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Nella
piccola bianca stanza d’ospedale, sdraiata sul letto e ancora dolorante a causa
del recente parto, una donna osservava la sua bambina nata da poche ore, inerme
tra le lenzuola della culla termica.
«Come
somigli a tuo padre…» sorrise, in direzione della
piccola figura che teneva gli occhi serrati, addormentata «Leef.»
La
madre combatté con i spasimi della ferita del cesario
per allungarsi e regalare alla bimba un bacio sulla fronte. Una fitta
particolarmente dolorosa la costrinse a sdraiarsi di nuovo.
Quando
finalmente si sentì meglio si concesse un lungo sospiro, poi torno a guardare
la bimba: una piccolissima creatura, completamente indifesa e innocente. Più la
guardava più le sembrava la cosa più bella di sempre.
Sorrise,
in fondo le dodici ore di travaglio erano valse eccome.
Alzò
lo sguardo all’orologio appeso sopra la porta; erano le dieci. Solo allora si
ricordò: quel pomeriggio degli scienziati americani avevano portato a termine
il primo esperimento di clonazione di un essere umano. Ci erano voluti dieci
anni di dibattiti, polemiche, cause legali e quanto altro può essere scatenato
da una cosa così antietica prima che infine si giungesse al fatidico giorno.
Prese
con mani traballanti il telecomando impolverato, che suo marito aveva lasciato
sul comodino di fianco al letto poco prima di uscire. Gli effetti del parto si
facevano sentire, infatti impiegò diverso tempo per riuscire a premere il tasto
REP, che permetteva di rivedere in qualsiasi momento qualsiasi trasmissione degli
ultimi mesi.
La
donna sospirò annoiata: la tecnologia se ne usciva con una nuova trovata di
giorno in giorno. La trovata di quel giorno era la clonazione.
Selezionò
il telegiornale serale. La voce dello speaker risuonò per la stanza.
“Dopo dieci anni di
interminabili proteste e posticipazioni, il primo esperimento di clonazione
umana, tenutosi oggi nei laboratori di Sunville,
nello Stato di Washington, è risultato un successo. Il primo tentativo di
clonazione umana ha dato i suoi frutti. A capo delle operazioni è stato SeverinBraun, noto scienziato
tedesco che da anni lavora al progetto. La prova non ha dato del tutto i risultati
sperati, ma non sono state rilasciate ulteriori informazioni.
Il nome conferito al
soggetto è AlphaNominus. Appena
avremo aggiornamenti ve li comunicheremo. Ed ora passiamo alle proteste sulla
nuova legge varata…”
*Click*
E
di nuovo un sospiro, stavolta leggermente irritato. La donna posò il
telecomando sul comodino, precisamente dove lo aveva trovato, poi cercò con lo
sguardo la neonata, temendo per un secondo di non trovarla più nella sua culla.
La
bambina invece stava dormendo beatamente, inconsapevole del mondo che si
scatenava fuori.
«Leef… spero che la realtà che tu vivrai sarà migliore di
quella che ho vissuto io.» la donna non era mai stata una gran chiacchierona,
ma le veniva così naturale continuare a parlare alla bimba dal nome strano;
incapace di separarsi da lei per troppo tempo, la prese tra le braccia con
delicatezza e la appoggiò al proprio petto, sistemandole il berrettino che le
copriva la testa «Impareraiche niente è
impossibile e tutto è difficile. Ma sono sicura che tu ce la farai.»
Mentre
la madre pronunciava quelle parole, in un altro continente il primo agente
dell’apocalisse apriva i suoi bellissimi occhi gialli.
***
Parigi, 19 novembre 2048 - 20.30
Leef
posò la bambola sul letto.
Era
la sua preferita: piccola, dai capelli neri, con due grandi occhi azzurri ed un
bellissimo vestito da principessa. Si chiamava Ann.
Molte
volte la bambina si era immaginata al suo posto: l’amata principessa del regno
delle fate; il suo sogno segreto era poter vivere in un castello e avere tante
persone intorno che la servissero: ma lei non le avrebbe mai trattate male, no,
no! Voleva renderle tutte felici!
Voleva
che nel mondo tutti fossero felici.
La
bambina alzò finalmente la testa dai suoi giocattoli ed aprì bene le orecchie,
notando che finalmente i genitori avevano smesso di litigare. Avevano urlato
per tutto il pomeriggio, tanto che si era rifugiata sotto il letto a
piagnucolare e farsi consolare dai peluche.
Parlavano
di cose strane, per lei incomprensibili: l’argomento principale era la fuga,
voluta dalla mamma; in effetti quasi tutti avevano lasciato le loro case ormai,
Leef aveva perso tutte le sue amichette e smesso di andare a scuola.
Ma
nella sua ingenuità di bambina di sei anni non riusciva proprio a capire perché
tutti erano così spaventati: stava arrivando un brutto temporale, come quello
di Pasqua?
Però
le sembrava così strano… erano andati via tutti di corsa, lasciando le case
aperte e le automobili in strada, messe tutte storte contro il marciapiede. Non
era una reazione un po’ esagerata per un temporale?
In
quel momento la porta della cameretta si aprì con un cigolio di cardini e la
madre di Leef entrò a grandi falcate: aveva gli occhi rossi e gonfi.
La
bambina ebbe solo il tempo di chiedere se andava tutto bene, prima che la donna
la superasse «Andiamo via, Leef. Prendi quel che vuoi portare, niente
giocattoli troppo grandi.»
«Cosa?!»
esclamò Leef, guardandola mentre spalancava l’anta dell’armadio, per poi
uscirne una valigia che posò sul letto.
Stava
davvero facendo i bagagli!
«Fai
come ti ho detto, Leef.» ripeté la donna, con tono stavolta più duro.
Capendo
che la situazione non era delle migliori, la piccola decise di ubbidire e si
apprestò a quella che per lei era la scelta più difficile di sempre: quali
bambole portare? Senza dubbio Nathan, che era il principe di Ann. E poi…?
«Leef.»
Leef
alzò gli occhi alla madre, vedendo per un attimo se stessa adulta, solo coi
capelli un po’ più chiari. Aveva in mano Ann, sulla cui schiena c’era una
cerniera in cui Leef nascondeva ogni tanto pezzi di carta o cioccolatini,
fingendo che fossero grandi tesori. Stavolta però non vi fu nascosto nessun
dolce, ma una gemma.
Un
piccolo cristallo bluastro dalle mille venature cremisi, dall’aspetto così
mistico che Leef immaginò si trattasse di qualcosa di oltremodo prezioso.
Quando
fu sicura che la figlia avesse impresso nella memoria quell’immagine, la donna
richiuse la lampo della bambola e si chinò, spostò il letto e poi il tappeto, e
sotto questo Leef notò per la prima volta un piccolo
buco in una delle assi di legno. La madre si sfilò dal collo una catenella con
una chiave, che infilò dentro il foro: un click quasi silenzioso e l’asse fu
rimossa.
Ann
sparì nel buio del nascondiglio segreto, che fu perfettamente riportato allo
stato di prima. Mentre metteva la collana al collo della figlia, la donna disse
«Non dimenticare questo posto e questa bambola, hai capito? Quando sarà il
momento giusto, torna qui e prendi quella gemma. Adesso non possiamo portarla
con noi, ma tu non devi dimenticare, chiaro?»
La
piccola annuì, in realtà non le era per niente chiaro il senso degli
avvenimenti di quella sera, ma il suo intuito fu abbastanza pronto a suggerirle
che forse non potevano portare con loro adesso quel cristallo perché era troppo
pericoloso.
Pochi
minuti dopo erano già in macchina, pronti per partire. La grande jeep di papà
sembrava molto più buia del solito agli occhi di Leef,
che a malincuore aveva rinunciato non solo a capirci qualcosa, ma anche alla
sua bambola preferita.
«Non
possiamo proprio passare da mia madre?»
Il
papà sembrò a disagio quando rispose «Claire…
nell’ultimo notiziario hanno detto che quella zona è…»
«D’accordo,
ho capito. Andiamo. Dobbiamo mettere al sicuro Leef.» tagliò corto la madre,
quindi allacciò la propria cintura.
«Mamma,
voglio andare dalla nonna!» s’innervosì la bambina, che cominciava a sentire un
groppo alla gola «Ha detto che questo sabato mi avrebbe preparato la torta alle
fragole!»
La
mamma girò la testa verso di lei, cercando di sorriderle in maniera
rassicurante «Ci andremo domenica. Adesso allaccia la cintura e non fare i
capricci, signorina.»
L’auto
partì e Leef, come ogni volta, si mise in ginocchio sul sedile dopo aver
combattuto una estenuante lotta con la cintura, voltandosi a guardare fuori dal
lunotto.
Era
così tetro… la loro via di solito era piena di
bambini che giocavano in strada con le biciclette e a palla, mentre le madri si
riunivano nel giardino della loro vicina.
Invece
ora non c’era nessuno, le macchine giacevano abbandonate disordinatamente,
alcune case avevano porte e finestreaperte. Sembrava tutto desolato…
«Mamma… non torneremo mai più qui, vero?» chiese la bambina,
colta da un’improvvisa consapevolezza.
Dal
sedile anteriore, la madre della bambina riuscì a parlare solo dopo un lungo
silenzio «No, tesoro…»
Leef
alzò lo sguardo per osservare un’ultima volta casa sua, mentre questa spariva in
fondo alla via, tra altre abitazioni. Sentì gli occhi pizzicarle, ma prima di
avere il tempo di mettersi a piangere, qualcosa fermò per un attimo il suo
cuore.
Un’ombra
nera attraversò la strada, rapida come un lampo, avvicinandosi finché gli occhi
celesti della bambina non incontrarono due cavità gialle affamate. Leef urlò e
si gettò indietro.
Sentì
sua madre urlare «Marc, frena!» e la macchina sbandò in maniera violenta.
Poi
solo fu un botto, un urlo non umano, puzza di sangue, un dolore fortissimo alla
testa.
***
Parigi, 10 dicembre 2070 - 22.02
La
porta si aprì con il solito, nostalgico fischio di cardini vecchi. Al di là di
essa, si rivelò davanti ai suoi occhi un mondo così lontano nel tempo che
credeva d’averlo sognato, non vissuto.
Era
tutto uguale a come era stato lasciato: i giocattoli al loro posto, il letto
perfettamente in ordine, senza neanche una piega sul piumone azzurro, i
peluche, i libri, le penne, persino il disegno sulla scrivania che aveva fatto
poco prima di fuggire.
Era
tutto uguale, solo molto impolverato.
Fatto
il suo ingresso, la ragazza si mostrò alla tenue luce biancastra che filtrava
dalle persiane semichiuse.
I
lunghi capelli neri le scivolavano sulle spalle, la pelle chiarissima - quasi
spettrale, come di qualcuno che vive sotto terra e che non vede mai il sole – era
coperta da un’uniforme nera che si confondeva facilmente col buio; si mosse
lenta nella stanza, reprimendo l’istinto di piangere.
Quanto
le era mancata la sua cameretta.
«Sono
a casa…» mormorò, concedendosi un sorriso.
Si
soffermò su ogni particolare, fissando tutto tra l’ammaliato e il confuso. Come
poteva essere tutto così perfetto? Possibile che niente fosse entrato in quei
vent’anni? O forse loro non avevano
sentito l’odore di esseri umani e quindi si erano fermati?
Qualunque
fosse la ragione, era felice in quel quadro famigliare.
Si
avvicinò al letto, lo stesso letto che l’aveva riscaldata in lunghe notti
d’inverno; vi posò una mano sopra, lasciandosi attraversare da un turbine di
emozioni.
Ricordava
che si trovava lì, sotto l’asse segreta. Seguendo i gesti di sua madre, che
aveva stampato a fuoco nella memoria, ripeté meticolosamente il procedimento:
il letto, poi il tappeto, poi la chiave – la portava appesa alla collana -,
infine lo scompartimento segreto.
E
infine sorrise: eccola, Ann. La prese con delicatezza tra le mani: come le era
mancata, la principessa di un regno lontano…
Il
rumore di passi risuonò nel corridoio, mentre la ragazza si asciugava
velocemente una lacrima ribelle. Voltandosi, incontrò un paio di occhi verde
acceso.
Un
uomo avanzò nel buio con passo fermo, seguendo con espressione preoccupata i
movimenti di lei; nonostante il viso gentile e lo sbarazzino ciuffo bruno che
gli dava qualche anno in meno, la spada che gli pendeva da un lato della
cintura e la magnum calibro 45 che pendeva dall’alto gli davano un aspetto
abbastanza minaccioso.
Una
volta che le fu davanti, le mise una mano sulla spalla «Leef, tutto bene?»
Lei
annuì subito «Sì.» poi, abbozzando un sorriso, sollevò la bambola «Questa è
Ann. Salutala.»
«…
Eh?» fece lui, curioso, stando allo scherzo «Vuoi dirmi che la grande missione
supersegreta era recuperare una bambola?»
«Esattamente.
Osserva bene, Lance, questo non è uno spettacolo che capita tutti i giorni…» lei girò la bambola di pezza, mostrandone la
cerniera sulla schiena. Con un unico movimento secco la tirò giù, ed una luce
azzurra irradiò la stanza: la gemma preziosa era ancora lì, non sarebbe potuta
essere altrove «Ti presento il nostro nuovo amico, che salverà l’umanità
dall’estinzione. Il suo nome è cristallo
di Berg.»
In
quell’esatto momento, Leef e Lance si concessero il
peccato più grande che un essere umano del loro tempo poteva fare: sperare.
«Improvvisamente
sento di aver fatto bene a urlare addosso a Mason per
accompagnarti.» disse infine lui, ponendo una mano su quella della compagna
«Sei stata eccezionale, Leef. Alla faccia di quelli che davano questa missione
per disperata. Ma ora è meglio andare.»
«Sì,
andiamo a sbattere il nostro successo in faccia a Mason.»
annuì lei; oh come si sentiva fiera di sé.
Si
premurò di richiudere in fretta il giocattolo e riporlo nella borsa a tracolla
dell’uomo. Mentre si preparava a far di nuovo strada, però, il rumore di una
porta sfondata fece sobbalzare entrambi.
«Merda!
Perché devono essere così ostinati?» imprecò a denti stretti Leef, cercando
aiuto nello sguardo di Lance «Io sono solo una scienziata, sei tu il
cacciatore!»
«Appunto
per questo dovresti usare il cervello per farti venire qualche idea, io so
usare solo i muscoli!» no, Lance sapeva difendersi bene all’occasione.
La
mise subito dietro di sé, restando in silenzio. Passi leggeri risuonavano per
il corridoio, nel silenzio del mondo. Si avvicinava, ma era uno solo.
Gestibile.
«Nascondiamoci.»
fu l’ordine.
Leef
si sentì imbarazzata dalla prevedibile scelta del nascondiglio: sotto il letto.
Forse, in quanto scienziata, avrebbe davvero dovuto sfornare qualche idea
apocalittica e geniale.
Si
acquattò contro il muro per far spazio a Lance, ma con sua sorpresa il
cacciatore non la seguì, anzi si appiattì tra la porta e il muro, coperto dalla
libreria; l’ultima cosa che vide, prima che il bruno sparisse nel buio, fu la
sua pistola venir estratta dalla fondina.
Anche
Leef corse istintivamente con la mano all’arma che aveva tenuto fino a quel
momento sulle spalle: un fucile.
Serrò
gli occhi: la paura le scorreva nelle vene, più veloce anche del sangue. Non
era proprio fatta per il campo di battaglia, lei, anche se ci finiva sempre in
mezzo. Si disse che doveva essere forte: per se stessa, per Lance, per tutta la
gente della Nemesi e per l’umanità intera. Doveva portare il cristallo di Berg ai laboratori.
L’ennesimo
scricchiolio di cardini la fece raggelare; strinse la presa sulla canna del
fucile, abbassando la testa per sbirciare.
L’ospite
entrò con passo felpato, silenzioso. Non era umano, nessun uomo sano di mente
avrebbe provato a definirlo tale.
Due
steli lunghi e neri, duri come il diamante, formavano le gambe; un corpo nudo, completamente
fatto da ossa e organi esposti e pulsanti, lunghi artigli al posto delle dita.
Un invenzione dell’uomo fatta a sua immagine, come l’uomo stesso era fatto a
immagine di dio. Ma l’uomo non era infallibile, e la sua tracotanza lo aveva
portato a creare un mostro.
Il
suo verso si espanse e rimbombò nella stanza: un sibilo rabbioso, fastidioso
alle orecchie umane. Egli era una delle creature perfette, la nuova razza
dominante: gli AlphaNominus.
Leef strinse i denti fino a farsi male, trattenendo la paura che
le scivolava addosso come sudore freddo.
La
porta si richiuse di botto addosso alla creatura, spinta da Lance, che infine
uscì allo scoperto per fracassare di proiettili il nemico.
Quest’ultimo
rilasciò un urlo abominevole, accasciandosi mentre una delle braccia si
staccava dal resto del corpo, decomponendosi velocemente.
Non
lasciandosi suggestionare, Lance abbatté ogni munizione sul mostro, finché non
gli fece saltare tutti gli arti e infine la testa stessa, sulla quale si
potevano distinguere solo gli occhi di un giallo intenso, freddi e immobili ma
vivi.
L’Alpha
Nominus si accasciò a terra, lamentandosi per il dolore.
A
quel punto, fattasi forza, Leef uscì lesta dal suo nascondiglio ed afferrò per
un braccio Lance, per poi trascinarlo verso il balcone.
«Di
qua!» urlò, indicando il piano di sotto. Erano al primo piano, un salto di circa
quattro metri.
«Ci
sono altri metodi per farmi dimostrare quanto sono atletico!» l’uomo atletico non si fece aspettare; salì
sulla ringhiera e si buttò giù, cercando di mantenere una posizione adatta per
cadere in piedi… così non fu, e si schiantò a terra
in una maniera così poco atletica che
Leef si chiese se fosse morto. Quando lo vide rialzarsi, massaggiandosi le
braccia, tirò un sospiro di sollievo.
«Spero
tu sappia almeno prendermi al volo…» lo rimbeccò,
sarcastica. Uno scambio di occhiatacce.
Non
perse ulteriore tempo, non sentendo alcun suono dalla stanza. Probabilmente l’AlphaNominus si stava già
rigenerando.
Con
un salto mediocre, la giovane scienziata si buttò giù; il vento freddo le
sfregava il volto e, stretta contro il petto, sentiva l’energia irradiata dal
cristallo dentro la bambola.
Nel
giro di pochi secondi, le braccia forti di Lance l’accolsero.
Quando
riaprì gli occhi, trovò il suo volto sorridente e spavaldo «Ammettilo, pensavi
che ti avrei fatta cadere.» scherzò lui, quindi riprese a correre, con la
ragazza ancora tra le braccia.
Ma
Leef non era affatto una persona in grado di scherzare, dunque replicò acidamente
«Sarebbe stata la fine dell’ingloriosa carriera del grande cacciatore di teste LancelotLangford.»
In
breve raggiunsero la moto con cui erano venuti, con la quale si diedero a una
fuga spericolata per le vie di Parigi.
Proprio
mentre sparivano oltre un incrocio, dalla finestra della casa un immondo essere
nero uscì alla luce della luna, sfoggiando le sue nuovissime braccia, una sola,
acuminata gamba e un orrendo viso nero su cui due occhi freddi e gialli seguivano
i due fuggitivi.
Se
ne sarebbe ricordato, di quei due.
Note dell’autrice:
Ciao a tutti e buone feste! Come si dice, anno
nuovo vita nuova, per cui ho deciso di terminare finalmente la revisione di
questa storia e pubblicarla. Lasciate che vi racconti un po’ di più su LostLight…
Fu pubblicata nel 2008, scritta semplicemente per
ingannare il tempo tra un capitolo e l’altro della long che avevo in corso all’epoca.
A distanza di anni una mia collega mi ha annunciato tutta contenta di averla
letta e trovata carina, al che mi sono sentita crollare il mondo sotto i piedi,
al ricordo di come scrivevo male nel 2008.
Dunque ho deciso di farne una revisione… che è durata mesi e mesi. Ho cambiato il titolo
(da qui il 2.0), i nomi dei personaggi, gli eventi e riscritto alcuni capitoli
che, a mio parere (sebbene io ammetta di essere autocritica a livelli distruttivi),
erano assolutamente illeggibili. Il risultato è…
accettabile. Adesso per lo meno è leggibile, lol.
Vi dico subito di non aspettarvi una storia di
eccezionale qualità, ma qualcosa di carino con cui passare un po’ di tempo. Se
volete una lettura impegnata scritta da me, vi rimando alla mia ultima long, Twisted Mind.
Lost Light 2.0 conta 5 capitoli, tutti
già rivisti e pronti per essere pubblicati. Ne pubblicherò uno ogni due
settimane, il mercoledì. Dunque tranquilli, non correte il rischio
di vedere la storia lasciata incompiuta.
Spero che qualcuno abbia voglia di dare una
chance a questo racconto: non sarà dei migliori che ho scritto, ma sicuramente
ci sono affezionata ^_^
Dato che siamo nella sezione romantico…
non so se qualcuno si ricorda ancora di me, ma sì, sono quella brutta persona
che scrisse Whatcolouris the snow? ormai tre
anni orsono. Avete notato il richiamo a Ann e Nathan
in questo capitolo?
Qualcuno ancora mi chiede del sequel, in realtà
prequel, di Snow. Se state leggendo queste righe, date un’occhiata alla mia bio
sulla pagina autore, dove ne parlo approfonditamente.
Si
sentiva spossata e priva di forze; più si sforzava di riprendere controllo del
suo corpo, più la testa le doleva, imponendole di restare ferma, immobilizzata.
Naturalmente, ciò le faceva paura.
L’ultimo
ricordo che aveva era la mamma che urlava e il papà che frenava, poi un botto l’aveva
sbalzata fuori dalla macchina, successivamente un lancinante dolore alla testa
le aveva fatto credere di star per morire.
Ora
sentiva due persone parlare, due uomini per la precisione, ma non riusciva a
intervenire nella conversazione. Ripetevano che dei certi Alfa-qualcosa avevano attaccato lei e la sua famiglia e che sua
madre e suo padre era stati “assorbiti” – o qualcosa del genere -, mentre lei
era stata salvata in tempo da dei militari che seguivano gli Alfa-qualcosa.
Tutto
ciò era oltremodo irritante e inquietante; Leef si sforzò d’aprire gli occhi,
nonostante la fitta lancinante che la colse immediatamente, poi si guardò
intorno: il mondo non aveva contorni ed era sfocato come le foto che avevano
scattato al suo ultimo compleanno. Faceva tutto così male… tanto male…
«Mhm…»
si lamentò, portando le mani alle tempie; avvertì qualcosa di duro e ruvido
sotto le dita, probabilmente una fasciatura.
«È
sveglia.» una voce femminile avvertì del suo risveglio con un tono apprensivo,
poi Leef poté sentire due braccia esili e calde sorreggerla, mentre lei
focalizzava pian piano quel che la circondava.
Era
in una stanza piccola, con pochi mobili e tanti strani attrezzi tipici degli
ospedali. Faceva freddo. Ancora più freddo.
Solo
tre persone erano presenti, tutte con lo sguardo puntato su di lei: un giovane
uomo in giacca e cravatta, un vecchio medico dal camice era sporco di sangue, e
infine una donna, anch’ella giovane, con lunghi capelli biondi raccolti in una
coda di cavallo e gli occhi verde rame coperti da un paio di occhiali bianchi.
Era proprio quest’ultima a stringerla tra le braccia.
«Chi
sei?» chiese piano la bambina non appena si fu ripresa «E dove sono?»
«Stai
tranquilla, cara.» sorrise la donna «Ora sei al sicuro, nessuno ti farà male.»
Col
cuore che le batteva forte, Leef si zittì e annuì: stare in mezzo a persone
adulte la tranquillizzava.
«Io
mi chiamo Adèle. E tu?» chiese la dottoressa ad un tratto.
«Leef…»
ma quella non era l’informazione che le interessava in quel momento, così si
voltò verso il medico e domandò, con un crescente timore «Signore… dove sono
mamma e papà?»
***
«Mhm…»
un flebile lamento risuonò per la camera, mentre, accompagnati dall’ormai
abituale mal di testa, due grandi e stanchi occhi blu si aprivano, guardandosi
intorno.
Era
già mattina? O meglio, era già ora di mettersi al lavoro?
Con
un sonoro brontolio, Leef scostò le coperte nere, mettendosi seduta sul letto.
Si sentiva a pezzi dopo tutta l’azione del giorno prima.
Un’altra
giornata di duro lavoro cominciava e lei già non vedeva l’ora che giungesse
l’ora delle ombre, quella in cui la grande lanterna posta al centro della città
si spegneva e si andava a dormire.
Del
resto ormai, in quei tempi così bui neanche la più fulgida delle lanterne
avrebbe mai illuminato di speranza l’umanità, anzi quelle poche migliaia di
persone che rimanevano.
La
donna si mise in piedi, stiracchiandosi pigramente; la lunga camicia da notte
nera quasi strisciava per terra mentre ella si incamminava verso il bagno. Da
circa tre mesi si riprometteva ad ogni bucato che l’avrebbe accorciata,
adeguandola al suo metro e sessantacinque.
Leef
ricordava che da bambina aveva la bella abitudine di alzarsi presto ogni
mattina, affacciarsi alla finestra della sua cameretta e urlare “Buongiorno,
mondo!” - in cambio otteneva comprensibilissime lamentele da parte dei vicini,
che non erano esattamente felici di essere svegliati alle sette di mattina la
domenica. Ora, anche se avesse voluto, non avrebbe potuto farlo: innanzitutto
perché le case non avevano più finestre, ma soprattutto perché sarebbe stato
oltremodo di cattivo gusto urlare il buongiorno a persone che non sapevano se
sarebbero arrivate a fine giornata.
Aprì
il rubinetto, sciacquandosi il viso con la fredda acqua mattutina. Non avevano
ancora acceso il riscaldamento, quei disgraziati… odiava lavarsi con l’acqua
gelida, ma non poteva lamentarsi.
Erano
passati ventidue anni da quando gli Alpha Nominus si erano ribellati agli esseri
umani e ancora le risultava impossibile credere a quanto la sua vita fosse
cambiata in così poco tempo.
Migliaia
di uomini erano morti, uccisi da quello che doveva essere il più grande
esperimento della storia e che si era rivelato una creatura in grado di
moltiplicarsi da sola, dalla spiccata intelligenza e soprattutto affamata di
umani.
L’umanità
scampata alla battaglia persa in partenza si era rifugiata sottoterra, unico
posto relativamente sicuro. Per ora.
Leef
si guardò quasi con disgusto le braccia: la sua pelle era bianca come quello di
uno spettro. D’altronde, non potendo uscire mai, aveva da tempo perso il
colorito roseo tipico di un umano.
Ogni
tanto si sentiva un po’ un vampiro. O uno zombie.
***
Sotto l’abbagliante luce rossa del laser, il cristallo di Berg
risplendeva di infinite sfumature vermiglie, mentre otto occhi attenti lo
scrutavano, studiandone ogni caratteristica con estrema attenzione.
Tra i quattro scienziati era grande l’eccitazione, dopotutto si
trovavano innanzi alla più grande scoperta del secolo, quella che sarebbe stata
forse la loro arma vincente contro gli Alpha Nominus.
Il laboratorio in cui si trovavano era piuttosto grande, buio a
causa della scarsa energia elettrica di cui disponeva la Nemesi, l’organizzazione
che aveva preso in mano le sorti dell’umanità.
Attraverso la porta d’ingresso, così pesante che per spingerla
dovette usare entrambe le mani, Leef fece il suo ingresso con indosso camice,
guanti e mascherina.
«Buongiorno.» salutò formalmente, scostante e un po’ superba come
sempre, poi si diresse a passi lesti verso l’oggetto del suo interesse: il
cristallo di Berg «Ci sono novità?»
«Nessuna,
signorina Leroy.» rispose il più basso e vecchio dei quattro colleghi, un uomo
dall’ispida barba bianca, quindi le sorrise «Non ho ancora avuto modo di
congratularmi con lei della missione. Sua madre è
stata più lungimirante di chiunque altro.»
Leef chinò di nuovo gli occhi sulla gemma, studiandone la perfetta
geometria. Sì, sua madre era stata lungimirante più di chiunque altro; poco
dopo l’inizio della ribellione, infatti, alcuni dei più insigni scienziati che
avevano collaborato al progetto avevano ipotizzato – in base al alcune
specifiche motivazioni - che i cristalli di Berg, minerale piuttosto raro,
potessero arrecare danni agli Alpha Nominus. Era a tutti gli effetti una vera e
propria allergia, quella dei mostri verso il cristallo di Berg.
Nonostante all’epoca la teoria fosse stata subito catalogata come mera
superstizione, la madre di Leef aveva fatto di tutto per procurarsene uno,
sfruttando la loro agiatezza economica.
Fortunatamente in quel momento, prima che gli altri scienziati
potessero ribattere, la porta si aprì ancora, lasciando entrare un uomo dai
tratti ispanoamericani, alto e massiccio, anch’egli vestito con un camice color
latte. Gli occhi, coperti da un paio di occhiali molto spessi, fissavano severi
i cinque presenti. Prima dell’invasione degli Alpha Nominus lo si sarebbe
facilmente catalogato come agente della CIA, sembrava uno stereotipo vivente.
«Ho saputo che la missione è stata portata a termine.» parlò
immediatamente, tenendo le braccia dietro la schiena con l’aria di chi comanda.
E in effetti era proprio così, egli era Rudolph Mason, e con uno schiocco di
dita avrebbe potuto far diventare Leef una dei tanti disoccupati della sua
generazione.
Il suo sguardo incontrò subito quello di Leef, e fu come se ogni
altra presenza in stanza avesse cessato di esistere «Ottimo lavoro, signorina
Leroy.»
«Grazie, signore.» in quel momento la giovane donna sentiva il
petto riempirsi una strana euforia che credeva d’aver dimenticato.
“Alla brutta faccia tua e di tutti quelli che non hanno creduto,
vecchio burocrate calvo”, queste erano le parole che avrebbe voluto
rivolgergli, ma fu costretta, se non voleva vedersi revocare il permesso di
partecipare alle ricerche sul cristallo, a deviare su un più mansueto «Siamo
pronti a procedere con la sperimentazione.»
L’altro annuì, pur non sembrando granché convinto, e infatti dopo,
ferreo, chiese «Mi sembra d’aver capito che lei e il signor Langford non avete
ancora provato l’effettivo funzionamento del cristallo.»
A quel punto Leef non poté che abbassare il suo, di sguardo. Era
vero, il cristallo non era ancora stato provato su nessun Alpha Nominus, non
c’era ancora nessuna certezza degli effetti che avrebbe avuto sui mostri,
specialmente se clonato.
Non l’avevano nemmeno usato contro il mostro incontrato a casa sua
per vari motivi: insicurezza su se fosse davvero il cristallo che cercavano,
paura di spezzarlo, foga del momento… inesperienza, insomma.
«Ho bisogno di fatti, con le parole non si uccide un Alpha
Nominus, signorina. Non posso inviare truppe armate all’assalto di quei mostri
senza la sicurezza che le armi che creeremo avranno effetto.» concluse dunque
il superiore, cercando gli occhi di lei «Quando li avrà, ne riparleremo.»
E Leef, per natura molto orgogliosa, non si lasciò intimorire e lo
fissò di rimando, annuendo «Li avrà, signore.»
***
Un altro bersaglio cadde, massacrato di proiettili da Lance, che
da circa due ore si trovava in piedi nella sua postazione preferita del
poligono. Si allenava per colmare il suo punto debole: la distanza. Da qualche
anno la sua vista stava lentamente peggiorando.
Decise di concedersi un momento di paura e si appoggiò al muro al
muro dietro di lui, in preda alla stanchezza; era peggiorato e lo riconosceva, al
punto da passare intere giornate chiuso in quel luogo con l’unica compagnia
delle armi da fuoco.
Sospirò, arrabbiato. Il nuovo prototipo di pistola a proiettili esplosivi
oltre ad essere troppo pesante era anche poco maneggevole. Aveva sperato che almeno
il cristallo di Berg si rivelasse più agevole, ma nel momento in cui l’aveva
preso in mano la realtà aveva distrutto le sue speranze; si era meravigliato di
come Leef lo avesse trasportato per ore durante il viaggio senza stancarsi.
Si allontanò dall’area di tiro e si abbandonò contro un muro,
scivolando poi per terra senza nemmeno accorgersene, con sguardo scuro e
assente.
Era incredibile che dopo tutto quel tempo non si fosse ancora
trovato un modo per tenere testa agli Alpha Nominus, o quantomeno difendersi
dai loro attacchi. Lance non era uno scienziato, era solo un tizio qualsiasi
specializzato nell’uso delle armi da fuoco che si era giurato di difendere la
ragazza che amava: non capiva una parola di quei lunghi discorsi che Leef
faceva con se stessa nei momenti di riflessione, non sapeva bene nemmeno perché
il cristallo di Berg era ritenuto in grado di ferire in modo letale i loro
nemici, ma ironicamente conosceva il corpo degli Alpha Nominus meglio di quei
cervelloni.
Strinse forte i pugni, fissando con disgusto la pistola che teneva
stretta tra le mani. Aveva sempre odiato la violenza, sin da bambino: che
paradossale destino!
«E ora guarda a che punto sono arrivato…» sibilò nel silenzio del
poligono, prima di lanciare con rancore la pistola in un angolo. Per fortuna
aveva la sicura.
In quel momento la porta d’ingresso si aprì, spalancata da un
calcio rabbioso da parte di una ragazza dai lunghi capelli neri nelle sue stesse
condizioni psicologiche.
«Che donna!» commentò ironicamente lui, venendo immediatamente
fulminato.
Leef gli si sedette accanto, brontolando un’imprecazione a denti
stretti; sembrava stressata, e Lance aveva il sentore di conoscerne già il
motivo.
Senza abbandonare il suo atteggiamento sarcastico, fece «Quella è
la faccia Ho-Incontrato-Mason.»
«Ho-incontrato-quel-bastardo-di-Mason,
per la precisione. E mi ha detto di tornare là sopra a provare quel dannato
cristallo!» borbottò lei in risposta, fingendosi dura. In realtà tremava, Lance
non dovette sforzare la vista per notarlo «Perché non lo abbiamo provato
l’altra volta?!»
«Ha ragione lui.» ammise lui a malincuore, abbracciandola «Siamo
stati stupidi a tornare senza averlo prima provato. Ma adesso sappiamo che
quello è il vero cristallo di Berg e che è in grado di proteggerci… forse.
Possiamo permetterci il rischio.»
Lance aveva ragione… e anche Mason; quando parlava con lui, Leef
si sentiva improvvisamente una sciocca ragazzina che prova a fare l’adulta. Non
aveva il diritto di lamentarsi, perché quel che stavano facendo era per il bene
dell’umanità; non doveva nemmeno nascondere la sua paura, perché con lei c’era Lance.
Quel pensiero riuscì a rassicurarla leggermente, ma anche a farle
sentire sulle spalle il peso del mondo. Socchiuse gli occhi e scacciò quei
brutti pensieri, infine chiese «Partiamo subito?»
L’uomo dette segno d’aver captato ogni suo singolo pensiero, tanto
che le sorrise – Lance era fatto così, metteva da parte le sue insicurezze per
gli altri -, improvvisando una battuta sbruffona «Non vedevo l’ora di far
saltare in aria qualche Alpha Nominus con quella nuova bellezza che ho…»
Che aveva lanciato in un angolo.
«Che hai… lanciato in quell’angolo, Langford?» Leef fece un
sorriso felino.
Lui si limitò a scrollare le spalle «Haha… beccato…»
***
Ci vollero i soliti cinque minuti perché l’ascensore che portava
dalla sede centrale al mondo superiore giungesse a destinazione. Quando i due
uscirono furono investiti da una ventata d’aria fresca e pulita, una sensazione
che, naturalmente, era stata negata all’umanità con l’inizio dell’invasione.
Leef si guardò intorno: la periferia di Parigi, nei suoi ricordi
sempre illuminata dalla calda luce del sole, quella mattina era tetra, spenta,
sterile e silenziosa, come lo scenario di uno di quei videogiochi di zombie o
film post-apocalittici che un tempo piacevano tanto.
Non riuscì a riconoscere la zona precisa in cui si trovavano: la
fittissima rete di ascensori della Nemesi metteva in comunicazione la sede
centrale con innumerevoli punti della città, in modo da confondere gli Alpha
Nominus e nascondere al meglio gli ingressi a quello che per loro sarebbe stato
un autentico banchetto. Inoltre, per scendere, bisognava superare un controllo
delle impronte digitali che dimostrava l’appartenenza alla razza umana.
Quella volta Lance e Leef erano capitati nella periferia sud, in
un quartiere di piccole case che giacevano deserte e mezze distrutte.
«Non li vedo… strano.» disse piano Lance, mentre si avvicinava ad
un’auto abbandonata.
Leef era rimasta lì dov’era arrivata, a fissare malinconica la
finestra del piano terra di una casa dalla quale s’intravedeva la camera di un
bambino. Le tende azzurre erano sollevate dal vento, riusciva anche a vedere il
letto completamente distrutto, tranciato a metà, e le pareti sporche di sangue.
Quante volte aveva visto scene simili? Era ormai una specie di
ossessione…
“Non pensarci.”
«Andiamo.» ordinò col tono di chi non ammette repliche; si accostò
a Lance, che nel frattempo si era accomodato al posto di guida della vecchia
vettura, una Ford blu elettrico.
«Ottimo, serbatoio mezzo pieno!»
Leef però era scettica. D’accordo, c’era la benzina, e dunque come
avrebbero messo in moto? Oh, ma certo, si disse alzando gli occhi al cielo:
Langford e le strane invenzioni di quello scienziato pazzo amico suo.
Un sorriso arcuato sul volto di Lance confermò i suoi sospetti.
L’uomo si sfilò dalla tasca una chiave che infilò nel quadro dell’auto e, dopo
un paio di tentativi, il rombo del motore confermò il miracolo avvenuto.
Lance chiuse lo sportello e vi appoggiò sopra un braccio, facendo
l’occhiolino alla ragazza «Vuoi uno strappo, bellezza?»
Leef a volte non poteva far altro che chiedersi come facesse a
sembrare sempre così… così…
«Sta’ zitto, Langford!» sbottò, senza riuscire a nascondere una
risata.
Ma forse era un bene che Lance fosse così com’era.
Quando furono entrambi pronti, partirono, cercando di non produrre
troppo rumore.
«Non ci vorrà molto per trovarli, ma cerchiamo di non allontanarci
troppo.» propose l’uomo, che tra i due era quello che più frequentemente usciva
in superficie.
Presero così a muoversi in maniera circospetta e prudente per le
strade desolate, di tanto in tanto imbattendosi in un cane randagio o
addirittura in serpenti. In pochi anni, la natura aveva ripreso possesso di ciò
che l’uomo le aveva tolto in millenni di sviluppo: germogli salutavano il cielo
da crepe nell’asfalto, fiori anelavano alla luce affacciandosi dalle finestre
degli edifici.
Eseguirono un breve giro dell’isolato, senza però trovare nessun
mostro; la cosa suonò decisamente strana ad Lance, abituato com’era a
trovarseli addosso in pochi minuti ogni volta che si avventurava nel mondo di
sopra. Ora invece sembravano essersi volatilizzati, e ciò non andava affatto
bene.
«Non distrarti.» la voce di Leef gli ricordò una delle cose
fondamentali in quel momento: guardare la strada, non il cielo.
«C’è qualcosa di strano.» avanzò lui, anticipando i pensieri della
ragazza, che intanto si sporgeva dal finestrino dell’auto per osservare con
occhio vigile ogni spostamento. Persino la caduta di una foglia da un albero
poteva non essere conseguenza di una folata di vento più forte.
«Cosa diavolo è successo qua fuori?»
La macchina frenò lentamente, finché non si arrestò del tutto; Lance
intimò a Leef di rientrare il capo nell’auto, quindi chiuse i finestrini.
Sembrava non esserci anima viva.
«Te la senti di continuare?» domandò alla ragazza, vistosamente
nervoso: quella situazione era tutt’altro che rassicurante «Non vorrei che
questo fosse l’ennesimo agguato. Quei mostri sembrano stare sviluppando una
certa cooperazione…»
Leef si diede un’ultima occhiata intorno, confusa e presa in
contropiede. L’uomo poteva davvero avere ragione: se quello era un agguato non
sarebbero di certo tornati, e con loro il cristallo di Berg.
Eppure c’era qualcosa di strano: non aveva mai visto gli Alpha
Nominus collaborare, se non in rarissime occasioni contro altrettante decine,
centinaia di uomini che si erano mossi per tentare di ucciderli. Se davvero
stavano cominciando a cooperare per il fine comune, erano spacciati.
«Torniamo alla Nemesi. Comunicheremo questa spiacevole novità
e torneremo con i rinforzi.» si convinse che era la cosa più saggia da fare, la
prudenza non era mai troppa quando si rischiava la vita.
Il suo ordine venne eseguito all’istante e l’auto tornò in
movimento verso il canale da cui erano usciti. Lance spingeva l’acceleratore
più freneticamente, sembrava stare perdendo la sua solita calma riflessiva.
Superarono i settanta, correndo verso la piazzetta. La presa della
ragazza attorno al cristallo si fece ancora più salda. Improvvisamente una
frenata violenta le fece quasi sbattere la testa contro il vetro. Sentì la mano
calda ma sudata di Lance poggiarsi con violenza sul suo petto, trattenendola
dallo sbattere la testa.
Confusa dalla tempesta di eventi, Leef emise un verso strozzato e
cercò spiegazioni da Lance, che guardava fisso davanti a sé. Male.
«Aaah… siamo finiti in mezzo a una festa privata…»
Malissimo.
L’intera piazza era affollata da almeno una decina di Alpha Nominus
che, prontamente, si erano voltati a guardarli con i loro occhi gialli non
appena avevano svoltato l’angolo. Sembravano veramente mangiarli con gli
occhi.
«Lance…» in un sussurro terrorizzato, la voce bassa e stentata di
Leef diede all’altro un ottimo suggerimento «Smetti di dire stronzate e
riparti.»
La macchina svoltò bruscamente, ripartendo ancora più veloce di
prima verso il centro di Parigi, seguita dalla moltitudine di mostri neri urlanti.
Intanto, da sopra il tetto di una casa, avvolti nelle loro nere
mantelle, alcune figure assistevano alla scena impassibili. Una di loro si pose
a capo del piccolo gruppo: un cristallo di Berg era stretto in una mano. Una
mano umana.
La grande porta si aprì meccanicamente con uno
scatto veloce, accompagnata da un suono cupo. Il laboratorio gelido che l’aveva
ospitata fino a quel momento le era sempre apparso come una struttura immensa,
con mille e mille stanze uguali tra loro, distinguibili solamente da chi ci
lavorava.
Tutti i corridoi erano speculari, senza alcuna
decorazione, con incolori ed anonime porte che ai suoi occhi di bambina
risultavano come la stessa ripetuta più volte; anche le persone non si riconoscevano
se non attraverso un’attenta occhiata: sia donne che uomini portavano lunghi
camici ben stirati, mentre il viso era coperto da un paio di occhiali stravaganti
simili a quelli che si vedevano solo nei film, una maschera sulla bocca e una
rete sui capelli.
Invece quella che ora le si apriva davanti in tutta
la sua austerità era un’enorme città sotterranea, che si estendeva anche oltre
l’orizzonte e non era neanche lontanamente paragonabile all’ospedale che così a
lungo aveva reputato l’edificio più grande del mondo. Ma, dopotutto, forse era
ancora troppo nuova a quel mondo per capirne le esatte
logiche.
Da quel che le avevano spiegato - senza addolcirle
la pillola nonostante la sua giovane età -, quasi la totalità della popolazione
umana era stata sterminata e le poche persone rimaste abitavano lì, nelle
profondità del territorio europeo, con sede centrale sotto Parigi. Tutto ciò
era opera della Nemesi, l’organizzazione che durante il periodo della
ribellione degli Alpha Nominus si era proposta come ultimo baluardo della razza
umana.
Le avevano spiegato anche che i suoi genitori erano
stati uccisi da quei mostri, e che lei ora sarebbe stata affidata a una nuova
famiglia. Una nuova famiglia. Come se i suoi genitori potessero essere
rimpiazzati da un giorno all’altro.
Aveva versato già un mare di lacrime e non riusciva
a capacitarsi di tutto quello che accadeva. Si sentiva insultata, offesa dal
modo in cui era stata costretta ad entrare nel mondo degli adulti, privata
delle persone che amava di più. Eppure sentiva di essere cresciuta in quei
pochi giorni passati nell’ospedale della Nemesi: era diventata più consapevole
e triste.
«Leef?» la chiamò la voce ormai nota della dottoressa
Marçon, la pediatra che si era occupata di lei durante il ricovero.
La donna aveva fatto il suo ingresso nell’atrio
dell’ospedale, giungendo in prossimità della bambina con il suo solito sorriso
fuori luogo.
«La tua nuova famiglia sta per arrivare, cara.» le
passò una mano tra i capelli e la prese per mano, una mano incredibilmente
piccola rispetto alla sua «Sei pronta?»
La bambina si fece seria tutt’un tratto, così tanto
che la dottoressa sentì il sorriso morirle in volto.
«No. Andiamo.»
***
Parigi, 11
Dicembre 2070 - 11.35
«Ci raggiungono! Accelera!»
La voce di Leef giungeva come un’eco lontana alle
orecchie di Lance, completamente concentrato sulla strada da percorrere. La
periferia di Parigi era un totale caos, le strade in buona parte distrutte, gli
risultava molto difficile zigzagare tra le montagne di detriti sparse ovunque.
Fortunatamente era parecchio abile nel guidare. La priorità era seminare gli
Alpha Nominus, poi avrebbero pensato a un modo per tornare alla Nemesi.
Era tutto così strano… quando mai si erano visti
dei Nominus collaborare? Se davvero avevano deciso di unirsi per raggiungere un
obiettivo comune poteva significare soltanto una cosa: avevano sviluppato il
loro intelletto fino a capire che insieme si hanno maggiori possibilità di
riuscita e, considerando la situazione, probabilmente l’obiettivo era l’insalatiera
sotterranea. Che avessero davvero scoperto la sede nella Nemesi?
«Maledizione!» esclamò l’uomo, dando una violenta
sterzata che quasi fece perdere l’equilibrio a Leef «Usa il cristallo!»
«Non so come fare! Credo che funzioni solo per
contatto fisico!»
Ma valeva comunque la pena di provare, perciò scavò
nella sua borsa finché non lo trovò, stringendolo poi tra le mani sudate e
tremanti. Si affacciò dal finestrino, esponendolo alla luce del giorno. Non
accadde niente. Ovvio, prevedibile. Non erano prestigiatori e il minerale non
avrebbe operato un miracolo. Dovevano usarlo per dare il colpo di grazia a un
Alpha Nominus precedentemente messo a tappeto, come una normale spada?
Lance lo comprese e cambiò strategia «Non importa,
Leef. Hai le pistole con te? Ce la fai a sparare a questa velocità, o prendi tu
la guida e io cerco di colpirli?»
«No, posso farcela. Mi raccomando, cambia strada
molto spesso, magari ci perdono di vista!» esclamò l’altra, dunque impugnò le
armi, sollevandole con una forza inaudita sviluppata in quegli anni a causa
delle necessità.
Aprì la capote della macchina, uscendo di soppiatto
mentre già le pistole puntavano sulla piccola folla di mostri che li
inseguivano. Scaricò una manciata di proiettili addosso agli Alpha Nominus,
ferendone molti; gambe e braccia scheletriche volavano via come se non necessarie
alla sopravvivenza, mentre i mostri si alteravano ancora di più, urlando più
forte.
La donna sapeva cosa significava: quando un Alpha
Nominus veniva ferito sviluppava un urgente bisogno di tessuti ricchi di
proteine, le uniche fibre capaci di fargli ricrescere in meno di dieci minuti
un arto nuovo di zecca. Tali tessuti erano per la precisione i muscoli umani. I
muscoli di coloro da cui erano stati, non esattamente con successo, clonati. Il
processo attraverso cui un Alpha Nominus sbranava e successivamente convertiva
i tessuti ingoiati in vere e proprie parti del corpo, si chiamava assorbimento. Ed era ciò
che era accaduto ai suoi genitori quella fatidica sera.
Perché diavolo si avventuravano lì, in superficie?
Avrebbero potuto tranquillamente nascondersi sotto terra come tutti gli altri,
ad aspettare la morte.
Un nuovo proiettile colpì un Alpha Nominus dritto alla
testa, in mezzo agli occhi gialli.
«Muori, stronzo!» strepitò la ragazza in un attimo
di cinismo: quello era uno dei pochi punti che non riuscivano a riparare,
dunque uno dei mostri era fuori gioco.
Il rumore dei colpi risuonava nelle sue orecchie
con forza, ma ormai vi era abituata. Mentre Lance sfrecciava, prendendo una
curva che di nuovo le fece perdere l’equilibrio, la ragazza decise di concentrarsi
su uno alla volta.
«Lance, dannazione! Guida come gli esseri umani!»
«Meno acidità e più efficienza, grande scienziato!»
Leef, mugugnando un’imprecazione, tornò a
concentrarsi sul suo secondo Alpha Nominus; questo non aveva riportato ferite
da prima, dunque sarebbe stato più difficile da abbattere. Gli sparò quattro
volte, colpendolo all’addome, alla testa e, incredibilmente, alla mano destra;
tra varie urla, l’Alpha Nominus perse letteralmente la testa, lasciando una
scia di liquido giallo prima di accasciarsi.
“Fuori due!” pensò Leef.
Sentì un brivido di speranza percorrerle le
braccia; strinse le mani sulle pistole, arrischiandosi a pensare che forse
potevano farcela.
Lance imboccò un vicolo piuttosto stretto e buio,
senza alcun tipo di illuminazione; imprecò a denti stretti: come se la
situazione non fosse stata già abbastanza difficile!
Leef sentiva il sudore freddo calarle a grandi
gocce lungo le tempie, mentre le pistole si facevano sempre più pesanti. Cominciava
ad essere stanca. Ricominciò a sparare alla cieca, sentendo i colpi andare
spesso a vuoto; nella frenesia generale le parve di scorgere qualcuno cadere ed
essere calpestato senza tanti complimenti.
Accucciandosi contro il freddo metallo della
vettura, Leef portò dietro l’orecchio una ciocca di capelli che le impediva una
visione completa; poteva orientarsi solo seguendo il giallo acceso degli occhi
dei mostri, ed era proprio a quei barlumi luminosi che mirava.
Ne abbatté uno, poi un altro.
“Forza… ancora quattro!” si disse, mentre con una
mano sparava e con l’altra afferrava una nuova cartuccia. Si concentrò su un
nuovo paio di occhi, ricominciò a sparare. Colpito. Ma dopo una decina di colpi
cominciò a disperare: gli altri avevano demorso molto prima, perché questo no?
Eppure lo aveva colpito come minimo sei volte ed un
normale Alpha Nominus dopo le prime due sarebbe scappato, dopo tre morto. Alcuni,
se a digiuno da molto tempo, addirittura crollavano dopo un solo colpo. Eppure
questo sembrava molto più forte degli altri…
Gli occhi della donna erano puntati su quelli del nemico;
con concentrazione e tenendo a stento sotto controllo l’agitazione, Leef sparò
un altro colpo che, di nuovo, colpì il mostro, il quale finalmente cadde con un
urlo.
«Finalmente!» gridò lei, ma il suo grido venne
strozzato poco dopo, quando da dietro il paio di occhi che aveva fissato fino a
quel momento ne emerse un altro.
Per poco alla scienziata non caddero le pistole di
mano quando capì perché non riusciva a uccidere il mostro di prima. In quel
momento Lance sterzò ancora, tornando in una via illuminata.
«Dannazione!» imprecò l’uomo da dentro l’abitacolo,
guardando lo specchietto retrovisore. I mostri non erano più una decina, ora
erano almeno raddoppiati «Ma che sta succedendo!?»
«Hanno chiamato i rinforzi!» esclamò questa,
riprendendo a sparare, stavolta agevolata dalla luce che filtrava attraverso le
nuvole «Non era mai successa una cosa simile!
Più andavano avanti, più la situazione peggiorava:
la strada era così piena di detriti che spesso Lance era costretto a svoltare o
far manovre pericolose, per di più i proiettili non sarebbero durati per
sempre. Dovevano far qualcosa, il prima possibile.
«Leef!» la chiamò allora, cacciando una mano dietro
di sé per afferrarle una gamba «Scambiamoci!»
«Sei sicuro? Va bene!» acconsentì la ragazza,
accettando la realtà: era troppo agitata per essere efficiente e Lance lo
sapeva.
«Al mio tre!» continuò lui, ma la sua voce era
appena udibile, sovrastata com’era dalle urla infernali degli Alpha Nominus,
che ora erano a pochi metri dall’auto, nel pieno della sua corsa folle.
In effetti era folle anche quello che i due ragazzi
si apprestavano a fare.
«Tre!»
Con uno scatto all’insù, Lance si allungò al suo
limite, tenendo il piede sopra sull’acceleratore e una mano sul volante fin
quando non fu sicuro che Leef, scattata all’indietro nello stesso momento,
avesse preso il suo posto. La ragazza afferrò lo sterzo con mani tremanti e
tanto sudate da essere scivolose.
Gli occhi si posarono sulla strada, allora si
accorse che il compito di Lance non era stato meno gravoso del suo fino a quel
momento. La via era un inferno di macchine capovolte, detriti, edifici crollati
e, di tanto in tanto, persino scheletri.
«Leef! Cerca di svoltare alla prima occasione, ci
sono addosso!»
«Ci provo!» fece in risposta lei, sull’orlo di una
crisi di nervi. E ci provò veramente alla prima occasione, ma non servì a
molto; avevano, in compenso, messo un po’ di distanza tra loro e i mostri.
Non restava che una cosa da fare…
«Prendi la dinamite! E’ l’unico modo per guadagnare
tempo!»
«Cosa? Vuoi farci saltare in aria?» Lance strabuzzò
gli occhi, con una nota di stizza nella voce.
Era troppo pericoloso! Andavano a velocità folle e
tra l’accensione della miccia e l’esplosione vi sarebbero stati al massimo
cinque secondi: considerando la velocità con cui gli Alpha Nominus li stavano
raggiungendo, il moto della macchina e il tempo che il candelotto avrebbe
impiegato ad attraversare lo spazio che li divideva, c’era un margine d’errore
elevato. Tuttavia, Lance sapeva che la ragazza aveva ragione, infatti le armi
da fuoco ormai poco potevano contro i nemici, con la sua spada avrebbe avuto
risultati migliori.
La situazione necessitava di una svolta decisiva.
Aveva fatto pratica anche con l’esplosivo, ma l’idea di tenerlo in mano fino a
due secondi prima dell’esplosione non lo allettava granché…
Tuttavia lo fece. Si abbassò in un attimo, quanto
bastava per afferrare la borsa che aveva lasciato sul sedile libero ed estrarne
un candelotto.
«Abbiamo davvero pochissimo tempo. Accenderò la
miccia e quando mancheranno due secondi la lancerò. Appena ti do il via
accelera ancora, vedi quell’incrocio laggiù? Svolta in una qualsiasi direzione,
almeno ci toglieremo dalla traiettoria dell’esplosione. Capito?»
Combattendo col sudore che le imperlava la fronte,
Leef annuì trepidante.
I mostri erano sempre dietro di loro, sempre più
vicini. Deglutendo, Lance si rimise in piedi, tirò fuori dal taschino della giacca
un accendino e con uno scatto secco lo accese. Si chiese se questa era davvero
l’unica soluzione, ma il suo cervello era atrofizzato, addormentato: se quella
non era l’unica soluzione, non lo avrebbe mai saputo.
“Cinque.”
Odiava quel suono. Lo aveva sempre odiato. Qui non
si giocava con un proiettile o una lama, ma con della dannatissima dinamite.
“Quattro.”
L’odore di bruciato gli invase il setto nasale,
provocandogli un breve giramento di testa. Sparò un colpo a un Alpha Nominus
che si era avvicinato un po’ troppo per i suoi gusti.
“Tre.”
Un urlo lo fece raggelare. I mostri erano a
pochissimi metri dall’auto. Due secondi erano troppi? Che senso aveva pensarci
ormai?
“Due!”
O andava o… andava.
Lanciò il candelotto e contemporaneamente si
rifugiò dentro la macchina, mentre questa svoltava a sinistra d’improvviso;
l’impatto con il sedile fu così forte che sentì una fitta allo stomaco. Non
vide più la dinamite, ma ne sentì il botto. L’onda d’urto fu così forte che
l’auto venne letteralmente sbalzata in aria. Un drago di fuoco si allungò dalla
strada che avevano appena abbandonato, divorando le creature ignare.
***
L’intera zona attorno all’esplosione era ridotta in
cenere, così come i cadaveri di quindici dei venti mostri. Non troppo lontana
dal luogo della deflagrazione, un’automobile giaceva rovesciata, dalle sue
macerie si sollevava pigramente del fumo; le ruote, ancora fumanti, indicavano
una corsa pazza che faceva tanto film americano.
Leef era riuscita a uscire per miracolo da sola
dall’abitacolo. Era un po’ ammaccata, ma nel complesso si sentiva bene, felice
di vivere come non era mai stata.
«Lance?» chiamò subito il compagno non appena ebbe
recuperato la voce. Le fischiavano le orecchie.
«Sono qui… sono vivo! Non so come, ma sono vivo!
Ahia, che dolore…» dai sedili posteriori si alzò un urlo di vera gioia «Siamo vivi! Vivi! In culo a
quei fottutissimi bastardi!»
Quello che uscì dalla gola di Leef fu una specie di
mugugno disperato; si mosse dalla sua posizione – a terra, in mezzo alle
macerie, con il borsone a tracolla – per raggiungere l’uomo e aiutarlo ad
uscire dal finestrino. Avevano avuto una fortuna incredibile.
La testa di Lance emerse per prima dalla trappola
di metallo, seguita, con un po’ di difficoltà, dalle spalle e poi dal resto del
corpo. Fecero la conta dei danni: avevano vari tagli sparsi in tutto il corpo,
alcuni anche abbastanza gravi, come quello di Leef sul braccio destro, ma nel
complesso sarebbe potuta andare molto peggio. La ferita più brutta l’aveva lui:
una spalla rotta.
«Dobbiamo tornare immediatamente alla sede.
Soprattutto ora che siamo feriti.»
«Sì, hai ragione.» fu la risposta rapida dell’altro
mentre si massaggiava la parte indolenzita.
Ripresero il passo, stavolta senza auto e con molta
più calma; si fecero persino prendere un po’ dall’euforia per il massacro
appena compiuto: erano non proprio sani, ma almeno salvi. Lance rise,
affermando che l’adrenalina li stava rimbambendo, ma Leef trovò come sempre una
spiegazione psicofisica che zittì l’altro.
Il problema adesso era trovare uno degli ingressi
per la Nemesi. La donna estrasse dalla tasca un pezzo di carta bianco ripiegato
e lo aprì frettolosamente, mostrando così quella che sembrava una mappa molto
dettagliata di Parigi: in blu spiccavano le zone di accesso alla città
sotterranea, in verde le uscite, in rosso quelle più pericolose, cioè quelle in
cui gli incontri con Alpha Nominus erano probabili. La zona d’accesso più
vicina alla loro posizione era a due isolati.
«Ci conviene prendere un’altra auto, così faremo
prima.» propose.
Lance non era dello stesso avviso e scosse la
testa, provocando una cascata di polvere dai capelli bruni «No, faremmo troppo
rumore. Andiamo a piedi.»
Pensandoci bene sì, era la cosa migliore. Leef era
felice di avere con sé qualcuno abituato ad uscire nel mondo superiore,
soprattutto ora che si sentiva stravolta dall’inseguimento. Prese Lance
sottobraccio e s’incamminarono. Ad ogni passo lo sentiva gemere per il dolore,
e lei, pur sapendo di non essere la causa del suo infortunio, non poteva fare a
meno di soffrire con lui.
«Leef.»
Si sentì chiamare. Alzò lo sguardo, incontrando
quello dell’altro, sorridente nonostante tutto. Si sentì arrossire e si diede
della sciocca: non era il momento adatto per sentimentalismi «Dimmi.»
«Smettila di preoccuparti. Ho sopportato di peggio,
lo sai.» la rimproverò lui, scoccandole un bacio sulla fronte, prima di
ricordarsi improvvisamente una cosa «Ah, il cristallo di Berg?»
«Ce l’ho qui…» rispose lei, brusca, irritata per il
cambio d’argomento; cacciò la mano nella sua borsa, cercando distrattamente…
almeno finché non si accorse che niente lì dentro, tra pistole, munizioni,
candelotti, ricetrasmittenti e persino una confezione di burrocacao… «… Merda.»
«Leef…» il verso di Lance sembrava più disperato
che arrabbiato «Non dirmelo, ti prego.»
«Okay, non te lo dico!» sorrise forzatamente Leef,
lasciando poi andare il compagno. Doveva esserle caduto durate la colluttazione,
non c’era altra spiegazione. Sicuramente era ancora lì, doveva solo tornare indietro
a prenderlo. Ritirò tutto ciò che aveva pensato sulla loro buona stella «Io
torno alla macchina, tu corri all’ascensore.»
«Perfetto. Torniamo alla macchina!» senza prestarle
ascolto, Lance fece marcia indietro, tornando sui suoi passi.
«Lance!» Leef lo raggiunse subito, tirandolo per il
braccio sano; riuscì comunque a fargli male e perciò si diede dell’idiota, ma
la sua preoccupazione per lui era dieci volte maggiore di quella per il resto
dell’umanità «È troppo pericoloso!»
Egli si voltò a guardarla in maniera severa «E vorresti
lasciare il cristallo lì?» chiese poi, evidentemente annoiato da quello spreco
di tempo.
«Il cristallo è al sicuro. Gli Alpha Nominus non
possono avvicinarsi.» continuò lei, cercando di essere convincente, ma la sua
decisione morì quando Lance le prese la mano. Che colpo basso.
Leef non oppose più resistenza, del resto sapeva
che quando Lance si fissava con qualcosa era impossibile smuoverlo, dunque, sospirando,
acconsentì tacitamente.
«Come ho potuto essere così stupida?» non si
risparmiò comunque, rivolgendosi tutti gli improperi che ricordava. Se fosse
accaduto qualcosa a uno dei due sarebbe stata tutta colpa sua.
«Basta con questa lagna. Se mi accadrà qualcosa
sarà perché non sarò stato abbastanza attento.»
«La smetti di leggermi nella mente?»
Lance ridacchiò piano mentre si massaggiava la
spalla, cercando di sorridere nonostante il dolore. Non era la prima volta che
si rompeva un osso, ed aveva imparato a resistere alla sofferenza, almeno per
un po’…
Rimasero in silenzio, o meglio in ascolto, poiché
anche un semplicissimo suono poteva rivelare la presenza di un mostro. Leef
teneva stretta in mano la pistola, contando ogni passo. Ogni qualvolta che
sentiva un rumore improvviso scattava, cominciando a puntare a destra e a manca
l’arma, alla ricerca di nemici inesistenti. Lance non cercava di fermarla, in
quanto sapeva che la ragazza aveva ragione a farlo: con lui quasi fuori gioco,
ella era la loro unica speranza di salvezza in caso di attacco.
E poi, senza preavviso, le pose una domanda strana.
«Tu credi in Dio?»
Quella domanda fu per Leef come una doccia fredda.
Si voltò verso l’uomo, guardandolo sconcertata. Era davvero il momento adatto a
una discussione a sfondo teologico? Tuttavia non se la sentì di lasciarlo senza
una risposta, quindi scosse la testa «No.»
Esattamente come egli credeva, o forse temeva. Benché si conoscessero da una vita, non glielo
aveva mai chiesto. Sorrise amaramente, in effetti non era affatto il momento
migliore per quel genere di domande «E non ti senti sola a volte, quando
nessuno ti è accanto?»
«Che razza di domande sono queste?» un cipiglio
irritato sul volto di lei fece capire che quell’argomento era off-limits. Gli
indirizzò un’occhiataccia che sembrava metterlo in guardia dall’abusare della
sua pazienza «Non è il momento di fare certi discorsi.»
«Sì, hai ragione. Perdonami.»
Lance non faticava a comprendere perché Leef fosse
atea: dopo aver perso tutto, dalla famiglia ai beni materiali, molti avrebbero
perso la fede. E poi era una scienziata, e spesso gli scienziati non si mostrano
anche solo vagamente aperti alla possibilità che esista qualcosa di più
intelligente di loro e più potente degli Alpha Nominus.
«Oh, ecco!» la voce della ragazza richiamò l’uomo
alla realtà.
Lance si diede dello stupido per essere stato così
provveduto: potevano essere attaccati in qualsiasi momento, non era il caso di divagare.
Il suono dei caricatori di Leef riecheggiò varie
volte, mentre il cacciatore preparava le sue armi, maledicendo per l’ennesima
volta quell’esplosione.
La spalla gli doleva, la donna lo vedeva benissimo.
«Io vado avanti.» asserì, poi lo precedette.
Con uno sbuffo, Lance rimase indietro a caricare le
armi.
Leef si guardò intorno, scrutando le cime dei
palazzi, da cui i mostri amavano lanciarsi per saltare addosso alle loro
vittime. Sembrava che non ci fosse niente. Prese un profondo respiro, sentendo
l’aria fredda penetrarle nei polmoni; c’era ancora una gran puzza di morto e di
fumo, era così disturbante.
Quasi nevrotica attraversò la strada, a passi
piccoli e leggeri, sfruttando le ombre come copertura. Non doveva correre il
rischio di attirare l’attenzione fin quando Lance non sarebbe stato pronto. Un
passo mosso avventatamente provocò lo spostamento repentino di un sasso e il
rumore riecheggiò nella distesa silenziosa.
Leef trattenne il fiato. Un attimo dopo le erano letteralmente
addosso.
«Leef!»
La ragazza cadde a terra, spinta con violenza da
una mano nera munita d’artigli. Non sentì più le gambe, ma solo un ammasso di
corpi addosso al suo e la mancanza di aria. Nella confusione e nella paura, non
riuscì a capire che i colpi e le onde d’urto che sentì subito dopo erano i
proiettili con cui Lance stava massacrando i mostri che l’avevano atterrata.
Le urla degli Alpha Nominus si alzarono stridule.
Tre di loro la tenevano con forza, cercando di non cedere sotto i colpi mirati
del cacciatore; quest’ultimo, avendo finito di caricare le armi, ora cercava in
tutti i modi di allontanarli da Leef.
«Maledetti, qui! Sono qui!» prese a urlare e
provocarli, senza smettere di sparare.
Riuscì ad allontanare il primo, sbalzandolo dalla
ragazza. Tra un battito e l’altro del cuore, notò con estremo sollievo che era
ancora viva, anche se visibilmente shoccata. Per fortuna ancora non procedevano
con l’assorbirla. Un urlo risuonò al di sopra degli altri, mentre il più alto
degli Alpha Nominus si voltava verso il ragazzo, alzando una mano; gli altri
due si bloccarono, e così anche Lance.
Rimasero tutti e tre a fissarlo, mentre la mente di
Lance ricominciava a mettersi in moto.
Sorrise amaramente, sussurrando «E così collaborate
davvero, pezzi di merda…» e sparò dritto in faccia al capo.
Il mostro evitò con un urlo il proiettile, che, non
avendo incontrato il bersaglio, andò sprecato senza scatenare la sua onda
d’urto.
«Provate a prendermi, allora.» Lance iniziò ad
allontanarsi, continuando però a sparare al capo dei mostri.
Gli altri due fecero dei balzi invidiabili e
raggiunsero i tetti delle abitazioni più vicine e basse, poi sparendo: si
preparavano a un agguato? Ormai dovevano essere entrati nella mentalità del
gruppo, perciò difficilmente però avrebbero abbandonato il loro comandante.
Quest’ultimo ora inseguiva il cacciatore, che,
diretto all’auto, cercava di correre il più velocemente possibile, combattendo
contro il dolore alla spalla. Lanciò una fugace occhiata a Leef, svenuta, poi
riprese la sua corsa disperata con alle calcagna l’Alpha Nominus alto,
infuriato e soprattutto affamato.
Si lanciò dentro l’auto rovesciata, ancora ferma sul
luogo della strage.
A quel punto non si udirono più suoni, neanche
quello dei passi dell’Alpha Nominus che lo inseguiva. Con le mani sudate, il cacciatore
cominciò a scavare senza sosta, cercando con gli occhi il cristallo.
“Dove cazzo è?!” pensò.
In quel momento la paura che le loro convinzioni
fossero false lo avvolse. E se davvero quel misero pezzo di minerale non fosse
servito a niente, come aveva insinuato Mason? Sarebbero stati entrambi
assorbiti o avrebbe trovato la forza di combattere? In quel momento notò un
flebile bagliore celeste alzarsi dai sedili posteriori.
“Eccolo!” allungò una mano lo afferrò come se fosse
stato l’acqua nel deserto, il solo sentirlo di nuovo tra le mani gli donò un
leggero sollievo.
Con fatica uscì dall’auto, spingendosi coi piedi e
una mano. Teneva il cristallo luccicante stretto nella mano libera. Una volta
fuori, si guardò con circospezione intorno, riprendendo fiato: non c’era
nessuno. Leef giaceva ancora sul ciglio della strada, nessun Alpha Nominus in
giro.
Se ne erano davvero andati? Dopo essersi guardato
con attenzione intorno alzò lo sguardo e… due occhi gialli e un sorriso
mostruoso gli diedero un caloroso bentornato.
In contemporanea sia l’Alpha Nominus che Lance
lanciarono un urlo: il primo di vittoria, il secondo di paura. L’agguato era
andato decisamente a buon fine, e adesso era il momento di una bella merenda
sostanziosa!
L’Alpha Nominus si gettò da sopra la macchina
capovolta addosso a lui, che tentò di darsela a gambe ma non fu abbastanza
veloce per evitare che la bestia gli affondasse i denti nella gamba e tirasse
via con gusto un pezzo di carne.
Lance si piegò in due, urlando di nuovo come un
pazzo, mentre il dolore lo assaliva ancora; la sua mente si annebbiò
velocemente, era sul punto di lasciarsi svenire quando Leef comparve nel suo
campo visivo, trascinata per i capelli un altro Alpha Nominus. Il cacciatore
sentiva il sangue sgorgare dalla ferita, la sofferenza era così intensa da impedirgli
di ragionare lucidamente. Si fece forza, nonostante persino respirare fosse
difficile, e mosse appena la mano, mostrando l’oggetto che vi teneva stretto.
La luce del cristallo si espanse a quel punto, riflettendosi
sui corpi dei mostri che cominciarono a urlare come forsennati. Quello che ancora
si gustava la carne di Lance si coprì gli occhi, ma, troppo preso alla
sprovvista, non seppe come reagire e fu il primo ad esplodere. Letteralmente.
Uguale fu la sorte del capo, quello che stava innanzi all’uomo, grazie al quale
Lance poté finalmente dire con certezza che l’interno degli Alpha Nominus aveva
decisamente molto in comune con quello degli uomini.
Quello che teneva per i capelli Leef si unì al coro
di urla, lasciando cadere la ragazza sull’asfalto. Infine scappò, lanciando a Lance
un’occhiata che prometteva vendetta.
«Scappa, bastardo… scappa! Non… l’avrete vinta…»
mormorò il cacciatore, soddisfatto. Strisciando e lottando contro i muscoli che
gli urlavano di star fermo, riuscì con molti sforzi ad avvicinarsi infine a
Leef. Sembrava star bene, a parte le ferite che si erano procurati durante
l’esplosione.
«Grazie, Dio, grazie…» sussurrò al cielo grigio,
ormai allo stremo delle forze.
Ora aveva avuto la prova definitiva che qualcuno li
aveva salvati. Subito dopo, però, un sonno molto insistente lo colse, e
stavolta Lance fu sicuro che non sarebbe riuscito a resistere: era esausto.
Mentre stringeva la mano di Leef, poggiando tra loro il cristallo, si chiese se
si sarebbe mai svegliato; la lunga striscia di sangue e la gamba per metà
distrutta non ne erano così sicure.
Eppure aveva dimostrato che il cristallo funzionava
e che le teorie di Leef erano giuste: l’aveva salvata. Era riuscito a
proteggere davvero qualcuno. D’un tratto, mentre chiudeva gli occhi e scivolava
nell’incoscienza, sentì d’aver per la prima volta in vita sua qualcosa di cui
andava fiero.
Poco dopo che Lance svenne, un voce maschile
tonante e bassa spezzò il silenzio.
Il
parco giochi non sembrava esattamente un parco giochi.
Certo,
c’era l’erba verde appena tagliata e c’erano i giochi, dagli scivoli alle
altalene, c’era anche un gelataio che distribuiva gratis coni e coppette, senza
però neanche fingere allegria; c’erano bambini, alcuni dei quali si divertivano
e altri invece che se ne stavano per i fatti loro a giocare in silenzio. Ma una
cosa accomunava tutti, grandi e piccini: quel vago senso di malinconia
onnipresente.
La
luce splendeva, sì, ma si trattava di una luce artificiale, creata per emulare
in modo realistico quella solare. La stella che la nuova generazione forse non
avrebbe mai visto. Regnava una quiete che dovrebbe essere estranea a bambini così
piccoli.
Il
mondo era davvero cambiato. Così ragionava Leef, dieci anni, mentre si avviava
verso un angolino buio del parco; sottobraccio portava un libro intitolato
“Matematica per principianti”.
Leef
aveva già deciso la strada che avrebbe percorso: sarebbe divenuta una
scienziata ed avrebbe apportato un aiuto concreto alla sua razza in quella che era
la battaglia per la sopravvivenza. Non sarebbe rimasta a guardare: voleva
distruggerli tutti, dal primo all’ultimo, anche a costo della vita.
Erano
passati diversi anni dal giorno della morte dei suoi genitori naturali, ma la
bambina non si era ancora ripresa, e giorno dopo giorno assillava i genitori
adottivi perché la portassero in biblioteca o le insegnassero qualcosa di nuovo.
Era molto impegnativo, ma Antoine e Hélène Leroy erano felici che Leef studiasse
così tanto. Nonostante ormai non ci fosse molto da fare in quel mondo per gli
esseri umani, era difficile liberarsi dal desiderio di vedere il proprio figlio
crescere con un certo bagaglio culturale.
La
bimba si accomodò su quell’erba che sapeva di falso e aprì il libro, partendo
dalla premessa; i suoi vispi occhi azzurri cominciarono a vagare tra
lettere e numeri, mentre la mente assimilava informazioni come una spugna. Era
talmente tanto catturata dalla lettura che non si accorse che qualcuno le si
era avvicinato con passo quatto. Solo quando l’ombra dello sconosciuto non le
permise più di leggere alzò gli occhi, specchiandoli in due altri verde rame.
«Cosa
c’è?» chiese al bambino, visibilmente poco più grande di lei, che le si era parato
davanti. Vestiva di nero, come se fosse a lutto, e portava tra le mani una
pietra colorata con delle pennellate vivaci.
«Che
cosa stai facendo?» le chiese quello, senza però una reale curiosità.
La
bambina inclinò il capo, rispondendogli con un irritato «Leggo.»
Per
la sua felicità, quello le si sedette davanti. Il tentativo di allontanarlo era
miseramente fallito «Non giochi con gli altri?»
«E
tu?» ribatté lei, piccata; non aveva assolutamente voglia di stringere nuove
amicizie, ormai le reputava solo una perdita di tempo.
Il
bruno poggiò una guancia su una mano, sedendosi in modo disordinato. Scoccò
un’occhiata al tomo e un guizzo felino gli attraversò gli occhi «Hm… sei una
secchiona?»
«Come
ti permetti?!» esclamò arrabbiata Leef, chiudendo di scatto il manuale «Fatti
gli affari tuoi, saccente!»
«Hey
hey, calma! Non ti ho mica insultata! Scusa tanto, non so ancora bene il
francese!» provò lui, soddisfatto di aver ottenuto una reazione, quando poi lei
gonfiò le guance, rise di gusto e sinceramente «Allora in te c’è ancora
qualcosa di infantile!»
E
poi ci fu un sonoro pugno a un ginocchio! Il bambino gemette di dolore, mentre
Leef si metteva in piedi.
«Lasciami
in pace!»
Ma
ovviamente se lo ritrovò alle calcagna in pochi secondi «Mi hai dato un pugno!
… Uh, certo che sei lenta.»
«Forse
perché sono più piccola di te, genio?» Leef accelerò il passo, senza però
riuscire a raggiungerlo. Quel ragazzino le stava proprio dando su i nervi.
«Hai
ragione, scusami. Rallento e ti aspetto.» e così si ritrovarono presto nella
situazione opposta a quella che doveva essere: il bambino avanti e la bambina
indietro.
Leef
si impose di non sferrargli un altro pugno, ma gli scoccò un’occhiataccia in
cambio; camminava, sentendo l’erba sotto le scarpe, cercando di concentrarsi
sull’andatura.
Manteneva
una rigida e costante postura della schiena, cosa che non scappò all’occhio
attento del bruno, che colse al volo l’occasione per stuzzicarla «Calmati, robot,
o la schiena ti si spezzerà come una corda di violino.»
«No,
genio. Si spezzerà a te se continui a camminare così curvo.»
«Io
la schiena intendo spaccarmela solo per proteggere le persone a cui voglio
bene. Quindi non ti preoccupare.»
Il
brusco cambio di tono colpì Leef, che fermò la sua avanzata e lo scrutò
sospettosa, mentre in sottofondo una radio riproduceva il canto di una cicala «Non
hai qualcun altro da infastidire? Non so, una sorella?»
«Mia
sorella è morta.» asserì il bambino con aria seria, che sorprese ancora una
volta la bimba «È stata uccisa dagli Alpha Nominus mentre cercava di
proteggermi.»
La
sua voce era piatta, eppure velata di tristezza. Probabilmente era successo da
molto tempo e ormai aveva somatizzato la tragedia.
Leef
si fermò a guardarlo con intensità: non era raro trovare qualcuno col suo
stesso tragico passato, ma lo era trovare qualcuno così caparbiamente deciso a
conoscerla. Perché non dargli una possibilità? Al limite, se proprio si fosse
rivelato insopportabile lo avrebbe fatto tornare a casa piangendo.
«Leef
Leroy.» si presentò, porgendogli la mano.
«Leef?
Come foglia? Carino.» il ragazzo le sorrise, stringendo vigorosamente la
piccola mano dell’altra «Lancelot Langford.»
***
«Uh…»
con un mugolio sommesso, gli occhi blu di Leef si aprirono.
La
donna si prese qualche secondo per se stessa, cercando di muovere prima le
braccia, poi le gambe. Sì, sembrava non mancare niente. Magnifico. La testa le
doleva, ma a parte quello stava bene. Fortunatamente gli Alpha Nominus non
l’avevano uccisa.
Udì
a quel punto attorno a sé voci che sussurravano… voci umane.
“Che
cosa…?” erano riusciti a tornare alla Nemesi? E allora perché sopra la sua
testa scorgeva, seppure in modo sfocato, il cielo notturno? No, era sbagliato!
Aprì
gli occhi, ritrovando coscienza di sé assieme a una paura che rasentava
l’isteria che l’aveva accompagnata prima dello svenimento; si trovava davvero
ancora all’aperto e quelle che sentiva erano davvero voci umane. Si issò sui
gomiti, cercando di mettere a fuoco la scena, avvertì un capogiro che la
costrinse a piegarsi di nuovo, sentendo i capelli sfiorarle fastidiosamente le
palpebre «Dove sono?»
Presto
un’ombra le fu accanto: si trattava di una donna bionda sconosciuta, dai tratti
americani «Are you okay?» le chiese, preoccupata.
La
mora strabuzzò gli occhi, incredula: attorno a lei c’erano almeno una trentina
di persone, tra uomini, donne, bambini, uno diverso dall’altro. Una decina
erano bianche e sembravano europei, poi c’era un esile numero di indiani,
riconoscibili dai vestiti, alcuni afroamericani dall’aria particolarmente
affaticata e molti orientali, con i loro tipici occhi a mandorla.
Sopravvissuti?
Dopo tutto quel tempo? Era possibile?
Cercando
di riprendere voce, la ragazza mormorò alla donna che le era accanto, col suo
inglese dall’accento esageratamente francese «Sì… sì, vi ringrazio. Ma chi
siete, voi? Sopravvissuti?»
«Mi
fa piacere… comunque sì, siamo appena arrivati a Parigi.» le rispose la donna
con un sorriso mesto; le avvicinò poi una borsa, dalla quale estrasse un
vecchio asciugamano bucato che le passò sul viso, cercando di pulire i residui
di sangue «Mi chiamo Lucy, vengo da New York, assieme alla mia famiglia laggiù.
Li vedi? Siamo un piccolo gruppo che è andato ingrandendosi durante il viaggio.
Come ti chiami?»
«Leef
Leroy. È una fortuna che siate riusciti ad arrivare fin qui. Vi porterò alla
Nemesi.» rispose la ragazza, riconoscendo che il suo inglese non era dei
migliori. Avrebbe voluto porre tante domande a quella gente, ma non riusciva a
trovare i vocaboli adatti. In quel momento però un pensiero le attraversò la
mente e la fece sobbalzare, esclamando «L’uomo che era con me?!»
La
donna si fece improvvisamente titubante; torse il capo di lato, chiamando un
uomo seduto alle sue spalle «Jonathan…»
Quest’ultimo
si alzò, rivelando un fisico molto robusto, che lasciava però a intendere anche
quanto l’uomo fosse avanti con gli anni; sembrava reduce da dure lotte per la
sopravvivenza, e forse era proprio lui il capo di quella strana comitiva.
Portava una barba bionda e incolta, aveva gli occhi stremati di chi ha visto troppo.
Si
avvicinò alla ragazza e le fece cenno di seguirlo «Seguimi.» le disse,
rivelando un forte accento del sud degli States.
Leef
annuì, lasciandosi guidare nella notte attraverso quelle persone che la
guardavano con sguardi pieni di speranza. Povera gente, pensò lei, attraverso
quanti orrori dovevano essere passati…
L’uomo
chiamato Jonathan la condusse fino ad un angolo appartato, dove riposava sotto
un mucchio di coperte Lance, febbricitante.
La
ragazza si catapultò accanto a lui per accertarsi delle sue condizioni ed
abbracciarlo con slancio. Posò la mano sulla sua fronte, scoprendo che aveva la
febbre alta, poi sistemò piano le coperte, cercando di non fargli prendere
freddo. La spalla rotta era stata fasciata, così come una gamba, la cui benda
era completamente colorata di rosso. Come si era procurato quella bruttissima
ferita? La ragazza sentì una lacrima scendere lungo la guancia.
Si
accovacciò vicino a lui, prendendogli la mano tremante «Lance… ti avevo detto
di scappare, incosciente…» ma non poteva ottenere risposta.
Lance
dormiva sonni violenti, e di tanto in tanto gli scappava dalle labbra qualche
mugolio per il dolore.
«Ha
perso molto sangue, ma ce la farà… credo.» disse alle sue spalle l’uomo.
«Non
so come ringraziarvi…» mormorò Leef; nonostante le cure dei profughi, era però
chiaro che Lance sarebbe peggiorato velocemente senza l’aiuto della Nemesi.
Doveva
sbrigarsi e portare tutti quei poveracci in salvo.
Tornò
per la strada per la quale era venuta, fino al luogo in cui si era svegliata.
Fortunatamente avevano raccolto la sua borsa. Nell’aprirla trovò il cristallo
di Berg e la cartina dove erano segnati tutti i punti d’ingresso della Nemesi;
che fortuna, pensò, avevano raccolto proprio tutto senza rubare niente!
«Tu
ci porti da Nemesi?» una vocina piccola e gentile colse Leef impreparata.
La
ragazza si voltò, incontrando le iridi nere e spaventate di una bambina con le
trecce disfatte; la scienziata sentì un colpo al cuore, rivedendo in quella
bimba se stessa dopo il suo primo incontro con gli Alpha Nominus. Che ironia.
Adesso era lei il membro della Nemesi che andava a salvare bambini dall’animo a
pezzi.
Cerco
di calmare i battiti troppo forti del cuore e, quando finalmente riuscì ad
alzare lo sguardo, si accorse di aver catalizzato l’attenzione. La risposta che
aveva inseguito per anni adesso le si palesava davanti agli occhi: il vero
motivo per cui era entrata nella Nemesi non era sterminare gli Alpha Nominus,
ma aiutare gli umani come lei.
Tornò
a guardare la bambina con sguardo determinato ed un sorriso sicuro di sé,
annuendo «Ci andiamo subito.»
La
fanciulla sorrise.
***
“Manca
poco…” pensava Leef mentre guidava la folla tra il buio degli edifici.
Avevano
preferito muoversi immediatamente, di notte, in quanto gli Alpha Nominus, proprio
come gli esseri umani, cacciavano di giorno e dormivano la notte.
L’entrata
della Nemesi più vicina si trovava in una cabina telefonica a tre isolati dalla
loro posizione, ormai mancava poco e già riusciva a vedere in lontananza il
rosso della struttura, anche se non era ancora chiaramente visibile.
«Avanti!»
spronò sottovoce quelli dietro di lei, indicando la cabina «Siamo arrivati!»
Diversi
volti si colorarono di una meravigliosa speranza che Leef non vedeva da anni,
poiché tutti alla Nemesi l’avevano persa. Diede un rapido sguardo alla coda
della fila, dove stavano gli uomini più forti, imbracciando fucili e altre
armi; uno di loro portava sulle spalle Lance ancora senza forze, con la gamba
avvolta nelle garze ormai completamente bagnate di sangue.
La
febbre si era alzata e le sue condizioni erano peggiorate, così come quelle del
cuore di Leef, che si spezzava ogni volta che lo vedeva in quello stato.
Aveva
scoperto che oltre Lance c’era anche un altro ferito: un uomo del gruppo, il
quale aveva avuto un incontro troppo ravvicinato con un Alpha Nominus un’ora
prima del loro ritrovamento. Aveva perso un braccio.
Si
era posta diverse domande da allora: perché questa nuova tecnica di mordere
invece che uccidere direttamente, così da dare la possibilità alle vittime di
scappare? Solitamente un Alpha Nominus attaccava e o sbranava sul momento o assorbiva,
così da riempirsi la pancia. Anche i suoi genitori erano stati assorbiti. Ma
questo nuovo atteggiamento sembrava quasi marchiare le vittime come proprietà
privata. E in tutta sincerità non le piaceva pensare che Lance era ora
proprietà privata di uno di loro.
“Ci
siamo” fortunatamente nessun mostro era in giro quella notte, dunque la ragazza
poté aprire lentamente la porta della cabina, senza far rumore; entrò veloce e
digitò sulla tastiera il numero segreto che attivava il pavimento sotto i suoi
piedi, che in realtà era un ascensore.
Si
fece poi da parte, spiegando sommariamente di entrare a coppie il più in fretta
possibile. La folla si accalcava nella frenesia del momento, creando qualche
rumore, ma sorprendentemente mostrarono un’ottima capacità di gestione del
panico: prima furono messi in salvo donne e bambini, poi i feriti, poi i
vecchi, infine gli uomini.
Pian
piano tutti furono mandati giù, ma Leef volle essere l’ultima a scendere.
Scoccò uno sguardo preoccupato a Lance agonizzante, mentre il suo profilo
spariva con l’ascensore.
Quando
rimase sola, si guardò intorno per un tempo indefinito, scrutando la notte alla
ricerca di qualsiasi segnale: nessun rumore, nessun Alpha Nominus. Solo il
silenzio di una città devastata.
Sospirò
e finalmente entrò nella cabina, chiuse la porta, voltandosi verso il
ricevitore. L’ascensore discese. Proprio nel momento in cui il profilo della
strada spariva, due bagliori gialli illuminarono la notte, incontrando il suo
sguardo.
A
stento Leef trattenne un urlo spaventato, ma ormai era già sotto terra. Poggiò
una mano contro il vetro dell’ascensore, mentre la terra scorreva intorno a lei.
Aveva gli occhi sgranati e il cuore che batteva forte, il respiro affaticato.
Dovevano distruggere quell’entrata, ora gli Alpha Nominus sapevano che quello
era un punto di passaggio.
Quando
finalmente giunse tra le bianche e rassicuranti pareti della Nemesi, andò
subito alla ricerca di un membro della sicurezza. Lo trovò dopo pochi minuti:
un vecchio soldato che imbracciava un kalashnikov.
«Ah,
signorina Leroy. Ce ne sono altri?» si affrettò questo; era un uomo molto alto
e ben impostato, vestito di blu, con la tipica divisa delle forze dell’ordine.
Dietro di lui vi erano i profughi, salvi e sorridenti. Quella visione però non
riuscì a rilassarla.
«No,
io sono l’ultima. Gli Alpha Nominus ci hanno visti.» spiegò con una certa
trepidazione, ma non ebbe bisogno di finire la frase.
L’agente
annuì e s’incamminò verso il commando «Ostruiremo subito l’entrata.»
***
Erano
passati tre giorni da quella notte, ma ancora la notizia dell’arrivo dei
profughi era sulla bocca di tutti. Il gruppo era stato diviso, ognuno aveva
ricevuto le giuste cure mediche e assistenza: per loro l’incubo era finito.
Almeno per il momento.
L’entrata,
la quale quella stessa notte era stata distrutta, non rappresentava più un
pericolo. Jonathan, il capo dei profughi, stava pian piano imparando qualche
parola di francese per comunicare con gli altri.
Lancelot
Langford aveva sfiorato la morte più e più volte, ma l’aveva scampata; giaceva
nel suo letto d’ospedale finalmente salvo, la sua vita non più in pericolo. Ora
sorrideva a Leef e parlava con lei come se tutto non fosse mai accaduto.
«Questo
pollo fa schifo!» si lamentava del cibo dell’ospedale ad ogni pasto.
«Mangia,
devi recuperare le forze.» lo rimbeccò la ragazza, imboccandolo «Biasima te
stesso! Guarda a che punto ci ha portati il tuo complesso dell’eroe.»
Lance
sorrise e scosse la testa «Veramente… se qui c’è un eroe, sei tu! Io ho solo
provato che il cristallo di Berg funziona eccome, ma tu hai salvato
tutte quelle vite.» le sorrise con la bocca piena, ingurgitando tutto di forza.
Sapeva che era cibo selezionato, tutto merito di una dieta per farlo guarire
prima, ma ciò non toglieva che il pollo degli allevamenti bui della Nemesi
facesse davvero schifo.
«No.
Tu hai dimostrato che il cristallo funziona, mi hai salvato la vita, poi loro
hanno salvato le nostre e infine io le loro.» come sempre Leef faceva della
logica il suo marchio di fabbrica, ma quando non teneva in mano due pistole
calibro 36 era anche una donna che si avvicinava alla definizione di femminile;
aveva raccolto i capelli in una lunga treccia con cui litigava in
continuazione. Sapeva però che Lance amava le trecce, quindi… perché non farlo
felice?
Spostò
lo sguardo preoccupato verso la gamba di lui e chiese piano «Come va la gamba?»
«Benissimo!»
mentì lui, ricevendo in cambio un’occhiataccia.
Eppure
cercava di non farla preoccupare, o almeno non troppo; era stato uno
sprovveduto a mettersi in quella situazione, si sentiva molto in colpa anche se
non lo dava a vedere «Beh, meglio di prima. Anche se ho uno strano gonfiore…»
lasciando cadere la cosa, prima che Leef chiamasse a raccolta l’intero staff
medico, dirottò l’argomento su ben altro «Ah! Non ho avuto la possibilità di
parlartene prima. A casa nostra, sul tavolo della cucina, ho lasciato un regalo
incartato con una bustina blu. È per te, mon amour.»
«Un
regalo?» lo guardò di sbieco Leef, la facciata di dura crollò all’istante e si
concesse un sorriso «Non... me lo aspettavo. Grazie…»
Che
cosa carina. Così carina ma anche così improvvisa che…
«Ah!
Non penserai di distrarmi dal farti pranzare, eh!?»
«Nooooo!
Ti prego! Basta!» che misero fallimento, Lance!
Mentre
Lance si agitava, cercando di evitare la forchetta di lei che doveva
imboccarlo, la porta della stanza si aprì, sbattendo contro il muro.
Jonathan
del gruppo di profughi entrò trafelato, con gli occhi sgranati, pallido e
madido di sudore; era talmente terrorizzato che la coppia per un attimo temette
che gli Alpha Nominus fossero riusciti a penetrare nella sede, ma quando parlò
il messaggio fu ben diverso «Signorina Leroy! Il mio amico! Presto, mi segua!»
Lance
e Leef si scambiarono un’occhiata stranita, quindi la donna si alzò ed
abbandonò sul tavolino il pranzo. Quando Leef fu fuori, Lance cacciò
un’occhiata disgustata al pollo.
«Aaah…
questa dannata gamba fa davvero un male cane…»
***
Leef
venne condotta tre corridoi accanto, dove riposava il paziente che aveva subìto
lo stesso trattamento di Lance; già avvicinandosi poté sentire urla disumane che
provenivano da lì. Urla che le fecero gelare il sangue nelle vene.
“Come
ha fatto un Alpha Nominus ad entrare?!” si chiese sbalordita, accelerando il
passo.
Lo
spettacolo che si ritrovò davanti era a dir poco terrificante. Tre infermiere
giacevano a terra in un lago di sangue, due col volto dilaniato e una ridotta a
uno scheletro a cui non era stata assorbita solamente la testa. Due dottori cercavano
scampo ammassandosi contro le pareti, mentre cinque agenti della sicurezza
scaricavano cartucce su cartucce coi loro fucili.
Un
Alpha Nominus si accasciò a terra nello stesso momento in cui Leef entrò.
«Ah!
Cosa diavolo è successo qui…?!» esclamò la ragazza, facendo spontaneamente un
passo indietro.
Il
mostro era morto, lo avevano esposto alla luce del cristallo di Berg, il quale
era stato clonato ed era pronto per essere trasformato in proiettili per
uccidere i mostri.
Urlando,
Jonathan si accasciò a terra accanto a lei; un atteggiamento che Leef non
comprese e che la lasciò assolutamente sbigottita: perché stava piangendo per
la morte di un Alpha Nominus? Gli aveva dato di volta il cervello?
Un
dottore, uno dei pochi sopravvissuti, le si avvicinò; era coperto di sangue ma
non sembrava aver riportato ferite gravi, tutto ciò che voleva era uscire da
quell’inferno maleodorante. Le fece cenno di seguirlo, e Leef lasciò Jonathan
solo assieme al suo inspiegabile dolore.
Cominciarono
ad allontanarsi in silenzio, mentre sentivano ancora il capo dei profughi
disperarsi.
«Cosa
diavolo è successo qui dentro?» ripeté lei, aiutandolo mentre l’altro arrancava
in direzione di una sedia.
«Quello
che sto per dirle potrebbe scioccarla… lei ha condotto questi stranieri qui,
giusto?» lo specialista vi si lasciò cadere sopra e trasse un profondo sospiro,
pulendosi il sangue dal viso; i primi aiuti cominciavano ad arrivare e il
corridoio a popolarsi, ma Leef aveva attenzione solo per lui. Annuì con
convinzione.
«Solo
quell’uomo era ferito, giusto? Nessuno ha riportato ferite abbastanza leggere
da non esserci segnalate?» gli tremò la voce e si passò una mano sulla fronte, poi
si sistemò gli occhiali e si passò di nuovo la mano sulla fronte. Stava per
impazzire?
La
donna annuì ancora, cominciando però a perdere la pazienza «No, nessun ferito
stando a quanto mi è stato detto.»
«Signorina
Leroy...» l’uomo a quel punto si fermò, voltandosi per fulminare Leef con gli
occhi «Quell’uomo si è mutato davanti ai miei occhi in un Alpha Nominus.»
Leef
pensò si aver sentito male, oppure di essere diventata pazza come Jonathan. Non
poteva esserci altra spiegazione. A stento, con voce flebile e sconvolta,
mormorò «Come, scusi?» e per poco non gli rise in faccia, tanto era assurdo
quel discorso.
Le
stava dicendo che gli Alpha Nominus adesso rinunciavano a un pasto fresco per…
riprodursi trasformando gli umani? Come gli zombie o i vampiri delle leggende?
Era un pessimo scherzo forse? La voleva prendere in giro?
«Non
sappiamo come. Non ne abbiamo la minima idea.» confessò il dottore «Non è mai
successo niente di lontanamente simile. Il paziente ha cominciato ad accusare
dei dolori molto forti alla spalla. Sembra che gli abbiano iniettato qualcosa
che i nostri strumenti non sono in grado di riconoscere.»
Ma
Leef non lo ascoltava. La notizia l’aveva segnata dentro, nel profondo.
Quell’uomo era stato morso un’ora prima di Lance.
«No…»
Leef provava a trattenersi mentre su di lei scendeva un velo freddo.
La
mente le si era di colpo fermata.
«Dannazione!»
urlò con tutto il fiato che aveva in gola.
Abbandonò
il medico, correndo a perdifiato verso la stanza dove aveva lasciato Lance.
Urtò innumerevoli volte contro i passanti che avevano deciso di farle da muro,
imprecando e intimando di togliersi di mezzo.
Il
cuore le salì in gola quando vide che la porta della stanza 24 era aperta.
Tutto
il puzzle ora assumeva la sua vera forma, molte domande ottenevano risposta.
Era un orrendo, disgustoso puzzle. La ragazza pregò una qualche assurda
divinità che fosse tutto un incubo.
“No…
non può essere vero…” sentì di star piangendo, una cosa così irrazionale per
lei.
Finalmente
giunse la stanza, col fiato mozzato e i polmoni doloranti.
Guardò
dentro. Non c’era nessuno. Il letto era sotto sopra, le lenzuola strappate.
Leef
si accasciò a terra, senza forze né pensieri «Lance…»
Quando
la grande lampada che imitava la luce del sole si spegneva, allora era ora di
andare a letto; il sonno era prezioso, i sopravvissuti lo sapevano e stavano
ben attenti a non fare rumore. Nessuno usciva più la sera, nessuno si attardava
senza motivo.
La
gente aveva paura, un’indescrivibile, aggressiva paura che sfociava nella
nevrosi.
In
una modesta casa nel centro città, due figure passavano tranquillamente la loro
serata davanti al camino; tenevano in mano una tazza di cioccolata calda
ciascuno, il cui fumo creava strane forme alquanto sinistre in aria. Erano
entrambi avvolti in una coperta rossa. Leef e Lance avevano deciso di andare a
convivere due mesi prima e ormai era quasi tradizione passare le gelide sere
d’inverno davanti al camino, lei poggiata al petto di lui, mentre, tra una cioccolata
calda e un pulsare di fiamma, parlavano, si raccontavano ciò che avevano fatto
quel giorno, pensavano al futuro e confrontavano le loro idee, a volte
sfociando in interminabili dibattiti.
Quella
sera, Leef era mezza addormentata.
«Sicura
che non sia ora di andare a dormire?» chiese l’uomo, poggiando sul tappeto la
tazza e cominciando a carezzarle la guancia «Sei davvero stremata.»
«Tranquillo,
è solo che oggi Renoir mi ha fatta lavorare più del solito.» sorrise lei,
mostrando quel delizioso sorriso che riservava solo a lui «Non preoccuparti.»
«Oh,
non cominciamo.» rise lui col suo solito fare premuroso «Altrimenti restiamo
qui fino all’una, come l’altra volta, a dibattere se devo o no preoccuparmi per
te!»
La
ragazza cercava di tenersi sveglia, ma con una voce così bassa nelle orecchie
era molto difficile. Accennò un sorriso, annuendo col capo «Tanto lo sai che ho
sempre ragione io.»
«Sissignora!»
Arrendersi
era inevitabile: per quanto fosse un piacere per gli occhi vederla per una
volta così indifesa e spontanea, di un altro dibattito lungo fino al mattino
non ne aveva proprio voglia.
«La
settimana prossima salirò in superficie. Mi chiedo quanto sia cambiato il mondo
durante la mia assenza.» sarebbe stata per Lance la sua prima missione da
cacciatore: esplorare un ristretto territorio. In caso di attacco da parte
degli Alpha Nominus sarebbe dovuto tornare il più in fretta possibile alla
Nemesi.
«Vorrei
venire con te…» rispose allora Leef, non le andava assolutamente bene saperlo solo
là fuori: le faceva molta paura «Anzi, un giorno verrò con te.»
Lance
le sorrise, carezzandole la guancia «Intanto devi pensare a studiare, mia
piccola scienziata in erba. Lascia tutto il resto ai cacciatori.» quindi, con
un velo di improvvisa determinazione, si voltò ad osservare le fiamme ardere «Ti
proteggerò io, che tu lo voglia o no. È una promessa.»
***
Il
sole tramontava placidamente, come se la peste che stava corrompendo il mondo
non lo turbasse affatto. Un po’ come Dio.
Ma
la stessa cosa non era per le persone che combattevano come animali per
sopravvivere.
Il
centro città era desolato e la Torre Eiffel sembrava più alta del solito. Non
si era mai reso conto di quanto fosse bella, nonostante da bambino passasse
tutti i pomeriggi a giocare ai suoi piedi con la sorella minore. Si trovavano
proprio lì quando i suoi occhi avevano quelli di un Alpha Nominus per la prima
volta, tanto tempo prima…
-Tre
mesi dopo l’inizio dell’invasione -
«Fratello!
Corri!» la bambina dai lunghi capelli biondi e lo sguardo innocente con cui era
cresciuto non sembrava più la stessa. Non aveva mai visto il suo viso talmente
tanto deturpato dalla paura. Correva verso di lui sobbalzando ad ogni rumore, sporca
di sangue.
«Che
succede, Natalia?» chiese inutilmente Lance; era una domanda retorica. I
Langford erano tra i pochi quelli che non avevano ricevuto i permessi necessari
per scendere nella Nemesi.
Era
chiaro ciò che stava accadendo: erano lì per loro. La bambina continuava ad
avanzare verso di lui, Lance le fu accanto in un batter d’occhio, giusto in
tempo per vedere i cadaveri dei loro genitori abbandonati in strada dietro di
lei. Come tutti gli altri, erano stati assorbiti, di loro non rimanevano che
due cadaveri scarnificati, coi volti allungati in un grido di dolore.
Il
ragazzino bloccò per miracolo il conato di vomito che sentì salirgli in gola,
ma la sua mente e in generale tutto il corpo non rispondevano ai suoi stimoli.
Doveva correre. Doveva salvarsi la pelle a qualsiasi costo, anche se
significava abbandonare le carcasse di suo padre e sua madre.
Anche
se significava soccombere all’istinto di sopravvivenza e perdere lucidità.
«Ci
sono i mostri, fratellone!» strillava forte Natalia, mentre intorno a loro la
gente impazziva e si mescolava come una massa informe.
Agli
occhi di Lance era tutto molto sfocato in quel momento; forse per la paura,
forse per il buio che era improvvisamente calato sulla piazza. Le iridi verdi
del bambino però erano ancora puntate su quelli dei genitori che voleva
abbandonare ma non riusciva ad abbandonare.
Quando
avevano sofferto mamma e papà?
«Fratello!»
Non
aveva mai visto nessuno assorbito: perché proprio loro?
«Fratello!»
la piccola Natalia si era nascosta sotto la sua giacca per disperazione,
tremando come una foglia, mentre con le mani stringeva i jeans del ragazzino
spasmodicamente. Lei forse non aveva neppure capito che proprio quelle persone
erano i suoi genitori, forse non aveva capito proprio niente.
«Fratello!»
Lance
si risvegliò dalla sua trance nel momento in cui il suo sguardo fu intercettato
da una luminescenza giallastra.
«Lance!»
Agì
il più in fretta possibile. Prese in braccio la sorella, giusto in tempo per
evitare che tre artigli neri gli si conficcassero nella schiena. L’Alpha
Nominus lanciò un urlo d’ira per aver mancato la preda, ma Lance e Natalia
erano già piuttosto lontani.
Il
bambino ordinò alla sorella di tacere, così avrebbero avuto una possibilità di
passare inosservati in mezzo alla folla urlante. Una possibilità su mille di
farcela: tra tutte, quella possibilità doveva essere la loro.
Non
ce n’era solo uno, di mostro, ma moltissimi; i due fratelli ne potevano contare
una decina nella piazza. La strada era scivolosa, putrida di qualsiasi tipo di
orrore che un bambino non dovrebbe conoscere.
Ormai
Lance non ragionava, si limitava a correre in direzione dell’entrata della
Nemesi più vicina, come tutti del resto. Sentiva dietro di lui lo stesso Alpha
Nominus di poco prima: li stava inseguendo. Cosa potevano fare?
La
mente del giovane cominciò a rielaborare idee; dovevano trovare una strada
alternativa. Le entrate della Nemesi erano una sotto la Torre Eiffel, distrutta
dall’arrivo degli Alpha Nominus, l’altra poco lontana dall’Arco di Trionfo,
un’altra alle Champs Elysées, una a Palais Royal e l’ultima, la meno
conosciuta… a Notre Dame.
Correndo
come un pazzo attraverso il Pont d’léna e tenendo stretta la sorella,
prefigurava già una cartina per raggiungere la meta parecchio lontana. Quattro
chilometri! Non potevano farcela!
«Lance,
dove stiamo andando?!» strillò la bimba, ma non ottenne ancora una volta
risposta; sentiva solo il respiro affannato del fratello e il mescolarsi di
grida tanto fitte da disperdere la differenza tra quelle umane e disumane.
«Dobbiamo
nasconderci, vieni!»
Lance
la trascinò via, in direzione delle case ai lati della strada: se si fossero rifugiati
in una di quelle già distrutte forse avrebbero avuto qualche possibilità,
almeno di sfuggire allo scempio in corso.
Notò
di sfuggita due persone entrare in un edificio che sembrava pubblico, così
corse verso di loro, che però, con gli occhi sbarrati, gli chiusero la porta in
faccia.
«Fermi!
Aprite!» urlò il bambino, e una volta raggiunto il portone lo tempestò di
pugni; teneva la sorellina ancora nascosta, bloccata tra lui e la porta, in
modo da coprirla, ma da dentro non proveniva nessun suono. Lance cominciava ad
avere paura di essere stato tradito dalla sua stessa razza. Volevano lasciarli
morire? Avevano il cuore di lasciar morire una bambina piccola come Natalia?
«Aprite,
maledetti!»
A
quel punto però un altro urlo riecheggiò, e non proveniva dai due fratelli. Il
pugno si bloccò a mezz’aria, mentre Lance, con la mente in tilt, si voltava lentamente,
scorgendo di fianco a loro uno dei mostri.
L’Alpha
Nominus si lanciò addosso ai due con una corsa sfrenata, da lì in poi per Lance
era stato buio assoluto. Ricordava solo l’urlo di sua sorella Natalia, impresso
col fuoco nella sua mente. Per sempre.
***
La
notte calò silenziosa e amara. Si trovava ancora lì, davanti alla torre, in
attesa.
L’uomo
stringeva col forza la gamba dolorante, che bruciava così tanto da sembrare
pronta a staccarsi di netto.
A
un certo punto, stanco di quel dolore massacrante, aveva strappato il pantalone,
raggelando alla vista di ciò che gli stava realmente accadendo: la pelle era
nera, dura e gelida.
Buffo,
sorrideva amaramente ora, che proprio a lui, un cacciatore di Alpha Nominus,
fosse toccato questo destino crudele. Ma lo aveva capito nel momento in cui si
era svegliato in ospedale: non sapeva come e perché, ma lo aveva capito davvero.
L’importante era essere riuscito a star un altro po’ con Leef.
Ed
ora, con gli occhi spenti che contemplavano la grande torre, Lance ripercorreva
con la mente la sua vita, ponendosi nuovi interrogativi che sarebbero rimasti
senza risposta. Si augurava con tutto il cuore che Leef riuscisse a superare lo
shock di aver perso anche lui; ormai ne era sicuro, per chi come lui aveva
intrapreso quel processo di mutazione non v’era scampo.
Una
fitta allo stomaco lo costrinse a piegarsi in due, mentre sentiva in bocca il
sapore del sangue. Cadendo rovinosamente per terra, lottò contro un terribile
senso di stanchezza che lo aveva assalito.
Che
fine penosa… mentre cercava di trattenersi dall’urlare sperava di morire in
fretta, prima di trasformarsi. L’unica cosa che ancora desiderava era non
essere costretto in futuro, cedendo a istinti famelici, ad attaccare altri
esseri umani.
Non
voleva… sarebbe stato troppo…
Proprio
mentre chiudeva gli occhi, ora di un verde tendente al giallo, gli parve di
udire poco lontani versi divertiti. Riusciva a capire quello che dicevano. Non
erano più semplici versi striduli: erano parole. Dio, riusciva a comprendere la
loro lingua.
«Te
l’avevo detto che ci saremmo rivisti.»
***
Dopo
la fuga del Cacciatore Lance Langford dall’ospedale e la nuova, agghiacciante
scoperta sugli Alpha Nominus, la Nemesi era caduta preda del caos. Nessuno era
più al sicuro, nessuno poteva più salire in superficie senza provocare delirio
e panico. E, in fondo, non si poteva dar torto a nessuno.
La
gente aveva paura, la reazione più naturale del mondo.
Leef
non era più uscita di casa. Da due giorni compilava richieste su richieste, ma
nessuno voleva accordarle il permesso per uscire in superficie, e di certo non
poteva andare nel mondo di sopra senza le dovute armi, che solo attraverso la
Nemesi avrebbe ottenuto. Non riusciva a dormire, ogni volta che chiudeva gli
occhi rivedeva il volto di Lance, ora là fuori, probabilmente in procinto di
trasformarsi.
Abbandonata
alla disperazione e alla solitudine, si trascinava per casa in cerca di
qualcosa che potesse anche lontanamente somigliare a un’arma. Sperava con tutto
il cuore che Lance avesse con sé la piccola scheggia di cristallo di Berg che
era stata consegnata ad ogni membro della Nemesi; magari, visto che ormai tutta
quella faccenda rasentava il sovrannaturale, premerlo sulla pelle o chissà cosa
avrebbe rallentato la trasformazione.
Gli
occhi blu della donna capitarono su un pacchetto rosso messo in bella vista sul
tavolo: non aveva ancora avuto il coraggio di aprirlo, era ormai una specie di
reliquia nel suo immaginario. Il sorriso di Lance le ingombrò la mente e non fu
più in grado di reprimere urla e lacrime.
Era
incredibile, si ripeteva, che adesso pure l’unica persona rimastale le fosse
stata strappata dagli Alpha Nominus. Che cosa avrebbe fatto? Che cosa poteva fare?
Ore 21.36.
«Signorina
Leef! Apra la porta!»
La
voce di Jonathan costrinse Leef a riaprire gli occhi, scoprendo così di essersi
miseramente addormentata contro il muro; con la testa che le faceva male e la
nausea di chi mangia poco da tempo, osservò l’orologio, notando che aveva
passato ben sei ore in quello stato.
Barcollando
si rialzò, andando poi verso la porta dell’appartamento. Inciampò sul tappeto e
cadde a terra, ma spinta dal pensiero di dover aprire quella dannata porta si
rimise in piedi e finalmente la raggiunse.
«Jonathan…»
mormorò a pezzi, quando si trovò davanti il capo dei profughi.
«Signorina
Leef.» l’uomo appariva molto provato, quasi quanto lei. La perdita del loro
compagno doveva aver causato moltissimo dolore all’interno del gruppo dei
profughi.
Leef
inclinò in capo davanti alle occhiaie dell’uomo, il quale riprese a parlare,
ora con voce ora più ferma.
«Ahh…
questo è difficile. Da dove posso cominciare?»
«Dall’inizio.»
fu la gelida risposta dell’altra, mentre incrociava le braccia al petto «Vuoi
entrare?» domandò poi con voce non molto gentile, ma quale gentilezza si poteva
pretendere in un momento simile?
«No,
no…» rispose prontamente lui «Sono venuto a chiederti se vuoi venire con noi.»
Non
le sembrava proprio il caso di uscire, specialmente nelle condizioni in cui
era, perciò domandò «Dove?»
Ed
egli, sottovoce come se stesse confessando un segreto, mormorò «Sopra.»
Leef
sgranò gli occhi, per lo stupore sciolse senza rendersene conto le braccia e la
sua voce tradì tutta la sua incredulità «Avete i permessi?»
Sempre
con discrezione, e stavolta anche con un po’ d’imbarazzo, quello disse «No. Ma
abbiamo le armi. Non chiedere come le abbiamo recuperate.»
Americani.
Tipico di loro. Non avevano il permesso ma hanno le armi. E le armi erano
quello che serviva, al diavolo il permesso! Al diavolo la Nemesi, al diavolo
tutto ciò per cui aveva creduto di lottare fino a quel momento: ciò per cui
aveva lottato fino a quel momento in realtà era in superficie.
«Mi
unisco a voi.» fu la pronta risposta della scienziata, accompagnata da un
sorriso nervoso «Datemi mezz’ora per prepararmi.»
La
conversazione era stata molto breve, ma era riuscita a infondere nella donna
una nuova energia: si sentiva tremare, era così carica che avrebbe potuto
combattere anche a mani nude! Finalmente poteva andarsene da lì!
Concordò
con Jonathan il luogo dove incontrarsi mezz’ora dopo, una volta entrata in casa
si gettò a fare tutto ciò che non aveva fatto in due giorni: una doccia,
mangiare e rifocillarsi, preparare lo zaino con provviste, medicine, una torcia
e ogni cosa che le sarebbe potuta servire. Prese anche il regalo di Lance, e
dopo aver scoccato un ultimo sguardo alla sua piccola casa, nella quale era
sicura che non sarebbe più tornata, lo scartò con mani insicure e occhi timidi
come quelli di una bambina.
Quando
raggiunse il gruppo di Jonathan, aveva all’anulare sinistro un anello bianco.
Ore 22.48.
La
battaglia che in seguito si consumò venne ricordata per sempre. Mai si sarebbe
detto che quegli uomini sarebbero anche solo riusciti a uscire dalla Nemesi,
eppure così fu. La paura degli Alpha Nominus, mista alla paura delle armi
portate in mano dai rivoltosi – molto più numerosi di quanto si pensasse - e
alla consapevolezza che o per mano loro o per mano dei mostri sarebbero morti
comunque, convinse le guardie a lasciarli passare.
Era
piena notte quando il gruppo raggiunse terra. Avevano usato uno degli ascensori
che portavano direttamente al centro di Parigi, dove sapevano essere annidati i
mostri.
Leef
aveva pensato a lungo. Si era posta molte domande e alcune le aveva pure condivise
col resto del gruppo.
«Che
fine ha fatto il primo Alpha Nominus?» aveva chiesto a Jonathan.
La
fine del primo Alpha Nominus era sempre stata un mistero; nemmeno lei, che
aveva cominciato ad operare solo anni dopo quella storia seppure in sfere
relativamente alte, aveva accesso a dati ormai censurati da tempo.
L’uomo
aveva impiegato diversi secondi a rispondere, troppo occupato a guardarsi
intorno. Il gruppo camminava compatto: erano in molti e ognuno aveva una gran
scorta di cristallo di Berg sia sui vestiti che nelle armi.
Leef
aveva ricevuto una spada molto pesante, che le ricordava un po’ quella di Lance.
«È
stato trasferito. Ma non so dove…» rispose infine Jonathan, col suo marcato
accento americano e difficoltà nel trovare alcune parole «L’ho letto in un…
err, an article.»
«Un
articolo?» gli suggerì la donna, che gli camminava a fianco.
«Bingo!»
esclamò allora lui; non aveva problemi ad alzare la voce, il loro scopo era
farsi sentire e attirarli mentre si addentravano sempre più dentro Parigi, la
loro destinazione era la piazza della Torre Eiffel «La teoria più accreditata
era che fosse un… un coso, uhm… un nesso, ecco.»
Leef
si fermò, guardandolo accigliata «Un nesso?»
«Corretto.
Un nesso che li tiene in vita tutti. Ma sono solo leggende ormai.»
Un
nuovo barlume di speranza si accese in Leef, come una luce alla fine di un
tunnel buio e stretto: non si sarebbe stupita se, dopo l’allergia al cristallo
di Berg, anche quella diceria si fosse rivelata vera. Forse sarebbe stato
troppo facile, troppo vantaggioso… ma anche ingegnoso, se i fautori di questo
legame fossero stati proprio coloro che lo avevano creato. Un’assicurazione
sulla vita, insomma, la certezza di poterli eliminare tutti uccidendone uno.
Ricordava
bene la notte della creazione del primo Alpha Nominus, o meglio, ricordava le
registrazioni fatte e poi mostratele: era stato creato negli Stati Uniti, dove
aveva vissuto i suoi primi dieci anni di vita, per poi essere trasferito in
Germania; dagli ultimi rapporti effettuati prima che gli Alpha Nominus prendessero
il controllo, risultava che numero uno fosse fuggito dal suo laboratorio, e
l’ultima notizia su di lui affermava la sua presenza a Parigi, per combattere
la Nemesi, che lì aveva sede e quindi vi era una grande affluenza di umani.
Ma
un interrogativo restava… era ancora a Parigi?
Ore 23.51.
Quando
Leef vide gli Alpha Nominus venirle addosso in massa ebbe davvero paura.
Dapprima utilizzò una pistola – caricata a proiettili fatti di cristallo di
Berg -, riuscendo senza difficoltà a ucciderne molti in breve tempo. Il
risultato la lasciò semplicemente stupefatta, tanto da farle credere di essere
in un sogno.
«Siete
dannatamente deboli, ora!» esclamò con goliardia, soddisfatta davanti ai
cadaveri di quei mostri che le avevano rovinato la vita. La vendetta aveva un
sapore così dolce… eppure lasciava un retrogusto amaro in bocca.
Dopo
il primo scontro avevano scoperto di essere vicini alla zona più colma di
mostri dell’intera città, considerata un po’ il loro covo.
Attraversarono
con difficoltà la Avenue de La Motte-Picquet, la lunghissima strada
perpendicolare alla piazza della Torre Eiffel, che sapevano per esperienza
essere uno dei pochi luoghi non densamente popolati dai nemici. Nonostante ciò,
non fu un’impresa facile.
Leef
fu seriamente in pericolo quando, concentrandosi su un lato da cui due mostri
la stavano raggiungendo, non si accorse di un altro che l’aveva presa alle
spalle, colpendola con violenza alla schiena. La ragazza cadde sull’asfalto
polveroso e pieno di fosse come un peso morto, senza però perdersi d’animo,
quindi alzò la pistola, sparando al mostro dritto in faccia.
Si
ritrovò poi addosso gli altri e per un attimo rivide la scena durante la quale Lance
l’aveva salvata da tre Alpha Nominus a costo della sua stessa vita.
Fu
questo pensiero a spingerla ad estrarre la spada e tranciare di netto vari arti
dei mostri che le si erano buttati addosso, con la forza della disperazione.
Un
odio sconfinato aveva poi guidato la truppa, che fin ora aveva perso cinque
elementi, fino alla Anatole France, e poi alla Charles Risler e su, sempre più
su.
Fin
quando Leef si trovò innanzi alla torre.
Da
quanto tempo non la vedeva? Anni, da quando l’aveva visitata prima che i suoi
genitori venissero uccisi. Il quartiere era troppo denso di Alpha Nominus per
permettersi di avvicinarsi.
Era
stata bellissima un tempo, ma ora era uno spettacolo tanto macabro quanto
violento; evidentemente, infatti, i mostri l’avevano scambiata per una casa
comune, e si trovavano tutti lì, attorno ad essa, stipati come mobili in un
garage.
Quanti
erano? Più di una cinquantina, sicuramente. Pensare che quella era solo una
piccola parte di quelli che si erano sostituiti al genere umano fece rivoltare
lo stomaco di Leef.
Gli
umani si mossero. Cinquanta uomini contro una sessantina di Alpha Nominus: una
battaglia impari, che sembrava persa in partenza. Le urla dei mostri erano tanto
assordanti, Leef si convinse di una cosa: se mai fosse sopravvissuta, ipotesi
piuttosto remota, sarebbe rimasta sorda.
Non
c’era più paura nell’aria, solo rabbia repressa, talmente tanta che sembrava
essere l’unico sentimento rimasto al mondo, pronto ad assistere a quella che
poteva l’ultima guerra della storia.
«È
la resa dei conti, bastardi…» sussurrò Leef, e la sua flebile voce si perse nelle
profondità della notte buia.
Nonostante
il buio però la visibilità era ottima, infatti l’impianto luminoso della torre
funzionava ancora, garantendo un’illuminazione piuttosto decente alla piazza
che era il campo di battaglia.
Gli
umani erano stati portati lì dall’esasperazione. Sapevano che era una follia,
che probabilmente anche uccidendo tutti gli Alpha Nominus di Parigi il giorno
dopo ne sarebbero arrivati dei nuovi, ma tra colui che aspetta la morte o colui
che va incontro alla morte, chi è il più pazzo?
Forse
fu proprio il coraggio di questi ultimi a smuovere gli animi di quelli che
erano rimasti nella Nemesi, ed ecco perché, a battaglia già iniziata, mentre Leef
combatteva con tutta se stessa, sentì delle urla umane in lontananza.
Voltandosi
avvertì una stretta al cuore.
Una
nuova onda di umani era uscita dalla Nemesi, armata fino ai denti, pronti ad
unirsi alla battaglia. Adesso gli umani erano in netta maggioranza, tanto che
persino qualche Alpha Nominus se la diede a gambe.
I
bagliori dei cristalli di Berg illuminavano la notte, come un ultimo barlume di
speranza contro il nero dei corpi dei mostri.
Leef
si sentì felice: gli uomini rimasti sul pianeta Terra si erano unificati come
un’unica enorme forza distruttrice, assetata di vendetta e di nuova vita,
combattendo il nemico artificiale. Quella notte si faceva la storia.
Leef
attraversò a grandi falcate il campo di battaglia, il quale sembrava davvero
uno spettacolo di luci. L’azzurro dei cristalli di Berg si mescolava al buio e
al bianco dei fari, creando sfumature e giochi di colori senza senso, intrisi
di pazzia, che si concludevano irrimediabilmente con la morte di uno dei
combattenti. Ne cadevano tanti, così tanti da non poterli contare; corpi che si
mescolavano, sangue che sgorgava dalle ferite, cadaveri che si accasciavano e
rumore di armi che si infrangevano, questo era ciò che si scatenava intorno a
Leef.
Le
facevano male le gambe, aveva il fiato pesante e il cuore che batteva per
l’emozione; ma, in mezzo al tripudio di suoni indefiniti, trovò la forza di
elevarsi al di sopra di tutti e tutto, urlando l’inno di battaglia del genere
umano «Umani! Combattiamo per il nostro futuro!»
Nuove
grida, emozionate quanto le sue, l’accompagnarono nel caos generale. Leef sentì
di star davvero rasentando la pazzia, eppure aveva ancora una cosa da dire, che
però non poté far altro che mormorare: era più un augurio che una certezza,
mentre l’immagine di Lance diventava sempre più forte nei suoi pensieri «E che
Dio ci aiuti…»
Ore 05.59.
La
battaglia era stata a dir poco terribile e ancora non accennava a finire. La
notte stava abbandonando la scena, lasciando che il cielo si schiarisse pian
piano, con l’avanzare delle ore. Presto il sole sarebbe sorto.
Le
perdite erano state gravi da entrambe le parti: se da una schiera rimanevano
una ventina di Alpha Nominus, almeno un centinaio umani erano morti. Ognuno si
arrangiava come poteva, mostro o uomo.
Leef
era stancamente alla ricerca di Jonathan – ammesso che egli fosse ancora vivo.
Tra le file dei sopravvissuti si sentiva la stanchezza, molti faticavano addirittura
a reggersi in piedi, ma ormai erano vicinissimi alla vittoria ed era vitale distruggere
tutti gli Alpha Nominus prima che questi avessero il tempo di riprodursi. La
situazione era a dir poco disperata, ma ancora intrisa di quella folle speranza
che animava i combattenti.
«Jonathan!»
urlò Leef con quel po’ di fiato che le rimaneva in gola quando scorse l’uomo
«Resisti!»
Il
capo dei profughi se la stava cavando bene. La sua furia continuava a mietere
vittime a colpi di spada. Fece un cenno affermativo con il capo, senza però
voltarsi verso Leef, troppo concentrato sullo scontro.
La
ragazza si voltò invece per correre di nuovo verso la torre, stavolta senza
fermarsi; aveva intenzione di giungere sotto di essa per controllare la situazione.
Percorse lesta la piazza, evitando i corpi e stando attenta a non scivolare sul
sangue, ignorando il ribrezzo che provava ogni volta che le si prospettava
davanti un arto staccato o un cadavere umano. Non era il momento di fare gli
schizzinosi. Ormai gli Alpha Nominus non provavano più ad attaccarla, avevano
capito di essere spacciati e molti di loro tentavano di allontanarsi, dunque
non ebbe problemi a passare in mezzo a loro mentre ne affettava qualcuno con la
spada ormai irrimediabilmente danneggiata.
Era
irriconoscibile. Completamente sporca di sangue, coi vestiti strappati e gli
occhi spiritati, rossa in viso per gli sforzi che stava compiendo.
Raggiunse
la torre col cuore che galoppava, fermandosi giusto un attimo per riprendere
fiato. Stranamente non v’era nessuno, né umano né mostro. Leef si guardava
intorno sospettando che fosse un agguato. Ma non lo era affatto, anzi il nemico
venne alla luce da solo.
Un
suono terribile si espanse nell’aria, mentre tre metri di Alpha Nominus
leggermente diverso dagli altri avanzava verso la ragazza.
Era
completamente nero come tutti gli altri, a parte per gli occhi gialli, ma a
differenza degli altri Alpha Nominus aveva delle lame sulle braccia e
grandissime ali di almeno tre metri spalancate in orizzontale. Emetteva un
suono orribile, come un ringhio.
Leef
sentì le ginocchia minacciare di cedere.
Il
Nesso. Non poteva essere nient’altro. Quello era davvero il Nesso. Era a Parigi
ed era lì, davanti a lei: l’occasione di mettere fine a quell’inferno era a
portata di mano.
Il
mondo a quel punto sparì: c’erano solo lei e il Nesso.
«Vostra
altezza…» sorrise, percorsa da un’adrenalina incontrastabile comandarle di non
perdere altro tempo. Prima dell’alba il re sarebbe caduto giù dal trono «Pronto
ad abdicare?»
Alzò
la spada, pronta ad affondarla, quindi si lanciò contro il mostro.
Nonostante
sembrasse goffo, il Nesso era furbo e soprattutto forte. Parò senza problemi il
colpo di Leef, incrociando le sue lame con quella della spada, e i loro occhi
potettero specchiarsi gli uni negli altri per un attimo.
La
scienziata non era mai stata tanto vicina a uno di loro senza poterlo uccidere.
Capendo
che non aveva speranze contro un mostro con quella forza, si tirò indietro con
disappunto. Il cristallo di Berg non lo aveva scalfito più di tanto.
«Quindi
sei forte, bastardo.»
Pensò
di puntare sulla velocità, quindi estrasse la pistola, ma non riuscì a sparare
nemmeno un colpo che dovette scansarsi per non essere colpita dal contrattacco
del mostro, che aveva fatto un santo in avanti per afferrarla. Rivelando una
velocità che lei non gli avrebbe mai attribuito a causa della stazza, la seguì poi
agitando le braccia, cercando di colpirla con fendenti che più di una volta la
presero, ferendola.
Leef
venne colpita alla testa, procurandosi l’ennesimo taglio. Finita a terra, notò
con orrore che la ferita sanguinava abbastanza copiosamente; ben presto si
ritrovò l’occhio destro coperto da un velo rosso e fu costretta a fermarsi un
attimo per pulirselo, altrimenti sarebbe rimasta per metà cieca. Grave errore.
Il
Nesso la raggiunse in fretta, nonostante ella si fosse trascinata più lontano
che poteva, inchiodandola al pavimento con un’ala appuntita, che passò da parte
a parte la gamba sinistra della giovane. Ella lanciò un urlo, sentendo il
sangue salirle lungo la gola e i muscoli della parte inferiore del corpo
abbandonarla. Alzò con la forza della disperazione la pistola e sparò uno, due,
tre colpi contro il mostro. Solo al quarto però riuscì a provocare una sua
reazione, forse perché i primi tre non l’avevano neanche colpito. Leef non lo
sapeva, non riusciva più a vedere niente e la testa le faceva troppo male per
ragionare.
Il
mostro urlò con tutta la voce che aveva, alzando lo sguardo. Leef sentì sotto
la camicia, tra un battito e l’altro del cuore, la collana che le aveva
regalato Lance muoversi piano, scivolando sulla pelle bagnata di sudore fino a
poggiarsi a terra, senza però slacciarsi.
L’Alpha
Nominus continuò a urlare, alzò un braccio per finire la sua avversaria e lo abbatté
con violenza contro il suo viso.
In
quel momento Leef sorrise. Il mondo divenne nebbia attorno a lei e finalmente
sentì un calore ristoratore che da anni non provava, lo stesso di quando sua
madre la stringeva. Sentiva la sua voce chiamarla e il papà esclamare di
scendere a fare colazione, altrimenti avrebbe fatto tardi a scuola. Rivide la
sua piccola mano stretta a quella del padre, rivide il sorriso degli amici,
rivide se stessa concentrata sui cartoni animati in tv, ignorando i compiti che
il giorno dopo avrebbe dovuto portare. Sentì il buon odore dei dolci che la
mamma amava cucinare, rivide la sua cameretta disordinata e piena di peluche.
Riprese in mano Ann, la sua bambola preferita. Sentì la voce di Lance chiamarla
e scrutò ancora una volta il suo viso pensieroso, rimproverandogli di avere
sempre la testa tra le nuvole.
Lasciò
cadere le sue fide pistole per terra. Sapeva che ormai non le servivano più. Il
mondo nuovo era giunto.
“Il
mondo che abbiamo costruito con le nostre mani… È tutto nostro… E sarà
bellissimo…”
Ore 6.30.
Un
sibilo rabbioso si propagava ai piedi della Torre Eiffel. Eppure quell’Alpha
Nominus non stava ringhiando, stava facendo qualcosa di strano, anomalo per uno
della sua razza.
Scansò
con un violento calcio il corpo senza più vita del Nesso, usando una tale
violenza da spaccargli il cranio. Una rabbia immensa accomunava gli umani e gli
Alpha Nominus alla stessa maniero. Ma la rabbia di quello in particolare li
batteva tutti.
Tremava
violentemente mentre osservava il nuovo mondo con occhi color dello smeraldo,
tenendo tra le braccia un piccolo corpo, minuscolo rispetto al suo: una giovane
donna ormai morta da molti minuti, che non aveva potuto assistere all’ultimo
duello. Il duello tra il capo dei mostri e il mostro in cui si era trasformato
l’uomo che l’aveva amata con tutto se stesso, e che alla fine non era riuscito
a proteggerla.
Uno
dopo l’altro, tutti i Nominus si stavano accasciando a terra, spirando. Ormai
pochi oltre lui rimanevano in piedi.
Chiamarlo
Alpha Nominus sembrerebbe riduttivo, quindi potremmo definirlo un’ultima volta
col suo vero nome.
Il
sole sorgeva, annunciando una nuova era, l’era in cui gli uomini si erano
conquistati con l’unione e l’aiuto reciproco il loro diritto a esistere. Alle
spalle della Torre Eiffel, l’astro illuminava di nuova vita i sopravvissuti
umani, concedendo loro una nuova possibilità. L’ultimo Alpha Nominus che si
trovava in piazza morì. Senza il loro re non resistevano a lungo.
Lance
Langford camminò con le sue nuove scheletriche gambe nere, tenendo in braccio
il corpo dell’amata Leef.
La
luce lo illuminava da dietro, oscurando la sua figura, rendendolo simile a una
divinità. Né uomo né Alpha Nominus, i suoi occhi smeraldini lo attestavano. Lanciò
un urlo, un urlo intriso di dolore, a metà tra quello umano e quello mostruoso
che caratterizzava gli esseri che fin ora aveva sempre combattuto. Lacrime
amare rigarono gli viso nero come la pece, mentre il pendaglio di Leef brillava
in controluce. Gli umani rimasero a fissarlo sgomenti, incapaci di comprendere
la scena che avevano davanti.
Ma
il Nesso era morto. Dunque infine anche Lancelot Langford, l’ultimo Alpha
Nominus della storia, cadde a terra stringendo ancora al petto l’amata donna.
Ce
l’avevano fatta. Il nuovo mondo era stato creato, e ora… potevano godersi il
meritato risposo insieme. Dio li aveva aiutati.
Comunicato
stampa del 17 dicembre 2070.
“Ai
superstiti della guerra contro gli Alpha Nominus.
Amici,
compagni di lotta e di vita, ovunque e chiunque voi siate in questo momento, è
con immensa gioia che annuncio la vittoria dell’umanità.
Amici
umani, guardatevi intorno: il mondo non è più nostro nemico. Tuttavia vi
pregherei di non considerarlo vostro, perciò vi invito alla riflessione.
Il
genere umano si è sempre distinto per la sua intelligenza e per la capacità di evolversi,
una genialità che ci è stata fatale.
Si
sa: gli uomini sono imperfetti, e peccano di superbia. Vi invito ad affrontare
la realtà, perché la guerra che ha distrutto il mondo e spezzato miliardi di
vite non finisca nel dimenticatoio degli orrori dell’umanità ricordati solo sui
libri di storia.
Questa
è la nostra punizione per aver giocato a fare dio.
Nella
guerra, in questa guerra che spero sia l’ultima che il nostro mondo debba
conoscere, ho avuto l’onore di incontrare una persona, una donna, la quale non
si è mai arresa fino alla fine. Ella è morta durante lo scontro, combattendo
contro il primo Alpha Nominus, il Nesso.
Voglio
che l’intero mondo, o quel che ne è rimasto, conosca il suo nome e quello della
persona senza la quale ella non avrebbe mai trovato la forza di andare avanti: Leef
Leroy e Lance Langford, coloro che riportarono alla luce il cristallo di Berg.
Vi
chiedo di non dimenticarli.
Ma
ora, amici miei, è il nostro momento, il momento di lasciarci alle spalle il
passato e guardare con rinnovata speranza al futuro.
Un
mondo nuovo ci aspetta, lo costruiremo tutti insieme. Il mondo nuovo inizia con
noi.