi alla nuova stagione; ma Kore, che uno per uno li conosce, trova l’estraneo, l’intruso tra essi.

Arriccia il naso, dunque, mentre il lucore del Sole, che accende l’aria immobile della danza di infiniti pulviscoli, le si insinua tra le palpebre socchiuse. Ora, così vicine all’occhio di Helios, il calore non è più una gentile carezza primaverile; si è fatto quello dei più aridi mesi estivi e sotto il peplo leggero, Kore sente il sudore pulito e salato raccogliersi sotto i seni ancora gonfi di latte, sotto le ascelle, nella piega delle braccia che stringono le ginocchia raccolte al petto.

L’argento del carro di Selene pare attirare irresistibilmente la luce del meriggio. Un lieve vapore emana dal sentiero di nuvole preparato per loro da Nefele, un nebbia priva di consistenza sollevata dal passaggio delle ruote e dalle enormi spire di Cicreide [3], mentre il drago striscia silenzioso e lento, per non lasciare indietro il loro seguito appiedato.

In cerca di una distrazione qualunque, Kore posa lo sguardo sulle sue ninfe a pochi passi di distanza, i loro calzari affondati nel sentiero umido che si dipana sulla schiena di Urano. Stando ai racconti di Ciane, una volta il mare stesso si apriva perché il cocchio di Demetra l’attraversasse, e le onde si ritiravano senza neppure bagnarle l’orlo della veste.

A lungo aveva interrogato sua madre sulla natura dei dissapori con lo Scuotitore di terra [4], ma non c’erano state risposte alle sue curiosità infantili. Atena qualcosa ne sa, Kore ne è certa, ma è troppo discreta per vuotare il sacco – e troppo savia per rischiare di offendere Demetra.

Che, di segreti, ne ha più d’uno.

Imponendosi di non guardare in basso, di non lasciare che l’Ellade che sfila via sotto di lei le riporti la mente ai monti che celano il suo piccolo Cacciatore Scalzo [5] – pure, Kore si concede di non incrociare gli occhi con sua madre. Li tiene fissi su Ciane, invece, ritta davanti al carro di Demetra, che conduce l’altro drago per la briglia, seguita dalle poche ancelle che non sono rimaste indietro a curare la stagione bella in vece loro.

Il volto dai lineamenti delicati è composto nella medesima espressione distratta che ha strappato ad Atena una smorfia di disapprovazione, mentre, dopo il banchetto, si scambiavano gli ultimi saluti; la medesima reazione, Kore ne è certa, avrebbe avuto la Cacciatrice – se si fosse presentata a porgere loro i saluti.

Ma no: sua sorella ha mandato Selene a imprestare loro il suo carro per il viaggio sopra il letto di nuvole, e a disapprovare è stata Demetra.

Kore non si è soffermata su certe formalità; neppure sulla fitta al petto nel toccare con mano la verità nei discorsi di Atena.

No.

Invece, ha scrutato Selene.

Un volto tondo e pallido, quasi l’argento del suo carro abbia colorato anche lei della stessa tinta. Le morbide onde dei capelli raccolte nella fascia, la falce di luna sulla fronte alta. Si è chiesta come sarebbe, posare le proprie su quelle labbra pallide, immergere le dita in quella chioma, liberata da ogni costrizione.

Si è chiesta cosa abbia provato, Zeus, nel giacere con la Luna – nel generare figli con quella creatura dall’aria dolce e malinconica, che si inchinava, pronunciava le parole di rito come nuotando in un invisibile oceano – ogni movimento, ogni gesto soffuso di rarefatta eleganza.

Kore tormenta con le dita la stoffa della veste, lo sguardo ancora su Ciane – sugli inequivocabili segni dell’innamoramento nella più cara delle sue ancelle. Chi è lei, che ha concepito un figlio col proprio padre, per rimproverarla? Una padrona ipocrita, se la rimbrottasse; e avvertirla, sebbene lo farà comunque, servirà a poco.

Ciane è destinata a soffrire come ogni altra di loro. Poiché Demetra ha ragione: sono tutte uguali, le femmine infatuate, e condividono una sorte sola.

E infine, Kore la guarda: sua madre, china a parlottare all’orecchio della ninfa che divide con loro l’onore di un posto sul carro.

Kore mai ha veduto una Graia [6], ma, pensa, per forza devono somigliare alla creatura che le siede di fronte.

Fragile come la tela di un ragno, segnata da rughe come crepe sul vetro; infagottata nell’himation, nonostante il caldo soffocante. Il biancore della sua chioma è più puro del sentiero di nuvole trapassato dall’occhio del Sole.

Non ha mai saputo che le ninfe potessero invecchiare – neppure le riesce di immaginare Ciane, o Leuce, con un simile aspetto. Calligeneia muove appena le labbra scarne, senza emettere suono; gli occhi di nebbia sono lontani – svaniti, come la sua fonte, ad Eleusi, e il suo senno. 

La mano di Demetra appare enorme posata su una sua spalla fragile; le dita dorate quasi sporcano tutto quel candore.

Anche sua madre è una figlia.

Kore la osserva di sottecchi, tormentando con le unghie il tessuto sudato del peplo sulle ginocchia. Non per la prima volta, cerca di evocare un’immagine di Demetra giovane: la dea fanciulla amata da Zeus, prima che, assieme, la concepissero.

Scruta i suoi tratti, così simili ai propri. Chronos, divorando anno dopo anno, non deve averli mutati di molto. Non le appare una vecchia, sua madre; solo, non le sembra una ragazza, un bocciolo appena dischiuso.

I petali di Demetra si offrono al sole spalancati e sgargianti, e Kore è certa che, se smettesse gli abiti austeri e l’espressione perennemente preoccupata che si è incisa sul volto, non mancherebbero amanti pronti a rallegrarle i giorni e giacere con lei nelle lunghe notti – ed altrettanto sicura è che Demetra non li accetterebbe.

Che sua madre protegga la santità del matrimonio non cessa di farla sorridere, sorrisi che hanno preso una piega amara.

Sua madre, che l’unione tra maschio e femmina l’ha sempre rifuggita, che ha solo lodi per chi sceglie la verginità – proprio lei divide l’onere con la grande sorella-moglie del suo antico amante, nonché con la dea che più di ogni altra le è lontana per indole.

Pafia.

Kore si morde le labbra, l’eco delle parole di Ecate che le annoda lo stomaco. Vorrebbe aprir bocca e, finalmente, scaricare in parte il fardello che quasi fisicamente le piega le spalle sotto la sua mole.

Sposta lo sguardo sull’anziana Calligeneia, sui suoi occhi perduti nel luccichio di Urano.

Esita.

Di nuovo torna a Demetra, che ora la ricambia – e vorrebbe domandarle cosa ci sia a Pafo – ma quell’odore perforante, il caldo che la soffoca, l’Ellade che si allontana; Selene e la sua faccia di luna; Atena, che osserva con distacco quel figlio che non è suo figlio, il simbolo di carne e scaglie di serpe del suo disonore sfiorato [7]; Artemide, che da troppo tempo la rifugge; Ciane e il suo cuore di innamorata, e Leuce, che l’ha lasciata per sempre: Kore potrebbe piangere per tutto questo, e di più.

Il rombo lontano di un tuono rompe il silenzio esausto della processione – un rimprovero alla sua debolezza, perché lui può sentirla, anche così separati. Kore percepisce la pioggia tremare, nelle nuvole bianche al disotto del carro, e chiude intorno ad essa dita invisibili, tenta di trattenerla dall’abbeverare la Terra.

Demetra la fissa e, sotto quell’esame, Kore si fa aria col dorso della mano.

« Figlia mia, è troppo rosso, il tuo viso, perché sia segno buono. »

Sua madre allunga le dita e le posa sulla fronte di Kore, la consueta preoccupazione a incresparle la fronte.

« Non è nulla di grave, davvero. » La voce le sfugge rauca dalla gola, e Kore deglutisce lenta. « È questo odore nell’aria, che mi confonde i sensi e fa dolere il capo. »

« Devi aver ispirato troppo incenso », sentenzia Demetra saggiamente, estraendo un otre dalla sacca abbandonata sui cuscini accanto a Calligeneia.

Glielo offre e Kore beve avidamente, lasciando che l’ambrosia le porti un qualche sollievo mentre sua madre continua, lo sguardo su un punto oltre le loro spalle. « Vorrei che tuo padre non ti avesse trasmesso questa sua afflizione, che l’avesse tenuta per sé solo. » Il tono è di biasimo, quasi Zeus potesse udirla e vergognarsi di quella manchevolezza inconsapevole.

Kore stacca l’otre dalle labbra, un’ultima occhiata distratta all’aria persa della vecchia balia. « Hai parlato con lui », dichiara, e si muove a disagio sui cuscini gonfi sotto le terga, come sedesse su rovi di spine. Demetra riporta a lei l’attenzione, contrariata. « Parole di troppo volano in casa di Atena. »

« Credeva mi avessi portato i suoi rimproveri, che per questa ragione la pioggia fosse cessata. »

Non c’è accusa, ma le pare di vedere un cremisi vergognoso sulle guance di Demetra.

« Nessun rimprovero per te, melissa [8]. Se qualcuno ha assaggiato il bastone, sono stata io. Per le mie sciocche, irrispettose richieste. » Una smorfia irosa le increspa le labbra. « Le Erinni devono avermi ottenebrato la mente, per impetrare che tuo figlio stesse con sua madre, secondo ogni legge di Natura. »

Un verso scappa a Kore, che abbassa gli occhi, il cuore una bilancia impazzita tra sollievo e dolore. « Non desideravo darti altri crucci, per questo ti ho taciuto il suo ennesimo torto, figlia mia. » Le dita sono sul suo mento, lo sfiorano in un gesto affettuoso.

Se solo sapesse, se solo sapessero tutti.

« Ti ringrazio ugualmente per aver tentato », pigola, un uccellino soffocato da una mano infantile, con la voce fievole e il cuore che scoppia. « Ha avuto altre parole, su di me? Per me? », indaga poi. Follia sarebbe, se le avesse rivelato di questo sposo segreto che non arriva, che Kore neppure attende più per davvero, dopo averlo proibito lui stesso.

Ma sua madre starebbe già rovesciando cielo e terra, se così fosse.

Demetra scuote lieve il capo, i polpastrelli che risalgono sulle sue tempie, come per scacciare da lì il dolore in virtù del solo tocco di madre.

« Nient’altro che lodi per il tuo senno. Deve sentirsi generoso all’eccesso: pensa che, sfidando le ire di mia sorella, ha persino riammesso la sposa di Ares Distruttore [9] a banchetto in Olimpo. »

Pare osservarla più acuta, da dietro le iridi, e Kore ricambia trepida, la domanda ancora sulla punta della lingua. Cosa c’è a Pafo?

« Non è forse durato abbastanza il suo esilio? »

« A non molte è mancata la vista delle sue belle natiche che ondeggiano per il palazzo di Zeus, te lo posso assicurare. » Il sorriso di Demetra è di scherno, ma è solo un attimo prima che il suo viso torni liscio come l’olio scosso nell’anfora. « Il nostro Padre Celeste cerca la lite con le più indomite tra le sue sorelle. »

Di nuovo una smorfia, come inghiottisse una medicina amara.

« Magari, i Mortali sono troppo dediti alle loro piccole guerre per partorirgli belle figliole e giovinetti prestanti da portarsi nel letto, e fornirgli uno spasso. Preferisce guardarci agitare sotto il suo tallone, non vedo altro motivo per questo rifiuto ostinato di compiacerci. »

Kore è tanto impegnata a rompersi la testa al pensiero di Pafia da non restare neppure ferita da quei commenti.

« Perché mai offenderci a tal punto, infilando nelle nostre piaghe il dito, se non per il solo piacere di contrariarci? »

Con la coda dell’occhio Kore coglie un bagliore di consapevolezza nello sguardo di Calligeneia – ma non è che un lampo, e gli occhi della ninfa si fanno di nuovo distanti.

Kore torna a guardare Demetra.

« Davvero non saprei, madre mia. Non lo conosco a sufficienza », replica senza tono, mentendo solamente a metà; senza rendersi conto immediatamente dell’improvviso sollievo che si diffonde nelle sue membra.

Non è la carezza delle dita amorose di sua madre, a farle cessare d’improvviso il dolore alla tempia.

Quell’odore, tanto dolce, tanto infido, pare volatilizzarsi nell’aria scintillante – e, come svanisce, a Kore pare già di averne dimenticata l’essenza, ora che a gravarle il capo restano solo domande a cui non sa dare risposta.

 

I giorni si consumano, ma Kore lo riconosce subito, tuttavia, e si chiede come sia stato possibile cancellarla dalla memoria, quella fragranza tanto fatale, quando di nuovo la coglie – il giorno che, sotto i suoi piedi, la Trinacria trema.

 

 

 

NOTE:

[1]: Coloro che materialmente non eseguivano il sacrificio lanciavano chicchi d’orzo per partecipare al rituale.

[2]: La scrofa incinta e la pecora non tosata erano i sacrifici che Demetra e Kore ed Atena rispettivamente ricevevano nei sacrifici animali per propiziare i raccolti.

[3]: Uno dei draghi che tira il cocchio di Demetra.

[4]: Un epiteto di Poseidone.

[5]: Dioniso Zagreo, il cui nome ha il doppio significato di “cacciatore” e “a piedi nudi”.

[6]: Una creatura dal volto di donna anziana.

[7]: Il figlio concepito da Efesto con Gea durante il tentato stupro di Atena divenne re di Atene all’epoca dei fatti narrati. Si dice che abbia portato la biga trai mortali, per celare le gambe di serpente.

[8]: Vezzeggiativo. Letteralmente, “ape”.

[9]: Epiteto omerico di Ares.

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Capitolo 9
*** IX. La Fanciulla impossibile in cima al vulcano ***


Parte II  - Terremoto

 

 

 

IX.

La

Fanciulla

impossibile

in cima al vulcano

 

 

L’irrequietezza delle bestie è palpabile quanto lo zolfo che appesantisce l’aria e penetra nelle froge allargate sui lunghi musi neri, lucidi di sudore.

Con la mano libera, Ade passa il palmo lungo un collo possente, sulla corta criniera dal pelo setoso e ritto per l’agitazione; per l’ennesima volta controlla che le redini d’oro siano saldamente assicurate al ramo di un giovane leccio – poi, si calca bene l’elmo sul capo, celando al disotto il viso incupito da un cipiglio che gli scava la fronte.

La kuné [1] lo scherma da sguardi indiscreti, ma nulla può contro lo spiacevole calore che si insinua sotto il chitone – il pesante soffio della fornace di Efesto [2] che ammorba quella prigione a cielo aperto ribollente di odio.

Non varca volentieri i confini del suo regno, Ade.

La sua mente è silente mentre prende a inerpicarsi su per la schiena inarcata del vecchio nemico – sotto i calzari, l’erba si fa sempre più rada e spinosa, la terra scura, sabbiosa; nuvole impalpabili si alzano a ogni passo, e la polvere si aggrappa ostinata alla pelle nuda.

Il brontolio come di uno stomaco di enormi proporzioni romba nella quiete innaturale, più simile alle sterminate Pianure [3] che al caotico reame che i suoi fratelli si dividono di malavoglia, scambiandosi sorrisi da lupi che nel ghigno mostrano i denti.

Sciocchi bisticci di cui non si cura. Mentre sale, conficcando il bastone d’oro coronato d’uccello [4] nel terreno sdrucciolevole per far perno, la vista della desolazione circostante gli si insinua tra le palpebre socchiuse.

Il profilo aguzzo della gabbia di Tifeo si staglia contro il volto troppo azzurro del padre di suo padre; il bastone si impiglia negli aculei dello spinosanto; il nero della sabbia ne è macchiato come certune anime che si presentano a lui coi segni della pestilenza sui visi incavati dalla fame.

Dall’alto, il respiro mefitico del titano incombe su di lui; gli ricorda quell’aria pesante che si accumulava nelle viscere di suo padre, quasi solida e nauseabonda; il pensiero gli solletica lo stomaco, e antica bile gli risale in gola.

Stringe i denti, distrattamente, ma prosegue imperterrito.

Il fumo lo soffoca, si insinua nelle fessure della kuné; gli occhi pizzicano lievi ma Ade non vi bada.

Un piede dopo l’altro.

 

Sotto le suole dei calzari, il terreno si fa incandescente.

Lo sente consumare il cuoio, venire a contatto con la carne. Ritto immobile, lo scettro piantato accanto a sé, Ade guarda in basso. Con gli occhi segue la crepa frastagliata che spacca in due la terra.

Si china, una goccia di sudore che rotola dalla fronte sino alla punta del naso. Cade verso il basso, inghiottita nel crepaccio. La ruga si fa più profonda, scava un solco d’aratro sulla pelle pallida.

La preoccupazione dello Psicopompo non è dunque tanto infondata. Si posa sulle ginocchia.

Neppure stringendo gli occhi gli riesce di arrivare alle profondità della terra con lo sguardo – scorgere uno scorcio di casa da quel regno estraneo, o un tentacolo di Tifeo, una testa di drago che strisci sotto la superficie in cerca di una via di fuga; le Anime, tuttavia, sono creature leggere, più del soffio dei venti – e i Mortali hanno il cervello aguzzo, se si tratta di creare scompiglio nell’Ordine, da morti o da vivi.

I palmi bruciano lentamente e attorno a lui vapori si levano al cielo. Sopra di lui, l’occhio implacabile di Helios gli frusta la schiena. Gli manca il respiro.

Ade allarga le narici come le froge del suoi cavalli, ispirando l’odore pesante – e allora, qualcosa lo disturba.

Leva il capo, lentamente.

Annusa ancora, come Cerbero a caccia.

Una fragranza diversa.

Dolcissima.

Nauseante e familiare.

Stringe gli occhi e cerca, il bastone che si sdraia a terra vicino a lui.

Nel petto si muove qualcosa – nella gabbia delle costole, dove credeva che tutto fosse ormai muto.

 

Il pericolo è dietro di lui – accanto.  

Il primo istinto è quello di voltarsi si scatto – dimentico della kuné, invisibile scudo. Una figura gli si ferma al fianco, si china vicino a lui e guarda in basso, imitando il percorso del proprio stesso sguardo, pochi attimi prima.

Immobile, l’Invisibile [5] la osserva. Osserva la carne macchiata di scuro, i capelli pallidi come luce di Emera sulla soglia di Erebo. Sul viso tondo, gli occhi sono dischi incolori attorno alla nera pupilla – e conosciuti, pure se mai ha incontrato quella fanciulla prima d'ora.

Gli è così accostata che riesce a vedere l’aria greve insinuarlesi tra le labbra dischiuse, nelle narici tese. Quando si volta verso di lui, gli pare che lo fissi, conficcandogli addosso quegli occhi temporaleschi.

« Ti sento. »

Il rombo del ventre di Tifeo assorda, ma le sue parole gli arrivano senza sforzo alcuno.

« Cosa sei? », domanda la Fanciulla impossibile in cima al vulcano.

 

 

NOTE:

 

[1]: L’elmo di Ade che gli permetteva di diventare invisibile una volta indossato.

[2]: Si diceva che Efesto abitasse sotto l’Etna, che gli fungeva da fornace.

[3]: Le vaste Pianure di Asfodeli, dove dimoravano le anime mediocri.

[4]: Lo scettro che permetteva ad Ade di accedere nell’Erebo.

[5]: Attributo di Ade.

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