Lost Light 2.0

di Willow Gawain
(/viewuser.php?uid=25013)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Alpha Nominus ***
Capitolo 2: *** Obsidium ***
Capitolo 3: *** Delirium ***
Capitolo 4: *** Raptus ***
Capitolo 5: *** Dei Verbum ***



Capitolo 1
*** Alpha Nominus ***


Twilight

Lost Light 2.0

1 - Alpha Nominus

 

 

Parigi, 15 gennaio 2042 - 21.55

L’orario delle visite era finito da un pezzo.

Nella piccola bianca stanza d’ospedale, sdraiata sul letto e ancora dolorante a causa del recente parto, una donna osservava la sua bambina nata da poche ore, inerme tra le lenzuola della culla termica.

«Come somigli a tuo padre…» sorrise, in direzione della piccola figura che teneva gli occhi serrati, addormentata «Leef.»

La madre combatté con i spasimi della ferita del cesario per allungarsi e regalare alla bimba un bacio sulla fronte. Una fitta particolarmente dolorosa la costrinse a sdraiarsi di nuovo.

Quando finalmente si sentì meglio si concesse un lungo sospiro, poi torno a guardare la bimba: una piccolissima creatura, completamente indifesa e innocente. Più la guardava più le sembrava la cosa più bella di sempre.

Sorrise, in fondo le dodici ore di travaglio erano valse eccome.

Alzò lo sguardo all’orologio appeso sopra la porta; erano le dieci. Solo allora si ricordò: quel pomeriggio degli scienziati americani avevano portato a termine il primo esperimento di clonazione di un essere umano. Ci erano voluti dieci anni di dibattiti, polemiche, cause legali e quanto altro può essere scatenato da una cosa così antietica prima che infine si giungesse al fatidico giorno.

Prese con mani traballanti il telecomando impolverato, che suo marito aveva lasciato sul comodino di fianco al letto poco prima di uscire. Gli effetti del parto si facevano sentire, infatti impiegò diverso tempo per riuscire a premere il tasto REP, che permetteva di rivedere in qualsiasi momento qualsiasi trasmissione degli ultimi mesi.  

La donna sospirò annoiata: la tecnologia se ne usciva con una nuova trovata di giorno in giorno. La trovata di quel giorno era la clonazione.

Selezionò il telegiornale serale. La voce dello speaker risuonò per la stanza.

“Dopo dieci anni di interminabili proteste e posticipazioni, il primo esperimento di clonazione umana, tenutosi oggi nei laboratori di Sunville, nello Stato di Washington, è risultato un successo. Il primo tentativo di clonazione umana ha dato i suoi frutti. A capo delle operazioni è stato Severin Braun, noto scienziato tedesco che da anni lavora al progetto. La prova non ha dato del tutto i risultati sperati, ma non sono state rilasciate ulteriori informazioni.

Il nome conferito al soggetto è Alpha Nominus. Appena avremo aggiornamenti ve li comunicheremo. Ed ora passiamo alle proteste sulla nuova legge varata…

*Click*

E di nuovo un sospiro, stavolta leggermente irritato. La donna posò il telecomando sul comodino, precisamente dove lo aveva trovato, poi cercò con lo sguardo la neonata, temendo per un secondo di non trovarla più nella sua culla.

La bambina invece stava dormendo beatamente, inconsapevole del mondo che si scatenava fuori.

«Leef… spero che la realtà che tu vivrai sarà migliore di quella che ho vissuto io.» la donna non era mai stata una gran chiacchierona, ma le veniva così naturale continuare a parlare alla bimba dal nome strano; incapace di separarsi da lei per troppo tempo, la prese tra le braccia con delicatezza e la appoggiò al proprio petto, sistemandole il berrettino che le copriva la testa «Imparerai  che niente è impossibile e tutto è difficile. Ma sono sicura che tu ce la farai.»

Mentre la madre pronunciava quelle parole, in un altro continente il primo agente dell’apocalisse apriva i suoi bellissimi occhi gialli.

 

 

***

 

Parigi, 19 novembre 2048 - 20.30

Leef posò la bambola sul letto.

Era la sua preferita: piccola, dai capelli neri, con due grandi occhi azzurri ed un bellissimo vestito da principessa. Si chiamava Ann.

Molte volte la bambina si era immaginata al suo posto: l’amata principessa del regno delle fate; il suo sogno segreto era poter vivere in un castello e avere tante persone intorno che la servissero: ma lei non le avrebbe mai trattate male, no, no! Voleva renderle tutte felici!

Voleva che nel mondo tutti fossero felici.

La bambina alzò finalmente la testa dai suoi giocattoli ed aprì bene le orecchie, notando che finalmente i genitori avevano smesso di litigare. Avevano urlato per tutto il pomeriggio, tanto che si era rifugiata sotto il letto a piagnucolare e farsi consolare dai peluche.

Parlavano di cose strane, per lei incomprensibili: l’argomento principale era la fuga, voluta dalla mamma; in effetti quasi tutti avevano lasciato le loro case ormai, Leef aveva perso tutte le sue amichette e smesso di andare a scuola.

Ma nella sua ingenuità di bambina di sei anni non riusciva proprio a capire perché tutti erano così spaventati: stava arrivando un brutto temporale, come quello di Pasqua?

Però le sembrava così strano… erano andati via tutti di corsa, lasciando le case aperte e le automobili in strada, messe tutte storte contro il marciapiede. Non era una reazione un po’ esagerata per un temporale?

In quel momento la porta della cameretta si aprì con un cigolio di cardini e la madre di Leef entrò a grandi falcate: aveva gli occhi rossi e gonfi.

La bambina ebbe solo il tempo di chiedere se andava tutto bene, prima che la donna la superasse «Andiamo via, Leef. Prendi quel che vuoi portare, niente giocattoli troppo grandi.»

«Cosa?!» esclamò Leef, guardandola mentre spalancava l’anta dell’armadio, per poi uscirne una valigia che posò sul letto.

Stava davvero facendo i bagagli!

«Fai come ti ho detto, Leef.» ripeté la donna, con tono stavolta più duro.

Capendo che la situazione non era delle migliori, la piccola decise di ubbidire e si apprestò a quella che per lei era la scelta più difficile di sempre: quali bambole portare? Senza dubbio Nathan, che era il principe di Ann. E poi…? 

«Leef.»

Leef alzò gli occhi alla madre, vedendo per un attimo se stessa adulta, solo coi capelli un po’ più chiari. Aveva in mano Ann, sulla cui schiena c’era una cerniera in cui Leef nascondeva ogni tanto pezzi di carta o cioccolatini, fingendo che fossero grandi tesori. Stavolta però non vi fu nascosto nessun dolce, ma una gemma.

Un piccolo cristallo bluastro dalle mille venature cremisi, dall’aspetto così mistico che Leef immaginò si trattasse di qualcosa di oltremodo prezioso.

Quando fu sicura che la figlia avesse impresso nella memoria quell’immagine, la donna richiuse la lampo della bambola e si chinò, spostò il letto e poi il tappeto, e sotto questo Leef notò per la prima volta un piccolo buco in una delle assi di legno. La madre si sfilò dal collo una catenella con una chiave, che infilò dentro il foro: un click quasi silenzioso e l’asse fu rimossa.

Ann sparì nel buio del nascondiglio segreto, che fu perfettamente riportato allo stato di prima. Mentre metteva la collana al collo della figlia, la donna disse «Non dimenticare questo posto e questa bambola, hai capito? Quando sarà il momento giusto, torna qui e prendi quella gemma. Adesso non possiamo portarla con noi, ma tu non devi dimenticare, chiaro?»

La piccola annuì, in realtà non le era per niente chiaro il senso degli avvenimenti di quella sera, ma il suo intuito fu abbastanza pronto a suggerirle che forse non potevano portare con loro adesso quel cristallo perché era troppo pericoloso.

Pochi minuti dopo erano già in macchina, pronti per partire. La grande jeep di papà sembrava molto più buia del solito agli occhi di Leef, che a malincuore aveva rinunciato non solo a capirci qualcosa, ma anche alla sua bambola preferita.

«Non possiamo proprio passare da mia madre?»

Il papà sembrò a disagio quando rispose «Claire… nell’ultimo notiziario hanno detto che quella zona è…»

«D’accordo, ho capito. Andiamo. Dobbiamo mettere al sicuro Leef.» tagliò corto la madre, quindi allacciò la propria cintura.

«Mamma, voglio andare dalla nonna!» s’innervosì la bambina, che cominciava a sentire un groppo alla gola «Ha detto che questo sabato mi avrebbe preparato la torta alle fragole!»

La mamma girò la testa verso di lei, cercando di sorriderle in maniera rassicurante «Ci andremo domenica. Adesso allaccia la cintura e non fare i capricci, signorina.»

L’auto partì e Leef, come ogni volta, si mise in ginocchio sul sedile dopo aver combattuto una estenuante lotta con la cintura, voltandosi a guardare fuori dal lunotto.

Era così tetro… la loro via di solito era piena di bambini che giocavano in strada con le biciclette e a palla, mentre le madri si riunivano nel giardino della loro vicina.

Invece ora non c’era nessuno, le macchine giacevano abbandonate disordinatamente, alcune case avevano porte e finestre  aperte. Sembrava tutto desolato…

«Mamma… non torneremo mai più qui, vero?» chiese la bambina, colta da un’improvvisa consapevolezza.

Dal sedile anteriore, la madre della bambina riuscì a parlare solo dopo un lungo silenzio «No, tesoro…»

Leef alzò lo sguardo per osservare un’ultima volta casa sua, mentre questa spariva in fondo alla via, tra altre abitazioni. Sentì gli occhi pizzicarle, ma prima di avere il tempo di mettersi a piangere, qualcosa fermò per un attimo il suo cuore.

Un’ombra nera attraversò la strada, rapida come un lampo, avvicinandosi finché gli occhi celesti della bambina non incontrarono due cavità gialle affamate. Leef urlò e si gettò indietro.

Sentì sua madre urlare «Marc, frena!» e la macchina sbandò in maniera violenta.

Poi solo fu un botto, un urlo non umano, puzza di sangue, un dolore fortissimo alla testa.

 

 

***

 

Parigi, 10 dicembre 2070 - 22.02

La porta si aprì con il solito, nostalgico fischio di cardini vecchi. Al di là di essa, si rivelò davanti ai suoi occhi un mondo così lontano nel tempo che credeva d’averlo sognato, non vissuto.

Era tutto uguale a come era stato lasciato: i giocattoli al loro posto, il letto perfettamente in ordine, senza neanche una piega sul piumone azzurro, i peluche, i libri, le penne, persino il disegno sulla scrivania che aveva fatto poco prima di fuggire.

Era tutto uguale, solo molto impolverato.

Fatto il suo ingresso, la ragazza si mostrò alla tenue luce biancastra che filtrava dalle persiane semichiuse.

I lunghi capelli neri le scivolavano sulle spalle, la pelle chiarissima - quasi spettrale, come di qualcuno che vive sotto terra e che non vede mai il sole – era coperta da un’uniforme nera che si confondeva facilmente col buio; si mosse lenta nella stanza, reprimendo l’istinto di piangere.

Quanto le era mancata la sua cameretta.

«Sono a casa…» mormorò, concedendosi un sorriso.

Si soffermò su ogni particolare, fissando tutto tra l’ammaliato e il confuso. Come poteva essere tutto così perfetto? Possibile che niente fosse entrato in quei vent’anni? O forse loro non avevano sentito l’odore di esseri umani e quindi si erano fermati?

Qualunque fosse la ragione, era felice in quel quadro famigliare.

Si avvicinò al letto, lo stesso letto che l’aveva riscaldata in lunghe notti d’inverno; vi posò una mano sopra, lasciandosi attraversare da un turbine di emozioni.

Ricordava che si trovava lì, sotto l’asse segreta. Seguendo i gesti di sua madre, che aveva stampato a fuoco nella memoria, ripeté meticolosamente il procedimento: il letto, poi il tappeto, poi la chiave – la portava appesa alla collana -, infine lo scompartimento segreto.

E infine sorrise: eccola, Ann. La prese con delicatezza tra le mani: come le era mancata, la principessa di un regno lontano…

Il rumore di passi risuonò nel corridoio, mentre la ragazza si asciugava velocemente una lacrima ribelle. Voltandosi, incontrò un paio di occhi verde acceso.

Un uomo avanzò nel buio con passo fermo, seguendo con espressione preoccupata i movimenti di lei; nonostante il viso gentile e lo sbarazzino ciuffo bruno che gli dava qualche anno in meno, la spada che gli pendeva da un lato della cintura e la magnum calibro 45 che pendeva dall’alto gli davano un aspetto abbastanza minaccioso.

Una volta che le fu davanti, le mise una mano sulla spalla «Leef, tutto bene?»

Lei annuì subito «Sì.» poi, abbozzando un sorriso, sollevò la bambola «Questa è Ann. Salutala.»

«… Eh?» fece lui, curioso, stando allo scherzo «Vuoi dirmi che la grande missione supersegreta era recuperare una bambola?»

«Esattamente. Osserva bene, Lance, questo non è uno spettacolo che capita tutti i giorni…» lei girò la bambola di pezza, mostrandone la cerniera sulla schiena. Con un unico movimento secco la tirò giù, ed una luce azzurra irradiò la stanza: la gemma preziosa era ancora lì, non sarebbe potuta essere altrove «Ti presento il nostro nuovo amico, che salverà l’umanità dall’estinzione. Il suo nome è cristallo di Berg

In quell’esatto momento, Leef e Lance si concessero il peccato più grande che un essere umano del loro tempo poteva fare: sperare.

«Improvvisamente sento di aver fatto bene a urlare addosso a Mason per accompagnarti.» disse infine lui, ponendo una mano su quella della compagna «Sei stata eccezionale, Leef. Alla faccia di quelli che davano questa missione per disperata. Ma ora è meglio andare.»

«Sì, andiamo a sbattere il nostro successo in faccia a Mason.» annuì lei; oh come si sentiva fiera di sé.

Si premurò di richiudere in fretta il giocattolo e riporlo nella borsa a tracolla dell’uomo. Mentre si preparava a far di nuovo strada, però, il rumore di una porta sfondata fece sobbalzare entrambi.

«Merda! Perché devono essere così ostinati?» imprecò a denti stretti Leef, cercando aiuto nello sguardo di Lance «Io sono solo una scienziata, sei tu il cacciatore!»

«Appunto per questo dovresti usare il cervello per farti venire qualche idea, io so usare solo i muscoli!» no, Lance sapeva difendersi bene all’occasione.

La mise subito dietro di sé, restando in silenzio. Passi leggeri risuonavano per il corridoio, nel silenzio del mondo. Si avvicinava, ma era uno solo. Gestibile.

«Nascondiamoci.» fu l’ordine.

Leef si sentì imbarazzata dalla prevedibile scelta del nascondiglio: sotto il letto. Forse, in quanto scienziata, avrebbe davvero dovuto sfornare qualche idea apocalittica e geniale.

Si acquattò contro il muro per far spazio a Lance, ma con sua sorpresa il cacciatore non la seguì, anzi si appiattì tra la porta e il muro, coperto dalla libreria; l’ultima cosa che vide, prima che il bruno sparisse nel buio, fu la sua pistola venir estratta dalla fondina.

Anche Leef corse istintivamente con la mano all’arma che aveva tenuto fino a quel momento sulle spalle: un fucile.

Serrò gli occhi: la paura le scorreva nelle vene, più veloce anche del sangue. Non era proprio fatta per il campo di battaglia, lei, anche se ci finiva sempre in mezzo. Si disse che doveva essere forte: per se stessa, per Lance, per tutta la gente della Nemesi e per l’umanità intera. Doveva portare il cristallo di Berg ai laboratori.

L’ennesimo scricchiolio di cardini la fece raggelare; strinse la presa sulla canna del fucile, abbassando la testa per sbirciare.

L’ospite entrò con passo felpato, silenzioso. Non era umano, nessun uomo sano di mente avrebbe provato a definirlo tale.

Due steli lunghi e neri, duri come il diamante, formavano le gambe; un corpo nudo, completamente fatto da ossa e organi esposti e pulsanti, lunghi artigli al posto delle dita. Un invenzione dell’uomo fatta a sua immagine, come l’uomo stesso era fatto a immagine di dio. Ma l’uomo non era infallibile, e la sua tracotanza lo aveva portato a creare un mostro.

Il suo verso si espanse e rimbombò nella stanza: un sibilo rabbioso, fastidioso alle orecchie umane. Egli era una delle creature perfette, la nuova razza dominante: gli Alpha Nominus.

Leef strinse i denti fino a farsi male, trattenendo la paura che le scivolava addosso come sudore freddo.

La porta si richiuse di botto addosso alla creatura, spinta da Lance, che infine uscì allo scoperto per fracassare di proiettili il nemico.

Quest’ultimo rilasciò un urlo abominevole, accasciandosi mentre una delle braccia si staccava dal resto del corpo, decomponendosi velocemente.

Non lasciandosi suggestionare, Lance abbatté ogni munizione sul mostro, finché non gli fece saltare tutti gli arti e infine la testa stessa, sulla quale si potevano distinguere solo gli occhi di un giallo intenso, freddi e immobili ma vivi.

L’Alpha Nominus si accasciò a terra, lamentandosi per il dolore.

A quel punto, fattasi forza, Leef uscì lesta dal suo nascondiglio ed afferrò per un braccio Lance, per poi trascinarlo verso il balcone.

«Di qua!» urlò, indicando il piano di sotto. Erano al primo piano, un salto di circa quattro metri.

«Ci sono altri metodi per farmi dimostrare quanto sono atletico!» l’uomo atletico non si fece aspettare; salì sulla ringhiera e si buttò giù, cercando di mantenere una posizione adatta per cadere in piedi… così non fu, e si schiantò a terra in una maniera così poco atletica che Leef si chiese se fosse morto. Quando lo vide rialzarsi, massaggiandosi le braccia, tirò un sospiro di sollievo.

«Spero tu sappia almeno prendermi al volo…» lo rimbeccò, sarcastica. Uno scambio di occhiatacce.

Non perse ulteriore tempo, non sentendo alcun suono dalla stanza. Probabilmente l’Alpha Nominus si stava già rigenerando.

Con un salto mediocre, la giovane scienziata si buttò giù; il vento freddo le sfregava il volto e, stretta contro il petto, sentiva l’energia irradiata dal cristallo dentro la bambola.

Nel giro di pochi secondi, le braccia forti di Lance l’accolsero.

Quando riaprì gli occhi, trovò il suo volto sorridente e spavaldo «Ammettilo, pensavi che ti avrei fatta cadere.» scherzò lui, quindi riprese a correre, con la ragazza ancora tra le braccia.

Ma Leef non era affatto una persona in grado di scherzare, dunque replicò acidamente «Sarebbe stata la fine dell’ingloriosa carriera del grande cacciatore di teste Lancelot Langford

In breve raggiunsero la moto con cui erano venuti, con la quale si diedero a una fuga spericolata per le vie di Parigi.

Proprio mentre sparivano oltre un incrocio, dalla finestra della casa un immondo essere nero uscì alla luce della luna, sfoggiando le sue nuovissime braccia, una sola, acuminata gamba e un orrendo viso nero su cui due occhi freddi e gialli seguivano i due fuggitivi.

Se ne sarebbe ricordato, di quei due.

 

 

 

Note dell’autrice:

Ciao a tutti e buone feste! Come si dice, anno nuovo vita nuova, per cui ho deciso di terminare finalmente la revisione di questa storia e pubblicarla. Lasciate che vi racconti un po’ di più su Lost Light

Fu pubblicata nel 2008, scritta semplicemente per ingannare il tempo tra un capitolo e l’altro della long che avevo in corso all’epoca. A distanza di anni una mia collega mi ha annunciato tutta contenta di averla letta e trovata carina, al che mi sono sentita crollare il mondo sotto i piedi, al ricordo di come scrivevo male nel 2008.

Dunque ho deciso di farne una revisione… che è durata mesi e mesi. Ho cambiato il titolo (da qui il 2.0), i nomi dei personaggi, gli eventi e riscritto alcuni capitoli che, a mio parere (sebbene io ammetta di essere autocritica a livelli distruttivi), erano assolutamente illeggibili. Il risultato è… accettabile. Adesso per lo meno è leggibile, lol.

Vi dico subito di non aspettarvi una storia di eccezionale qualità, ma qualcosa di carino con cui passare un po’ di tempo. Se volete una lettura impegnata scritta da me, vi rimando alla mia ultima long, Twisted Mind.

Lost Light 2.0 conta 5 capitoli, tutti già rivisti e pronti per essere pubblicati. Ne pubblicherò uno ogni due settimane, il mercoledì. Dunque tranquilli, non correte il rischio di vedere la storia lasciata incompiuta.

Spero che qualcuno abbia voglia di dare una chance a questo racconto: non sarà dei migliori che ho scritto, ma sicuramente ci sono affezionata ^_^

Dato che siamo nella sezione romantico… non so se qualcuno si ricorda ancora di me, ma sì, sono quella brutta persona che scrisse What colour is the snow? ormai tre anni orsono. Avete notato il richiamo a Ann e Nathan in questo capitolo?

Qualcuno ancora mi chiede del sequel, in realtà prequel, di Snow. Se state leggendo queste righe, date un’occhiata alla mia bio sulla pagina autore, dove ne parlo approfonditamente.

 

Buon Natale e buon anno nuovo a tuttiiiii!

Sely.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Obsidium ***


Twilight

Lost Light 2.0

2 - Obsidium

 

Buio e freddo.

Si sentiva spossata e priva di forze; più si sforzava di riprendere controllo del suo corpo, più la testa le doleva, imponendole di restare ferma, immobilizzata. Naturalmente, ciò le faceva paura.

L’ultimo ricordo che aveva era la mamma che urlava e il papà che frenava, poi un botto l’aveva sbalzata fuori dalla macchina, successivamente un lancinante dolore alla testa le aveva fatto credere di star per morire.

Ora sentiva due persone parlare, due uomini per la precisione, ma non riusciva a intervenire nella conversazione. Ripetevano che dei certi Alfa-qualcosa avevano attaccato lei e la sua famiglia e che sua madre e suo padre era stati “assorbiti” – o qualcosa del genere -, mentre lei era stata salvata in tempo da dei militari che seguivano gli Alfa-qualcosa.

Tutto ciò era oltremodo irritante e inquietante; Leef si sforzò d’aprire gli occhi, nonostante la fitta lancinante che la colse immediatamente, poi si guardò intorno: il mondo non aveva contorni ed era sfocato come le foto che avevano scattato al suo ultimo compleanno. Faceva tutto così male… tanto male…

«Mhm…» si lamentò, portando le mani alle tempie; avvertì qualcosa di duro e ruvido sotto le dita, probabilmente una fasciatura.

«È sveglia.» una voce femminile avvertì del suo risveglio con un tono apprensivo, poi Leef poté sentire due braccia esili e calde sorreggerla, mentre lei focalizzava pian piano quel che la circondava.

Era in una stanza piccola, con pochi mobili e tanti strani attrezzi tipici degli ospedali. Faceva freddo. Ancora più freddo.

Solo tre persone erano presenti, tutte con lo sguardo puntato su di lei: un giovane uomo in giacca e cravatta, un vecchio medico dal camice era sporco di sangue, e infine una donna, anch’ella giovane, con lunghi capelli biondi raccolti in una coda di cavallo e gli occhi verde rame coperti da un paio di occhiali bianchi. Era proprio quest’ultima a stringerla tra le braccia.

«Chi sei?» chiese piano la bambina non appena si fu ripresa «E dove sono?»

«Stai tranquilla, cara.» sorrise la donna «Ora sei al sicuro, nessuno ti farà male.»

Col cuore che le batteva forte, Leef si zittì e annuì: stare in mezzo a persone adulte la tranquillizzava.

«Io mi chiamo Adèle. E tu?» chiese la dottoressa ad un tratto.

«Leef…» ma quella non era l’informazione che le interessava in quel momento, così si voltò verso il medico e domandò, con un crescente timore «Signore… dove sono mamma e papà?»

 

 

***

 

«Mhm…» un flebile lamento risuonò per la camera, mentre, accompagnati dall’ormai abituale mal di testa, due grandi e stanchi occhi blu si aprivano, guardandosi intorno.

Era già mattina? O meglio, era già ora di mettersi al lavoro?

Con un sonoro brontolio, Leef scostò le coperte nere, mettendosi seduta sul letto. Si sentiva a pezzi dopo tutta l’azione del giorno prima.

Un’altra giornata di duro lavoro cominciava e lei già non vedeva l’ora che giungesse l’ora delle ombre, quella in cui la grande lanterna posta al centro della città si spegneva e si andava a dormire.

Del resto ormai, in quei tempi così bui neanche la più fulgida delle lanterne avrebbe mai illuminato di speranza l’umanità, anzi quelle poche migliaia di persone che rimanevano.

La donna si mise in piedi, stiracchiandosi pigramente; la lunga camicia da notte nera quasi strisciava per terra mentre ella si incamminava verso il bagno. Da circa tre mesi si riprometteva ad ogni bucato che l’avrebbe accorciata, adeguandola al suo metro e sessantacinque.

Leef ricordava che da bambina aveva la bella abitudine di alzarsi presto ogni mattina, affacciarsi alla finestra della sua cameretta e urlare “Buongiorno, mondo!” - in cambio otteneva comprensibilissime lamentele da parte dei vicini, che non erano esattamente felici di essere svegliati alle sette di mattina la domenica. Ora, anche se avesse voluto, non avrebbe potuto farlo: innanzitutto perché le case non avevano più finestre, ma soprattutto perché sarebbe stato oltremodo di cattivo gusto urlare il buongiorno a persone che non sapevano se sarebbero arrivate a fine giornata.

Aprì il rubinetto, sciacquandosi il viso con la fredda acqua mattutina. Non avevano ancora acceso il riscaldamento, quei disgraziati… odiava lavarsi con l’acqua gelida, ma non poteva lamentarsi.

Erano passati ventidue anni da quando gli Alpha Nominus si erano ribellati agli esseri umani e ancora le risultava impossibile credere a quanto la sua vita fosse cambiata in così poco tempo.

Migliaia di uomini erano morti, uccisi da quello che doveva essere il più grande esperimento della storia e che si era rivelato una creatura in grado di moltiplicarsi da sola, dalla spiccata intelligenza e soprattutto affamata di umani.

L’umanità scampata alla battaglia persa in partenza si era rifugiata sottoterra, unico posto relativamente sicuro. Per ora.

Leef si guardò quasi con disgusto le braccia: la sua pelle era bianca come quello di uno spettro. D’altronde, non potendo uscire mai, aveva da tempo perso il colorito roseo tipico di un umano.

Ogni tanto si sentiva un po’ un vampiro. O uno zombie.

 

 

***

 

Sotto l’abbagliante luce rossa del laser, il cristallo di Berg risplendeva di infinite sfumature vermiglie, mentre otto occhi attenti lo scrutavano, studiandone ogni caratteristica con estrema attenzione.

Tra i quattro scienziati era grande l’eccitazione, dopotutto si trovavano innanzi alla più grande scoperta del secolo, quella che sarebbe stata forse la loro arma vincente contro gli Alpha Nominus.

Il laboratorio in cui si trovavano era piuttosto grande, buio a causa della scarsa energia elettrica di cui disponeva la Nemesi, l’organizzazione che aveva preso in mano le sorti dell’umanità.

Attraverso la porta d’ingresso, così pesante che per spingerla dovette usare entrambe le mani, Leef fece il suo ingresso con indosso camice, guanti e mascherina.

«Buongiorno.» salutò formalmente, scostante e un po’ superba come sempre, poi si diresse a passi lesti verso l’oggetto del suo interesse: il cristallo di Berg «Ci sono novità?»

«Nessuna, signorina Leroy.» rispose il più basso e vecchio dei quattro colleghi, un uomo dall’ispida barba bianca, quindi le sorrise «Non ho ancora avuto modo di congratularmi con lei della missione. Sua madre è stata più lungimirante di chiunque altro.»

Leef chinò di nuovo gli occhi sulla gemma, studiandone la perfetta geometria. Sì, sua madre era stata lungimirante più di chiunque altro; poco dopo l’inizio della ribellione, infatti, alcuni dei più insigni scienziati che avevano collaborato al progetto avevano ipotizzato – in base al alcune specifiche motivazioni - che i cristalli di Berg, minerale piuttosto raro, potessero arrecare danni agli Alpha Nominus. Era a tutti gli effetti una vera e propria allergia, quella dei mostri verso il cristallo di Berg.

Nonostante all’epoca la teoria fosse stata subito catalogata come mera superstizione, la madre di Leef aveva fatto di tutto per procurarsene uno, sfruttando la loro agiatezza economica.

Fortunatamente in quel momento, prima che gli altri scienziati potessero ribattere, la porta si aprì ancora, lasciando entrare un uomo dai tratti ispanoamericani, alto e massiccio, anch’egli vestito con un camice color latte. Gli occhi, coperti da un paio di occhiali molto spessi, fissavano severi i cinque presenti. Prima dell’invasione degli Alpha Nominus lo si sarebbe facilmente catalogato come agente della CIA, sembrava uno stereotipo vivente.

«Ho saputo che la missione è stata portata a termine.» parlò immediatamente, tenendo le braccia dietro la schiena con l’aria di chi comanda. E in effetti era proprio così, egli era Rudolph Mason, e con uno schiocco di dita avrebbe potuto far diventare Leef una dei tanti disoccupati della sua generazione.

Il suo sguardo incontrò subito quello di Leef, e fu come se ogni altra presenza in stanza avesse cessato di esistere «Ottimo lavoro, signorina Leroy.»

«Grazie, signore.» in quel momento la giovane donna sentiva il petto riempirsi una strana euforia che credeva d’aver dimenticato.

“Alla brutta faccia tua e di tutti quelli che non hanno creduto, vecchio burocrate calvo”, queste erano le parole che avrebbe voluto rivolgergli, ma fu costretta, se non voleva vedersi revocare il permesso di partecipare alle ricerche sul cristallo, a deviare su un più mansueto «Siamo pronti a procedere con la sperimentazione.»

L’altro annuì, pur non sembrando granché convinto, e infatti dopo, ferreo, chiese «Mi sembra d’aver capito che lei e il signor Langford non avete ancora provato l’effettivo funzionamento del cristallo.»

A quel punto Leef non poté che abbassare il suo, di sguardo. Era vero, il cristallo non era ancora stato provato su nessun Alpha Nominus, non c’era ancora nessuna certezza degli effetti che avrebbe avuto sui mostri, specialmente se clonato.

Non l’avevano nemmeno usato contro il mostro incontrato a casa sua per vari motivi: insicurezza su se fosse davvero il cristallo che cercavano, paura di spezzarlo, foga del momento… inesperienza, insomma.

«Ho bisogno di fatti, con le parole non si uccide un Alpha Nominus, signorina. Non posso inviare truppe armate all’assalto di quei mostri senza la sicurezza che le armi che creeremo avranno effetto.» concluse dunque il superiore, cercando gli occhi di lei «Quando li avrà, ne riparleremo.»

E Leef, per natura molto orgogliosa, non si lasciò intimorire e lo fissò di rimando, annuendo «Li avrà, signore.»

 

 

***

 

Un altro bersaglio cadde, massacrato di proiettili da Lance, che da circa due ore si trovava in piedi nella sua postazione preferita del poligono. Si allenava per colmare il suo punto debole: la distanza. Da qualche anno la sua vista stava lentamente peggiorando.

Decise di concedersi un momento di paura e si appoggiò al muro al muro dietro di lui, in preda alla stanchezza; era peggiorato e lo riconosceva, al punto da passare intere giornate chiuso in quel luogo con l’unica compagnia delle armi da fuoco.

Sospirò, arrabbiato. Il nuovo prototipo di pistola a proiettili esplosivi oltre ad essere troppo pesante era anche poco maneggevole. Aveva sperato che almeno il cristallo di Berg si rivelasse più agevole, ma nel momento in cui l’aveva preso in mano la realtà aveva distrutto le sue speranze; si era meravigliato di come Leef lo avesse trasportato per ore durante il viaggio senza stancarsi.

Si allontanò dall’area di tiro e si abbandonò contro un muro, scivolando poi per terra senza nemmeno accorgersene, con sguardo scuro e assente.

Era incredibile che dopo tutto quel tempo non si fosse ancora trovato un modo per tenere testa agli Alpha Nominus, o quantomeno difendersi dai loro attacchi. Lance non era uno scienziato, era solo un tizio qualsiasi specializzato nell’uso delle armi da fuoco che si era giurato di difendere la ragazza che amava: non capiva una parola di quei lunghi discorsi che Leef faceva con se stessa nei momenti di riflessione, non sapeva bene nemmeno perché il cristallo di Berg era ritenuto in grado di ferire in modo letale i loro nemici, ma ironicamente conosceva il corpo degli Alpha Nominus meglio di quei cervelloni.

Strinse forte i pugni, fissando con disgusto la pistola che teneva stretta tra le mani. Aveva sempre odiato la violenza, sin da bambino: che paradossale destino!  

«E ora guarda a che punto sono arrivato…» sibilò nel silenzio del poligono, prima di lanciare con rancore la pistola in un angolo. Per fortuna aveva la sicura.

In quel momento la porta d’ingresso si aprì, spalancata da un calcio rabbioso da parte di una ragazza dai lunghi capelli neri nelle sue stesse condizioni psicologiche.

«Che donna!» commentò ironicamente lui, venendo immediatamente fulminato.

Leef gli si sedette accanto, brontolando un’imprecazione a denti stretti; sembrava stressata, e Lance aveva il sentore di conoscerne già il motivo.

Senza abbandonare il suo atteggiamento sarcastico, fece «Quella è la faccia Ho-Incontrato-Mason.»

«Ho-incontrato-quel-bastardo-di-Mason, per la precisione. E mi ha detto di tornare là sopra a provare quel dannato cristallo!» borbottò lei in risposta, fingendosi dura. In realtà tremava, Lance non dovette sforzare la vista per notarlo «Perché non lo abbiamo provato l’altra volta?!»

«Ha ragione lui.» ammise lui a malincuore, abbracciandola «Siamo stati stupidi a tornare senza averlo prima provato. Ma adesso sappiamo che quello è il vero cristallo di Berg e che è in grado di proteggerci… forse. Possiamo permetterci il rischio.»

Lance aveva ragione… e anche Mason; quando parlava con lui, Leef si sentiva improvvisamente una sciocca ragazzina che prova a fare l’adulta. Non aveva il diritto di lamentarsi, perché quel che stavano facendo era per il bene dell’umanità; non doveva nemmeno nascondere la sua paura, perché con lei c’era Lance.

Quel pensiero riuscì a rassicurarla leggermente, ma anche a farle sentire sulle spalle il peso del mondo. Socchiuse gli occhi e scacciò quei brutti pensieri, infine chiese «Partiamo subito?»

L’uomo dette segno d’aver captato ogni suo singolo pensiero, tanto che le sorrise – Lance era fatto così, metteva da parte le sue insicurezze per gli altri -, improvvisando una battuta sbruffona «Non vedevo l’ora di far saltare in aria qualche Alpha Nominus con quella nuova bellezza che ho…»

Che aveva lanciato in un angolo.

«Che hai… lanciato in quell’angolo, Langford?» Leef fece un sorriso felino.

Lui si limitò a scrollare le spalle «Haha… beccato…»

 

 

***

 

Ci vollero i soliti cinque minuti perché l’ascensore che portava dalla sede centrale al mondo superiore giungesse a destinazione. Quando i due uscirono furono investiti da una ventata d’aria fresca e pulita, una sensazione che, naturalmente, era stata negata all’umanità con l’inizio dell’invasione.

Leef si guardò intorno: la periferia di Parigi, nei suoi ricordi sempre illuminata dalla calda luce del sole, quella mattina era tetra, spenta, sterile e silenziosa, come lo scenario di uno di quei videogiochi di zombie o film post-apocalittici che un tempo piacevano tanto.

Non riuscì a riconoscere la zona precisa in cui si trovavano: la fittissima rete di ascensori della Nemesi metteva in comunicazione la sede centrale con innumerevoli punti della città, in modo da confondere gli Alpha Nominus e nascondere al meglio gli ingressi a quello che per loro sarebbe stato un autentico banchetto. Inoltre, per scendere, bisognava superare un controllo delle impronte digitali che dimostrava l’appartenenza alla razza umana.

Quella volta Lance e Leef erano capitati nella periferia sud, in un quartiere di piccole case che giacevano deserte e mezze distrutte.

«Non li vedo… strano.» disse piano Lance, mentre si avvicinava ad un’auto abbandonata.

Leef era rimasta lì dov’era arrivata, a fissare malinconica la finestra del piano terra di una casa dalla quale s’intravedeva la camera di un bambino. Le tende azzurre erano sollevate dal vento, riusciva anche a vedere il letto completamente distrutto, tranciato a metà, e le pareti sporche di sangue.

Quante volte aveva visto scene simili? Era ormai una specie di ossessione…

“Non pensarci.”

«Andiamo.» ordinò col tono di chi non ammette repliche; si accostò a Lance, che nel frattempo si era accomodato al posto di guida della vecchia vettura, una Ford blu elettrico.

«Ottimo, serbatoio mezzo pieno!»

Leef però era scettica. D’accordo, c’era la benzina, e dunque come avrebbero messo in moto? Oh, ma certo, si disse alzando gli occhi al cielo: Langford e le strane invenzioni di quello scienziato pazzo amico suo.

Un sorriso arcuato sul volto di Lance confermò i suoi sospetti. L’uomo si sfilò dalla tasca una chiave che infilò nel quadro dell’auto e, dopo un paio di tentativi, il rombo del motore confermò il miracolo avvenuto.

Lance chiuse lo sportello e vi appoggiò sopra un braccio, facendo l’occhiolino alla ragazza «Vuoi uno strappo, bellezza?»

Leef a volte non poteva far altro che chiedersi come facesse a sembrare sempre così… così…

«Sta’ zitto, Langford!» sbottò, senza riuscire a nascondere una risata.

Ma forse era un bene che Lance fosse così com’era.

Quando furono entrambi pronti, partirono, cercando di non produrre troppo rumore.

«Non ci vorrà molto per trovarli, ma cerchiamo di non allontanarci troppo.» propose l’uomo, che tra i due era quello che più frequentemente usciva in superficie.

Presero così a muoversi in maniera circospetta e prudente per le strade desolate, di tanto in tanto imbattendosi in un cane randagio o addirittura in serpenti. In pochi anni, la natura aveva ripreso possesso di ciò che l’uomo le aveva tolto in millenni di sviluppo: germogli salutavano il cielo da crepe nell’asfalto, fiori anelavano alla luce affacciandosi dalle finestre degli edifici.

Eseguirono un breve giro dell’isolato, senza però trovare nessun mostro; la cosa suonò decisamente strana ad Lance, abituato com’era a trovarseli addosso in pochi minuti ogni volta che si avventurava nel mondo di sopra. Ora invece sembravano essersi volatilizzati, e ciò non andava affatto bene.

«Non distrarti.» la voce di Leef gli ricordò una delle cose fondamentali in quel momento: guardare la strada, non il cielo.

«C’è qualcosa di strano.» avanzò lui, anticipando i pensieri della ragazza, che intanto si sporgeva dal finestrino dell’auto per osservare con occhio vigile ogni spostamento. Persino la caduta di una foglia da un albero poteva non essere conseguenza di una folata di vento più forte.

«Cosa diavolo è successo qua fuori?»

La macchina frenò lentamente, finché non si arrestò del tutto; Lance intimò a Leef di rientrare il capo nell’auto, quindi chiuse i finestrini. Sembrava non esserci anima viva.

«Te la senti di continuare?» domandò alla ragazza, vistosamente nervoso: quella situazione era tutt’altro che rassicurante «Non vorrei che questo fosse l’ennesimo agguato. Quei mostri sembrano stare sviluppando una certa cooperazione…»

Leef si diede un’ultima occhiata intorno, confusa e presa in contropiede. L’uomo poteva davvero avere ragione: se quello era un agguato non sarebbero di certo tornati, e con loro il cristallo di Berg.

Eppure c’era qualcosa di strano: non aveva mai visto gli Alpha Nominus collaborare, se non in rarissime occasioni contro altrettante decine, centinaia di uomini che si erano mossi per tentare di ucciderli. Se davvero stavano cominciando a cooperare per il fine comune, erano spacciati.

«Torniamo alla Nemesi. Comunicheremo questa spiacevole novità e torneremo con i rinforzi.» si convinse che era la cosa più saggia da fare, la prudenza non era mai troppa quando si rischiava la vita.

Il suo ordine venne eseguito all’istante e l’auto tornò in movimento verso il canale da cui erano usciti. Lance spingeva l’acceleratore più freneticamente, sembrava stare perdendo la sua solita calma riflessiva.

Superarono i settanta, correndo verso la piazzetta. La presa della ragazza attorno al cristallo si fece ancora più salda. Improvvisamente una frenata violenta le fece quasi sbattere la testa contro il vetro. Sentì la mano calda ma sudata di Lance poggiarsi con violenza sul suo petto, trattenendola dallo sbattere la testa.

Confusa dalla tempesta di eventi, Leef emise un verso strozzato e cercò spiegazioni da Lance, che guardava fisso davanti a sé. Male.

«Aaah… siamo finiti in mezzo a una festa privata…»

Malissimo.

L’intera piazza era affollata da almeno una decina di Alpha Nominus che, prontamente, si erano voltati a guardarli con i loro occhi gialli non appena avevano svoltato l’angolo. Sembravano veramente mangiarli con gli occhi.

«Lance…» in un sussurro terrorizzato, la voce bassa e stentata di Leef diede all’altro un ottimo suggerimento «Smetti di dire stronzate e riparti.»

La macchina svoltò bruscamente, ripartendo ancora più veloce di prima verso il centro di Parigi, seguita dalla moltitudine di mostri neri urlanti.

Intanto, da sopra il tetto di una casa, avvolti nelle loro nere mantelle, alcune figure assistevano alla scena impassibili. Una di loro si pose a capo del piccolo gruppo: un cristallo di Berg era stretto in una mano. Una mano umana.

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Delirium ***


Twilight

Lost Light 2.0

3 - Delirium

 

La grande porta si aprì meccanicamente con uno scatto veloce, accompagnata da un suono cupo. Il laboratorio gelido che l’aveva ospitata fino a quel momento le era sempre apparso come una struttura immensa, con mille e mille stanze uguali tra loro, distinguibili solamente da chi ci lavorava.

Tutti i corridoi erano speculari, senza alcuna decorazione, con incolori ed anonime porte che ai suoi occhi di bambina risultavano come la stessa ripetuta più volte; anche le persone non si riconoscevano se non attraverso un’attenta occhiata: sia donne che uomini portavano lunghi camici ben stirati, mentre il viso era coperto da un paio di occhiali stravaganti simili a quelli che si vedevano solo nei film, una maschera sulla bocca e una rete sui capelli.

Invece quella che ora le si apriva davanti in tutta la sua austerità era un’enorme città sotterranea, che si estendeva anche oltre l’orizzonte e non era neanche lontanamente paragonabile all’ospedale che così a lungo aveva reputato l’edificio più grande del mondo. Ma, dopotutto, forse era ancora troppo nuova a quel mondo per capirne le esatte logiche.

Da quel che le avevano spiegato - senza addolcirle la pillola nonostante la sua giovane età -, quasi la totalità della popolazione umana era stata sterminata e le poche persone rimaste abitavano lì, nelle profondità del territorio europeo, con sede centrale sotto Parigi. Tutto ciò era opera della Nemesi, l’organizzazione che durante il periodo della ribellione degli Alpha Nominus si era proposta come ultimo baluardo della razza umana.

Le avevano spiegato anche che i suoi genitori erano stati uccisi da quei mostri, e che lei ora sarebbe stata affidata a una nuova famiglia. Una nuova famiglia. Come se i suoi genitori potessero essere rimpiazzati da un giorno all’altro.

Aveva versato già un mare di lacrime e non riusciva a capacitarsi di tutto quello che accadeva. Si sentiva insultata, offesa dal modo in cui era stata costretta ad entrare nel mondo degli adulti, privata delle persone che amava di più. Eppure sentiva di essere cresciuta in quei pochi giorni passati nell’ospedale della Nemesi: era diventata più consapevole e triste.

«Leef?» la chiamò la voce ormai nota della dottoressa Marçon, la pediatra che si era occupata di lei durante il ricovero.

La donna aveva fatto il suo ingresso nell’atrio dell’ospedale, giungendo in prossimità della bambina con il suo solito sorriso fuori luogo.

«La tua nuova famiglia sta per arrivare, cara.» le passò una mano tra i capelli e la prese per mano, una mano incredibilmente piccola rispetto alla sua «Sei pronta?»

La bambina si fece seria tutt’un tratto, così tanto che la dottoressa sentì il sorriso morirle in volto.

«No. Andiamo.»

 

 

***

 

Parigi, 11 Dicembre 2070 - 11.35

«Ci raggiungono! Accelera!»

La voce di Leef giungeva come un’eco lontana alle orecchie di Lance, completamente concentrato sulla strada da percorrere. La periferia di Parigi era un totale caos, le strade in buona parte distrutte, gli risultava molto difficile zigzagare tra le montagne di detriti sparse ovunque. Fortunatamente era parecchio abile nel guidare. La priorità era seminare gli Alpha Nominus, poi avrebbero pensato a un modo per tornare alla Nemesi.

Era tutto così strano… quando mai si erano visti dei Nominus collaborare? Se davvero avevano deciso di unirsi per raggiungere un obiettivo comune poteva significare soltanto una cosa: avevano sviluppato il loro intelletto fino a capire che insieme si hanno maggiori possibilità di riuscita e, considerando la situazione, probabilmente l’obiettivo era l’insalatiera sotterranea. Che avessero davvero scoperto la sede nella Nemesi?

«Maledizione!» esclamò l’uomo, dando una violenta sterzata che quasi fece perdere l’equilibrio a Leef «Usa il cristallo!»

«Non so come fare! Credo che funzioni solo per contatto fisico!»

Ma valeva comunque la pena di provare, perciò scavò nella sua borsa finché non lo trovò, stringendolo poi tra le mani sudate e tremanti. Si affacciò dal finestrino, esponendolo alla luce del giorno. Non accadde niente. Ovvio, prevedibile. Non erano prestigiatori e il minerale non avrebbe operato un miracolo. Dovevano usarlo per dare il colpo di grazia a un Alpha Nominus precedentemente messo a tappeto, come una normale spada?

Lance lo comprese e cambiò strategia «Non importa, Leef. Hai le pistole con te? Ce la fai a sparare a questa velocità, o prendi tu la guida e io cerco di colpirli?»

«No, posso farcela. Mi raccomando, cambia strada molto spesso, magari ci perdono di vista!» esclamò l’altra, dunque impugnò le armi, sollevandole con una forza inaudita sviluppata in quegli anni a causa delle necessità.

Aprì la capote della macchina, uscendo di soppiatto mentre già le pistole puntavano sulla piccola folla di mostri che li inseguivano. Scaricò una manciata di proiettili addosso agli Alpha Nominus, ferendone molti; gambe e braccia scheletriche volavano via come se non necessarie alla sopravvivenza, mentre i mostri si alteravano ancora di più, urlando più forte.

La donna sapeva cosa significava: quando un Alpha Nominus veniva ferito sviluppava un urgente bisogno di tessuti ricchi di proteine, le uniche fibre capaci di fargli ricrescere in meno di dieci minuti un arto nuovo di zecca. Tali tessuti erano per la precisione i muscoli umani. I muscoli di coloro da cui erano stati, non esattamente con successo, clonati. Il processo attraverso cui un Alpha Nominus sbranava e successivamente convertiva i tessuti ingoiati in vere e proprie parti del corpo, si chiamava assorbimento. Ed era ciò che era accaduto ai suoi genitori quella fatidica sera.

Perché diavolo si avventuravano lì, in superficie? Avrebbero potuto tranquillamente nascondersi sotto terra come tutti gli altri, ad aspettare la morte.

Un nuovo proiettile colpì un Alpha Nominus dritto alla testa, in mezzo agli occhi gialli.

«Muori, stronzo!» strepitò la ragazza in un attimo di cinismo: quello era uno dei pochi punti che non riuscivano a riparare, dunque uno dei mostri era fuori gioco.

Il rumore dei colpi risuonava nelle sue orecchie con forza, ma ormai vi era abituata. Mentre Lance sfrecciava, prendendo una curva che di nuovo le fece perdere l’equilibrio, la ragazza decise di concentrarsi su uno alla volta.

«Lance, dannazione! Guida come gli esseri umani!»

«Meno acidità e più efficienza, grande scienziato!»

Leef, mugugnando un’imprecazione, tornò a concentrarsi sul suo secondo Alpha Nominus; questo non aveva riportato ferite da prima, dunque sarebbe stato più difficile da abbattere. Gli sparò quattro volte, colpendolo all’addome, alla testa e, incredibilmente, alla mano destra; tra varie urla, l’Alpha Nominus perse letteralmente la testa, lasciando una scia di liquido giallo prima di accasciarsi.

“Fuori due!” pensò Leef.

Sentì un brivido di speranza percorrerle le braccia; strinse le mani sulle pistole, arrischiandosi a pensare che forse potevano farcela.

Lance imboccò un vicolo piuttosto stretto e buio, senza alcun tipo di illuminazione; imprecò a denti stretti: come se la situazione non fosse stata già abbastanza difficile!

Leef sentiva il sudore freddo calarle a grandi gocce lungo le tempie, mentre le pistole si facevano sempre più pesanti. Cominciava ad essere stanca. Ricominciò a sparare alla cieca, sentendo i colpi andare spesso a vuoto; nella frenesia generale le parve di scorgere qualcuno cadere ed essere calpestato senza tanti complimenti.

Accucciandosi contro il freddo metallo della vettura, Leef portò dietro l’orecchio una ciocca di capelli che le impediva una visione completa; poteva orientarsi solo seguendo il giallo acceso degli occhi dei mostri, ed era proprio a quei barlumi luminosi che mirava.

Ne abbatté uno, poi un altro.

“Forza… ancora quattro!” si disse, mentre con una mano sparava e con l’altra afferrava una nuova cartuccia. Si concentrò su un nuovo paio di occhi, ricominciò a sparare. Colpito. Ma dopo una decina di colpi cominciò a disperare: gli altri avevano demorso molto prima, perché questo no?

Eppure lo aveva colpito come minimo sei volte ed un normale Alpha Nominus dopo le prime due sarebbe scappato, dopo tre morto. Alcuni, se a digiuno da molto tempo, addirittura crollavano dopo un solo colpo. Eppure questo sembrava molto più forte degli altri…

Gli occhi della donna erano puntati su quelli del nemico; con concentrazione e tenendo a stento sotto controllo l’agitazione, Leef sparò un altro colpo che, di nuovo, colpì il mostro, il quale finalmente cadde con un urlo.

«Finalmente!» gridò lei, ma il suo grido venne strozzato poco dopo, quando da dietro il paio di occhi che aveva fissato fino a quel momento ne emerse un altro.

Per poco alla scienziata non caddero le pistole di mano quando capì perché non riusciva a uccidere il mostro di prima. In quel momento Lance sterzò ancora, tornando in una via illuminata.

«Dannazione!» imprecò l’uomo da dentro l’abitacolo, guardando lo specchietto retrovisore. I mostri non erano più una decina, ora erano almeno raddoppiati «Ma che sta succedendo!?»

«Hanno chiamato i rinforzi!» esclamò questa, riprendendo a sparare, stavolta agevolata dalla luce che filtrava attraverso le nuvole «Non era mai successa una cosa simile!

Più andavano avanti, più la situazione peggiorava: la strada era così piena di detriti che spesso Lance era costretto a svoltare o far manovre pericolose, per di più i proiettili non sarebbero durati per sempre. Dovevano far qualcosa, il prima possibile.

«Leef!» la chiamò allora, cacciando una mano dietro di sé per afferrarle una gamba «Scambiamoci!»

«Sei sicuro? Va bene!» acconsentì la ragazza, accettando la realtà: era troppo agitata per essere efficiente e Lance lo sapeva.

«Al mio tre!» continuò lui, ma la sua voce era appena udibile, sovrastata com’era dalle urla infernali degli Alpha Nominus, che ora erano a pochi metri dall’auto, nel pieno della sua corsa folle.

In effetti era folle anche quello che i due ragazzi si apprestavano a fare.

«Tre!»

Con uno scatto all’insù, Lance si allungò al suo limite, tenendo il piede sopra sull’acceleratore e una mano sul volante fin quando non fu sicuro che Leef, scattata all’indietro nello stesso momento, avesse preso il suo posto. La ragazza afferrò lo sterzo con mani tremanti e tanto sudate da essere scivolose.

Gli occhi si posarono sulla strada, allora si accorse che il compito di Lance non era stato meno gravoso del suo fino a quel momento. La via era un inferno di macchine capovolte, detriti, edifici crollati e, di tanto in tanto, persino scheletri.

«Leef! Cerca di svoltare alla prima occasione, ci sono addosso!»

«Ci provo!» fece in risposta lei, sull’orlo di una crisi di nervi. E ci provò veramente alla prima occasione, ma non servì a molto; avevano, in compenso, messo un po’ di distanza tra loro e i mostri.

Non restava che una cosa da fare…

«Prendi la dinamite! E’ l’unico modo per guadagnare tempo!»

«Cosa? Vuoi farci saltare in aria?» Lance strabuzzò gli occhi, con una nota di stizza nella voce.

Era troppo pericoloso! Andavano a velocità folle e tra l’accensione della miccia e l’esplosione vi sarebbero stati al massimo cinque secondi: considerando la velocità con cui gli Alpha Nominus li stavano raggiungendo, il moto della macchina e il tempo che il candelotto avrebbe impiegato ad attraversare lo spazio che li divideva, c’era un margine d’errore elevato. Tuttavia, Lance sapeva che la ragazza aveva ragione, infatti le armi da fuoco ormai poco potevano contro i nemici, con la sua spada avrebbe avuto risultati migliori.

La situazione necessitava di una svolta decisiva. Aveva fatto pratica anche con l’esplosivo, ma l’idea di tenerlo in mano fino a due secondi prima dell’esplosione non lo allettava granché…

Tuttavia lo fece. Si abbassò in un attimo, quanto bastava per afferrare la borsa che aveva lasciato sul sedile libero ed estrarne un candelotto.

«Abbiamo davvero pochissimo tempo. Accenderò la miccia e quando mancheranno due secondi la lancerò. Appena ti do il via accelera ancora, vedi quell’incrocio laggiù? Svolta in una qualsiasi direzione, almeno ci toglieremo dalla traiettoria dell’esplosione. Capito?»

Combattendo col sudore che le imperlava la fronte, Leef annuì trepidante.

I mostri erano sempre dietro di loro, sempre più vicini. Deglutendo, Lance si rimise in piedi, tirò fuori dal taschino della giacca un accendino e con uno scatto secco lo accese. Si chiese se questa era davvero l’unica soluzione, ma il suo cervello era atrofizzato, addormentato: se quella non era l’unica soluzione, non lo avrebbe mai saputo.

“Cinque.”

Odiava quel suono. Lo aveva sempre odiato. Qui non si giocava con un proiettile o una lama, ma con della dannatissima dinamite.

“Quattro.”

L’odore di bruciato gli invase il setto nasale, provocandogli un breve giramento di testa. Sparò un colpo a un Alpha Nominus che si era avvicinato un po’ troppo per i suoi gusti.

“Tre.”

Un urlo lo fece raggelare. I mostri erano a pochissimi metri dall’auto. Due secondi erano troppi? Che senso aveva pensarci ormai?

“Due!”

O andava o… andava.

Lanciò il candelotto e contemporaneamente si rifugiò dentro la macchina, mentre questa svoltava a sinistra d’improvviso; l’impatto con il sedile fu così forte che sentì una fitta allo stomaco. Non vide più la dinamite, ma ne sentì il botto. L’onda d’urto fu così forte che l’auto venne letteralmente sbalzata in aria. Un drago di fuoco si allungò dalla strada che avevano appena abbandonato, divorando le creature ignare.

 

 

***

 

L’intera zona attorno all’esplosione era ridotta in cenere, così come i cadaveri di quindici dei venti mostri. Non troppo lontana dal luogo della deflagrazione, un’automobile giaceva rovesciata, dalle sue macerie si sollevava pigramente del fumo; le ruote, ancora fumanti, indicavano una corsa pazza che faceva tanto film americano.

Leef era riuscita a uscire per miracolo da sola dall’abitacolo. Era un po’ ammaccata, ma nel complesso si sentiva bene, felice di vivere come non era mai stata.

«Lance?» chiamò subito il compagno non appena ebbe recuperato la voce. Le fischiavano le orecchie.

«Sono qui… sono vivo! Non so come, ma sono vivo! Ahia, che dolore…» dai sedili posteriori si alzò un urlo di vera gioia «Siamo vivi! Vivi! In culo a quei fottutissimi bastardi!»

Quello che uscì dalla gola di Leef fu una specie di mugugno disperato; si mosse dalla sua posizione – a terra, in mezzo alle macerie, con il borsone a tracolla – per raggiungere l’uomo e aiutarlo ad uscire dal finestrino. Avevano avuto una fortuna incredibile.

La testa di Lance emerse per prima dalla trappola di metallo, seguita, con un po’ di difficoltà, dalle spalle e poi dal resto del corpo. Fecero la conta dei danni: avevano vari tagli sparsi in tutto il corpo, alcuni anche abbastanza gravi, come quello di Leef sul braccio destro, ma nel complesso sarebbe potuta andare molto peggio. La ferita più brutta l’aveva lui: una spalla rotta.

«Dobbiamo tornare immediatamente alla sede. Soprattutto ora che siamo feriti.»

«Sì, hai ragione.» fu la risposta rapida dell’altro mentre si massaggiava la parte indolenzita.

Ripresero il passo, stavolta senza auto e con molta più calma; si fecero persino prendere un po’ dall’euforia per il massacro appena compiuto: erano non proprio sani, ma almeno salvi. Lance rise, affermando che l’adrenalina li stava rimbambendo, ma Leef trovò come sempre una spiegazione psicofisica che zittì l’altro.

Il problema adesso era trovare uno degli ingressi per la Nemesi. La donna estrasse dalla tasca un pezzo di carta bianco ripiegato e lo aprì frettolosamente, mostrando così quella che sembrava una mappa molto dettagliata di Parigi: in blu spiccavano le zone di accesso alla città sotterranea, in verde le uscite, in rosso quelle più pericolose, cioè quelle in cui gli incontri con Alpha Nominus erano probabili. La zona d’accesso più vicina alla loro posizione era a due isolati.

«Ci conviene prendere un’altra auto, così faremo prima.» propose.

Lance non era dello stesso avviso e scosse la testa, provocando una cascata di polvere dai capelli bruni «No, faremmo troppo rumore. Andiamo a piedi.»

Pensandoci bene sì, era la cosa migliore. Leef era felice di avere con sé qualcuno abituato ad uscire nel mondo superiore, soprattutto ora che si sentiva stravolta dall’inseguimento. Prese Lance sottobraccio e s’incamminarono. Ad ogni passo lo sentiva gemere per il dolore, e lei, pur sapendo di non essere la causa del suo infortunio, non poteva fare a meno di soffrire con lui.

«Leef.»

Si sentì chiamare. Alzò lo sguardo, incontrando quello dell’altro, sorridente nonostante tutto. Si sentì arrossire e si diede della sciocca: non era il momento adatto per sentimentalismi «Dimmi.»

«Smettila di preoccuparti. Ho sopportato di peggio, lo sai.» la rimproverò lui, scoccandole un bacio sulla fronte, prima di ricordarsi improvvisamente una cosa «Ah, il cristallo di Berg?»

«Ce l’ho qui…» rispose lei, brusca, irritata per il cambio d’argomento; cacciò la mano nella sua borsa, cercando distrattamente… almeno finché non si accorse che niente lì dentro, tra pistole, munizioni, candelotti, ricetrasmittenti e persino una confezione di burrocacao… «… Merda.»

«Leef…» il verso di Lance sembrava più disperato che arrabbiato «Non dirmelo, ti prego.»

«Okay, non te lo dico!» sorrise forzatamente Leef, lasciando poi andare il compagno. Doveva esserle caduto durate la colluttazione, non c’era altra spiegazione. Sicuramente era ancora lì, doveva solo tornare indietro a prenderlo. Ritirò tutto ciò che aveva pensato sulla loro buona stella «Io torno alla macchina, tu corri all’ascensore.»

«Perfetto. Torniamo alla macchina!» senza prestarle ascolto, Lance fece marcia indietro, tornando sui suoi passi.

«Lance!» Leef lo raggiunse subito, tirandolo per il braccio sano; riuscì comunque a fargli male e perciò si diede dell’idiota, ma la sua preoccupazione per lui era dieci volte maggiore di quella per il resto dell’umanità «È troppo pericoloso!»

Egli si voltò a guardarla in maniera severa «E vorresti lasciare il cristallo lì?» chiese poi, evidentemente annoiato da quello spreco di tempo.

«Il cristallo è al sicuro. Gli Alpha Nominus non possono avvicinarsi.» continuò lei, cercando di essere convincente, ma la sua decisione morì quando Lance le prese la mano. Che colpo basso.

Leef non oppose più resistenza, del resto sapeva che quando Lance si fissava con qualcosa era impossibile smuoverlo, dunque, sospirando, acconsentì tacitamente.

«Come ho potuto essere così stupida?» non si risparmiò comunque, rivolgendosi tutti gli improperi che ricordava. Se fosse accaduto qualcosa a uno dei due sarebbe stata tutta colpa sua.

«Basta con questa lagna. Se mi accadrà qualcosa sarà perché non sarò stato abbastanza attento.»

«La smetti di leggermi nella mente?»

Lance ridacchiò piano mentre si massaggiava la spalla, cercando di sorridere nonostante il dolore. Non era la prima volta che si rompeva un osso, ed aveva imparato a resistere alla sofferenza, almeno per un po’…

Rimasero in silenzio, o meglio in ascolto, poiché anche un semplicissimo suono poteva rivelare la presenza di un mostro. Leef teneva stretta in mano la pistola, contando ogni passo. Ogni qualvolta che sentiva un rumore improvviso scattava, cominciando a puntare a destra e a manca l’arma, alla ricerca di nemici inesistenti. Lance non cercava di fermarla, in quanto sapeva che la ragazza aveva ragione a farlo: con lui quasi fuori gioco, ella era la loro unica speranza di salvezza in caso di attacco.

E poi, senza preavviso, le pose una domanda strana.

«Tu credi in Dio?»

Quella domanda fu per Leef come una doccia fredda. Si voltò verso l’uomo, guardandolo sconcertata. Era davvero il momento adatto a una discussione a sfondo teologico? Tuttavia non se la sentì di lasciarlo senza una risposta, quindi scosse la testa «No.»

Esattamente come egli credeva, o forse temeva.  Benché si conoscessero da una vita, non glielo aveva mai chiesto. Sorrise amaramente, in effetti non era affatto il momento migliore per quel genere di domande «E non ti senti sola a volte, quando nessuno ti è accanto?»

«Che razza di domande sono queste?» un cipiglio irritato sul volto di lei fece capire che quell’argomento era off-limits. Gli indirizzò un’occhiataccia che sembrava metterlo in guardia dall’abusare della sua pazienza «Non è il momento di fare certi discorsi.»

«Sì, hai ragione. Perdonami.»

Lance non faticava a comprendere perché Leef fosse atea: dopo aver perso tutto, dalla famiglia ai beni materiali, molti avrebbero perso la fede. E poi era una scienziata, e spesso gli scienziati non si mostrano anche solo vagamente aperti alla possibilità che esista qualcosa di più intelligente di loro e più potente degli Alpha Nominus.

«Oh, ecco!» la voce della ragazza richiamò l’uomo alla realtà.

Lance si diede dello stupido per essere stato così provveduto: potevano essere attaccati in qualsiasi momento, non era il caso di divagare.

Il suono dei caricatori di Leef riecheggiò varie volte, mentre il cacciatore preparava le sue armi, maledicendo per l’ennesima volta quell’esplosione.

La spalla gli doleva, la donna lo vedeva benissimo.

«Io vado avanti.» asserì, poi lo precedette.

Con uno sbuffo, Lance rimase indietro a caricare le armi.

Leef si guardò intorno, scrutando le cime dei palazzi, da cui i mostri amavano lanciarsi per saltare addosso alle loro vittime. Sembrava che non ci fosse niente. Prese un profondo respiro, sentendo l’aria fredda penetrarle nei polmoni; c’era ancora una gran puzza di morto e di fumo, era così disturbante.

Quasi nevrotica attraversò la strada, a passi piccoli e leggeri, sfruttando le ombre come copertura. Non doveva correre il rischio di attirare l’attenzione fin quando Lance non sarebbe stato pronto. Un passo mosso avventatamente provocò lo spostamento repentino di un sasso e il rumore riecheggiò nella distesa silenziosa.

Leef trattenne  il fiato. Un attimo dopo le erano letteralmente addosso.

«Leef

La ragazza cadde a terra, spinta con violenza da una mano nera munita d’artigli. Non sentì più le gambe, ma solo un ammasso di corpi addosso al suo e la mancanza di aria. Nella confusione e nella paura, non riuscì a capire che i colpi e le onde d’urto che sentì subito dopo erano i proiettili con cui Lance stava massacrando i mostri che l’avevano atterrata.

Le urla degli Alpha Nominus si alzarono stridule. Tre di loro la tenevano con forza, cercando di non cedere sotto i colpi mirati del cacciatore; quest’ultimo, avendo finito di caricare le armi, ora cercava in tutti i modi di allontanarli da Leef.

«Maledetti, qui! Sono qui!» prese a urlare e provocarli, senza smettere di sparare.

Riuscì ad allontanare il primo, sbalzandolo dalla ragazza. Tra un battito e l’altro del cuore, notò con estremo sollievo che era ancora viva, anche se visibilmente shoccata. Per fortuna ancora non procedevano con l’assorbirla. Un urlo risuonò al di sopra degli altri, mentre il più alto degli Alpha Nominus si voltava verso il ragazzo, alzando una mano; gli altri due si bloccarono, e così anche Lance.

Rimasero tutti e tre a fissarlo, mentre la mente di Lance ricominciava a mettersi in moto.

Sorrise amaramente, sussurrando «E così collaborate davvero, pezzi di merda…» e sparò dritto in faccia al capo.

Il mostro evitò con un urlo il proiettile, che, non avendo incontrato il bersaglio, andò sprecato senza scatenare la sua onda d’urto.

«Provate a prendermi, allora.» Lance iniziò ad allontanarsi, continuando però a sparare al capo dei mostri.

Gli altri due fecero dei balzi invidiabili e raggiunsero i tetti delle abitazioni più vicine e basse, poi sparendo: si preparavano a un agguato? Ormai dovevano essere entrati nella mentalità del gruppo, perciò difficilmente però avrebbero abbandonato il loro comandante.

Quest’ultimo ora inseguiva il cacciatore, che, diretto all’auto, cercava di correre il più velocemente possibile, combattendo contro il dolore alla spalla. Lanciò una fugace occhiata a Leef, svenuta, poi riprese la sua corsa disperata con alle calcagna l’Alpha Nominus alto, infuriato e soprattutto affamato.

Si lanciò dentro l’auto rovesciata, ancora ferma sul luogo della strage.

A quel punto non si udirono più suoni, neanche quello dei passi dell’Alpha Nominus che lo inseguiva. Con le mani sudate, il cacciatore cominciò a scavare senza sosta, cercando con gli occhi il cristallo.

“Dove cazzo è?!” pensò.

In quel momento la paura che le loro convinzioni fossero false lo avvolse. E se davvero quel misero pezzo di minerale non fosse servito a niente, come aveva insinuato Mason? Sarebbero stati entrambi assorbiti o avrebbe trovato la forza di combattere? In quel momento notò un flebile bagliore celeste alzarsi dai sedili posteriori.

“Eccolo!” allungò una mano lo afferrò come se fosse stato l’acqua nel deserto, il solo sentirlo di nuovo tra le mani gli donò un leggero sollievo.

Con fatica uscì dall’auto, spingendosi coi piedi e una mano. Teneva il cristallo luccicante stretto nella mano libera. Una volta fuori, si guardò con circospezione intorno, riprendendo fiato: non c’era nessuno. Leef giaceva ancora sul ciglio della strada, nessun Alpha Nominus in giro.

Se ne erano davvero andati? Dopo essersi guardato con attenzione intorno alzò lo sguardo e… due occhi gialli e un sorriso mostruoso gli diedero un caloroso bentornato.

In contemporanea sia l’Alpha Nominus che Lance lanciarono un urlo: il primo di vittoria, il secondo di paura. L’agguato era andato decisamente a buon fine, e adesso era il momento di una bella merenda sostanziosa!

L’Alpha Nominus si gettò da sopra la macchina capovolta addosso a lui, che tentò di darsela a gambe ma non fu abbastanza veloce per evitare che la bestia gli affondasse i denti nella gamba e tirasse via con gusto un pezzo di carne.

Lance si piegò in due, urlando di nuovo come un pazzo, mentre il dolore lo assaliva ancora; la sua mente si annebbiò velocemente, era sul punto di lasciarsi svenire quando Leef comparve nel suo campo visivo, trascinata per i capelli un altro Alpha Nominus. Il cacciatore sentiva il sangue sgorgare dalla ferita, la sofferenza era così intensa da impedirgli di ragionare lucidamente. Si fece forza, nonostante persino respirare fosse difficile, e mosse appena la mano, mostrando l’oggetto che vi teneva stretto.

La luce del cristallo si espanse a quel punto, riflettendosi sui corpi dei mostri che cominciarono a urlare come forsennati. Quello che ancora si gustava la carne di Lance si coprì gli occhi, ma, troppo preso alla sprovvista, non seppe come reagire e fu il primo ad esplodere. Letteralmente. Uguale fu la sorte del capo, quello che stava innanzi all’uomo, grazie al quale Lance poté finalmente dire con certezza che l’interno degli Alpha Nominus aveva decisamente molto in comune con quello degli uomini.

Quello che teneva per i capelli Leef si unì al coro di urla, lasciando cadere la ragazza sull’asfalto. Infine scappò, lanciando a Lance un’occhiata che prometteva vendetta.

«Scappa, bastardo… scappa! Non… l’avrete vinta…» mormorò il cacciatore, soddisfatto. Strisciando e lottando contro i muscoli che gli urlavano di star fermo, riuscì con molti sforzi ad avvicinarsi infine a Leef. Sembrava star bene, a parte le ferite che si erano procurati durante l’esplosione.

«Grazie, Dio, grazie…» sussurrò al cielo grigio, ormai allo stremo delle forze.

Ora aveva avuto la prova definitiva che qualcuno li aveva salvati. Subito dopo, però, un sonno molto insistente lo colse, e stavolta Lance fu sicuro che non sarebbe riuscito a resistere: era esausto. Mentre stringeva la mano di Leef, poggiando tra loro il cristallo, si chiese se si sarebbe mai svegliato; la lunga striscia di sangue e la gamba per metà distrutta non ne erano così sicure.

Eppure aveva dimostrato che il cristallo funzionava e che le teorie di Leef erano giuste: l’aveva salvata. Era riuscito a proteggere davvero qualcuno. D’un tratto, mentre chiudeva gli occhi e scivolava nell’incoscienza, sentì d’aver per la prima volta in vita sua qualcosa di cui andava fiero.

Poco dopo che Lance svenne, un voce maschile tonante e bassa spezzò il silenzio.

«Portateli via, prima che arrivino altri mostri…»

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Raptus ***


Twilight

Lost Light 2.0

4 - Raptus

 

Il parco giochi non sembrava esattamente un parco giochi.

Certo, c’era l’erba verde appena tagliata e c’erano i giochi, dagli scivoli alle altalene, c’era anche un gelataio che distribuiva gratis coni e coppette, senza però neanche fingere allegria; c’erano bambini, alcuni dei quali si divertivano e altri invece che se ne stavano per i fatti loro a giocare in silenzio. Ma una cosa accomunava tutti, grandi e piccini: quel vago senso di malinconia onnipresente.

La luce splendeva, sì, ma si trattava di una luce artificiale, creata per emulare in modo realistico quella solare. La stella che la nuova generazione forse non avrebbe mai visto. Regnava una quiete che dovrebbe essere estranea a bambini così piccoli.

Il mondo era davvero cambiato. Così ragionava Leef, dieci anni, mentre si avviava verso un angolino buio del parco; sottobraccio portava un libro intitolato “Matematica per principianti”.

Leef aveva già deciso la strada che avrebbe percorso: sarebbe divenuta una scienziata ed avrebbe apportato un aiuto concreto alla sua razza in quella che era la battaglia per la sopravvivenza. Non sarebbe rimasta a guardare: voleva distruggerli tutti, dal primo all’ultimo, anche a costo della vita.

Erano passati diversi anni dal giorno della morte dei suoi genitori naturali, ma la bambina non si era ancora ripresa, e giorno dopo giorno assillava i genitori adottivi perché la portassero in biblioteca o le insegnassero qualcosa di nuovo. Era molto impegnativo, ma Antoine e Hélène Leroy erano felici che Leef studiasse così tanto. Nonostante ormai non ci fosse molto da fare in quel mondo per gli esseri umani, era difficile liberarsi dal desiderio di vedere il proprio figlio crescere con un certo bagaglio culturale.

La bimba si accomodò su quell’erba che sapeva di falso e aprì il libro, partendo dalla premessa; i suoi vispi occhi azzurri cominciarono a vagare tra lettere e numeri, mentre la mente assimilava informazioni come una spugna. Era talmente tanto catturata dalla lettura che non si accorse che qualcuno le si era avvicinato con passo quatto. Solo quando l’ombra dello sconosciuto non le permise più di leggere alzò gli occhi, specchiandoli in due altri verde rame.

«Cosa c’è?» chiese al bambino, visibilmente poco più grande di lei, che le si era parato davanti. Vestiva di nero, come se fosse a lutto, e portava tra le mani una pietra colorata con delle pennellate vivaci.

«Che cosa stai facendo?» le chiese quello, senza però una reale curiosità.

La bambina inclinò il capo, rispondendogli con un irritato «Leggo.»

Per la sua felicità, quello le si sedette davanti. Il tentativo di allontanarlo era miseramente fallito «Non giochi con gli altri?»

«E tu?» ribatté lei, piccata; non aveva assolutamente voglia di stringere nuove amicizie, ormai le reputava solo una perdita di tempo.

Il bruno poggiò una guancia su una mano, sedendosi in modo disordinato. Scoccò un’occhiata al tomo e un guizzo felino gli attraversò gli occhi «Hm… sei una secchiona?»

«Come ti permetti?!» esclamò arrabbiata Leef, chiudendo di scatto il manuale «Fatti gli affari tuoi, saccente!»

«Hey hey, calma! Non ti ho mica insultata! Scusa tanto, non so ancora bene il francese!» provò lui, soddisfatto di aver ottenuto una reazione, quando poi lei gonfiò le guance, rise di gusto e sinceramente «Allora in te c’è ancora qualcosa di infantile!»

E poi ci fu un sonoro pugno a un ginocchio! Il bambino gemette di dolore, mentre Leef si metteva in piedi.

«Lasciami in pace!»

Ma ovviamente se lo ritrovò alle calcagna in pochi secondi «Mi hai dato un pugno! … Uh, certo che sei lenta.»

«Forse perché sono più piccola di te, genio?» Leef accelerò il passo, senza però riuscire a raggiungerlo. Quel ragazzino le stava proprio dando su i nervi.

«Hai ragione, scusami. Rallento e ti aspetto.» e così si ritrovarono presto nella situazione opposta a quella che doveva essere: il bambino avanti e la bambina indietro.

Leef si impose di non sferrargli un altro pugno, ma gli scoccò un’occhiataccia in cambio; camminava, sentendo l’erba sotto le scarpe, cercando di concentrarsi sull’andatura.

Manteneva una rigida e costante postura della schiena, cosa che non scappò all’occhio attento del bruno, che colse al volo l’occasione per stuzzicarla «Calmati, robot, o la schiena ti si spezzerà come una corda di violino.»

«No, genio. Si spezzerà a te se continui a camminare così curvo.»

«Io la schiena intendo spaccarmela solo per proteggere le persone a cui voglio bene. Quindi non ti preoccupare.»

Il brusco cambio di tono colpì Leef, che fermò la sua avanzata e lo scrutò sospettosa, mentre in sottofondo una radio riproduceva il canto di una cicala «Non hai qualcun altro da infastidire? Non so, una sorella?»

«Mia sorella è morta.» asserì il bambino con aria seria, che sorprese ancora una volta la bimba «È stata uccisa dagli Alpha Nominus mentre cercava di proteggermi.»

La sua voce era piatta, eppure velata di tristezza. Probabilmente era successo da molto tempo e ormai aveva somatizzato la tragedia.

Leef si fermò a guardarlo con intensità: non era raro trovare qualcuno col suo stesso tragico passato, ma lo era trovare qualcuno così caparbiamente deciso a conoscerla. Perché non dargli una possibilità? Al limite, se proprio si fosse rivelato insopportabile lo avrebbe fatto tornare a casa piangendo.

«Leef Leroy.» si presentò, porgendogli la mano.

«Leef? Come foglia? Carino.» il ragazzo le sorrise, stringendo vigorosamente la piccola mano dell’altra «Lancelot Langford.»

 

 

***

 

«Uh…» con un mugolio sommesso, gli occhi blu di Leef si aprirono.

La donna si prese qualche secondo per se stessa, cercando di muovere prima le braccia, poi le gambe. Sì, sembrava non mancare niente. Magnifico. La testa le doleva, ma a parte quello stava bene. Fortunatamente gli Alpha Nominus non l’avevano uccisa.

Udì a quel punto attorno a sé voci che sussurravano… voci umane.

“Che cosa…?” erano riusciti a tornare alla Nemesi? E allora perché sopra la sua testa scorgeva, seppure in modo sfocato, il cielo notturno? No, era sbagliato!

Aprì gli occhi, ritrovando coscienza di sé assieme a una paura che rasentava l’isteria che l’aveva accompagnata prima dello svenimento; si trovava davvero ancora all’aperto e quelle che sentiva erano davvero voci umane. Si issò sui gomiti, cercando di mettere a fuoco la scena, avvertì un capogiro che la costrinse a piegarsi di nuovo, sentendo i capelli sfiorarle fastidiosamente le palpebre «Dove sono?»

Presto un’ombra le fu accanto: si trattava di una donna bionda sconosciuta, dai tratti americani «Are you okay?» le chiese, preoccupata.

La mora strabuzzò gli occhi, incredula: attorno a lei c’erano almeno una trentina di persone, tra uomini, donne, bambini, uno diverso dall’altro. Una decina erano bianche e sembravano europei, poi c’era un esile numero di indiani, riconoscibili dai vestiti, alcuni afroamericani dall’aria particolarmente affaticata e molti orientali, con i loro tipici occhi a mandorla.

Sopravvissuti? Dopo tutto quel tempo? Era possibile?

Cercando di riprendere voce, la ragazza mormorò alla donna che le era accanto, col suo inglese dall’accento esageratamente francese «Sì… sì, vi ringrazio. Ma chi siete, voi? Sopravvissuti?»

«Mi fa piacere… comunque sì, siamo appena arrivati a Parigi.» le rispose la donna con un sorriso mesto; le avvicinò poi una borsa, dalla quale estrasse un vecchio asciugamano bucato che le passò sul viso, cercando di pulire i residui di sangue «Mi chiamo Lucy, vengo da New York, assieme alla mia famiglia laggiù. Li vedi? Siamo un piccolo gruppo che è andato ingrandendosi durante il viaggio. Come ti chiami?»

«Leef Leroy. È una fortuna che siate riusciti ad arrivare fin qui. Vi porterò alla Nemesi.» rispose la ragazza, riconoscendo che il suo inglese non era dei migliori. Avrebbe voluto porre tante domande a quella gente, ma non riusciva a trovare i vocaboli adatti. In quel momento però un pensiero le attraversò la mente e la fece sobbalzare, esclamando «L’uomo che era con me?!»

La donna si fece improvvisamente titubante; torse il capo di lato, chiamando un uomo seduto alle sue spalle «Jonathan…»

Quest’ultimo si alzò, rivelando un fisico molto robusto, che lasciava però a intendere anche quanto l’uomo fosse avanti con gli anni; sembrava reduce da dure lotte per la sopravvivenza, e forse era proprio lui il capo di quella strana comitiva. Portava una barba bionda e incolta, aveva gli occhi stremati di chi ha visto troppo.

Si avvicinò alla ragazza e le fece cenno di seguirlo «Seguimi.» le disse, rivelando un forte accento del sud degli States.

Leef annuì, lasciandosi guidare nella notte attraverso quelle persone che la guardavano con sguardi pieni di speranza. Povera gente, pensò lei, attraverso quanti orrori dovevano essere passati…

L’uomo chiamato Jonathan la condusse fino ad un angolo appartato, dove riposava sotto un mucchio di coperte Lance, febbricitante.

La ragazza si catapultò accanto a lui per accertarsi delle sue condizioni ed abbracciarlo con slancio. Posò la mano sulla sua fronte, scoprendo che aveva la febbre alta, poi sistemò piano le coperte, cercando di non fargli prendere freddo. La spalla rotta era stata fasciata, così come una gamba, la cui benda era completamente colorata di rosso. Come si era procurato quella bruttissima ferita? La ragazza sentì una lacrima scendere lungo la guancia.

Si accovacciò vicino a lui, prendendogli la mano tremante «Lance… ti avevo detto di scappare, incosciente…» ma non poteva ottenere risposta.

Lance dormiva sonni violenti, e di tanto in tanto gli scappava dalle labbra qualche mugolio per il dolore.

«Ha perso molto sangue, ma ce la farà… credo.» disse alle sue spalle l’uomo.

«Non so come ringraziarvi…» mormorò Leef; nonostante le cure dei profughi, era però chiaro che Lance sarebbe peggiorato velocemente senza l’aiuto della Nemesi.

Doveva sbrigarsi e portare tutti quei poveracci in salvo.

Tornò per la strada per la quale era venuta, fino al luogo in cui si era svegliata. Fortunatamente avevano raccolto la sua borsa. Nell’aprirla trovò il cristallo di Berg e la cartina dove erano segnati tutti i punti d’ingresso della Nemesi; che fortuna, pensò, avevano raccolto proprio tutto senza rubare niente!

«Tu ci porti da Nemesi?» una vocina piccola e gentile colse Leef impreparata.

La ragazza si voltò, incontrando le iridi nere e spaventate di una bambina con le trecce disfatte; la scienziata sentì un colpo al cuore, rivedendo in quella bimba se stessa dopo il suo primo incontro con gli Alpha Nominus. Che ironia. Adesso era lei il membro della Nemesi che andava a salvare bambini dall’animo a pezzi.

Cerco di calmare i battiti troppo forti del cuore e, quando finalmente riuscì ad alzare lo sguardo, si accorse di aver catalizzato l’attenzione. La risposta che aveva inseguito per anni adesso le si palesava davanti agli occhi: il vero motivo per cui era entrata nella Nemesi non era sterminare gli Alpha Nominus, ma aiutare gli umani come lei.

Tornò a guardare la bambina con sguardo determinato ed un sorriso sicuro di sé, annuendo «Ci andiamo subito.»

La fanciulla sorrise.

 

 

***

 

“Manca poco…” pensava Leef mentre guidava la folla tra il buio degli edifici.

Avevano preferito muoversi immediatamente, di notte, in quanto gli Alpha Nominus, proprio come gli esseri umani, cacciavano di giorno e dormivano la notte.

L’entrata della Nemesi più vicina si trovava in una cabina telefonica a tre isolati dalla loro posizione, ormai mancava poco e già riusciva a vedere in lontananza il rosso della struttura, anche se non era ancora chiaramente visibile.

«Avanti!» spronò sottovoce quelli dietro di lei, indicando la cabina «Siamo arrivati!»

Diversi volti si colorarono di una meravigliosa speranza che Leef non vedeva da anni, poiché tutti alla Nemesi l’avevano persa. Diede un rapido sguardo alla coda della fila, dove stavano gli uomini più forti, imbracciando fucili e altre armi; uno di loro portava sulle spalle Lance ancora senza forze, con la gamba avvolta nelle garze ormai completamente bagnate di sangue.

La febbre si era alzata e le sue condizioni erano peggiorate, così come quelle del cuore di Leef, che si spezzava ogni volta che lo vedeva in quello stato.

Aveva scoperto che oltre Lance c’era anche un altro ferito: un uomo del gruppo, il quale aveva avuto un incontro troppo ravvicinato con un Alpha Nominus un’ora prima del loro ritrovamento. Aveva perso un braccio.

Si era posta diverse domande da allora: perché questa nuova tecnica di mordere invece che uccidere direttamente, così da dare la possibilità alle vittime di scappare? Solitamente un Alpha Nominus attaccava e o sbranava sul momento o assorbiva, così da riempirsi la pancia. Anche i suoi genitori erano stati assorbiti. Ma questo nuovo atteggiamento sembrava quasi marchiare le vittime come proprietà privata. E in tutta sincerità non le piaceva pensare che Lance era ora proprietà privata di uno di loro.

“Ci siamo” fortunatamente nessun mostro era in giro quella notte, dunque la ragazza poté aprire lentamente la porta della cabina, senza far rumore; entrò veloce e digitò sulla tastiera il numero segreto che attivava il pavimento sotto i suoi piedi, che in realtà era un ascensore.

Si fece poi da parte, spiegando sommariamente di entrare a coppie il più in fretta possibile. La folla si accalcava nella frenesia del momento, creando qualche rumore, ma sorprendentemente mostrarono un’ottima capacità di gestione del panico: prima furono messi in salvo donne e bambini, poi i feriti, poi i vecchi, infine gli uomini.

Pian piano tutti furono mandati giù, ma Leef volle essere l’ultima a scendere. Scoccò uno sguardo preoccupato a Lance agonizzante, mentre il suo profilo spariva con l’ascensore.

Quando rimase sola, si guardò intorno per un tempo indefinito, scrutando la notte alla ricerca di qualsiasi segnale: nessun rumore, nessun Alpha Nominus. Solo il silenzio di una città devastata.

Sospirò e finalmente entrò nella cabina, chiuse la porta, voltandosi verso il ricevitore. L’ascensore discese. Proprio nel momento in cui il profilo della strada spariva, due bagliori gialli illuminarono la notte, incontrando il suo sguardo.

A stento Leef trattenne un urlo spaventato, ma ormai era già sotto terra. Poggiò una mano contro il vetro dell’ascensore, mentre la terra scorreva intorno a lei. Aveva gli occhi sgranati e il cuore che batteva forte, il respiro affaticato. Dovevano distruggere quell’entrata, ora gli Alpha Nominus sapevano che quello era un punto di passaggio.

Quando finalmente giunse tra le bianche e rassicuranti pareti della Nemesi, andò subito alla ricerca di un membro della sicurezza. Lo trovò dopo pochi minuti: un vecchio soldato che imbracciava un kalashnikov.

«Ah, signorina Leroy. Ce ne sono altri?» si affrettò questo; era un uomo molto alto e ben impostato, vestito di blu, con la tipica divisa delle forze dell’ordine. Dietro di lui vi erano i profughi, salvi e sorridenti. Quella visione però non riuscì a rilassarla.

«No, io sono l’ultima. Gli Alpha Nominus ci hanno visti.» spiegò con una certa trepidazione, ma non ebbe bisogno di finire la frase.

L’agente annuì e s’incamminò verso il commando «Ostruiremo subito l’entrata.»

 

 

***

 

Erano passati tre giorni da quella notte, ma ancora la notizia dell’arrivo dei profughi era sulla bocca di tutti. Il gruppo era stato diviso, ognuno aveva ricevuto le giuste cure mediche e assistenza: per loro l’incubo era finito. Almeno per il momento.

L’entrata, la quale quella stessa notte era stata distrutta, non rappresentava più un pericolo. Jonathan, il capo dei profughi, stava pian piano imparando qualche parola di francese per comunicare con gli altri.

Lancelot Langford aveva sfiorato la morte più e più volte, ma l’aveva scampata; giaceva nel suo letto d’ospedale finalmente salvo, la sua vita non più in pericolo. Ora sorrideva a Leef e parlava con lei come se tutto non fosse mai accaduto.

«Questo pollo fa schifo!» si lamentava del cibo dell’ospedale ad ogni pasto.

«Mangia, devi recuperare le forze.» lo rimbeccò la ragazza, imboccandolo «Biasima te stesso! Guarda a che punto ci ha portati il tuo complesso dell’eroe.»

Lance sorrise e scosse la testa «Veramente… se qui c’è un eroe, sei tu! Io ho solo provato che il cristallo di Berg funziona eccome, ma tu hai salvato tutte quelle vite.» le sorrise con la bocca piena, ingurgitando tutto di forza. Sapeva che era cibo selezionato, tutto merito di una dieta per farlo guarire prima, ma ciò non toglieva che il pollo degli allevamenti bui della Nemesi facesse davvero schifo.

«No. Tu hai dimostrato che il cristallo funziona, mi hai salvato la vita, poi loro hanno salvato le nostre e infine io le loro.» come sempre Leef faceva della logica il suo marchio di fabbrica, ma quando non teneva in mano due pistole calibro 36 era anche una donna che si avvicinava alla definizione di femminile; aveva raccolto i capelli in una lunga treccia con cui litigava in continuazione. Sapeva però che Lance amava le trecce, quindi… perché non farlo felice?

Spostò lo sguardo preoccupato verso la gamba di lui e chiese piano «Come va la gamba?»

«Benissimo!» mentì lui, ricevendo in cambio un’occhiataccia.

Eppure cercava di non farla preoccupare, o almeno non troppo; era stato uno sprovveduto a mettersi in quella situazione, si sentiva molto in colpa anche se non lo dava a vedere «Beh, meglio di prima. Anche se ho uno strano gonfiore…» lasciando cadere la cosa, prima che Leef chiamasse a raccolta l’intero staff medico, dirottò l’argomento su ben altro «Ah! Non ho avuto la possibilità di parlartene prima. A casa nostra, sul tavolo della cucina, ho lasciato un regalo incartato con una bustina blu. È per te, mon amour.»

«Un regalo?» lo guardò di sbieco Leef, la facciata di dura crollò all’istante e si concesse un sorriso «Non... me lo aspettavo. Grazie…»

Che cosa carina. Così carina ma anche così improvvisa che…

«Ah! Non penserai di distrarmi dal farti pranzare, eh!?»

«Nooooo! Ti prego! Basta!» che misero fallimento, Lance!

Mentre Lance si agitava, cercando di evitare la forchetta di lei che doveva imboccarlo, la porta della stanza si aprì, sbattendo contro il muro.

Jonathan del gruppo di profughi entrò trafelato, con gli occhi sgranati, pallido e madido di sudore; era talmente terrorizzato che la coppia per un attimo temette che gli Alpha Nominus fossero riusciti a penetrare nella sede, ma quando parlò il messaggio fu ben diverso «Signorina Leroy! Il mio amico! Presto, mi segua!»

Lance e Leef si scambiarono un’occhiata stranita, quindi la donna si alzò ed abbandonò sul tavolino il pranzo. Quando Leef fu fuori, Lance cacciò un’occhiata disgustata al pollo.

«Aaah… questa dannata gamba fa davvero un male cane…»

 

 

***

 

Leef venne condotta tre corridoi accanto, dove riposava il paziente che aveva subìto lo stesso trattamento di Lance; già avvicinandosi poté sentire urla disumane che provenivano da lì. Urla che le fecero gelare il sangue nelle vene.

“Come ha fatto un Alpha Nominus ad entrare?!” si chiese sbalordita, accelerando il passo.

Lo spettacolo che si ritrovò davanti era a dir poco terrificante. Tre infermiere giacevano a terra in un lago di sangue, due col volto dilaniato e una ridotta a uno scheletro a cui non era stata assorbita solamente la testa. Due dottori cercavano scampo ammassandosi contro le pareti, mentre cinque agenti della sicurezza scaricavano cartucce su cartucce coi loro fucili.

Un Alpha Nominus si accasciò a terra nello stesso momento in cui Leef entrò.

«Ah! Cosa diavolo è successo qui…?!» esclamò la ragazza, facendo spontaneamente un passo indietro.

Il mostro era morto, lo avevano esposto alla luce del cristallo di Berg, il quale era stato clonato ed era pronto per essere trasformato in proiettili per uccidere i mostri.

Urlando, Jonathan si accasciò a terra accanto a lei; un atteggiamento che Leef non comprese e che la lasciò assolutamente sbigottita: perché stava piangendo per la morte di un Alpha Nominus? Gli aveva dato di volta il cervello?

Un dottore, uno dei pochi sopravvissuti, le si avvicinò; era coperto di sangue ma non sembrava aver riportato ferite gravi, tutto ciò che voleva era uscire da quell’inferno maleodorante. Le fece cenno di seguirlo, e Leef lasciò Jonathan solo assieme al suo inspiegabile dolore.

Cominciarono ad allontanarsi in silenzio, mentre sentivano ancora il capo dei profughi disperarsi.

«Cosa diavolo è successo qui dentro?» ripeté lei, aiutandolo mentre l’altro arrancava in direzione di una sedia.

«Quello che sto per dirle potrebbe scioccarla… lei ha condotto questi stranieri qui, giusto?» lo specialista vi si lasciò cadere sopra e trasse un profondo sospiro, pulendosi il sangue dal viso; i primi aiuti cominciavano ad arrivare e il corridoio a popolarsi, ma Leef aveva attenzione solo per lui. Annuì con convinzione.

«Solo quell’uomo era ferito, giusto? Nessuno ha riportato ferite abbastanza leggere da non esserci segnalate?» gli tremò la voce e si passò una mano sulla fronte, poi si sistemò gli occhiali e si passò di nuovo la mano sulla fronte. Stava per impazzire?

La donna annuì ancora, cominciando però a perdere la pazienza «No, nessun ferito stando a quanto mi è stato detto.»

«Signorina Leroy...» l’uomo a quel punto si fermò, voltandosi per fulminare Leef con gli occhi «Quell’uomo si è mutato davanti ai miei occhi in un Alpha Nominus.»

Leef pensò si aver sentito male, oppure di essere diventata pazza come Jonathan. Non poteva esserci altra spiegazione. A stento, con voce flebile e sconvolta, mormorò «Come, scusi?» e per poco non gli rise in faccia, tanto era assurdo quel discorso.

Le stava dicendo che gli Alpha Nominus adesso rinunciavano a un pasto fresco per… riprodursi trasformando gli umani? Come gli zombie o i vampiri delle leggende? Era un pessimo scherzo forse? La voleva prendere in giro?

«Non sappiamo come. Non ne abbiamo la minima idea.» confessò il dottore «Non è mai successo niente di lontanamente simile. Il paziente ha cominciato ad accusare dei dolori molto forti alla spalla. Sembra che gli abbiano iniettato qualcosa che i nostri strumenti non sono in grado di riconoscere.»

Ma Leef non lo ascoltava. La notizia l’aveva segnata dentro, nel profondo. Quell’uomo era stato morso un’ora prima di Lance.

«No…» Leef provava a trattenersi mentre su di lei scendeva un velo freddo.

La mente le si era di colpo fermata.

«Dannazione!» urlò con tutto il fiato che aveva in gola.

Abbandonò il medico, correndo a perdifiato verso la stanza dove aveva lasciato Lance. Urtò innumerevoli volte contro i passanti che avevano deciso di farle da muro, imprecando e intimando di togliersi di mezzo.

Il cuore le salì in gola quando vide che la porta della stanza 24 era aperta.

Tutto il puzzle ora assumeva la sua vera forma, molte domande ottenevano risposta. Era un orrendo, disgustoso puzzle. La ragazza pregò una qualche assurda divinità che fosse tutto un incubo.

“No… non può essere vero…” sentì di star piangendo, una cosa così irrazionale per lei.

Finalmente giunse la stanza, col fiato mozzato e i polmoni doloranti.

Guardò dentro. Non c’era nessuno. Il letto era sotto sopra, le lenzuola strappate.

Leef si accasciò a terra, senza forze né pensieri «Lance…»

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Dei Verbum ***


Twilight

Lost Light 2.0

5 – Dei Verbum

 

Ancora un’altra notte calava sulla Nemesi.

Quando la grande lampada che imitava la luce del sole si spegneva, allora era ora di andare a letto; il sonno era prezioso, i sopravvissuti lo sapevano e stavano ben attenti a non fare rumore. Nessuno usciva più la sera, nessuno si attardava senza motivo.

La gente aveva paura, un’indescrivibile, aggressiva paura che sfociava nella nevrosi.

In una modesta casa nel centro città, due figure passavano tranquillamente la loro serata davanti al camino; tenevano in mano una tazza di cioccolata calda ciascuno, il cui fumo creava strane forme alquanto sinistre in aria. Erano entrambi avvolti in una coperta rossa. Leef e Lance avevano deciso di andare a convivere due mesi prima e ormai era quasi tradizione passare le gelide sere d’inverno davanti al camino, lei poggiata al petto di lui, mentre, tra una cioccolata calda e un pulsare di fiamma, parlavano, si raccontavano ciò che avevano fatto quel giorno, pensavano al futuro e confrontavano le loro idee, a volte sfociando in interminabili dibattiti.

Quella sera, Leef era mezza addormentata.

«Sicura che non sia ora di andare a dormire?» chiese l’uomo, poggiando sul tappeto la tazza e cominciando a carezzarle la guancia «Sei davvero stremata.»

«Tranquillo, è solo che oggi Renoir mi ha fatta lavorare più del solito.» sorrise lei, mostrando quel delizioso sorriso che riservava solo a lui «Non preoccuparti.»

«Oh, non cominciamo.» rise lui col suo solito fare premuroso «Altrimenti restiamo qui fino all’una, come l’altra volta, a dibattere se devo o no preoccuparmi per te!»

La ragazza cercava di tenersi sveglia, ma con una voce così bassa nelle orecchie era molto difficile. Accennò un sorriso, annuendo col capo «Tanto lo sai che ho sempre ragione io.»

«Sissignora!»

Arrendersi era inevitabile: per quanto fosse un piacere per gli occhi vederla per una volta così indifesa e spontanea, di un altro dibattito lungo fino al mattino non ne aveva proprio voglia.

«La settimana prossima salirò in superficie. Mi chiedo quanto sia cambiato il mondo durante la mia assenza.» sarebbe stata per Lance la sua prima missione da cacciatore: esplorare un ristretto territorio. In caso di attacco da parte degli Alpha Nominus sarebbe dovuto tornare il più in fretta possibile alla Nemesi.

«Vorrei venire con te…» rispose allora Leef, non le andava assolutamente bene saperlo solo là fuori: le faceva molta paura «Anzi, un giorno verrò con te.»

Lance le sorrise, carezzandole la guancia «Intanto devi pensare a studiare, mia piccola scienziata in erba. Lascia tutto il resto ai cacciatori.» quindi, con un velo di improvvisa determinazione, si voltò ad osservare le fiamme ardere «Ti proteggerò io, che tu lo voglia o no. È una promessa.»

 

 

***

 

Il sole tramontava placidamente, come se la peste che stava corrompendo il mondo non lo turbasse affatto. Un po’ come Dio.

Ma la stessa cosa non era per le persone che combattevano come animali per sopravvivere.

Il centro città era desolato e la Torre Eiffel sembrava più alta del solito. Non si era mai reso conto di quanto fosse bella, nonostante da bambino passasse tutti i pomeriggi a giocare ai suoi piedi con la sorella minore. Si trovavano proprio lì quando i suoi occhi avevano quelli di un Alpha Nominus per la prima volta, tanto tempo prima…

 

 

-          Tre mesi dopo l’inizio dell’invasione -

 

«Fratello! Corri!» la bambina dai lunghi capelli biondi e lo sguardo innocente con cui era cresciuto non sembrava più la stessa. Non aveva mai visto il suo viso talmente tanto deturpato dalla paura. Correva verso di lui sobbalzando ad ogni rumore, sporca di sangue.

«Che succede, Natalia?» chiese inutilmente Lance; era una domanda retorica. I Langford erano tra i pochi quelli che non avevano ricevuto i permessi necessari per scendere nella Nemesi.

Era chiaro ciò che stava accadendo: erano lì per loro. La bambina continuava ad avanzare verso di lui, Lance le fu accanto in un batter d’occhio, giusto in tempo per vedere i cadaveri dei loro genitori abbandonati in strada dietro di lei. Come tutti gli altri, erano stati assorbiti, di loro non rimanevano che due cadaveri scarnificati, coi volti allungati in un grido di dolore.

Il ragazzino bloccò per miracolo il conato di vomito che sentì salirgli in gola, ma la sua mente e in generale tutto il corpo non rispondevano ai suoi stimoli. Doveva correre. Doveva salvarsi la pelle a qualsiasi costo, anche se significava abbandonare le carcasse di suo padre e sua madre.

Anche se significava soccombere all’istinto di sopravvivenza e perdere lucidità.

«Ci sono i mostri, fratellone!» strillava forte Natalia, mentre intorno a loro la gente impazziva e si mescolava come una massa informe.

Agli occhi di Lance era tutto molto sfocato in quel momento; forse per la paura, forse per il buio che era improvvisamente calato sulla piazza. Le iridi verdi del bambino però erano ancora puntate su quelli dei genitori che voleva abbandonare ma non riusciva ad abbandonare.

Quando avevano sofferto mamma e papà?

«Fratello!»

Non aveva mai visto nessuno assorbito: perché proprio loro?

«Fratello!» la piccola Natalia si era nascosta sotto la sua giacca per disperazione, tremando come una foglia, mentre con le mani stringeva i jeans del ragazzino spasmodicamente. Lei forse non aveva neppure capito che proprio quelle persone erano i suoi genitori, forse non aveva capito proprio niente.

«Fratello!»

Lance si risvegliò dalla sua trance nel momento in cui il suo sguardo fu intercettato da una luminescenza giallastra.

«Lance!»

Agì il più in fretta possibile. Prese in braccio la sorella, giusto in tempo per evitare che tre artigli neri gli si conficcassero nella schiena. L’Alpha Nominus lanciò un urlo d’ira per aver mancato la preda, ma Lance e Natalia erano già piuttosto lontani.

Il bambino ordinò alla sorella di tacere, così avrebbero avuto una possibilità di passare inosservati in mezzo alla folla urlante. Una possibilità su mille di farcela: tra tutte, quella possibilità doveva essere la loro.

Non ce n’era solo uno, di mostro, ma moltissimi; i due fratelli ne potevano contare una decina nella piazza. La strada era scivolosa, putrida di qualsiasi tipo di orrore che un bambino non dovrebbe conoscere.

Ormai Lance non ragionava, si limitava a correre in direzione dell’entrata della Nemesi più vicina, come tutti del resto. Sentiva dietro di lui lo stesso Alpha Nominus di poco prima: li stava inseguendo. Cosa potevano fare?

La mente del giovane cominciò a rielaborare idee; dovevano trovare una strada alternativa. Le entrate della Nemesi erano una sotto la Torre Eiffel, distrutta dall’arrivo degli Alpha Nominus, l’altra poco lontana dall’Arco di Trionfo, un’altra alle Champs Elysées, una a Palais Royal e l’ultima, la meno conosciuta… a Notre Dame.

Correndo come un pazzo attraverso il Pont d’léna e tenendo stretta la sorella, prefigurava già una cartina per raggiungere la meta parecchio lontana. Quattro chilometri! Non potevano farcela!

«Lance, dove stiamo andando?!» strillò la bimba, ma non ottenne ancora una volta risposta; sentiva solo il respiro affannato del fratello e il mescolarsi di grida tanto fitte da disperdere la differenza tra quelle umane e disumane.

«Dobbiamo nasconderci, vieni!»

Lance la trascinò via, in direzione delle case ai lati della strada: se si fossero rifugiati in una di quelle già distrutte forse avrebbero avuto qualche possibilità, almeno di sfuggire allo scempio in corso.

Notò di sfuggita due persone entrare in un edificio che sembrava pubblico, così corse verso di loro, che però, con gli occhi sbarrati, gli chiusero la porta in faccia.

«Fermi! Aprite!» urlò il bambino, e una volta raggiunto il portone lo tempestò di pugni; teneva la sorellina ancora nascosta, bloccata tra lui e la porta, in modo da coprirla, ma da dentro non proveniva nessun suono. Lance cominciava ad avere paura di essere stato tradito dalla sua stessa razza. Volevano lasciarli morire? Avevano il cuore di lasciar morire una bambina piccola come Natalia?

«Aprite, maledetti!»

A quel punto però un altro urlo riecheggiò, e non proveniva dai due fratelli. Il pugno si bloccò a mezz’aria, mentre Lance, con la mente in tilt, si voltava lentamente, scorgendo di fianco a loro uno dei mostri.

L’Alpha Nominus si lanciò addosso ai due con una corsa sfrenata, da lì in poi per Lance era stato buio assoluto. Ricordava solo l’urlo di sua sorella Natalia, impresso col fuoco nella sua mente. Per sempre.

 

 

 

***

 

La notte calò silenziosa e amara. Si trovava ancora lì, davanti alla torre, in attesa.

L’uomo stringeva col forza la gamba dolorante, che bruciava così tanto da sembrare pronta a staccarsi di netto.

A un certo punto, stanco di quel dolore massacrante, aveva strappato il pantalone, raggelando alla vista di ciò che gli stava realmente accadendo: la pelle era nera, dura e gelida.

Buffo, sorrideva amaramente ora, che proprio a lui, un cacciatore di Alpha Nominus, fosse toccato questo destino crudele. Ma lo aveva capito nel momento in cui si era svegliato in ospedale: non sapeva come e perché, ma lo aveva capito davvero. L’importante era essere riuscito a star un altro po’ con Leef.

Ed ora, con gli occhi spenti che contemplavano la grande torre, Lance ripercorreva con la mente la sua vita, ponendosi nuovi interrogativi che sarebbero rimasti senza risposta. Si augurava con tutto il cuore che Leef riuscisse a superare lo shock di aver perso anche lui; ormai ne era sicuro, per chi come lui aveva intrapreso quel processo di mutazione non v’era scampo.

Una fitta allo stomaco lo costrinse a piegarsi in due, mentre sentiva in bocca il sapore del sangue. Cadendo rovinosamente per terra, lottò contro un terribile senso di stanchezza che lo aveva assalito.

Che fine penosa… mentre cercava di trattenersi dall’urlare sperava di morire in fretta, prima di trasformarsi. L’unica cosa che ancora desiderava era non essere costretto in futuro, cedendo a istinti famelici, ad attaccare altri esseri umani.

Non voleva… sarebbe stato troppo…

Proprio mentre chiudeva gli occhi, ora di un verde tendente al giallo, gli parve di udire poco lontani versi divertiti. Riusciva a capire quello che dicevano. Non erano più semplici versi striduli: erano parole. Dio, riusciva a comprendere la loro lingua.

«Te l’avevo detto che ci saremmo rivisti.»

 

 

 

***

 

Dopo la fuga del Cacciatore Lance Langford dall’ospedale e la nuova, agghiacciante scoperta sugli Alpha Nominus, la Nemesi era caduta preda del caos. Nessuno era più al sicuro, nessuno poteva più salire in superficie senza provocare delirio e panico. E, in fondo, non si poteva dar torto a nessuno.

La gente aveva paura, la reazione più naturale del mondo.

Leef non era più uscita di casa. Da due giorni compilava richieste su richieste, ma nessuno voleva accordarle il permesso per uscire in superficie, e di certo non poteva andare nel mondo di sopra senza le dovute armi, che solo attraverso la Nemesi avrebbe ottenuto. Non riusciva a dormire, ogni volta che chiudeva gli occhi rivedeva il volto di Lance, ora là fuori, probabilmente in procinto di trasformarsi.

Abbandonata alla disperazione e alla solitudine, si trascinava per casa in cerca di qualcosa che potesse anche lontanamente somigliare a un’arma. Sperava con tutto il cuore che Lance avesse con sé la piccola scheggia di cristallo di Berg che era stata consegnata ad ogni membro della Nemesi; magari, visto che ormai tutta quella faccenda rasentava il sovrannaturale, premerlo sulla pelle o chissà cosa avrebbe rallentato la trasformazione.

Gli occhi blu della donna capitarono su un pacchetto rosso messo in bella vista sul tavolo: non aveva ancora avuto il coraggio di aprirlo, era ormai una specie di reliquia nel suo immaginario. Il sorriso di Lance le ingombrò la mente e non fu più in grado di reprimere urla e lacrime.

Era incredibile, si ripeteva, che adesso pure l’unica persona rimastale le fosse stata strappata dagli Alpha Nominus. Che cosa avrebbe fatto? Che cosa poteva fare?

 

Ore 21.36.

«Signorina Leef! Apra la porta!»

La voce di Jonathan costrinse Leef a riaprire gli occhi, scoprendo così di essersi miseramente addormentata contro il muro; con la testa che le faceva male e la nausea di chi mangia poco da tempo, osservò l’orologio, notando che aveva passato ben sei ore in quello stato.

Barcollando si rialzò, andando poi verso la porta dell’appartamento. Inciampò sul tappeto e cadde a terra, ma spinta dal pensiero di dover aprire quella dannata porta si rimise in piedi e finalmente la raggiunse.

«Jonathan…» mormorò a pezzi, quando si trovò davanti il capo dei profughi.

«Signorina Leef.» l’uomo appariva molto provato, quasi quanto lei. La perdita del loro compagno doveva aver causato moltissimo dolore all’interno del gruppo dei profughi.

Leef inclinò in capo davanti alle occhiaie dell’uomo, il quale riprese a parlare, ora con voce ora più ferma.

«Ahh… questo è difficile. Da dove posso cominciare?»

«Dall’inizio.» fu la gelida risposta dell’altra, mentre incrociava le braccia al petto «Vuoi entrare?» domandò poi con voce non molto gentile, ma quale gentilezza si poteva pretendere in un momento simile?

«No, no…» rispose prontamente lui «Sono venuto a chiederti se vuoi venire con noi.»

Non le sembrava proprio il caso di uscire, specialmente nelle condizioni in cui era, perciò domandò «Dove?»

Ed egli, sottovoce come se stesse confessando un segreto, mormorò «Sopra.»

Leef sgranò gli occhi, per lo stupore sciolse senza rendersene conto le braccia e la sua voce tradì tutta la sua incredulità «Avete i permessi?»

Sempre con discrezione, e stavolta anche con un po’ d’imbarazzo, quello disse «No. Ma abbiamo le armi. Non chiedere come le abbiamo recuperate.»

Americani. Tipico di loro. Non avevano il permesso ma hanno le armi. E le armi erano quello che serviva, al diavolo il permesso! Al diavolo la Nemesi, al diavolo tutto ciò per cui aveva creduto di lottare fino a quel momento: ciò per cui aveva lottato fino a quel momento in realtà era in superficie.

«Mi unisco a voi.» fu la pronta risposta della scienziata, accompagnata da un sorriso nervoso «Datemi mezz’ora per prepararmi.»

La conversazione era stata molto breve, ma era riuscita a infondere nella donna una nuova energia: si sentiva tremare, era così carica che avrebbe potuto combattere anche a mani nude! Finalmente poteva andarsene da lì!

Concordò con Jonathan il luogo dove incontrarsi mezz’ora dopo, una volta entrata in casa si gettò a fare tutto ciò che non aveva fatto in due giorni: una doccia, mangiare e rifocillarsi, preparare lo zaino con provviste, medicine, una torcia e ogni cosa che le sarebbe potuta servire. Prese anche il regalo di Lance, e dopo aver scoccato un ultimo sguardo alla sua piccola casa, nella quale era sicura che non sarebbe più tornata, lo scartò con mani insicure e occhi timidi come quelli di una bambina.

Quando raggiunse il gruppo di Jonathan, aveva all’anulare sinistro un anello bianco.

 

Ore 22.48.

La battaglia che in seguito si consumò venne ricordata per sempre. Mai si sarebbe detto che quegli uomini sarebbero anche solo riusciti a uscire dalla Nemesi, eppure così fu. La paura degli Alpha Nominus, mista alla paura delle armi portate in mano dai rivoltosi – molto più numerosi di quanto si pensasse - e alla consapevolezza che o per mano loro o per mano dei mostri sarebbero morti comunque, convinse le guardie a lasciarli passare.

Era piena notte quando il gruppo raggiunse terra. Avevano usato uno degli ascensori che portavano direttamente al centro di Parigi, dove sapevano essere annidati i mostri.

Leef aveva pensato a lungo. Si era posta molte domande e alcune le aveva pure condivise col resto del gruppo.

«Che fine ha fatto il primo Alpha Nominus?» aveva chiesto a Jonathan.

La fine del primo Alpha Nominus era sempre stata un mistero; nemmeno lei, che aveva cominciato ad operare solo anni dopo quella storia seppure in sfere relativamente alte, aveva accesso a dati ormai censurati da tempo.

L’uomo aveva impiegato diversi secondi a rispondere, troppo occupato a guardarsi intorno. Il gruppo camminava compatto: erano in molti e ognuno aveva una gran scorta di cristallo di Berg sia sui vestiti che nelle armi.

Leef aveva ricevuto una spada molto pesante, che le ricordava un po’ quella di Lance.

«È stato trasferito. Ma non so dove…» rispose infine Jonathan, col suo marcato accento americano e difficoltà nel trovare alcune parole «L’ho letto in un… err, an article

«Un articolo?» gli suggerì la donna, che gli camminava a fianco.

«Bingo!» esclamò allora lui; non aveva problemi ad alzare la voce, il loro scopo era farsi sentire e attirarli mentre si addentravano sempre più dentro Parigi, la loro destinazione era la piazza della Torre Eiffel «La teoria più accreditata era che fosse un… un coso, uhm… un nesso, ecco.»

Leef si fermò, guardandolo accigliata «Un nesso?»

«Corretto. Un nesso che li tiene in vita tutti. Ma sono solo leggende ormai.»

Un nuovo barlume di speranza si accese in Leef, come una luce alla fine di un tunnel buio e stretto: non si sarebbe stupita se, dopo l’allergia al cristallo di Berg, anche quella diceria si fosse rivelata vera. Forse sarebbe stato troppo facile, troppo vantaggioso… ma anche ingegnoso, se i fautori di questo legame fossero stati proprio coloro che lo avevano creato. Un’assicurazione sulla vita, insomma, la certezza di poterli eliminare tutti uccidendone uno.

Ricordava bene la notte della creazione del primo Alpha Nominus, o meglio, ricordava le registrazioni fatte e poi mostratele: era stato creato negli Stati Uniti, dove aveva vissuto i suoi primi dieci anni di vita, per poi essere trasferito in Germania; dagli ultimi rapporti effettuati prima che gli Alpha Nominus prendessero il controllo, risultava che numero uno fosse fuggito dal suo laboratorio, e l’ultima notizia su di lui affermava la sua presenza a Parigi, per combattere la Nemesi, che lì aveva sede e quindi vi era una grande affluenza di umani.

Ma un interrogativo restava… era ancora a Parigi?

 

Ore 23.51.

Quando Leef vide gli Alpha Nominus venirle addosso in massa ebbe davvero paura. Dapprima utilizzò una pistola – caricata a proiettili fatti di cristallo di Berg -, riuscendo senza difficoltà a ucciderne molti in breve tempo. Il risultato la lasciò semplicemente stupefatta, tanto da farle credere di essere in un sogno.

«Siete dannatamente deboli, ora!» esclamò con goliardia, soddisfatta davanti ai cadaveri di quei mostri che le avevano rovinato la vita. La vendetta aveva un sapore così dolce… eppure lasciava un retrogusto amaro in bocca.

Dopo il primo scontro avevano scoperto di essere vicini alla zona più colma di mostri dell’intera città, considerata un po’ il loro covo.

Attraversarono con difficoltà la Avenue de La Motte-Picquet, la lunghissima strada perpendicolare alla piazza della Torre Eiffel, che sapevano per esperienza essere uno dei pochi luoghi non densamente popolati dai nemici. Nonostante ciò, non fu un’impresa facile.

Leef fu seriamente in pericolo quando, concentrandosi su un lato da cui due mostri la stavano raggiungendo, non si accorse di un altro che l’aveva presa alle spalle, colpendola con violenza alla schiena. La ragazza cadde sull’asfalto polveroso e pieno di fosse come un peso morto, senza però perdersi d’animo, quindi alzò la pistola, sparando al mostro dritto in faccia.

Si ritrovò poi addosso gli altri e per un attimo rivide la scena durante la quale Lance l’aveva salvata da tre Alpha Nominus a costo della sua stessa vita.

Fu questo pensiero a spingerla ad estrarre la spada e tranciare di netto vari arti dei mostri che le si erano buttati addosso, con la forza della disperazione.

Un odio sconfinato aveva poi guidato la truppa, che fin ora aveva perso cinque elementi, fino alla Anatole France, e poi alla Charles Risler e su, sempre più su.

Fin quando Leef si trovò innanzi alla torre.

Da quanto tempo non la vedeva? Anni, da quando l’aveva visitata prima che i suoi genitori venissero uccisi. Il quartiere era troppo denso di Alpha Nominus per permettersi di avvicinarsi.

Era stata bellissima un tempo, ma ora era uno spettacolo tanto macabro quanto violento; evidentemente, infatti, i mostri l’avevano scambiata per una casa comune, e si trovavano tutti lì, attorno ad essa, stipati come mobili in un garage.

Quanti erano? Più di una cinquantina, sicuramente. Pensare che quella era solo una piccola parte di quelli che si erano sostituiti al genere umano fece rivoltare lo stomaco di Leef.

Gli umani si mossero. Cinquanta uomini contro una sessantina di Alpha Nominus: una battaglia impari, che sembrava persa in partenza. Le urla dei mostri erano tanto assordanti, Leef si convinse di una cosa: se mai fosse sopravvissuta, ipotesi piuttosto remota, sarebbe rimasta sorda.

Non c’era più paura nell’aria, solo rabbia repressa, talmente tanta che sembrava essere l’unico sentimento rimasto al mondo, pronto ad assistere a quella che poteva l’ultima guerra della storia.

«È la resa dei conti, bastardi…» sussurrò Leef, e la sua flebile voce si perse nelle profondità della notte buia.

Nonostante il buio però la visibilità era ottima, infatti l’impianto luminoso della torre funzionava ancora, garantendo un’illuminazione piuttosto decente alla piazza che era il campo di battaglia.

Gli umani erano stati portati lì dall’esasperazione. Sapevano che era una follia, che probabilmente anche uccidendo tutti gli Alpha Nominus di Parigi il giorno dopo ne sarebbero arrivati dei nuovi, ma tra colui che aspetta la morte o colui che va incontro alla morte, chi è il più pazzo?

Forse fu proprio il coraggio di questi ultimi a smuovere gli animi di quelli che erano rimasti nella Nemesi, ed ecco perché, a battaglia già iniziata, mentre Leef combatteva con tutta se stessa, sentì delle urla umane in lontananza.

Voltandosi avvertì una stretta al cuore.

Una nuova onda di umani era uscita dalla Nemesi, armata fino ai denti, pronti ad unirsi alla battaglia. Adesso gli umani erano in netta maggioranza, tanto che persino qualche Alpha Nominus se la diede a gambe.

I bagliori dei cristalli di Berg illuminavano la notte, come un ultimo barlume di speranza contro il nero dei corpi dei mostri.

Leef si sentì felice: gli uomini rimasti sul pianeta Terra si erano unificati come un’unica enorme forza distruttrice, assetata di vendetta e di nuova vita, combattendo il nemico artificiale. Quella notte si faceva la storia.

Leef attraversò a grandi falcate il campo di battaglia, il quale sembrava davvero uno spettacolo di luci. L’azzurro dei cristalli di Berg si mescolava al buio e al bianco dei fari, creando sfumature e giochi di colori senza senso, intrisi di pazzia, che si concludevano irrimediabilmente con la morte di uno dei combattenti. Ne cadevano tanti, così tanti da non poterli contare; corpi che si mescolavano, sangue che sgorgava dalle ferite, cadaveri che si accasciavano e rumore di armi che si infrangevano, questo era ciò che si scatenava intorno a Leef.  

Le facevano male le gambe, aveva il fiato pesante e il cuore che batteva per l’emozione; ma, in mezzo al tripudio di suoni indefiniti, trovò la forza di elevarsi al di sopra di tutti e tutto, urlando l’inno di battaglia del genere umano «Umani! Combattiamo per il nostro futuro!»

Nuove grida, emozionate quanto le sue, l’accompagnarono nel caos generale. Leef sentì di star davvero rasentando la pazzia, eppure aveva ancora una cosa da dire, che però non poté far altro che mormorare: era più un augurio che una certezza, mentre l’immagine di Lance diventava sempre più forte nei suoi pensieri «E che Dio ci aiuti…»

 

Ore 05.59.

La battaglia era stata a dir poco terribile e ancora non accennava a finire. La notte stava abbandonando la scena, lasciando che il cielo si schiarisse pian piano, con l’avanzare delle ore. Presto il sole sarebbe sorto.

Le perdite erano state gravi da entrambe le parti: se da una schiera rimanevano una ventina di Alpha Nominus, almeno un centinaio umani erano morti. Ognuno si arrangiava come poteva, mostro o uomo.

Leef era stancamente alla ricerca di Jonathan – ammesso che egli fosse ancora vivo. Tra le file dei sopravvissuti si sentiva la stanchezza, molti faticavano addirittura a reggersi in piedi, ma ormai erano vicinissimi alla vittoria ed era vitale distruggere tutti gli Alpha Nominus prima che questi avessero il tempo di riprodursi. La situazione era a dir poco disperata, ma ancora intrisa di quella folle speranza che animava i combattenti.

«Jonathan!» urlò Leef con quel po’ di fiato che le rimaneva in gola quando scorse l’uomo «Resisti!»

Il capo dei profughi se la stava cavando bene. La sua furia continuava a mietere vittime a colpi di spada. Fece un cenno affermativo con il capo, senza però voltarsi verso Leef, troppo concentrato sullo scontro.

La ragazza si voltò invece per correre di nuovo verso la torre, stavolta senza fermarsi; aveva intenzione di giungere sotto di essa per controllare la situazione. Percorse lesta la piazza, evitando i corpi e stando attenta a non scivolare sul sangue, ignorando il ribrezzo che provava ogni volta che le si prospettava davanti un arto staccato o un cadavere umano. Non era il momento di fare gli schizzinosi. Ormai gli Alpha Nominus non provavano più ad attaccarla, avevano capito di essere spacciati e molti di loro tentavano di allontanarsi, dunque non ebbe problemi a passare in mezzo a loro mentre ne affettava qualcuno con la spada ormai irrimediabilmente danneggiata.

Era irriconoscibile. Completamente sporca di sangue, coi vestiti strappati e gli occhi spiritati, rossa in viso per gli sforzi che stava compiendo.

Raggiunse la torre col cuore che galoppava, fermandosi giusto un attimo per riprendere fiato. Stranamente non v’era nessuno, né umano né mostro. Leef si guardava intorno sospettando che fosse un agguato. Ma non lo era affatto, anzi il nemico venne alla luce da solo.

Un suono terribile si espanse nell’aria, mentre tre metri di Alpha Nominus leggermente diverso dagli altri avanzava verso la ragazza.

Era completamente nero come tutti gli altri, a parte per gli occhi gialli, ma a differenza degli altri Alpha Nominus aveva delle lame sulle braccia e grandissime ali di almeno tre metri spalancate in orizzontale. Emetteva un suono orribile, come un ringhio.

Leef sentì le ginocchia minacciare di cedere.

Il Nesso. Non poteva essere nient’altro. Quello era davvero il Nesso. Era a Parigi ed era lì, davanti a lei: l’occasione di mettere fine a quell’inferno era a portata di mano.

Il mondo a quel punto sparì: c’erano solo lei e il Nesso.

«Vostra altezza…» sorrise, percorsa da un’adrenalina incontrastabile comandarle di non perdere altro tempo. Prima dell’alba il re sarebbe caduto giù dal trono «Pronto ad abdicare?»

Alzò la spada, pronta ad affondarla, quindi si lanciò contro il mostro.

Nonostante sembrasse goffo, il Nesso era furbo e soprattutto forte. Parò senza problemi il colpo di Leef, incrociando le sue lame con quella della spada, e i loro occhi potettero specchiarsi gli uni negli altri per un attimo.

La scienziata non era mai stata tanto vicina a uno di loro senza poterlo uccidere.

Capendo che non aveva speranze contro un mostro con quella forza, si tirò indietro con disappunto. Il cristallo di Berg non lo aveva scalfito più di tanto.

«Quindi sei forte, bastardo.»

Pensò di puntare sulla velocità, quindi estrasse la pistola, ma non riuscì a sparare nemmeno un colpo che dovette scansarsi per non essere colpita dal contrattacco del mostro, che aveva fatto un santo in avanti per afferrarla. Rivelando una velocità che lei non gli avrebbe mai attribuito a causa della stazza, la seguì poi agitando le braccia, cercando di colpirla con fendenti che più di una volta la presero, ferendola.

Leef venne colpita alla testa, procurandosi l’ennesimo taglio. Finita a terra, notò con orrore che la ferita sanguinava abbastanza copiosamente; ben presto si ritrovò l’occhio destro coperto da un velo rosso e fu costretta a fermarsi un attimo per pulirselo, altrimenti sarebbe rimasta per metà cieca. Grave errore.

Il Nesso la raggiunse in fretta, nonostante ella si fosse trascinata più lontano che poteva, inchiodandola al pavimento con un’ala appuntita, che passò da parte a parte la gamba sinistra della giovane. Ella lanciò un urlo, sentendo il sangue salirle lungo la gola e i muscoli della parte inferiore del corpo abbandonarla. Alzò con la forza della disperazione la pistola e sparò uno, due, tre colpi contro il mostro. Solo al quarto però riuscì a provocare una sua reazione, forse perché i primi tre non l’avevano neanche colpito. Leef non lo sapeva, non riusciva più a vedere niente e la testa le faceva troppo male per ragionare.

Il mostro urlò con tutta la voce che aveva, alzando lo sguardo. Leef sentì sotto la camicia, tra un battito e l’altro del cuore, la collana che le aveva regalato Lance muoversi piano, scivolando sulla pelle bagnata di sudore fino a poggiarsi a terra, senza però slacciarsi.

L’Alpha Nominus continuò a urlare, alzò un braccio per finire la sua avversaria e lo abbatté con violenza contro il suo viso.

In quel momento Leef sorrise. Il mondo divenne nebbia attorno a lei e finalmente sentì un calore ristoratore che da anni non provava, lo stesso di quando sua madre la stringeva. Sentiva la sua voce chiamarla e il papà esclamare di scendere a fare colazione, altrimenti avrebbe fatto tardi a scuola. Rivide la sua piccola mano stretta a quella del padre, rivide il sorriso degli amici, rivide se stessa concentrata sui cartoni animati in tv, ignorando i compiti che il giorno dopo avrebbe dovuto portare. Sentì il buon odore dei dolci che la mamma amava cucinare, rivide la sua cameretta disordinata e piena di peluche. Riprese in mano Ann, la sua bambola preferita. Sentì la voce di Lance chiamarla e scrutò ancora una volta il suo viso pensieroso, rimproverandogli di avere sempre la testa tra le nuvole.

Lasciò cadere le sue fide pistole per terra. Sapeva che ormai non le servivano più. Il mondo nuovo era giunto.

“Il mondo che abbiamo costruito con le nostre mani… È tutto nostro… E sarà bellissimo…”

 

Ore 6.30.

Un sibilo rabbioso si propagava ai piedi della Torre Eiffel. Eppure quell’Alpha Nominus non stava ringhiando, stava facendo qualcosa di strano, anomalo per uno della sua razza.

Scansò con un violento calcio il corpo senza più vita del Nesso, usando una tale violenza da spaccargli il cranio. Una rabbia immensa accomunava gli umani e gli Alpha Nominus alla stessa maniero. Ma la rabbia di quello in particolare li batteva tutti.

Tremava violentemente mentre osservava il nuovo mondo con occhi color dello smeraldo, tenendo tra le braccia un piccolo corpo, minuscolo rispetto al suo: una giovane donna ormai morta da molti minuti, che non aveva potuto assistere all’ultimo duello. Il duello tra il capo dei mostri e il mostro in cui si era trasformato l’uomo che l’aveva amata con tutto se stesso, e che alla fine non era riuscito a proteggerla.

Uno dopo l’altro, tutti i Nominus si stavano accasciando a terra, spirando. Ormai pochi oltre lui rimanevano in piedi.

Chiamarlo Alpha Nominus sembrerebbe riduttivo, quindi potremmo definirlo un’ultima volta col suo vero nome.

Il sole sorgeva, annunciando una nuova era, l’era in cui gli uomini si erano conquistati con l’unione e l’aiuto reciproco il loro diritto a esistere. Alle spalle della Torre Eiffel, l’astro illuminava di nuova vita i sopravvissuti umani, concedendo loro una nuova possibilità. L’ultimo Alpha Nominus che si trovava in piazza morì. Senza il loro re non resistevano a lungo.

Lance Langford camminò con le sue nuove scheletriche gambe nere, tenendo in braccio il corpo dell’amata Leef.

La luce lo illuminava da dietro, oscurando la sua figura, rendendolo simile a una divinità. Né uomo né Alpha Nominus, i suoi occhi smeraldini lo attestavano. Lanciò un urlo, un urlo intriso di dolore, a metà tra quello umano e quello mostruoso che caratterizzava gli esseri che fin ora aveva sempre combattuto. Lacrime amare rigarono gli viso nero come la pece, mentre il pendaglio di Leef brillava in controluce. Gli umani rimasero a fissarlo sgomenti, incapaci di comprendere la scena che avevano davanti.

Ma il Nesso era morto. Dunque infine anche Lancelot Langford, l’ultimo Alpha Nominus della storia, cadde a terra stringendo ancora al petto l’amata donna.

Ce l’avevano fatta. Il nuovo mondo era stato creato, e ora… potevano godersi il meritato risposo insieme. Dio li aveva aiutati.

 

Comunicato stampa del 17 dicembre 2070.

“Ai superstiti della guerra contro gli Alpha Nominus.

Amici, compagni di lotta e di vita, ovunque e chiunque voi siate in questo momento, è con immensa gioia che annuncio la vittoria dell’umanità.

Amici umani, guardatevi intorno: il mondo non è più nostro nemico. Tuttavia vi pregherei di non considerarlo vostro, perciò vi invito alla riflessione.

Il genere umano si è sempre distinto per la sua intelligenza e per la capacità di evolversi, una genialità che ci è stata fatale.

Si sa: gli uomini sono imperfetti, e peccano di superbia. Vi invito ad affrontare la realtà, perché la guerra che ha distrutto il mondo e spezzato miliardi di vite non finisca nel dimenticatoio degli orrori dell’umanità ricordati solo sui libri di storia.

Questa è la nostra punizione per aver giocato a fare dio.

Nella guerra, in questa guerra che spero sia l’ultima che il nostro mondo debba conoscere, ho avuto l’onore di incontrare una persona, una donna, la quale non si è mai arresa fino alla fine. Ella è morta durante lo scontro, combattendo contro il primo Alpha Nominus, il Nesso.

Voglio che l’intero mondo, o quel che ne è rimasto, conosca il suo nome e quello della persona senza la quale ella non avrebbe mai trovato la forza di andare avanti: Leef Leroy e Lance Langford, coloro che riportarono alla luce il cristallo di Berg.

Vi chiedo di non dimenticarli.

Ma ora, amici miei, è il nostro momento, il momento di lasciarci alle spalle il passato e guardare con rinnovata speranza al futuro.

Un mondo nuovo ci aspetta, lo costruiremo tutti insieme. Il mondo nuovo inizia con noi.

 

Jonathan Thompson.”

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3341648