There’s two reasons to go to Norway ~

di fireslight
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** • I • ***
Capitolo 2: *** • II • ***
Capitolo 3: *** • III • ***
Capitolo 4: *** • IV • ***



Capitolo 1
*** • I • ***


 

There’s two reasons to go to Norway.


 
L’alba lo aveva sorpreso insonne un’altra volta, mentre osservava la foschia azzurra che si ritirava lentamente, facendo spazio ai primi, timidi raggi solari. Jon si alzò da terra, inforcando i gradini metallici, freddi sotto i piedi, della piccola scala a chiocciola che dal loft conducevano sul tetto.
Una doccia − possibilmente calda, se era rimasta abbastanza acqua, dannati vicini che la consumavano tutta, ogni volta − a quell’ora sarebbe stata l’ideale, sebbene non soffrisse le basse temperature più di tanto. Era cresciuto nella gelida, fosca, eternamente piovosa Londra: un po’ di freddo newyorkese non lo avrebbe traumatizzato.
Dopo essere uscito dal box con una tovaglia stretta intorno ai fianchi, si guardò allo specchio. Avrebbe dovuto accorciare i capelli probabilmente e−
Un attimo. Jon chiuse gli occhi, riaprendoli subito dopo. Che diavolo di scherzo era mai quello? Non era da solo, in quel piccolo bagno quattro metri per otto.
Di fronte a lui, dall’altra parte dello specchio, vi era una ragazza. Aveva circa la sua età.
Poco più bassa di lui, minuta, lunghi capelli biondi tendenti all’argento, era intenta a sistemarsi un asciugamano poco sotto il seno. Jon abbassò lo sguardo per un momento, certo che fosse solo un’illusione, un effetto ottico e che quando avrebbe guardato di nuovo..
No. Lei era ancora lì. Lo osservava di rimando adesso, gli occhi curiosi − di un colore inusuale, di un glicine pallido − di chi non crede a ciò che essi vedono, ma che, a conti fatti, potrebbe anche accettarlo con una scrollata di spalle, indifferente.
Intontito, allungò le dita verso lo specchio, domandandosi fra sé chi, all’alba, potesse fare una doccia nell’esatto momento in cui la stava facendo lui, − stava considerando davvero il fatto che potesse essere reale, non il frutto della sua immaginazione? − anche se, come ricordava, la sera precedente non aveva bevuto, proprio per niente. La ragazza dall’altra parte del vetro inarcò un sopracciglio chiaro, visibilmente colpita dal suo gesto, contemporaneamente ovvio e inusuale, allungando a sua volta le dita sottili verso la superficie trasparente.
Per un attimo, un istante, Jon fu certo di aver percepito un contatto fra le loro dita, come se il vetro leggermente crepato agli angoli della lastra si fosse incrinato. Come se fosse riuscito, effettivamente, a sfiorare le dita della sconosciuta.
Qualcosa, tuttavia, ruppe quella strana, contorta, irreale connessione. Un rumore proveniente dalla finestra alla sua sinistra: un pettirosso si era posato sul davanzale, cinguettando come fosse il giorno più felice della sua vita. Jon lo ignorò, tornando a concentrarsi sullo specchio, sulla ragazza dall’aria curiosa che aveva visto dall’altra parte. Tuttavia, con un sospiro e l’espressione notevolmente accigliata, Jon notò che era sparita: lo specchio, adesso, rimandava l’immagine dell’orologio in vetro alle sue spalle.
Erano le sei spaccate: aveva ancora il tempo per una corsa a Central Park.
                                                 
Il secondo caffè era diventato freddo da un pezzo. Daenerys fece un cenno al cameriere, chiedendo di portarne un altro: quello prese la tazzina fredda, intatta e la portò via.
Quella settimana, il clima di Oslo era particolarmente piacevole, come se il vento proveniente dal fiordo stesse concedendo ai suoi abitanti un respiro tiepido, lontano dalla solita brezza gelida. Fu in quell’attimo, e se ne accorse non senza un malcelato stupore.
Accanto alla piccola, ma elegante caffetteria in cui si era seduta quel giorno, c’era un lungo viale alberato dove di prima mattina la gente andava a correre.
Daenerys lo vide da lontano, e lui vide lei. Si scambiarono uno sguardo a diversi metri di distanza, mentre lui si fermava nel bel mezzo del viale e nessuno sembrava essersi accorto della sua presenza. Era alto, slanciato, i capelli neri come pece, l’espressione lievemente concentrata dalla corsa.
Gli immancabili auricolari alle orecchie che si tolse in quell’esatto momento.
Si diresse verso di lei a passo misurato. Daenerys si guardò intorno, guardò verso gli altri tavolini, volendo assicurarsi che qualcuno − oltre lei, perché se era arrivata a quel punto, davvero, si sarebbe rinchiusa in un ospedale psichiatrico − lo stesse vedendo. Ma no, a quanto pare era l’unica che lo avesse individuato tra la folla come un dettaglio sbagliato, innaturale in un dipinto.
«È libero?» si sentì chiedere, mentre lo sconosciuto la guardava, indicandole la sedia di fronte a lei.
«Oh, sì, certo.» annuì, distratta, mentre l’altro si sedeva e alternava lo sguardo dalla piazza alle vie che si snodavano come serpenti intorno ad essa. Sembrava che vedesse le persone in maniera diversa, come fosse abituato a un altro panorama.
«Dove siamo?»
«Come sarebbe a dire dove siamo
«Suppongo di non essere a New York.» osservò cauto, cercando un segno di conferma nei suoi occhi. Magari stava cercando i suoi grattacieli, così tipicamente presenti nel classico, immutato paesaggio americano. Daenerys trattenne una risata, sorpresa.
«New York.» saggiò il nome di una città che non aveva mai visto con un accento strano, musicale. «Vivi lì?»
«In teoria, sì.»
«Oslo.» spiegò, allora, abbracciando con lo sguardo il centro della città, da nord a sud, sin dove si intravedevano le cime delle colline intorno. «E tu sei..?»
«Jon Snow.» le porse una mano, così, come se niente fosse.
Daenerys allungò la sua, titubante. Quando la strinse, quasi trasalì: era reale, quel contatto. Troppo, per i suoi gusti.
«Daenerys Targaryen.» disse, presentandosi. Con la coda dell’occhio, scorse il cameriere che, da lontano, le stava riportando l’ennesima tazza di caffè che non avrebbe bevuto.
Era soltanto un modo per starsene lì, alla fine, in pace dove suo fratello non l’avrebbe raggiunta; poi dovette ammettere a se stessa che era il panorama, ad attirarla. Il silente patto con il cameriere della caffetteria prevedeva che ordinasse un caffè all’ora e sarebbe potuta rimanere lì in eterno. Daenerys non aspirava ad altro, a volte.
Da parte sua, Jon ebbe la strana, incorporea sensazione di aver già sentito quel nome.
Così, rimasero qualche istante a studiarsi, finchè lui chiese: «Non bevi il caffè?»
E lei rispose, tranquilla: «No, è solo una scusa. Mi piace stare qui, mi rilassa. Prendilo pure.»
Quando Jon-suppongo-di-non-essere-a-New-York posò la tazzina, lei si accorse, accigliata e sospettosa, che il caffè, in effetti, non c’era più.
«Com’è possibile?» sussurrò, quasi fra sé.
«Che cosa?» lui sorrise come se non ci fosse niente di male a credere che fossero lì, lui dall’altra parte dell’oceano rispetto a casa, lei sola in quella caffetteria all’incrocio tra due vie, a parlare con una proiezione di qualcuno che non avrebbe mai incontrato − perlomeno non realmente.
«Se sei davvero di New York,» e lo vide annuire, seguendo il suo ragionamento, «Cosa stavi facendo, poco prima di ritrovarti qui?»
«Correvo. A Central Park. Forse è per questo che mi sono ritrovato in quel viale.» si voltò appena, indicando la strada da cui era venuto, e dove ancora, malgrado fossero quasi le 7.30 − almeno da quanto indicava il suo orologio −, le persone si ostinavano a parlare, correre, passeggiare come in un cerchio infinito di noia e immutata rassegnazione.
Jon guardò nuovamente l’orario, questa volta dal cellulare della ragazza posato sul tavolino, facendo una smorfia, riflettendo.
«C’è qualcosa che non quadra.» rifletté ad alta voce, guardandola ancora accigliato.
Guardò di nuovo il proprio orologio che segnava le 7.28
«Devo essere in commissariato alle 8.00»
«Un bel problema.» notò lei. «Perché qui sono le 13.30. Definiresti il tuo capo un tipo eccessivamente puntuale, scontroso, fissato con l’efficienza e la svizzera precisione che dovrebbe sempre avere chiunque incontri?»
Jon rise appena di quel discorso, e lei sorrise, compiaciuta, forse, della propria battuta.
«No, non eccessivamente. Ma è soltanto il fuso orario, quindi tornando a New York nei prossimi minuti dovrei essere in orario.»
«Capisco.» osservò lei, sebbene non sembrasse aver capito bene la strana situazione − neppure un decimo di quanto lui sentiva di non averci capito qualcosa −, «Be’, allora suppongo che ci−» fu un attimo, di nuovo, come in quella stessa tarda mattinata, quando aveva distolto lo sguardo dallo specchio e un secondo dopo c’era questo ragazzo dall’altra parte, con i capelli umidi e una tovaglia stretta ai fianchi che la osservava. «Ma cosa−»
Era stato un battito di ciglia e si era ritrovata in un viale, diverso eppure così simile a quello che c’era a Oslo, con la differenza che, adesso, vi erano foglie di ogni forma e colore − perlopiù quelli caldi dell’autunno − sparse per terra come un enorme tappeto scricchiolante.
Jon la guardò sorridendo, a suo agio in un ambiente adesso consueto per la sua familiare esistenza.
«Benvenuta a Central Park.» disse, divertito della sua reazione, ed anche lei, sebbene spaesata, trovò la forza di sorridergli di rimando. «Non eri mai stata a New York?»
«No, mai.» Daenerys non potè fare a meno di sorprendersi della vastità del parco mentre camminavano fianco a fianco verso l’uscita a sud, verso Manhattan.
«Quindi, com’è che funziona? Quando devo fare qualcosa io, tu sei qui e viceversa?»
«Non ne ho idea.» replicò assorta, forse fin troppo, scansandosi per poco da un vecchietto con il proprio cane, senza che quello avesse dato segno di averla vista. Daenerys non aveva percepito neppure lo spostamento d’aria. «Forse nessuno può vedermi. Come nessuno ti ha visto a Oslo. Magari sono solo nella tua testa e tu nella mia.»
Jon rimase in silenzio per un po’, fra i suoi pensieri.
«Ma perché, insomma, che senso ha?»
«Oh, bella domanda, davvero. Per quanto ne so, potremo essere anche stati drogati e non ricordare niente di tutto ciò quando ci sveglieremo da questa contorta esperienza di connessione mentale e continueremo le nostre vite ignari delle vicissitudini che l’altro dovrà irreparabilmente affrontare, in questo mondo o in un altro.»
Lui si fermò nel bel mezzo del secondo, grande viale che avevano imboccato, costringendola a fare lo stesso. La guardò per un istante, sforzandosi di non scoppiare a ridere.
«Studi filosofia, per caso?»
«Sai qual è il modo migliore per accertarsi che questa cosa sia solo il frutto della nostra immaginazione?» riprese lei, distogliendo prontamente l’attenzione dalla prima domanda e parlando a bassa voce come se gli stesse confessando un segreto importantissimo.
«No, quale?»
A quel punto, gli squillò il cellulare. Jon controllò il numero, rivolgendole uno sguardo mentre Daenerys camminava come in trance da una parte all’altra del viale, i lunghi capelli biondo-argentei mossi dal vento.
«Sam, raggiungimi all’uscita Sud di Central Park adesso.» rispose tutto d’un fiato, attento a non perdere d’occhio la ragazza che, incuriosita dalla vista di una città che non conosceva, si era allontanata di qualche metro.
«Jon, sei in ritardo. E io sono già nel parcheggio del commissariato.»
«Allora fa’ inversione e raggiungimi. Ti spiegherò quando sarai qui.»
Dall’altro capo del telefono si udì un sospiro, poi il motore di una macchina che partiva.
«Aspetta lì, sto arrivando.»
«Non scappo amico.» replicò. Daenerys era a qualche passo da lui, intenta ad osservare con scientifica attenzione e un sorriso sulle labbra un pettirosso che le si era appollaiato sulle dita sottili. Sembrava una ninfa che non riconoscesse il proprio bosco, un dettaglio imperfetto e azzeccato al tempo stesso in uno spartito composto in diverse tonalità, comprensibile a pochi. Egoisticamente, forse comprensibile solo a lui. Jon rimase qualche istante a osservarla, come incantato. «Non scappo davvero.» disse ancora al telefono.
Per sua fortuna, Sam aveva già interrotto la chiamata.





 

Note dell'autrice.
Bene, bene, bene. Niente di particolare da dire, solo che se non avete ancora visto Sense8.. be', fatelo. Credo sia una serie meravigliosa, che mi ha conquistata al punto da indurmi a scrivere un crossover ed una long (udite udite ^^), cose per me totalmente ignorate prima di allora (?)
Anche se non credo sia strettamente necessario averla vista per capire le dinamiche di questo intreccio: cercherò di spiegarlo in breve, magari. Jon e Daenerys (bimbi miei
) sviluppano questa connessione mentale che è assolutamente particolare, e che li spinge a entrare in gioco nella vite l'uno dell'altra; scopriranno aspetti e cose che non avrebbero mai immaginato, avendo una connessione empatica e telepatica che li lega come nient'altro.
Il titolo è un evidente richiamo alla citazione sul personaggio di Riley Blue (cupcake dolcissimo
), della sopracitata serie.
Spero di esser stata chiara, ew, ma per ogni dubbio sono sempre qui!
Mi piacerebbe tanto sapere cosa ne pensate, davvero, una piiiicola recensione è sempre super-gradita :)
Al prossimo capitolo, un bacio
fireslight
 
 

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Capitolo 2
*** • II • ***



II
 

«Si può sapere cosa c’è di così urgente per cui ho dovuto prendere una strada secondaria per arrivare qui, lunedì mattina alle 8.00 in punto a New York City con il traffico che c’è sulla Quinta?»
A quelle parole, Jon e Daenerys si voltarono entrambi.
Il primo con un sospiro di riconoscenza, la seconda con un sorriso divertito in volto.
Jon si avvicinò, mettendosi al fianco del collega.
«Ora dimmi.» chiese serio, indicando il viale davanti a sé in quel momento deserto − se non fosse stato per una giovane ragazza dai capelli chiari che osservava il paesaggio con un’aria di meraviglia mista a stupore − «Vedi qualcuno, lì, davanti a te?»
«Jon, mi sto preoccupando.»
«Non hai risposto alla mia domanda.»
E allora Sam aguzzò la vista, sebbene non ci fosse davvero nulla da vedere se non un manto colorato di foglie secche a terra, riportando lo sguardo su Jon.
«No, non c’è niente, amico. Sicuro di stare bene?»
Jon fu sul punto di rispondere che no, probabilmente non stava bene se vedeva una ragazza a caso seduta in una caffetteria in Norvegia, ritrovandosi poi un attimo dopo con la suddetta ragazza a Central Park, da dove sarebbe dovuto correre a casa per cambiarsi per poi correre di nuovo, − in auto, questa volta − per andare a lavoro.
«Sì che sto bene, Sam.» rispose invece, stizzito.
«Non era quello il modo a cui avevo pensato.» fece una voce cristallina da qualche metro più in la. Daenerys sorrise da lontano, sorniona, raggiungendoli.
Quando si trovò di fronte a entrambi, atteggiò il volto nell’espressione di chi ha tutto sotto controllo o quasi.
«Dì al tuo amico di comporre questo numero.» suggerì, quindi, criptica.
Jon la guardò inarcando un sopracciglio.
«Che vorresti fare?»
«Hai detto qualcosa, Jon?» fece Sam, distratto.
Oh, di quel passo sarebbe impazzito.
«Prendi il tuo telefono, Sam.» disse, «Componi questo numero.»
E Sam lo fece: compose il numero che Daenerys dettava a Jon che poi dettava a lui, a sua insaputa, continuando a lanciare occhiate stranite in giro, come temesse che da un momento all’altro un qualche criminale sarebbe potuto spuntare fuori dagli alberi uccidendoli entrambi − o tutti e tre, a conti fatti.
«E adesso?» domandò, soffermandosi poi ad osservare con più attenzione il prefisso straniero, con titubanza. «Sembra un numero europeo, anche se.. Mi spieghi perché stiamo chiamando un numero con un prefisso norvegese, Jon?»
«Ah, quindi è norvegese?» osservò quello palesemente nervoso, guardando davanti a sé mentre Daenerys gli lanciava un’occhiata come a dire “te lo avevo detto”.
«Sì che è norvegese. Allora, chiamo?»
«Chiama.» annuì, visibilmente sconcertato, arresosi alla piega che stavano prendendo gli eventi. Tutta quella storia cominciava ad avere del surreale.
Cinque secondi dopo, una suoneria riecheggiò nell’aria.
Jon guardò stupito la ragazza, che aveva estratto il proprio cellulare dal leggero abito che indossava, portandoselo all’orecchio con un sorrisetto compiaciuto mentre Radioactive degli Imagine Dragons veniva interrotta, a suo dire, sul più bello.
«Hallo
Jon la vide rispondere, tentando, davanti a lui, di rimaner seria: immaginò che quella parola significasse pronto in norvegese.
Sam ci mise un po’, da parte sua, a rispondere. Allontanò il telefono di scatto, sussurrando un nervoso: “Abbiamo sbagliato numero, è norvegese, Jon.”, ma quest’ultimo gli fece cenno di continuare.
Con un sospiro, Sam riportò il telefono all’orecchio, cercando di parlare lentamente in inglese.
«Si, pronto, ehm, credo di aver sbagliato num−»
«Potresti passarmi il tuo amico, lì vicino, per favore?»
Quella volta, la voce rispose in un inglese dalla cadenza straniera, ma ben articolato.
Davanti a lui, la ragazza simulò un’espressione composta, e Jon non potè fare a mano di allungare una mano verso l’apparecchio.
«Da’ qui, Sam.» rise, e Sam gli parlò a bassa voce, esaltato e confuso insieme.
«C’è una ragazza al telefono, chiede di te.»
«Lo so, Sam, passami il telefono.»
«Ha un accento così, insomma, musicale.. dovresti sentirla, Jon.»
Sam gli passò il telefono.
«Comincia a camminare, amico, andiamo in commissariato insieme.»
Jon si allontanò di qualche passo, badando più al telefono che a qualsiasi altra cosa intorno a loro. Sam lo richiamò, visibilmente perplesso.
«Jon, ma cosa−»
«Ti spiego tutto più tardi, promesso.»
Qualche minuto dopo, il suo collega − e amico − si stava dirigendo verso l’uscita del parco. Daenerys era nuovamente di fronte a lui, il capo inclinato come per richiamare la sua attenzione.
«Allora ci credi?» domandò, continuando a parlare al telefono.
«Suppongo che non sia totalmente il frutto della nostra contorta e strana immaginazione.» replicò Jon, sorridendole.
Lei rise di una risata cristallina, e Jon non potè fare a meno di osservarla, di familiarizzare con i suoi pensieri che sembravano scorrere nella sua mente come l’acqua di un ruscello in primavera, libera dalla lastra di ghiaccio invernale.
Poi, improvvisamente, lei fissò un punto alle sue spalle e Jon corrucciò l’espressione, girandosi per vedere cosa stesse osservando. Davanti a lui, però, non c’era niente di rilevante. Solo un paio di ragazze in tenuta sportiva che lo superarono con un’occhiata obliqua, portandosi dietro un alone di vento caldo.
«Be’, devo davvero andare. Sono in ritardo, magari potremo−»
Quando si voltò di nuovo, aspettandosi di vederla lì, di fronte a sé, lei non c’era più.
Jon allungò una mano nello spazio in cui, alcuni secondo prima, avrebbe potuto stringere quella di Daenerys. Quello spazio che, con una fitta allo stomaco, constatò essere vuoto.
                                            
Quel giorno avrebbe dovuto staccare alle due del pomeriggio, prendere qualcosa da mangiare al bar lì vicino − Mormont, il suo capo, non gradiva che si mangiasse all’interno del commissariato e no, neanche per il pranzo, il che prevedeva che fossero ammessi unicamente acqua e caffè, lì dentro − e prendersi il pomeriggio libero.
Peccato che la macchina lo avesse abbandonato a circa dieci chilometri da casa, ma davanti all’ingresso sotterraneo della metropolitana.
Così l’aveva presa e adesso, accingendosi a salire le scale del sottopassaggio, ebbe l’impulso di chiudere gli occhi per la troppa luce che, non essendovi sotto terra, abbondava, al contrario, in superficie.
Per un attimo, gli tornarono in mente Daenerys e i suoi discorsi cambia-argomento di quella mattina.
Quando raggiunse la cima delle scale, non era più a New York.
Lei lo stava aspettando con un sorriso indolente a pochi passi, all’inizio di un vialetto che portava a un grande edificio in stile moderno in fondo alla strada, elegante, con i prati intorno ben curati.
Indossava una camicia verde chiaro, jeans e snikers, aveva i lunghi capelli intrecciati e il sorriso di chi è felice di vederti, − ma non troppo − in volto.
Guardandola meglio mentre si avvicinava, Jon si accorse che aveva in volto il suo perpetuo, lievemente malizioso e teatrale sorriso di sempre.
«Guarda un po’ chi si vede.» lo salutò, facendogli un cenno.
«Questa cosa è strana.» constatò, indicandole l’uscita sotterrane della metro. «Un attimo prima ero lì, a pochi passi da casa e adesso..» lasciò la frase in sospeso, come se non fosse necessario continuare.
Lei lo osservò per qualche secondo, assorta e silenziosa, prima di muoversi più rapida di quanto Jon avesse potuto scommettere.
«Be’, muoviamoci.»
«Aspetta.» la fermò. «Muoversi per dove
Lei inclinò il capo come per spiegare una situazione di facile comprensione a un bambino piccolo, particolarmente testardo.
«Ho l’ultima lezione fra dieci minuti, prima della fine del semestre.» spiegò, incamminandosi a passo svelto per il viale. «Se salto questa, dovrò rimandare l’esame per accedere alla prossima fase di studi. E non ho davvero voglia di rimandare niente, Jon Snow.»
Così dicendo, Jon la seguì sino all’interno dell’ampio atrio dell’università. Si fermò un istante, alzando gli occhi al soffitto composto interamente di vetrate, con la luce degli ultimi raggi solari che si riflettevano sulle superfici trasparenti e sulle pareti chiare, creando giochi di luci e ombre.
«Dovresti vederla al mattino, la cupola.» fece la ragazza, dirigendosi verso un’ampia scalinata, attraversando poi due corridoi prima di infilarsi in una grande aula con il soffitto a volta, decorato con pochi, ma semplici ed eleganti stucchi.
«Che dovrei fare, io, adesso?»
Daenerys inarcò un sopracciglio chiaro, per nulla sorpresa.
«Che domande.» disse, sedendosi più o meno al centro della grande sala, dove diversi ragazzi stavano già prendendo posto, chiacchierando del più e del meno in attesa dell’arrivo del professore, «Ti siedi, segui la lezione.»
Jon la vide consultare attentamente un foglio ripiegato che aveva estratto da un blocco da appunti dalla borsa.
«Oggi dovrebbe esserci architettura gotica e rinascimentale.» lesse, sorridendo. «Le mie preferite, guarda caso.»
Jon scosse il capo, sedendosi più comodo al fianco della ragazza. A quanto pare, stava tornando all’ultimo anno di Università. Chi gliel’avrebbe mai detto?
«Dici che sarà interessante?» azzardò a chiedere, guadagnandosi un’occhiata perplessa dalla ragazza. «Insomma, non ne capisco molto, di architettura.»
«Facciamo così.» propose Daenerys. «Il professor Andersen è un tipo che spiega velocemente, a volte troppo. Mi aiuti a prendere appunti. Potresti anche capirci qualcosa, alla fine.»
Jon annuì, d’accordo. Alcuni anni prima, quando ancora viveva a Londra, sua sorella Sansa − sorellastra, a dire il vero, ma lei non sembrava farci molto caso, − lo aveva trascinato ogni estate ad ogni possibile mostra o museo o galleria artistica che potesse esserci nel raggio di cento chilometri da loro e, a quel suo esame attento e preciso, non sfuggiva niente. Forse avrebbe ricordato qualcosa dei numerosi pomeriggi trascorsi al British Museum, quando era Sansa a fargli praticamente da guida turistica e non la guida turistica vera e propria. In quel caso, il divertimento era stato assicurato.
Così si mise a segnare quello che Daenerys non aveva il tempo di scrivere, − fortunatamente in inglese, o non sarebbe stato per niente d’aiuto − passando una buona mezz’ora in quell’atmosfera di surreale ansia e preoccupazione che pervadeva gli studenti dell’ultimo anno di una qualsiasi facoltà universitaria.
«Non studi filosofia, quindi.» buttò lì a un certo punto, ultimando un paragrafo sugli stili gotici in Francia nella metà del XVI secolo.
«A dire il vero sì.» disse lei concentrata, lo sguardo fisso sulle diapositive che scorrevano come in un film sullo schermo bianco di fronte a loro, «Architettura e Filosofia sono corsi extra, a dire il vero. Mio fratello voleva che studiassi Diritto o Economia; io ho preferito scegliere le prime due. Adesso sono a un bivio, però.» così dicendo, tirò fuori dalla borsa due barrette energetiche, offrendogliene una che Jon accettò. «Ho fatto questi tre anni, sia dell’una che dell’altra. Ma ora devo scegliere, e sono più propensa per Architettura.»
«E qual è il problema?»
«Oh, nell’immediato, nessuno.» replicò, fin troppo velocemente. Jon, che aveva assistito a diverse e più o meno legali forme di interrogatorio, pensò che era come se non volesse esporsi più di tanto raccontando la propria vita a quello che, a conti fatti, era uno sconosciuto.
«E a lungo termine?»
Daenerys scrollò le spalle, neutra. «Come ti ho già detto, mio fratello non apprezza nessuna della due facoltà che vorrei continuare a studiare. Dice che non mi porteranno da nessuna parte, ma sai qual è il bello?» continuò, e lui capì che non si aspettava realmente una risposta. La incitò a continuare. «Il bello è che un paio di giorni fa’ Andersen mi ha parlato di questa borsa di studio da cinquemila corone,» una pausa e gli gettò uno sguardo di intesa, come se dovesse arrivarci da solo, alla conclusione. «cioè, ti rendi conto, cinquemila corone ti pagano il primo anno di studi in qualsiasi facoltà di Architettura in Europa, e ha detto che ci sarà un concorso, chi vincerà avrà la borsa di studio e ha detto che ho le carte in regola per farcela.»
Ora, tutto quel discorso, fatto così rapidamente e con tanta esaltazione, fece pensare a Jon che il fratello della ragazza dovesse essere uno stronzo del cavolo. Insomma, ogni fratello maggiore avrebbe voluto il meglio per sua sorella no? Lui era stato felice per Sansa quando lei era partita per Mosca, l’estate scorsa, dopo essere stata accettata dalla compagnia di ballo del Bolshoi.
«Senza offesa, ma tuo fratello è un egoista.» disse, evitando di ammettere che egoista non era davvero il primo vocabolo al quale aveva pensato.
«Lo so, lo so. Viserys è dispotico, egoista, prepotente, pieno di sé, immancabilmente prepotente, stupido e arrogante.»
Jon si voltò a guardarla, sorpreso della quantità di insulti da lei sciorinati, ma Daenerys rimase a fissare le diapositive sullo schermo bianco in fondo all’aula, senza aver dato segno di cedimento.
«Ma è mio fratello.» riprese a un tratto, quando lui aveva creduto che sarebbe rimasta in silenzio per un po’, vista la sua espressione. «È mio fratello, e tengo a lui, Jon. Credimi, gli voglio bene.»
«Allora prova a parlargli, prova a farlo mettere nei tuoi panni.»
«Gli andrebbero stretti.» disse lei, e Jon non riuscì a non concedersi un sorriso.
«Il sarcasmo non ti manca, però. Mettilo alle strette.»
«Ho provato di tutto.»
«E ti sei arresa?»
Daenerys lo guardò a lungo negli occhi, facendo una smorfia.
«Questo mai.»
«Urla, pianti, imprecazione di varia natura?»
«Si, no, si.» rispose a monosillabi. «Ma non piangerei mai di fronte a lui.»
«Minacce?»
«Una volta stava per cedere.» ricordò accigliata. «Ma poi ha detto che non avrei resistito un giorno.»
Jon incrociò le braccia al petto. «Resistito a cosa?»
Lei sospirò, scarabocchiando un paio di date su un foglio degli appunti. «Nostra madre è islandese, lei e mio padre si sono conosciuti a Berlino, da ragazzi. Sai come vanno queste cose, no?» Jon annuì. Sapeva come andavano quelle cose.
«Si sono innamorati, sposati, si sono trasferiti a Oslo, mio padre era a capo di una società governativa di qualche genere, io odio la politica.» raccontò lei, quasi annoiata. «Poi mia madre morì, mio padre pure. Siamo rimasti io, Viserys e Rhaegar, nostro fratello maggiore che per il momento è a Stoccolma, a cercare di darci un futuro, una prospettiva migliore di vita. Viserys non apprezza i suoi sforzi, ma io ringrazio Rhaegar ogni giorno.»
«Mi dispiace.» asserì Jon, a bassa voce. «Per i tuoi genitori.»
«Oh, non dispiacerti. Mia madre l’ho uccisa io.»
Daenerys fece un sorriso triste, malinconico, che lui non riuscì a decifrare.
«Morì dandomi alla luce.» precisò. «Mio padre.. Credo che non gradisse il fatto che Rhaegar volesse aiutarlo nella società, era troppo orgoglioso. Cominciò a bere, e una sera arrivò una telefonata a casa, era tardi e Rhaegar disse a me e Viserys di andare a dormire, avrebbe risposto lui. Ma io da bambina ero una cosetta piccola e curiosa, come diceva sempre mio padre, − mi voleva bene, Jon, solo Viserys smise di farlo alla morte di nostra madre − e mi nascosi dietro il muro del salone, ascoltando la telefonata: nostro padre si era schiantato contro una parete di roccia, in autostrada, verso Bergen.»
«Rhaegar fu messo a capo della società, a quel punto. Gli altri che l’avevano gestita con mio padre lo conoscevano, si fidavano di lui. Mio fratello tiene molto a me e Viserys, e Viserys sembra non curarsi, a volte, dell’esistenza di Rhaegar che gli garantisce una vita più che dignitosa.»
Daenerys s’interruppe, prendendo un paio di appunti dai testi sulle diapositive.
«Se c’è una cosa che Rhaegar mi ha insegnato è che non devo arrendermi mai e che, qualunque cosa voglia fare, potrò farla. Ad ogni modo, parlavamo delle minacce a Viserys.» ricordò a un tratto, pensierosa.
«Si, infatti, raccontami.» Jon allungò una mano sul bordo del lungo banco in legno, sfiorando appena le dita della ragazza. Lei sorrise, voltandosi per guardarlo negli occhi, di nuovo.
«Minacciai Viserys del fatto che sarai andata via. E lui disse, “Deluderai Rhaegar” e io gli dissi “Tu stai deludendo Rhaegar” e cominciammo a urlarci a vicenda. Così lo feci.» ricordò, sorridendo «Feci le valige − per modo di dire, naturalmente, presi solo uno zaino con qualche vestito dentro, il blocco da disegno, un libro, documenti e carta di credito, presi la metro fino all’aeroporto e mi sedetti al terminal dal quale partivano i voli per Reykjavik, in Islanda. Mia madre era nata lì, io c’ero stata solo poche volte e pensai che poteva essere un nuovo inizio.»
«Devi essere un tipo molto avventuroso e teatrale.» notò Jon, ammirato.
«Lo sono sempre stata, da che ne ho memoria. Comunque, mezz’ora dopo, ricevetti una telefonata a cui non risposi, naturalmente; spensi il cellulare e quando lo riaccesi, nei seguenti cinque minuti arrivarono quindici chiamate perse da Viserys, un messaggio da Rhaegar. Rhaegar è sempre stato l’ago della bilancia tra me e Viserys, sai? Sempre così pragmatico, gentile, tranquillo, così perfettamente equilibrato.. Senza dubbio è il mio fratello preferito.» a quella frase, Jon inclinò il capo, rimproverandola bonariamente con lo sguardo. Daenerys se ne accorse.
«Che c’è?» domandò. «Sono solo emotivamente oggettiva. Così aprii il messaggio di Rhaegar, in cui c’era scritto “Non muoverti da lì, ho due biglietti, ci prendiamo una settimana, io e te” e ti giuro, Jon, che mi trattenni dall’urlare e saltare e piangere e ridere−»
«Tutte queste cose nello stesso tempo, lì, in pubblico, in aeroporto?» la interruppe, immaginando la scena.
«Ovvio, tutte cose insieme. E quando Rhaegar mi raggiunse con due borse da viaggio e i biglietti per Reykjavik alla mano, lo adorai più di quanto per me non fosse stato possibile adorarlo già, sin da quando ero bambina e lo avevo sempre visto come il cavaliere scintillante che mi avrebbe salvata dal mostro-Viserys.»
«Sei perfidamente di parte, Daenerys Targaryen.» Jon le sorrise, prendendole una mano al di sotto del banco e lei lo assecondò, intrecciando le loro dita.
«Oh, ma questo lo sapeva già.» osservò compiaciuta. «Anche se, ad essere sincera, avrei pagato qualunque cifra pur di vedere la faccia di Viserys quando ha capito che Rhaegar mi aveva raggiunto in aeroporto, sì, ma non per riportarmi a Oslo. Credo sia stato il momento più divertentemente egoista della mia vita.»
«Perché non hai mai avuto un buon rapporto con Viserys?»
A quel punto, il professore in fondo all’aula bloccò le diapositive che avevano continuato a scorrere indolenti, grigie e soffocanti per l’ora e mezza trascorsa, annunciando la fine della lezione.
Uscirono quasi per primi così da evitare il traffico umano di studenti, ritrovandosi dopo alcune svolte per diversi vicoli illuminati nella stessa, grande piazza in cui si erano già visti una volta.
«Diciamo che è sempre stato un tipo..» si sedettero in un bar, ordinando due caffè mentre il cameriere osservava con aria sospettosa il posto vuoto di fronte a Daenerys e la seconda tazza, probabilmente in attesa di qualcuno. «Inopportunamente protettivo.» disse lei, quand’ebbe trovato le parole giuste.
«Un fratello dovrebbe esserlo, nei confronti di una sorella.» replicò Jon, avendo già finito il proprio caffè. Lui, del resto, lo era stato con Sansa.
«D’accordo, questo è vero. Ma anche Rhaegar è protettivo. Solo in un modo più rilassato, consapevole, in un modo che non mi da fastidio.»
Jon annuì, guardando poi l’orologio sulla facciata del bar che segnava le 9.30.
Decise di ignorarlo, per il momento. Non sarebbe potuto capitargli spesso di passare del tempo con lei, con l’unica persona sulla faccia di quel pianeta − tranne Sam, ovvio − che riuscisse a capirlo. Jon avrebbe voluto parlarle di quanto orribile fosse stata la sua vita, da ragazzino: le avrebbe parlato per ore, giorni, si sarebbe comportato per una volta come un giovane uomo con il sacrosanto diritto di prendersela con la vita per quanto ingiusta fosse  stata nei suoi confronti.
«A cosa pensi?» si sentì chiedere dopo un po’, riportando la sua attenzione sulla ragazza di fronte. Daenerys lo guardava attentamente, con quella sua passione di sviscerare ogni cosa le capitasse a tiro − ormai Jon l’aveva imparato.
Forse, alla fine, avrebbe avuto un futuro in medicina legale.
«A niente.» mentì, e lei se ne accorse perché inarcò un sopracciglio, lasciando cadere la questione. «Vorrei che potessi vedere New York. Intendo che−»
«È un modo assolutamente alternativo per chiedermi un appuntamento, Jon Snow?» lo interruppe lei, posando finalmente la propria tazzina. Jon la guardò senza celare un sorriso, scuotendo il capo.
«Direi che è un modo totalmente alternativo per chiederti di venire a New York con me.» precisò, usando quei giochi di parole che sembravano piacerle tanto. La vide assottigliare gli occhi come un gatto, d’improvviso, concentrata.
«D’accordo.» concesse, sistemandosi una ciocca argentea sfuggita dalla treccia. «È altamente probabile, allora, che questa notte non dormirò. Ci vediamo a New York, in qualunque posto tu sarai, all’incirca alle 10.00 di sera, ora locale.» disse infine, prendendo la borsa e facendo per alzarsi. Jon la imitò, lasciando una banconota da cinque dollari sul tavolino.
Daenerys lo fissò per un momento, come se non potesse credere a ciò che aveva appena fatto.
«Che c’è, pago il conto, no?»
Lei fece un gesto con la mano, come a dire che non c’era bisogno di simili formalità.
Poi si sporse verso di lui, indicando l’ambiente circostante con un’occhiata.
«Il proprietario è un amico di Viserys, mi conosce, e per rispetto di mio fratello, non mi fa mai pagare nulla.» spiegò. «Così, di solito, sembra che il mio cervello ricordi esclusivamente l’esistenza di questa caffetteria e di nessun’altra in tutta Oslo, e tutto quello che prendo va sul conto di Viserys. Uno spasso,» sorrise, innocente. «Vero?» 






 

Note dell'autrice.
Buonasera, ew. Mi rifaccio viva dopo tantissimo tempo, mea culpa, ma il tempo scorre e io credo di perderne la cognizione, talvolta, anche perchè i vari impegni non danno tregua.
Quindi, che dire: la scena della telefonata è stata ripresa da Sense8, giusto perchè Jon e Daenerys mi ricordano in maniera così dolce Will e Riley e non potevo fare a meno di descriverli in maniera talmente complice, aw. 
Spero questo capitolo possa piacervi, e sarei davvero contenta se voleste dirme cose ne pensate.
E, nel remoto caso in cui dovesse esserci un sensate tra i lettori, si faccia vivo! Sarebbe davvero gratificante ricevere un parere o anche solo un consiglio, una critica.
Alla prossima,
fireslight

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Capitolo 3
*** • III • ***


 
III


Lui e Sam avevano girato apparentemente senza meta per il resto del tardo pomeriggio, quando quest’ultimo aveva finito il turno in commissariato e Mormont lo aveva lasciato andare non senza trafiggerlo con un’occhiata che aveva del sospettoso e del paterno insieme.
«È un brav’uomo, Sam.» stava dicendo Jon, cercando di cambiare argomento.
«Certo che lo è, solo che qualche volta..» interloquì lui, «qualche volta è come se dimenticasse quanti anni abbiamo e che il commissariato non è una scuola elementare. Insomma, sappiamo cavarcela, no?»
«Puoi ben dirlo.»
Mancavano circa un paio di ore all’incontro con Daenerys, anche se non era del tutto certo che entrambi potessero gestire questa cosa dell’apparire quando volevano nella vita dell’altro, soltanto desiderandolo. No, davvero, ma forse bastava pensarci.
«Sam, a proposito di questa mattina..»
«Alla fine chi era la norvegese?» fece quello, curioso.
«Ehm, proprio di questo io−»
Squillò il telefono. Sam lo tirò fuori dalla tasca della giacca, mormorando un arrivo subito, dammi cinque minuti, e Jon scosse il capo, irrequieto. Avrebbe dovuto parlare al suo migliore amico di questa ragazza che vedeva solo nella sua testa, senza un motivo apparente? Non ne era sicuro, ma qualcosa gli fece presagire che, se l’avesse fatto, niente sarebbe stato come prima.
«Ehi, stavi dicendo a proposito della norvegese?»
«Nah, niente. A quanto pare aveva sbagliato numero.» mentì, di riflesso – nonostante gli dispiacesse, alla fine − «A volte capita.»
Camminavano sulla Quinta Strada già da un po’, quando Jon si era fermato a prendere due pizze da portare a casa e Sam, perplesso e con un sorrisetto consapevole in volto, gli aveva chiesto: «Ospiti a cena?» e lui aveva risposto, con disinvoltura: «No, ma non ho mangiato a pranzo.»
Mezz’ora dopo essere arrivato a casa, Jon aveva preso un paio di lattine di Coca Cola dal frigo e portato le pizze sul tetto, ancora calde e fumanti.
Si affacciò alla ringhiera sul cornicione in cemento, scrutando la città dall’alto. Lì, alla sua sinistra, c’era Central Park, illuminato di luci per tutta la sua ampiezza, nei suoi viali come una foresta dorata; l’Empire State Building si intravedeva da lontano, la facciata illuminata d’argento, come un gigante di ghiaccio in una landa di edifici simili, un panorama di colori che si estendeva da una parte all’altra della città.
Jon pensò a quella busta sul piano della cucina, lì dove l’aveva lasciata quel pomeriggio, dopo essere tornato a casa e aver chiamato Sam, di nuovo a New York..
Una busta che alla fine conteneva probabilmente una buona parte del suo futuro.
«C’è una bella vista.»
Jon sorrise, continuando a fissare la città davanti a sé, senza scomporsi. Sapeva per certo a chi appartenesse quella voce dall’accento straniero, musicale.
«Uno dei pochi vantaggi nell’abitare qui.»
Daenerys si sedette a terra a gambe incrociate, facendogli cenno di imitarla. Jon, allora, prese le pizze rimaste lì nei loro cartoni color sabbia, poco distanti.
«Uh, cena sul tetto alle dieci-e-mezza-di-sera, ma che carino.» rise divertita, scostandosi una ciocca argentea dal viso, guardandolo per poi esclamare: «Cavolo, ma come sapevi che era la mia preferita?», all’indirizzo della propria pizza.
Al che Jon si fece pensieroso, riflettendo tra sé per un momento con un sorriso in volto.
«A dire il vero, non so.» disse, «Probabilmente è per questa, be’, per questa connessione. Ci conosciamo meglio di quanto non vorremmo.»
Lei rimase in silenzio forse meditando su ciò che lui aveva appena detto.
«E tu,» riprese poi, come se nulla fosse, «che ci fai proprio qui, a New York?»
«Diciamo pure che sono scappato. Da Londra.»
«Una volta ci sono stata a Londra.» fece lei, posando la propria lattina di Coca Cola.
«E come l’hai trovata?»
Jon la osservò attentamente. Da che ne ricordava, Londra gli era sempre parsa una città ricca di storia, certo, ma triste e perennemente affogata nell’acqua delle proprie nubi.
Era una città malinconica, il che gli aveva fatto capire, non molto tempo dopo, come non facesse per lui.
Città e persone e anime malinconiche erano pessime combinazioni.
«La definirei malinconia.» Daenerys tornava indietro nel tempo, a volte, perdendosi nella coltre spessa e invisibile dei suoi ricordi. «Perennemente grigia, piovosa. Preferisco di gran lunga Oslo. Ma tu,» riprese, testarda, «perché te ne sei andato?»
E se non era connessione con i suoi pensieri, quella..
«Mia madre è morta quand’ero piccolo, mio padre non l’ho mai conosciuto. Così mio zio Eddard, il fratello di mia madre, mi ha praticamente adottato.» i primi tempi erano stati i più duri. Jon chiedeva spesso dove fosse sua madre, nonostante sapesse che non sarebbe più tornata, cercando in quella nuova famiglia un affetto che aveva ricevuto a tratti, ma non da chi avrebbe realmente voluto. «Sono cresciuto con i suoi figli, con cui vado d’accordo. L’unico punto dolente era−»
«Fammi indovinare.» mentre lui aveva finito la pizza da qualche minuto, Daenerys era ancora a metà e mangiava lentamente, gustando ogni boccone come se quella cena fosse la migliore da settimane. «La tua matrigna, eh? Di solito sono quelle, il problema.»
«Be’, in effetti sì. La signora Stark è sempre stata convinta che avessi voluto soffiare al marito l’affetto per i suoi figli in mio favore. Il che non era assolutamente vero.»
«Volevi solo un po’ dell’amore che avevano i tuoi cugini, no? Una famiglia.»
«Credo di sì. Poi, a quindici anni ho vinto una borsa di studio, sono andato a vivere in Spagna per un po’. E tre anni fa ho preso il primo volo per New York.»
La vide sorridere malinconica. Forse, a conti fatti, non erano poi così diversi: avevano perso la possibilità di costruirsi e avere una famiglia come tutte le altre. Erano i sopravvissuti di una guerra combattuta con lacrime silenziose e mai versate, vivendo di ricordi che li corrodevano come acido dall’interno.
«Tuo zio.» fece lei qualche minuto dopo. «Ti voleva bene?»
«Diceva che somigliavo molto a mia madre, che gliela ricordavo. Mi ha sempre trattato come un figlio. A sua moglie non andava giù, e quindi ha pensato bene di rendermi la vita, be’, un inferno
Si erano seduti sul cornicione del tetto, osservando il centro della città da lontano, come sentinelle di ghiaccio nella notte.
«Un po’ triste come storia.»
Jon notò che la voce le si era incrinata. Inarcò un sopracciglio, sorridendo.
«Non stai piangendo, vero?»
Lei rise, nervosa e scocciata insieme, con una punta di incredulità. Si voltò a guardarlo, le spalle di entrambi così vicine da potersi toccare.
«Certo che no, Jon Snow. Ti sembro forse il tipo di ragazza che versa lacrime amare per le disgrazie altrui? Nah, ho solo freddo.»
«Vieni qui.» le disse, cingendole le spalle minute con un braccio. Daenerys si poggiò a lui, il capo nell’incavo fra il collo e la spalla.
«Mh, si sta meglio.» rise, e Jon potè sentire l’odore della sua pelle, di neve e rose e ironico sarcasmo, perché era fatta così ed erano un po’ come anime naufragate nei rispettivi, tempestosi oceani.
«Davvero?»
Lei alzò appena il capo per rispondere, i volti così vicini da poter sentire il respiro del ragazzo sulla pelle, caldo e rassicurante. Prima che potesse ribattere con una delle sue brillanti, colorite battute, Jon la baciò.
                                                                 
«Trasferimento?»
«Sì, signore.»
Mormont pareva tranquillo, quella mattina, con la sua sempre perennemente tazza piena di caffè zuccherato nella destra, penna degli Yankees nella sinistra, block-notes davanti a sé. Quello sguardo immancabilmente scettico che assumeva ogni qualvolta trovasse qualcosa non in esatta, precisa linea con i suoi pensieri.
«Hai inoltrato una richiesta di trasferimento per−» il vecchio s’interruppe, prendendo un sorso di caffè e ispirando forte, come per prepararsi a sgridare un nipote eccessivamente vivace. «Oslo, Norvegia, Europa?» lesse ad alta voce dal foglio sotto i suoi occhi.
«Sì, signore.»
Calò il silenzio. Mormont lo osservò a lungo, e Jon ricambiò l’occhiata − a detta di Sam, tra il sospettoso e il paterno. Si fissarono a vicenda per quelli che a Jon parvero lunghi, interminabili minuti.
Poi, altrettanto quietamente, Mormont posò il fascicolo relativo al suo curriculum sulla propria scrivania ordinata. Jon pensò che avrebbe sospirato − di nuovo, − si  sarebbe poggiato allo schienale della sedia girevole − un’abitudine mai del tutto persa − e poi avrebbe fatto quel suo sorrisetto da vecchio nonnino consapevole.
E così accadde, in effetti.
«Qualcosa mi fa pensare, Snow,» e sorrise, dannazione, aveva indovinato − «Che tu abbia battuto la testa da qualche parte, tra questa mattina e l’intera giornata di ieri. Ho ragione?»
Gli fece un cenno distratto verso la sedia, e Jon si sedette, rigido.
«È fattibile, signore?»
«Fattibile..» Mormont finì il suo caffè con la rigida calma di un lord inglese. «Cosa, esattamente, dovrebbe essere fattibile, ragazzo?»
«Il mio trasferimento a Oslo, signore.» replicò lui, paziente.
«Il tuo−» Jon ebbe l’impressione che, da un momento all’altro, sarebbe potuto saltare giù da quella sedia e andarsene via, uscire da quell’ufficio e non tornare mai più. Una volta, quando un agente particolarmente in vista aveva mancato la cattura di un pericoloso criminale, Mormont l’aveva fatto: era rimasto in silenzio qualche minuto, poi si era alzato, zoppicando appena per via di quella vecchi ferita di guerra − “Non ci sono più i giovani di una volta”, aveva borbottato − e se n’era andato via, senza una parola, sotto gli occhi esterrefatti del sopracitato poliziotto.
«Oh, sì, vedrò cosa posso fare, Snow. Ma ti avverto..» così dicendo, si era guardato intorno come per assicurarsi che nessuno potesse sentirlo, «Non ci sarà più un agente come te, Snow, in questo commissariato. Mi venga un colpo se qualcuno acciufferà di nuovo tutti quei figli di puttana drogati e violenti che hai buttato al fresco, eh.»
«Ho fatto solo il mio dovere, signore.» si schermì con un sorriso. «Ho fatto ciò che qualunque agente avrebbe fatto.»
«Ah!» Mormont aveva colpito il legno della scrivania con una mano, facendo cadere qualche post-it a terra in piccoli mulinelli d’aria e barcollare pericolosamente la tazza edizione limitata anch’essa dei New York Yankees, «Sciocchezze, ragazzo, e tu lo sai. Ho sempre avuto l’impressione che tu e quel tuo amico Simon−»
«Sam, signore.»
«Sì, be’, è come se aveste sempre condotto una sorta di crociata personale, mi spiego?»
«Credo di sì, signore.» annuì, sebbene non fosse mai stato del tutto certo di aver condotto una sorta di crociata solamente facendo il proprio lavoro, che era anche l’unica cosa per la quale fosse tagliato.
«Bene, Snow. Mi dispiace davvero lasciarti andare, ragazzo, ma se è il fottuto freddo norvegese che vuoi, chi sono io per impedirtelo?» e allargò le mani ossute ma ancora incredibilmente forti come a dire che lui non poteva farci niente.
Quella domanda, come Jon aveva precedentemente afferrato, non necessitava davvero di una sua risposta. Aveva ringraziato Mormont con un cenno del capo, sicuro che il vecchio lo avrebbe interpretato com’era solito fare: all’inizio, quand’era entrato in quel commissariato, Mormont era stato il primo a credere in lui e nelle sue capacità.
Uscì dall’edificio sentendosi quasi più leggero, immergendosi nel traffico umano della Quinta Strada che a quell’ora sembrava non poter dare tregua a nessuno. Mezz’ora dopo essere tornato a casa, Jon cominciò a fare le valigie.
 
 

 

Note dell'autrice.
So di essere una persona davvero pessima, sì. Mi spiace aver fatto penare chi, magari, si aspettava un aggiornamento più immediato, ma non ho proprio avuto tempo.
Vorrei soltanto spendere due parole in più del solito: all'inizio, dato l'universo di Sense8, sapevo che Jon e Daenerys facessero già inconsapevolmente parte di una cluster che, a conti fatti, deve ancora formarsi e conoscere; ho davvero tutto in testa, giuro, ma questa mini-long è dedicata a loro. Possibile che più in là, a mente serena, scriverò qualcosa in proposito, magari una raccolta, non so davvero. Anche se mi piacerebbe davvero, proprio tanto.
Questo terzo capitolo, inoltre, è il penultimo della long.
Ringrazio chi ha recensito finora - Farkas, papergirl e pandamito - e chiunque abbia preferito leggere silenziosamente: sappiate che sarei davvero felice di sentirvi!
Alla prossima,
fireslight.



PS:
Merry Christmas!

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Capitolo 4
*** • IV • ***



IV
 
«Sembri distratta.»
Daenerys si riscosse dai propri pensieri, osservando suo fratello.
Lei e Rhaegar non si vedevano da quasi tre settimane e ritrovarselo lì, insieme in aeroporto, era stato qualcosa assolutamente fuori programma.
«Ma no.» sorrise, «Non ti vedevo da così tanto tempo e mi sembra solo strano. Avresti potuto avvisarmi, comunque.»
Lui sorrise dall’alto del suo metro e ottantadue, carezzandole i capelli chiari.
«Volevo farti una sorpresa, sorella.» replicò allora, divertito.
«Direi che è riuscita più che bene.»
«Come stai?»
Si erano seduti nella caffetteria poco lontani dal terminal dei voli internazionali, parlando del più e del meno.
«Bene, davvero. Ho questo concorso per la borsa di studio fra una settimana, non immagini quanto sia in ansia. Ma parlami di te, che hai fatto di bello in Svezia, eh?»
Rhaegar le sorrise trattenendo una risata. Daenerys lo osservò attentamente: suo fratello era sempre stato un tipo pacato, eccessivamente tranquillo per i suoi gusti, ma in più di un’occasione lo aveva visto stendere chiunque con le sue arringhe da avvocato consumato e di successo e non avrebbe potuto sentirsi più fiera e orgogliosa di lui.
«Nulla di particolarmente rilevante, ma c’era un loft parecchio grande sulla costa e ho pensato che una volta o l’altra, saresti potuta venire ad abitarci per un po’, sai magari tu e Viserys potreste cambiare un po’ aria..»
Daenerys scosse il capo, sorridendo tetra.
«Perché fai così tanto per lui se tutto ciò che ricevi in cambio sono occhiate astiose e piene di sospetto? Viserys odia ciò che rappresenti per noi, Rhaegar. E poi,» accennò con un sorrisetto ironico, «Potrei anche venirci a vivere da sola, in quel loft sulla costa, se proprio insisti.»
«Non essere così dura con tuo fratello.» l’ammonì quest’ultimo, sospirando.
«Però sai quanto me che è la verità. Sai che secondo la sua contorta logica vorrebbe impedirmi di frequentare Architettura? Con quale diritto, Rhaegar?»
Suo fratello poggiò la schiena contro la sedia, chiudendo appena gli occhi chiari. Li avevano uguali, ereditati dalla loro madre.
«Non può certo impedirti di studiare.» disse lentamente, ponderando ogni parola, «Ti prometto che gli parlerò, Dany.»
Lei annuì, riflettendo tra sé. Viserys amava credere di avere il pieno e incondizionato controllo della sua vita, ma non poteva davvero pensare di farla franca. Rhaegar sarebbe anche stato lontano la maggior parte del tempo da Oslo, ma lei non avrebbe permesso al minore dei suoi fratelli di rovinarle la vita.
«Quando andrai via, le cose torneranno come prima.»
Rhaegar le prese le mani fra le sue, guardandola negli occhi.
«Allora non permettere che accada, sorella.» le sorrise con fare cospiratorio, «Prendi un appartamento vicino alla facoltà, allontanati da lui. Hai la mia parola che Viserys non contesterà una simile decisione.»
«Oh, lo spero.»
Erano circa le sei del pomeriggio. Dalle ampie vetrate dell’aeroporto il sole cominciava la sua lenta discesa verso l’ovest, illuminando d’oro e porpora l’orizzonte nel cielo.
Fu in quell’attimo − e lei ricordò la sera prima, una cena assolutamente non-convenzionale su un tetto di New York, le loro passeggiate a Central Park, Jon che si stupiva di ogni sfumatura di Oslo quando andavano in giro per la città di notte, l’aria fresca che sferzava i visi di entrambi quando lo aveva portato nei pressi del fiordo che circondava la città − in cui pensò a tutto questo, e lo vide tra la folla.
Rhaegar la guardava in attesa, probabilmente le aveva posto una domanda cui Daenerys non avrebbe risposto.
«Tu va’ pure.» mormorò al fratello, non riuscendo a staccare gli occhi da quell’immagine lontana, forse eterea e inconsistente come l’ennesima delle visioni, «Ti raggiungo tra poco.»
Rhaegar annuì, curioso, seguendo lo sguardo delle sorella.
Sorrise, dirigendosi verso l’uscita dell’aeroporto.
 
                                                                                 
Camminò insicura domandandosi di continuo se quella fosse un’allucinazione o meno, se si trovasse lì semplicemente perché aveva pensato a lui – come le tante altre volte in cui era accaduto, e quella connessione si era attivata per qualche arcana e misteriosa ragione – ma qualcosa, nelle occhiate che si stavano scambiando, suggerì a Daenerys che non era così.
Jon aveva con sé solo una sacca da viaggio in spalla, l’aria da forestiero impressa nei tratti di un viso che lei conosceva a memoria come una parte di sé indelebile e perpetua.
E tutto quello che riuscì a dire una volta di fronte a lui, fu un: «Che diavolo ci fai qui?» colmo di sorpresa mista a perplessità, e Jon le sorrise e lei ricambiò non potendo fare a meno di trovare quella situazione esilarante.
«Ho chiesto il trasferimento.» buttò lì come fosse niente e Daenerys ci mise un paio di secondi a collegare il tutto – la notte precedente, quando Jon l’aveva baciata, non era sicura di aver distinto poi esattamente realtà dall’illusione, quando si erano ritrovati tra le sue lenzuola che sapevano di vita e risate e di un nuovo inizio.
«Non dirlo−» ne rimase stupita, aprendo la bocca per rispondergli con una battuta delle sue, richiudendola di scatto un attimo dopo, «Hai chiesto il trasferimento alla polizia norvegese, Jon Snow?!»
Jon annuì cauto come se la sua non fosse la reazione che si aspettava, non nell’immediato, perlomeno, «Be’, sì.»
«Cavolo.» Daenerys si guardò un attimo intorno, tornando a osservarlo con tanto di sopracciglio inarcato e una punta di malcelato scetticismo, «Sei reale, vero?»
E allora Jon rise, avvicinandosi e prendendole il viso tra le mani, baciandola a lungo finchè entrambi non erano rimasti senza fiato e i polmoni con il rischio di collassare, le dita adesso immerse tra lunghi capelli d’argento.
«Sono reale.» sussurrò, la fronte contro quella di lei.
«Dio, devo averti affascinato molto per averti spinto a chiedere il trasferimento.»
«Credo che il paesaggio stia stato determinante, a dire il vero.»
Sapevano entrambi che era la più infantile e scontata delle bugie, perché alla fine anche lei si sciolse in un sorriso che della caratteristica piega ironica aveva ben poco, avvicinando i loro visi ancora e ancora, tra la folla dell’aeroporto che non li vedeva.
«Pensavo che essendo un poliziotto potessi inventarti scuse più plausibili, sai?»
«La scusa plausibile – e principale, alla fine – suppongo sia stata una certa fanciulla con la luce della luna tra i capelli.»
Daenerys non ricordava se nessuno le avesse mai detto qualcosa del genere, probabilmente no. E se le alternative in suo possesso fossero state un’eterna illusione e un contatto dai ritmi totalmente casuali e altalenanti, avrebbe accettato anche quello pur di avere qualcuno che la comprendesse per ciò che era.
«Sei uno yankee particolarmente poetico, eh?»
«Reminiscenze di letteratura inglese del college, mia signora.» la prese in giro con un sorriso divertito, e lei sorrise di rimando, felice come non lo era mai stata.
Jon era reale, adesso − un corpo caldo conto il suo, la medesima riservatezza che si portava addosso come un mantello, un amante meraviglioso − ed era tutto ciò che avesse mai potuto desiderare.
 
 
               
                        

 Fjords and Daenerys Targaryen:
one is a natural phenomenon so beautiful it will blow your mind, and the other is just some pretty pieces of rock in the ocean.






 
Note dell'autrice.
Buon pomeriggio, ew. Ri-faccio le mie più sentite scuse, ma per una marea di situazioni non ho potuto aggiornare prima, sebbene la storia avesse trovato la sua conclusione mesi orsono.
Come dicevo, questa mini-long è stata incentrata sul rapporto Jon-Daenerys, ma non escludo un possibile ritorno a tema Sense8, anche perchè è stato rinnovato per una seconda stagione, gente!

Che dire, spero di aver dato degna conclusione a due dei miei personaggi preferiti, perchè Jon e Daenerys alla fine si sono incontrati sulla scia di Riley e Will - e if you know what I mean, chi segue Sense8 avrà capito ;)
E come non potevo far comparire Rhaegar sulla scena? So benissimo di aver sottolineato la 'cattiveria', chiamandola così di Viserys, contro l'esser buoni di Dany e Rhaegar stesso, ma l'effetto che volevo ottenere era proprio questo: ho odiato Viserys dal primo momento in cui è comparso, nonostante l'abbia ampiamente rivalutato in seguito.

Ora, c'è una cosa che vorrei precisare a proposito del personaggio di Daenerys, sotto molti punti di vista diverso da quello dei libri o della serie: nel periodo di stesura della long, stavo leggendo Città di Carta di John Green e per chi ha letto il medesimo libro, con un po' di attenzione avrà rilevato delle similitudini tra Margo Roth Spiegelman e la mia Daenerys.

Poi, l'ultimissima parte è l'altra metà della citazione - opportunamente modificata - che ho scelto come titolo: "There are two reasons to go to Norwey. Fjords and Daenerys Targaryen: one is a natural phenomenon so beautiful it will blow your mind, and the other is just some pretty pieces of rock in the ocean."

Credo di aver finito, dalla regia mi dicono di sì!
Ringrazio chi ha preferito, seguito, recensito la long, davvero, siete stati gentilissimi.
Un bacio, alla prossima

fireslight

 

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