Stay

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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


 

 

Le nostre due anime perciò, che sono una,
anche se io devo andare non soffrono in verità
una separazione, ma un’espansione,
come oro battuto che si allarga aereo.

 

 

 

 

Londra, 5 Gennaio

Mattina, ore 6.00

 

 
Ansimai, in preda agli spasmi, mentre con le mani raccoglievo le ciocche sfuggite alla coda improvvisata che avevo fatto nella fretta mentre correvo verso il bagno a causa dell’improvvisa nausea che mi aveva colta: erano solo tre giorni che ero uscita dall’ospedale e ancora la paura era parte integrante della mia vita di giorno e di notte ed il mio corpo ed il mio spirito erano ormai devastati da ciò che avevo vissuto.

Erano passati quattro miseri giorni dal giorno in cui Al –il mio ex ragazzo- era entrato in casa mia con l’intento di uccidermi una volta per tutte: aveva più volte ripetuto, anche mentre stavamo insieme, quanto non sopportasse l’idea che io potessi appartenere a qualcun altro che non fosse lui e l’aver constatato che fossi riuscita ad andare avanti e a farmi una vita dopo di lui –nonostante tutto ciò che mi aveva fatto e le cicatrici fisiche e mentali che mi aveva inferto doveva aver fatto scattare qualcosa dentro la sua testa, un campanello d’allarme, che aveva annullato la sua umanità una volta per tutte.

Ero più che certa, però, che la cosa che più lo aveva ferito e che lo aveva spinto ad agire preda di una follia omicida, era stata la consapevolezza che i miei sentimenti per Harry fossero profondi più di quanto lo fossero mai stati quelli che avevo nutrito nei suoi confronti.

Rimasi ferma per qualche secondo, in ginocchio davanti al water mentre aspettavo che la nausea mi passasse un minimo: da quando avevo lasciato Harry per provare a tenerlo al sicuro avevo iniziato a soffrire non solo dal punto di vista emotivo; le mie crisi d’ansia erano tornate, quelle di panico si erano fatte più frequenti, gli incubi avevano iniziato a popolare le mie notti e capitava spesso che, per lo stress, soffrissi di nausea e avessi bisogno di vomitare.

Stavolta, però, era diverso: Harry lottava per la propria vita in un letto d’ospedale reduce da un’operazione di ventiquattro ore condotta nel tentativo di estrarre il proiettile dal suo sterno.

La cosa che più mi faceva male era che nel momento in cui mi ero ritrovata faccia a faccia con Al avevo accettato ed accolto anche l’eventualità di morire perché sapevo che se avessi lottato e chiesto aiuto, qualcun altro si sarebbe fatto male per colpa mia.

Avrei tanto voluto capire perché diavolo era dovuto accadere ad Harry -la cosa più bella che mi fosse mai capitata fino a quel momento e non a me, ma ripensandoci a mente lucida, forse non era stato un caso: forse Harry si era volutamente sacrificato, ma non passava ora durante la quale io non provassi ad immaginare come sarebbe potuta andare se solo lui non fosse stato colpito.

Quando fui certa di sentirmi meglio mi sollevai sulle gambe molli e tirai lo sciacquone prima di dirigermi verso il lavandino per lavarmi i denti e spruzzarmi un po’ d’acqua fredda in faccia: alla fine mi sentii più sollevata e quasi riuscii a sentirmi normale mentre mi asciugavo il viso con l’asciugamano e mi osservavo per qualche secondo allo specchio.

Il mio volto emaciato mostrava ancora i segni del pestaggio Al, sebbene il livido sul mio zigomo stesse ormai diventando giallastro e la crosta sul mio labbro superiore –non più così gonfio- avesse finalmente smesso di pulsare.

L’aspetto in generale, però, era un totale disastro: i miei occhi erano lucidi e la mia espressione affranta suggeriva che fossi perennemente sul punto di piangere, cosa assolutamente vera.  

Zia Emma era tornata finalmente a casa –l’avevo trovata al mio capezzale quando avevo ripreso i sensi in ospedale- e mi stava aiutando a prendermi cura di me stessa; era lei ad assicurarsi che la fasciatura attorno alle mie costole fosse ben stretta e ad aiutarmi a vestirmi nonostante il tutore al braccio destro.

Mi sembrava di essere tornata indietro nel tempo a quando lasciavo ad Al il potere di picchiarmi senza ribellarmi, in attesa di trovare il coraggio di denunciarlo, ed ero altrettanto certa che zia Emma si sentisse nello stesso modo: per lei era stato un trauma scoprire che la sua nipotina –l’unica figlia della sua defunta sorella- aveva subito numerosi pestaggi da parte del ragazzo che aveva dichiarato di amarla e rischiare di assistere al suo omicidio non aveva certamente giovato alla sua salute mentale.

Rabbrividii e mi strinsi nello scialle di lana mentre uscivo dal bagno e scendevo le scale per andare in cucina, dove mia zia stava preparando bacon e uova.

Il dottore si era raccomandato di farmi mangiare molto –per due, addirittura- perché riteneva che nel mio stato di salute era assolutamente indispensabile che mi rimettessi in fretta in forze: io non avevo avuto niente da obbiettare.

Mi ero finalmente liberata di Al per sempre ed avevo tutte le intenzioni di prendermi finalmente cura di me stessa dal momento che avevo già rischiato abbastanza nei due mesi precedenti lasciandomi andare, smettendo di mangiare e prendendo quantità preoccupanti di Valium pur di stordirmi e non pensare a ciò che stavo passando e adesso avevo tutte le intenzioni di rimediare al mio errore.

Zia Emma stava seduta al tavolo della cucina ed osservava la televisione, sintonizzata sul telegiornale, con una tazza fumante tra le mani: di fronte a lei, al mio solito posto, stava un piatto stracolmo di uova strapazzate e bacon accompagnati da due fette di pane tostato e burro e, nonostante la nausea, non riuscii a trattenere un sorriso.

“Buongiorno.” La salutai, lasciandole un piccolo bacio sulla guancia prima di accomodarmi al mio posto, osservando il piatto cercando di decidere da dove fosse meglio cominciare: il bacon era invitante, ma avendo appena vomitato forse era meglio iniziare da qualcosa di liquido.

“Come ti senti stamattina, Kit?”

La solita domanda giunse premurosa come ogni mattina da quando eravamo tornate dall’ospedale ed ogni volta riusciva a riscaldarmi più del latte nella tazza: il dottore mi aveva ordinato di non assumere caffeina per nessun motivo al mondo e mia zia sembrava ricordarsi ogni volta cosa fosse meglio per me.

Io mi strinsi nelle spalle, prendendo un sorso dalla mia tazza.

“Come al solito.” Gracchiai, rivolgendole uno sguardo di sottecchi mentre il telegiornale continuava a trasmettere le notizie del mattino: una bellissima reporter con i capelli biondi sciolti lungo le spalle raccontava come quel giorno si sarebbero svolti i funerali di Alexander Evan Wilkinson e di come la famiglia si fosse chiusa nel silenzio più assoluto.

Da quando mi ero risvegliata avevo più volte provato a contattare Rhett tramite messaggi e chiamate, ma lui non una sola volta aveva risposto e se da una parte comprendevo il suo comportamento, dall’altro non potevo che sentirmi tradita: non solo ero stata quasi uccisa da suo fratello e privata della presenza di Harry in quel momento così delicato della mia vita, ma ero stata anche costretta ad assistere alla raccapricciante scena nella quale Alexander si era infilato una pistola fra i denti e si era fatto saltare il cervello proprio nel mio salotto.

Rabbrividii e cercai di scacciare quel pensiero dalla mia mente prima che prendesse possesso di me: non avrei dovuto liberare quel ricordo, soprattutto non in quel momento, ma era impossibile con la televisione che continuava a mandare in onda le immagini del muro del mio soggiorno imbrattato di sangue e del pavimento dove Harry era stato sparato.

Il muro era stato immediatamente ricolorato ed il pavimento pulito, eppure ancora non riuscivo a camminare per il soggiorno senza provare ad immaginare come Al mi avesse vista da quell’angolazione: poteva sembrare malato da parte mia, ma ogni volta mi fermavo davanti ai quadri e mi voltavo verso la finestra provando a visualizzare la scena dal punto di vista di Al.

Talvolta tornavo al mio posto e ripercorrevo la scena da lì, continuamente, cercando di ricordare ogni minimo dettaglio per imprimerlo nella mia mente e tenerlo fisso lì.
Non volevo farmi del male, solo assicurarmi che non avrei mai e poi mai dimenticato come ci si sentiva ad essere in punto di morte, con una pistola puntata contro per continuare ad amare la vita. Non mi sarei più potuta arrendere, questo lo avevo accettato e fatto mio.

“Vuoi passare dall’ospedale prima di andare dalla dottoressa Jenkins?” Domandò zia Emma, premurosa come sempre, pur conoscendo già la risposta: io, infatti, annuii, prendendo un altro sorso dalla mia tazza per poi mordere un toast croccante.

“Allora muoviti, verso le undici dobbiamo andare a fare acquisti in città.” E mi lanciò uno sguardo complice che mi fece sorridere mentre il mio cuore si riempiva di tenerezza ed aspettativa al pensiero di ciò che mi aspettava –ciò che ci aspettava- e che certamente avrebbe cambiato le nostre vite.

La mia, in realtà, l’aveva già cambiata.
Finii di mangiare in fretta e sparecchiai, lavando le tazze ed il mio piatto per poi riempire la lavastoviglie prima di tornare al piano di sopra per vestirmi: scelsi un morbido maglione azzurro chiaro, molto largo ed un paio di leggins neri che indossai prima di andare in bagno per lavarmi i denti e cercare di sistemare quel disastro che erano i miei capelli ed il mio viso.

Intrecciai i capelli a partire dall’attaccatura, poi passai a nascondere i segni del pestaggio dal mio volto ricoprendo la pelle con ingenti quantità di fondotinta: ovviamente non bastò, ma riuscii visibilmente a diminuire la visibilità del livido sotto l’occhio e ciò mi bastò. Indossai le scarpe ed il giubbotto e presi la borsa e le chiavi per poi seguire zia Emma fuori dalla porta verso la macchina: erano mesi che non uscivo di casa –mi resi conto- e l’ultima volta che ero stata in un’auto era stata con Harry.

Trattenni le lacrime e mi sforzai di fingere che andasse tutto bene, almeno per zia Emma: era sinceramente felice che fossi viva e che finalmente Al non fosse più una minaccia per noi –non che non le dispiacesse per la sua morte- e, sopra ogni cosa, era su di giri per ciò che avevamo scoperto all’ospedale.

Il tragitto fu breve e al nostro arrivo non c’era quasi più traccia dei giornalisti che invece affollavano l’uscita il giorno in cui ero stata dimessa, ma sicuramente qualcuno all’interno stava ancora cercando novità riguardo allo stato del poliziotto, l’eroe acclamato di quegli ultimi giorni.

Ma Harry non era un eroe, era una vittima, un innocente rimasto ferito nel tentativo di salvare la vita della ragazza che lo aveva lasciato senza un motivo solamente dopo averlo esposto al pericolo. E adesso lottava tra la vita e la morte.

Beh, non proprio: i medici avevano speranza che, essendo giovane ed in buona forma fisica e salute, potesse risvegliarsi e recuperare nel giro di un paio di mesi –al massimo tre- ma per il momento la prognosi rimaneva riservata.

All’ingresso, l’infermiera di turno mi accolse con un sorriso accennato che cercai di ricambiare senza lasciar trasparire la mia angoscia, prima di proseguire verso il terzo piano con il mio permesso speciale in tasca: solo i familiari potevano visitarlo e sebbene io ed Harry non stessimo più insieme –non di fatto, almeno- alla luce di ciò che era emerso a me era consentito visitarlo.

Al reparto di terapia intensiva indossai il camice e la cuffia prima di varcare la soglia del corridoio che portava alle stanze: mi diressi verso la terza porta a destra ed abbassai la maniglia, trattenendo il respiro.

Subito il silenzio ovattato del luogo mi circondò, l’unico suono udibile era quello del respiratore di Harry ed il bip continuo e ritmato del cuore di Harry trasmesso dalle macchine alle quali era collegato: era completamente nudo sotto il lenzuolo e le sue braccia tatuate erano esposte alla luce bianca dei neon attaccati al soffitto come pure le rondini sulle clavicole.

Mi avvicinai al letto, gli lasciai un bacio sullo zigomo poiché la sua bocca era occupata dal respiratore, sedendomi sulla sedia posta di fianco a lui per poi prendergli la mano delicatamente, facendo attenzione a non toccare gli aghi mentre il mio cuore sobbalzava alla vista dei suoi lineamenti distesi e perfetti.

“Ciao amore.” Sussurrai, mentre le lacrime cominciavano a scorrermi lungo le guance ed il mio respiro si faceva affannoso: i dottori avevano raccomandato di parlare durante le visite per poter stimolare l’inconscio ed i sensi –come ad esempio, l’udito- ed il contatto era incoraggiato e consigliato. Mi ero documentata sull’argomento a casa, decisa a conoscere ogni dettaglio riguardo la situazione nella quale si trovava Harry in quel momento.

“So che probabilmente ti sarai stancato di sentirtelo dire, ma mi manchi. Mi manchi tantissimo.” Mi asciugai il viso con una mano e tirai su col naso, prendendo un attimo di pausa per riordinare le idee.

“Sono tre giorni che zia Emma non fa che farmi mangiare per due: probabilmente quando ti sveglierai sarò grassa come una balena.” Risi nervosamente, appoggiando la guancia sul suo petto, facendo attenzione ad evitare lo sterno dove sapevo si celava il buco del proiettile non ancora del tutto guarito.

“Uova e bacon innaffiati da mezzo litro di caffè.” Scherzai, accarezzando con un dito il contorno della testa di una rondine. Mi mancava terribilmente sentirlo parlare, sapere che poteva realmente sentirmi, far finta di offendermi per le sue prese in giro, perfino litigare mi sarebbe piaciuto un sacco, in quel momento.

Mi mancava terribilmente averlo vicino, potermi accoccolare accanto a lui nel letto, condividere con lui le mie preoccupazioni mentre gli baciavo il petto, la gola, la mascella…

“Appena ti svegli prometto che mangeremo bacon e uova insieme; ho trovato un modo per far sì che il bacon resti croccante anche dopo mezz’ora. Dovrai farmi da cavia.”

Ridacchiai di nuovo, mentre le lacrime continuavano a scorrermi lente sul viso.

Rimasi un po’ in silenzio, fino a che l’infermiera non entrò per avvisarmi che sarei dovuta uscire entro pochi minuti: odiavo dovermene andare quasi quanto odiavo dover andare all’ospedale senza ricevere novità, quel tipo di monotonia mi spaventava più della frenesia del periodo appena trascorso forse perché temevo che la situazione sarebbe potuta restare così per sempre.

“Devi svegliarti Harry.” Dissi sollevandomi dal suo petto mettendomi in piedi mentre tenevo la sua mano fra le mie, cullandola leggermente.

La guidai verso di me, appoggiandola dolcemente sul mio basso ventre mentre il mio polso accelerava.

“Noi ti aspettiamo qui.” Singhiozzai. 

 

 

 

 

 

 

 

Heylà

 

William è tornata dopo tre lunghi 

anni di Obsidian con un nuovo, strappalacrime, 

heartbreaking sequel.

Mi è tornata l’ispirazione (accidenti, 

sono piena di idee) e spero 

vivamente che apprezziate.

Per i nuovi lettori: tranquilli, 

non c’è veramente bisogno che leggiate

il prequel per comprendere Stay, 

ma se volete ricevere uno sguardo 

più completo sulla situazione di Harry 

e Kitai potete tranquillamente fare un salto.

Come nella mia precedente storia, 

i recensori verranno menzionati a 

fine capitolo e una loro storia 

verrà sponsorizzata ogni santa volta.

 

Vi amo tantissimo

William

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***








“Ho fatto un sogno la scorsa notte.”
La dottoressa Jenkins mi rivolse uno sguardo da dietro gli occhiali, mentre la sua penna si muoveva veloce sul foglio bianco strusciando e colpendo ripetutamente il cartoncino dietro di esso.

Io tenevo le mani in grembo e non riuscivo a smettere di torcermi le dita fra loro, mentre cercavo disperatamente di mantenere la respirazione regolare, come lei mi aveva insegnato a fare: era il primo passo per non lasciarsi travolgere dalle crisi dato che  non volevo ricorrere di nuovo ai medicinali.

Il bambino ne avrebbe certamente sofferto e non avrei permesso a niente e a nessuno –nemmeno a me stessa- di fargli del male; ero più che determinata a tenerlo al sicuro e a prendermi cura di lui il meglio possibile.

“Sempre lo stesso?” Indagò, quasi pronta a mettere giù la penna e a rassicurarmi nello stesso modo: fino a quel giorno avevo sognato la scena nella quale Al si sparava in bocca, ma nella mia immaginazione, prima di uccidersi, sparava a me; la cosa che rendeva quel sogno insopportabile, però, era che non ero io a morire.

Era il bambino.

E, cosa peggiore, Harry mi soccorreva, rassicurandomi con frasi del genere: “Va tutto bene, è tutto okay. È toccato al bambino, tu sei salva.”

Secondo la dottoressa questo incubo mi era derivato dal fatto che non fossi riuscita ad elaborare l’idea della gravidanza e che l’incertezza che Harry si sarebbe potuto risvegliare o meno, mi aveva causato un irrefrenabile desiderio inconscio di averlo ancora al mio fianco.

Diceva che il mio amore poteva avermi portata a considerare l’idea di rinunciare al bambino, di sacrificare la sua vita, pur di riavere Harry, oppure poteva essere un semplice modo del mio cervello per farmi comprendere quanto la situazione attuale fosse la migliore delle ipotesi; entrambe concordavamo sulla seconda opportunità.

Sapevo benissimo anche io che avrei barattato qualsiasi cosa, sacrificato ogni pezzo della mia anima pur di garantire al mio bambino, al figlio di Harry, di continuare a vivere.

“No, non era propriamente un incubo.” Spiegai, abbassando lo sguardo sulle mie mani.

La dottoressa riprese la penna e si sistemò gli occhiali, pronta di nuovo a mettersi a lavorare per decifrare i messaggi della mia psiche.

“Eravamo… Io ero all’aeroporto.” Cominciai, mentre sentivo già gli occhi bruciarmi e la gola stringersi.

“C’era anche Harry che, ad un certo punto, mi regala un portachiavi a forma di mappamondo. In sostanza, lui lo faceva girare, ed io con gli occhi chiusi dovevo fermarlo.”

La mia voce iniziò a tremare e mi morsi il labbro per cercare di non piangere, di distrarmi dal dolore che stavo provando: anche se cercavo di essere forte per zia Emma e nonostante la felicità derivata dalla vita che cresceva dentro di me c’era una parte del mio cuore –una parte particolarmente grande- che sembrava sanguinare ogni secondo, minuto ed ora e non accennava a voler smettere.

“Va’ avanti.” Mi spronò la dottoressa quando vide che non continuavo.

“Quando aprivo gli occhi…” Sospirai, cercando di trattenere i singhiozzi. Portai una mano davanti alla bocca, mentre una lacrima solitaria percorreva la mia guancia e cadeva lungo la mascella.

“Lui non c’era più e zia Emma mi diceva che non ce l’aveva fatta.”

La dottoressa Jenkins mi rivolse uno sguardo compassionevole e comprensivo mentre mi allungava il pacchetto di Kleenex dalla scrivania accanto a lei: ogni volta che andavo da lei non riuscivo a trattenermi e non sembrava che a lei dispiacesse. Dopotutto, quello studio era l’unico luogo nel quale non dovessi nascondere le mie paure e lei questo lo sapeva; certamente aveva avuto tanti altri clienti nelle mie condizioni eppure mai una volta sembrava scocciata o comunque annoiata dalle storie dei propri pazienti.

Ti faceva sentire utile e ascoltata.

“Mi dispiace.” Dissi, mentre mi soffiavo il naso e forzavo una risata tra le lacrime.

“So che sono cose stupide da dire, probabilmente ho solo paura che una simile cosa si realizzi. Ma non riesco a farci niente: continua a fare male.”

“Kit, stai tranquilla: è completamente normale che tu sia spaventata.” La dottoressa mise via la cartellina e si sporse verso di me, offrendomi un lungo abbraccio di conforto, cullandomi finché i singhiozzi non diminuirono leggermente.

“In realtà sono colpita dal modo in cui la gestisci: una gravidanza a diciotto anni non è esattamente una cosa facile da gestire, per non parlare di ciò che hai dovuto passare negli ultimi tre anni.”

Parlava con voce dolce e comprensiva al mio orecchio e nel frattempo strofinava i palmi delle mani sulla mia schiena, nel tentativo di aiutarmi a recuperare la calma: nonostante mi capisse sapeva che non era saggio lasciare che continuassi a piangere, nei giorni precedenti non ero riuscita a fermarmi e uno dei propositi della terapia era aiutarmi a gestire le emozioni e la paura.

“Devi solamente avere fiducia: i dottori hanno detto che ha buone possibilità di riprendersi, no?”

Provò a tirarmi su di morale, districandosi dall’abbraccio per guardarmi negli occhi: la dottoressa era una bellissima donna dai lunghi capelli biondi che portava sempre raccolti in una morbida crocchia dietro la nuca ed i penetranti occhi grigi.
Sembrava quasi che riuscisse a guardarti nell’anima e questa cosa per certi versi poteva risultare utile dal momento che molte volte non c’era bisogno che parlassi perché lei mi capisse, mi risparmiava il dolore derivato dal dire le cose ad alta voce.

Io annuii e tirai su col naso, sorridendole riconoscente mentre mi risiedevo composta sul divano e lei riprendeva la sua cartellina e la penna, scrivendo ciò che era successo negli ultimi momenti.

“Emma mi ha detto che state andando a fare spese per il bimbo.” Disse mentre scriveva per mantenere viva la conversazione e forse per evitare che la mia mente divagasse.

“Sì” assentii, “ma solo per la carrozzina ed il lettino.”

Mi asciugai il viso, sperando che il fondotinta non si fosse sciolto del tutto: non mi andava di sembrare un clown triste mentre giravo per negozi e, dal momento che erano quasi le dieci non avrei avuto il tempo di tornare a casa per coprire di nuovo il viso.

“Quando si saprà il sesso?” Volle sapere, sinceramente incuriosita.

Io sorrisi mentre mi stringevo nelle spalle.

“La prossima ecografia è fra un paio di settimane, ma…” Ed esitai, mentre il pensiero che volevo esprimere si formulava nella mia mente riempiendomi di calore.

“Io spero sia un maschio.” Dissi infine, con il sorriso sulle labbra.

Il pensiero di un bimbo ridente, con le fossette ai lati delle guance e gli occhi verdi –come Harry- mi riempiva di speranza ed era forse l’unica cosa che mi permetteva di non lasciarmi travolgere completamente dalla depressione.

La dottoressa finì di scrivere ed annuì nella mia direzione in un gesto d’approvazione.

“Anche io speravo si trattasse di un maschio con il mio primo.” M’informò, sfilandosi gli occhiali ed appoggiandoli in grembo.

“E…?” Chiesi incuriosita, sporgendomi leggermente in avanti.

“Beh, è arrivato.” Rise, sporgendosi verso la scrivania alla sua sinistra per prendere una cornice argentata con all’interno la foto di due bambini, uno che all’apparenza poteva avere dieci anni ed un altro di –probabilmente- quattro. Me la porse e, quando la presi, notai che assomigliavano tutti e due a lei in modo incredibile: gli occhi, forse, erano l’unica cosa che avevano preso dal padre.

“Sono due bambini bellissimi.” Mi complimentai, restituendole la cornice.

“Lo so.” Disse lei, guardando la foto con amore. “Sono il mio orgoglio più grande.”

Io non potei fare a meno di portare una mano sul ventre leggermente gonfio, mentre cercavo di figurarmi l’aspetto del mio bambino a dieci anni: probabilmente sarebbe stato un bimbo intelligente e vispo, a tratti perfino dispettoso ma, cosa più importante, sarebbe stato mio.

Mio e di Harry, mi corressi mentalmente –cosa che lo rese ancora più meritevole d’amore ai miei occhi.

“Bene, non ti trattengo oltre.” La dottoressa Jenkins si alzò ed io la imitai, mentre si dirigeva verso l’attaccapanni e mi porgeva il mio giubbotto e la sciarpa.

“Fammi sapere come va e ricordati di pensare positivo.” Si raccomandò.

Io annuii ed aprii la porta, cercando di individuare zia Emma in macchina prima di uscire in strada: fortunatamente individuai la carrozzeria metallizzata quasi immediatamente quindi mi diressi verso di essa, guardando attentamente a destra e a sinistra prima di attraversare per evitare di farmi investire.

Una volta entrata in macchina allacciai velocemente la cintura, mentre zia Emma bloccava il cellulare e lo metteva in borsa, per poi inserire la chiave nel quadro e girarla per mettere in moto.

“Sei pronta per un po’ di shopping?” Chiese, entusiasta guardando gli specchietti retrovisori ed immettendosi nella strada principale con una mossa fluida degna di un guidatore professionista: zia Emma aveva sempre avuto una guida estremamente sportiva e fluida, cosa che invece non poteva essere detta di me.

Ero una vera imbranata al volante e non c’era istruttore di guida che tenesse, men che meno mia zia che per quanto potesse essere dotata non era assolutamente paziente: d’altro canto riuscivo a capirne molto di motori e ciò mi aveva giovata in molte occasioni.

Anche con Harry, pensai, ridacchiando.

“Sarà un incubo.” Bofonchiai, accendendo il cellulare e controllando le notifiche: ogni volta speravo in un messaggio di Rhett, anche in una risposta sgarbata, perché almeno avrei avuto il modo di dare il via ad una conversazione, di provare a parlargli e a spiegargli la dinamica degli eventi. Probabilmente non sarebbe servito a niente, anzi, lo avrebbe solo fatto infuriare il doppio, avrebbe scatenato il suo odio nei confronti miei e di Harry poiché a noi era stata risparmiata la vita e ad Al invece no.

“Stavo pensando che per fare entrare la culla in camera dovremo spostare il comò.”

Zia Emma interruppe i miei pensieri mentre metteva la freccia e svoltava in una delle strade del centro città, mentre la mia mente vagava al pensiero di dove mi sarei potuta trovare al momento della nascita del bambino: Harry sarebbe già stato sveglio per allora? E se non avesse avuto intenzione di avere niente a che fare con quel bambino? O, peggio: se non si fosse svegliato affatto?

Un moto di angoscia mi pervase e potei sentire il sangue defluirmi dalle guance: non avevo paura di dover crescere il bambino per conto mio –avevo già messo in conto la possibilità che Harry non avesse voluto avere niente a che fare con me e nonostante il pensiero mi lacerasse l’anima riuscivo comunque a sopportarlo- la cosa che più mi riempiva di paura era l’eventualità che quel bambino sarebbe potuto crescere senza poter abbracciare suo padre, riceverne gli insegnamenti e chiedergli consigli.

Avrei voluto offrire solo il meglio all’unica cosa veramente buona che avessi mai fatto e non avere la certezza di poterlo fare mi causava un senso di impotenza che rischiava di uccidermi.

“Mi stai ascoltando, Kit?” Mi riprese zia Emma, vedendo che non accennavo a volerle rispondere.

Io scossi la testa e mi voltai verso di lei, riacquistando lucidità.

“Scusa zia, ero sovrappensiero.” Risposi, cercando di sfoderare un sorriso che sembrasse quanto meno convincente. Lei inarcò un sopracciglio e rallentò in vista di un parcheggio libero lungo la strada.

“Ho detto che forse dovremmo prendere in considerazione l’idea di trasferirci, più in là.” Cominciò, mentre metteva la retromarcia e procedeva all’indietro.

“Quando il piccolo crescerà avrà bisogno dei suoi spazi.” Spiegò.

Io ridacchiai nervosa.

“Penso sia un po’ presto per iniziare a pensare a certe cose” obbiettai, infilando il cellulare in tasca e sganciandomi la cintura mentre lei cercava di posizionare meglio l’auto.

“Insomma, questo bambino deve ancora nascere e noi già stiamo pianificando la sua intera vita.” Continuai, aprendo lo sportello e scendendo dall’auto, mentre mia zia faceva lo stesso: capivo che stesse cercando di garantirci un futuro migliore possibile, ma l’idea che esso escludesse l’eventualità che potessi vivere con il padre di mio figlio non mi piaceva affatto.

Per quanto fosse improbabile, la speranza era comunque l’ultima a morire e il pensiero di una vita passata con Harry era una cosa che mi aiutava a mantenermi sana di mente.

“Kit, è normale. Succede sempre così.” Mi rassicurò lei, sfoderando un enorme sorriso che aveva il chiaro scopo di mettere fine a quella conversazione: sapevo esattamente che intendeva concentrarsi del tutto sullo shopping e che il mio pessimismo avrebbe solamente rovinato il suo entusiasmo.

Zia Emma non aveva mai potuto avere dei figli suoi poiché il crescermi aveva assorbito del tutto il suo tempo libero e le aveva impedito di riuscire a frequentare uomini single della sua età al di fuori del lavoro ed ero quasi sicura che il suo volersi prendere cura di questo bambino era un modo per poter vivere una specie di maternità che le era stata sempre negata.

Quindi decisi di non protestare e la seguii per la strada mentre lei continuava a blaterare di cose senza senso riguardo a marche di pannolini e pappe che non intendeva assolutamente contraria; cominciò anche ad illustrarmi il suo piano di acquistare una macchina per poter fare gli omogenizzati in casa per evitare di comprare quelli già confezionati che, si sapeva, non erano mai sani quanto il cibo cucinato in casa.

Nonostante la trovassi a tratti pignola, concordavo nel voler dare il meglio al piccolo ed avevo piena fiducia nei suoi gusti per la scelta della culla e della carrozzina che si rivelarono ancora una volta infallibili.

Avevamo subito adocchiato una culla di legno bianca, dalle testate stondate e le sbarre lisce alle quali erano stati attaccati dei morbidi cuscini paraurti celesti ed una carrozzina blu scuro che poteva essere utilizzata anche come passeggino fino a che il bambino non avesse compiuto cinque anni. Considerato che ci saremmo certamente risparmiate l’acquisto di un secondo articolo la modica cifra di trecento sterline non ci sembrò poi così esagerata; inoltre, se avessimo deciso di prendere insieme il lettino avremmo ricevuto uno sconto di circa cento sterline sul conto finale.

Mentre continuavamo ad arrovellarci e a controllare e confrontare i prezzi con un sito online una commessa giovane dall’incarnato estremamente chiaro –quasi ceruleo- ed i capelli corvini ci si avvicinò, desiderosa di dare una mano.

“Posso esservi utile in qualche modo?” Trillò con una voce cristallina che si sposava benissimo con i suoi tratti delicati da elfo dei boschi mentre un sorriso cordiale le si dipingeva sul viso.

“Eravamo interessate a comprare la carrozzina.” Disse zia Emma, ricambiando il sorriso ed indicando l’oggetto in questione con un cenno della mano mentre la commessa annuiva e mi guardava come se avesse capito che la mamma ero io: probabilmente era palese dal momento che sembrava che fossimo una normale coppia di madre e figlia che andavano a fare acquisti in una situazione del tutto ordinaria.

“Siete già a conoscenza dell’offerta?” Volle sapere, facendo scorrere lo sguardo fra me e mia zia in modo del tutto efficiente.

“Sappiamo tutto. Ci chiedevamo se fosse possibile cambiare il colore dei cuscini del lettino.”
La commessa s’illuminò.

“Allora è una femminuccia?” Chiese con gli occhi che si illuminavano mentre zia Emma ridacchiava; io sorrisi solamente, cercando di non isolarmi nella mia apatia nei confronti di quella questione –che fosse maschio o femmina non importava finché era sano.

“In realtà ancora non lo sappiamo, la prossima ecografia è fra un paio di settimane ma ci stiamo già preparando.” Spiegò zia Emma con tono fiero, passandomi un braccio attorno alle spalle e stringendomi a sé affettuosamente mentre io continuavo a forzare il mio sorriso: tutto quell’entusiasmo da parte della commessa mi risultava un tantino stucchevole e mi dava come l’impressione che fosse una di quelle ragazze che sognano la gravidanza fin dall’adolescenza.

“Di quanti mesi sei?” Mi chiese voltandosi verso di me. Io mi strinsi nelle spalle mentre sentivo il sangue colorarmi le guance.

“Ormai sono quasi tre mesi.” Spiegai.

“Nascerà in estate: ho sentito dire che il parto d’estate è un tormento…”

Per quanto la questione mi riguardasse non potei fare a meno di strabuzzare gli occhi mentalmente nel constatare che la ragazza aveva trovato terreno fertile per iniziare a chiacchierare amabilmente ed ammazzare il tempo durante una monotona giornata di lavoro.

“Hai già deciso come vuoi partorire?” Non accennava a volerla smettere di parlare di questa cosa ed il mondo mi cadde addosso quando mi resi conto che non sarei uscita da quel negozio tanto presto: ero stanca e demoralizzata dalla situazione che mi circondava e, come se non bastasse, avevo una fame da lupi nonostante l’abbondante colazione.

“Naturale.” Tagliai corto, sempre cercando di non risultare scortese.

“Senza epidurale?” Sembrò sorpresa, quasi scioccata a dire il vero, e la cosa mi mise un po’ a disagio.

“Non credo, no.” Spostai il peso da un piede all’altro, mentre mi guardavo intorno alla ricerca di qualcosa che potesse fornirmi un appiglio per cambiare argomento e poter tagliare corto con i convenevoli e le informazioni sul tipo di parto che avevo scelto.

E fu allora che lo vidi: nella corsia centrale, quella alla mia sinistra, vicino allo scaffale dei peluches con un enorme orsacchiotto bianco in mano c’era la persona che non mi sarei mai e poi mai aspettata di trovare in quel posto a quell’ora di quel giorno.

Rhett mi stava guardando di nascosto dalla sua posizione in ombra in fondo al corridoio con gli occhi rossi e cerchiati di nero, segno evidente che non era riuscito a dormire e che, probabilmente, era stato a causa del pianto; proprio quel pomeriggio ci sarebbero dovuti essere i funerali di Al, suo fratello, e non riuscivo a spiegarmi la sua presenza in un negozio prenatale.

“Rhett…” Lo chiamai con voce incerta.

Mia zia e la commessa si voltarono verso di lui e mi pentii di averlo chiamato a voce alta quando notai quanto fastidio gli desse l’attenzione che gli era stata dedicata: probabilmente era stanco e stravolto e stava comprando un peluche da deporre nella bara di Al in segno del suo amore nonostante tutto ciò che anche lui aveva subito.

Non avrei mai e poi mai dimenticato il giorno in cui mi aveva confessato di aver subito pestaggi a sua volta da parte di Al e di come mi fossi sentita male per averlo sempre evitato e, anzi, per aver avuto paura di lui senza nemmeno conoscerlo a fondo: nella mia mente lo avevo sempre accomunato ed identificato con il dolore che avevo subito senza prendere in considerazione l’idea che anche lui avesse potuto soffrire.

Rhett mise a posto il pupazzo e fece per voltarsi, certamente con il fine di andarsene, ed io mi ritrovai a seguirlo senza nemmeno essermi resa conto che i miei piedi si erano mossi incuranti degli sguardi delle due donne sconcertate intorno a me.

“Rhett.” Lo chiamai a voce più alta, accelerando il passo per raggiungerlo: lo avevo finalmente a portata di mano dopo mesi che non mi era stato concesso vederlo né parlargli e in seguito a quattro giorni di chiamate ininterrotte nella speranza di potergli esprimere il mio dolore per la sua perdita.

“Ti prego, aspetta…” La mia voce si spezzò mentre lui allungava il passo e, con le sue gambe lunghe, si avvicinava velocemente all’uscita senza voltarsi indietro; era come vedermi scivolare via dalle dita l’ultimo brandello della mia vita passata, di quel piccolo lasso di tempo che avevo vissuto con Harry e che avevano segnato la mia ripresa dopo anni di paura.

Cominciai a correre quando mi resi conto che se non l’avessi affrontato in quel momento non avrei più avuto l’occasione per farlo e, appena fui sufficientemente vicina, allungai una mano ed afferrai la manica della sua giacca a vento, finalmente raggiungendolo mentre rallentava il passo; non seppi mai se fosse stato lui oppure avessi agito senza accorgermene, ma in un attimo mi ritrovai stretta a lui in un abbraccio stritolatore, in mezzo alla strada, accompagnato dai singhiozzi di Rhett dritti nel mio orecchio che continuava a ripetere parole incomprensibili di scuse e rimpianto nei miei confronti e in quelli di suo fratello.

Le lacrime raggiunsero anche i miei occhi mentre tutto il suo dolore ed il suo senso di perdita mi investivano, insieme al sollievo derivato dalla consapevolezza che non mi odiava e che non mi riteneva colpevole di ciò che era accaduto.

“Va tutto bene,” provai a rassicurarlo, cullandolo come meglio potevo, dondolandomi a destra e a sinistra per muovere anche lui.

“Ti voglio bene, Rhett.” E rimasi abbracciata al mio migliore amico, l’unica persona che in quel momento potesse realmente capire il mio dolore fino in fondo ed aiutarmi a superarlo una seconda v

olta.

“Perdonami.” Disse solo, con la voce rotta dai singhiozzi. 


 





Harry e Kit in cucina (Obsidian)


credits to elefhteriaa





HEY

Prima di tutto volevo ringraziare tutti voi lettori e recensori
ed i venti che hanno aggiunto
la storia tra le preferite...

SIETE DAVVERO ADORABILI
Non ho ancora riletto il capitolo
-se lo avessi fatto non lo avrei più postato- 
e passerò certamente a correggere
domani gli eventuali errori.

COMINCIAMO CON I RECENSORI
(Cliccate sui loro nomi!)


SophieFerres
__she_isnot_afraid__
My name is Miry
Harry_Love_
Loveisallaround
happy_me

E la storia che andiamo a sponsorizzare è quella di....


Who's that shadow? - __she_isnot_afraid__
Scarlett sa di aver raggiunto i suoi amici al falò nel bosco insieme alla sorella. Ne è certa. Non è affatto certa però del motivo per cui si sia risvegliata in uno scantinato buio e, apparentemente, abbandonato. Per fortuna (o per sfortuna?) scoprirà di non essere del tutto sola, lì dentro.
Nota autrice: brevi capitoli e aggiornamenti frequenti
DA BRIVIDI
Vi ricordo che ogni recensore vedrà
una storia pubblicizzata a fine capitolo

TANTO LOVE, ci vediamo al prossimo capitolo

William

 

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