Destiny's Choise

di Cami1507
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo Due ***
Capitolo 3: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo Cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo Otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo Nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo Dieci ***
Capitolo 11: *** Capitolo Undici ***
Capitolo 12: *** Capitolo Dodici ***
Capitolo 13: *** Capitolo Tredici ***
Capitolo 14: *** Capitolo Quattordici ***
Capitolo 15: *** Capitolo Quindici ***
Capitolo 16: *** Capitolo Sedici ***
Capitolo 17: *** Capitolo Diciassette ***
Capitolo 18: *** Capitolo Diciotto ***
Capitolo 19: *** Capitolo Diciannove ***
Capitolo 20: *** Capitolo Venti ***
Capitolo 21: *** Capitolo Ventuno ***
Capitolo 22: *** Capitolo Ventidue ***
Capitolo 23: *** Capitolo Ventitré ***
Capitolo 24: *** Capitolo Ventiquattro ***



Capitolo 1
*** Capitolo Uno ***


Ero arrivata. Davanti a me si innalzava lo strano edificio dell'Hunter College High School. 
Mal volentieri mi ero trasferita nella grande città di Manhattan. Certo, era favolosa, solo che non ero abituata a tutto quel trambusto! Nel mio vecchio paese, Corning, non c'era di certo tutta questa confusione: per le strade non c'erano tutte quelle macchine e sui marciapiedi non c'era tutta quella gente. Lì le cose erano molto più tranquille e a volte anche monotone. Ma io amavo quella monotonia! Era difficile per me abbandonare la mia monotona quotidianità, soprattutto per scambiarla con quella vita frenetica piena di clacson e smog delle grandi città, ma papà aveva ricevuto un'opportunità di lavoro che non avrebbe potuto mai rifiutare! Non era da tutti lavorare al Morgan Stanley Children's Hospital, quindi ho dovuto impacchettare tutte le mie cose e trasferirmi nella Grande Mela. Per il carattere che possedeva mamma, non si era fatta alcun tipo di problema invece, era addirittura esaltata di questo cambiamento ed aveva trovato subito un nuovo lavoro.
Feci un respiro profondo e, anche se mi sarei messa volentieri a urlare come una pazza isterica, entrai con una maschera di moderata tranquillità dipinta sul volto. In segreteria stava una donna sulla quarantina con i capelli neri raccolti sul capo e un tailleur grigio che le davano un aria professionale.
«Tu devi essere Alexia Reed, giusto?», chiese con un caldo sorriso di benvenuto dipinto sulla faccia.
Io sorrisi e annuii, senza ovviamente dire una parola.
«Bene, sono contenta che tu sia arrivata, ti aspettavamo», disse mettendo sul bancone che ci divideva dei fogli di carta. «Questo è il foglio con i tuoi professori», disse indicando un foglio. «Loro dovranno firmarlo e a fine giornata me lo dovrai riportare. Questi invece», disse indicando altri fogli, «sono la piantina della scuola e l'orario delle tue lezioni».
Guardai il foglio e vidi che alla prima ora avevo matematica con un certo professor Gregor. Guardai la piantina e sospirai: almeno la prima lezione era qui vicino!
Guardai la signora dietro il bancone e sorrisi con gratitudine per la piantina che ovviamente mi sarebbe servita.
La signora di restituì il sorriso con calore e mi augurò buon primo giorno di scuola.
Speriamo!, pensai, ma come poteva essere un buon primo giorno di scuola se eravamo a metà gennaio e la scuola era iniziata ormai da mesi!?
Dovetti ammettere però che mi rilassai leggermente, avevo compreso che la segretaria sapeva del mio cosiddetto problema, quindi dovevano esserne già a conoscenza anche i docenti. Almeno non si sarebbero aspettati che parlassi. Era passato così tanto tempo dall'ultima volta...ma ora non volevo pensarci, sapevo che presto anche i miei nuovi compagni di scuola lo avrebbero saputo e mi avrebbero rivolto tutti occhiate strane.
Arrivai in classe proprio mentre stava suonando la campanella. Lo feci di proposito, non volevo rispondere alle mille domande curiose che le persone facevano di solito e volevo evirare il più possibile le occhiate curiose dei compagni di classe, ma ovviamente ciò era inevitabile poiché anche in corridoio vedevo alcuni sguardi incuriositi e i miei compagni avrebbero avuto tutta l'ora per guardarmi come se fossi un alieno o una pazza totale.
Il professor Gregor mi presentò alla classe e mi diede il materiale per la sua materia prima di farmi sedere. Io andai al mio posto con lo sguardo basso mentre arrossivo per tutti gli occhi puntati su di me, sperando che il rossore non si vedesse sulla mia pelle olivastra, ma ovviamente speravo invano. Quella mattina mi ero messa sopra i jeans un maglione verde pastello, poiché il verde simboleggia la speranza, nella speranza di passare inosservata, ma questa speranza era vana come il mio sperar che non si vedesse che ero arrossita.
Per tutta la lezione seguii il professore mentre spiegava un argomento che per fortuna avevo già affrontato alla Painted Post East High School di Corning, quindi non faticai molto a stargli dietro.
L'ora passo in un baleno e al suono della campanella sistemai i miei appunti e mi alzai cercando di scappar via prima che qualcuno cercasse di attaccar bottone con me. Uscita dalla classe mi dimenticai che non avevo completamente idea di quale fosse la prossima lezione né di dove si svolgesse, quindi, mentre camminavo, presi il foglio delle lezioni e quello della piantina della scuola. Mentre cercavo di trovare l'aula in cui insegnava letteratura il signor Burner andai a sbattere contro qualcosa. 
O meglio qualcuno.

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Capitolo 2
*** Capitolo Due ***


Un ragazzo alto una buona ventina di centimetri in più di me aveva smesso di parlare con due ragazzi accanto a lui proprio nel momento in cui cozzammo.
L'inaspettato colpo mi fece cadere i libri e i fogli che poco prima avevo in mano e, istintivamente cercai qualcosa a cui aggrapparmi per non fare la fine dei miei libri. Un paio di mani calde mi presero poco prima che toccassi il pavimento e mi rimisero in piedi.
«Tutto bene?», chiese una voce maschile.
Io alzai gli occhi e guardai il ragazzo che mi aveva risparmiato una grandissima figuraccia. I capelli nerissimi gli ricadevano in riccioli sulla fronte aggrottata per la sorpresa, il naso era dritto e ben fatto, gli zigomi alti e le labbra carnose erano piegate in un amichevole sorriso. Quando distolsi lo sguardo da quelle labbra trovai due occhi verdi che mi scrutavano sorpresi e cercavano di capire se fosse tutto a posto. Io distolsi immediatamente lo sguardo da quegli occhi e arrossii violentemente per la vergogna di essere andata a sbattere contro quel bel ragazzo.
Abbassai la testa e feci scivolare i miei capelli castano dorati in avanti, in modo da coprirmi il viso che sicuramente era diventato bordeaux per l'imbarazzo e mi chinai a prendere i fogli che mi erano cascati.
Il ragazzo si chinò e mi aiutò a prendere tutte le mie cose.
«Mi dispiace», disse porgendomi il libro di matematica.
Mi azzardai ad alzare gli occhi per dargli un'occhiata e vidi che stava sorridendo, senza nessuna traccia di ironia sul suo sorriso.
Scossi la testa, come per dirgli che era tutto okay e che non c'era bisogno che si preoccupasse, e sorrisi mentre prendevo il libro che mi stava porgendo. Mi alzai e così fece anche lui.
In quel momento lanciai un'occhiata ai suoi due amici, il più alto fra i due aveva una carnagione color ruggine che non contrastava per niente con i corti capelli nero corvino e gli occhi castani come la terra bagnata, così scuri che quasi non si distingueva la pupilla dall'iride. L'altro ragazzo, poco più basso del primo, aveva la testa piena di riccioli dorati e due occhi azzurri come il cielo. Entrambi erano sorpresi di aver assistito a quel buffo incidente che coinvolgeva la nuova arrivata a scuola, ma, anche se erano piuttosto divertiti, non dissero nulla, magari per educazione, o forse perché si sarebbero divertiti dopo quando io me ne fossi andata. Ovvio, se dovevo fare una figuraccia dovevo farla con i ragazzi sicuramente più carini della scuola!
Poi il più alto parlò. «Certo che puoi fare più attenzione quando cammini, Jason! Farai scappare a gambe levate la ragazza se le piombi addosso con tutta questa mole che ti ritrovi!». I due risero, ma senza contagiare il ragazzo davanti a me, Jason.
No, lui non rise con gli amici, invece mi stava squadrando, con un altro tipo di sguardo: non mi squadrava come facevano tutti gli altri, con curiosità, e nemmeno con la sorpresa che aveva prima negli occhi... C'era qualcosa di strano, come se mi stesse studiando.
Abbassai di nuovo lo sguardo avvampando ancora per l'imbarazzo.
«Già...», rispose Jason all'amico. In quel momento la campanella suonò di nuovo e il ragazzo si affrettò a dire agli amici: «È meglio se ci sbrighiamo per andare a lezione». Poi si voltò verso di me. «Mi dispiace ancora», mi disse e s'incamminò coi suoi amici al fianco.
Io scossi la testa per cercare di schiarirmi le idee e continuai a guardare sulla piantina della scuola dove fosse l'aula del professor Burner e, dopo averla trovata ed essermi orientata, mi affrettai per raggiungerla.
Arrivai appena prima che il professore chiudesse la porta.
Per un momento il professore mi guardò, come chiedendomi perché fossi  lì, poi il suo sguardo cambiò, come se la sua mente fosse attraversata dalla risposta alla domanda che aveva espresso tacitamente.
Dopo aver firmato il foglio e avermi dato il materiale per la sua materia, nemmeno lui mancò di presentarmi al resto della classe.
Ovviamente, esattamente come era successo l'ora prima, avvampai e cercai con gli occhi un banco libero per poterlo raggiungere e evitare tutti quegli occhi puntati su di me.
Mentre attraversavo la stanza per arrivare al banco che si trovava in fondo all'aula, notai che era proprio dietro quel ragazzo di prima, Jason, il quale stava dicendo qualcosa a bassa voce all'amico bruno, davanti a lui, mentre entrambi mi guardavano con uno sguardo diverso da quello che aveva il resto della classe. Sebbene anche i loro occhi erano colmi d'interesse, come quelli degli altri, nei loro sguardi vidi qualcosa di più, come se mi stessero studiando e valutando. Mentre gli passavo accanto, presa dal nervosismo che il loro sguardo aveva scatenato su di me, accelerai il passo per raggiungere il banco il prima possibile. Quella, però, non fu una mossa geniale, poiché inciampai sui miei stessi piedi.
Le mani calde che poco prima erano state pronte a prendermi al volo mi riafferrarono e io fui salvata per la seconda volta in meno di dieci minuti. Purtroppo ciò non mi salvò dal fare una figuraccia con Jason e il suo amico. Avvampai violentemente per la vergogna e stavolta la voce di Jason non era più preoccupata, piuttosto direi scocciata, quando mi disse «Stai attenta!» prima di lasciarmi.
Io arrivai al mio banco e avrei voluto sprofondare .
Per il resto della lezione non alzai lo sguardo dal mio libro di testo e, quando suonò la campanella, fui ben attenta a guardare la piantina per vedere come raggiungere l'aula di spagnolo della professoressa Gonzales.
La stessa umiliazione della presentazione che si era verificata nelle lezioni precedenti si ripeté anche durante l'ora di spagnolo e di storia, che si tenne dopo spagnolo con la professoressa Church. In entrambe le lezioni notai con sollievo che Jason non era presente, anche se in entrambe le lezioni era presente l'amico biondo di Jason e in quella di storia anche quello moro.
Notai che, durante la mia vergognosa presentazione alla classe, il moro diceva qualcosa al biondo e, dopo, vidi che anche il biondo mi guardava come mi avevano guardato i suoi amici prima di lui.
Era snervante essere osservata in quella maniera! Non ne capivo il motivo.
Dopo storia c'era l'ora del pranzo, perciò mi avviai insieme agli altri verso la mensa, senza dire niente a nessuno.
Dopo aver preso un vassoio con il mangiare mi avviai verso un tavolo vuoto e mi sedetti. Dalla parte opposta a quella in cui mi ero seduta io si misero a sedere due ragazze, il più lontano possibile da me e, dopo avermi squadrata, cominciarono a bisbigliare tra di loro, come se avessero stabilito tacitamente entrambe di ignorarmi e io fui grata per questo. Speravo che anche il resto della scuola prendesse la stessa iniziativa, ma in realtà sentivo gli occhi di molti puntati su di me. Mi sentivo come bruciare la pelle per quegli sguardi così indiscreti! A un certo punto alzai gli occhi e incontrai un altro paio di occhi verdi che mi fissavano con un espressione indecifrabile. Allargai la visuale e vidi che oltre a Jason c'erano i suoi due amici che mi guardavano con la stessa espressione indecifrabile ma con qualcosa in più. A differenza di Jason sembravano sconcertati, evidentemente non riuscivano a nascondere del tutto i loro sentimenti. Con loro c'era anche una ragazza dai capelli ramati i cui ricci arrivavano a sfiorarle le spalle,  la pelle era talmente chiara che sembrava di porcellana e gli occhi blu. Anche lei mi guardava, dapprima con curiosità, poi come se stesse cercando anche lei di valutarmi, poi, dopo aver scambiato due parole coi ragazzi, con l'espressione sconcertata degli altri due ragazzi.
Improvvisamente fui assalita da un attacco di rabbia! Perché si comportavano così le persone in quel gruppetto? Che cosa avevo fatto per ricevere quelle occhiate? Guardai intorno e vidi che le altre persone mi stavano guardando, sì, ma non nello stesso modo in cui mi guardava quel gruppo. Poteva esserci sorpresa, nei loro occhi, curiosità, magari anche interesse in qualcuno e persino divertimento – probabilmente stavano parlando della figuraccia che avevo fatto in corridoio o a letteratura –, ma di certo non c'era lo sconcerto!
Gli occhi mi cominciarono a bruciare, sentivo le guance andare in fiamme, stavolta non per la vergogna, ma per la rabbia! Serrai la mascella e i pugni e lancia un'occhiataccia carica di odio per quel gruppetto.
Improvvisamente sentii una stretta alla bocca dello stomaco e nello stesso momento le finestre della mensa si spalancarono portando all'interno della sala riscaldata una raffica di vento gelido. Quasi non me ne accorsi, rimasi a fissarli finché l'ultimo dei quattro, Jason, non distolse lo sguardo. Quando lo fece mi guardai intorno incredula: gli studenti stavano lottando contro le finestre per cercare di chiuderle e far rimanere il freddo invernale di gennaio al di fuori di quella stanza, ma invano; il vento continuava a entrare, spalancando le finestre quando stavano per chiudersi.
Fui attraversata da un'ondata di paura per ciò che stava succedendo. La paura mi chiuse la gola, come ogni volta quando succedeva qualcosa del genere. Cominciai a tremare e finalmente i ragazzi riuscirono a chiudere le finestre. Dopo un po' riaprii le mani che avevo chiuso a pugno e le sentii indolenzite per lo sforzo che avevo applicato su di esse.
Cercando di mantenere il controllo presi il vassoio in mano e andai a buttare il resto del mio pranzo nella spazzatura, dopodiché corsi fuori e m'infilai in bagno, lieta che fosse vuoto.
Mi lavai la faccia con l'acqua gelida cercando di calmarmi, ma ormai i ricordi delle fiamme che si alzavano tutto intorno a me avevano invaso la mia mente.
Respirai profondamente più e più volte per cercare di riprendere il controllo di me stessa e mi sciacquai la faccia di nuovo. Mi guardai allo specchio e vidi due occhi color cioccolato pieni di terrore che mi guardavano. Li chiusi e dopo qualche altro respiro li riaprii. Finalmente avevo ripreso il controllo di me stessa!

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Capitolo 3
*** Capitolo Tre ***


In quel momento dalla porta del bagno entrò una ragazza. Guardandola meglio mi accorsi che era quella seduta al tavolo di Jason. Da vicino notai che era bassa soltanto messa a confronto con i suoi amici, perché mi superava di cinque centimetri buoni – il mio metro e sessantacinque non sembrava abbastanza per questo posto, tutti erano più alti di me – e sugli zigomi vi erano delle leggere lentiggini che stranamente le donavano. Aveva un sorriso cordiale e negli occhi vi era solo preoccupazione, niente a che fare con lo sguardo che aveva avuto poco prima a pranzo.
«Ciao», disse con voce allegra.
Io la fissai, sconcertata. Come mai tutta quella cordialità dopo quelle occhiate?
«Io sono Caroline, tu sei Alexia, giusto?», chiese porgendomi la mano. Io la guardai con aria interrogativa e alzai un sopracciglio. Perché tutta quella gentilezza?
«Siamo insieme nella classe di spagnolo», si giustificò lei con un sorriso.
Okay, siamo insieme nella classe di spagnolo, ma ciò non toglie il fatto che tu mi abbia esaminata come i tuoi amici, poco prima, pensai. Continuai a guardarla perplessa.
Lei abbassò la mano, un po dispiaciuta dal fatto che non l'avessi stretta, ma continuò a sorridere, anche se un po' meno allegramente. Io presi ad asciugarmi il viso e le mani, come se lei non ci fosse, finché non mi chiese «Va tutto bene?».
Io la guardai con aria interrogativa, aggrottando le sopracciglia, e lei si affrettò ad aggiungere «Ho visto che eri un po' sconvolta quando sei uscita dalla mesa, per questo te l'ho chiesto», si giustificò appoggiandomi una mano sul braccio.
Mi sentivo perplessa. Perché tutto quell'interesse da parte sua? Che le importava? Rimasi a fissarla per qualche istante e poi mi limitai ad annuire. Nei suoi occhi vedevo solo puro interesse.
Lei sorrise, contenta che fosse tutto a posto e levò la mano dal mio  braccio.
«Bene», disse soddisfatta, «Ora torno dai miei amici, spero di avere altre lezioni insieme a te, sembri una tipa apposto», il suo sorriso si allargò scoprendo una perfetta fila di denti bianchi. «Spero che tu ti trovi bene in questo posto!», sorrise ancora prima di voltarsi e saltellare via.
Diamine! Ma dove ero capitata!?
La mia lezione dopo pranzo era fisica con il professor Jonson. Raggiunsi la classe prima che suonasse la campanella, sperando di evitare almeno per questa lezione l'umiliante presentazione davanti alla classe. Meno male lui si limitò a firmare il foglio e restituirmelo insieme al materiale, dicendomi di trovare un posto in cui sedermi. I banconi del laboratorio erano formati da tre posti ognuno. Io scrutai i tavoli, ma era difficile capire quale fosse occupato o no, poiché tutti gli studenti avrebbero dovuto avere almeno un compagno di laboratorio.
«Alexia!», sentii chiamare da una voce trillante.
Cercai di trovare la fonte di quella voce familiare.
«Alexia qui! Sono qui!», disse la ragazza.
Guardai a giro per la stanza e, in fondo, dietro a un gruppetto di ragazzi, vidi Caroline che si sbracciava per farsi vedere da me. Le sorrisi cortesemente.
«Vieni qui! Accanto a me c'è un posto libero!», stava dicendo. Avrei voluto rifiutare, ma non sapevo come, allora mi incamminai verso la ragazza. Lei intanto indicava con la mano il posto libero alla sua destra. Io posai le mie cose sul bancone e mi lasciai scivolare sulla sedia.
«Hai visto? Che fortuna che abbiamo avuto! Siamo insieme anche a questa lezione. Sei brava in questa materia?», chiese.
Annuii, ero abbastanza portata per la fisica, o meglio per la logica. Per me la fisica non era altro che logica: con un po' di ragionamento riuscivo ad arrivare facilmente e più in fretta degli altri alla soluzione.
«Ah, che fortuna! Io sono veramente negata in questa materia! Magari mi potresti dare una mano», commentò con la sua solita allegria.
In quel momento suonò la campanella. Caroline non era la sola in quella classe che già conoscevo, infatti, poco dopo il suono della campanella, Jason si sedette sulla sedia di fianco a lei.
Dopo che tutti si furono seduti al loro posto il professore ci assegnò un problema che doveva essere svolto in gruppo.
Sentii Caroline sbuffare e borbottare qualcosa del tipo «Odio questa materia!» mentre lessi velocemente il testo  problema: l'argomento era la spinta di Archimede. Anche Jason stava leggendo il problema, ma a voce abbastanza alta da farsi sentire da me e da Caroline, ma bassa abbastanza da non dar noia al resto dei compagni. Sembrava abituato a quel genere di esercitazioni, molto probabilmente svolgeva lui il problema per Caroline, visto la negazione di lei per la materia – o almeno così diceva lei.
Mentre lui leggeva il mio cervello era già in movimento, registrando le informazioni ed escogitando una soluzione al quesito. In pratica chiedeva se una barca di determinate dimensioni con sopra un determinato peso riusciva a galleggiare in un liquido di una determinata densità. Questo problema si proponeva con altre tre variabili dove cambiavano dimensioni, pesi e densità e in più chiedeva di determinare il peso massimo che avrebbe potuto sopportare quell'imbarcazione in quel determinato liquido. Era piuttosto semplice come problema, al di là delle variazioni, il principio era sempre lo stesso: una nave, anche se di acciaio, quando è vuota, occupa un volume complessivo di materia che ha un certo peso; siccome lo stesso volume di sola acqua ha un peso maggiore, la nave riceve una spinta verso lato che ne permette il galleggiamento. Questo accade anche quando a una nave viene aggiunto un carico, ma solo se il tutto non supera il peso del volume dell'acqua spostata, in tal caso la nave affonderebbe.
Quando Jason ebbe finito di leggere io ero già all'opera e sentii Caroline dire «Se fosse per me la nave galleggerebbe sempre e con qualsiasi peso».
«Caroline! Zitta!», disse Jason con aria severa.
«Che c'è? Lo sai che non ci capisco nulla di questa roba, quindi per me non ha importanza: potrebbero galleggiare sempre in qualsiasi circostanza e non mi porrei il problema», disse facendo l'occhiolino al ragazzo.
Una parte del mio cervello che non era impegnata a svolgere il problema intuì che c'era un doppio senso nella conversazione che a me sfuggiva, ma non ci feci troppo caso.
Dopo nemmeno quindici minuti, mentre Jason spiegava a Caroline le formule che servivano per svolgere l'esercizio, io alzai la testa dal foglio che avevo appena ricontrollato. Vidi Caroline girarsi verso di me e alzare gli occhi al cielo con un sorriso, senza ascoltare il compagno che cercava la soluzione e ragionava ad alta voce. Poi la ragazza abbassò lo sguardo sul mio foglio e con aria gentile chiese «Posso?», indicandolo.
Io annuii e glielo porsi. Lei lo prese e lo guardò come se riuscisse a capirci qualcosa, poi picchiettò sulla spalla dell'amico.
Gli occhi verdi di Jason si staccarono dal foglio che usava per fare i calcoli e la guardarono. «Cosa c'è adesso?», chiese scocciato. Poi, quando vide il mio foglio con tutti i calcoli e le soluzioni, sgranò gli occhi. Guardò prima l'amica, poi me. Ovviamente non si aspettava tutta quella velocità. «Ma come hai fatto?», chiese con  aria incredula.
Io mi strinsi nelle spalle. Come avevo fatto? Semplicemente con le formule, le avevo usate come facevano tutti gli altri, solo più rapidamente del resto della classe.
«Perché, è giusto?», chiese Caroline, incredula.
«Non ne sono sicuro», rispose Jason, «Ma così su due piedi mi sembra di sì», disse con una voce che sembrava anche questa incredula.
Caroline s'illuminò in volto. «Posso copiare?», chiese con un sorriso smagliante. Io la guardai e  annuii sorridendole a mia volta. Era facile farsi influenzare dalla sua allegria!
Poco dopo, quando Caroline ebbe finito di copiare, si avvicinò a noi il professore. «Reed», disse esaminando anche lui il mio foglio. «Hai fatto veloce a risolvere il problema, e non c'è nemmeno un errore!», mi sorrise. «Hai battuto in velocità persino Jason! Visto che avete già finito, che ne pensate di fare una ricerca per dopodomani su Archimede? Questo potrebbe aumentare il voto di tutti e tre se lo fate insieme. Caroline, se fossi in te sfrutterei questa opportunità visto che il tuo andamento in questa materia è un po' scarso».
«Professore, non c'è bisogno che me lo faccia notare, lo so da sola che questa non è proprio una materia che fa per me!», disse Caroline con aria abbattuta.
«Bene, allora vediamo se questa volta riesci a prendere qualcosa in più della solita insufficienza!», disse il professor Jonson, prima girarsi e andare dagli altri ragazzi.
«Grandioso!», sbuffò Caroline. «Addio al mio pomeriggio! Jass, che facciamo? Possiamo venire da te?».
«Mi dispiace Car, ma i miei sono a casa e hanno invitato degli amici che rimarranno da noi per  tutta la settimana, proprio non possiamo. Magari possiamo fare da te?», rispose Jason.
«Non credo proprio, mia mamma ha messo sottosopra la casa! È in vena di pulizie, perciò sarà impossibile camminare per casa mia per un mese! Non la capisco proprio quella donna!», disse Caroline con aria esageratamente drammatica.
«Magari possiamo andare in biblioteca...», stava ragionando Jason.
Presi un foglio e, con la mia pessima calligrafia scrissi 

Se volete la mia casa è disponibile.

Sul viso di Caroline si allargò l'onnipresente sorriso che tanto le illuminava la faccia per l'entusiasmo. «Dici sul serio? E possiamo farla oggi?», chiese colma di gioia.
Non potei non rispondere anche io a quel suo caloroso sorriso. Era così contagioso!
«Non sarebbe meglio andare in biblioteca?», riprese Jason. Non lo conoscevo bene, ma nella sua voce colsi una punta di scocciatura.
«Oh, andiamo Jass, non fare il solito brontolone! Andiamo da Alexia, sono sicura che ci divertiremo!».
Jason aggrottò le sopracciglia, la guardò per un po', poi si arrese «E va bene! Andiamo a casa sua! Odio quando fai così, Car! Hai lo sguardo che sembra quello di un cane bastonato!».
«Grazie!», saltò su lei, allegra, e gli buttò le braccia al collo per stringerlo in un abbraccio.
Non so come mai, ma mi sentivo di troppo, come se io in quel momento non centrassi niente con loro. Distolsi lo guardo e fissai il banco. Forse non riuscirò mai a sentirmi parte di qualcosa. Forse sarebbe meglio smettere persino di dare spago alle persone come Caroline. Voglio dire guardatela! Lei è tutto quello che io non sono: allegra, loquace, amichevole, spontanea... Io invece mi nascondo dietro a un silenzio che dura da dodici anni. Nessuno riuscirà mai a capirmi, nonostante a volte cerco di comunicare scrivendo cose da far leggere alle altre persone. Sono diversa e questo è un dato di fatto, solo che diversa non va bene..
«Ehi, Alexia, tutto ok?», alzai lo sguardo dal mio banco e guardai la mia compagna. «Hai un aria... triste», disse con voce delicata.
Sbattei le palpebre più e più volte, cercando capire il senso della sua affermazione.
«Ehi piccola, perché piangi?». Caroline avvicinò la mano al mio volto e, prima che mi toccasse, mi girai di scatto dall'altra parte.
Stavo piangendo? Non me ne ero accorta in quel momento, ma dovevo far di tutto per smettere all'istante.
Mi asciugai gli occhi e ricacciai indietro le lacrime che minacciavano di uscire. Ce la potevo fare! Ce l'avevo fatta per dodici anni, potevo certamente continuare.
Dodici anni...
Era passata un'eternità dall'ultima volta che avevo sentito la mia voce, non mi ricordavo nemmeno com'era. Le poche volte, in questi dodici anni, che era uscita era durante urli di sfogo. Solo che questi urli venivano soffocati nel cuscino, l'unico che sapeva come era veramente la mia voce.
Guardai di nuovo Caroline e poi Jason. Lui aveva uno sguardo interrogativo in faccia, mentre lei era preoccupata.
«Guarda che se è un problema», cominciò Caroline, «possiamo pure andare in biblioteca eh!», disse un po' dispiaciuta, come se credesse che la colpa della mia reazione fosse sua.

Non ti preoccupare, va tutto bene, voglio davvero che voi veniate.

Scrissi sul foglio.
«Okay..», disse Caroline mentre suonava la campanella. «Allora ci vediamo alla fine delle lezioni all'uscita».
Mentre gli altri lasciavano l’aula in fretta io presi tutte le mie cose con comodità, tirai fuori la piantina e l'orario e soffocai un gemito leggendo l'ultima materia che avevo quel giorno: ginnastica!
Ho sempre odiato quella materia, sempre! Non ero portata per nessuno sport, finivo sempre col sedere per terra e le gambe all'aria!

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Capitolo 4
*** Capitolo Quattro ***


Mi trascinai senza troppa fretta verso la palestra, con l'aria di una che stava andando al patibolo.
Arrivata nella sala delle torture la coach Sanders mi diede una tuta e, sfortunatamente per me, mi mandò a cambiarmi – figuriamoci se, per almeno il primo giorno di scuola, avessi potuto evitare questa umiliazione.
Dopo essermi cambiata con la tuta – composta da un paio di pantaloncini corti e canottiera viola coi bordi bianchi, che sono i colori della nostra scuola – mi avviai in palestra.
La palestra era molto spaziosa e al lato del campo c'erano delle tribune che avrebbero potuto ospitare centinaia di tifosi durante le partite. Al centro del campo c'era una rete da pallavolo, il che mi fece intuire che oggi ci saremmo dovuti allenare proprio in quello.
All'inizio della lezione la coach ci fece correre lungo il campo e poi fare degli esercizi di riscaldamento, dopodiché ci divise in squadre.
Io non mi accorsi della presenza di Jason finché la professoressa non lo nominò per metterlo nella squadra di cui avrei fatto parte io. All'inizio della partita a me spettò il posto in fondo di mezzo, proprio dietro a Jason e, proprio in quel momento, mi accorsi di un rossore che gli spuntava da sotto la canottiera sulla spalla destra. Cercavo di mettere a fuoco quel rossore, chiedendomi da che cosa fosse dato, quando la coach fischiò e la squadra avversaria fece la prima battuta.
Ironia della sorte il destino volle che quella palla fosse indirizzata proprio a me, così io portai le mani davanti al viso di istinto. La palla rimbalzò sulle mie mani e la ragazza che stava alla mia destra si buttò per salvare la palla.
Quando, dopo una serie di passaggi, la palla toccò terra sul nostro campo, la ragazza che aveva inizialmente salvato la palla mi chiese gentilmente: «Non sai giocare, vero?».
Io, un po' imbarazzata arrossii e scossi la testa.
«Okay, basta saperlo, così ti copriamo!», disse questa, e avvertii il resto della squadra.
«Ma che strano, non lo avrei mai detto!», disse in tono sarcastico Jason.
Oh, ma che rabbia! Possibile che aveva sempre qualcosa da ridire con quel suo odioso tono sarcastico!? Quanto desideravo che quel suo sedere presuntuoso finisse a terra con un bel tonfo!
In quel momento ci fu un altro fischio e la palla puntava dritto verso di me, ancora! A quanto pare anche la squadra avversaria aveva individuato in me l'anello debole.
Il ragazzo alla mia sinistra si parò subito davanti a me, bloccando la palla prima che mi arrivasse addosso. Jason fece qualche passo indietro per prendere a sua volta la palla.
«Ma che..?», disse un secondo prima di perdere l'equilibrio e finire a sedere in terra. Con la schiena urtò le mie gambe così anche io caddi in avanti, proprio sopra di lui. La palla mi rimbalzò sulla testa prima di finire per terra e dare un altro punto agli avversari.
La coach ci raggiunse. «Tutto okay ragazzi?», chiese.
Io cercai di levarmi da sopra di Jason e mi misi a sedere per terra accanto a lui. Durante la caduta avevo picchiato lo zigomo destro sul suo ginocchio, perciò presi a massaggiarmelo sentendolo indolenzito. Avevo preso proprio una bella botta! Di sicuro mi sarebbe venuto un bel livido.
«Non proprio tutto okay», disse Jason.
«Come sei caduto?», chiese la coach.
«Non so come mai, ma c'è dell'acqua, proprio qui sul pavimento», disse Jason. «Ci sono scivolato sopra».
«Dell'acqua? Mmm... Che strano! Ma vi siete fatti male?»,  chiese la donna guardando prima me, poi Jason.
«Io un po'», ammise Jason. «Reed mi è caduta addosso, e per di più mi ha preso pure il ginocchio. Penso sia meglio se ci metto sopra del ghiaccio, per evitare che si gonfi. Sa, quarantacinque chili, per quanto leggeri, sono sempre quarantacinque chili!». Quest'ultima frase la disse fulminandomi con lo sguardo. 
Adesso la colpa era mia? Serrai i denti.
«E tu, Alexia? Hai picchiato la guancia?», la professoressa mi esaminò la parte destra del viso. «Meglio se ci metti del ghiaccio sopra anche tu», sentenziò.
Il resto dell'ora di ginnastica la passai a sedere sulla tribuna a premermi un pacco di ghiaccio istantaneo sul viso e a contemplare la schiena di Jason, seduto qualche gradino più in basso di me.
Okay, era stato per lo più presuntuoso e arrogante con me, ma dovevo ammettere che quel rossore mi intrigava. Non era il classico rossore da irritazione o cose del genere ma, avvicinandosi al centro della schiena diventava più violaceo...
Mentre ancora stavo a domandarmi la provenienza di quel rossore la coach richiamò la mia attenzione mandandoci tutti negli spogliatoi a cambiarci.
Finalmente era arrivata la fine delle lezione e potevamo andare a casa!
Dopo essere tornata ai miei comodi jeans uscii dallo spogliatoio e mi avviai verso la segreteria per riportare il foglio firmato da tutti i professori alla segretaria. Questa, appena mi vide, mi salutò subito con un enorme sorriso.
«Allora come è andato il primo giorno di scuola?», mi chiese.
Io alzai le spalle. Finalmente è finito, pensai.
«Vedrai, domani andrà meglio»,  disse la donna facendomi l'occhiolino.
Beh, certamente peggio di oggi non poteva andare.
All'uscita c'erano Caroline e Jason che stavano parlando con gli altri due ragazzi che avevo visto a mensa. Quando mi avvicinai a loro si zittirono subito.
«Alexia, loro sono Matthew e Richard», disse Caroline indicando prima il biondo e poi il moro. «Matt e Riky, lei è Alexia».
Salutai i ragazzi con un cenno e loro risposero con un «Ehi».
«Adesso dobbiamo andare, ci vediamo domani ragazzi!», li salutò Caroline, e insieme a Jason ci avviammo verso la mia macchina.

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Capitolo 5
*** Capitolo Cinque ***


Quando entrammo nell'ingresso di casa Caroline non stava più nella pelle dall'agitazione. Non vedeva l'ora di vedere dove abitavo.
«Lexie, sei tu?», chiese mia madre dall'altra stanza.
Alzai gli occhi al cielo. E chi altro, sennò?
Mia madre comparve sulla soglia, impeccabile come sempre, coi suoi capelli neri raccolti in una crocchia ordinata e dentro quel tallieur blu che donava molto alla sua carnagione. Da lei avevo ereditato la pelle olivastra.
Sgranò gli occhi marroni per un secondo, vedendo la compagnia che mi ero portata a casa – non avevo mai portato nessuno a casa, nemmeno a Corning – ma si ricompose subito.
«Ciao ragazzi! Io sono Elena, la mamma di Alexia!», disse con un po' troppa allegria.
«Salve, Mrs Reed!», salutò Caroline con lo stesso entusiasmo di mia madre. «Io sono Caroline Moore, e lui è Jason Scott, tanto piacere di conoscerla», disse sfoderando il suo sorriso a trentadue denti.
«Chiamami pure Elena», ribatté mia madre.  «Come mai hai portato i tuoi amici a casa, Lexie?».
Alzai un sopracciglio. Amici miei? Sul serio? Dopo un solo giorno nella nuova scuola lei pensava sul serio che avessi fatto amicizia con qualcuno? Le lanciai un'occhiata sarcastica.
Lei sorrise, come se non avesse notato il mio sguardo, dopotutto era il suo lavoro fare buon viso a cattivo gioco.
«Ehm...», si intromise Caroline, interrompendo in nostro scambio di sguardi. «Siamo venuti per fare una ricerca su Archimede, per fisica».
«Ah.. Archimede, eh? Sei nel tuo ambito Lexie, tesoro. Accomodatevi pure in salotto», disse la mamma facendo gli onori di casa.
In salotto feci segno agli altri di sedersi mentre andavo a prendere il computer in camera mia. Quando tornai notai che la mamma aveva portato dei biscotti al burro fatti in casa e tre bicchieri accompagnati da una brocca d'acqua.
«Bene ragazzi, avete bisogno di altro?», chiese.
«No grazie, Mrs Reed. Siamo apposto così», rispose Jason. Wow! Era la prima volta che apriva bocca da quando eravamo entrati
«Bene, sono contenta», sorrise. «E, per favore, chiamami Elena!». Poi si rivolse a me. «Lexie, papà è a lavoro, sta facendo il turno serale, tornerà dopo cena. Io ora devo andare in ufficio a sistemare alcune faccende preliminari e per poter finalmente chiudere i casi di Corning e aprirli qui a Manhattan! Puoi preparare la cena, per favore? Se hai bisogno di qualcosa mandami un messaggio o chiamami in ufficio, il numero è sul frigorifero. Okay?»
Annuii. Ogni volta che usciva mi ripeteva sempre le solite cose e ormai le sapevo a memoria senza che me lo ripetesse ogni volta.
«Che bella casa...!», sentii dire da Caroline.
Alzai gli occhi del computer – che ci stava mettendo più del solito per accendersi – e le sorrisi. Finalmente quella dannata macchina si era accesa!

«Bene, io penso che queste dieci pagine possano andare al professor Jonson, no Jason?», chiese Caroline speranzosa.
«Beh, di certo sono fatte molto bene, ed è più di quel che faresti tu da sola, Car!», ribatté Jason, scoppiando a ridere.
«Allora siamo a posto!», rise pure Caroline. «Siamo proprio una bella squadra noi tre!», disse alzandosi per rimettere le proprie cose nella borsa, lasciando me accanto a Jason.
«Sì, certo... Come no!», borbottò di rimando lui.
«Che vuoi dire Jass?», chiese Caroline mentre io alzavo un sopracciglio, perplessa.
«Noi tre? Sul serio?», disse lui in tono acido.
«Sì, Jason... Non ti seguo, cosa stai cercando di dire?», lei sembrava spiazzata quasi quanto me.
«Andiamo Car! Abbiamo fatto tutto io e te!», disse, la voce ancor più piena di disprezzo, se possibile.
«Ma chiudi quella bocca, Jason! Abbiamo contribuito tutti e tre – be', io forse un po' meno – alla ricerca! Non fare lo stupido!».
«Lo stupido? Io no faccio lo stupido! Se qui c'è qualcuno che è stupido, questo qualcuno è lei!», Jason puntò i suoi occhi ardenti di rabbia su di me.
Ma si può sapere che diavolo gli avevo fatto? Mi conosceva da quanto? Meno di dieci ore e già pensava di sapere tutto di me? Ma che presuntuoso!
«Jason, per favore...».
«No! Niente Jason per favore! Mi sono stufato Caroline! Ma guardala! È solo una stupida bambina! Una stupida bambina che inciampa nei suoi stessi piedi e che non sa nemmeno parlare!», mi lanciò un'occhiata furente. «E voi pensate che sia la quinta? Quella che ci riunisce tutti?».
«Beh.. Noi...».
«Non riesce nemmeno a riunire delle lettere per pronunciare una parola, figuriamoci riunire tutti i nostri p...».
Improvvisamente il resto della brocca d'acqua fu tutto sulla sua faccia, di sicuro doveva essere stata Caroline, ma io, con lo sguardo velato di rabbia, non vedevo nient'altro che lui.
Brutto insolente presuntuoso! Che cosa ti ho fatto di male? Niente! Ti ho pure ospitato a casa mia per fare questa dannata ricerca e tu mi ripaghi insultandomi? Sei proprio un pezzo di merda! I miei pensieri erano come un fiume in piena e io cercavo di scagliarglieli addosso con tutta la forza che avevo tramite uno sguardo pieno d'odio.
Mi alzai, facendo ribaltare la sedia e corsi in camera. Dopo aver fatto sbattere la porta dietro di me mi buttai sul letto e afferrai il cuscino che vi era sopra. Me lo portai alla bocca e urlai. Urlai perché il primo giorno non era andato troppo bene. Urali perché non volevo tutto questo. Urlai perché non ce la facevo più. Urlai perché era troppo. Urlai semplicemente perché ne avevo bisogno. Avevo bisogno di scaricare.
Quando finalmente smisi di urlare tutto intorno a me regnava il silenzio. Mi sdraiai a pancia in giù, tenendo sempre la testa nel cuscino.
«Ma che cavolo ti è preso?!», sbottò Caroline dopo un po', la voce che mi arrivava ovattata.
«Cosa è preso a me?! È lei quella che ha preso e se ne è andata!», sbuffò Jason.
«Ed è stata pure troppo brava! Io ti avrei mollato anche un bello schiaffo, prima di andarmene, oltre che rovesciarti in testa la brocca!», sibilò Caroline.
«Ecco, quella te la potevi anche risparmiare».
«Infatti non sono stata io!».
«Cosa?», urlò Jason.
«Non urlare, idiota!», lo rimproverò Caroline. «Adesso alza quelle chiappe e vai a chiedere scusa a quella ragazza!».
«Scusa?! Non è mica colpa mia se è una ritardata!».
«Jason! Smettila di chiamarla così! Lei. Non. È. Una. Ritardata», Caroline scandì ogni parola, come se stesse parlando con un bambino intestardito. «È lei la quinta, non ci sono dubbi! Non ti senti più forte anche te? Quindi dobbiamo essere una squadra unita e forte, e ciò non è possibile con te che ti comporti da stronzo!».
La quinta? Una squadra? Ma che cosa stava dicendo? Io non facevo squadra con nessuno, soprattutto non con uno come lui!
Nella casa calò il silenzio, un silenzio teso.
«D’accordo!», sentii sbottare da Jason.
Dopo poco sentii dei colpi alla porta. La mia camera doveva essere l’unica stanza con la porta chiusa.«Alexia?», chiese Jason. Era la prima volta che pronunciava il mio nome, era strano udire quella voce, che aveva detto delle cose terribili su di me, accarezzare in quel modo il mio nome. Udii il rumore della porta che si apriva. «Posso entrare?», adesso la sua voce non era più ovattata come prima.
Alzai lo sguardo. Cosa vuoi da me? Mi hai già detto cosa pensi, quindi adesso, per favore, sparisci!
Lui prese il mio silenzio come un consenso ad entrare, perciò avanzò nella stanza fino ad arrivare al mio letto, lì si inginocchiò in modo da avere la faccia all'altezza della mia.
«Senti.. Mi dispiace!», disse Jason, sembrava mortificato «È che ultimamente... non sto passando un bel periodo. Io... io...», si passo una mano tra i capelli, frustrato. «Io non so come chiederti scusa. Sono stato molto sgarbato con te, ti prego perdonami».
Io annuii, senza nemmeno riflettere. Avrei voluto prendermi a schiaffi! Ma che cosa mi era preso? Dopo che mi aveva fatta sentire tutto il giorno come una buona a nulla io lo perdonavo così semplicemente? Che stupida!, mi rimproverai mentalmente.
«Grazie», disse lui abbassando lo sguardo, a disagio. «Sono davvero sollevato. Ti va di venire di là con noi, per favore?», la sua voce si era ammorbidita. Da quando era entrato in camera mia aveva perso tutto il disprezzo che avevo sentito tutto il giorno.
Mi sorrise.
Quel gesto risultava strano sul suo volto, soprattutto perché era diretto a me. Dopo averlo visto tutto il giorno con quello sguardo sgarbato e disgustato faceva strano vederlo con un sorriso.
Lui si alzò e, quando lo imitai, il suo sorriso si allargò di più. Sembrava sinceramente contento di vedermi tornare di là con lui.
Quando arrivammo nell'altra stanza Caroline ci stava aspettando col suo solito sguardo amichevole. «Tutto okay?», chiese.
«Sì, tutto okay. Vero Alex?», si girò verso di me sorridente.
Alex? Non mi dispiaceva essere chiamata così...
Annuii.
«Meno male», sospirò Caroline. «Allora... noi andiamo a casa, eh Jass?».
«Ehm... sì... Penso sia meglio andare!», disse lui soprappensiero.
Li accompagnai alla porta e li salutai con un sorriso mentre andavano via.
Wow! Quante cose erano successe in un solo giorno!

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Capitolo 6
*** Capitolo Sei ***


 

Mentre Ward guidava io guardai fuori dal finestrino a contemplare la caotica Manhattan. Era proprio vero, era la città che non dormiva mai. Anche così presto la mattina c'erano un sacco di auto – la maggior parte taxi – che facevano su e giù per la strada.
I miei genitori non volevano che prendessi un mezzo di trasporto pubblico. «Abbiamo Ward, Lexie», dicevano sempre. «Non vedo perché tu debba pagare per un mezzo pubblico quando abbiamo Ward che ti può portare ovunque tu voglia. Lo paghiamo per questo!».
Ero in agitazione come ieri. Di certo ieri non era stato il miglior primo giorno di scuola, ma speravo che oggi sarebbe andata meglio di ieri. Ovviamente non ci sarebbero state tutte quelle persone a fissarmi continuamente. Con un pizzico di fortuna le persone  mi avrebbero fissata di meno e qualcuno mi avrebbe guardata con sguardo meno truce del giorno prima. O almeno così speravo...

 

La prima ora andò tutto bene, le persone mi fissavano di meno, come avevo sperato, e la lezione era facile da seguire. Quella lezione passò in un soffio.
Nel tragitto dalla classe di matematica a quella di letteratura per fortuna non andai a scontrarmi con nessuno e i miei piedi rimasero saldamente incollati al terreno anche mentre attraversavo l'aula del professor Burner fino ad arrivare al mio posto. Mentre passavo davanti a Jason e al suo amico – Richard? O forse era Matthew? –  non fui messa sotto valutazione dal nessuno dei due, per fortuna. In realtà si comportavano tutt'e due in maniera completamente normale. Grazie al cielo!
Tutto stava filando meglio di ieri quando il professor Burner fece una domanda.
«Chi risponde a questa domanda?», chiese guardando la classe. Alcune mani si alzarono. Ovviamente la mia non era tra queste. «Tu sei Reed, vero?».
Io sgranai gli occhi. No. No! Maledizione.
Annuii.
«Sai dirmi qual è la risposta corretta, Reed?».
Deglutii a fatica. Tutti gli occhi della classe erano puntati su di me. Cavolo e adesso cosa potevo fare?
Aprii la bocca, ma da lì non uscì nessun suono, sentivo la lingua impastata. 
Sentii una risatina provenire dal resto della classe.
Provai a deglutire e a parlare, ma avevo la bocca secca e non riuscivo a spiccicare parola.
Fui salvata dal suono della campanella.
Tutti cominciarono ad alzarsi e ad uscire dalla classe bisbigliando qualcosa all'orecchio di un compagno, ma io ero pietrificata.
«Vedi, Alexia, non so come funzionava nella tua vecchia scuola, ma se vuoi passare alla mia materia devi rispondere alle mie domande», disse il professore girandosi e andando a cancellare la lavagna.
Ero furiosa!
Perché? Perché proprio io? Non poteva chiederlo a un altro?
Le parole che aveva detto mi fecero sembrare che lui sapesse che non parlavo. Doveva saperlo! I miei genitori non mi avrebbero mai iscritta a scuola senza prima dire a tutti i professori che io non parlavo. Evidentemente l'aveva fatto apposta.
La rabbia si impossessò di me, mentre lo guardavo pulire la lavagna. Jason e il suo amico erano quasi arrivati alla porta, perciò non c'era niente a ostacolarmi la vista. Sentivo la mia rabbia bruciarmi dentro, come un incendio.
L'espressione di Jason però mi fece distrarre dal professore. Lui e il suo amico mi guardavano con uno sguardo terrificato. Che cosa volevano anche loro?
Abbassai lo guardo per raccogliere i miei appunti e andare via, quando vidi che questi stavano prendendo fuoco. Sgranai gli occhi e balzai in piedi, andando a scontrarmi con un altro banco, ma appena il professore si fu girato per vedere che cosa stava succedendo il fuoco era sparito. Pensai di essermelo immaginato, ma guardando i miei fogli vedevo che erano bruciati.
Buttai tutto in borsa e corsi fuori dalla classe. Jason e il suo amico erano ancora sulla porta, a guardarmi con occhi sgranati. Quando gli passai accanto il ragazzo bruno si spostò, mentre Jason provò a prendermi il braccio.
Evitai la sua presa e mi precipitai in corridoio, diretta in bagno mentre dalla classe sentivo urlare il mio nome.

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Capitolo 7
*** Capitolo Sette ***


Non era possibile, non ancora!
Per così tanto tempo ero riuscita a controllare questa parte di me che non andava! Perché adesso doveva uscire fuori di nuovo?
Certo, era già successo che qualche piccolo incidente fosse capitato, ma una volta ogni tanto! Non così frequentemente! E di certo non con il fuoco!
Mi feci assalire dal panico. Come potevo andare avanti così?
Entrai nel bagno deserto – possibile che in quella scuola nessuna ragazza avesse mai bisogno del bagno? – e mi chiusi la porta alle spalle, andai al lavandino più distante alla porta per sciacquarmi il viso, ma non appena fui arrivata le gambe mi diventarono di gelatina. Mi appoggiai al muro, ma scivolai comunque per terra, non riuscendo più a trattenere quel pianto disperato.
Non potevo andare avanti così. Non riuscivo a spiegarmi come fosse possibile che ciò potesse realmente accadere.
La porta si aprì ed entrò una Caroline preoccupata. Si guardò intorno e appena mi vide mi venne incontro. Dietro di lei vidi entrare anche Jason, Matthew e Richard.
 Anche loro qui? Ma che cosa volevano tutti da me? Cosa? Volevo solo essere lasciata in pace, nient'altro.
Vi prego, andatevene, dissi mentalmente, lasciatemi sola! Li implorai con lo sguardo, ma ciò servì solo a far abbassare Caroline e farmi stringere in un abbraccio.
Inizialmente mi irrigidii per quella dimostrazione d'affetto da parte di una ragazza che nemmeno conoscevo. Da una parte volevo che mi lasciasse andare, dall'altra però apprezzavo quel gesto. Perciò, invece di scacciarla, esplosi in singhiozzi che mi scuotevano il corpo e inzuppai la sua maglietta.
Non so quanto tempo rimasi così, ma nel mentre sentivo che gli altri stavano bisbigliando qualcosa tra loro.
Dopo che i miei singhiozzi si furono calmati Caroline sciolse, l'abbraccio, mi accarezzò una guancia sorridendo e andò dagli altri, unendosi alla loro conversazione. Non riuscivo ancora a sentire quel che dicevano, ma potevo intuire che l'argomento centrale ero io.
Perché io? Che cosa volete da me?, mi chiesi per la millesima volta.
Tutti stavano là, davanti a me, ma nessuno osava parlarmi.
Fu Caroline a infrangere quella barriera tra me e loro. «Andrà tutto bene», mi disse sorridendo.
Andrà tutto bene?, chiesi mentalmente. Come potrebbe andare tutto bene? Sono un mostro, non vedete? Che cosa mi sta succedendo?
Smisi di piangere, perché ero arrabbiata. 
Che cosa mi sta succedendo?
Ero arrabbiata perché tutto questo non era normale, perché tutto questo non sarebbe dovuto succedere a me, perché non sapevo come avrei fatto ad andare avanti. 
Che cosa mi sta succedendo?
Perché non sapevo cosa mi stava succedendo!
«Che cosa mi sta succedendo?».
Tutti e quattro si fermarono e mi fissarono con occhi e bocca spalancati, come se mi fossero usciti due braccia e due gambe in più.
La voce mi era uscita roca, ovviamente dovuta al tanto tempo in cui non era stata usata, oltre che al pianto. Le parole quasi non si distinguevano, quasi avessi dimenticato come si parlasse, un suono si accavallava all'altro e non si capiva dove finiva una e iniziava l'altra parola.  Per  me quel suono non aveva niente di familiare, eppure mi scatenò miliardi di ricordi in testa, ricordi in cui ero solo una bambina spensierata che in testa non aveva altro che il divertimento. Pensavo che niente potesse togliere quel sorriso a quella bambina. Era così allegra...
«Che. Cosa. Mi. Sta. Succedendo?», scandii le parole con cura, come un bambino che sta imparando a parlare e se non parla piano non viene capito dagli adulti.
Ancora una volta nessuno mi degno di una risposta. Continuavano a stare lì, a guardarmi sbalorditi.
Rimanemmo immersi nel silenzio per altri minuti, finché un cellulare non si mise a squillare.
Jason tirò fuori il telefono dalla tasca e rispose continuando a fissarmi.
«Si?».
Sentii una voce maschile al di là dell’apparecchio che gli diceva qualcosa, ma non capivo cosa. 
«Sì, Tom...», continuò lui, facendo una pausa in attesa di una risposta. «Okay, falla arrivare il più in fretta possibile...  Okay a dopo». Riagganciò e si rimise il cellulare in tasca. Quindi si girò verso i suoi amici e annunciò «Era Tom, ha letto il nostro messaggio. Dice che ci manda subito una macchina per raggiungerlo all'Empire, così potrà spiegargli tutto lui a lei», concluse indicando me.
«Alexia...», disse Caroline, abbassandosi accanto a me. Mi ero dimenticata che ero ancora seduta per terra nel bagno della scuola. «Dobbiamo andare.. Non ti preoccupare, tesoro, ti spiegheremo tutto dopo, solo... stai tranquilla e fidati di me! Ti prego!».
Annuii. Che altro potevo fare? Volevo delle risposte e quello sembrava l'unico modo per averne. Provai ad alzarmi ma non riuscivo nemmeno a muovermi. I muscoli del mio corpo non rispondevano. Matthew e Richard sembrarono capirlo e si avvicinarono per tirarmi su e mi aiutarono a uscire di lì.

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Capitolo 8
*** Capitolo Otto ***


Mi accompagnarono a prendere la mia giacca al mio armadietto e mi aiutarono a metterla, mentre Jason era passato avanti, andando verso l'uscita. Quando lo raggiungemmo la donna all'entrata non disse nulla sul fatto che stavamo uscendo durante l'orario scolastico.  I due ragazzi che mi aiutavano non mi lasciarono nemmeno un secondo fino a quando un auto non si fermò davanti alla scuola.
Quando aprirono lo sportello posteriore per farmi salire a bordo, notai che c'erano due file di seggiolini da tre posti ciascuna, luna rivolta verso l'altra.
Mi misi a sedere in mezzo, tra Jason e Caroline – ovviamente perché loro due erano quelli con cui avevo un minimo di confidenza in più – mentre gli altri due ragazzi si sedevano di fronte a noi.
Caroline mi teneva un braccio intorno alle spalle, continuando a ripetermi parole per tranquillizzarmi, ma io non l'ascoltavo. Fissavo il vetro divisorio dell'auto senza vederlo. Il mio corpo era rigido, le mani mi tremavano e faceva fatica a respirare. Un vero e proprio attacco di panico, insomma.
Che cosa mi stava succedendo? Dove mi stavano portando? Cosa avevano a che fare loro con me?
Un tonfo sordo mi fece sobbalzare e mi distrasse dai miei pensieri. Mi girai di scatto verso la fonte del rumore e vidi Jason col pugno chiuso premuto contro lo sportello della macchina.
«Maledizione!», imprecò e sbatté di nuovo il pugno sulla portiera.
Adesso l’attenzione di tutti era posata su di lui. Lo fissavamo ammutoliti – non solo io, ma pure gli altri – senza capire il perché di tale… Rabbia? Frustrazione? Non sapevo nemmeno io come decifrare tale emozione.
« Com'è possibile?», chiese a nessuno in particolare. «Com'è possibile che sia lei?», Pronunciò l'ultima parola con amarezza, come fosse qualcosa che lo disgustava.
«Jason, calmati!», gli disse ragazzo biondo.
« Calmarmi?!», sbottò Jason, fuori di sé. «Calmarmi, Matthew?! Allora dimmi, come dovrei fare a calmarmi?!», Aveva gli occhi sgranati e muoveva le braccia in gesti di esasperazione. «Niente, e ripeto niente, sta andando secondo i piani! Niente!», urlò.
«Jass, siamo sconvolti anche noi, ma non mi sembra il caso di fare una scenata!», esclamò quello che evidentemente doveva essere Richard.
«Scenata? Pensi che questa sia una scenata?», Jason fece una risata amara, per nulla divertito. «Tu devi ancora vedermi fare una scenata!».
« I piani non erano chiari per nessuno», interviene Matthew. «Tutto ciò che abbiamo potuto fare erano solo supposizioni, non c'era niente di certo».
«Sta zitto, Matthew! Sta. Zitto!», sbottò Jason puntandogli il dito addosso.
«Basta!», strillo Caroline. «Non risolveremo niente se ci mettiamo a urlarci contro. Matt ha ragione, Jason! Erano tutte delle supposizioni, le nostre. La profezia parla dell'Opale non della dea!».
Dea? Opale? Profezia?
Tutti si comportavano come se io non esistessi e ormai avevo perso il filo del discorso. 
«Sì», ribatté Jason. « E ti ricordi per caso chi è Opale?».
«Be...», fece per dire Caroline, ma Jason la interruppe di nuovo.
«Perfino la profezia lo dice! Colei che tutto ha creato e luce ha donato! Secondo te a chi si riferisce? Di certo non alla coach Sanders!».
Caroline aprì la bocca, per protestare, ma la richiuse –  anche se non so dire se la richiuse perché non aveva niente per ribattere o per la furia che si leggeva sul volto di Jason. Anche gli altri non dissero niente, ma si scambiavano solo occhiate preoccupate.
La testa mi stava esplodendo, l'unica cosa che avrei voluto fare era andare a casa a rannicchiarmi sotto le coperte. Ma non potevo.
Non potevo perché ero chiusa in questa dannata macchina con Matthew e Richard che si scambiavano occhiate pieni di domande, Caroline alla mia destra, che era diventata rossa come un perone per la discussione, e Jason alla mia sinistra, che sembrava una bomba che sarebbe potuta esplodere da un momento all'altro.
Sprofondai nel sedile, desiderando di scomparire nel nulla e non riapparire più.
Fu allora che la macchina si fermò e, quando qualcuno venne ad aprirci lo sportello, il mio cuore mancò un battito. 
Ero davanti all'Empire State Building.

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Capitolo 9
*** Capitolo Nove ***


Tutto ciò che accade nei minuti successivi al nostro arrivo era confuso. Un po' per tutta la confusione che avevo in testa, un po' per il baccano che c'era tutto intorno a me: migliaia di turisti radunati all'ingresso per visitare il palazzo; altrettanta gente camminava per strada; ma soprattutto i miei compagni di scuola che si misero a discutere animatamente tra loro e con un altro uomo.
Quest'ultimo mi guardò e mi fece un sorriso cordiale. Quest’uomo dal viso gentile sembrava un tipo giovane, con quei suoi occhi marroni che ti infondevano sicurezza, le labbra sottili e i capelli neri. Sono le rughe che si formavano agli angoli degli occhi della bocca mentre sorrideva tradivano la sua età più matura.
Quanti anni poteva avere? Trenta? Forse quaranta? Probabilmente non sfiorava nemmeno cinquanta.
Furono queste le cose a cui pensai mentre mi scortavano all'interno del palazzo. Della strada mi ricordavo soltanto l'immenso atrio elegante e un enorme ascensore. Non ricordavo ciò che mi dissero, non ricordavo neppure il piano in cui eravamo scesi dall’ascensore. Ricordavo soltanto di aver attraversato un paio di enormi uffici stipati di gente fino ad arrivare nella sala in cui mi trovavo adesso.
Ovviamente ancora sotto choc per ciò che mi stava accadendo, non sentii niente di ciò che dissero le persone in quella stanza. Le voci mi arrivavano con me un brusio lontano, come attutito da una campana di vetro.
Mi guardai intorno. L'ufficio era veramente molto ampio. Eravamo in sette e c'era posto per altre trenta persone. Doveva essere collocato in un angolo dell'edificio, poiché due pareti della stanza erano completamente fatte di vetro e davano su uno skyline mozzafiato della Grande Mela.
Su una delle altre due pareti era situata un enorme libreria piena zeppa di libri dall'aria antica. Davanti a questa c'erano due divani di pelle nera di quattro posti ciascuno e rivolti uno di fronte all'altro. In mezzo ai due divani vi era un basso tavolino. 
Davanti all'altra parete vi era un enorme tavolo, di quelli che si usavano per le riunioni di un'importante società, con almeno venti posti a sedere. Oltre il tavolo, sulla parete, il mio sguardo fu attratto da un quadro.
Il mio corpo si mosse da solo, avvicinandosi piano a quel dipinto. Non avevo mai visto niente del genere! Era ritratta una donna, o almeno così sembrava, avvolta in un candido abito bianco, dalla cui schiena spuntava qualcosa come delle ali… Un angelo, forse?
Inclinai la testa di lato, continuando ad avvicinarmi lentamente. No, non un angelo.
Guarda di nuovo il suo abito, aveva un che di… soffice. Come se fosse interamente coperto di morbide piume. 
Civetta, mi sussurrò il mio istinto. Una civetta bianca
Guardai il volto della donna: non era definito, era… confuso! L'unica cosa che si distingueva da quella carnagione chiara erano quei capelli scuri che le fluttuarono intorno.
Benché lineamenti fossero tutti confusi, quella donna aveva un aspetto familiare e sconosciuto allo stesso tempo...
«Alexia Reed!», esclamò una voce calma.
Mi bloccai come ero. Non mi ero resa conto di aver allungato il braccio finché non ritrova in sospeso a qualche centimetro dalla faccia della donna-civetta. Ritrassi la mano immediatamente e mi voltai. 
I quattro ragazzi erano riuniti intorno a una scrivania – posta davanti alla parete-finestra – di cui non mi ero resa conto prima, insieme a due uomini.
«Accomodati, ti prego», disse un uomo dietro la scrivania indicando una delle due sedi di fronte a lui. 
Mi avvicinai con gambe tremanti, i passi attutiti dalla moquette chiara. Quando arrivai di fronte a lui mi porse la mano. Io gliela afferrai.
«Io sono Aaron Long, capo della Congrega dei Custodi. Lui, invece», disse indicando l'altro uomo che ci aveva accolti all'entrata, « è Tom Butler, custode di primo grado».
Spostai il mio sguardo sull'altro uomo e gli strinsi la mano anche a lui.
Aaron Long era decisamente più anziano di Tom Butler. Aveva i capelli brizzolati pettinati indietro e gli occhi azzurri, quel genere di occhi di chi ne aveva viste tante, uno sguardo di chi la sapeva lunga.
«Prego, accomodati», mi esortò di nuovo Mr Long.
Obbedii, e lui fece la stessa cosa, ma nessun altro ci imitò: Mr Butler se ne stava accanto a Mr Long, mentre tutti gli altri rimasero dietro di me. Cominciai ad agitarmi sulla sedia, disagio.
«Bene, Alexia, perché sei qui?», chiese Mr Long.
«Alexia...», cominciò Caroline, ma fu subito interrotta da Mr Long che alzò una mano.
«Ho detto Alexia, Caroline». Mi aspettavo un tono severo, invece non vi scorsi alcuna traccia. Anzi, il suo tono era più che gentile. Tornò a posare i suoi occhi chiari su di me.
Aprii la bocca, ma non uscì niente. La richiusi, solo per riprovarci, ma niente
Strinsi gli occhi e serrai la mascella, frustrata. Perché? Perché non ci riuscivo?! E pure poco prima era riuscita a parlare un poco. Lacrime di frustrazione mi salirono agli occhi, così mi sentii ancora più furiosa con me stessa.
«Alexia», mi spronò la voce di Mr Long. «So che ce la puoi fare!».
Scossi la testa, sapendo che il panico si stava in per impossessare di nuovo di me, come tutte le altre volte che avevo provato a parlare. Nella la mia gola sentivo ardere il fuoco, lo stesso di dodici anni fa.
«Combattilo, Alexia!», la voce di Mr Long era una carezza, una colata di acqua fresca per la mia gola riarsa dalle fiamme. «Dimmi, come mai sei qua? Cosa vuoi sapere?».
«Che cosa mi sta succedendo?», chiesi, ancora a occhi stretti. Dentro di me infuriava una tremenda battaglia tra il passato e il presente.
«Guardami, Alexia».
Mi costrinsi ad aprire gli occhi, deglutendo rumorosamente. Guardai Mr Long e lo vidi sospirare di sollievo, facendo un bel sorriso.
«Bravissima», commentò. Alle sue parole anche Mr Butler era soddisfatto.
«Per spiegarti ciò che sta accadendo dobbiamo prima farti una domanda. Credi nella magia?».
Quella domanda mi lasciò perplessa. Ma che voleva dire? Lo guardai confusa.
« A volte succede qualcosa che non ti sai spiegare? Qualcosa che è legato alla natura, ma che non ha niente di logico? Terremoti, folate di vento fortissimo, acquazzoni o incendi? Dove un momento prima è tutto tranquillo e quello dopo succede qualcosa? Soprattutto se sei arrabbiata?».
Io sgranai gli occhi. Non tanto per l'assurdità della cosa – perché quelle cose erano davvero assurde – ma per la consapevolezza che quelle cose mi capitavano eccome!
«M-Mr Long», balbettai con voce roca. «Come fa a saperlo?». Non so quando avevo deciso di essere sincera con lui, ma quel tipo mi trasmetteva fiducia, perciò feci una cosa che non facevo mai: fidarmi del mio istinto.
«Chiamami Aaron», disse facendo un gesto con la mano. «Lo so perché questo è quello che è successo a ognuno dei ragazzi dietro di te», disse indicandoli. «E questo vuol dire che sei una di noi».
«Ti stavamo aspettando», aggiunse Mr Butler con un sorriso, come se tutto ciò non fosse assurdo, come se mi stessero aspettando per prendere un normalissimo thè.
«Non è possibile», si intromise Jason, dietro di me. «Tutto ciò non ha senso! La quinta dovrebbe essere Thorgerd!», esclamò.
«Thorgerd?», ripetei io, incerta.
«Sì, la dea Thorgerd! Non una semplice ragazzina!».
Ancora una volta ero diventata invisibile per quello spocchioso. 
«Una dea?», chiesi, continuando a non capire.
«Sì, dea! Non so se hai presente, una…».
«Jason! Basta!», lo rimproverò Aaron. Jason lo guardò in cagnesco, ma non aggiunse altro.
«Scusami, Aaron, ma non capisco...», dissi scuotendo la testa. 
Sentii Jason sbuffare dietro di me e m'irritai.
Aaron lo ignorò. «Ci sono stati lasciati dei tomi per farci comprendere a pieno la situazione e sapere che cosa fare, perciò non mi sorprendo del fatto che tu non capisci la situazione», mi sorrise. «Migliaia di anni fa sulla terra erano presenti un mago è una maga potentissimi. Nessuno al mondo riusciva a eguagliare i loro poteri, poiché la loro magia era purissima. Insieme, grazie alla loro generosità, scelsero due uomini e due donne a cui donare parte dei loro poteri. Questi eroi ricevettero ciascuno il potere di uno degli elementi della natura. 
«I due uomini ricevettero il fuoco e l'aria, mentre le due donne l'acqua e la terra. I due maghi li amavano tanto che forgiarono per loro degli amuleti che servivono per proteggerli e per aumentare i loro poteri, ognuno con la pietra del loro elemento. In tutto il pianeta si poteva percepire l'armonia che c'era nella natura e i maghi erano soddisfatti della loro scelta e delle persone a cui avevano donato i poteri, fino a quando il mago non espresse il suo amore per la maga e lei lo rifiutò.
«Il mago andò fuori di testa, non capiva come lei avesse potuto rifiutarlo quando insieme erano perfetti, perciò cominciò a seguirla. Un giorno la vide mentre si scambiava gesti romantici con Rubino – è così che viene chiamato l'uomo che aveva il potere sull'elemento fuoco – e il mago non ci vede più dalla rabbia. Tutta la sua luce fu oscurata dall'odio che provava per quell'uomo. Fece pensieri che non si era mai aspettato di poter pensare e provò emozioni che mai avrebbe pensato poter provare e giurò vendetta: non solo contro Rubino, ma verso tutti gli eroi, perché loro avevano portato via da lui l'amore della maga.
«La maga, che teneva molto ai suoi eroi, creò per sé un amuleto come il loro, per poterli proteggere. Quando il mago lo venne a sapere fu accecato dall'odio e cerco di distruggere anche lei», il viso di Aaron si fece triste mentre guardava lontano. «La lotta che infuriò durò per diverso tempo, mandando la natura in confusione e, durante gli scontri, nulla sopravviveva sul campo di battaglia. 
« La maga capì che l'unico modo per far sopravvivere il pianeta dalla distruzione della loro guerra era imprigionare il mago, però sapeva che per farlo si sarebbero dovuti sacrificare tutti. Lei raccolse tutte le informazioni a cui era a conoscenza, tutte le profezie – acquisite grazie al suo dono delle previsioni – e le racchiuse in quei tomi», disse indicando la libreria alle mie spalle. «Affidò questi libri a delle persone fidate, le quali avrebbero successivamente dovuto fondare la Congrega.
«Quando si scontrarono per l'ultima volta, gli eroi riuscirono a intrappolare il mago, solo che lo sforzo che avevano fatto per intrappolarlo era troppo grande per loro, perciò morirono. Si erano tutti sacrificati per salvare il mondo, ma alla morte della maga, essa si trasformò in dea, la dea Thorgerd, talmente era potente la sua magia».
Lo fissai, rapita, incapace di credere che quella storia fosse vera, ma ancora più incapace di credere che non lo fosse.
«Questa Congrega la venera e lei ci ha dato il nome di Congrega dei Custodi degli Elementi, perché noi, oltre che la storia e le profezie mandati dalla dea nel tempo, costudiamo anche gli amuleti forgiati dalla maga. O almeno lo facevamo, finché non siete arrivati voi e ve li abbiamo consegnati».
Il mio cervello si sta fondendo per il sovraccarico di informazioni. Sicuramente, osservandomi bene, si poteva vedere del fumo uscirmi dalle orecchie. 
«Come avete fatto a trovarci?», chiesi, dando voce a una delle tante domande che mi vorticava nel cervello. «E come facevate essere certi che fossimo davvero noi?». 
«Beh, la dea ci ha lasciato una specie di bussola incantata, la quale ci avrebbe condotto da voi quando il potere dell'eroe si fosse manifestato. Quando avessimo trovato il ragazzo», si interruppe guardando Caroline. «… o ragazza, l'ultima cosa da fare era dargli l'amuleto e vedere la reazione al contatto», disse con un sorriso soddisfatto.
«Ma perché tutto questo non è che accaduto con me?», chiesi.
Aaron si strinse nelle spalle. «Non lo sappiamo. La dea ci ha incaricati di trovare, unire e addestrare solo Zaffiro, Pietra di Luna, Rubino e Smeraldo. Di Opale – ovvero te – non ci ha lasciato scritto niente se non che ci avrebbe trovati – o meglio, che si sarebbe presentata a  noi – al diciannovesimo anno dalla nascita dei nuovi eroi».
«Addestrare?». Non la potevo più di fare domande per poi ricevere risposte che mi suscitavano altre dieci domande. 
«Io sono incaricato di addestrarvi», questa volta fu Mr Butler a rispondere. «Ovvero di aiutarvi a gestire e controllare il vostro potere», sorrise amichevole. 
Il vostro potere? Sembra una bella cosa. «Okay, ma… Perché?», chiesi esasperata, massaggiandomi le tempie. «Cioè, se il cattivo è stato sconfitto, che ci facciamo noi con… questi?», non avrei potuto dire la parola poteri, l'avrebbe fatto diventare troppo vero.
«Attenzione, Alexia, ho detto che il mago è stato imprigionato, non sconfitto. Thorgerd ha detto che lui sarebbe tornato, e ha fatto in modo che anche i suoi eroi – e lei stessa, in un certo senso – tornassero per poterlo sconfiggere definitivamente», rispose Aaron, con un sorriso soddisfatto.
«Che cosa vuoi dire con e lei stessa, in un certo senso?».
«Vedi, la profezia a riguardo recita: Al diciannovesimo anno dal ritorno degli eroi a questi si presenterà l'Opale. Rubino, Zaffiro, Smeraldo e Pietra di Luna si inchineranno a colei che tutto ha creato e luce ha donato e, insieme, uniranno le forze per scacciare colui che gli elementi alla natura ha voluto rubare. In passato e negli altri testi ci si riferisce alla dea chiamandola, oltre che col suo nome, maga, Civetta o Opale, perciò ci aspettavamo che sarebbe tornata lei con la sua forma mortale. A quanto pare ci siamo sbagliati e abbiamo interpretato male», dedusse con il sorriso di scuse.
Scoppiai a ridere dopo averlo fissato per qualche secondo. Qui erano tutti fuori di testa! Completamente pazzi!
Potevo credere alla storia dei poteri, potevo pure credere alla storia della maga – o dea, o quello che è – , ma credere che io fossi la reincarnazione mortale di una qualche divinità di cui non sapevo neppure pronunciare il nome, o di cui non sapevo persino l'esistenza, era troppo! 
Chiunque in quella stanza mi guardava come se mi fosse spuntato un terzo occhio.
«Va bene», dissi alzandomi in piedi. «Fatemi un fischio quando arriva la vostra dea, okay? Io intanto torno la mia vita», mi girai per andare, ma Mr Butler mi fermò.
«Aspetta!», esclamò accigliato.
«Perché? Mr Butler...», cominciai.
«Tom», mi corresse lui.
Alza gli occhi al cielo. Come se avesse importanza. «Tom… Non pensi sul serio che io sia la reincarnazione di una qualche potente maga?».
«Perché no?», ribatté lui. Perché no? Per un'infinità di motivi!, pensai. «Tu penseresti che loro sono la reincarnazione di quattro antichi eroi?», osservò. 
«Questo è diverso», protestai a denti stretti. 
«No, non lo è», insisté Aaron.
Scossi la testa.
Come facevano a non vederlo? Non ero niente di speciale, una ragazza che non aveva parlato per dodici anni. Questa è l'unica cosa che risaltava in me! Non ero una dea, non avevo i poteri straordinari di una maga! 
«Ok, facciamo la prova del nove. Ti diamo l'amuleto che ti spetterebbe. Se ti succede ciò che è successo agli altri ragazzi, allora ti convincerai di essere speciale», disse l'ultima parola come se fosse fermamente convinto che fosse così, convinto come se stesse affermando che cielo è il blu e il sole brilla. «Se non succede allora tornerai la tua vita come se niente fosse, okay?». 
Alzai gli occhi al cielo e mi rassegnai con un sospiro. «Prima facciamo questa cosa prima potrete tornare alle vostre cose e io a casa», dissi. 
Tom s'illuminò, mentre si diresse verso il quadro della donna-civetta  e lo sposto, rivelando una cassaforte. Dopo averla aperta, e preso qualcosa al suo interno, tornò da me, con un sorriso che gli andava da un orecchio all'altro. Aveva in mano un panno di velluto blu. Si fermò davanti a me e scostò la stoffa per scoprire una collana. 
Era la cosa più bella che avessi mai visto! Attaccata alla catenina d'argento c'era un ciondolo con una pietra nera con puntini colorati che risplendevano sotto la luce. Sembrava che quelle pagliuzze – blu, gialle, verdi, rosse, arancioni e viola – ,che in alcuni punti erano separate, ma che in altri sembravano fondersi tra loro e dare origine a delle altre sfumature di colore, potesse risplendere al buio, tanta era intenso il loro colore! Tutto intorno a questa pietra c'erano incastonati piccoli diamanti, i quali contribuivano a dare luminosità al ciondolo – anche se, a mio parere, non serviva. 
«Questo è un opale», disse Tom, fiero, mentre non riuscivo a togliere gli occhi da quella pietra meravigliosa. «Coraggio, toccalo!»,mi spronò.
Allungai una mano, incerta, presi il ciondolo e urlai.
La fitta di dolore arrivò un momento dopo aver preso in mano l'opale. Lo lasciai subito, dopo aver preso la scossa, facendolo ricadere sul velluto che aveva ancora in mano Tom, accasciandomi sulla sedia.
Ma non fu quello il dolore per cui lasciai andare il ciondolo. Una fitta acuta, come se un miliardo di aghi mi bucassero tutti insieme e mi penetrassero sotto pelle nello stesso punto, mi trafisse la schiena, sull'osso sacro. Sentivo bruciare, ma non capivo perché.
Nessuno parve sorpreso dalla mia reazione. Tom sorrideva, come la maggior parte delle persone nella stanza. Ovviamente Jason non era tra queste. Preso dalla rabbia si girò dall'altra parte, furioso, per non guardarmi.
Caroline batté le mani. «Dove?», chiese entusiasta. 
«Cosa, dove?», chiesi di rimando, senza fiato. La schiena mi bruciava ancora. 
«Dove hai sentito... male?». Indicai il punto, senza capire. Lei si avvicinò e prese un lembo della mia felpa bianca. «Posso?».
Senza capire annuii e, mentre mi tirava sulla felpa, sentii tutti trattenere il fiato.
«Wow!», esclamò, affascinata. «Che bello!».
«Cosa?», chiesi con voce rotta, cercando di vedere, senza riuscirci.
Aaron tirò fuori uno specchio da un cassetto della scrivania – che cosa ci faceva uno specchio in una scrivania? – e me lo porse.
Lo prese Caroline e lo posizionò in modo da inquadrare qualcosa al centro del mio fondoschiena.
Rimasi di sasso, quando lo vidi. Io, che non avevo nemmeno voluto un piercing da qualche parte sul mio corpo – che non siano i classici due buchi alle orecchie – adesso avevo un tatuaggio sul fondoschiena!
Era un albero stilizzato, con tanto di colore! Le radici e scomparivano sotto l'elastico dei jeans, mentre i rami salivano sulla mia spina dorsale. La chioma a destra – visto dallo specchio, per cui doveva essere sinistra per gli altri che lo guardano – era verde, con qualche fiore e un paio di liane che scendevano dal ramo. Accanto le foglie si trasformavano in nuvole d'aria che si arricciavano verso alto. Accanto ancora l'aria lasciava spazio a un'onda d'acqua che si allungava verso l'alto e che si dissolveva in piccole gocce. L'ultimo ramo, invece, era in preda alle fiamme, le quali si allungavano verso sinistra – o destra per gli altri – e verso l'acqua – che era appena sopra al fuoco. Poco prima che il tronco si ramificasse, vi era un buco al centro del tronco, dal quale spiccava il volo una candida civetta bianca.
Rimasi a bocca aperta e capii quello che stava succedendo prima che qualcuno me lo spiegasse.
Ero uno degli eroi.
Ero la reincarnazione di Thorgerd.

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Capitolo 10
*** Capitolo Dieci ***


Non era possibile che tutto questo stesse succedendo a me! Doveva esserci per forza una spiegazione logica a ciò che mi stava accadendo, eppure il mio cervello non riusciva a trovarla. Non era possibile che una maga avesse scelto proprio di essere me. Insomma… Guardatemi!
Non facevo altro che combinare un guaio dopo l’altro sin da piccola. Poi ho smesso di parlare. Non facevo che essere di troppo per i miei genitori troppo perfetti. Io non centravo niente con loro.
Hope. Lei si che era perfetta, non come me!
La figlia che tutti avrebbero desiderato avere, la sorella migliore che si potesse desiderare, una moglie affettuosa da baciare al ritorno da lavoro – se solo fosse potuta arrivarci… Lei sarebbe dovuta essere una potentissima maga, una dea come Thorgerd, non io.
Il ricordo di Hope mi lasciò senza fiato e mi accasciai di nuovo sulla sedia per il dolore che provavo dentro. La gola mi s’inaridì di nuovo. Mi mancava il respiro…
Stavo soffocando dentro i miei stessi ricordi!
«Respira, Alexia! Respira!», mi spronò Tom, chinandosi accanto a me e mettendomi una mano sulla spalla.
Respirare?
Il mio corpo fu scosso da tremendi singhiozzi.
Perché mi ero concessa di pensare a Hope?
«Andrà tutto bene», diceva la voce di Tom. Erano le stesse parole che mi aveva detto Caroline poco prima.
«Tutto bene? E come potrebbe?», dissi tra un singhiozzo e l’altro. «Tutto questo non ha senso. Non. Ha. Senso!», ripetei alzando la voce.
«Piano piano imparerai ad accettarlo…», confermò Aaron.
«Accettarlo?», ripetei incredula. «Come farei ad accettare una cosa del genere?», mi alzai in piedi, scrollandomi di dosso la mano di Tom, con le lacrime che continuavano a scendermi dalle guance, ma adesso erano lacrime di rabbia, non di disperazione, come le prime. «Non posso accettare una cosa del genere. Ma soprattutto non voglio!», strillai. «Cosa pretendete? Di farmi venire qua, dirmi una cosa del genere e farmi fare quello che volete voi? Assolutamente no! Non mi potete stravolgere la vita in questo modo! Non ne avete nessun diritto!», sbraitavo, su tutte le furie.
Tutti rimasero allibiti dalla mia scenata, ma, quando Aaron rispose, il suo tono era calmo e pacato. «Alexia devi capire che adesso hai delle responsabilità verso la Congrega, verso i tuoi compagni, verso Thorgerd e, soprattutto verso te stessa».
Non potevo credere che mi stava dicendo questo.
«Le responsabilità di cui parli sono verso persone che nemmeno conosco », cominciai ad elencare sulla punta delle dita, «persone che ieri mi squadravano come se fossi la peggiore feccia del mondo e una dea» – dissi enfatizzando la parola dea, come per sottolineare l’assurdità di tutto ciò – «di dubbia esistenza. Quindi scusa se non sono proprio propensa ad accettare queste tue responsabilità», aggiunsi sarcastica.
«Se dici questo di Thorgerd non offendi solo noi – e con noi anche lei – , ma offendi pure te stessa, perché tu rappresenti lei nella sua forma più terrena. Tu sei lei.», osservò Tom.
«Io non sono nessuno, se non Alexia Reed! Certo, a volte ho desiderato di essere mille altre persone migliori di me, ma mi rifiuto di essere una dea!». Era come se le parole che non avevo pronunciato in dodici anni uscissero dalla mia bocca senza filtro.
«Alexia, prova a ragionare…», Tom diede un’occhiata nervosa ad Aaron. Nessuno, a parte Aaron e Tom, osava provare a spiccicare parola. Persino la lingua tagliente di Jason si era data un freno.
«No!», urlai. «Non potete costringermi a fare quello che volete voi».
«Questa è la tua vita adesso», disse duro Aaron. Il signore cordiale che avevo visto prima era scomparso dietro al capo della Congrega dei Guardiani degli Elementi. Un capo severo, duro, che non accetta repliche.
«Io voglio una vita che sia mia!», strillai, ricominciando a piangere. «Non voglio una vita che deve essere decisa da persone come voi! Voglio poter fare le mie scelte. E questa di sicuro no è una mia scelta». Mi presi la testa tra le mani, cascando di nuovo sulla sedia. «Questa non è più la mia vita», sussurrai talmente piano che pensavo che nessuno sarebbe riuscito a sentirlo.
«Sappiamo che è difficile adesso, ma prima o poi imparerai ad accettarlo e a conviverci… Alla fine ti apparirà tutto normale», tentò di incoraggiarmi Tom.
«No», risposi decisa. «Non potrebbe mai sembrarmi normale tutto questo. Non potrò mai accettare di essere una…», non riuscivo più a pronunciare quella parola. «una di loro!».
«Loro l’hanno accettato. Non vedo come tu non possa farlo».
«Non posso e basta, non dopo Hope», sibilai a denti stretti.
Come potevo essere la reincarnazione di una persona così pura? Dopo tutto il male che avevo causato non era assolutamente possibile.
Mi alzai. «Devo andare», dissi semplicemente.
«Non puoi, dobbiamo…», iniziò Aaron.
«Io posso!». Adesso avevo deciso che non mi sarei più fatta mettere i piedi in testa da nessun altro! «Voi dovete, io non devo proprio nulla!», ringhiai. «Mi dispiace, ma non sono la persona che cercate».
«No! Tu..».
«Lasciala andare».
Sgranai gli occhi.
Jason stava guardando Aaron.
«Jason, cosa..?», Aaron, sembrava confuso quanto me, ma la mia confusione durò molto meno della sua.
Mi avviai verso la porta. Mi sentii travolta da un’ondata di gratitudine verso quel ragazzo. Com’era possibile che per una volta fosse dalla mia parte e prendesse le mie difese?
«Lasciala andare», ripeté lui. «Tanto non è chi ci serve, no? L’ha detto lei. Falla andare…», quando mi girai vidi che mi guardava con disprezzo. «è solo un’inutile ragazzina».
Ah, ecco! Non era per prendere le mie difese, ma per continuare a insultarmi.
«.. O sbaglio?», chiese Jason, con un sorrisetto impertinente dipinto sulle labbra e alzando il mento a mo’ di sfida.
«Non sono una ragazzina», sibilai.
«Ah, no? Stai fuggendo davanti ai problemi, ecco cosa fai! E questo non è il comportamento di una ragazza matura, ma quello di una stupida..».
«Smettila», lo avvertii, chiudendo gli occhi.
«… Infantile…», continuò lui.
«Ti ho detto di finirla», ringhiai.
«… Insignificante ragazzina!».
«Basta!», urlai.
Aprii gli occhi di scatto. Preda di una potente ira. Un vento improvviso mi sferzava i capelli, dentro di me sentii crescere il calore della rabbia, alzai il braccio e lo puntai verso Jason. Dalla mia mano uscì una palla di fuoco che gli avrebbe incenerito quel viso insopportabile se non l’avesse fermata prima.
Tutti urlarono nella stanza. Tutti tranne Jason. Lui aveva un ghigno dipinto su quell’odioso viso perfetto.
Lui fermò la palla con una mano e la ispezionò. «Non male», disse infine, «… Per una ragazzina!».
Continuai a puntargli contro le mani e stavolta, oltre alle palle di fuoco, uscivano vere e proprie colonne.
Jason riusciva a bloccarle appena prima che lo prendessero. Continuava a ridere di me, e a ogni sua risata la furia dentro di me cresceva sempre di più.
Cercavo di mettere sempre più forza, quando tiravo un colpo. Volevo fargli male, volevo che soffrisse, in modo da fargli comprendere come faceva sentire me quando mi prendeva in giro. Ma ciò sembrò non scalfirlo per niente.
Lanciai una colonna di fuoco dritta al suo petto, urlando per lo sforzo che mi procurò, e quasi lo colpii. Non riuscì a bloccare il colpo, perciò si spostò di lato, appena in tempo per non essere preso. Gli leggevo in faccia che aveva capito quanto era andato vicino a rimanerci secco, c’era della paura nel suo sguardo, e ciò bastò per darmi soddisfazione.
Mi piegai in avanti e appoggiai le mani alle ginocchia, ansimando, esausta per tutta quella fatica.
«Visto?».
Alzai la testa di scatto.
Di nuovo? Stiamo scherzando, vero? Ancora a prendere in giro?!
«Sei stata tu a fare questo», disse accennando un sorriso e alzando le braccia, come per abbracciare l’intero ufficio.
Mi guardai intorno, perplessa, e vidi che per l’ufficio c’erano un sacco di fogli, che erano volati in giro per la stanza. Le facce di tutti gli altri erano sconvolte per lo spettacolo a cui avevano assistito. Jason cercava di non dare a vedere quanto si fosse sforzato per tenermi a bada, ma vidi che anche lui aveva il fiatone e la fronte imperlata di sudore. I suoi capelli erano spettinati, come al solito, e la maglia bianca che portava – solo ora mi rendevo conto di non aver mai prestato attenzione al suo abbigliamento – era un po’ annerita in alcuni punti.
«E allora?», chiesi io.
«E allora», ripeté lui. «come fai ad avere ancora dubbi?! Neanche a me va a genio la parte che ricopri in questa storia, ma sei una di noi, e prima lo accetterai, prima imparerai a usare i tuoi poteri e potremo prendere a calci nel culo quel mago del cazzo. Così, una volta fatto ciò ognuno andrà per la sua strada, come se non ci fossimo mai conosciuti».
Non sapevo se quelle parole volessero essere un insulto o un tentativo di tirarmi sù…
Oddio!
Ero stata davvero io a fare tutto quel casino in quell’ufficio e mi mettevo a pensare alle parole che stava dicendo Jason?! Ma che cavolo di problema avevo?
Abbassai lo sguardo a terra. «Scusate», mormorai a nessuno in particolare.
«Non preoccuparti», rispose Aaron. «Forse è meglio lasciarti il tempo di riflettere su tutto ciò che sta accadendo… Ti chiediamo scusa per come abbiamo cercato di obbligarti, è un comportamento sbagliato, ce ne rendiamo conto, ma non siamo abituati a… A cercare di convincere una ragazza già adulta a crederci». L’imbarazzo nella sua voce era tangibile. «Prenditi tutto il tempo di cui hai bisogno e, quando sarai pronta, noi saremo qui, risponderemo a tutte le tue domande e Tom sarà più che contento di insegnarti a controllare il tuo potere», concluse sorridendo.
Io annuii e mi girai verso la porta.
«Aspetta», mi fermò Caroline. «Ti accompagno a casa».
Non replicai. Mi faceva piacere avere qualcuno accanto…
La mia vita stava andando a rotoli e io non potevo farci niente.
Ma era ancora la mia vita?
Era mai stata la mia vita?
Ormai non lo sapevo più. Non sapevo più niente.

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Capitolo 11
*** Capitolo Undici ***


Caroline non disse nulla per tutto il tragitto verso casa, cosa strana, visto che… Beh, era Caroline!
«Allora… Ci vediamo», disse Caroline, a disagio, quando la macchina si fermò davanti all’edificio dove abitavo.
«Ti… Ti va di salire?», chiesi nervosa.
Le si illuminarono gli occhi e annuì energicamente, facendo sobbalzare come molle i suoi riccioli perfetti.
Sorrisi a mia volta e scendemmo dall’auto.
Aprimmo bocca solo quando arrivammo nel salotto del mio appartamento.
«Hai fame?», chiesi a Caroline.
Non c’era nessuno in casa, erano tutti a lavorare, quindi potevamo parlare tranquillamente. Non sapevo ancora se volevo che i miei genitori sapessero che avevo ricominciato a parlare…
«Un po’…», ammise Caroline, con un sorriso timido.
Le sorrisi di rimando e le feci cenno di seguirmi in cucina. Era l’ora di pranzo, eppure mi sembrava che da quando ero uscita da quell’appartamento, quella mattina, fossero passate settimane, non poche ore.
Dopo l’approvazione di Caroline cominciai a preparare il pranzo: semplice pollo fritto e insalata, non mi andava di mettermi a cucinare ricette elaborate.
Mandai anche un SMS a Ward, informandolo di non venire a prendermi a scuola
«Come ti senti?», chiese la mia compagna, dopo aver finito di mangiare.
Rimasi spiazzata dalla domanda. Da quando era iniziata tutta quella storia nessuno si era preoccupato anche solo di chiedermi come mi sentissi. Tutti continuavano a dirmi cose assurde, cose che non avevano senso, mi dicevano che ero la reincarnazione di una qualche dea, ma nessuno si era preoccupato di chiedermi come mi sentissi…
Mi strinsi nelle spalle, stringendo le labbra in una linea dura, la testa china per nascondere le lacrime che mi erano salite agli occhi – ultimamente non facevo altro che piangere, dannazione!
«Alexia?», la voce di Caroline era strana, come implorante. Non risposi nemmeno stavolta, guardai altrove, per non incrociare i suoi occhi. «Alexia, ti prego, parlami…», disse disperata.
Scossi la testa e mi girai, dandole le spalle, perché le lacrime che avevano cominciato a scendermi lungo le guance.
«Guardami, ti prego, guardami», era una preghiera la sua.
Potevo esaudire la sua richiesta?
«Posso aiutarti», continuò. «So esattamente come ci si sente ad essere la nuova arrivata. Io sono stata l’ultima ad arrivare qui, prima di te. Avevo undici anni quando ho attivato il mio potere». Perché mi stava dicendo queste cose?
«Eravamo andati a fare un escursione nell’oceano, a bordo di una piccola barca. Mamma aveva detto che non era un buon momento per uscire in mare aperto, poiché le acque erano irrequiete quel giorno, ma mio padre insistette per uscire e portare anche me». Non vedevo il suo viso, ma dalla voce capivo che era lontana, in un passato in cui, anche se per poco, tutto era normale. «Ci fu un incidente… Io e mio padre fummo sbalzati in acqua e un’onda ci sommerse. Nessuno dei due portava un cavolo di giubbotto salvagente, che sconsiderati! Non riuscivamo a risalire a galla, con la corrente che ci trascinava in mille direzioni, ma riuscimmo a rimanere uniti, con mio padre che mi teneva per mano, nel tentativo di trascinami con se in superficie. Era la fine, me lo sentivo… E se lo sentiva anche lui. Ci abbracciammo, e in quel momento l’unico mio desiderio era Ti prego, fa che papà si salvi!».
Mi girai, esterrefatta da quella storia. Mi immaginai una bambina di undici anni disperata che appena prima di morire voleva solo che suo padre si salvasse.
«Non ce la facevo più, i polmoni mi bruciavano alla disperata ricerca di aria. Quando alla fine mi arresi, invece che acqua nei miei polmoni entrò ossigeno. Potevo respirare normalmente!», adesso nella sua voce c’era della meraviglia. «Ma questa non fu l’unica cosa strana che successe. Anche mio padre poteva respirare e, mentre eravamo uniti nell’abbraccio, una corrente ci porto a galla. Riuscimmo a trovare la nostra barca e a tornare a riva. Il giorno dopo arrivarono Aaron e Tom, così ci trasferimmo qui», concluse con un sospiro.
Ero spiazzata da quella storia, così inverosimile, così diversa dalla mia, eppure così simile…
«Non rinchiuderti in te stessa, per favore. Hai appena ricominciato a parlare, non ritornare in quel silenzio opprimente».
Che ne sapeva lei di cosa succedeva ogni volta che avevo provato ad aprire bocca? Cosa ne sapeva lei di come era difficile, per me, continuare ad andare avanti, ogni giorno, come se nulla fosse? Come se non fossi stata io a rovinare la mia famiglia? Lei aveva salvato la sua famiglia, mentre io non avevo fatto altro che distruggerla.
«Come mai non parli? Aiutami a capire. Dimmi cosa è successo e io ti aiuterò ad affrontare tutto ciò che verrà. Ma se non me lo dici non posso aiutarti…»
Poteva davvero aiutarmi? E come? Nessuno era a conoscenza del dolore che mi portavo dietro da dodici anni, nemmeno i miei genitori. Poteva davvero aiutarmi parlarne con qualcuno? Le persone pensano di sì. Avevano provato a mandarmi da uno psicologo, ma, ovviamente, non avevo mai aperto bocca, perciò ci avevano rinunciato.
Di sicuro quando avrebbe scoperto la verità non mi avrebbe più guardata in questo modo. Non l’avrebbe fatto nessun altro. Nessuno mi avrebbe guardata come se fossi la vittima della situazione. Io ero il mostro che aveva fatto quelle cose orribili!
La parola mi uscì in un sussurro, da sola, senza che ebbi il tempo di decidere se parlarne o no. Ma evidentemente il mio cervello aveva già deciso che, dopo dodici anni, era il momento di confidare la mia storia a qualcuno.
«Hope».

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Capitolo 12
*** Capitolo Dodici ***


«Speranza?». Caroline era visibilmente confusa, come darle torto.
Le feci segno di seguirmi e la portai con me nella camera dei miei genitori. La stanza era molto spaziosa, i mobili e le pareti erano bianche, ma la testiera del letto dava un po’ di colore alla stanza con quel verde pastello.
Mi fermai davanti a un cassettone bianco, sormontato da un enorme specchio. Sopra questo cassettone c’erano un sacco di fotografie di quando ero piccola…
Presi una foto di famiglia, in quell’immagine avevo più o meno cinque anni. Mio padre, alto, biondo, con gli occhi azzurri era l’esatto opposto di mia madre, con quella carnagione olivastra, i capelli neri e gli occhi altrettanto scuri, eppure in quella foto si vedeva quanto si amassero… Erano seduti sui gradini della veranda della nostra vecchia casa a Elmira, si abbracciavano e si sorridevano a vicenda.
Sotto di loro c’erano due bambine, anche loro completamente diverse, eppure uguali. La più piccola delle due era seduta sotto il padre, la carnagione olivastra, come quella della madre, i capelli lisci castano dorati, gli occhi marroni – seppur non scuri come quelli della madre, ma un color cioccolata, caldo – erano illuminati da una scintilla di divertimento, di amore… quel genere di scintilla che può dare solo l’innocenza di un bambino. 
L’altra bambina, invece, quella più grande, aveva la carnagione candida come quella del padre, arrossata sulle guance, i capelli, a differenza di quelli della più piccola, erano ricci e scuri, ma gli occhi erano dello stesso color cioccolato.
La più grande abbracciava la più piccola con fare protettivo, come se quell’abbraccio avrebbe potuto proteggerla da qualsiasi cosa…
Caroline osservò l’immagine attentamente.
«Ma questa…», avvicinò la foto agli occhi. «Questa è tua madre!», disse indicando la donna.
Annuii.
«E questa sei tu?», chiese incredula, indicando la bambina più piccola.
Annuii di nuovo, in silenzio, girando la testa da un altra parte, per non guardarla in faccia.
«Quindi questo è tuo padre, suppongo. Ma questa bambina…», si bloccò di colpo. Ovviamente stava facendo due più due. «È tua sorella questa bambina?».
Chiusi gli occhi e annuii sospirando. Faceva male sentirselo ricordare.
«E dov’è adesso?».
Mi girai e la guardai con gli occhi pieni di dolore. Sentii che il labbro inferire cominciava a tremare e gli occhi mi si riempirono di lacrime.
«Oddio!». Caroline si portò una mano alla bocca, evidentemente questa non era la risposta che si aspettava. Allungò le braccia e abbracciò. «Mi dispiace tanto», mi sussurrò mentre mi stringeva a sé.
Mi lascia cullare dalle sue esili braccia, come una bambina. 
«È lei Hope», dissi quando sciolse l’abbraccio. Mi sedetti sul letto e feci segno alla ragazza di accomodasi. «Eravamo veramente molto unite. Aveva tre anni in più di me e pensava che avrebbe dovuto proteggermi da qualsiasi cosa. Quello, secondo lei, era il suo dovere. Quando ero malata dormiva sempre vicino al mio letto, perché aveva paura che mi sentissi male durante la notte…», sorrisi, scuotendo la testa. «Era la mia migliore amica, e a lei non sembrava dispiacere passare del tempo con me, nonostante fossi la sorella minore. Mi insegnò a nuotare, quando ero piccola. Era la figlia perfetta! Faceva sempre i suoi compiti e si assicurava che li facessi anche io. Apparecchiava sempre la tavola e mi portava sempre un pezzo della cioccolata che la mamma le metteva nel borsone di pallavolo». Ricordare faceva davvero male! Non parlavo di lei da dodici anni e tutti cercavano di non parlare di lei in mia presenza.
«Una sera di dodici anni fa i miei genitori uscirono con degli amici e mi lasciarono sola a casa con Hope. All’epoca io avevo sette anni e lei dieci, ma era molto più matura e responsabile di una normale bambina di dieci anni, perciò i miei si fidarono di lasciarci sole a casa. Quella sera mi vennero a chiamare delle amiche di scuola, chiedendomi se volevo andare con loro a casa di Natasha, la quale stava facendo un pigiama party. Io ero emozionantissima per quella festa, perciò andai da Hope. Ero convinta che mi avrebbe lasciata andare, invece me lo negò. La scongiurai, la pregai in tutti i modi di lasciarmi andare a divertirmi con le mie amiche, ma lei mi disse che non poteva lasciarmi andare, che io ero sotto la sua responsabilità e quindi dovevo rimanere con lei. A quei tempi non capivo, ero solo una bambina, perciò mi arrabbiai con lei. Le dissi delle cose orribili. Le urlai contro mentre rientravo in camera mia e sbattei la porta. Non ci volle poco perché la casa si ritrovasse avvolta tra le fiamme. Mi ero rintanata in un angolo di camera mia quando Hope entrò e accompagnò alle scale per arrivare alla porta d’ingresso». Le lacrime scendevano sulle mie guance come cascate. «Solo una volta fuori mi resi conto che lei non era al mio fianco, come sempre. Stavo per rientrare dentro da lei, quando i vicini mi bloccarono l’accesso alla casa e mi trascinarono via. Quando arrivarono i soccorsi era troppo tardi, Hope era già morta. Hope è morta per colpa mia». Era la prima volta che lo dicevo a qualcuno. «Io ho ucciso mia sorella!». E venni sommersa dai singhiozzi, mentre il dolore mi assaliva, come la prima volta.

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Capitolo 13
*** Capitolo Tredici ***


Lei era l’unica, oltre a me, a sapere la verità su quanto era accaduto quella sera di dodici anni fa. Nessuno sapeva che in realtà era stata colpa mia. Il rimorso per quell’incendio mi tormentava continuamente, non era raro che di notte mi svegliassi per gli incubi. Io avevo ucciso la persona più buona che avessi mai conosciuto. Hope mi mancava terribilmente, ogni giorno il dolore per la sua perdita non accennava a svanire.
Per molto tempo avevo pensato di tenere per me la verità, ma non ce la facevo più. Mi stava corrodendo da dentro, portandomi via, giorno dopo giorno, un brandello di vita dopo l’altro. Questo peso faceva in modo che la felicità restasse a debita distanza da me. La gioia non ricordavo nemmeno più che cosa volesse essere. Non ero più una persona. Ero una macchina, capace di provare solo dolore e tristezza, a volte anche terrore… e rabbia. Il mio non era vivere.
Dovevo levarmi questo peso di dosso, confidarmi con qualcuno, così, magari, sarei riuscita a ricominciare a respirare veramente. Avrei potuto ricominciare a vivere, a provare emozioni diverse, e forse sarei riuscita a liberarmi da questa rabbia che provavo verso me stessa.
Caroline mi guardava, con una maschera di terrore sul volto. 
Avevo deciso di confidarmi proprio con lei e proprio adesso perché mi sembrava il momento migliore. Adesso sapevo come mai avevo questi poteri e, anche se la cosa mi spaventava lo stesso, non provavo quel solito terrore al pensiero di poter fare qualcos’altro. Anche lei aveva avuto un iniziazione traumatica a questi nuovi poteri, perciò in un certo senso poteva capirmi. Avevo pensato che magari non mi avrebbe giudicata, ma guardando la sua faccia terrorizzata ebbi il timore che mi sbagliavo di brutto.
«Dí qualcosa, ti prego!», la implorai.
«È…», cominciò Caroline, a corto di parole. Cominciò a battermi forte il cuore: sicuramente stava cercando le parole per dirmi quanto le facessi schifo come persona. Ero una persona orribile, e lo sapevo, ma nessuno me l’aveva mai detto, come stava per fare lei.«È terribile quello che hai dovuto passare!».
Buttai fuori l’aria che stavo trattenendo inconsapevolmente e mi rilassai un po’. Non mi stava accusando.
Mi abbracciò. «Mi dispiace tanto che ti sia successo tutto questo, mi dispiace davvero tanto, ma sono contenta che tu ti sia confidata con me», si allontanò da me e mi sorrise timidamente. «Mi piacerebbe tanto essere amiche…».
Amiche… Non ne avevo più avute da quando successe quell’“incidente” e ci eravamo trasferiti a Corning. Ovviamente il fatto di non parlare non aiutava per niente, ma da quel momento non ho più voluto avere amici, avevo paura.
«Anche a me», risposi, sincera. «Ma non possiamo essere amiche», conclusi dura.
«Come? Perché no?». Caroline sembrava spiazzata dalla mia reazione.
«Perché no! Non ho mai fatto avvicinare nessun altro da quel giorno. Sono una bomba a orologeria, da un momento potrei esplodere e fare del male alle persone che mi sono intorno, e io non voglio più fare male a nessuno. Per questo non ho mai avvicinato altre persone, per questo tengo lontani anche i miei genitori. Se dovesse succedere qualcosa anche a loro per colpa mia, come è successo a Hope, non potrei mai perdonarmelo, non potrei superarlo… Non ancora», confessai.
«Ma non succederà, Alexia. Adesso hai tutti noi, e noi ti aiuteremo a controllare i tuoi poteri, così da non far più capitare incidenti e proteggere le persone che ami».
«Non ho ancora deciso se voglio far parte di tutto questo», precisai.
«Ma fai già parte di tutto questo!», saltò su e cominciò a camminare avanti e indietro per la camera da letto.
«Sul serio credete che io sia una dea? Hai sentito cosa ho fatto! Io ho ucciso mia sorella, sono un’assassina! Come posso essere io la reincarnazione di una maga dalla magia così pura come quella di Thorgerd?». Non aveva alcun senso!
«Nessuno è perfetto, Alex… La dea stessa non lo era, non vedo perché dovresti esserlo tu». Cercava di convincermi, ma io non riuscivo a pensarla come lei.
Sbuffai, scettica.
Caroline si fermò e mi fissò negli occhi. «Pensaci: tutta questa storia è partita perché lei ha voluto donare parte dei suoi poteri a dei mortali, poi si è innamorata di uno di loro, facendo infuriare il mago. Se non lo avesse fatto non ci sarebbe stata una guerra, e noi stessi saremmo stati diversi. Forse tua sorella sarebbe stata qui, ma io e mio padre saremmo morti». La leggerezza con cui parlava di questa possibilità mi lasciò spiazzata. «Sicuramente molte volte la maga è si posta la domanda Ho fatto bene a donare i miei poteri a quei mortali? E sicuramente non è mai arrivata a una conclusione… Non pensare che lei sia sempre stata perfetta, perché non lo è. Ha compreso i suoi sbagli e ha deciso di reagire di conseguenza. Per questo ha deciso di sacrificarsi e ha chiesto ai suoi eroi di fare lo stesso: perché comprendeva che la colpa di ciò che era accaduto era sua; perciò ha deciso di rimediare, piuttosto che rimanere in vita per un po’ di tempo in più e distruggere il pianeta». Caroline si inginocchiò davanti a me, che ero ancora seduta sul letto, e mi posò una mano sulla guancia. «Anche tu hai sbagliato dodici anni fa, anche se non intenzionalmente, ma adesso hai la possibilità di rimediare al tuo sbaglio e di prendere la situazione tra le mani. Hai la possibilità di non commettere più lo stesso errore. La prima volta era stato un incidente: non era intenzionale non avevi i mezzi per impedire che ciò capitasse. Se però ti rifiutassi di accettare il tuo destino e succedesse di nuovo qualcosa di brutto la colpa sarebbe solo tua, perché non hai voluto farti aiutare, mettendo così in pericolo chi ti sta vicino».
Caroline mi fissò intensamente, gli occhi di un blu intenso, come l’oceano.
Scoppiai di nuovo a piangere per la consapevolezza del fatto che quelle parole erano vere, e se fosse successo qualcosa a qualcuno per colpa mia, perché avevo rinunciato a farmi allenare, ne sarei rimasta distrutta.
Le buttai le braccia al collo e la strinsi forte. «Hai ragione», singhiozzai. «Hai ragione, ma mi serve solo un po’ di tempo…».
«Nessuno te lo negherà, il tempo», mi rassicurò lei, passandomi una mano sulla schiena.
Forse saremmo sul serio potute diventare amiche, dopo tutto…

 

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Capitolo 14
*** Capitolo Quattordici ***


La portai in camera mia, l’ultima porta in fondo al corridoio, e la guidai dentro. Appena entrati nella stanza, sulla sinistra, vi era la mia cabina armadio – mezza vuota, e con dentro per lo più jeans e maglioni – , svoltando l’angolo di un piccolo corridoio, la camera si apriva davanti a noi.
Restai in silenzio mentre Caroline si guardava intorno.
Sulla sinistra c’era la porta del bagno che avevo in camera – in questa casa c’erano tre bagni, due dei quali erano nella camera da letto mia e dei miei genitori. Accanto alla porta del bagno c’era una scrivania ancora nuova di pacca – vivevo da così poco lì che non avevo nemmeno avuto il tempo di arredare (o mettere in disordine) la mia nuova camera – sovrastata da scaffali su cui avevo già messo i miei vecchi libri. Le pareti della mia stanza erano colorate con una strana combinazione di celeste, azzurro, blu e tutte le loro sfumature, sembrava di ammirare un fondale marino in cui si rifletteva la luce del sole: era la cosa che più adoravo in quella camera! Sul pavimento c’era lo stesso parquet chiaro presente nel resto della casa, ma coperto da un soffice tappeto color panna. Attaccato alla parete in fondo alla stanza, vi era il mio letto enorme, con sopra tanti morbidi cuscini – la notte mi piaceva essere circondata da cuscini – con la morbida testiera dello stesso colore del tappeto e un copriletto navy. Davanti al letto c’era un enorme specchio che faceva sembrare la camera ancora più grande di quello che già era.
Ma l’unica ragione per cui avevo questa camera, che in origine sarebbe dovuta andare a i miei genitori, era perché loro avevano notato come mi si erano illuminati gli occhi alla vista della parete di fondo che era ricoperta di enormi finestre che davano su un terrazzo – a cui si poteva accedere da quella stanza – che si affacciava su una splendida Manhattan.
«Wow», fece Caroline, a bocca aperta. «Facciamo a cambio di stanza?», chiese e poi scoppiò a ridere.
Feci un mezzo sorriso, indicandole di accomodarsi sul letto.
«Allora… Cosa sarebbe questo addestramento di cui ha parlato Tom?», chiesi una volta seduta sul letto.
«Beh… Ci sono due tipi di allenamento.», cominciò a elencare Caroline sulle dita. «Uno consiste nell’allenamento fisico e imparare a combattere – dobbiamo imparare a difenderci da chiunque, che sia da un potente mago o un ubriacone. Mentre l’altro allenamento è più complicato. Impari a tenere sotto controllo il tuo potere, a manipolare gli elementi e persino a generarli, non so se mi spiego. In più imparerai persino a sfruttare i tuoi poteri in maniera più ampia».
La guardai con espressione incerta. Che cosa intendeva con sfruttare i poteri in maniera più ampia?
«Mmm… Come posso spiegartelo?», si chiese Caroline, grattandosi la tesa coperta di ricci ramati. Le lentiggini le danzavano sul viso mentre arricciava il naso in un’espressione concentrata. Con gli occhi osservava il soffitto, come ci fossero scritte le parole giuste con cui spiegarsi, quegli occhi blu come una pietra preziosa, come l’oceano. «Prendi come esempio Matt: il suo elemento è l’aria e lui riesce a manipolare l’aria intorno agli oggetti in modo da farli spostare con solo la forza del pensiero!».
Rimasi a bocca aperta. Poter far alzare un po’ il vento – come era successo a me qualche volta – era un conto, era una cosa che ero riuscita a fare anche senza dovermi allenare, ma spostare gli oggetti con la mente era un altro paio di maniche. Chissà quanto allenamento ci era voluto per Matthew per far spostare, anche di poco, un oggetto!
«Già!», rispose Caroline, come se mi leggesse nel pensiero. «Fantastico è dir poco. Matt sta provando a spostare se stesso, ma forse non è possibile fare una cosa del genere», concluse.
Vagai con lo sguardo per la stanza. Forse ero arrivata al limite. Per oggi avevo fatto il pieno di informazioni: se ne avessi ricevuta un’altra penso che mi si sarebbe fuso il cervello.
Un cellulare prese a suonare.
«Pronto?», rispose Caroline, tirandolo fuori da una tasca dei jeans. «Sì… Va bene, mamma, arrivo». Riattaccò e mi guardò. «Scusa, non mi ero resa conto di che ore fossero. Devo andare a comprare delle cose per preparare la cena, visto che mia mamma è impegnata a distruggere la casa». Alzò gli occhi al cielo.
«Non ti devi scusare». Mi alzai in piedi e le sorrisi.
Lei mi imitò e andammo insieme verso la porta di casa.
«Grazie per il pranzo», disse dopo essersi messa il giubbotto. «Questo è il mio numero. Se hai bisogno di qualsiasi cosa e se hai domande non esitare a scrivermi o anche a chiamarmi», mi fece l’occhiolino porgendomi un foglio su cui aveva appena scribacchiato il proprio numero.
Io lo presi, imbarazzata. Non sapevo proprio come comportarmi in queste situazioni. Borbottai un grazie e misi il bigliettino in tasca appena prima che Caroline mi prendesse e mi stringesse in un abbraccio.
Impacciata, ricambiai. Non ero abituata a ricevere numeri da amiche, figuriamoci essere stretta tra le braccia!
«Ciao», trillò Caroline, poi si girò e uscì dalla porta.

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Capitolo 15
*** Capitolo Quindici ***


Ero seduta alla mia scrivania a cercare di fare i compiti, ma non riuscivo a concentrarmi. Caroline era andata via da più di due ore e io avevo pensato di avvantaggiarmi coi compiti, ma non ero riuscita a fare niente.
Chiusi tutto e mi alzai. Era inutile stare seduta alla scrivania a non fare nulla, tanto valeva cominciare a preparare la cena.
Aprii il frigorifero per decidere cosa preparare. Stasera c’era anche mio padre a cena, perciò optai per fare un piatto di cui andavo matta da quando me lo fecero assaggiare i miei genitori in un ristorante italiano: pasta al salmone.
Mi misi a sedere e cominciai a tagliare il salmone.
Nella testa mi frullavano tutte le informazioni che avevo acquisito oggi.
Che cosa devo fare?, mi chiesi. Poteri magici…
Da piccoli è facile credere alla magia. Un bambino vede un pizzico di magia in tutto ciò che accade nel mondo. Guarda i cartoni animati con quel supereroe che gli piace tanto e sogna di avere anche lui dei poteri, di avere qualcosa di magico. Gioca coi suoi amici facendo finta di avere un potere e, con quel potere, di sconfiggere il cattivo.
Quando ero più piccola lo facevo anche io quel gioco, insieme ad Hope.
Poi però si cresce, e ci viene sbattuta in faccia una realtà. Una realtà amara, rude. 
Una realtà dove non vincono sempre i buoni. Dove non muore solo chi è cattivo. Dove chi muore, muore e basta, non può essere riportato in vita. Dove non ci sono formule magiche per tornare indietro nel tempo. Dove, fatto uno sbaglio, questo ti seguirà per sempre. Dove non c’è la netta distinzione tra buoni e cattivi. Dove non c’è giustizia.
E una volta accettata questa realtà vedi il mondo come realmente è; una volta accettata, anche volendo, non puoi più chiedere di tornare indietro.
Sono dodici anni che io ho accettato la realtà.
Mi ha colpita in faccia come uno schiaffo quando mia sorella è rimasta dentro quella casa in fiamme. Non potevo accettare la magia in questo mondo, quando non c’era nemmeno la giustizia.
Hope era morta e con sé si era portata anche la magia, la spensieratezza, l’allegria… La speranza.
La lama che incise il mio indice mi riportò alla realtà. Lasciai cadere il coltello e strinsi il dito nell’altra mano. Mi alzai e andai a mettere il dito sotto l’acqua.
Il sangue sul dito veniva lavato dal getto d’acqua, e io mi ritrovai a fissare delle gocce di sangue che mi avevano macchiato l’altra mano.
Non poteva essere lo stesso sangue che era appartenuto a una dea nella sua vita mortale. Era troppo comune, troppo umano, per appartenere a un essere tanto potente.
Di sicuro avevano commesso un’errore, io non centravo nulla con loro.
Infilai anche l’altra mano sotto l’acqua e mi lavai via ogni traccia di sangue. Avvolsi il dito in un cerotto e finii di preparare la cena.

Più veloce!, urlava una voce nella mia testa. Sta arrivando! Più veloce, o ti prenderà!
Correvo più veloce che potevo, ma non avevo più fiato. Continuavo a inciampare e avrei voluto fermarmi per riprendermi, ma se lo avessi fatto mi avrebbe presa e sarei morta. Non osavo nemmeno guardarmi indietro.
Scappa!, non facevo che ripetermi.
Svoltai un angolo, non sapendo dove andare e quasi finii con la faccia per terra. I polmoni mi andavano a fuoco; non sarebbero durati ancora a lungo, ma io continuai a correre.
Svoltai un altro angolo e capii dove mi trovavo: ero nella vecchia via di casa mia, a Elmira, e in fondo alla strada vidi casa mia.
Cercai di sopportare il dolore, consolandomi col fatto che una volta a casa sarei stata al sicuro.
Correvo, correvo, mancava poco al vialetto di casa mia. C’ero quasi!
Sentii qualcosa toccarmi la schiena.
Soffocai un grido e mi lanciai in avanti nel vialetto e su per i gradini. Inciampai mentre mi chiudevo la porta alle spalle.
Ero senza fiato. Ci ero riuscita, ero scappata alla morte.
Mi staccai dalla porta, affannata, e mi guardai in giro nel salotto. Tutto era uguale all’ultima volta che l’avevo visto: il telo verde sul divano, le foto posate sotto il mobile del televisore, i quadri sui muri, le riviste posate sul tavolino davanti al divano…
Mi girai e vidi che la porta si stava riaprendo. Mi gettai su di essa con tutto il mio peso e la richiusi, ma ogni volta che mi allontanavo dalla porta, questa si riapriva. 
Ero nel panico! Sentivo dei tonfi dall’altra parte della porta e sapevo che stavo per morire.
Mi staccai dalla porta con uno slancio e mi gettai sulle scale dall’altra parte della stanza e salii al piano di sopra, dove c’era la mia vecchia camera da letto mi ci chiusi dentro, ma anche questa porta non voleva saperne di restare chiusa. Anche quando giravo la chiave nella serratura c’era sempre qualcosa che non andava.
Le porte non volevano chiudersi.
Un colpo si abbatté sulla porta e io urlai, buttandomi su di essa con tutto il mio peso per riuscire a tenerla chiusa. Poi un altro, e un altro ancora. Al quarto colpo la porta si spalancò e io fui sbalzata indietro, mentre urlavo, sapendo che di lì a poco sarei morta.
Mi svegliai un attimo prima di toccare la moquette della mia vecchia camera da letto, tutta sudata e mi guardai intorno confusa.
Ero a Manhattan. Nessuno stava cercando di uccidermi: ero al sicuro.
Ributtai la testa sul cuscino, stravolta. La sveglia sul comodino segnava le tre di notte – mi ero addormentata appena due ore prima – , eppure dalla finestra penetravano i suoni della città che non dormiva mai.
Mi rigirai nel letto, cercando di riprendere sonno, ma ogni volta che chiudevo gli occhi mi ritrovavo a scappare ancora da quella morte che mi perseguitava.

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Capitolo 16
*** Capitolo Sedici ***


La campanella suonò facendomi sobbalzare sulla sedia per lo spavento.
Non avevo più chiuso occhio per il resto della notte e le mie occhiaie ne erano una dimostrazione!
Arrivata nell’aula di lettere mi trascinai fino al mio banco. Non era arrivato quasi nessuno ancora, e ne fui lieta. Mi buttai sulla sedia, incrociai le braccia sul banco e ci affondai la testa in mezzo. L’unica cosa che volevo era un po’ di tregua da questi mille pensieri!
«Allora, Alexia, tutto okay?», chiese qualcuno.
Alzai la testa, presa alla sprovvista, e mi ritrovai davanti Richard che mi sorrideva accanto a un Jason imbronciato: ma aveva mai sorriso in vita sua? Nel momento in cui formulai questo pensiero mi balenò in testa l’immagine di lui, inginocchiato davanti al mio letto che mi chiedeva scusa per il suo comportamento, che mi sorrideva perché lo avevo perdonato.
Annuii, guardando Richard, poiché era stato lui a porre la domanda.
«Dormito… bene?», chiese, incerto.
Alzai il sopracciglio. Ovviamente mi stava prendendo in giro: si vedeva benissimo che non avevo chiuso occhio.
«O…kay», disse lui con una risata imbarazzata, grattandosi dietro la testa. «Pessima domanda».
Gli lanciai la migliore occhiata alla ma và di cui ero capace, mentre sentii Jason sbuffare.
Anche Richard se ne accorse. «Che succede, amico?», gli chiese.
«Sul serio, Alexia?», chiese, rivolto a me.
Io abbassai lo guardo sul banco, senza incrociare il suo sguardo.
«Ancora?».
«Andiamo, Jason… Lasciala in pace», lo rimproverò Richard.
«Certo, certo». Con la coda dell’occhio vidi che alzava le mani in un gesto di rassegnazione. «Figurati che me ne frega a me. Su di sé sta fabbricando», disse, sedendosi e dandomi le spalle.
Richard mi rivolse un sorriso di scuse, ma non aggiunse nulla prima di sedersi davanti all’amico e mettersi a parlare con lui a bassa voce.
Sai che me ne importava ormai di quello che diceva Jason!
Abbassai di nuovo la testa sulle braccia fino a quando la lezione non cominciò.

 

Il resto della mattinata si trascinò così, con Richard e Matthew che mi salutavano e cercavano di attaccare bottone all’inizio delle lezioni che avevamo insieme, come fossimo amici di lunga data. Io ogni tanto sorridevo e muovevo la testa in segno di saluto, ma poco di più.
Con Caroline fu più difficile. Lei non si era zittita fino a quando la professoressa Gonzales non aveva richiamato all’ordine la classe per iniziare la lezione. Sicuramente era intenzionata a farmi parlare. Ma non mi importava più di tanto: ero stanca, l’unica cosa che volevo fare era finire questa giornata di scuola per poi tornare a casa e buttarmi sul letto e dormire, dormire, dormire per risvegliarmi solo quando tutti i problemi fossero finiti e io avessi potuto ricominciare la mia mia vita normale.
Quando la campanella suonò la fine della lezione di storia mi alzai e mi avviai verso la mensa prima che Matthew o Richard potessero intercettarmi per provare - per l’ennesima volta - a farmi parlare.
Dopo aver messo solo una mela e una soda sul mio vassoio mi sedetti su il primo tavolo vuoto che vidi e mi misi a giocherellare con la mela.
«Okay, è palese che ci stai evitando». Caroline comparve davanti a me dopo una ventina di minuti, seguita dal solito gruppo, e aveva una faccia triste.
Sgranai gli occhi, come se fossi sorpresa da quell’accusa assolutamente infondata. Ovviamente era proprio così: cercavo di evitarli. Magari fingendo che non fosse accaduto niente il giorno precedente, fingendo che fosse tutto frutto della mia fantasia, sarei riuscita a condurre una vita il più possibile vicina alla normalità.
Ma stando con loro la parola normalità non esisteva.
«Andiamo, non fare finta», disse Caroline girando intorno al tavolo e sedendosi accanto a me.
Scossi la testa, con un sorriso, come se fosse completamente matta.
«Ha ragione, sai?», stavolta parlò Matthew, mentre si sedeva davanti a me.
«Già, se non ci vuoi basta dirlo», continuò Richard, facendomi l’occhiolino e mettendosi a sedere accanto a lui, davanti a Caroline.
«Oh, ma andiamo!», intervenne Jason, sedendosi a capotavola, tra me e Matthew. «Per informarci dovrebbe parlare», disse guardando i ragazzi. «Mentre lei è tornata al mutismo, non è così?», chiese girandosi verso di me.
Io abbassai gli occhi sul mio vassoio, presi la mela con cui giocherellavo e le diedi un morso. Masticavo piano, soprattutto perché non avevo per niente fame, concentrandomi solo sulla mela per non prestare attenzione a Jason che non perdeva ogni mio piccolo movimento.
Sapevo cosa stava facendo: mi stava provocando. Voleva che reagissi, in qualche modo, come il giorno prima. Ma stavolta mi sarei controllata.
Mandato giù il boccone di mela stappai la mia soda e presi una lunga sorsata. Le bollicine mi pizzicavano tutta la bocca e mi solleticarono il naso.
«Oltre che non parlare adesso non mi degni nemmeno di uno sguardo?», mi accusò Jason. Con la coda dell’occhio vidi che si mise una mano sul cuore, come se lo avessi colpito. «Ahi, così mi ferisci Lexie!».
Sospirai, alzando gli occhi al cielo.
«Oh, guarda! Ci senti allora!».
Gli altri non dicevano niente. Si limitavano a mangiare, lanciandomi occhiate di sottecchi.
«Niente da fare, eh?», scosse la testa. «Continui a fare un passo avanti e cento indietro, perché? Vorrei sapere solo questo. Non capisco: ieri non sembravi avere tanti problemi mentre ti lamentavi di non voler essere una di noi, mentre oggi… Sembra che ieri non sia successo niente».
«Infatti è così!», ringhiai, inchiodandolo con lo sguardo. 
«Vedi? Riesci a parlare», sorrise tra sé compiaciuto.
«Cosa vuoi da me?».
«Quello che voglio è che tu la smetta di piangerti addosso e ti dia una svegliata. Voglio che invece di chiuderti a riccio ti aprissi e dicessi al mondo cosa vuoi!». 
«Voglio che mi lasci in pace!», dissi tra i denti. «Lasciami in pace, Jason. Non ti voglio attorno, e di certo tu non vuoi me!».
Jason sussultò quando pronunciai il suo nome, ma poi inarcò le sopracciglia. «Lo sai che non posso lasciarti in pace. Io faccio parte di questa cosa come ci fai parte tu…».
«No», lo interruppi. «Lo avevo già detto ieri e lo ripeto oggi. Io non faccio parte di un bel niente. Voi fate parte di qualcosa, non io».
Il ragazzo scosse la testa. «Non puoi far finta che ieri non sia successo niente». Mi guardò intensamente, come se così facendo riuscisse a convincermi.
«Infatti è proprio quello che farò: per me ieri non è successo niente!».
«Non è così», sibilò Jason.
«Per me sì, quindi lasciami in pace».
E così dicendo mi alzai e mi voltai per andarmene, senza nemmeno preoccuparmi del mio vassoio.
«Ah no!». Jason scattò subito in piedi, mi prese il braccio bloccandomi e mi strattonò per farmi girare. Anche Matthew e Richard si alzarono in piedi, chiamandolo. Il primo gli posò una mano sulla spalla per calmarlo, ma Jason se la scrollò di dosso. «A me non volti le spalle!».
«Lasciami», gli intimai a bassa voce, per controllarmi. Strinsi i pugni e strattonai il braccio destro, ma lui non mi lasciò andare.
«No!», nei suoi occhi comparve una scintilla di sfida.
Tutt’intorno a noi era come se nessuno si fosse accorto di niente, come se fossimo dentro a una bolla e il mondo esterno fosse all’oscuro di ciò che succedeva
all’interno.

«Ti ho detto di lasciarmi», adesso la mia voce era un sibilo.
«E io ti ho detto di no. Vedi, non posso lasciarti in pace. Che tu lo voglia o no fai parte di questa storia, quindi…», si strinse nelle spalle, come fosse una cosa inevitabile.
Faticavo a mantenere il controllo, avevo il respiro affannato, come se avessi corso una maratona. Dentro di me sentivo crescere il calore che negli ultimi due giorni mi era diventato più famigliare. Chiusi gli occhi, per cercare di bloccare l’impulso di lasciarmi andare.
«Lo senti questo?», Jason si era avvicinato a me e mi parlava vicino all’orecchio, il fiato caldo che mi solleticava la pelle. «È il tuo potere!». Repressi un brivido che avevano scatenato quelle semplici parole — forse era solo la risposta del potere alle sue parole, di certo non era dovuto alle sue labbra che sfioravano il mio orecchio. «Brama di uscire, di scatenarsi. E se non impari a gestirlo, presto questo di consumerà!».
Spalancai gli occhi, furiosa, e li inchiodai su di lui. Lo incenerii con lo sguardo. «Ti ho detto di lasciarmi!», gli ringhiai contro. 
Jason mi fissava, colto di sorpresa.
«Ieri ho deciso che non mi sarei più fatta mettere i piedi in testa, e ho intenzione di mantenere la parola». Strattonai un’altra volta il braccio e questa volta mi liberai. Mi girai e mi avviai verso l’uscita della mensa.
Per la prima volta dopo tanto tempo avevo avuto una mia piccola vittoria. Ma non sarebbe durata tanto, perché avevo altre due ore con lui, e sapevo che anche lui, come me, non si sarebbe arreso tanto facilmente.

 

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Capitolo 17
*** Capitolo Diciassette ***


Uscita dalla mensa mi diressi verso il mio armadietto: mancava poco alla fine dell’ora di pranzo, perciò decisi di prendere la ricerca per il professor Jonson.
Chiusi l’armadietto, mi girai per incamminarmi nell’aula di fisica e mi trovai a non più di quindici centimetri di distanza Jason.
Sobbalzai per lo spavento e lo vidi alzare gli angoli della bocca in un sorriso soddisfatto.
«Cosa vuoi ancora!?», chiesi esasperata, massaggiandomi le tempie con una mano. Ero stravolta, non avevo dormito per tutta la notte e quel ragazzo mi dava veramente sui nervi.
«Oh, ma lo sai cosa voglio!», allargò ancora di più il sorriso, mostrando i denti. «Mi sembra di avertelo detto prima a mensa». Con un gesto della mano indicò dietro di sé.
«E io ti ho già risposto. Mi dispiace non si può avere tutto quello che si vuole». Sporsi il labbro inferiore in un finto broncio. «Quindi se mi vuoi scusare…». Scivolai di lato e mi incamminai verso l’aula a passo svelto.
«Beh, magari tu non puoi, ma io sì», disse con torno orgoglioso, gonfiando il petto e alzando il mento. «Io ottengo sempre quello che voglio».
Alzai gli occhi al cielo. Ma per favore! «Allora è un vero peccato», commentai.
«Avere sempre quel che si vuole? Nah…».
«Intendevo che questa volta non succederà», lo incalzai.
«Mmm…», fece finta di rifletterci. «E perché mai dovrebbe andare a finire così?».
«Perché stavolta riguarda me!».
«Dici?».
Prima che potessi rispondere lui mi prese e mi mise spalle al muro, poggiando le mani ai lati della mia testa, per impedirmi di scappare, imprigionandomi così tra gli armadietti e il suo corpo.
«Cosa fai?», chiesi sgranando gli occhi.
Invece di rispondere fece correre lo sguardo sul mio viso, studiando ogni centimetro di pelle, poi mordendosi il labbro. Alla fine tornò a guardarmi negli occhi. «Non posso nemmeno cercare di convincerti a cambiare idea?», chiese con sguardo insistente.
«No», dissi con voce roca. Mi schiarii la voce e riprovai. «Non penso riusciresti a farmi cambiare idea».
Jason inclinò la testa di lato, continuando a fissarmi con quegli occhi verdi ipnotici. «È un vero peccato… Lasciami almeno provare a…».
Non aveva intenzione di finire la frase. Stava inclinando la testa in avanti, guardandomi da sotto le folte ciglia.
«No», rantolai girando la testa di lato. Non volevo che succedesse una cosa del genere, soprattutto non così! Lui era uno stronzo e faceva tutto questo solo per convincermi! Non volevo essere manipolata in questa maniera!Il potere che avevo sentito prima tornò in un batter d’occhio, veloce come non era mai stato. Sentii una stretta allo stomaco e vidi Jason volare dall’altra parte del corridoio e schiantarsi contro gli armadietti.
«Sta lontano da me!», gli intimai.
«Lo sapevo!», esclamò Jason, come se non fosse successo nulla. «Ma non vedi cosa sei capace di fare, anche senza allenamento? Pensa cosa potresti fare con qualche lezione!».
«Non voglio avere niente a che fare con questa storia!», gli urlai contro e me ne andai via, verso l’aula del professor Jonson.


Feci un profondo respiro.
Jason non faceva che provocarmi e provocarmi e ancora provocarmi dall’inizio della lezione di fisica.
Caroline gli aveva ceduto il posto, perciò ero stata seduta accanto a lui per tutto il tempo e la cosa mi aveva innervosita più che mai.
Avevo lanciato un’occhiata fulminante a Caroline ma lei si era limitata a stringersi nelle spalle e farmi un sorriso di scuse.
«Hai visto quel che hai fatto prima in corridoio», continuò mentre si dirigeva insieme a me verso la palestra. «Sai quanto gli ci è voluto a Matt a fare una cosa del genere!?».
«Non ne ho idea», risposi. «E tu sai quanti danni potrebbe fare il mio pugno sul tuo naso, se non la finisci subito di parlare?», gli chiesi, noncurante, guardandomi la mano destra, come se stessi valutando seriamente quell’ipotesi.
«Sai, prima di provocare qualche danno dovresti prendermi», mi fece l’occhiolino e io alzai gli occhi al cielo.
«Non credo sia un problema», commentai.
«Sai, non essendoti mai allenata con Tom, non hai idea di quanto possa essere difficile potermi prendere».
«Allora è una fortuna che io non lo sappia, visto che non voglio avere niente a che fare con questo».
Jason ignorò il mio commento e rifletté ad alta voce. «Beh, sono riuscito a farti parlare in meno tempo di quanto avessi previsto: non sarà difficile convincerti ad accettare quello che sei». 
Sbuffai ed entrai nello spogliatoio femminile. 
Mentre mi cambiavo cercavo di non pensare a tutto quello che mi aveva detto: non volevo saperne niente di quei poteri! Meno gli utilizzato e meglio era. Eppure con Jason era difficile non usarli…
In palestra la coach ci fece cominciare con la solita corsa del primo giorno.
«Dopo gli allenamenti con Tom non la senti nemmeno più la fatica: ti ci abitui», Jason era di nuovo accanto a me.
Alzai gli occhi al cielo e aumentai l’andatura, sperando di seminarlo, ma chi volevo prendere in giro!? Lui manteneva il mio passo senza nessun problema. Magari avrei potuto fingere di farmi male, così, come la scorsa volta, sarei rimasta a sedere a guardare… Ma ero più che sicura che Jason avrebbe fatto lo stesso per continuare a tormentarmi. 
Così lo ignorai e continuai a correre.
Arrivati al momento di fare stretching, però, mi sentii più a disagio. Presi realmente coscienza del fatto che Jason era praticamente appiccicato a me e di ciò che indossavo. Ero solita nascondermi dentro ad una felpa larga e dei jeans: poiché avevo una corporatura esile, il mio seno risultava ancora più prosperoso di quello che non fosse — ovvero una terza —, e molti non provavano neanche a nascondere lo sguardo fisso sul mio davanzale. Per questo preferivo evitare di mettere in mostra, le occhiate mi mettevano a disagio.
In un esercizio a terra mi piegai in avanti e, sbirciando dietro di me, vidi che Jason mi stava osservando il fondoschiena.
Mi tirai su di scatto e lo fulminai con lo sguardo.
«Puoi anche evitare di fissarmi il sedere!», lo accusai.
«Non è proprio quello che stavo fissando…», disse con un sorriso sghembo.
«Ah no, eh?», inarcai un sopracciglio.
«In realtà stavo guardando il tuo tatuaggio», a quanto pare, nel chinarmi in avanti, la maglietta si era alzata scoprendo il tatuaggio. «Come fai a negare ancora la tua natura, anche dopo aver visto che tu sei stata scelta?».
«Smettila», sibilai. Mi infilai la  maglietta nei pantaloncini e mi chinai di nuovo in avanti, per chiudere lì la conversazione.
Vidi Jason scuotere la testa. «Prima o poi lo accetterai», sospirò, prima di buttarsi in avanti anche lui.
Scoprii che per tutta la settimana avremmo fatto lo stesso sport e saremmo stati divisi sempre nelle stesse squadre della prima volta. 
Sospirai rassegnata e andai al mio posto. Questa volta i miei compagni erano preparati e mi aiutarono a non toccare palla. Per fortuna Jason fu troppo impegnato a giocare e ricoprire — insieme al resto della squadra — anche il mio posto per continuare a tormentarmi.
Quando la coach ci mandò a cambiarci per me fu un sollievo.
Finalmente ero arrivata alla fine della giornata!
Ovviamente fuori in corridoio trovai Jason ad aspettarmi… Di nuovo!
Lo superai, decisa ad andare al mio armadietto, prendere le mie cose e filare a casa.
«Io non capisco!», esclamò lui.
«Ma che novità», riposi io ironica, senza fermarmi.
«Si può sapere perché fai tanto la testarda?», chiese lui, ma io ignorai la sua domanda e continuai a camminare, finché non arrivai al mio armadietto e lo aprii. «Dannazione, vuoi rispondermi?», chiese Jason, perdendo ogni traccia di buon umore prendendomi di nuovo il polso.
«Lasciami!», ripetei per quella che mi sembrò la centesima volta in tutta la giornata.
«Non se non rispondi alla mia domanda!», obbiettò lui.
Cercai di liberarmi, come oggi in mensa, ma non ci riuscii. Aveva imparato la lezione e mi teneva con una presa più salda. Stavolta non me la sarei cavata tanto facilmente come l’ultima volta.
«Perché?», insistette lui.
«Perché non voglio avere niente a che fare con questi poteri!», sbottai alla fine. «Non li voglio, e se non li uso prima o poi spariranno!», confessai, più debolmente.
Jason restò interdetto, inizialmente, e lasciò andare la presa, confuso. Ovviamente non si aspettava questa risposta.
Richiusi il mio armadietto e mi avviai verso l’uscita.
«Perché?», chiese lui.
Mio malgrado mi fermai e mi voltai verso di lui.
Adesso c’era rabbia nei suoi occhi. Mi incenerì con lo sguardo.
Mi sentivo come un topo faccia a faccia col serpente: sapevo che stava per attaccare, ma allo stesso tempo non riuscivo a muovermi. Ero ipnotizzata da quegli occhi furibondi, attratta da loro. Quel verde prendeva una sfumatura strana quando acceso dalla rabbia…
«Perché vuoi rinnegare i tuoi poteri, la tua natura?».
Non risposi, rimasi lì a fissarlo. Perché avrei dovuto rispondergli? Erano affari miei!
Dietro di Jason comparve anche il resto del gruppo.
«Sai cosa sei? Sei una bambina!», mi accusò. «Sei una bambina che non riesce a gestire niente! Hai paura delle novità, così ti rintani dentro al tuo guscio, invece che affrontare le cose!».
La mia mano reagì da sola e prima di rendermene conto si era già scontrata sulla sua guancia. Caroline si portò una mano alla bocca, stupita, i suoi amici mi guardavano atterriti. Jason spalancò gli occhi e si portò una mano sulla sua guancia sinistra. Mi fissava, sconvolto.
Mi avvicinai ancora di più a lui e gli puntai il dito contro. «Tu non hai idea», sibilai e, senza aspettare una qualche sua reazione mi girai e me ne andai. 

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Capitolo 18
*** Capitolo Diciotto ***


Era giovedì, quindi doveva passare solo oggi e domani e poi mi sarei potuta chiudere in casa per il fine settimana, finalmente. Non avevo voglia di vedere Jason, né i suoi amici. In realtà l’unica che avevo voglia di vedere era Caroline, poiché ieri ci eravamo scambiate solo qualche sms e niente di più.
«Alex!», mi chiamarono, mentre mi spostavo verso l’aula del professor Burner.
No, ti prego no! Anche oggi no!, implorai mentalmente.
Mi girai e mi ritrovai Jason accanto, seguito da Matthew e Richard.
«Ehi, Alexia!», salutò il primo, con un gran sorriso.
«Ciao!», esclamò il secondo, un po’ assonnato.
Ricambiai il saluto, con un sorriso, ma continuai a camminare.
«Sai, potresti pure aspettare eh!». Scrollai le spalle. Perché avrei dovuto farlo? «Comunque, ieri te ne sei andata via senza darmi modo di finire la conversazione», continuò Jason.
«In realtà la conversazione era già conclusa», lo informai.
«Tecnicamente no, perché non mi hai detto su cosa io non ho idea».
«Non credi che se avessi voluto dirtelo te lo avrei detto?», lo incalzai. Eravamo arrivati davanti all’aula di letteratura e, prima che entrassimo, Matthew ci saltò.
«Beh… Non vedo perché tu non debba informarmi, dopotutto sono una persona molto comprensiva io», disse. 
«Sì, come no…». Posai le mie cose sul banco, dandogli le spalle.
«Lo sai che prima o poi me lo dirai… o lo verrò a scoprire, quindi perché rimandare solo l’inevitabile?».
«Non penso proprio. Per quanto tu possa usare il tuo fascino su di me non te lo direi mai, è una cosa troppo personale», lo informai, voltandomi verso di lui. «L’unica persona a cui l’ho raccontato è Caroline…», mi tappai immediatamente la bocca. Perché non ero stata zitta?
«Caroline, eh?», sorrise tra sé e sé, mentre si avvicinava a me. Io indietreggiai, ma mi ritrovai solo col sedere appoggiato al banco.«E perché dovresti dirlo a lei e non a me?», fissava i suoi occhi diritti nei miei, inchiodandomi. Era a pochi centimetri di distanza da me. Avrei dovuto sottrarmi, ma non potevo… non volevo.
«Non…», dissi con voce roca. Mi schiarii la gola. «Non funziona con me», gli dissi, poco convinta di quel che dicevo. Dimenticai persino che ci trovavamo in classe e la lezione stava per cominciare.
«Per favore», disse lui mettendomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Le sue dita che mi sfioravano la pelle mi fecero correre un brivido sulla schiena. «Dimmi cosa non so…».
Misi le mani sul suo petto e lo spinsi via. «Smettila. Ti ho detto di no!».
«E io ti ho chiesto per favore», ribatté lui.
«Dio, quanto sei pesante».
«Più che altro sono muscoli», ammiccò verso di me.
Alzai gli occhi al cielo, per poi fissarli in quelli di Richard. «Non lo puoi far smettere?», lo implorai.
«Andiamo amico, lasciala un po’ in pace», mise un braccio su quello di Jason e mi rivolse un sorriso di scuse.
«Va bene», Jason alzò le mani in aria, in un gesto di rassegnazione. «Ma lo sai che tanto non finirà qui: abbiamo ancora», fece un conto sulla punta delle dita, «due ore da passare insieme, più quella del pranzo… Non potrai sfuggirmi», mi fece l’occhiolino e si girò a parlare con l’amico.
Sospirai e mi lasciai cadere sulla sedia.
Dannazione, aveva ragione! Non avrei potuto evitarlo.
«Ma allora parli!», disse una voce femminile alla mia sinistra.
Mi voltai e mi ritrovai una ragazza bionda con gli occhiali che mi sorrideva.
«A quanto pare…», le sorrisi a mia volta. «Io sono Alexia», mi presentai.
«Lo so, io invece sono Arianne, ma chiamami Ari». Dietro alle lenti aveva degli occhi nocciola, quasi verdi, e i corti capelli biondi le arrivavano sopra le spalle. «Insistente?», chiese facendo cenno con la testa verso Jason.
«Insopportabile!», la corressi. «E mi toccherà sorbirmelo a mensa!».
«E tu non sederti con loro», disse un’altra ragazza dietro Arianne. Aveva i capelli neri che le scendevano in lucide onde fino a metà della schiena e occhi grigi.
«Kate ha ragione», disse Ari.
Scossi la testa. «Anche ieri mi sono seduta da sola e loro si sono seduti con me, non servirebbe a niente», sospirai.
«Puoi sederti con noi, così, anche se lui venisse a sedersi al nostro tavolo, potresti ignorarlo», Kate mi sorrise.
«Mi salvereste la vita», le informai, piena di gratitudine.
La lezione iniziò, perciò smettemmo di chiacchierare, però concordammo di pranzare tutte e tre insieme, quel giorno.
Nel mezzo della lezione mi trovai un bigliettino sul banco. Lo aprii e vidi scritto — in una bellissima grafia, devo ammetterlo, mio malgrado — un messaggio da parte di Jason.

Tu non mi puoi nascondere niente…

Mettendo il bigliettino dentro l’astuccio, sbuffai sonoramente.
Jason lo sentì sicuramente, dato che vidi le sue spalle sobbalzare, come in una risata.

 

Finita l’ora di letteratura non persi neanche un secondo e filai subito nell’aula di spagnolo. Caroline appena mi vide si mise a parlarmi.
«Alexia, ieri sei stata fenomenale!».
Matthew, dietro di lei sorrise e annuii. «Se lo meritava proprio», concordò.
«Non lo sopportavo! Non mi ha lasciato in pace per tutto il giorno…», mi lamentai.
«Io glielo avrei tirato un bel pezzo prima!», commentò Caroline.
«Sai, ancora non ha smesso di assillarmi», continuai.
«Davvero?», Caroline sgranò gli occhi.
«È vero», intervenne Matthew. «Oggi ci ha detto che, in un modo o nell’altro, sarebbe venuto a conoscenza di quella cosa».
«Cosa?», gridò Caroline, fissandomi.
«Già», sospirai, facendomi cadere sulla sedia. «E preparati, verrà pure da te a cercare di estorcerti le informazioni… lo sai vero?», le chiesi fissandola.
«Mi piego ma non mi spezzo», disse lei con aria solenne.
«Si, ma chi l’ha dura la vince!», ribatté Matthew. «E Jason…». Si bloccò, vedendo la mia faccia scandalizzata. «Vabbè insomma, lasciamo stare». Ridacchiò e, fortunatamente, la campanella suono, perciò non sentii mai il continuo.
Anche mentre andavamo insieme alla classe di storia, Matthew non accennò al discorso di prima e gliene fui molto grata!
Arrivata nell’aula vidi Ari, seduta al suo banco.
«Ancora tu», la salutai, sedendomi accanto a lei.
«Davvero!», disse lei.
«Allora dopo possiamo andare insieme a mensa», proposi.
«Certo che si!», disse lei entusiasta, sembrava quasi Caroline.
«La mia salvatrice!».
 «E quindi… Ti scambi pure bigliettini con il tuo stalker?», rise Ari. Presi il bigliettino dall’astuccio e glielo mostrai, alzando gli occhi al cielo. «Proprio messaggi romantici!», commentò Arianne rendendomelo. «Secondo alcune dovresti sentirti onorata di ricevere attenzioni da — cito — un ragazzo proprio fico come lui».
«Dimmi con chi devo fare a cambio!», la supplicai, scherzando.
«Un sacco di ragazze», ridacchiò lei.


Finita anche l’ora di storia Matthew e Richard vennero da me.
«Pranziamo insieme?», chiese Richard.
«Veramente oggi mi aveva invitato a pranzare con loro Ari», dissi indicando la mia amica.
«Sì, e dobbiamo andare!», disse prendendomi sottobraccio. «Kate odia quando la faccio aspettare!». Mi tirò via, mentre rivolgevo un sorriso di scuse ai ragazzi.
Preso un vassoio andai a sedermi al tavolo con le due ragazze, sedendomi davanti a loro.
«Meno male questo è l’ultimo anno!», sospirò Kate. «Non penso che potrei reggere un altro anno di questo…», esaminò il polpettone che aveva nel piatto. «Siamo sicure che possiamo definirlo cibo?», chiese guardandoci.
Mi strinsi nelle spalle e mi concentrai sul mio piatto.
«Pensi davvero di passarla liscia?».
Mi girai a sinistra e vidi Jason scivolare sulla sedia accanto a me.
Feci cadere la forchetta sul piatto e chinai la testa in avanti, posandola sulle mani, lasciandomi sfuggire un gemito.
«Ti prego, ti prego, Jason: dammi tregua!», supplicai.
«Dimmi ciò che voglio sapere e ti darò tregua… Per oggi», disse, posando il braccio sul mio schienale. 
Scossi la testa e la ritirai su. «Fa come ti pare», gli dissi, e continuai a mangiare, mentre il nostro tavolo si affollava, ospitando anche gli altri suoi amici. Accanto a me si sedette Caroline, con il solito sorriso smagliante.
«Da dove vieni?», mi chiese Kate.
«Già… Raccontaci della tua vita prima di trasferirti qui», disse Jason.
Mi irritava il modo in cui Jason cercava di farmi confessare ciò che non volevo sapesse. «Non c’è molto da dire: vivevo in un paesino qui, nello stato di New York, poi mio padre ha avuto una proposta di lavoro qui, perciò non ci ha pensato due volte a imballare le nostre cose e a trasferirci a sei ore di macchina da dove eravamo». 
«Caspita!», commentò Ari. «E non ha pensato a te e alla scuola?».
Mi strinsi nelle spalle. «Non voglio essere un peso per i miei, perciò non gli ho fatto capire che sarebbe stato meglio aspettare la fine dell’ultimo anno».
Sentivo gli occhi di Jason addosso, perciò mi girai verso di lui. Mi stava fissando con uno sguardo strano. Per lui dovevo essere tipo un puzzle, ma non gli avrei dato tutte le mie tessere.
«E come ti trovi qui?», chiese Matthew.
Mi girai verso di lui. «Ha importanza?», gli chiesi di rimando.
Matthew rimase a fissarmi senza parole.
«Questo fa dedurre che la risposta sia un no…», commentò Richard. 
«Io voglio che i miei genitori siano felici», lo guardai dritto negli occhi. «Non importa se non sono felice io». Feci l’errore di distogliere lo sguardo dai suoi occhi e voltarmi verso Jason, ancora! Distolsi subito lo sguardo e lo feci scorrere sul resto della nostra tavolata.
«Magari è presto per dire che non sei felice», intervenne Ari. «Sai, potresti trovarti bene qui, dopo tutto è New York!».
«Esatto!», Caroline era più entusiasta del solito. «Infatti venerdì ci sarà una festa, da Jordan, perché non ci andiamo?», mi chiese.
Abbassai lo sguardo sul mio piatto quasi vuoto. «Non saprei…».
«Andiamo! Ci divertiamo!», si mosse sulla sedia, elettrizzata.
«Ci possiamo andare tutti insieme!», disse Kate.
Caroline mi guardò, piena di aspettativa.
Cavolo! Come potevo dire di no a quella faccia? Avevo detto che avrei provato a essere sua amica, tanto valeva fidarmi di lei.
Sospirai, rassegnata.
«Evviva!», esclamò entusiasta Caroline.
Per il resto del pranzo Caroline, Arianne e Kate continuarono a parlare dei vestiti che si sarebbero messi per la festa dell’indomani, mentre io mangiavo e cercavo di non prestare attenzione al ragazzo seduto accanto a me che continuava a fissarmi insistentemente.

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Capitolo 19
*** Capitolo Diciannove ***


Jason non mi staccò gli occhi di dosso e, arrivati al laboratorio di fisica, bloccò Caroline che si stava per sedere accanto a me.
«Devo continuare con lei mie indagini», si giustificò Jason, prendendo posto.
«Ma dài, Jason, lasciala un po’ in pace…», mi difese lei.
«Se me lo dici te il segreto prometto che la lascio in pace», la guardò con sguardo innocente.
Caroline si morse il labbro e, senza dire niente, si sedette al posto di Jason.
«Allora, qual è questo segreto che puoi condividere con Caroline ma non con me?», Jason si sporse per sbirciare il mio quaderno su cui stavo scarabocchiando.
Coprii subito la pagina, non perché avessi qualcosa da nascondere, semplicemente perché mi dava noia qual suo comportamento da impiccione.
«Niente che ti possa interessare», lo informai.
«Oh… Ma a me interessa tutto quello che ti succede, piccola!».
Lo guardai di sbieco. «Piccola? Sul serio!? Pensi di riuscire a estorcermi informazione con un piccola?». Alzai le sopracciglia, perplessa.
«E dài!», insistette Jason prendendomi una ciocca di capelli e tirandola, come un bambino piccolo. Questa cosa lo entusiasmò molto che continuò, per tutta la lezione a tirarmi una ciocca di capelli. Avrebbe continuato pure a ripetere dài dài dài, se il professore non lo avesse minacciato di mandarlo dal preside.
In palestra non fu più semplice, poiché, invece di prendere solo una ciocca, aveva deciso di tirare direttamente tutta la coda che mi ero fatta: fui costretta a farmi uno chignon — molto improvvisato — per farlo smettere.
Alla fine della lezione lui era sempre lì, ad aspettarmi fuori dallo spogliatoio femminile.
«Alex, forza dimmelo!». Tirò i miei capelli a ogni parola.
«Fatti una vita Jason! Non torturare la mia!», sbottai.
Lo odiavo con tutta me stessa! Lo preferiva quando lui mi guardava con aria sprezzante.
«Ehi, tesoro, faccio quel che serve per tirare avanti», si giustificò lui.
«Sì, certo, come no!», protestai.
Avvicinò le labbra al mio orecchio. «Guarda che se non me lo dici tu sarò costretto a scoprirlo da solo, e non so quanto potrebbe far piacere a Caroline rivelarmi quel che mi tieni nascosto», mi minacciò.
«Non credo proprio che sia il tipo di ragazza che tradisce le amiche andando a raccontare ai quattro venti i loro segreti», osservai.
«So essere molto…» — con le labbra sfiorò il mio orecchio e fui scossa da un brivido — «persuasivo, quando voglio».
«Buona fortuna, allora», gli dissi, scuotendo la testa.
Arrivata a casa c’era mia madre. Mi sorprese trovarla a casa, mentre in realtà sarebbe dovuta essere a lavoro.
«Ciao, Lexie, come è andata oggi a scuola?», mi chiese, mentre soffiava in una tazza thè caldo e esaminava dei fogli.
Alzai le spalle, e andai a prendere una tazza a mia volta, ci versai dell’acqua calda che era avanzata a mamma e ci immersi un infuso alle erbe che adoravo.
Dopo che la bevanda fu pronta andai in camera mia, per fare i compiti, portandola con me e sorseggiandola di tanto in tanto.
Quando ebbi finito anche coi compiti decisi di levarmi di dosso tutta la tensione che ormai avevo dall’inizio della settimana, perciò mi preparai un bagno caldo, mentre mamma tornava in camera sua, informandomi che la sera sarebbe uscita con papà, perciò non sarebbero tornati a cena.
Versai nella vasca una buona dose di bagno schiuma e feci scorrere l’acqua calda. Mentre il bagno di servizio — nel bagno che avevo in camera c’era solo la doccia — si riempiva di vapore, cominciai a spogliarmi.
Quando l’acqua fu arrivata al livello giusto, chiusi il rubinetto, e mi immersi tra le bollicine. Il tepore dell’acqua era fantastico e mi aiutava a rilassare i muscoli tesi.
Sospirai.
Finalmente avevo un momento di pace!
Presi un bel respiro e infilai la testa sott’acqua, decidendo di starci fino a quando i miei polmoni non mi avessero supplicato per un po’ d’aria.
Stranamente mi trovavo bene sotto la superficie dell’acqua, in quel silenzio soprannaturale, dove l’unica cosa che puoi udire è il battito del tuo cuore. L’acqua ti entra nelle orecchie e tu riesci a isolarti dal mondo intero. Quando ero piccola, e i miei mi portavano in piscina, nuotavo sempre verso il fondo, sperando che così facendo i miei problemi si sarebbero separati da me, sperando di non dover mai tornare in superficie, dove tutti i miei problemi mi aspettavano, come sempre. Ma purtroppo prima o poi tutti dobbiamo ritornare a galla a riprendere ossigeno.
Questo pensiero mi fece scattare in avanti, fuori dall’acqua. Avevo perso la cognizione del tempo, perdendomi ad ascoltare il battito del mio cuore, eppure non avevo sentito il bisogno di riprendere aria.
Sentii il campanello suonare.
Guardai la vasca e vidi che la schiuma si era dimezzata. Mi guardai i palmi e vidi che erano raggrinziti.
Quanto tempo ero rimasta sott’acqua?
Il campanello suonò ancora, perciò tesi l’orecchio e sentii dell’acqua scrosciare. A quanto pareva la mamma si stava facendo la doccia.
Mi alzai velocemente dalla vasca e presi due asciugamani: in uno mi ci avvolsi i capelli, mentre l’altro me lo sistemai intorno al corpo e andai ad aprire la porta di ingresso.
Aprii la porta.
«Devi dirmi cosa è successo», disse Jason.
Cercai di chiudere la porta il più velocemente possibile, ma la bloccò con una mano.
«Vattene!», nonostante avessi voluto dirlo con tono minaccioso, suonò più come una supplica.
«Non finché non mi dirai quello che voglio sapere», rispose lui, entrando in casa e chiudendo dietro di sé la porta.
Quando si voltò di nuovo verso di me, Jason rimase a occhi spalancati, scrutando ogni centimetro del mio corpo — coperto solo da un asciugamano.
Arrossii e incrociai le braccia al petto come se potessi nascondermi dietro di esse.
Jason scosse la testa e tornò a guardarmi negli occhi, con un’espressione supplicante. «Ti prego, sto impazzendo!», disse passandosi la mano tra i capelli, come aveva fatto quel giorno in camera mia.
«Non è un problema mio, vattene», risposi.
«Non posso! Devo sapere cosa mi nascondi, sennò non riuscirò a darmi pace. Caroline non ha voluto aprire bocca, perciò…».
«Alexia?».
Oh, merda! Mi girai di scatto e vidi mia madre, avvolta in un vestito rosso e coi capelli bagnati che le gocciolavano sulle braccia, che si affacciava all’ingresso. Non avevo sentito né l’acqua spegnersi né la porta di camera sua aprirsi.
«Salve, Mrs Reed», salutò il ragazzo dietro di me.
«Ciao, Jason!», ricambiò il saluto mia madre. «Tesoro, non mi avevi avvisata che veniva il tuo amico», mi osservò mia madre.
Feci un sorriso tirato e alzai le spalle.
«Oh, ma le ho fatto una sorpresa! Nemmeno lei lo sapeva che sarei venuto». Mi mise un braccio sulle spalle e mi ci volle tutta la mia forza di volontà per non scrollarmelo di dosso.
«Ah, okay… Allora io torno a prepararmi», mamma mi strizzò l’occhio e se ne andò in camera sua.
«Qui non p…?», iniziò Jason, ma io lo zittii, lo presi per una manica e lo trascinai in camera mia.
«Non puoi stare qui», gli intimai dopo aver chiuso la porta dietro di me. Sentii che la mamma aveva acceso l’asciugacapelli.
«I tuoi genitori non sanno che parli». Non era una domanda, mi stava accusando. Guardai in basso e mi ricordai che avevo ancora addosso solo l’asciugamano, perciò andai nella cabina armadio e mi ci chiusi dentro per vestirmi.
«Non puoi fare così, Alex», disse Jason dopo qualche momento da dietro la porta. «Loro devono saperlo».
«Shhh! Parla più piano», sussurrai uscendo dalla cabina armadio con indosso dei leggins e una maglietta lunga. «E no, loro non devono sapere niente».
«Ma sono i tuoi genitori», continuò Jason.
«Esatto, sono i miei genitori, perciò decido io cosa dirgli o no», mi avviai verso il bagno. «E ora, se mi vuoi scusare, mi devo asciugare i capelli», entrai dentro e, senza neanche ascoltare la sua risposta chiusi la porta e accesi l’asciuga capelli.
Di solito non lo usavo, ma avrei fatto di tutto per non parlarci mentre i miei erano in casa. Non volevo sapessero che avevo ricominciato a parlare: molto probabilmente mi avrebbero fatto ancora domande su cosa era successo quella sera di dodici anni prima e non volevo dover confessare ai miei genitori che avevo ucciso la loro figlia preferita.
Impiegai volutamente molto tempo, asciugando con cura i miei capelli.
Uscii dal bagno e andai verso il cassettone davanti al letto, sopra il quale c’era lo specchio e presi un olio nutriente per i capelli.
«Ci hai messo un eternità». Dallo specchio vedevo Jason sdraiato sul letto, le braccia dietro la testa e le caviglie incrociate.
«Cavoli tuoi! Sei tu che sei arrivato nel momento sbagliato».
«Non sei molto gentile», osservò il mio ospite indesiderato.
Lo guardai in faccia attraverso lo specchio mentre mi distribuivo l’olio sui capelli. «Nemmeno tu sei stato molto gentile quando ci siamo conosciuti, eppure non ti ho detto niente».
«Beh, in realtà non è proprio esatta come affermazione». Presi la spazzola che era sul cassettone e cominciai a spazzolarmi i capelli. «Certo, non hai detto nulla, però hai cercato di spazzarmi via con un uragano a mensa,», contò sulla punta delle dita, «fatto cadere durante l’ora di ginnastica — cadendo tu stessa addosso a me —, rovesciato una brocca d’acqua in testa, cercato di incenerire, urlato addosso e per finire tirato uno schiaffo, il tutto per il mio comportamento… Direi che sia meglio dirtelo, piuttosto che agire come hai fatto tu».
Si sentii bussare alla mia porta, e poco dopo mamma entrò.
«Tesoro, io vado. Non ci aspettare stasera, torneremo tardi. Buona notte», si avvicinò a me e mi diede un bacio sulla fronte. Poi si girò verso Jason. «Ciao Jason, è stato un piacere rivederti. Torna pure quando vuoi, anche con Caroline».
Anche no!, pensai. Ci mancava solo questo!
Jason sorrise, facendo spuntare due fossette. «Grazie Mrs Reed», salutò la mamma.
Lei sparì e sentii la porta richiudersi. Non dicemmo nulla fino a quando non sentimmo anche la porta di casa che si chiudeva.
«Sei ingiusta con loro. Non meritano che tu non gli parli», mi accusò Jason.
«Stai zitto!». Gli puntai gli occhi addosso, trafiggendolo con lo sguardo. «Tu non sai niente, perciò evita di parlare».
Si alzò e attraversò la stanza in poche falcate, fermandosi a pochi centimetri da me. «Se solo tu mi dicessi cosa è successo…».
«Ah, lascia stare, non puoi capire», mi girai dall’altra parte.
«Mettimi alla prova», mi sfidò. Scossi la testa. «Alex». Mi prese il braccio e mi fece girare. «Dimmelo», mi supplicò coi suoi occhi verdi.
«No», sussurrai.
«Non c’è niente che tu non possa dirmi, quindi dimmi cosa mi tieni nascosto».
«No!», gridai stavolta. Strattonai il braccio, liberandomi, e mi avviai verso la finestra, dandogli le spalle.
«Sei proprio cocciuta», mi urlò di rimando Jason. «Non capisci che potrei aiutarti, magari?».
«Nessuno può aiutarmi», ribattei.
«Questo non lo puoi sapere», lo sentii più vicino, dietro di me.
Scossi la testa. «Lo so, invece».
«Ti arrabbi tanto se ti chiamo bambina, ma alla fine non fai niente per non comportarti come tale!», mi accusò.
«E allora lasciami in pace!», non facevo altro che strillargli contro. «Vattene, Jason! Vattene e lasciami in pace!».
«No!», stavolta fu lui a dirmelo.
«Perché non vuoi lasciarmi in pace?», la mia voce adesso era un grido disperato.
«Perché voglio sapere cosa non mi dici». Mi prese per le spalle e mi diede una piccola scrollatina, abbassando la sua faccia all’altezza della mia. «Dimmelo, Alexia, dimmelo!».
Urlai, esasperata. «Ho ucciso mia sorella!».

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Capitolo 20
*** Capitolo Venti ***


«Sei contento ora?». Jason mi guardava con occhi spalancati, increduli. Mi liberai dalla sua stretta e mi allontanai un po’ da lui, guardandolo con disprezzo per avermi fatto dire quelle cose contro la mia volontà. «Ecco cosa ho fatto con questi maledetti poteri, ecco perché non li voglio! Mia sorella è morta per colpa di questi poteri, io la ho uccisa! Come vedi, Jason, tu non sai nulla di me… nulla!».
Jason aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono. Si portò le mani alla testa e intrecciò le dita ai propri capelli, sconvolto. Poi le fece scivolare in giù, fino a fermarsi davanti alla bocca. «Oddio… Alexia, scusami, non immaginavo…».
«No, infatti!», lo interruppi. «Ti avevo detto di lasciarmi in pace. Ti avevo detto di non insistere. Ma tu invece no… Dovevi continuare! Dovevi sapere!». Gli occhi mi si riempirono di lacrime. «Adesso capirai perché non mi fa tanto piacere parlarne».
Lui mi raggiunse e prima che potessi accorgermene mi aveva circondata con le sue braccia.
Per un attimo rimasi impietrita. Lui mi odiava. Io lo odiavo. Perché tutto questo interesse?
Ma poi le lacrime cominciarono a scorrermi sulle guance, perciò mi abbandonai al pianto, poggiando la mia testa sul suo petto e lasciandomi cullare dalle sue braccia.
«Andrà tutto bene», mi sussurrò con le labbra premute sui miei capelli. «Sistemeremo tutto, te lo prometto».
Scossi la testa contro il suo petto. «No! Niente si può più sistemare».
«Shh… Calmati adesso», mi accarezzò i capelli. 
Non avevo idea di quanto tempo rimanemmo così abbracciati, sapevo soltanto che ci ritrovammo in qualche modo distesi sul mio letto, con lui che continuava a cullarmi e a ripetermi che tutto si sarebbe sistemato, in un modo o nell’altro.
Dopo quelli che sarebbero potuti essere secondi come ore, mi calmai. Alzai la testa e, con gli occhi arrossati, guardai quelli verdi di lui. «Rimani qui con me?», gli chiesi.
Lui mi sorrise e annuì. «Ma certo».
Ci alzammo e ordinammo una pizza.
Mentre aspettavamo, ci spostammo in cucina. Sentivo i suoi occhi addosso, a controllare ogni mio singolo movimento, come se da un momento all’altro si aspettasse di vedermi crollare di nuovo.
«Ne vuoi parlare?», mi chiese, cauto.
Ovviamente sapevo a che cosa si stesse riferendo. Scossi la testa. «Tu come hai scoperto i tuoi poteri?», chiesi invece.
«Vivevo in New Jersey», cominciò a raccontare, «avevo sette anni e a quel tempo facevo parte dei boy scout». Provai a immaginarmelo con la divisa dei boy scout e mi scappò un sorriso. Lui se ne accorse e mi sorrise di rimando. «Mi avevano obbligato i miei», si giustificò. «Comunque, eravamo usciti per il fine settimana a fare un’escursione e, l’ultima notte, il vento si alzò più del previsto, scatenando un incendio col nostro piccolo falò. Tutti eravamo fiduciosi nel nostro istruttore, ma presto ci rendemmo conto che quell’incendio era indomabile. Gli altri si fecero prendere dal panico così che nessuno si accorse di me che mi ero avvicinato istintivamente al fuoco. Aveva come un richiamo per me, così ci posai la mano sopra e scoprii che non mi bruciava. Piano piano le fiamme iniziarono ad affievolirsi, seguendo il mio volere, fino a quando non si spensero. Nessuno scoprì mai cosa successe quella sera, e non lo capii nemmeno io fino al momento in cui si presentarono a casa mia Aaron e Tom. Dopo di ché passò poco tempo che mi trasferii qui con la mia famiglia. Io fui il primo».
Avevo ascoltato la sua storia rapita. Anche io avevo scoperto i miei poteri con il fuoco, ma questi avevano sortito l’effetto opposto al suo. I miei poteri avevano ucciso, i suoi, come quelli di Caroline, avevano salvato.
I miei pensieri furono interrotti dall’arrivo della pizza.
Dopo aver pagato ci sedemmo a tavola, uno di fronte all’altra e cominciammo a mangiare. Io fissavo lo sguardo sulla pizza, persa dentro i mie pensieri, senza avere il coraggio di guardarlo in faccia. Alla seconda fetta di pizza Jason parlò. 
«A cosa stai pensando?», chiese cercando il mio sguardo.
Non risposi e diedi un altro morso alla pizza. Jason sospirò ma non insistette. Mi sorprese quel suo silenzio. Negli ultimi giorni non aveva fatto altro che provocarmi e cercare di farmi dire cose che non volevo dire.
«Io non sono come voi», dissi dopo un po’. Jason mi puntò i suo sguardo addosso mentre io cercavo di evitarlo. «Voi non avete fatto del male a nessuno, avete protetto e salvato i vostri cari. I miei poteri hanno portato solo dolore nella mia vita e in quella dei miei genitori…». Alzai gli occhi e li puntai dritti nei suoi. «Quando sei arrivato mi hai chiesto perché non parlassi ai miei genitori. Non lo faccio perché ho paura che, se lo facessi, mi chiederebbero di dirgli com’è morta Hope, e io…», scossi la testa, cercando di mandare giù il groppo che avevo in gola.
«Alexia, non è stata colpa tua. Non controllavi i tuoi poteri, sarebbe potuto succedere anche a me se…».
«Sì, ma non è successo», lo interruppi. «I miei poteri, a differenza dei tuoi, non sono buoni».
Jason scosse la testa. «Ma che dici,  non esistono poteri buoni o malvagi. L’unico problema è che non sai ancora come usarli, ma piano piano, con l’allenamento vedrai che andrà meglio», mi sorrise.
Stavolta fui io a scuotere la testa. «Non voglio usarli, perché anche solo il pensiero di farlo mi fa pensare a come ho ucciso mia sorella. Prima o poi se ne andranno, così non dovrò più avere paura di fare a qualcun altro quel che ho fatto a lei».
Jason si alzò e spostò la sedia accanto a me, poi si sporse in avanti in modo che le nostre facce fossero a pochi centimetri di distanza. I suoi occhi bruciarono dentro i miei intensamente. 
«Alex, i tuoi poteri non se ne andranno mai, non svaniranno col tempo, anzi aumenteranno sempre di più, soprattutto adesso che sei qui con noi! Che tu lo voglia o meno questi poteri sono parte di te e lo saranno sempre», prese le mie mani tra le sue e le strinse. «Se ci permetti di aiutarti — a me e a tutti gli altri della Congrega — potremo fare in modo che quel che è successo a tua sorella non ricapiti mai più in vita tua. Potrai persino aiutare le persone con i tuoi poteri, come ho fatto io o come ha fatto Caroline». Allungò una mano e la posò sulla mia guancia, accarezzandola. «Hai passato un’esperienza terribile quando eri piccola, ma magari aiutare le altre persone potrebbe persino farti sentire meglio…». Mi sorrise.
«Non potrò mai dimenticare quella sera. Mi ero arrabbiata talmente tanto…». I ricordi mi inondarono la mente. «Prima di rifugiarmi in camera mia e far scoppiare l’incendio, l’ultima cosa che feci fu dire a mia sorella che la odiavo. Qualche minuto dopo la casa era avvolta dalle fiamme e io mi ero rintanata in un angolo della mia stanza, terrorizzata. Hope poteva salvarsi — era già in soggiorno quando scoppiò l’incendio —, invece venne a prendere me al piano superiore». Chiusi gli occhi. «Mi ricordo ancora la sua voce disperata che gridava il mio nome, mentre mi cercava, e quando mi trovò mi aiutò a scendere al piano di sotto, nonostante alla scala mancassero alcuni pezzi che si erano staccati. Lei era proprio lì, dietro di me, ma quando uscii non c’era più. Un vecchio armadio le era crollato addosso, bloccandola». Mi presi il viso tra le mani. «Appena prima che le fiamme la circondassero vidi la sua faccia piena di paura. Fu quella l’ultima volta che la vidi».
Le braccia di Jason tornarono ad avvolgermi, come quel pomeriggio, mentre le lacrime continuarono inesorabili a scendermi sulle guance.
«Questo ricordo a volte torna a tormentarmi in sogno», dissi tirando su col naso.
«È normale, dopo un’esperienza come questa», mi confortò lui.
«Sono una persona orribile…».
«No!», s’irrigidì e mi allontanò un po’ da sé, in modo che potesse guardarmi in viso. «Non è stata colpa tua, non l’hai fatto intenzionalmente! E tutte quelle cose insolite smetteranno quando deciderai di allenarti. Tu non sei una persona cattiva», disse quest’ultima parola come se fosse un’assurdità, «ma puoi far accadere cose brutte se continui a negare a te stessa la tua vera natura… Io so che in fondo tu sei buona, e che non vuoi che cose brutte accadano di nuovo».
Inaspettatamente gli gettai le braccia al collo e lo abbracciai. «Grazie, Jass», gli sussurrai.
Un momento dopo Jason ricambiò il mio abbraccio. «Non devi ringraziarmi, devi soltanto promettermi che farai parte della Congrega. Per noi, ma soprattutto per te».
Aveva ragione, l’unico modo per far smettere tutte quelle cose era riuscire a controllarle: solo controllandole sarei riuscita a decidere se utilizzarle o meno.
«Lo prometto».

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Capitolo 21
*** Capitolo Ventuno ***


Fuoco.
Non vedevo altro che fuoco attorno a me ed ero in trappola. In quella stanza non c’erano né porte né finestre. Caddi in ginocchi, mentre tossivo per via del fumo.
Alzai lo sguardo e, con gli occhi che mi bruciavano, vidi la sagoma annebbiata di una persona che stava camminando verso di me. Quando mi fu a pochi passi riuscii a vedere che si trattava di una donna dall’aspetto famigliare, eppure allo stesso tempo sconosciuto. Aveva lunghi capelli neri, mossi e la carnagione chiara.
La ragazza, più che donna, si inginocchiò davanti a me, sorridendomi in modo rassicurante e accarezzandomi la guancia. La guardai negli occhi marroni… marroni proprio come i miei!
«Hope?», dissi con la gola che mi bruciava.
Questa immagine di mia sorella adulta allargò il sorriso ed annuì.
Gli occhi cominciarono lacrimare, non solo per il fumo, ma anche per la sorella che finalmente avevo ritrovata.
Hope si girò di lato ed allungò la mano davanti a sé, stendendola sopra le fiamme. Queste piano piano cominciarono a ridursi, fino a spegnersi del tutto. Una folata d’aria arrivò da un punto imprecisato nella stanza e portò via il fumo.
«Hope, mi dispiace tanto per quella sera», singhiozzai.
«Non ti devi dispiacere», protestò lei con voce calma. Era una voce innaturale. «È stato uno sfortunato incidente, non è stata colpa tua». Mi spostò i capelli dal viso. «Hai la possibilità di rimediare a questo sbaglio, di proteggere persone. Fidati dei tuoi amici, loro ci tengono a te come ci tenevo io, loro ti proteggeranno come avrei voluto farlo io. Io sono con te, e lo sarò sempre, ogni gesto che farai lo farò anche io con te». Mi prese le mani e mi aiutò a rimettermi in piedi. La stanza in cui eravamo un momento  prima si dissolse, lasciando spazio a un vasto prato e a un cielo stellato. Cominciò a indietreggiare.
«Aspetta», le urlai, correndole dietro. Ma non la raggiunsi.
«Accetta il tuo destino», disse, poi si voltò e le spuntarono delle ali bianche dalla schiena.
Prese il volo e io mi svegliai con le lacrime che mi scendevano sulle guance.
 

«Ciao Jass, ciao Richard», li salutai con un sorriso il giorno dopo quando li incontrai in corridoio alla fine della prima ora.
«Ehi, Alexia!», mi salutò Richard.
«Dì la verità quel sorriso è per me, vero?», chiese l’altro alzando il sopracciglio e sorridendo come chi la sapeva lunga…
«Oh, ti piacerebbe», gli risposi alzando gli occhi al cielo.
«Siete di buon umore oggi», disse Matthew, raggiungendoci.
«Alex ha finalmente accettato la mia proposta», disse Jason fiero.
«Quale proposta?», chiese Richard con tono malizioso.
«Oddio, di certo non quello che stai pensando tu!», risposi prima che Jason aprisse bocca.
Quest’ultimo si mise a ridere. «Eh, già. Purtroppo Alex ha accettato solo di farsi allenare, tutto qui».
«Ma è fantastico!», disse Richard, mettendomi un braccio sulle spalle.
«E brava la nostra Alex!». Matthew mise una mano sulla mia testa e mi spettinò i capelli.
Io, per tutta risposta, arrossii per tutte quelle attenzioni e abbassai la testa, sorridendo.
Entrammo in classe con Richard che mi stava ancora abbracciando, cosa che attirò l’attenzione delle mie due nuove amiche.
«Che storia è questa?», chiese Kate.
«Vi siete messi insieme?», intervenne Ari.
«Ma che dite?!», sgranai gli occhi. «Siamo solo amici, tutto qui», mi strinsi nelle spalle.
«Anche a me piacerebbe diventare amica sua, se il risultato è questo», sussurrò Ari.
Sgranai ancora di più gli occhi. Mimai con le labbra Ti piace? e vidi Ari arrossire violentemente.
«Da una vita!», rispose per lei Kate. «Ho sempre provato a incitarla ad andarci a parlare, ma si è sempre rifiutata».
«Kate, te l’ho ripetuto centinaia di volte! Secondo te uno come lui si prende una come me? Non credo proprio».
«Ma se nemmeno ci provi…», provai a incoraggiarla io.
Ari scosse la testa. «Non esiste nessun universo parallelo in cui io possa piacere a lui».
Sospirai e lasciai cadere il discorso. Avevo appena conosciuto quella ragazza e già mi sembrava una che se si metteva una cosa in testa nessuno poteva
fermarla.

La mattinata passò tranquillamente, con Caroline che si complimentò con per me aver scelto di iniziare l’addestramento.
Per tutto il pranzo le ragazze parlarono della festa che si sarebbe tenuta quella sera. Avevamo concordato che dopo scuola saremmo andate tutte a mangiare qualcosa e, a casa di Caroline — dove sua madre aveva finalmente rimesso tutto a posto —, ci saremmo preparate per poi andare a casa di questo Jordan. Avevo portato a scuola una borsa con dentro un paio di stivaletti neri alla caviglia col tacco, dei jeans sbiaditi e una camicetta bianca, che adesso aspettavano il suono dell’ultima ora dentro il mio armadietto.
«Ho parlato con Aaron», disse Jason mentre andavamo verso l’aula di fisica. «Dice che l’addestramento comincerà lunedì, ma entro quel giorno i tuoi genitori verranno informati di… beh, tutto quanto».
«Cosa?», esclamai e per poco non inciampai sui miei stessi piedi. Jason mi prese il braccio, per sorreggermi. 
«Lo sai che lo devi dire ai tuoi, Alex!», mi informò Caroline.
Abbassai lo sguardo, fissando il pavimento.
«Cosa c’è? La bambina ha paura di quel che possano dire i genitori?», chiese lui con il ghigno che tanto odiavo.
«Smettila di dirmi che sono una bambina!», lo rimproverai. Arrivammo in classe e ci sedemmo ai nostri posti. «E come farei a dirglielo?», chiesi.
«Ti aiuteranno i Custodi a farlo. Con noi hanno fatto così», spiegò Caroline.
La lezione iniziò, perciò non ci fu modo per continuare la nostra conversazione.
All’ora successiva Jason passò la maggior parte del tempo a prendermi in giro perché non riuscivo a far niente, ma nonostante questo s’impegno per salvare le palle che schivavo volontariamente.

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Capitolo 22
*** Capitolo Ventidue ***


«Oh, cavolo!», imprecai ad alta voce.
«Cosa è successo?», chiese Kate venendo verso di me. Quando vide gli indumenti che tenevo in mano si mise una mano sulla bocca.
I jeans e la camicetta che mi sarei dovuta mettere di lì a poco erano macchiati della coca che Ari aveva fatto cadere accidentalmente a cena. Quindi mi ritrovavo a casa di Caroline senza niente da mettermi per la sera, a parte la felpa blu e i jeans che avevo addosso.
«Oddio», disse Caroline sgranando gli occhi.
Ari ci raggiunse. «Alex, scusami! Mi dispiace di averti macchiato i vestiti».
Le sorrisi. «Non è stata colpa tua, tranquilla…», tornai a guardare la camicetta che aveva enormi chiazze marroncine sparse ovunque. «Ma adesso cosa mi metto?».
Caroline mi prese per il braccio e mi trascinò davanti al suo armadio. «Non facciamoci scoraggiare… Ti presto qualcosa di mio, ci dovrà pur essere qualcosa che ti vada bene…», si mise a ragionare esaminando più capi alla volta.
Alla fine optammo per dei jeans aderenti neri strappati — arrotolati alle caviglie perché mi stavano lunghi — e una maglietta verde menta, con scollo a barca — che mi scivolava spesso dalle spalle — che messi insieme ai miei stivaletti non stava per niente male.
Kate si offrì di acconciarmi i capelli, quindi con un arricciacapelli mi fece morbidi boccoli che, appuntati dietro la testa con migliaia di mollettine, ricadevano in incantevoli onde castane-dorate. Ari — la quale mi confidò che il suo sogno era quello di diventare una make-up artist — ci truccò tutte. Mentre con Caroline ci andò giù pensante, usando uno smokey eyes nero coi brillantini neri, con me ci andò più leggera, con uno smokey eyes bronzeo che mi ingrandiva gli occhi.
Aiutai Ari a farsi il frisee e Caroline ad appuntarsi le ciocche che aveva ai lati dei capelli dietro la testa.
«Wow, Car! Stai benissimo!», le dissi osservandola ad opera finita, mentre Ari stava truccando Kate.
Aveva una maglietta a mezze maniche color cipria — lo stesso colore del suo rossetto (Ari aveva provato a metterlo anche a me, ma dopo aver constatato che quel colore non si abbinava per niente alla mia carnagione optò per un semplice lucida labbra) —, jeans blu scuri a sigaretta, per terminare con delle décolleté  nere dal tacco vertiginoso. «E questo?», chiesi prendendo il ciondolo che aveva al collo: uno zaffiro — lungo più o meno tre centimetri — a forma di goccia.
«Questo è il mio amuleto», rispose fiera Caroline.
Sgranai gli occhi. «E te lo porti ad una festa?». Era un assurdità portare un gioiello tanto prezioso ad una festa di liceali.
«Non me ne separo mai… Vedi, questi amuleti servono per darci maggior potere e protezione, non ce ne dobbiamo mai separare… Quando avrai il tuo amuleto lo dovrai portare sempre con te».
Sempre…, pensai. Strano perché non me ne ero mai accorta, forse anche i ragazzi portavano i loro amuleti e io non ci avevo mai fatto caso.
«Fatto!», esclamò Ari.
Kate aveva un trucco nude agli occhi, molto leggero — Ari si era lamentata che era difficile trovare un trucco che andasse bene per gli occhi grigi —, mentre alle labbra portava un rossetto rosso acceso. I capelli erano raccolti in uno chignon ordinato e portava una camicetta rossa, come il rossetto, pantaloni neri e décolleté  rosse scamosciate.
Anche Ari era andata leggera sugli occhi, usando anche su di lei delle tonalità nude, però rimediò con un rossetto viola scuro — troppo audace per i miei gusti! Era vestita con dei jeans chiari e un top nero con scollo a cuore, per completare con delle décolleté  nere ancora più alte di quelle di Caroline.

 

Arrivammo a casa di Jordan con la macchina di Caroline, e quando scesi dall’auto mi strinsi nel giubbotto perché soffiava un vento gelido. Dagli strappi che avevo sul pantalone — soprattuto quello sulle ginocchia, che prendevano tutta la parte anteriore del jeans — sentivo l’aria gelida farmi venire la pelle d’oca.
Entrati in casa, invece, la temperatura era molto più accogliente. Ci togliemmo i cappotti e li appoggiammo in un appendi abiti all’ingresso, poi le ragazze andarono da un ragazzo dai capelli castani e gli occhi nocciola e lo salutarono. Mi presentarono a lui, dicendomi che era Jordan, il proprietario della casa. Jordan mi fece un sorriso smagliante e mi mise un bicchiere di plastica rosso in mano, come a tutte le altre, tranne Caroline, la quale rifiutò perché doveva guidare.
Nel salotto la musica era alta e la maggior parte dei ragazzi stava ballando, così, dopo aver preso un sorso di birra, le ragazze si buttarono nella mischia, ridendo, scherzando e salutando ogni tanto degli amici.
Io rimasi in dispare. Non ero mai stata a una festa e tanto meno avevo mai ballato, quindi avevo paura ad unirmi a loro e fare la figura della cretina.
Qualcuno mi pizzicò i fianchi e io lanciai uno strillo, saltando sul posto — soffrivo terribilmente il solletico. Mi voltai e vidi Matthew, Richard e Jason dietro di me che mi sorridevano.
«Non balli?», urlò Matthew per sovrastare la musica.
Io sorrisi e scossi la testa.
«Come mai?», chiese Jason.
«Non so ballare», ammisi.
«Cosa?», esclamarono tutti e tre.
Mi strinsi nelle spalle. «Non ho mai avuto occasione, o meglio motivo, quindi…».
I ragazzi si guardarono e annuirono tra di loro.
«Vedi il problema è che…», cominciò Jason, mentre Richard spariva dietro di me, andando verso la pista. «Non puoi rimanere qui in disparte». Strinse le labbra, in un’espressione di scuse e si strinse nelle spalle.
«Non potremmo mai divertirci se tu non lo facessi», intervenne Matthew.
«Ed è per questo che tu ora verrai con noi, che ti piaccia o no», finì Jason in tono a metà tra lo scherzoso e il minaccioso.
Matthew mi strappò di mano il bicchiere — ancora mezzo pieno — appena prima che Richard mi prendesse da dietro, mettendo le braccia intorno alla mia vita, e tirandomi su di peso, trascinandomi verso la pista da ballo improvvisata.
Mentre io cercavo di liberarmi scalciando, vidi Caroline alzare le mani e urlare «Bravissimi ragazzi!».
Quando Richard mi posò lì accanto alle mie amiche ero diventata più rossa di un peperone.
Vidi tutto intorno a me gente che si muoveva, sicura di sé e io mi sentii fuori posto.
«Andiamo muoviti!». Mi girai e vidi Jason a pochi passi da me che mi prese le mani e me le scosse, come per dargli un movimento. Alzò un braccio per farmi girare sotto di esso, poi l’altro. Dopo poco mi lasciò andare, perché anche io stavo ballando.
Ero euforica, con un sorriso appiccicato in faccia.
Dopo qualche canzone mi voltai e vidi che Caroline si muoveva in modo provocante vicino a Matthew, il quale le lanciava occhiate d’apprezzamento.
«Che succede tra quei due?», chiesi a Jass e Richard.
Quest’ultimo alzò gli occhi al cielo. «Va avanti un flirt da…», fece finta di contare sulle dita. «Sempre! Lui interessa a lei e lei interessa a lui, ma nessuno dei due ha mai avuto il coraggio di dirlo all’altro», scosse la testa. In quel poco di tempo che ero stata in compagnia di Car non mi ero mai accorta di nulla.
«Speriamo che questa sia la volta buona che la situazione si sblocchi. Ogni volta che sono in una stanza con loro due mi sento in imbarazzo!», scoppiò a ridere Jason.
«E voi? Fidanzati?», chiesi, per curiosità.
«Piccola, se vuoi un bacio non devi far altro che chiederlo!», Jass ammiccò verso di me.
Alzai gli occhi al cielo e mi tirai su per la millesima volta la manica della maglietta che mi era scivolata fino a metà braccio. «E tu?», chiesi a Richard. Lui scosse la testa. «Interessi per qualcuna in particolare?», mi rivolsi di nuovo a entrambi.
Jason alzò il sopracciglio. «Ci stai chiedendo se siamo interessati a qualcuna o a te?».
«Oddio, Jason! Basta! Sono solo curiosa, tutto qui, ma con te non si può proprio parlare!», mi lamentai.
Richard scosse la testa. «Non mi fisso su nessuna, non voglio illudermi».
«Oh, che romanticone», lo prese in giro Jason.
Io gli tirai un pugno sul braccio. «Ma lascialo in pace!».
«Che fai, tocchi ferro?».
«Ti piacerebbe», mi girai di nuovo verso le mie amiche, per raggiungerle.
«Io penso che piacerebbe più a te», mi sussurrò Jason all’orecchio, prima che mi allontanassi.
Feci finta di niente e mi misi a ballare con Ari e Kate, mentre Caroline si avvicinava sempre di più a Matt — mancava poco che si sarebbero strusciati in maniera imbarazzante davanti a tutti.
A forza di ballare cominciai a sentirmi accaldata, così ogni tanto mi tiravo su i capelli, per prendere un po’ d’aria.
A un certo punto sentii sfiorarmi la vita. Mi voltai e vidi, tra la massa, un ragazzo biondo dagli occhi castani, che non conoscevo, che stava guardando nella mia direzione. Mi girai di nuovo verso le mie amiche, aggrottando la fronte. Forse qualcuno mi ha toccata per sbaglio, pensai.
Non passò tanto che sentii di nuovo una mano sulla schiena, pericolosamente in basso. Scattai in avanti, interrompere quel contatto e dissi alle mie amiche che avevo caldo e che andavo a prendere qualcosa da bere. Mentre mi allontanavo Jason mi fermò per un braccio.
«Ehi, tutto okay?», mi chiese.
«Sì, ho solo sete. Vado in cucina a prendere un po’ d’acqua», risposi.
Jason non disse nulla, ma annuì e mi lasciò passare.
Non fu difficile trovare la cucina e, quando entrai, vidi che era quasi del tutto vuota. Qui la musica arrivava in maniera nettamente più attutita. Mi fischiavano le orecchie ed ero veramente accaldata. Mi sventolai una mano davanti alla faccia, mentre con l’altra versavo dell’acqua in un bicchiere.
«Bellissima», disse una voce sconosciuta decisamente troppo vicina al mio orecchio. Sentii una mano sudata poggiarsi sulla mia spalla nuda — la maglietta era scivolata ancora. Quel contatto mi diede la nausea e mi girai di scatta.
Vidi il ragazzo biondo che avevo visto poco prima in pista.
«Ciao, angelo, io sono Leo, tu sei la ragazza nuova, vero? Alexia…», disse avvicinandosi.
Io mi ritrassi, istintivamente, ma andai a sbattere contro il tavolo delle bevande.
«Ti stai divertendo?», chiese avvicinandosi ancora.
Respirai il suo alito e girai la testa di lato per prendere una boccata di aria pulita. Puzzava di alcool misto a sigaretta, un cocktail che mi bruciò il naso.
«D-devo…», balbettai. «a-a-andare dai miei amici».
«Ma che male c’è a stare un po’ qui in mia compagnia?», chiese.
«Gli avevo detto che tornavo subito», tentai.
«Sopravviveranno…>.
Merda, era troppo vicino, non sapevo cos’altro fare. Nel momento stesso in cui pensai di spostarmi di lato per tornare da loro, lo vidi piegarsi verso di me e appoggiare le mani al tavolo.
Gli misi una mano al petto e cercai di spingerlo via. «Fammi andare», lo pregai, ma lui non si mosse. Era grosso di statura, perciò, anche mettendoci forza, non riuscii a spostarlo.
«Quanta fretta…», posò una mano dietro la mia schiena, nel punto basso che aveva toccato poco prima, mentre ballavo, appena sopra il fondoschiena.
«Lasciami», dissi più forte.
«… Facciamo un po’ di conoscenza». Si protese verso di me.
Chiusi gli occhi e mi girai di lato. «Ho detto lasciami!», urlai.
Si sentii un rumore metallico, poi non sentii più la mano di Leo addosso a me.
«Diavolo, Scott!», lo sentii ringhiare.
Aprii gli occhi e vidi che la cucina si era affollata. «Alexia, tutto okay?», chiese Richard, scuotendomi per le spalle.
«Jason!», chiamò Matthew, indicando il lavandino dall’altra parte della stanza.
Jass era chino sopra il ragazzo che aveva provato a baciarmi. Si girò e guardò nella direzione in cui indicava l’amico.
«Caroline, sei tu?», chiese lui.
La ragazza, sulla soglia, scosse la testa. In quel momento dal lavandino uscì un potente getto d’acqua, che si riversò dritto in faccia a Leo.
Matthew tese l’orecchio. «Sta facendo esplodere tutte le tubature», disse allarmato.
Jason imprecò ad alta voce. «Caroline, occupati te delle tubature», disse rivolto all’amica, che annuì. «Alex, guardami», disse prendendo il posto di Richard e posandomi le mani sulle spalle. Abbassò il volto all’altezza del mio. «Rilassati e fai respiri profondi», guardò in basso, fece scivolare le sue mani sulle mie e cercò di forzarle per aprirle.
Non mi ero nemmeno accorta di averle chiuse. Piano piano allentai la presa. «Ecco così», mi sorrise lui.
«Jason, non ce la faccio, mi sta contrastando!», si lamentò Caroline.
Vidi la faccia di Jason, combattuta.
«Vai», disse Richard. «Ci pensiamo noi qui».
Detto questo Jason mi mise un braccio dietro la schiena e mi spinse fuori, mentre io mi sentivo come in una specie di trance.

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Capitolo 23
*** Capitolo Ventitré ***


Una mano mi toccò il polso e io sobbalzai sul posto, portandomi dal lato opposto a quello da cui proveniva la mano. Andai a sbattere contro qualcosa. Alzai gli occhi dalle mie mani e vidi Jason, che mi fissava con sguardo accigliato. «Alex, mi senti?».
Sbattei più volte le palpebre e mi accorsi di essere in un auto, davanti a casa mia. «Co-cosa è successo?», chiesi guardandomi intorno spaesata.
Jason tirò un sospiro di sollievo e si rilassò un po’ sul sedile. «Meno male sei tornata in te».
«Tornata in me?», non capivo cosa intendesse.
«Sei stata in una specie di trance da quando ti abbiamo trovata nella cucina di Jordan… Davvero non ricordi nulla?».
Mi ricordavo che quel Leo aveva provato a baciarmi, ma dopo che erano accorsi loro tutti i miei ricordi erano confusi, se non addirittura assenti. Scossi la testa.
Il mio amico fece un respiro profondo e poi disse «Dobbiamo cominciare al più presto. I tuoi poteri, senza controllo, potrebbero mettere seriamente in pericolo qualcuno». Scosse la testa. «Meno male che stasera c’eravamo noi, sennò avresti fatto saltare in aria le tubature di tutto il quartiere».
Mi sentivo come se partecipassi da spettatrice, e non da protagonista. Era come se non fossi io a comandare il mio corpo: questo prendeva iniziative proprie e non rispondeva ai comandi.
«Mi dispiace», dissi tornando a guardare in basso.
«Non ti preoccupare, imparerai. Non è colpa tua…». Posò la sua mano sopra la mia — che tenevo in grembo — e la strinse. La guardai e vidi che all’anulare portava un anello d’oro bianco con in mezzo incastonato un rubino — decisamente molto vistoso a mio parere.
Posai l’indice dell’altra mano sopra l’anello. «Il tuo amuleto, vero?», chiesi.
Lui sorrise e ritrasse la mano, ma solo per strofinarsi l’anello con le dita e cominciare a giocarci.
«Già», rispose. «Quando ero più piccolo mi stava larghissimo, perciò inizialmente lo portavo appendo al collo, insieme a una catenina. Poi crescendo ho cominciato a portarlo al pollice. E così via, fino ad arrivare all’anulare… Meno male che non mi sono cresciute ancora le mani, sennò mi toccherebbe portarlo al mignolo e, detto tra noi, sarebbe ridicolo con questa grossa montatura», rise tra sé e sé.
Io sorrisi e guardai davanti a me, assorta nei miei pensieri.
«La prossima volta che verrai alla Congrega i Custodi ti lasceranno il tuo… Dovrai sempre portarlo con te», poi abbassò la voce, sussurrando come se mi stesse confidando un grandissimo segreto. «Anche se, devo ammettere, che a volte mi dimentico di mettermelo».
Allargai di più il sorriso, tanto da scoprire i denti. Quella confessione lo faceva apparire più… umano. Alla fine eravamo solo dei ragazzi, a cui era stato dato un compito da adulti, capitava che qualche volta dimenticassimo qualcosa.
«Grazie, Jass. A te e a tutti gli altri», gli dissi, stringendomi nel giubbotto, prima di scendere dalla macchina.
«Buonanotte, Alex», mi salutò lui. Aspettò che io fossi entrata nell’edificio e poi ripartì.

 

Raggiungimi all’Empire

Diceva il messaggio che mi era appena arrivato da parte di Caroline.
Mi alzai dalla panchina su cui mi ero fermata a pensare e mi avviai verso la base della Congrega. Stamattina avevo lasciato un messaggio ai miei dicendogli semplicemente che andavo a fare una passeggiata, avevo preso la Madison Avenue ed ero arrivata a Madison Square Park, dove mi trovavo adesso. Arrivata alla strada presi la 5th Avenue in direzione nord. Erano solo sette isolati fino all’Empire State Building, perciò non mi scomodai nemmeno a fermare un taxi.
L’aria fredda mi aiutava a pensare più lucidamente: la sera precedente stavo per far saltare in aria l’impianto idraulico di una casa, se non forse dell’intero quartiere, e non me ne ero nemmeno resa conto. Se non ci fossero stati gli altri ragazzi, soprattutto Caroline, probabilmente avrei distrutto la casa.
Mi tirai più su la sciarpa, fin sotto al naso, in modo da ridurre al minimo la pelle esposta al freddo di gennaio. Il cappellino azzurro mi arrivava appena sopra gli occhi e i lunghi capelli erano raccolti sulla spalla in una folta treccia.
Dopo una decina di minuti arrivai a destinazione e Caroline mi aspettava nell’atrio dell’Empire.
«Aaron vuole vederti», disse Caroline.
Mi girai verso di lei. «Ha saputo di ieri sera». Non era una domanda, era scontato che loro l’avessero avvisato. Car annuì. «Come è andata ieri sera, quando me ne sono andata?», chiesi.
Lei alzò le spalle. «Siamo riusciti a contenere i danni: solo il lavandino della cucina era saltato irreparabile, perciò qualcuno ubriaco potrebbe accidentalmente averlo rotto».
«E… Leo?», dissi con orrore ripensando a quanto mi fosse vicino.
«Si sarà svegliato con un occhio nero stamattina, ma era ubriaco, perciò dubito che si ricordi qualcosa».
Annuii.
Scendemmo dall’ascensore e ci avviammo in silenzio verso lo studio di Aaron. La strada mi risultò un po’ più familiare.
Quando arrivammo Car bussò alla porta, e, dopo che Aaron ci diede il permesso, la aprì. Feci un passo dentro l’ufficio e mi bloccai.
Davanti a me, seduti alla scrivania del capo della Congrega c’erano i miei genitori.
«Oh, bene, Alexia!», disse Aaron alzandosi in piedi. «Entra pure, ti stavamo aspettando».
Con la coda dell’occhio vidi Tom che si era alzato, che aveva preso una sedia e che la stava posando tra i miei genitori. Mi voltai verso Caroline, in cerca di aiuto, ma lei chiuse la porta tra noi, con un sorriso di scuse. Con movimenti rigidi mi portai verso la sedia e mi ci sedetti, stando attenta a tenere lo sguardo ben piantato per terra, così da non incrociare quello di nessuno.
«Allora, è vero?», chiese mio padre. Il suo tono non era accusatore, come mi sarei aspettata, ma dolce.
Continuai a fissarmi le mani, ma annuii. Mi sentivo come una bambina che veniva convocato dal preside per aver combinato un pasticcio a scuola.
Sentii papà sospirare e con la coda dell’occhio lo vidi piegarsi in avanti, appoggiare i gomiti alle ginocchia e nascondere il viso tra le mani.
«Ma come è possibile?», chiese la mamma.
«Non lo sappiamo, Mrs Reed. È scritto nel suo destino, la dea l’ha scelta», rispose Aaron.
«E adesso?», la domanda uscì come un gemito dalle labbra di mio padre.
«Adesso, se accetterete, ci prenderemo noi la responsabilità di istruirla e di prepararla. Io stesso la allenerò, così che possa avere pieno controllo sui propri poteri e così che non faccia più capitare piccoli… incidenti», disse Tom.
«Incidenti?», chiese papà alzando la testa. «Di che tipo di incidenti state parlando?».
Il capo della Congrega aprii la bocca, ma fu mia madre a parlare. «Peter», lo chiamò. Lui si girò verso di lei. «Lo sai», disse lei.
Alzai la testa e mi girai verso di lei, incredula.
«Dentro di noi l’abbiamo sempre saputo che avevi qualcosa di…», ci pensò su. «Speciale».
«Speciale», dissi sprezzante, con un filo di voce. «Dì piuttosto strano».
La mamma spostò lo sguardo verso papà, poi lo riportò su di me. «Tesoro, diverso non vuol dire per forza strano», posò una mano sulla mia guancia. «Vedevamo che ti capitavano cose inspiegabili quando eri molto arrabbiata, ma pensavamo che quando sarebbe arrivato il momento giusto ce ne avresti parlato di tua spontanea volontà».
Serrai la mascella. Lo sapevano ma non avevano mai fatto o detto nulla. «Beh, sbagliavate!», sbottai. «Per tutto questo tempo cercavo di nascondere tutto questo, per paura della vostra reazione. Ero spaventata per quello che mi stava succedendo, ma lo ero ancora di più al pensiero di quello che avreste potuto pensare di me, se solo aveste saputo…», mi morsi il labbro. Abbassai di nuovo lo sguardo sulle mie mani, per qualche istante, poi chiusi gli occhi e feci un respiro profondo. «Io ho ucciso Hope», dissi. «Mi ero arrabbiata con lei ed ho fatto prendere fuoco alla casa», la mia voce era poco più di un sussurro. «Per tutti questi anni mi sono sentita così in colpa per quello che le ho fatto e per quello che ho fatto a voi. Pensavo che non meritavo tutto quello che facevate per me, tutte le vostre premure. Per questo ho smesso di parlare».
«Tesoro, ma non è stata colpa tua», disse papà.
«Si invece», dissi senza guardarlo.
Lui si alzò e si mise davanti a me, piegandosi sulle ginocchia in modo da avere la testa all’altezza della mia faccia. «Non lo devi dire nemmeno per scherzo. Eri una bambina, e non potevi sapere che cosa ti stesse succedendo, non controllavi questa cosa, perciò non è colpa tua».
«Vorrei non essere così», confessai con voce tremante.
La mamma comparve accanto a papà. «Oh, Lexie! Tu sei nostra figlia e noi ti amiamo così come sei».
Gettai le braccia al collo a entrambi — cosa che non facevo da molto, troppo tempo — e li abbracciai. «Vi voglio bene», confessai tra le lacrime.
«Anche noi piccola», sussurrò papà, dandomi un bacio sulla testa.
«Cosa hai deciso di fare, allora?», chiese mamma quando ci staccammo.
«Rispetteremo la tua scelta, qualunque essa sia», mi rassicurò papà.
Guardai Aaron e Tom. «Voglio allenarmi», annunciai. «Voglio imparare a gestire i miei poteri e usarli in modo corretto».
Aaron annuì, sorridendo, mentre Tom disse: «Cominceremo l’allenamento lunedì. Un auto verrà a prenderti a scuola e ti allenerai con me e i ragazzi nel Liberty State Park».
Quando uscimmo dall’ufficio di Aaron mi ritrovai davanti i miei amici, che mi aspettavano. Caroline appena mi vide saltò in piedi e mi venne ad abbracciare.
«Come è andata?», mi chiese. Dietro di lei anche gli altri si alzarono. 
«Bene», risposi, non solo a lei, ma a tutti. Vidi Jason che mi sorrise, poi distolse lo sguardo e si portò una mano dietro la testa.
Quando sciolsi l’abbraccio con Car vidi mamma e papà scambiarsi uno sguardo d’intesa, poi papà disse: «Vedi Lexie, noi stasera abbiamo una cena di lavoro e probabilmente faremo tardi… Perché non inviti i tuoi amici a dormire?».
Sgranai gli occhi: non era da papà comportarsi in questo modo. «Beh… Non lo so… Loro…», blaterai.
«Ci farebbe molto piacere, Mr Reed», intervenne Car.

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Capitolo 24
*** Capitolo Ventiquattro ***


Quando il campanello suonò andai ad aprire.
«Qualcuno ha ordinato la pizza?».
Mi vidi il cartone della pizza a due centimetri dal naso, perciò mio ritirai, istintivamente. Dietro al cartone c’era Richard — che aveva parlato — che se la rideva insieme agli altri.
«Entrate», li invitai, sorridendo. Li guidai verso camera mia e lì lasciarono tutti le loro borse.
Decidemmo di cenare sul tappeto di camera mia, visto che i miei genitori erano già usciti e non avrebbero potuto rimproverarci.
«Allora, Alex, di solito quando qualcuno prova a baciarti la tua reazione è quella di ieri sera?», rise Riky. 
«Mah, non lo so. Vuoi provarci?», lo presi in giro. «Magari stavolta incenerisco qualche sopracciglia!».
Tutti scoppiarono a ridere e Riky mi fece la linguaccia. «Certo, certo… Non faresti mai del male a questo bel faccino», ribatté lui. Allungò la mano verso di me, aprì il palmo verso l’alto e fece crescere davanti ai miei occhi una rosa rossa.
«Ma smettila di fare il cascamorto!», gli diede una spintarella Jason. 
«E perché?», chiesi io, prendendo la rosa che Riky mi porgeva. Lui si giro verso l’amico e alzò le sopracciglia, con sguardo fiero. Mi strinsi il fiore al petto. «Non lo sai che io prima di addormentarmi mi chiedo sempre m’ama». Presi un petalo e lo staccai. «Non m’ama». Ne staccai un altro. «M’ama, non m’ama», continuai, staccando ogni volta un petalo di rosa.
«Ehi, ehi, ehi!», disse Richard. «Non si fa con la rosa, piccola! Si fa con la margherita questo!». Ruotò il polso e il fiore che tenevo in mano si trasformò in una margherita.
«Sbruffone», disse Matt, alla mia destra. Allungò la mano e strappo quasi tutti i petali dalla margherita, poi portò il pungo davanti alla bocca e soffiò, aprendo la mano, in direzione di Richard.
«No!», urlò quest’ultimo. «Non sulla pizza». Ma ormai era troppo tardi.
Tutti risero del broncio che aveva messo Riky.
«Te lo sei meritato», intervenne Caroline, tra una risata e l’altra.
Riky fece spallucce e prese un altro pezzo di pizza. «Non è male», disse con la bocca piena.
Scossi la testa e addentai il pezzo che avevo in mano.
«Quindi vediamo se ho ben capito: tu», dissi indicando Car che era seduta di fianco a me. «hai il potere dell’acqua e come amuleto hai una collana con uno zaffiro», lei mi sorrise e annuì. «Tu invece hai il potere del fuoco e hai un anello con un rubino come amuleto», dissi indicando Jason, che annuì anche lui. «Mentre tu, Matt, hai l’aria, ma qual è il tuo amuleto?».
Il ragazzo biondo tirò fuori dal colletto della maglietta grigia una collana con una pietra ovale dal colore bianco perlato. «È una pietra di luna», annunciò.
Annuii. «E tu?», chiesi rivolgendomi a Riky.
Lui mi mostro un braccialetto con incastonato uno smeraldo.
«Ma la terra non dovrebbe essere un elemento femminile?», chiesi d’impulso.
Car, che stava bevendo dell’acqua, la sputò addosso a Jason, che le stava davanti, perché colta di sorpresa da una risata. Jason quasi non se ne accorse perché, come Car e Matt, stava anche lui piegato in due dalle risate.
«Stai attenta, ragazzina!», mi minacciò Riky puntandomi addosso il pezzo di pizza che aveva in mano.
Io mi morsi le labbra, per tentare di nascondere il sorriso, e alzai le spalle, come se non sapessi perché se la prendeva così tanto. «Cosa ho detto di male?», chiesi con aria innocente.
«Chiedi scusa o te ne pentirai», minacciò lui.
Io distolsi lo sguardo. «Non so proprio di cosa parl…».
Non feci in tempo a finire che lanciai un grido. Riky mi era piombato addosso e adesso ero distesa per terra, con lui che mi teneva inchiodata al pavimento. Con le mani cominciò a darmi pizzicotti sui fianchi e io presi a dimenarmi sotto di lui, cercando di spostarlo o, almeno, di allontanargli le mani. Ma non ci riuscii, quindi non feci altro che strillare.
«Chiedi scusa», diceva lui, mentre gli altri ridevano.
«No», dissi tra un urlo e l’altro.
Mi contorcevo sotto di lui, il solletico era qualcosa che non ero mai riuscita a sopportare, lo soffrivo tantissimo.
«Bene, allora continuo».
«Va bene, va bene, scusa!», strillai.
Subito dopo Riky si spostò, con un sorriso soddisfatto. «Vedi, non ci voleva tanto», disse aiutandomi a rimettermi a sedere e poggiando un braccio sulle mie spalle.
Io mi liberai e mi alzai in piedi. Poi gli diedi una spinta e mi misi a sedere dove era lui a sedere prima che mi piombasse addosso — tra Caroline e Jason. «Un girono avrò pieno controllo sui miei poteri e quel giorno mi vendicherò», lo minacciai. 
«Se vuoi ti insegno a bruciare le sue piantine», mi propose Jason e io gli sorrisi.
«Ma fino a quel giorno… Mi mangio la tua pizza», presi una fetta e me la portai alla bocca.
«No, non la mia pizza!», si lagnò Riky, ancora. 
Finita la pizza decidemmo di vederci un film. Io e Car ci opponemmo, ma alla fine vinsero i ragazzi — erano tre contro due — per un film dell’orrore. Matt e Riky si erano seduti per terra, appoggiati ai piedi del letto, mentre Jass e Car erano distesi a pancia in giù sul letto, con la testa al posto dei piedi, in modo che, posizionando il computer tra i primi due si potesse vedere tutti il film.
«Pop-corn?», chiesi. Se il film non mi doveva piacere potevo almeno affogare i miei dispiaceri negli snack!
Tutti esultarono. «Aspetta, ti faccio vedere un trucchetto!», mi fermò Jason. Lo vidi alzarsi dal letto e raggiungermi.
In cucina tirai fuori due pacchetti di pop-corn al microonde. Poi guardai Jass e, sorridendo, ne aggiunsi un altro, certa che i ragazzi avevano ancora tanta fame. Lui ricambiò il sorriso.
«Facciamo una gara?», chiese.
«Una gara?».
«Sì: vediamo chi riesce a fare più velocemente i pop-corn».
Inarcai le sopracciglia, ma acconsentii. Non avevo idea di come avrebbe fatto a cuocerli più velocemente del microonde, in padella ci mettevano più tempo e non riuscivo mai a non bruciarli. «Bene, e se vinco io, cosa ottengo?», chiesi, innocente.
«Me», disse lui con uno sguardo che avrebbe dovuto essere sexy.
«Ma per favore», lo allontanai con una spinta.
«Va bene, allora… Farò tutto quello che vuoi che io faccia, per una settimana», propose.
«Un mese!», lo sfidai.
Jass sgranò gli occhi. «Cosa? Un mese?! Assolutamente no!».
La sua reazione mi fece capire che non era per niente sicuro di vincere. «Mh mh, prendere o lasciare», lo provocai.
Si porto una mano alla testa e se la passò tra i capelli. «Va bene, ma se io riesco a preparare una porzione di pop-corn più veloce di quanto ci metti tu a prepararne una allora dovrai essere tu a fare tutto quello che voglio che tu faccia per un mese!», disse lui porgendomi la mano.
«Preparati a essere gentile», affermai, mentre gliela stringevo.
Quando tentai di ritirarla lui la strinse più forte e mi tirò più vicina a sé. «Attenta, ogni promessa è debito!», mi sussurrò all’orecchio. Poi mi lasciò andare e mi sorrise. «Dai te il via», disse indicando i pacchetti.
Ci preparammo tutt’e due. «Pronti, attenti… Via!», dissi, infilando rapidamente il sacchetto dentro il microonde che avevo già impostato. Mi girai e vidi che lui aveva il pacchetto ancora in mano. Inarcai un sopracciglio, mentre nella stanza risuonavano gia i pop pop degli snack.
Gli diedi le spalle, con un sorrisino soddisfatto: sarebbe stato facile vincere la scommessa. Gli scoppiettii diventarono sempre più frequenti e nella stanza si diffuse un odore stuzzicante di burro, segno che mancava più o meno un minuto alla fine della cottura, mi voltai verso di lui, per dirgli che tanto aveva perso, ma la frase mi rimase intrappolata in gola.
Sul bancone della cucina c’era un sacchetto gonfio di pop-corn pronti e un’altro, quasi pronto era sulla mano di Jason.
«C-co-come…?», non riuscito a capire.
Il ragazzo posò anche l’altro pacchetto sul bancone qualche secondo prima che il timer del microonde suonasse. Poi avvicinò la mano — che adesso aveva il mignolo e l’anulare piegati, in modo da formare una pistola — alla bocca e soffiò su una piccola striscia di fumo che usciva dalle due dita.
Mi sentivo come se la mascella mi fosse caduta sul pavimento.
«Ho vinto», disse Jason con un sorriso soddisfatto, mentre si portava le due dita — sempre piegate a mo’ di pistola — alla cintura, come se stesse rinfoderando l’arma.
«Ero convinta che tu non fossi certo di vincere», fu l’unica cosa che riuscii a dire.
«Sai… Dovresti imparare a bluffare», sogghignò, facendomi l’occhiolino. «Ora dovrai fare tutto quello che ti dico io, per due mesi!».
«Ehi, aspetta frena!», dissi io. «Due mesi?».
«Sì. La scommessa era che se io riuscivo a preparare una busta più veloce di te avrei vinto un mese. Però ne ho preparate due, quindi uno più uno…».
Restai a bocca aperta, senza riuscire a dire niente. Era vero, aveva usato proprio quelle parole, era stato chiaro, in modo da potermi fregare.
Richiusi la bocca e versai gli snack in due ciotole grandi, in silenzio e mi voltai per tornare dagli altri, indispettita.
«Non tenermi il muso, dai!», scherzò Jason. Girai la testa dall’altra parte, per ignorarlo. «Ogni promessa è debito», ripeté lui. « quindi se ti dico di non tenermi il muso…».
Alzai gli occhi al cielo e con un sospiro di rassegnazione gli feci un sorriso tirato. Lui storse la bocca e scoppiò a ridere. «Dovremo lavorarci su», mi prese in giro, mentre entravamo nella mia stanza.
«Su cosa dovrete lavorarci?», chiese Matt.
«Niente», risposi subito io.
«Alex adesso è la mia schiava per due mesi», ribatté invece Jass, fiero.
«Cosa?», scattò su Car.
I ragazzi scoppiarono a ridere. «Vai così, amico!», si complimentò Riky, dandogli il cinque. Sempre indispettita, mi lasciai cadere a terra con una ciotola di pop-corn, tra Matt e Riky, pensando che Jass mi avrebbe voluto il posto sul letto.
«Cosa fai lì?», chiese lui.
«Ti lascio il posto sul letto», risposi.
Lui si mise a sedere sul bordo e scosse la testa. «No, voglio che tu venga qui», annunciò picchiettando sul piumone accanto a sé.
Sconcertata, mi alzai e mi misi accanto a Caroline, dove Jass aveva indicato, poi anche lui si sdraiò accanto a me.
«Non giocare con me», mi lamentai con lui a bassa voce, dopo qualche minuto che il film fu iniziato, mentre Car, Riky e Matt discutevano animatamente dell’ambientazione del film.
«Oh, piccola, ho appena cominciato a giocare con te», mi sussurrò lui all’orecchio, facendomi salire un brivido sulla schiena che mi scosse tutta.
Car era troppo immersa nella conversazione, ma Jason se ne accorse, perciò scoppiò in una risata soddisfatta. Io abbassai gli occhi, con le guance che mi andavano a fuoco. «Car ha ragione», disse a tutti, come se fosse stato sempre a parlare del film. «Un bosco è un po’ scontato per un horror».

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