Incanto

di magixludo
(/viewuser.php?uid=161627)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1: Un ultimo anno ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2: Conversazione tra amiche ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3: Scontri in stazione ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4: Incontro in libreria ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5. L'insegnante d'inglese ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1: Un ultimo anno ***


Capitolo 1: Un ultimo anno

 
«Un altro anno. Solo un altro anno e poi sarà tutto finito» sto ripetendo questa frase da quando ho ripreso ad alzarmi alle sei dopo tre mesi durante i quali colazione e pranzo sono stati la stessa cosa.
Provo a convincermi che dopotutto non sarà così male, che rivedere tutti i miei amici e brindare con loro in piazza mi abbia rallegrato la mattinata, ma nel momento in cui attraverso il portone di una scuola che non è quella che ho frequentato per gli ultimi quattro anni sento un nodo allo stomaco.
Sfortunatamente alcune aule del nostro solito edificio scolastico sono inagibili a causa di alcuni lavori di ristrutturazione che si protraggono dalla primavera scorsa e, dato che non fare entrare alcune classi non era possibile, la preside ha deciso in piena autonomia – comunicando la notizia solo il giorno prima dell'inizio della scuola quando ormai aveva già organizzato tutto e sarebbe stato impossibile protestare – di spostare il nostro corso nell'altro istituto che è sempre sotto la sua giurisdizione. Ovviamente non le è passato neanche per un secondo per l'anticamera del cervello che forse dopo quattro anni una persona si sia abituata a frequentare un determinato posto, conosca la maggior parte degli studenti e non abbia piacere ad essere spedito lontano dai suoi amici.
Se non fossimo stati abbastanza entusiasti per l’inizio dell’anno dopo questa comunicazione improvvisa, quello che è successo durante il resto della mattinata non è certo servito a migliorarci l’umore: tanto per cominciare abbiamo ricevuto un’altra terribile notizia (la nostra professoressa d’inglese ha ottenuto il trasferimento in una sede più vicina a casa sua, per questo motivo ora dobbiamo aspettare che il provveditorato nomini un nuovo docente; non sono molto entusiasta della cosa, a differenza di alcuni miei compagni, e spero che si sbrighino perché essere indietro con il programma di letteratura inglese l’anno dell’esame di stato non è il massimo) quanto agli altri professori, non considerando che siamo appena tornati dalle vacanze e che magari almeno un giorno per riassestarci ci avrebbe fatto comodo, hanno iniziato subito a spiegare. Mi rendo conto di essere stata io stessa a dire di non voler restare indietro, però così mi pare addirittura esagerato. Dove sono finiti i bei vecchi tempi in cui ti chiedevano come avevi passato l'estate?
Alla fine suona l'ultima campanella e questa prima assurda giornata di scuola è finita.
Esco da scuola e avverto un tremendo senso di smarrimento attanagliarmi lo stomaco, deglutisco e cerco di scacciarlo mentre mi mischio a tutti quegli studenti che non ho mai visto.
Guardo l'orologio e sono lieta che per il primo giorno ci abbiano concesso di uscire alle undici, in realtà anche l'orario d'ingresso era posticipato alle nove, ma noi ci siamo incontrati nella piazza sotto la nostra scuola per brindare all'ultimo anno insieme alle altre quinte e poi siamo venuti qui insieme. Per arrivare abbiamo dovuto prendere pullman e metro e adesso mi toccherà rifare lo stesso lungo tragitto anche al ritorno, una strada molto diversa da quella che ho fatto in tutti questi anni in cui la scuola era vicino a casa mia!
Ho salutato i miei compagni prima di uscire dalla classe perché avevo immaginato che ci sarebbe stata confusione all'uscita, quindi, non dovendo aspettare nessuno, mi dirigo spedita verso la discesa per la metropolitana.
Mentre mi muovo nella ressa urto un gruppo di universitari, il più alto di loro mi scocca un'occhiataccia e si spazzola la parte della camicia che ho toccato, mi scuso e procedo oltre, verso la mia meta.
La fermata non è troppo lontana ma mentre vado mi fermo ad un bar a comprare una tavoletta di cioccolata per tirarmi su di morale dopo questa assurda giornata. Il sapore della Milka alle nocciole mi invade la bocca ed il mio umore migliora.
Sono i primi di settembre e fa ancora caldo, quindi il cioccolato si scioglie in fretta e io sono costretta a mangiarlo rapidamente, preferirei che questo piacere durasse di più, ma non posso modificare il tempo atmosferico.
Scendo le scale e vado sottoterra, faccio il biglietto e scendo un'altra rampa di scale. Quando sono quasi in fondo un flusso di persone che sale mi viene incontro, capisco subito che la metro deve essere appena arrivata; non ho voglia di aspettare la prossima che chissà quando passerà, quindi salto gli ultimi due scalini e corro verso il treno in partenza. Riesco a infilarmi poco prima che gli sportelli si chiudano, solo che lo slancio preso per la corsa mi fa quasi cadere, per (s)fortuna invece di finire a terra urto un ragazzo e resto in piedi.
Voglio scusarmi per la mia sbadataggine - di solito non sono così impedita ma evidentemente il cambio di scuola mi ha fatto più male di quanto pensassi - e alzo lo sguardo per incrociare quello del ragazzo. Gelo sul posto appena lo riconosco, l'ho già visto prima, all'uscita dalla scuola: è l'universitario che ho urtato poco fa. Il ragazzo è alto e snello, i suoi corti capelli sono neri, ha occhi verdi e un incarnato troppo pallido considerando che sono appena finiti due mesi di sole, ma ancora più strano è che con la temperatura che fa riesca ad indossare, senza versare una goccia di sudore, una candida camicia abbottonata fino al colletto e lunghi pantaloni neri.
«Hai deciso di seguirmi tutto il giorno e sbattermi costantemente addosso?» mi domanda, io non rispondo, limitandomi a scusarmi nuovamente, conscia che in realtà non sta davvero cercando di fare conversazione.
«Scontrosetta la tipa, eh?» a parlare è stato il ragazzo accanto a lui, ha ricci capelli rossi, occhi castani e lentiggini a ricoprirgli l'intero viso e anche lui l'ho visto prima nel gruppetto che ho urtato. Anche questa volta comunque non reagisco alla provocazione.
La metro si ferma e questa volta salgono molte persone e siamo costretti a stringerci, per fortuna non dobbiamo stare attaccati gli uni agli altri perché davvero mi sentirei una stupida a finire addosso allo stesso ragazzo per la terza volta nel giro di un'ora. In ogni caso siamo troppi e le persone nel vagone sono tutte sudate - tutte ovviamente tranne il ragazzo in camicia - la puzza e l'afa si mischiano provocandomi un giramento di testa. Se la temperatura fosse appena di qualche grado più bassa questo viaggio sarebbe molto più sopportabile, meno male che mi resta solo una fermata prima della mia.
Quando però il treno si riferma e le persone si accalcano per uscire io vengo spintonata e finisco di nuovo addosso a qualcuno, mi allontano subito, o meglio lo farei se riuscissi a muovermi nella folla, così rimango attaccata per la spalla al povero malcapitato che ho investito. Quando le persone se ne stanno finalmente andando e sto per allontanarmi e scusarmi come si deve sento una frase non molto carina nei miei confronti: «Fantastico, non bastava che l'incapace qui finisse addosso a Tommaso, ora ha preso di mira anche me!»
Mi volto indispettita verso il ragazzo che ho urtato - che almeno stavolta non quello dai capelli neri ma il suo amico rosso - e, invece di scusarmi, gli dico: «Di certo non l'ho scelto io di venire sballottata di qua e di là, ma quando i mezzi di trasporto sono pieni può succedere di urtare le persone!» e non so bene neanche io da dove ho tirato fuori questo coraggio.
Il volto del ragazzo assume di colpo lo stesso colore dei suoi capelli, lancia un'occhiata semi-disperata al suo amico e dice: «Oddio, dimmi che non l'ho detto ad alta voce!» ma non riesco a capire se sia ironico o davvero preoccupato, però per quanto mi faccia male ammetterlo temo che si stia prendendo gioco di me.
Il ragazzo, che deduco chiamarsi Tommaso da quanto ho sentito prima, rimane un attimo perplesso, guarda me e il suo amico e poi un lampo di comprensione sembra attraversare i suoi occhi, ma si limita a dire: «Probabilmente eri sovrappensiero e ti è scappato... e comunque non vedo quale sia il problema.»
Per fortuna molte persone sono scese alla fermata, così posso andare a sedermi dall'altro lato del vagone e ignorare questi due imbecilli, e il pensiero che probabilmente li rivedrò ogni giorno all'uscita da scuola non serve a migliorarmi l'umore. L'ideale ora sarebbe un pezzo di cioccolata, ma se l'avessi conservata si sarebbe sciolta. Dannato caldo!
Il treno frena per la terza volta ed esco subito; probabilmente me lo sono immaginato ma giurerei che Tommaso mi abbia lanciato un'occhiata inquisitoria e che mi abbia osservata fino a quando le porte non si sono richiuse e il convoglio non è ripartito, ma probabilmente mi sbaglio e si è solo chiesto se dovrà tenere gli occhi aperti per il resto dell'anno per evitare che gli finisca costantemente addosso.
Mentre salgo le scale già immagino il caldo torrido che mi assalirà, e invece all'uscita una folata di vento fredda mi fa stringere le braccia intorno al corpo. È assurdo, fa troppo freddo per essere settembre: è proprio vero che non ci sono più le mezze stagioni. Non che mi lamenti, intendiamoci, del resto è da quando sono uscita da scuola che ho desiderato che la temperatura si abbassasse.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2: Conversazione tra amiche ***


Capitolo 2: Conversazione tra amiche
 
Tornata a casa accendo il computer e vedo se Rebecca è online: le devo assolutamente raccontare com'è andato il primo giorno di scuola. I miei genitori mi hanno già avvisata che non sarebbero rientrati per pranzo, quindi posso chattare senza interruzioni. Sullo schermo mi appare una notifica per avvisarmi che ho un nuovo messaggio, non riesco a trattenere un sorriso quando noto che è la risposta al mio saluto.
Io e Reb ci conosciamo dai tempi dell'asilo e abbiamo sempre affrontato i primi giorni di scuola insieme, almeno fino ad oggi; lei è partita tre giorni fa per passare una settimana in America. In effetti è strano che a quest'ora – faccio un rapido calcolo mentale e mi rendo conto che da lei dovrebbe essere notte fonda – lei sia già in linea.
-Ho messo la sveglia. Facendomi trovare alzata, volevo almeno in parte farmi perdonare per non essere stata lì con te.- mi scrive lei, neanche avesse intuito le mie perplessità. In realtà non è così strano che abbia previsto ciò che stavo per domandarle, chi ci conosce sostiene che siamo telepatiche, ma è semplicemente dovuto al fatto che siamo amiche da una vita e ci basta uno sguardo per capirci.
Stavolta tocca a me leggerle nel pensiero, e così, prima ancora che me lo chieda, le racconto delle due ore di lezione che abbiamo fatto, della professoressa di storia che ha già assegnato due paragrafi e di quella di inglese che ha ottenuto il trasferimento e che ci ha lasciati scoperti proprio l’ultimo anno.
-Hanno detto che a breve dovrebbe essere nominato un nuovo professore.- scrivo.
-Speriamo che sia un uomo affascinante!- digita lei in risposta, con tanto di faccina con gli occhi a cuoricino.
Alzo gli occhi al cielo, anche se so che non mi può vedere.
-Non osare alzare gli occhi al cielo!- scrive.
Mi viene da sorridere, un po’ per la nostra telepatia, un po’ per il suo solito comportamento da cacciatrice di uomini: fa gli occhi dolci a qualsiasi ragazzo incontriamo, eppure non è mai uscita da sola con nessuno.
-A proposito di uomini carini, ha incontrato qualche bell'universitario?- scrive.
Per l’appunto. Appena ha saputo della nostra nuova sede invece di disperarsi come tutti per la lunghissima strada che ci avrebbe aspettato ogni mattina il suo primo pensiero è stato per le nuove conoscenze che avremmo potuto fare.
Le mie dita digitano -No-, ma prima di inviare ci ripenso e riscrivo la frase: -Sì, un affascinante gruppetto di ragazzi.
-Ti sei presentata?
-Ovvio.
In questo modo le faccio anche capire che la frase di prima era uno scherzo: sappiamo entrambe che non avrei mai avuto il coraggio di fare una cosa del genere da sola, ma non vedo il problema se romanzo un po’ l’incontro di prima descrivendomi come un’intrepida eroina. Presa da questo desiderio di rappresentarmi come un'avventuriera aggiungo: -Mi sono anche fatta dire il nome di uno di loro, si chiama Tommaso. Appena torni ti presento il mio nuovo migliore amico.
Più palese di così che stia mentendo è impossibile, tuttavia Rebecca decide di stare al gioco e mi scrive in risposta: -È carino?
 
Ovviamente; dovevo immaginare una domanda del genere. Le mie dita digitano in automatico senza che il mio cervello connetta, solo che questa volta non mi fermo a rileggere prima di inviare: -Ha dei magnetici occhi verdi!
Se avessi scritto “non era niente di che” Rebecca probabilmente ci sarebbe rimasta male, anche se ha sicuramente capito che sto rielaborando alcune cose, deve avere anche intuito che l'incontro – in un modo o nell'altro – è avvenuto lo stesso. Mentre aspetto la sua risposta ripenso anche al ragazzo con cui oggi mi sono scontrata per ben due volte e mi rendo conto che è strano che mi sia addirittura ricordata il colore di quegli occhi che ho visto per pochi istanti, e che, in realtà, non erano poi così speciali: dei comunissimi occhi verde smeraldo. In realtà io non ho mai visto nessuno con un colore del genere, così deciso e intenso, ma io non conosco il colore degli occhi di tutti gli individui sulla faccia del pianeta, quindi non sono un metro di giudizio affidabile; comunque sono sicura che Rebecca approverebbe: da quando la conosco sostiene sempre che il suo uomo ideale dovrebbe avere gli occhi verdi o blu; ogni volta le facevo notare che sono due colori troppo diversi tra loro perché le piacciano entrambi indifferentemente, ma lei si stringeva nelle spalle, biascicava un “de gustibus” e poi cambiava argomento. Quanto a me, non so di che colore debba avere gli occhi il mio uomo ideale, ma dopo oggi so per certo che non li vorrei di quell'improponibile verde.
-Scusa ma ora torno a dormire. Ci sentiamo!
Leggendo l'ultimo messaggio arrivato, mi sento un po' in colpa perché persa nei miei ricordi non ho più prestato attenzione a quello che mi ha scritto Reb, che ha cercato di richiamare la mia attenzione per un po’ prima di disconnettersi; ormai è tardi per riprendere la nostra conversazione, quindi mi limito a inviarle una faccina felice e spengo anche io il computer.
Allontano la sedia dalla scrivania, mi stiracchio e poi mi alzo per andare a cercare qualcosa da mangiare.
La cucina non è mai stata una delle mie passioni, ma quando, dopo aver cercato per tutta la dispensa, mi rendo conto che l’unico piatto freddo disponibile è pane e prosciutto e non ne ho voglia, inizio a riempire una pentola d'acqua. Dallo scaffale tiro fuori un pacco di pennette e prendo un panetto di burro dal frigo. Quando vedo che la pentola è piena cerco di metterla sul fornello, però mentre la alzo la presa su un manico mi scivola e tocco l'acciaio.
Un tonfo sordo segna la caduta della pentola, il pavimento è tutto bagnato ma io non ci faccio caso, sono troppo impegnata a controllare di non essermi bruciata la mano. Appena ho toccato quello che credevo sarebbe stato freddo metallo mi sono scottata e per la paura ho perso la presa. Afferro una presina per togliere di mezzo la pentola e poter passare a terra lo strofinaccio, ma non faccio attenzione e tocco di nuovo il metallo.
E niente. Sento solo semplice e freddo acciaio.
Di nuovo mi fermo sorpresa e sconcertata, possibile che mi sia immaginata tutto? Forse il caldo mi ha dato alla testa?
Per cercare di fare chiarezza nei miei pensieri decido di iniziare ad asciugare l'acqua rovesciatasi, ma quando mi guardo intorno mi rendo conto che è già tutto asciutto. Non mi ricordo di aver pulito oppure non è mai successo niente?
Mi passo una mano tra i capelli biondi e la testa inizia a farmi male. Mi rialzo dal pavimento su cui ero inginocchiata e decido che forse, dopotutto, posso accontentarmi di sottiletta e prosciutto.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3: Scontri in stazione ***


Capitolo 3: Scontri in stazione

 

Al suono dell’ultima campanella ci fiondiamo fuori dall’aula. Il secondo giorno di scuola è appena finito ed è stato peggio del primo: la professoressa di storia ha assegnato altri due paragrafi e ha detto che domani chiamerà qualcuno di noi per interrogarlo – il terzo giorno di scuola! – su quanto studiato fino ad ora, inoltre non si sa ancora niente sul nuovo insegnante di inglese, ma in effetti ammetto che aspettarmi notizie già da ora sia stato esagerato da parte mia.
Mi dirigo in stazione con calma perché dopo quattro ore di lezione non riuscirei neanche a correre per salire al volo sul treno come ho fatto ieri, probabilmente se fossi andata in palestra più spesso come molte mie compagne invece di passare tutti i pomeriggi a leggere ora sarei più atletica, ma in fondo mi va bene anche così.
Devo aspettare cinque minuti che il treno arrivi, quando si ferma noto che i vagoni non sono molto pieni ma i posti a sedere sono quasi tutti occupati: non ce la farei a fare tutto il viaggio in piedi quindi quando le porte si aprono davanti a me, appellandomi a quelle poche energie che ancora mi restano, salto dentro senza esitare. E urto qualcuno.
Se avessi voluto farlo apposta penso proprio che non ci sarei mai riuscita. Io entro nel momento in cui lui scende e ci scambiamo i posti, scontrandoci. In realtà si è trattata semplicemente di un “spalla contro spalla”, nessuno è finito a terra, eppure l’altro non sembra tanto disposto a ignorare l’accaduto.
«Non sai che è buona educazione far scendere prima di salire?» dice gelido spolverandosi il punto della camicia inamidata in cui l’ho urtato, come aveva fatto anche ieri. Tommaso è più alto di me, ma essendo io sugli scalini del treno riusciamo a guardarci negli occhi. Vorrei scusarmi ma vorrei anche sedermi prima che occupino tutti i posti, considero che di certo non sarò il primo giovane a non chiedere scusa per uno scontro e neanche l’ultimo, così gli do le spalle.
Quello che succede poi si svolge nel giro di così pochi attimi che forse non è neanche davvero mai accaduto.
Lui deve essersi sentito ignorato, ferito nell’orgoglio o chissà cos’altro e sbraita: «Chiedi scusa!», mi afferra per un braccio per farmi voltare, io mi giro più per la sorpresa di quel contatto così brusco che perché mi abbia davvero costretta lui, anche perché mi ha lasciata subito dopo avermi toccata. Sconcertata guardo la mano con cui mi ha afferrata e giurerei di vederla fumare: si è bruciato? Ma in un battito di ciglia è il fumo sparito, la sua mano torna normale – ammesso che non lo sia sempre stata –, e lui la infila subito nella tasca del pantalone.
Il treno fischia. Tommaso si allontana dai binari ma continua a tenere gli occhi fissi nei miei, quando mi sono voltata di scatto mi è quasi sembrato di vedere un lampo di sconcerto anche nei suoi occhi – forse si è subito pentito dell’azione improvvisa o forse stava pensando a qualcos’altro che non saprò mai –, ma in ogni caso ora il suo sguardo è di nuovo calmo e calcolatore.
Le porte si chiudono. Solo quando il treno lascia la stazione mi rendo conto che sono rimasta in piedi e che i sedili sono tutti occupati.


Il terzo giorno di scuola sento l’ansia salire mano a mano che la metro si avvicina alla mia destinazione: ieri ho studiato storia tutto il pomeriggio, ma ho comunque paura perché se mi dovesse interrogare questa sarebbe la mia prima interrogazione dell'ultimo anno. In realtà non ho proprio sempre studiato, mi sono anche ritagliata un po’ di tempo per messaggiare online con Rebecca e aggiornarla delle novità, lei mi ha chiesto se avessi rivisto l’affascinante universitario di cui le avevo parlato, non mi sentivo in vena di scriverle tutto l’accaduto, quindi mi sono limitata a dirle che forse lo avevo solo intravisto sul treno affollato. Non mi è sembrata tanto entusiasta della risposta perché dopo un rapido saluto si è subito disconnessa, però è anche probabile che avesse semplicemente da fare.
Salgo le scale per uscire dalla metro e controllo l’orologio per assicurarmi di essere in orario, quando però alzo lo sguardo dal quadrante vedo una cosa che mi fa fermare di colpo: proprio all’uscita, seduto sul muretto c’è Tommaso; ha la sua solita aria da nobiluomo, con il colletto della camicia ben alzato e i pantaloni perfettamente stirati, è un peccato che sia un maleducato. Mi guardo rapidamente intorno cercando una via di fuga o qualcuno a cui chiedere aiuto, ma poi mi rendo conto che siamo alla luce del sole in un posto affollato e sarebbe uno sciocco se provasse a rifare quello che ha tentato ieri, devo solo uscire da qui prima che questo posto si svuoti. Non appena salgo un gradino, lui però scende dal muretto, per un attimo mi illudo che se ne stia andando, ma poi vedo che si guarda intorno e, nel momento in cui i suoi occhi incrociano i miei, si dirige verso di me. Lui scende le scale e io rimango immobile valutando la possibilità di scappare di nuovo dentro, sto per voltarmi ma qualcuno che va di fretta mi urta e io cado… proprio tra le braccia di Tommaso. Lui sembra infastidito e per un attimo credo di vedere nei suoi occhi un lampo di… non so neanche io cosa, però niente di buono. Poi però mi rimette in piedi e torna indietro di un gradino per mettere della distanza tra di noi notando che mi trovo a disagio, poi però sembra cambiare idea e mi oltrepassa per scendere un paio di gradini, cosicché i nostri occhi sono alla stessa altezza.
«Sono spiacente per le mie villane maniere di ieri, spero tu possa concedermi di fare ammenda.»
Quasi non posso credere a quello che sento, un ragazzo che ho urtato un paio di volte ma che praticamente neanche conosco mi ha aspettata per chiedermi scusa, o forse era solo lì ad aspettare qualche suo amico e vedendomi arrivare ha colto l’occasione. Ignorando il modo strano in cui ha formulato la richiesta di perdono mi convinco che il nostro incontro sia solo frutto di una casualità, almeno fino a quando non mi accorgo che mi ha portato anche un “dono di pace”: all’inizio non l’avevo notata, ma quando me la porge capisco che la tavoletta di cioccolata che ha in mano è per me. La prendo in mano e leggendo l’incartamento vedo che è quella che stavo mangiando l’altro giorno e che evidentemente mi deve aver visto comprare mentre andava con il suo amico alla stazione.
«Ma sì certo, scuse accettate» dico con un sorriso. Lui annuisce, poi si volta e riprende a scendere.
«Credevo che la tua università fosse di là» sentendomi parlare si gira verso di me e io gli indico l’uscita alla quale aspettava.
«So perfettamente dove si trova la mia università» risponde saccente e il suo tono mi fa quasi pentire di aver ceduto subito; sono quasi tentata di restituirgli il regalo e mandarlo a quel paese, ma poi mi rendo conto che non ha senso perdere il sonno per riflettere su uno sconosciuto, forse è per questo che quando continua la frase non posso fare a meno di sorprendermi «ma non vedo perché dovrei andarci visto che oggi non ho corsi».
Sbatto le palpebre un paio di volte per metabolizzare quelle parole, lui non vedendomi rispondere riprende la discesa e quando finalmente trovo qualcosa di adeguato da dire è già sparito.
Mi passo una mano tra i capelli e, compiendo il gesto, l’occhio mi cade sull’ora. Inizio a correre per arrivare puntuale; per strada sono quasi tentata di gettare la cioccolata in un cestino – il comandamento dell’infanzia di non accettare caramelle dagli sconosciuti persiste ancora, l’unico motivo per cui prima ho preso la tavoletta è perché già sapevo che non l’avrei mangiata – ma poi mi accorgo che sarebbe uno spreco buttarla quando è ancora incartata, così decido di darla a un mendicante che la possa apprezzare.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4: Incontro in libreria ***


Capitolo 4: Incontro in libreria


- I dialoghi in corsivo da questo capitolo in avanti sono "traduzioni" dall'inglese -
 

Non ho raccontato a Rebecca neanche del secondo incontro con Tommaso e mi sento un po’ in colpa visto che tra di noi non ci sono mai stati segreti: sembrerebbe assurdo, ma un ragazzo che neanche conosco rischia di rovinare la nostra amicizia, o forse sono solo io che sono troppo melodrammatica; in ogni caso Reb torna domani, quindi al massimo le dirò che volevo parlarle di persona.
Poso sul comodino il libro che stavo leggendo e resto stesa sul letto a contemplare il soffitto bianco, indecisa su cosa fare: non ha chiamato me, ma la professoressa ha comunque interrogato, prendendosi tutta l’ora e non spiegando, motivo per cui non ho niente di nuovo da studiare, la versione di greco l’ho già tradotta e i miei genitori non sono ancora tornati. Qui da sola mi annoio, perciò decido di andare a fare un giro. Rapidamente sostituisco i pantaloncini e la canotta che indosso con jeans e una t-shirt azzurra, infilo le scarpe da ginnastica, sciolgo la coda di cavallo, lasciando che i capelli ricadano lisci sulle spalle, afferro la borsa ed esco di casa. Non ho in mente una meta precisa, ma i piedi mi portano in automatico nella mia libreria preferita; ho fatto questa strada così tante volte che non ho neanche bisogno di pensare al tragitto.
Arrivata al negozio, girovago un po’ tra gli scaffali: non sto cercando qualcosa in particolare da acquistare, anche perché ho ancora una pila di libri da leggere, però mi piace aprire nuove copie e sentire l’odore della carta stampata di fresco. La libreria è grande e non affollata, quindi faccio avanti e indietro tra i vari scaffali senza infastidire nessuno. Dopo aver curiosato nel reparto fantasy e poi in quello thriller, mi ritrovo nella sezione dei libri in lingua. Conosco bene l’inglese e mi piace leggere i miei romanzi preferiti così come sono stati scritti, inoltre, nella maggior parte dei casi, trovo le edizioni originali più belle di quelle tradotte. Prendo in mano una copia di Pride and Prejudice per leggere l’incipit che tanto adoro… quando mi stacco dal libro ho finito il primo capitolo. Alzo lo sguardo dalle pagine e noto che un uomo mi ha affiancata, tanto ero assorta nella lettura che non l’ho sentito arrivare. Giro le pagine distrattamente mentre con la coda dell’occhio l’osservo: sarà una decina di centimetri più alto di me e avrà intorno ai trenta-trentacinque anni, indossa un lungo cappotto, pantaloni gessati e scarpe lucide, l’unico colore del suo vestiario è il nero, accanto alla sua gamba c’è una valigetta in pelle, sta sfogliando un libro con i guanti. Da lettrice curiosa quale sono, sbircio il titolo: The picture of Dorian Gray.
«Ti piace Oscar Wilde?» domanda, voltando la testa verso di me, nel compiere il gesto la tuba che ha in testa si sposta leggermente di lato facendo spuntare dei riccioli castano chiaro. Non posso negare di essere affascinata dai suoi occhi: vicino alla pupilla hanno un colore azzurro-verde con degli sprazzi dorati, ma il bordo dell'iride è quasi blu. Sbatto le palpebre un paio di volte per assicurarmi di aver visto bene – e probabilmente lui deve pensare che io non abbia capito la domanda – ma non posso evitare di notare che devo essere proprio (s)fortunata se capita sempre a me di incontrare uomini con occhi improponibili e vestiti che sembrano usciti da una serata di gala. Quantomeno a questo non sono finita addosso.
Vedendo che non parlo è lui a sporgersi per scoprire il titolo del mio libro: «Capisco, una scrittrice di rosa non potrà mai competere con Oscar Wilde» e smette di prestarmi attenzione. Ma nessuno critica la mia adorata Jane Austen e poi la passa anche liscia, quantomeno devo dimostrargli che avevo capito la domanda iniziale: «In realtà adoro entrambi gli autori, e non sono una poi così grande fan dei romanzi d'amore»
«Un'adolescente che non s'innamora di qualsiasi personaggio maschile è cosa rara» commenta, e probabilmente non si rende conto di essere riuscito ad offendermi ben due volte in una manciata di minuti: «Semplicemente i personaggi moderni non hanno lo stesso fascino di quelli dell'Ottocento» dico indispettita, senza neanche sapere perché me la sto prendendo tanto per un'osservazione fatta da uno sconosciuto; in ogni caso, lui non sembra notare il mio umore e continua affabile a fare conversazione: «E allora, qual è il tuo "gentiluomo" preferito?» indica il mio libro «Mr.Darcy?» poi quello che ha in mano «Dorian Gray? oppure...» e infine uno sullo scaffale di fronte «Heatcliff?»
Resto sorpresa da una domanda così culturale, di certo non è il genere di conversazione che si ha tra sconosciuti, ma forse è proprio questo che mi convince a non andarmene: «Dorian Gray ha sicuramente il fascino da "bello e dannato" ma, considerando anche la sua fine, direi che con lui non converrebbe andare oltre qualche notte occasionale» non posso credere di aver davvero rivelato a uno sconosciuto che andrei a letto con un personaggio immaginario; però lui emana un'aura così tranquillizzante che non faccio più caso al mio imbarazzo e continuo: «Mr.Darcy invece mette da parte il suo orgoglio per amore e questo è dolcissimo!» Darcy è stato la mia prima cotta da classico letterario «quanto ad Heatcliff... ammetto di non aver mai letto Cime Tempestose» per quanto mi piacciano i classici questo libro non mi ha mai attirata, anche se le mie amiche lo reputano bellissimo: Rebecca, ad esempio, lo adora.
«È una grave mancanza non aver letto un simile capolavoro della nostra letteratura.»
Nostra? Questo tipo crede che io sia inglese? Solo perché so parlare bene la lingua non implica che provenga dalla Gran Bretagna! Lui, invece, viene sicuramente dall'Inghilterra, a giudicare dall'accento.
«In realtà io non sono inglese» confesso, anche se credevo lo avesse già intuito di suo. Lui mi osserva per un attimo, poi prende Wuthering Heights dalla libreria e si allontana. Sapevo che gli inglesi fossero snob, ma così esageriamo! Poi però lui si volta e mi osserva; si è fermato, ma non si aspetterà mica che io segua un perfetto sconosciuto chissà dove? Non ha la puzza sotto il naso, solo qualche rotella fuori posto!
«Saresti così gentile da accompagnarmi alla cassa?» domanda e con un cenno della testa indica ai miei piedi, abbasso lo sguardo e noto la ventiquattrore. Non sono la segretaria di un tipo incontrato per caso, ma visto che l'ha chiesto educatamente posso fargli questo piccolo favore (del resto l’accento inglese è sempre ammaliante e, soprattutto, c'è ancora gente nelle vicinanze).
Lo accompagno alla cassa, lo osservo pagare e quando ha finito gli restituisco la borsa; lui la prende, ma poi mi porge la bustina della libreria. Lo guardo sorpresa e anche un po' sconcertata: ha capito che non sono la sua cameriera, vero? Lo sconosciuto inglese sembra leggermi nella mente e si affretta a spiegare: «Il mio spirito patriottico mi spinge a diffondere la bellissima cultura del paese da cui provengo in tutto il mondo.»
Avendo capito le sue intenzioni, accetto con molto piacere il dono – e non posso fare a meno di notare che è il mio secondo regalo da uno sconosciuto nello stesso giorno e il mio pensiero va per un attimo a Tommaso – e lo ringrazio: «Grazie mille signor...»
«Smith. Benjamin Smith. Ma puoi chiamarmi Ben. Ti consiglio di leggere il libro al più presto, così se dovessi avere il piacere di rincontrarti potresti raccontarmi le tue impressioni.»
Io annuisco e sto per rispondere, ma vengo bloccata quando lui effettua un baciamano. Sono certa di essere arrossita e di avere gli occhi di tutti i clienti puntanti addosso, ma stranamente non mi sento imbarazzata, forse è ancora dovuto alla sua “aura calmante”.
Ben accenna un inchino e poi si allontana; lo seguo con lo sguardo fino a quando non svolta l’angolo e scompare alla vista. Nel momento in cui non lo vedo più, inizio a sentirmi una sciocca a stare da sola imbambolata in mezzo al negozio, così decido di tornare a casa, anche perché ormai si è fatto tardi.
Quando eravamo più piccole io e Rebecca immaginavamo il principe azzurro, non solo il colore dei suoi occhi: quando lei mi chiedeva quale fosse il mio ideale, rispondevo che doveva essere un vero gentiluomo dal vestiario sempre elegante e maniere formali. 
Considerando quest’ultimo punto si capisce ancora di più perché Tommaso non potrebbe mai andare bene.
Non ho idea neanche io di come abbia fatto ad infilarsi di nuovo nei miei pensieri, ma stringo forte la busta che ho in mano per concentrarmi su altro e scacciarlo dalla mia mente.
Non darò via il libro: è costato più di una tavoletta di cioccolata e sarebbe stupido buttarlo per motivazioni infondate. Lo sfoglio giusto per assicurarmi che non ci sia qualche cimice nascosta e, quando come previsto non trovo nulla, mi sento troppo paranoica.
Intendo conservare con piacere questo dono inaspettato e quando tornerò a casa iniziare subito a leggerlo.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5. L'insegnante d'inglese ***


Capitolo 5. L’insegnante di inglese

 

Ho perso le speranze che il provveditorato nomini un docente in tempo utile, di sicuro arriverà prima o poi, ma le altre quinte hanno già iniziato il programma e non vorrei ci trovassimo troppo indietro e fossimo poi costretti a fare le corse a maggio per finire il libro. Il mio sconforto aumenta se penso che è passata una settimana da quando la scuola è cominciata e le altre materie hanno già assegnato almeno un capitolo.
È sabato, quattro ore e poi festa fino a lunedì: avevo progettato di passare la domenica con Rebecca, ma quando è atterrata mi ha chiamata dicendomi di soffrire il jet-lag e non volere vedere nessuno tanto che era stanca, mi ha comunque rassicurata dicendo che lunedì verrà scuola e ci incontreremo; dopo quella telefonata ho pensato di non contattarla più per lasciarla riposare.
Siamo alla penultima ora, e vorremmo poter uscire adesso siccome per ultimo dovremmo avere inglese ma pare che non abbiamo portato alcune autorizzazioni – poco importa se siamo praticamente tutti maggiorenni e abbiamo consegnato i fogli ognuno dei quattro anni precedenti – e quindi, anche se resteremo scoperti per sessanta minuti, rimarremo in classe. Quando suona la campanella mi alzo dal primo banco e raggiungo alcune amiche in fondo all’aula: se dobbiamo restare qui, ci divertiremo a spettegolare. Assorta nella conversazione che va avanti da dieci minuti e con le spalle alla cattedra, mi accorgo che è entrato qualcuno solo quando i miei compagni iniziano a tornare ai loro posti producendo orribili stridii con lo strisciare di sedie e banchi. Decido a tornare a posto anche io e mi domando se hanno trovato un supplente o hanno mandato semplicemente un bidello. Mi giro e vedo la figura dietro la cattedra che mi sembra stranamente familiare. Torno al mio banco mentre lui si toglie in un cappotto e la tuba, liberando una matassa di riccioli. L’abbigliamento mi ha già riportato con la mente a quel pomeriggio in libreria, ma è quando parla e si presenta che i miei dubbi vengono dissipati: «Salve a tutti, sono il vostro nuovo insegnante di inglese, Benjamin Smith.»


Mentre lo osservo organizzare il suo registro personale ricopiando i nostri nomi realizzo due cose: a. non mi ha riconosciuta – mi ha qui di fronte alla cattedra e ma non ha inarcato neanche un sopracciglio, capisco che voglia mantenere la sua professionalità, ma neanche un lampo di riconoscimento è passato nei suoi occhi, ammetto di essere dispiaciuta e dallo scoprire quanto sia stato irrilevante il suo incontro con me – e b. a differenza sua, io non ho rivelato il mio nome, motivo per cui quando lo leggerà sul diario di classe continuerà a ignorarmi. Sto meditando se fargli notare a fine lezione che ci siamo già incontrati, quando si alza e ci chiede di presentarci e aggiungere anche un qualcosa che ci riguarda. La prima studentessa dice nome, cognome e che è vegetariana perché adora gli animali, il secondo che gioca a calcio dopo la scuola, la terza che l’anno prossimo vorrebbe frequentare la facoltà di giurisprudenza, e così via… dato che è partito dalla fila laterale in fondo – io sono davanti al centro – e siccome i miei compagni di classe li conosco, non ascolto ciò che dicono ma concentro la mia attenzione su Ben… sempre ammesso che mi sia ancora concesso di chiamarlo così. In libreria la tuba li nascondeva e non mi ero accorta che avesse i capelli ricci di un castano scuro con alcuni quasi bianchi sulle punte, nonostante la colorazione inusuale, le macchie chiare sono troppo disomogenee per essere opera di un parrucchiere, quindi sicuramente sono naturali, mi domando se li abbia avuti così fin dalla nascita… Senza il cappotto vedo anche cosa indossa sotto e, ricordandomi anche quel poco che ho visto in libreria, immagino che non si sia vestito così solo per impressionare i suoi alunni, ma sia il suo stile solito: un tre pezzi di colore grigio scuro con camicia bianca. Mi balena in mente l’immagine di un altro maschio con la passione per le magliette candide, tuttavia dura meno di un istante perché è il mio turno di parlare: «Mi chiamo Larissa Seleucida» ha chiesto di presentarci in inglese «e adoro leggere» questa è stata l’informazione che ho deciso di aggiungere, sperando che ricollegasse viso, voce e luogo… e invece niente. Ha ascoltato tutte le conversazioni in piedi davanti alla cattedra, quando si è accorto che era arrivato il turno della ragazza seduta al banco proprio di fronte a lui si è sporto leggermente per osservarmi meglio, ma quando ho finito di parlare è passato a concentrarsi sull’alunno successivo senza battere ciglio.
Quando l’ultimo studente si è presentato, il professore ricomincia a parlare per illustrarci il programma che svolgeremo quest’anno: «Ho controllato il programma che avete già fatto e sono stato felice di constatare che avete trattato tutti gli autori principali, così possiamo partire direttamente con i nuovi senza arretrati.»
Nonostante adori il periodo che andremo a studiare quest’anno – non sapendo quando sarebbe arrivato il docente avevo iniziato a sfogliare il libro – non riesco a prestare attenzione a ciò che dice, troppo sorpresa dal fatto che stia parlando in italiano, un perfetto italiano senza alcun tipo di accento o errore, e non riesco ad evitare di domandarmi perché al nostro primo incontro non abbia usato questa lingua quando gli ho rivelato di non essere inglese… d’un tratto l’“aura calmante” che lo avvolgeva dalla libreria sparisce, forse sono semplicemente io che ora sono più sospettosa nei suoi confronti, ma il suo atteggiamento da english gentleman con me non attacca più. Non so se lo nota, ma io cerco di essere il più esplicita possibile indietreggiando con il banco ed incrociando le braccia al petto; sta tenendo d’occhio tutta la classe, specialmente gli occupanti dell’ultima fila, ma sono sicura che con la coda dell’occhio mi abbia vista. Non smette di parlare, tuttavia dice qualcosa che cattura la mia attenzione: «Il programma comprende anche alcune autrici, come le sorelle Bronte; sono sicuro che tutte le ragazze abbiano sentito almeno parlare di Cime tempestose, e sono altrettanto certo che almeno una di voi al momento lo abbia in lettura, così per quando raggiungeremo questo punto del programma conto che questa persona faccia un’esposizione orale sul romanzo.»
Ci sono due cose che realizzo: a. il mio allontanamento improvviso deve averlo fatto arrabbiare perché mi ha assegnato un compito e b. mi ha assegnato come compito una recensione del libro che mi ha regalato; non ha detto esplicitamente il mio nome, né tantomeno guardava nella mia direzione, ma sono abbastanza sicura che si stesse riferendo a me. Provo a nascondere il sorriso che cerca di nascere, non so perché ma sapere che mi ha riconosciuta mi rende felice, lui mi guarda negli occhi e non riesco più a impedirmi di sorridere. È quando torna dietro la cattedra – quella è stata la sua ultima frase prima che la campanella suonasse – che mi rendo conto che la sua “aura calmante” ha ripreso a fare effetto. E questo non mi sta bene, non mi piace essere influenzata.
L’aula si è quasi svuotata e io mi avvicino alla cattedra perché ho la sensazione di dover dire qualcosa: «Professore, riguardo all’esposizione sul libro… al momento io lo sto leggendo, se vuole potrei farla io…» parlo in italiano, perché ora so che è pratico della nostra lingua. Non so come gli altri abbiano interpretato quello strano “assegno” e in realtà non posso essere neanche davvero certa che stesse parlando con me, così per sicurezza, e per evitare che tocchi a qualcuno che non lo ha letto, mi offro per la recensione orale, tanto il libro lo sto leggendo davvero: l’ho iniziato appena tornata a casa come mi ero ripromessa di fare e, anche se vado un po’ a rilento nella lettura dato che non sono madrelingua e quello resta un inglese non proprio recente, dovrei riuscire a finirlo per quando studieremo l’autrice.
Lui, ancora seduto, alza lo sguardo dal registro su cui stava segnando l’argomento della lezione e poi anche il mitico sopracciglio: «Temo di aver sbagliato qualcosa nel parlare se il mio messaggio non è arrivato chiaro: è ovvio che mi stessi riferendo a te, del resto sei l’unica in classe di cui conosco la lettura corrente
» e mi rivolge un caloroso sorriso, ma io non mi faccio distrarre, né tanto meno mi lascio sfuggire il cambio di lingua.
«Perfetto, allora aspetto notizie, professore» rispondo usando anche io l’inglese; in realtà ho fatto dei calcoli approssimativi sulle pagine del libro e le poche ore di lezione che abbiamo e dovrei avere circa un mese per concludere la lettura e preparare l’esposizione davanti alla classe, ma è sempre meglio avere conferma della data di consegna di un compito dal docente assegnatario.
Lui rimane un attimo meditabondo e sto quasi per andarmene pensando che forse voglia essere lasciato lavorare, ma poi ritorna a parlare e questa volta usa l’italiano, forse desideroso che il suo messaggio arrivi chiaro e comprensibile: «Forse sarò io che continuo ad avere problemi con la comunicazione, ma credevo di averti già detto che puoi chiamarmi Ben» devo starlo guardando con tanto d’occhi perché si affretta ad aggiungere «magari non durante la lezione, ma in momenti come questo in cui siamo soli può andar bene» mi guardo intorno accorgendomi di essere rimasta sola con lui, di colpo non voglio altro che lasciare anche io l’aula.
«D’accordo… Ben, allora ci vediamo lunedì prossimo» dico salutando e sperando di mettere fine all’assurda conversazione, lui ricambia il saluto con un baciamano e poi torna alle sue carte. Sono troppo sconvolta e desiderosa di andarmene per fare qualcos’altro che non sia uscire da scuola immediatamente.
Mentre mi avvio verso la metro mi guardo intorno alla ricerca di Tommaso, non perché abbia una cotta segreta per lui, ma essendo riuscita a urtarlo anche ieri e l’altro ieri (anche se comunque dopo martedì non ha fatto più scenate, si è limitato agli sguardi sprezzanti) cerco comunque di localizzarlo per non finirgli addosso. Alla fine lo vedo, è dall’altro lato della strada e parla con il suo amico dai capelli rossi; i nostri sguardi si incrociano per un istante… e basta, ritorniamo entrambi a concentrarci su quello che stavamo facendo.
In piedi nel vagone del treno che mi riporta a casa non posso fare a meno di sorridere al pensiero che quell’assurda maledizione che ci faceva scontrare sempre sia cessata. Sicuramente è questo il motivo della mia felicità, perché altrimenti dovrei ammettere che sono contenta di poter chiamare il mio nuovo professore per nome mentre siamo in privato, una situazione che potrebbe creare non pochi problemi nel corso dell’anno.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3391230