Ouroboros

di B Rabbit
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I – Capitolo Primo ***
Capitolo 2: *** II – Capitolo Secondo ***
Capitolo 3: *** III – Capitolo Terzo ***



Capitolo 1
*** I – Capitolo Primo ***












Ouroboros




« Che accadrebbe se un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse:
“Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà
in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!". Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: "Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina"? ».

(Friedrich Wilhelm Nietzsche, La gaia scienza.)




I




—— † ——




L’orrore mutò forma, traboccò in gelide grida da una bocca sfigurata dal terrore e, simile al fragore di un tuono caduto, si spanse tristemente per le vie, buie e dimentiche, fino ad evaporare. Bagnata dalla pallida luce di un lampione, una figura pareva ascoltare con serena compiacenza le vibrazioni che il suo udito riusciva a carpire al silenzio – erano i passi rapidi e disarmonici della preda, i suoi rantolii e i singhiozzi che scuotevano il corpo spossato –. Attese qualche istante nella corona di luce, le iridi celate dietro le palpebre e il viso privo di qualsivoglia sfumatura emotiva, ma appena la scia sonora della sua vittima divenne oltremodo sottile, la sua bocca, lucida di cremisi, si contrasse in un piccolo, beffardo sorriso.
Piegò profondamente le gambe fino a sfiorare il lastricato umido con le ginocchia e i muscoli delle cosce guizzarono contro la stoffa dei calzoni. Stette in quella postura per qualche rapido istante, quasi potesse, in quella maniera, ottenere una spinta maggiore, e balzò agilmente, superando con strabiliante ed inverosimile facilità il fianco dei grandi edifici in mattoni – nel punto di massima tensione verso l’alto, il mantello che era solito proteggerlo dal freddo e dallo sguardo straniero si gonfiò intorno a lui, si distese come le morbide ali di qualche affascinante, pericola creatura, e per un attimo fugace l’essere parve librarsi nel cielo torbido –.
Atterrò con destrezza su di un’ampia terrazza e prese a correre, ad inseguire la propria preda che, tenace amante dell’esistenza, barcollava inutilmente verso un’agognata, infattibile salvezza, equivocando la concessione di un generoso vantaggio con il trionfo sul cacciatore. Notò il povero derelitto cadere a terra, fiaccato dalla corsa e dagli effetti del vino; colse, miscelati al suono ritmico dei propri passi, strani boati sferzare l’aria gelida intorno a lui, ma non si impensierì – era la sua risata, instabile e trafelata e stridente, ad infilzare e lacerare il silenzio, ma la fame confondeva le percezioni e il tutto, il mondo, pareva addensarsi nella minuscola vittima –. Saltò, e come un rapace piombò sull’uomo, trascinandolo rovinosamente a terra, nel buio viscoso della chiusura. L’umano gemette, si agitò sotto la presa ferrea che gli stringeva le spalle, come una patetica bestiolina fra gli artigli o le zanne di qualche belva. E nel rifiuto della fine, mentre tentava di spinger via il corpo immobile dell’aggressore, di ferirlo artigliandogli e graffiandogli la gola, sfilò per errore il cappuccio che nascondeva l’essere al mondo, permettendo alla luce di ferirlo. L’uomo gridò: incastonati in un pallido viso dalle fattezze geniali, due occhi spiritati lo scrutavano con bramosia, sporcando il suo riflesso di ombre scarlatte – erano un vivido cielo crepuscolare, quelle ampolle colme di un colore raro, sbagliato, in cui la violenza e il peccato avevano imbrattato con il sangue, in quel centenario di solitudine, la cerulea umanità custodita al loro interno –. La creatura gli artigliò la mandibola per zittirlo, ma lacrime gravide di sogni fumosi e maledizioni succedettero le urla violentemente soppresse, rotolando giù dagli occhi sbarrati e inumidendo il guanto che fasciava la mano efferata. Una risata gorgogliò dalla bocca fremente dell’essere, permettendo alle zanne di luccicare come gemme – era roco e compiaciuto, quel tremolio di ilarità, eppure una debole, recondita nota d’infelicità ne deturpò il suono, incrinando leggermente il riso del maledetto –. Con un gesto vuoto di pietosa gentilezza, il predatore denudò il collo dell’umano e, celere, si avventò su di esso: affondò completamente i denti nella carne, lacerò l’epidermide, il muscolo contratto, e quando la linfa si riversò bollente nella sua bocca, dolce come l’ambrosia dal voluttuoso sapore proibito, la tensione lasciò le sue membra, e un mugolio pago affiorò dal suo animo – l’aridità, il supplizio della durevole astinenza e l’inutile ostilità del raziocinio furono subito dimenticati, lavati via dal tiepido e piacevole sangue –. Stordito dal piacere, l’essere sovrannaturale rilassò il corpo, e le sue mani smisero di stritolare la preda, scivolando appena sulla stoffa lacera della sua camicia. Bevve con meno impeto, bisogno, avvertì il proprio cuore rasserenarsi. Udì un boato. Percepì qualcosa penetrargli freddamente l’addome, lacerandogli la carne e radicandosi in lui. Un gemito fuoriuscì dalle sue fauci aperte e, prima di poter soltanto comprendere quei frenetici secondi, l’umano lo colpì in viso con la guancetta di una pistola, guadagnandosi così la propria salvezza.
E mentre la preda, soccorsa dalla benevola ventura, fuggiva lontana da quella strada nefasta, da quel ricordo che la sua coscienza avrebbe presto tramutato in un vago incubo, la bestia crollò disastrosamente a terra, battendo il fianco sinistro contro il duro, gelido lastricato. Premette la mano destra sull’addome, nel punto in cui il dolore aveva il suo fulcro pulsante; percepì un liquido caldo lambirgli il palmo e scivolargli tra le dita fino a precipitare sulla strada, dilatandosi lentamente in uno specchio cremisi. Il vigore e la follia che lo ebbero temprato durante la caccia parvero fluire via da lui, sgorgando dalla ferita miscelati al sangue e alla forza. Rimase solamente la paura, in quel giovane, fragile corpo, che rimase giacente a terra, circondato dal sottilissimo velo di luce del lampione.
Con la bocca tremante, catturò una rapida boccata d’aria e la trattenne nel petto, ma la rigettò subito dopo, increspandola con un lamento. Tossì forte, serrando gli occhi e digrignando le zanne a causa degli spasimi che lo trafissero. Acuì l’udito, nonostante il palpitare del dolore gli incrinasse la ragione e gli confondesse le percezioni, nel disperato tentativo di cogliere qualunque minima, debole scia di pericolo – doveva alzarsi all’istante, lasciare quei vicoli rischiosi e guarire, sopravvivere per riavere lui –.
Schiuse debolmente gli occhi e, alzando lo sguardo, scrutò l’indefinito torreggiare su di lui – il cielo notturno si corruppe di stoltezza e forti desideri umani, in quelle iridi vermiglie, luccicanti di amarezza, e in esse parve farsi più buio, triste come l’animo del dannato –.
«Yuu…» tramutò in suono il pensiero massimo della sua mente, il fondamento che salvò, in quel secolo tempestato di disgrazie, la sua esistenza. «Dove sei, Yuu…?» mugolò, la voce fioca, sonante d’angoscia. Celò il viso dietro la mano sinistra, quasi provasse vergogna della sua natura perfino nell’invocare quel ragazzo dall’animo gentile. Lo chiamò nuovamente, ma il suo nome venne spezzato da un singhiozzo – le labbra fremettero e gli angoli della bocca si incurvarono tristemente all’ingiù –.
Una perla d’acqua scintillò fra le ciglia dorate, limpida come il naturale desiderio di voler accanto la persona amata, calda come i sorrisi che, nella precedente vita, addolcivano frequentemente la sua espressione. E come l’adorato tesoro che le sue mani non riuscirono a salvare, la lacrima cadde e si infranse sul lastricato in un suono che soltanto Mikaela udì.




—— † ——




Nell’oscurità di una notte morente, nubilosa, disadorna di stelle e incanto e della preziosa, venerata luna, la misera città appariva lugubre e bigia a causa delle vesti fumose che la ammantavano, sfumando le strade e gli edifici. Le prime lanterne si destarono in cerchi di tiepida luce, colorando di pallido oro gli interni delle botteghe o rischiarando sommessamente i gelidi vicoli in cui erravano le ultime anime dannate alla ricerca di un tugurio in cui dissolversi fino alla notte seguente.
In una piccola, modesta drogheria, un giovane ragazzo si occupava della merce, disponendola secondo il volere del padrone, uscito per qualche affare pochi minuti prima. Afferrava i grossi sacchi di legumi, uno per mano, e dal magazzino sul retro li trascinava fino al negozio, depositandoli a sinistra del bancone, vicino alla parete, così da poter essere sorvegliati costantemente, prevenendo gli sciocchi, patetici furti che, a volte, i bambini commettevano, ficcando frettolosamente nelle tasche dei loro pantaloni le piccole e tremuli e livide mani piene di fagioli. Sistemò con cura le varie erbe su di una mensola, ciascuna tipologia in un vasetto differente e ben sigillato, così da preservare il loro caratteristico odore. Tornò nel retrobottega e ammucchiò le cassette vuote in un angolo, annotando mentalmente i prodotti esauriti – essendogli stata negata la scuola, al sedicenne erano ignote l’arte della lettura e della scrittura, ma l’esperienza lo aveva soccorso, in quell’ultimo lustro, insegnandogli il calcolo –. Lavorò rigorosamente, come ogni giorno soleva fare per continuare ad esistere in quella realtà – non si fermò un istante, nemmeno per distendere le membra tese delle braccia, delle gambe, e l’aria non si riempì mai di un suo sospiro o lamento –. Agguantò uno straccio dalla tasca dei pantaloni, troppo larghi per il suo fisico asciutto nonostante i numerosi ritocchi della madre, e cominciò a pulire i pochi mobili della bottega, spazzando la polvere e l’unto dalle superfici – qualche volta, per via degli energici movimenti del braccio, un ciuffetto biondo cadeva e dondolava dinanzi ai suoi occhi, e il giovane, sbuffando, se lo portava infastidito dietro l’orecchio –. «Prima o poi li taglierò, questi stupidi capelli» giurò di nuovo a sé stesso, liberando la florida chioma ondosa dal garbuglio che la soffocava, realizzato con una fettuccia di ruvida tela che il garzone aveva tagliato da un sacco sforacchiato. E mentre cercava di fermare e unire ogni ciocca in una docile coda, udì la porta d’ingresso cigolare alla spinta di una sagoma buia, che subito la fiamma della lanterna chiarì, facendo emergere dal nero i lineamenti di un viso caro.
«Sai che stai meglio con i capelli sciolti?» gli disse la figura appena arrivata che, dopo aver gettato delle occhiate lungo la strada, entrò nella drogheria con un sorrisino bizzarro e malizioso, chiudendo lentamente la porta dietro di sé.
«Li odio» rispose prontamente l’altro con voce arida, allacciando faticosamente l’umile nastro intorno ai capelli. «Saranno corti, un giorno!» dichiarò con fermezza, quasi il giuramento acquistasse più valore se detto con forza, e il sedicenne appena giunto mugolò in disaccordo, avvicinandosi a lui con una strana e tenera espressione corrucciata.
«Mika! Non voglio!» gridò, ma il biondo parve crucciarsi unicamente dei suoi capelli che, ostinati, continuavano a fuggire dalla presa della fascetta – abbozzando un piccolo sorriso, l’interlocutore assistette a quella buffa scena e scosse la testa, piano, facendo oscillare leggermente alcune ciocche scure –.
«Aspetta, ti aiuto io» si offrì, preferendo abbandonare il ruolo, seppur divertente, di spettatore per soccorrere l’altro.
«Yuu…?» soffiò debolmente il suo nome, ma il citato stette in silenzio, sorrise e gli rispose con dei semplici passi che annullarono la distanza incastrata fra loro; fermandosi alle sue spalle, il moro sfiorò, con i polpastrelli irruviditi dal lavoro, le mani di lui, che piano si schiusero come rosei boccioli di rosa, lasciando fluire la chioma preziosa sul collo.
«Mi piacciono i tuoi capelli…» mormorò, districandogli i nodi con movimenti lenti, gentili, per non causargli alcun dolore – le palpebre calarono appena sugli smeraldi e le labbra si incurvarono morbidamente all’insù, rendendo dolce e incantevole la sua espressione –. «Quindi non tagliarli… va bene?».
L’altro annuì con cenni lenti del capo, un po’ confuso dal tono basso e gentile del corvino, che stranamente sghignazzò, scaldando il negozio e l’animo di Mikaela con una serena e limpida e genuina risata.
«Lega i capelli, su. Te li mantengo io» disse. Egli obbedì immediatamente e avviluppò più volte la fascetta intorno al crine di luce – quando, per sbaglio, gli sfiorava la mano con la sua, quando le loro pelli si baciavano con tocchi fugaci, il biondo esitava, le sue dita si irrigidivano, e il ragazzo alle sue spalle lo richiamava, intimandogli di proseguire per non perdere qualche filo dorato –.
«Fatto!» esclamò allegro, indietreggiando appena dall’aiutante della drogheria e portandosi le mani sui fianchi. «Va meglio?».
Il sedicenne si massaggiò la nuca e asserì con un mugolio leggero. «Piuttosto…» e unì le iridi a quelle smeraldine del ragazzo. «Non dovresti già essere alla miniera, Yuu? Fra poco inizierà il lavoro».
«Beh, sì. Sarò lì fra pochissimo» lo rassicurò il citato che, vagando per il locale, guardava la merce senza alcun interesse. «Prenderò la solita scorciatoia» stabilì. A quelle parole, il giovane irrigidì le spalle, ma camuffò prontamente l’inquietudine con una crepitante irritazione.
«Yuu» lo chiamò, la voce dura e severa, come quella di un fratello, di un amico, di un’anima legata in modo tragicamente splendido ad un’altra. «Quante volte dovrò ancora ripetere che quella strada –».
«È troppo pericolosa perché tu possa percorrerla, prima che ti entri nella zucca?» lo imitò scherzosamente il secondo, allacciando le mani dietro la testa. «Andiamo, Mika! Ogni cosa lo è! …Quindi, possiamo dire che nulla è pericolo, giusto?» concluse, arricciando la bocca in uno allegro sorriso, subito preda delle limpide iridi dell’aiutante, che sbuffò contrariato.
«Stupido».
«Ehi!» gemette lui, offeso da tale risposta. «Perché?» chiese, portando le braccia ai lati del corpo, e notò le sopracciglia dell’altro corrucciarsi appena.
«Mi fai preoccupare» furono le sue parole, e Yuu si irrigidì all’istante – stupito, Mika deglutì l’amara e improvvisa colpa che avvertì nell’osservare quegli occhi di giada, quelle ampolle colme di lealtà, audacia e gentilezza adombrarsi –.
«Anche io ero logorato dall’ansia, quando vagavi per le strada fino a tarda sera cercando di vendere quegli stupidi fiori…» svelò egli, abbassando leggermente la testa, quasi a voler sfuggire allo sguardo dell’altro e al dispiacere che avrebbe trovato in esso. «Ancora oggi ringrazio quell’uomo per averti portato via da lì, offrendoti un lavoro decente» continuò, riferendosi al proprietario della drogheria.
Imitando il giovane, Mika abbassò il capo e stette in silenzio; si mordicchiò internamente il labbro inferiore, inquieto, soppesando con cura le parole che avrebbero lavato via il dispiacere dall’animo dell’altro, ma dei passi riecheggiarono al posto della sua voce e la porta lo richiamò all’attenzione con striduli lamenti. Alzò lo sguardo, e con mortificante sorpresa notò il sedicenne immergersi nel buio notturno in procinto di uscire.
Lo chiamò, gridando il suo nome, e il citato volse la testa all’indietro, senza però allacciare gli occhi ai suoi.
«Vado…» gli rispose Yuuichiro, aprendo maggiormente la porta, ma il biondo lo chiamò ancora, imprimendo nella voce il suo completo disaccordo – più che un ordine o un’irremovibile protesta, il suo tono parve esprimere una supplica, che il moro intese e soddisfò in muta concessione, socchiudendo il battente dell’uscio alle proprie spalle –. Mika sorrise debolmente.
«Aspetta» gli chiese, marcando la richiesta con un cenno del palmo; aggirò sveltamente il bancone e afferrò dalla cesta una rosetta di pane avanzata dal giorno passato, che avvolse in un brandello di stoffa. Si avvicinò al corvino e, prendendogli la mano destra, gli diede il piccolo fagotto. «Tieni» gli disse, arricciando la bocca in un amabile sorriso. «Così mangerai anche tu» aggiunse subito dopo, riferendosi velatamente all’abitudine dell’altro di cedere il proprio misero pasto ad un ragazzino – Yoichi, gli sussurrarono alla mente i ricordi di una vecchia conversazione – che lavorava con lui da pochi mesi.
Yuu scosse la chioma scura. «Sei un uomo, Mika! Non voglio raccomandazioni da femmine» scherzò, ridendo allegramente, ma appena notò un insolito sorrisetto comparire sul viso del ragazzo, l’ilarità si spense, lasciando la bocca arida e socchiusa.
«Non vuoi neanche questo?» domandò il biondo, la voce bassa, lieve, quasi le sue parole fossero un bisbiglio confidenziale, e posando la mano sulla sua nuca, intrecciando le dita nei suoi capelli di lucido inchiostro e guidando il suo capo verso il proprio, unì le loro tiepide labbra in un bacio delicato, leggero e piacevole come il freddo vespertino che pizzicava le pelli. Sconcertato, Yuuichiro indietreggiò immediatamente e nascose dietro al pugno socchiuso la bocca, ancora memore della sofficità di quel tocco che fece tremare l’anima d’emozione. «Sei scemo? Poteva entrare qualcuno!» lo rimbrottò, sussurrando iracondo i suoi timori per non farsi udire da qualcuno, ma il ragazzo rise divertito di cotanta preoccupazione, inusuale da parte del compagno – l’imbarazzo sbocciò maggiormente sulle gote del giovane portatore di carbone, nutrendo la serena ilarità che riecheggiava nella bottega –.
Yuu sospirò. «Se il padrone di questo posto scoprisse ogni cosa…» lo avvisò, preferendo lasciar vaga la conclusione, e sollevò la mano in cui stringeva il pane, facendo intendere che il loro stretto legame non sarebbe stato l’unica minaccia per l’aiutante.
Il biondo acquetò le proprie risate e sorrise. «Tranquillo» gli disse, posando le dita sul braccio alzato. «Non caccerebbe mai la copia di suo figlio morto. Sarebbe come perderlo nuovamente».
Il giovane aggrottò le sopracciglia nere, per nulla convinto da quella risposta, ma scelse di ignorare il tutto e si avvicinò all’uscio. «Me ne vado» lo informò, incatenando lo sguardo al suo.
Mikaela annuì e lo salutò con un sorriso. «Buon lavoro».
L’altro annuì con espressione determinata e si volse per uscire, ma subito dopo aver schiuso la porta tornò a guardare il sedicenne. «Oggi potrei finire più tardi, visto che ieri abbiamo perso due mani nelle gallerie» lo informò, la voce avvizzita dal rammarico. «Cercherò di non tardare e–» ma si zittì appena il ragazzo scosse la testa in muto diniego.
«Preferisco aspettare tutta la notte, piuttosto che lasciarti percorrere quella zona» disse, sperando in un qualche ragionevole compromesso da parte dell’altro.
Ma Yuu non rispose. Sorrise e sparì via.

Sbuffò ancora, il giovane ragazzo, abbandonato contro la porta della drogheria oramai chiusa da un paio di ore; aveva le braccia intrecciate fra loro, strette saldamente al petto, quasi a voler custodire il calore del proprio corpo, tanto anelato dal freddo che lo accerchiava. Fissava la strada dinanzi a lui con sguardo vigile, duro, senza mai posare infedelmente l’attenzione su altri oggetti, visi. Aspettava in silenzio l’attimo in cui il moro sarebbe giunto per quella via buia alla conclusione dell’ennesimo, estenuante turno lavorativo, sfoggiando, solo dopo aver incontrato le sue iridi celesti con le proprie, l’abituale sorriso, largo e soddisfatto, radioso nonostante le fatiche. Sospirò a quel pensiero, a quella visione che danzò nella sua mente, e che cadde subito dopo al peso del timore, sfumando tragicamente come un miraggio. Yuuichiro stava tardando.
Le dita artigliarono la stoffa che avvolgeva le sue braccia, e le contrazioni del cuore acquistarono rapidità. Mikaela temeva che, spinto dalla fretta, il ragazzo avesse ignorato volutamente il suo comando, assecondando il consiglio suggeritogli dal forte desiderio di raggiungerlo – e il biondo lo vide, con gli occhi della mente, camminare in solitudine fra il decadimento e l’ingiustizia di quella zona maledetta, circondato dalla disperazione e dall’invidia –.
«Stupido…» ringhiò il sedicenne. Con una spinta rabbiosa, Mika si scostò dal muro e, deciso a trovare e sgridare il compagno, marciò nell’oscurità viscosa della notte, conscio del percorso che l’altro avrebbe seguito. I pugni chiusi sfioravano il suo corpo ad ogni movenza. I passi divennero falcate e l’urgenza infuse vigore nelle sue gambe, spingendolo a correre verso il giovane, la sola fiaccola che avrebbe sciolto la sua paura. Fantasmi concreti sfilarono intorno a lui, emersi dai loro antri allo spegnersi del sole. Figure smunte seguivano la sua ricerca con occhi lattei, privi di vivido interesse, ma attratti da quella magnetica vitalità che il ragazzo mostrava.
«Perché non mi ascolti…?» chiese Mikaela fra gli ansiti, consapevole dell’impossibilità di ottener risposta. Udì dei passi echeggiare vicini e decelerò. Aspettò, ma subito comprese che quella camminata non appartenesse al corvino - era troppo leggera ed incerta per essere di Yuuichiro, il biondo lo sapeva, ma decise di avvicinarsi, appena l’eco svanì, davanti all’imbocco di un vicolo stretto –.
Lì, notò una bambina affiorare silenziosamente dall’oscurità e scrutarlo con i suoi grandi e indecifrabili occhi scuri, come in attesa di qualche sua parola o gesto, comando. Egli ricambiò l’attenzione con un sorriso impacciato, leggermente turbato da quello sguardo così penetrante e bizzarro per una fanciullina, ma una smorfia di ribrezzo corruppe le labbra di Mika appena si delineò, alla sua vista, il ventre orribilmente gonfio della piccola, in raggelante opposizione al suo fragile corpo acerbo, adagiato stancamente contro il muro di mattoni. Deglutì dinanzi a quella tragica realtà e percepì la collera pizzicargli le mani.
Lentamente, il ragazzo si sfilò la giacca, preferendo tenere lo sguardo basso, lontano dalla giovane sfortunata; si avvicinò di qualche passo e, tendendo le braccia in avanti per non esserle troppo vicino, per non alimentare maggiormente la paura radicata nel suo cuore, porse il misero indumento alla bimba che, stupefatta, sfiorò con la manina.
«Prendila» le disse, ammorbidendo la voce per mitigare il suo animo, e la piccina parve tranquillizzarsi un poco – afferrò la giaccia, che piano scivolò dalle mani del più grande, e l’adagiò sulle proprie spalle come un umile e grande e caldo scialle –. La bambina puntò gli occhi in quelli del giovane, lo fissò a lungo, senza più intimorirlo. E Mikaela vide la sua boccuccia tremare nello sforzo di articolare qualche parola, un ringraziamento per quel dono inatteso che la avrebbe confortata nelle notti a venire.
Le sorrise in gesto di commiato e, voltandosi lentamente, se ne andò via, piano, quasi potesse ferirla con una corsa improvvisa, ma appena si infilò in una seconda via, obbedì al desiderio di incontrare Yuu, affrettando immediatamente l’andatura. E mentre si avvicinava sempre più a lui, pensò alla strigliata che gli avrebbe fatto, senza concedergli il privilegio di difendersi.
Rise.
Sapeva benissimo che quelle parole di rimprovero non avrebbero mai lasciato la sua bocca, increspando l’aria gelida della notte e, soprattutto, infastidendo il giovane mascalzone.
E sapeva per certo che Yuuichiro non avrebbe ascoltato o detto alcunché.
Mai più.
Fu un battito. Fu come un percossa.
Un istante.
Il respiro perì. Il nero delle pupille divorò i frammenti di cielo.
Percepì chiaramente un senso di vuoto germinare in lui, rompergli il cuore e sventrargli il petto.
Le labbra tremarono, un piccolo singhiozzo sgorgò da esse, ma la smorfia di sconcerto si trasformò subito in ringhio sofferente.
Barcollò in avanti, ma cadde miserevolmente a terra.
E ansante, incredulo, guardò avanti a sé: seduto sul lastricato con la schiena mollemente adagiata contro il muro, il ragazzo dalla chioma scura pareva affogato in un torpore abissale, vuoto di sogni e fantasie. Il viso di lui, volto nella direzione del biondo, era rilassato, ma nessun, debole sorriso addolciva la sua sterile espressione. E Mikaela avrebbe preferito credere in un suo improvviso svenimento, in una strana, gravosa stanchezza; avrebbe giurato a qualsivoglia divinità di non infuriarsi mai più con il sedicenne fino all’epilogo della propria esistenza, pur di non accettare la verità, di cancellare quelle orripilanti e livide chiazze che ricoprivano le braccia e le guance morbide del corvino.
La voce uscì fuori dalle sue labbra come suoni confusi, fievoli. Si trascinò in avanti, continuando a guardare quella creatura gentile, ad avvicinarsi a lui con terrore e bisogno – percepì il freddo colpirlo come gocce di pioggia, penetrarlo come terra –.
Si accasciò sulle proprie gambe di fronte al ragazzo; gli cinse le spalle con triste dolcezza, lo accolse nelle sue deboli braccia – un singulto sfuggì alle sue labbra appena il capo di lui crollò docilmente all’indietro, svelando un taglio sulla fronte –. Tremante, avvicinò la mano sinistra al suo viso e sfiorò con i polpastrelli la bocca ferita, schiusa come un candido bocciolo di biancospino, quasi dovesse catturare all’improvviso un sorso d’aria, di vita.
Serrò forte le palpebre, incurante del dolore che gli punse gli occhi, banale se paragonato allo strazio che lo privava del respiro. Inarcò la schiena, e come velo funebre la chioma luminosa precipitò sul viso dell’amato, coprendolo – avrebbe sicuramente riso, Yuuichiro, come le precedenti volte in cui il sedicenne lo catturava in un abbraccio e gli solleticava innocentemente la pelle del viso e del collo con i morbidi capelli, ma fu il silenzio, scosso dai lamenti, a soffiare tra loro, non la sua ilarità –.
«Y-Yuu…» riuscì finalmente a biascicare. Lo strinse maggiormente a sé, e le loro fronti si carezzarono reciprocamente – nessuna vibrazione scaldò il petto dell’altro, abbandonando il cuore di Mika ad un canto solitario –. Cominciò a cullare il suo tesoro, piano, con infinita, straziante delicatezza, quasi potesse lavare via le brutture dal suo corpo moribondo, offeso dalle botte e dai segni delle cinghie dovute al mestiere di portatore, con le cure, il sostegno e il conforto che non poté dargli in quell’istante. «Yuu…!» lo chiamò ancora, e il suo nome si riempì di sofferenza. Singhiozzò, mentre lacrime bollenti trapelavano dai riflessi dell’anima, bagnando le tremuli labbra da cui fuoriuscì un lungo gemito, dapprima lieve, spezzato, ma successivamente più forte.
Lo chiamò, pianse il suo nome, sfiorandogli la guancia con il dorso delle dita. E maledisse quegli esseri immondi, le belve che depredarono Yuu dello spirito, abbagliati da futili motivi.
Chiese aiuto a Dio, Mikaela; lo supplicò di rendergli la vita del ragazzo, la sua unica speranza in quel lurido mondo, incolpandolo allo stesso tempo della sua precoce e crudele dipartita.
Invocò il Diavolo e lo pregò di rompere le catene che trascinarono il giovane verso l’annichilimento, imputandogli la causa di quella stessa sciagura, mossa per invidia nei confronti della loro felicità.
E una risata gutturale echeggiò nelle sue orecchie.
«Vuoi che resusciti Yuuichiro Hyakuya?».

















Sto tremando. Giuro.
Sarà perché mi dispiace per quello che ho fatto a Mikaela e Yuuichiro – e per quello che farò poi –. Non so, davvero.
Parliamo un po’ della storia, veh.
In principio, doveva essere una one-shot, ma visto che stava venendo oscenamente lunga, ho preferito dividerla in due capitoli. In sintesi, sarà una mini-long di due capitoli – con la speranza che non diventino tre, come per un’altra shot trasformata in long –.
L’origine della storia, purtroppo, non posso ancora raccontarvela perché risulterebbe un enorme, indesiderato spoiler.
Spero che sia tutto chiaro e, soprattutto, spero che il capitolo sia piaciuto. Avviso che l’aggiornamento risulterà tardivo a causa degli impegni – i giorni liberi sono davvero pochi, ma sfrutterò anche i minuti e i secondi per continuare –. Aah, quanto vorrei tornare in prima superiore, quando trascorrevo ogni santo pomeriggio a scrivere o a leggere.


Beh… alla prossima :3

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Capitolo 2
*** II – Capitolo Secondo ***












Ouroboros




« I paced around for hours on empty / I jumped at the slightest of sounds / And I couldn't stand the person inside me / I turned all the mirrors around […] And all the kids cried out, / "Please stop, you're scaring me." / I can't help this awful energy / Goddamn right, you should be scared of me / Who is in control? ».

(Halsey, Badlands, Control.)




II




—— † ——




In un’oscurità sottile, pallida, in cui le sagome degli edifici emergevano con più nitore, finalmente spoglie dal drappo di vaghezza e mistero che la notte soleva posare su ogni cosa, si cantava l’avvento della tenera alba che fra pochi, decisivi battiti di tempo, avrebbe faticosamente rischiarato, con i suoi amati e leggeri colori, la coltre di nuvole e fumi velenosi che intorbidava costantemente la volta celeste. Conscio della nascita imminente del giorno, un ragazzo errava nel cerchio più esterno della città industriale: arrancava penosamente per una via desolata, boccheggiando al disperato bisogno d’aria, di sollievo. Ad ogni passo troppo svelto o ad una movenza sbadata, l’addome si irrigidiva e una scossa di dolore gelava il biondo per qualche istante, limitando enormemente i suoi movimenti. Nonostante la strabiliante capacità rigenerativa che lo differenziava dalla sua precedente razza, la pelle era ancora marchiata dalla superba pallottola che, notti addietro, sentenziò la sconfitta del cacciatore, lasciandogli come amaro ricordo la stoltezza e la sete rimasta inappagata.
Il giovane avvertiva il pressante bisogno di lavare via la fiacchezza e l’aridità della propria gola con la linfa dell’ennesimo sventurato, o sarebbe inevitabilmente crollato e la pazzia avrebbe fatto suo il dominio del corpo, sottraendolo alla debole volontà della ragione. Doveva sfamare la belva, obliare temporaneamente la colpa e cercare in ogni angolo del creato lui.
Un albero solitario si delineò alla sua vista fumosa, seguito dall’emergere di un misero frammento di terra, stranamente sfuggito all’evoluzione della città. E lì, vicino a quell’arbusto avvizzito, ingentilito da talune piccole, vivaci foglioline, notò stagliarsi una figura di spalle – era un umano al tenero germogliare della sua breve esistenza, che osservava l’albero di fronte a lui in muta, misteriosa contemplazione, assorto in segreti e pensieri inconoscibili, o perso in una rara bolla di vuotezza interiore –.
Incredulo dinanzi a quell’apparizione, Mikaela sbarrò gli occhi e percepì i battiti del proprio cuore riempirgli le orecchie, zittendo tutti gli altri suoni esterni. Colse immediatamente l’opportunità, scegliendo di sfruttare la disattenzione della preda: con veemenza le balzò addosso e insieme al giovane cadde a terra a causa dell’impetuosità del gesto; premette la mano sulla sua bocca dischiusa, quasi un urlo stesse per formarsi da essa, e lo immobilizzò con il proprio corpo, premendo le ginocchia sulle sue braccia.
Deglutì. Per qualche fugace attimo, egli fissò senza lucida attenzione lo sfortunato, l’anonima figura costretta nella terra umida che lo avrebbe trascinato maggiormente nella dannazione, accrescendo la sua ombra con un nuovo, inevitabile peccato. Accostò la mano al collo teso di lui e godette nel profondo e disprezzato intimo di quelle vivide pulsazioni che gli stuzzicarono impudentemente i sensi – il derelitto non reagì ai tocchi che, leggeri come sbuffi d’aria, vezzeggiarono la sua pelle, alle dita di velluto che lo sfiorarono con lentezza, tremuli carezze mosse da un desiderio recondito, antico quanto la lotta alla vita, quasi avesse amaramente compreso l’inutilità di una sua eventuale ribellione –.
Attratto da quella gola delicata, vergine da qualsiasi ferita o ricordo di violenza, che sussultava appena il giovane deglutiva, il biondo tirò la camicia del miserabile, scoprendogli di più i muscoli piacevolmente irrigiditi dalla paura, ma quando chinò la testa per beneficiare di quella fonte lieta, appena avvertì debolmente il calore dell’epidermide pizzicargli la bocca schiusa, un odore nostalgico ammansì l’istinto, invocando duramente a sé la ragione. Sbarrò gli occhi, e il respiro divenne inspiegabilmente affaticato, irregolare. Liberò la vittima dalla propria stretta, issandosi piano, incerto, ma continuando a torreggiare sul corpo che, lentamente, si volse fra le sue gambe. E Mikaela percepì qualcosa di incredibilmente violento dimenarsi in lui, come un essere dalle grandi e soffici ali che bramava soltanto la volta celeste e la libertà confinata in essa. Studiò il viso del ragazzo immobile sotto di lui, e rimase incantato da quei lineamenti più morbidi, dalla pelle rosata, luminosa, linda dalla polvere del carbone e dalla meschinità dell’animo umano; le gote erano spruzzate di un rosso vivace, sano, dovuto sicuramente al freddo che il maledetto, per qualche bizzarro sortilegio, non percepiva più. Osservò le labbra scarlatte tremare leggermente, incapaci di proferir alcunché, quasi la paura le avesse stuzzicate con un bacio – non vi erano più gonfiori o tagli su di esse, e il sangue non gli sporcava i denti –. E cadendo vittima dell’unione che si istaurò fra loro, intangibile e nostalgica, egli mirò i suoi occhi verdi, scorgendo in essi il ricordo di un’estate particolarmente limpida di una giovinezza lontana, la densa luce del sole che rallegrava la città fuligginosa e l’aria frizzante, capace di portar via l’olezzo dello sfruttamento. Una lacrima si formò vicino ad uno smeraldo, come il sentimento nel cuore umano, e il biondo, esterrefatto, la osservò districarsi dalle ciglia e scivolare lungo la tempia, fino a consumarsi. Altre perle brillarono sul suo viso. L’altro, quasi spaventato da esse, dalle emozioni contenute al loro interno, balzò agilmente all’indietro; abbassò lo sguardo e, confuso, osservò le mani tremare visibilmente.
«Mika…» udì il proprio nome risuonare nuovamente nell’aria dopo tempo imprecisato, un frullio debole ed insicuro, che presto si tramutò in un singhiozzo spezzato – attratto da quella voce malinconica, eco di un’epoca oramai conclusa, egli alzò il capo, desideroso di sentire ancora una volta quella parola capace di affermare la sua esistenza sulla terra –. E quando lo chiamò nuovamente, bagnandosi le labbra di dolore, Mikaela cadde in ginocchio dinanzi a lui in un fruscio di vesti, scoprendosi incredibilmente leggero, libero dalla sete – un pianto silenzioso sgorgò dalle gemme sanguigne, rese lucide da una sensazione di felicità, rara e impressionante e magnifica, taciuta in lui fino a quell’istante –.
Il giovane, rannicchiandosi in sé stesso, indifeso come un povero animale, si cinse il torace con le braccia e strinse queste ultime nelle mani, spaventato dall’impetuosità di ciò che sentiva – il desiderio di abbracciare lo sconosciuto, il pensiero greve e dissennato di rivolgergli una piccola, straziante preghiera –. Proferì tremante il nome rimasto sopito in lui fino al loro brutale incontro, ripeté di nuovo quella semplice parola, due volte e un’altra ancora, riempendo ogni sillaba e silenzio di incomprensibile mestizia, ferendo il cacciatore con il pianto amaro della propria anima. Quest’ultimo si strinse in un abbraccio freddo e inarcò la schiena, serrando gli occhi in un disperato tentativo di controllarsi, di trattenere le emozioni; si morse il labbro, sigillando la voce con il sangue, ma essa fluì via, amalgamata in un lamento. «Yuu…» gemette, e l’altro, colto il mormorio sofferente, nascose il viso e lo stupore contro le ginocchia. Restò in silenzio, obbligando sé stesso di calmarsi, di spegnere i singulti con lunghi respiri; strofinò più volte la fronte sulla stoffa ruvida dei pantaloni, quasi potesse cancellare la paura con quel gesto sciocco, per poi sollevare la testa e posarla sulle ginocchia. «Scusa…» soffiò, placando la misteriosa volontà che sbraitava nella mente per essere accontentata. «Perdonami…» proseguì, fissando il ragazzo dinanzi a lui che, sbigottito dalle sue inaspettate parole, alzò il capo.
Il corvino sospirò, affranto. «Sto impazzendo» decretò in un soffio, ondulando le sillabe con una leggera, fragile risata. «Mi hai aggredito, e malgrado ciò…» espirò ancora e avvicinò maggiormente le gambe al petto. «Io non riesco a detestarti, a dirti: “Ti odio” …» notò l’altro sussultare alla sua affermazione, abbassare leggermente la testa, nascondendo dietro qualche ciocca preziosa il timore derivato da tale possibilità.
«…Tu sai la motivazione» dichiarò il giovane con fermezza, sciogliendo il corpo da quella posa e toccando la dura terra con un ginocchio, pronto a dover scattare, fra un secondo e un palpito, verso l’estraneo, rovesciando così i ruoli di predatore e vittima.
«Raccontami ogni cosa» sentenziò, aggrottando la fronte per acquisire un alone di severità. Si avvicinò a lui, strisciando piano sul terreno farinoso, senza posare l’attenzione su oggetti differenti dal biondo, che rimase immobile dinanzi al suo avanzamento.
«Dimmi la verità» gli disse, e la voce s’ammorbidì lievemente; allungò le braccia verso di lui, lo afferrò per le spalle, le quali persero rigidità sotto il suo tocco vigoroso, e l’altro fu spogliato di qualsiasi energia, divenendo incapace di ribellarsi. Egli si ritrovò limitato fra la presa del ragazzo, intrisa della sua medesima forza sovrannaturale, e gli occhi smeraldini in cui i ricordi sembravano trovar dimora sicura – percepì fremere le proprie mani, vogliose di scivolare lungo la sua schiena, così da unire i loro corpi in un abbraccio sofferto, ma inghiottì saliva e desiderio, preferendo trattenersi –. E Mika parlò: gli raccontò la sua storia, descrisse le loro vite dai toni scuri eppure felici, le bravate fatte da bambini e le paure fronteggiate insieme, quando la realtà strappò loro la spensieratezza, caratteristica della puerizia. E mentre raccontava, percepì un velo di commovente, nostalgico tepore circondarlo teneramente come la stretta di qualche persona cara – gli abbracci di Yuuichiro – e le ombre delle emozioni trapassate riaffiorarono nel petto e serpeggiarono in lui facendo fremere le membra. Gli occhi socchiusi, lucidi di reminiscenze, presero a bruciare un po’, pizzicati dalle lacrime che, gravide di sentimenti, di gioia, erano smaniose di uscire. Tuttavia, la narrazione non lambì, nel suo scorrere, nemmeno il più vago abbozzo alla sua condanna, né si addolcì della raffigurazione del loro amore. Descrisse l’ultimo giorno e la notte in cui il mondo privò entrambi di qualcosa – della vita e della felicità –. Accennò ad una creatura misteriosa, la quale ascoltò il suo pianto e gli offrì aiuto, soddisfacendo il suo desiderio.
Il moro colse avidamente ogni parola, i piccoli sorrisi che guizzavano sulle pallide labbra, l’espressione che oscillava fra serenità e sconforto – la presa sulle spalle di lui si indebolì pian piano, finché i palmi non scivolarono adagio lungo i suoi arti, oltre i gomiti, indugiando sugli avambracci rilassati, abbandonati sulle cosce –. Egli credette al racconto, cogliendo la verità intessuta in esso senza alcuna perplessità, spinto da una bizzarra fiducia. E lo straniero, in cuor suo, si svestì della parvenza feroce, colorandosi di timida gentilezza.
«E… ti ho trovato» concluse, socchiudendo le palpebre. Si sollevò lentamente da terra, facendo scorrere le mani di lui sugli avambracci e stringendole teneramente nelle proprie, per poi lasciarle cascare dopo appena qualche battito. «Scusa per ciò che ho fatto» e puntò lo sguardo di lato, dispiaciuto da tale azione.
Il giovane si alzò impetuoso e gesticolò una negazione con le mani. «Va tutto bene!» urlò quasi, attirando nuovamente a sé l’attenzione del biondo. «Non mi hai riconosciuto, quindi… certo, non dovresti aggredire la gente, però… tranquillo!» cercò di rasserenarlo, dandosi intimamente dello stupido per le sciocchezze dette. Eppure, Mikaela accennò una tenue e imbarazzata risata, conquistato dalle sue parole, e sul volto esangue brillò un sorriso ampio, felice, che seppe carpire con facilità il respiro a colui che lo fissò, stupito.
«A-ah… ecco…» barbugliò qualcosa, scompigliandosi un poco le ciocche scure; sollevò il capo e sbarrò gli occhi appena notò la volta colorarsi di pallide sfumature rosate. «È l’alba!» gridò sconvolto, portandosi entrambe le mani alla testa, e il secondo lo fissò meravigliato. «I miei genitori scopriranno la mia assenza!».
«… Sei uscito di nascosto?» e inclinò il capo.
«Beh, sì… non riuscivo a dormire e alla fine sono sgusciato via di casa».
«Sei scemo?» gli chiese il più grande d’impulso, ottenendo un’espressione sbalordita e un piccolo arretramento come risposta. «È pericoloso!».
«E cosa dovevo fare?».
«Rimanere nel tuo letto!» lo sgridò, aggrottando le sopracciglia, ma si stupì subito dopo della propria reazione, della replica del ragazzo e della sua caratteristica infantilità – si coprì il volto con la mano, celando il leggero tremore che gli incurvò le labbra all’ingiù –.
«Devo scappare… Mika» lo sentì mormorare, conferendo al suo nome importanza e un retrogusto amaro; con orrore lo vide accennare qualche passo all’indietro, allontanandosi sempre più da lui con la testa bassa.
«Aspetta!» lo pregò, il tono acuto, pregno dell’inquietudine che si dimenava e contraeva nel petto; inconsciamente, egli sollevò il braccio nella sua direzione, la mano galleggiò e artigliò con angoscia il vuoto fra loro, e quando l’umano lo guardò, soddisfacendo la sua richiesta, l’immagine di Yuuichiro, sorridente vicino l’uscio della bottega, si sovrappose su quella del moro per un attimo che, nella cognizione del biondo, si dilatò in infinito, mescolando la realtà con la reminiscenza dei loro ultimi momenti. Accortosi del suo smarrimento, il giovane si avvicinò a lui. «Tutto bene?» lo richiamò, preoccupato del suo silenzio.
«… Sì» e scosse energicamente il capo. «Come ti chiami?» domandò, conscio della certezza che l’essere dinanzi a lui, seppur indistinguibile nell’aspetto esteriore dal suo tesoro, fosse protagonista di una vita differente, costellata da persone e avvenimenti diversi.
«Come, non lo sai?» lo punzecchiò, ridendo dell’occhiataccia che lo colpì. «Dove abiti?» gli rispose con un’ulteriore domanda, e l’altro sbuffò, farfugliando qualcosa sul suo dispotismo.
«C’è una chiesa, poco distante dal perimetro della città» lo soddisfò, incrociando le braccia. «Sembra essere abbandonata da tempo, quindi non creerò seccature a nessun prete».
«E sei sempre lì?».
«Come ti chiami?» ripeté invece, imitando il suo trucco. Il ragazzo mise su un piccolo broncio, ma poi scosse il capo, divertito; sorrise e, articolando ogni sillaba con placida euforia, gli rispose, per poi fuggire via da quel piccolo elisio, sigillando con la voce la promessa di un loro prossimo incontro per la giornata seguente.
Rimase solo nel silenzio, Mikaela, mentre quel nome – Yuuichiro Hyakuya – si ripeteva caotico nella mente. E per un attimo, gli parve di sentire la risata limpida dell’artefice di tutto graffiargli la schiena con gorgoglii aggraziati.

Affilando la vista, il corvino ispezionò l’orizzonte e la pianura in cui errava tristemente da troppo tempo, vuota di qualsiasi edificio o ricordo d’esistenza; sbuffò, rimproverandosi di non aver chiesto, il giorno scorso, maggior precisazioni a quella misteriosa persona, dimostrando la propria superficialità che, in quegli attimi, stava deteriorando l’occasione di rimanere il più possibile con lui – con Mika –, soddisfacendo così la voglia di stargli accanto. Dai racconti dei suoi genitori, il sedicenne sapeva che, a sud e ad est della città, si ergevano i resti di un vecchio insediamento, di quando la gente viveva ancora in comunione con la natura. Durante la ricerca, egli era riuscito a trovare le povere ossa di quelle che furono le abitazioni, ma la santa casa non pareva sorgere fra quelle ombre. Cominciò a correre verso oriente, premendo contro l’addome un tenero fagotto, avvolto in un panno di ruvida tela. Chinò la testa e, osservando senza reale interesse le nuvole di fili d’erba mietute dalle celeri falcate, si interrogò, incerto su quale scelta seguire, se lasciare inappagata la voglia di conoscenza, oppure invitare l’altro a rievocare nuovamente la memoria, descrivendo il tempo condiviso insieme o il secolo taciuto, un sentiero bianco che batté alla sua ricerca, snodato tra follia e rinuncia.
Notò le corolle di qualche piccolo fiore screziare di bianco il verde del prato e alzò il capo; sorrise raggiante appena una robusta struttura lo incitò ad affrettarsi, ma egli decelerò fino ad arrestarsi, nonostante la contentezza lo spronasse a correre. Si avvicinò alla chiesa con soffice passo, attento a generare il minor rumore possibile – voleva fargli una sorpresa, cogliere il ragazzo alle spalle o addirittura spaventarlo con strani versi –. E mentre si divertiva ad immaginare varie sue reazioni, Yuuichiro lo scorse poco distante dalla chiesa, disteso serenamente sul tappeto naturale: il corpo era rilassato, come vinto dal sonno ammaliatore, e le onde verdi del campo lo abbracciavano teneramente, addolcendo con affetto il suo riposo. Si fermò ad ammirarlo, percorrendo la sua figura lentamente, soffermandosi sul viso smunto, sugli occhi che, seppur celati dietro le palpebre, erano per certo rivolti al cielo plumbeo – stranamente, il giovane lo accomunò al sole, sprofondato sulla terra per un motivo a lui ignoto –. Gli scherzi e la voglia di sorprenderlo colarono via dalle sue mani e, sorridendo, l’umano falciò la poca distanza che fluiva tra loro; si accostò a lui, i piedi vicino al capo attorniato da margherite, e osservò il suo volto e la piega delicata che gli arricciò inaspettatamente le labbra.
«Infine, sei venuto davvero» soffiò e schiuse le palpebre, ricambiando lo sguardo dell’altro.
«I giuramenti sono importanti» gli rispose, noncurante del dubbio appena espresso; indietreggiò lievemente, permettendo così al giovane dalla chioma aurea di issarsi, abbandonando la posa comoda.
«Ti ho portato questo» e gli lanciò il pacco, afferrato immediatamente dal secondo.
«Cos’è?» domandò lui, ma il corvino rispose con un cenno del mento, chiara esortazione ad aprire il dono.
Egli ubbidì: tirò piano lo spago e disfò l’involucro, spinto, oltre che dall’incitamento del moro, anche da una lieve curiosità; si stupì nel vedere una camicia lattea e un paio di calzoni marroni, entrambi piegati malamente.
«Ho notato il sangue raggrumato sui tuoi indumenti, perciò… ti ho portato qualcosa di mio» si giustificò subito il sedicenne, massaggiandosi nervosamente la nuca.
Mikaela strinse i vestiti tra le mani, il frutto materiale delle riflessioni e dell’interesse di Yuuichiro rivolti a lui; studiò la trama spessa e ne assaporò la consistenza con le dita, immaginandola un poco ruvida sotto la stoffa dei propri guanti. «Io…».
«Non si accettano restituzioni» sentenziò subito il giovane, spegnendo ogni eventuale ribellione o lamentela, e il più grande non poté che sbuffare.
«E va bene» cedette, volgendo nuovamente l’attenzione al vecchio compagno. «Grazie» gli disse, accennando un amabile e pacato sorriso in segno di riconoscenza – il più piccolo diresse lo sguardo alla sua sinistra, lontano dall’altro, dai suoi occhi dolcemente socchiusi, velati da una misteriosa stanchezza –.
Richiamato dai sussurri dell’erba, Yuu notò la figura di lui incedere verso la chiesa.
«Dove vai?» gli chiese, seguendolo con lo sguardo.
«Al pozzo» rispose il maledetto, per poi svanire dietro l’edificio in pietra.
Il moro lo inseguì all’istante e lo trovò vicino alla costruzione citata ad armeggiare con i lacci della cappa, che presto crollò sul terreno in un fruscio basso.
«Cosa fai?» proseguì con gli interrogativi, e l’altro sfilò l’indumento superiore, abbandonando anch’esso sull’erba.
«Mi lavo» spiegò brevemente, adagiando il regalo su uno dei secchi riversati adiacenti all’anello in pietra.
«Oh» rispose, ponendo fine al dialogo. L’osservò calare il recipiente nel baratro per raccogliere l’acqua e poi trascinarlo nuovamente in superficie, i muscoli gonfi e contratti per l’azione; quando il più grande si gettò il contenuto addosso e imprecò sottovoce per il freddo, il sedicenne non riuscì a contenersi e sghignazzò, indifferente all’occhiataccia torva che gli arrivò. «Ti prenderai un malanno!» singhiozzò, ma il secondo gli rispose con un sbuffo e proseguì, alimentando la sua risata.
Tuttavia, l’ilarità si spense come la luna in cielo: egli notò una screziatura nivea risaltare sulla pelle dell’addome, teso a causa delle gelide carezze dell’acqua, e Yuuichiro, avvertendo l’amarezza lambirgli il palato, constatò che la rosa sanguigna impressa sull’indumento del ragazzo e la porzione del ventre coincidessero esattamente – pregò un’identità sconosciuta di soffiare via il dolore dal cuore del giovane, regalandogli l’adorata tranquillità che lui, ne era certo, non sarebbe riuscito a seminare nel suo animo afflitto –. Mikaela indossò la camicia, e la smorfia e la cicatrice scomparvero alla vista. Il biondo, accortosi dello sguardo puntato su di sé, si girò completamente verso il corvino. «Cosa c’è?» chiese, inclinando appena la testa; improvvisò un volteggio su sé stesso e, alzando le braccia, gli domandò scherzosamente: «Sto male?».
L’interpellato, meravigliato da tale richiesta, gonfiò un poco le guance, tentando di sopprimere una risata, ciò nonostante, essa traboccò lieta e pulita da qualsiasi triste dissonanza. «Oh, ma sta’ zitto!» e la voce scoppiettò nuovamente d’ilarità.
«Sì, sì, va bene» sbuffò lui, celando, dietro il tono offeso, il diletto che percepiva. «Piuttosto!» aggiunse, e disegnò un cerchio nell’aria con l’indice. «Voltati».
«Perché?» chiese, dubbioso sulla motivazione dell’ordine e sull’esito della sua ubbidienza. «Cosa vorresti fare?».
«Cambiarmi i pantaloni» affermò lui con disinteresse, allacciando le braccia. L’altro sbarrò gli occhi e cominciò a farfugliare suoni vaghi e privi di senno.
«In fondo, me li hai portati tu».
Yuuichiro irrigidì le spalle. «A-ah…» e chinò la testa. Si girò e si sedette a terra, studiando con puntiglioso interesse i numerosi fili d’erba e le fragili margherite. Mikaela sorrise. «Grazie».
Il sedicenne gli rispose con un mugolio gutturale, tremante; incrociò le gambe e poggiò le braccia su di esse, incurvando leggermente il fisico, quasi a volersi nascondere. Sentì il cigolio della carriola, lo sciacquio dell’acqua e sperò nell’assenza di altre ferite sul corpo del biondo. Socchiuse gli occhi.
«Ehi, Mika…» lo chiamò, la voce così debole da esser sovrastata dal mormorio delle vesti. «Posso chiederti una cosa?» aggiunse, una supplica abbigliata da innocente curiosità; attese la sentenza del ragazzo e sperò gli concedesse di formulare perlomeno la domanda.
«Sì» giunse al suo orecchio come nota dolcissima, e il corvino sorrise. Stette in silenzio per qualche istante, soppesando scrupolosamente i termini da impiegare, mentre il canto dell’acqua riempiva l’aria, ma con un sospiro dolente, egli si abbandonò all’improvvisazione. «Ho… questa vaga idea» cominciò, afferrando un sassolino dal terreno. Indugiò appena, perplesso delle proprie sensazioni, tuttavia infine proferì: «I tuoi occhi… sono sempre stati di quel colore?».
Udì un rumore secco – forse, il secchio appoggiato sulle pietre del pozzo – e si rammaricò all’istante della domanda fattagli. Ostentò una risata allegra, intorpidita, però, da un’eco di mestizia. «Certo che li hai sempre avuti!» affermò con voce alta, sollevando lo sguardo al cielo, quasi a implorare soccorso. «Non si trasformano per caso!» e proseguì a fingersi divertito, a sopprimere quella bizzarra impressione che lo turbava. Sentì l’altro avvicinarsi a lui e serrò le mani intorno ai polpacci, timoroso della sua risposta o reazione, ma il mondo parve scomparire in pochi attimi, e Yuuichiro si ritrovò il mantello del più grande su di sé.
Mikaela si sedette al suo fianco e guardò di fronte a sé senza alcun vero interesse; semplicemente, attese che il sedicenne si levasse la cappa da sopra con l’animo sereno e la mente libera. «Non devi andare a scuola?» gli chiese ad un tratto, puntando lo sguardo sulla buffa creatura mascherata, che sbatacchiò il capo da sinistra a destra.
«Sono troppo grande per andarci» ribatté, la voce smorzata dalla trama pesante dell’indumento. «Lavoro in una fabbrica di cotone» e l’essere scomparve, mostrando un principino sorridente. «Sai com’è, senza denaro si rischia la galera».
Il maledetto borbottò un consenso, e il duo gettò gli sguardi lontano, verso il panorama o un luogo migliore, una realtà più benevola di quella concreta.
«Domani tornerò a farti visita» giurò all’improvviso, ma, voltandosi verso di lui, Yuu non vide alcun sorriso ondulargli le labbra pallide – c’era angoscia, in quelle ampolle colme di violente sensazioni, e la stanchezza sembrò gravare maggiormente sulle spalle curve, esauste –.
Il sedicenne tentennò, incapace di rivolgergli domande o parole care, di conforto. Si alzò e, indietreggiando di qualche passo, scrutò la sua sagoma, il capo alto, orientato verso la cupola celeste, e non verso la florida pianura relegata nelle proprie iridi.
«Ci rivedremo» soffiò. Lo vide sussultare, trafitto dalle sue docili, ottimistiche parole, ma egli non si volse, sospirò stancamente.
«Senz'altro…» asserì poi il biondo.
E Yuuichiro lo lasciò lì, accerchiato dal candore dei fiori, giurando a sé stesso di indagare sulle verità inespresse.

Inchiodato in un vecchio podere, dove le cicatrici arrecate dalle zappe degli agricoltori segnavano ancora la terra, un piccolo lavoratore fissava con meticolosa, irrequieta attenzione ogni curva, sfumatura o mutamento dello scenario attorno, sperando di cogliere, fra la luce e l’ombra, la concretizzazione del suo desiderio.
«Ti prego, ti prego…» sussurrava più volte il giovane, parole deboli, ripetute, celeri come i suoi respiri graffianti. Scuotendo il capo, egli si ribellò al prosciugarsi del tempo e ai richiami del dovere che parevano levarsi direttamente dalla fabbrica. Serrò i pugni.
Non c’era, né in mezzo al campo, né accanto al pozzo.
L’aveva aspettato nella santa dimora, nel mare d’erba e fiori, l’aveva cercato nella città dimenticata e nel boschetto vicino finché la consapevolezza di dover lasciare il posto non rintoccò lugubremente in lui – aspettativa e ricerca si alternavano con dolorosa rapidità come nell’agitarsi di un’anima dannata –. Ai suoi richiami, alle minacce e ai compromessi giurati, alle grida e alle preghiere bisbigliate, egli udiva soltanto la risposta aspra e ruvida del vento, il quale gli carezzava piano le guance rosse a causa della fatica, marcando con il freddo le scie delle lacrime che il sedicenne non s’accorse di aver perduto.
Non c’era, la sua figura non brillava in nessun luogo.
Immerse le dita nella chioma di pece, artigliò le ciocche con forza, graffiandosi appena la tenera pelle; digrignò i denti e cercò disperatamente i colori di lui macchiare il prato, le mura o il filo che scomponeva il mondo in cielo e terra.
Non c’era, e Yuuichiro negò quella raccapricciante, orribile eventualità – perché un miraggio sarebbe svanito all'istante sotto il tocco più gentile o a causa dell’eccessiva vicinanza; perché un sogno non avrebbe mai potuto germogliare e aprirsi con tale splendore e tangibilità al chiarore vero del sole –.
Eppure, Mikaela era scomparso nell’alternarsi di un dì con la notte in una bolla di silenzio, come una stella in rovina dalla sfera celeste.

















Ansia da secondo capitolo, aiuto.
Ok, ok. Prima di uccidermi o lanciarmi parole acerrime, vorrei spiegare qualcosa – o tentare, almeno –.
Scusate per l’enorme ritardo, ma posso giurare di aver usato ogni attimo libero, davvero – ho anche rubato del tempo ai vari impegni pur di spicciarmi –. Mi dispiace cAc
Quindi… ecco la seconda parte che doveva chiudere la mini-long, ma, ehi, le cose si sono dilatate talmente tanto da esigere un terzo capitolo. E anche un quarto.
Sapete che vi voglio bene? Eh, “non sembra”? ... Oh.
Sì, gente, ci saranno altri due, due, capitoli… e prometto fluff! Davvero!
Ringrazio tutti voi per aver letto, aggiunto nelle varie categorie e lasciato un commento. Siete favolosi.
Per le epoche storiche in cui si ambientano le varie vicende… ho lasciato degli indizi sparsi, ma alla fine si capirà con più nitidezza.
Sparisco che è tardi, meh. Prometto nuovamente di sfruttare ogni momento di libertà… però, visti gli impegni sempre più importanti, fino alla fine di giugno dovrò concentrarmi unicamente sulla priorità massima – tecnicamente anche a luglio e agosto, visto che l’ultimo esame l’avrò agli inizi di settembre, ma cercherò di sbrigarmi –. Il terzo capitolo è già avviato, poi.

Al prossimo, sofferto aggiornamento,

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Capitolo 3
*** III – Capitolo Terzo ***












Ouroboros




« La profezia è sempre lì, torbida come acqua che ristagna nel buio. Di solito si nasconde in qualche luogo sconosciuto. Ma arriva un momento in cui cresce silenziosamente e trabocca, invadendo con il suo freddo ogni tua cellula, e in questa crudele inondazione annaspi e affoghi. […] Quando cerchi una voce, trovi solo un silenzio profondo. Ma quando cerchi silenzio, ecco la voce incessante di una profezia, una voce che a volte preme quella specie di interruttore segreto nascosto da qualche parte nella tua mente. […] È lì, come un ingranaggio sepolto dentro di te. ».

(Murakami Haruki, Kafka sulla spiaggia, CAPITOLO PRIMO.)




III




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Lo aveva cercato per tre, pallide albe, intraprendendo quella lunga e dolorosa via che collegava la nuova città industriale alle vecchie, lontane abitazioni, ripetendo nell’intimo del proprio animo le solite, due parole: ti prego. Come una bestia dannata, egli aveva errato per la campagna che ospitava in sé i ruderi, calpestando quella terra indurita dal gelo notturno. Si era addentrato nella ghirlanda d’alberi che cingeva la chiesa e aveva scrutato la penombra in cui la vegetazione era immersa col desiderio di intravedere una sagoma familiare – bizzarro considerarla tale, nonostante il poco tempo condiviso – in quel piccolo luogo, come uno spirito della natura. E, angosciato, rimaneva infine nel prato screziato di bianco, il corpo rigido e gli occhi levati alla volta mutevole, per poi abbandonare la ricerca con il proposito di far ritorno.
Lo aveva cercato per tre, timide albe, e alla nascita del quarto giorno, Yuuichiro lo scoprì nella realtà non onirica, ma in quella materiale, e i dubbi che lo afflissero fino a quel momento appassirono come fiori d’alchechengi. Lo trovò nel silenzio dell’unica, ampia navata del sacro tempio, mollemente adagiato su una panca a pregar ristoro. Nastri di fioca luce bagnavano la sua figura, tingendogli scherzosamente le vesti e la chioma dei colori del rosone da cui erano discesi, sciogliendo appena il buio fumoso che lo accerchiava.
Il giovane si avvicinò, facendo tremare l’aria e la pace del santuario con l’eco secco dei suoi passi, prodotti nonostante l’attenzione con cui muoveva lentamente il proprio corpo per non destare il compagno di una vita obliata, che fissò con espressione dapprima incredula, poi sollevata e lieta – nessun interrogativo su cosa dirgli o chiedergli ronzò fastidiosamente nella sua coscienza, neppure parole di gioia –. Entrò anche lui nel disco luminoso e si accostò al banco, ma non si sedette. Semplicemente, lo guardò: i suoi occhi, che immaginava celati dietro le palpebre per volere di Ipno, erano languidamente socchiusi, stanchi come le membra del suo essere, e melanconici luccicavano dei bagliori dell’apertura invetriata verso cui erano rivolti; un genuino e roseo colore gli aggraziava il viso, non più vinto, come giorni addietro, dal pallore di una misteriosa, perenne fiacchezza.
Mikaela volse la testa e lo fissò, incastonando i suoi occhi, che del paradiso non conservavano più nulla, in quelli del sedicenne, leggermente dilatati; gli sorrise bonario, felice di essere nuovamente al suo fianco come un secolo precedente, ma la gentile e debole curvatura della bocca mostrò anche l’angoscia del suo animo.
Il corvino osservò lo spazio vuoto accanto al secondo, ma preferì stare ritto in piedi, così da cogliere ogni sua movenza o gesto, seppur l’istinto gli sussurrasse di sedersi lì, vicino a lui, di consolarlo e stringerlo a sé.
«Cos’è accaduto?» gli domandò con voce modulata, leggera, sperando di non apparire rude o stizzito, ma quest’ultimo stette muto nella propria inquietudine – lo vide serrare con veemenza le mani ed abbassare il capo per sfuggire all’interrogativo, a lui, e questo lo addolorò –.
«Rispondi» insistette allora, arcuando leggermente la schiena in avanti. «Mika».
«Nulla» rispose tenuamente; udì il più giovane chiamarlo ancora, e benché il tono giunse inasprito dalla vuota risposta, il maledetto colse nella voce un leggero, mal celato turbamento – delusione, forse, sconforto per la manchevole fiducia che, forse, il moro stava leggendo nel suo comportamento –. Levò il capo, Mikaela, e rabbrividì appena scorse delle stelle contornare i suoi occhi di giada; soffiò il suo nome, protese la mano verso la sua, amareggiato da quelle lacrime da lui provocate, ma l’altro indietreggiò, penetrando nel velo d’oscurità della chiesa.
«Dove sei stato?!» gridò, irrigidendo le spalle, il corpo intero. «Ti ho cercato ovunque per tre, dannati giorni, vedendo ombre di te in ogni dove a causa dell’ansia!».
Il biondo si alzò, ma il secondo arretrò nuovamente, intimandolo in silenzio di non avvicinarsi.
«Ho temuto davvero in qualche stregoneria» proseguì, e scie luminose apparvero sulle sue gote. «Ero spaventato…» la voce avvizzì al peso di un singulto orgogliosamente trattenuto. «Ero terrorizzato dall’idea che i nostri incontri fossero stati soltanto un miraggio».
Il vampiro accennò un passo, e quando l’altro non reagì per mantenere immutata la distanza fra loro, egli procedette, arrestandosi al limitare del cerchio di luce variopinta.
«Perché sei sparito?» gli chiese, il tono duro, severo come lo era il suo sguardo.
Il ragazzo sospirò; socchiuse le palpebre e soppesò le due scelte che poteva intraprendere, udendo chiaramente i celeri colpi del proprio cuore e i leggeri singhiozzi del sedicenne. Infine, egli rispose mestamente: «Non posso dirtelo».
Il giovane digrignò i denti. «Non mentire!» replicò aspro, avanzando verso di lui.
«Yuu –».
«Tu non vuoi, invece!» lo zittì. «Preferisci nascondermi tutto!».
«È vero! Hai ragione!» rivelò il più grande, pentendosene l’attimo successivo.
E Yuuichiro andò via senza dir nulla, come niente proferì Mikaela al venir abbandonato.

Dì e notti si susseguirono come note, fino a confluire in un’ebdomada bigia ed oltremodo lunga per l’animo umano. Il cielo si era rifugiato dietro una manto cinereo di nuvole, e i dardi del sole giungevano pallidi e freddi sulla terra. Da quell’incontro, sette interi giorni erano periti, trascinando via le riflessioni di un giovanissimo lavoratore – il quale, invece di prestare la dovuta attenzione al proprio compito, riavvolgeva la memoria su di un preciso ricordo – e i tristi pensieri di un derelitto – amareggiato dalle sue stesse azioni e dall’assenza dell’amore estinto decenni fa –.
Poco prima dell’ennesimo arrivederci della luna, il sedicenne uscì di casa, cercando di non lasciar dietro alcun rumore, e si avviò verso una destinazione specifica. Oltrepassò la città intera, percorse una via solitaria fino ad addentrarsi nella campagna desolata. E al termine del suo cammino, il giovane scorse una figura sulla copertura in tegole della chiesa: era il biondo, seduto in cima senza alcun timore, a rimirare un fiore dalla corolla un po’ avvizzita – era un ciclamino, i cui petali conservavano ancora rosee e bianche sfumature –; successivamente, però, egli s’alzò, aprì la mano, e lo stelo precipitò dalle sue dita. Anche il ragazzo cadde sotto gli occhi dell’altro, che pietrificato lo osservò atterrare e risollevarsi senza affanno, per poi rivolgergli lo sguardo.
«Sei tornato…» mormorò, flebile come il tocco di una brezza, ed accennò qualche passo nella sua direzione. «Tu sei –».
«Perché diamine sei saltato!?» sbottò il sedicenne, interrompendolo.
Mikaela lo fissò, stupito dalla sua reazione e dal fatto che le prime parole che sentì pronunciare da lui fossero state quelle, e non un saluto che desiderava ricevere, anche distaccato – gli sfuggì una risata contenuta, ma radiosa, che placò l’animo del secondo, spirando nel suo petto un po’ di serenità –.
«Scusa» rispose allora il più grande, senza celare il meraviglioso sorriso che gli arricciò le labbra.
«Scemo» lo pizzicò, ma il viso si rabbuiò l’attimo dopo. «Devo dirti una cosa» rivelò il moro e, avvicinatosi a lui, si sedette fra l’erba, vicino al muro dell’edificio, e l’altro lo imitò.
Yuuichiro fletté la gamba destra e posò il braccio sul ginocchio. «Confesso di essere stato rude e scortese, quel giorno» ammise; guardò il ragazzo e abbozzò un timido sorriso. «Io non posso obbligarti a rivelare ciò che preferisci tenere nascosto, tuttavia…» tentennò al fiorir della reminiscenza nella mente e, abbassando il capo, socchiuse gli occhi. «Alla visione del tuo sguardo così avvilito… ho voluto scoprire cosa fosse successo per trovare al meglio una soluzione». Il corvino mantenne la testa china; si sentì stupido per ciò che gli aveva appena detto – l’ingenuo desiderio di soccorrerlo, fino ad annullare ogni sua pena –. «Sappi che sarò lieto di ascoltarti» aggiunse poi con un sorriso sì ampio, ma fragile, poiché si incrinò quando, sollevato lo sguardo, notò Mikaela affondare il viso tra l’incavo delle braccia allacciate sulle ginocchia. Allungò timidamente la mano verso di lui, lo chiamò, preoccupato dalla sua reazione, ma il derelitto non si mosse neppure al dispiacere che si amalgamò al suono del proprio nome.
Soltanto, sospirò, e con fioca voce rivelò: «Pensavo che sarebbero svaniti, appena ti avessi ritrovato».
Il giovane scivolò morbidamente sull’erba e si inginocchiò al suo fianco. «Cosa?».
«Il dolore» egli rispose. «E il fardello della colpa».
Nessuno fiatò, né per domandare chiarimenti, né per proseguire, raccontando senza veli la storia tutta. Delicatamente, Yuuichiro scostò una ciocca aurea dal viso del ragazzo, divenuto nuovamente esangue come la notte in cui lo aveva conosciuto – no, ritrovato, le sensazioni apparivano ancora ingarbugliate e confuse –.
«Guardami» soffiò dunque, ma non giunse alcuna risposta. Ed egli lo circondò con le braccia, lo condusse verso di sé e lo strinse con delicatezza, posando il mento sulla sua testa – il vampiro sgranò gli occhi a tale gesto e in esso avvertì il nostalgico e commovente senso di protezione infusegli dalle tenerezze di quel giovane, quando era ancora umano e il tempo si dipanava in lui come in ogni essere vivente –. «Non devi temere il passato» mormorò affabile, inspiegabilmente lieto di sentire il tepore e la presenza del suo corpo fra le proprie braccia. «Mi hai ritrovato, oramai. È tutto finito».
Mikaela sussultò alle sue ultime parole, che nella loro semplicità riuscirono a sconvolgerlo. Strinse forte le palpebre e si morse il labbro inferiore, arcuato tristemente all’ingiù; cercò di acquietare il proprio animo ascoltando il suono rassicurante proveniente dal petto di lui e, infine, cedette con docilità a quella visione fiduciosa, che un’elegante risata, sfuggita dal baratro della memoria, sbeffeggiò crudelmente.
Lo aveva cercato per tre, ansiose albe; l’aveva ritrovato il giorno seguente, in un velo di raggi policromi, per poi abbandonarlo l’attimo successivo. E una settimana dopo, stringendolo fra le proprie braccia nel freddo mattinale, Yuuichiro fece un giuramento, libero dalla vergogna o dall’esitazione: gli promise con voce inudibile, così fievole da parer il fruscio delle dita fra il crine dorato di lui, che lo avrebbe sostenuto in ogni attimo di incertezza od angoscia con idiozie, racconti quotidiani, addirittura favole, pur di infondergli vigore e pace. Sempre.

«Sai, i miei genitori hanno scoperto le mie evasioni mattutine».
Richiamato dalla sua voce, morbida ed ovattata, serena come l’atmosfera in cui stavano placidamente annegando, Mikaela rivolse lo sguardo al ragazzo seduto alla sua sinistra, che nel mentre fendeva l’erba tra loro con il palmo della mano, affascinato da quelle soffici carezze e dai colori limpidi che nella città parevano oramai estinti – e nuovamente, come spesso capitava quando era al suo fianco, il biondo si smarrì nella contemplazione della sua espressione, della veridicità di quel viso che per decadi custodì gelosamente nella memoria –. «Cos’è successo?» chiese, e il corpo si tese istintivamente verso il moro, avvicinandosi appena in un fruscio vellutato d’erba.
«Beh…» cominciò, sfiorando la candida corolla di una margherita. «Mia madre ha esatto delle spiegazioni».
«Per questo sei giunto più tardi, stamani… giusto?» chiese, flettendo e intrecciando le gambe, e subito notò un sorriso affiorare tenue sul viso rilassato di Yuu.
«Sì» affermò il secondo, e le sue labbra si arcuarono maggiormente. «E sai cosa ha risposto mio padre alle sue domande?» disse, ricambiando lo sguardo dell’altro che, ignaro e interessato dal breve racconto, scosse appena il capo, smuovendo la morbida chioma.
«“Starà di certo corteggiando una fanciulla!”» ripeté a gran voce, imitando perfino il tono basso e possente del capofamiglia, e ridacchiò appena l’altro, vinto dall’imbarazzo, volse la testa a destra per fuggire dal suo sguardo.
«E sai cosa gli ho detto io?» chiese in un mormorio leggero, divertito, e in esso Mikaela colse l’inarrestabile voglia di proseguire anche ad un suo possibile rifiuto. Sospirò e, senza girare il capo nella sua direzione, puntò gli occhi verso di lui. «Ho paura…» confessò, posando il mento sulla mano destra.
Yuuichiro sorrise. «“Hai azzeccato!”» rivelò, incrociando le braccia al petto, ma la scherzosa serietà del suo gesto svanì l’istante dopo, portata via dalla risata che gli sfuggì appena il grido acuto del biondo increspò la tranquillità del luogo.
«Tu cosa!?» urlò, guardandolo sconvolto, dimentico del rossore che gli tingeva graziosamente le guance. L’altro annuì con vigorosi cenni della testa e continuò a ridere deliziato – il vampiro affondò il viso nei palmi, sbuffando pesantemente, e il sedicenne trovò la sua reazione esagerata, tenera –.
«Sai cosa ho aggiunto?» proseguì, ma in risposta gli giunse soltanto un mugolio dolente.
E con voce gentile, soffusa d’amabile affetto, concluse: «“Adoro i suoi capelli”».

Yuu adorava ascoltare i racconti sul passato di Mika – sui momenti trascorsi insieme, quando era al suo fianco nella precedente esistenza –, poiché la distanza irreale che egli percepiva fra sé stesso e il biondo si indeboliva. Inoltre, al moro piaceva chiedere nuovi aneddoti oppure quelli già condivisi – visto che l’altro non cominciava mai di suo spontaneo desiderio – perché la sua reazione lo divertiva. Sbuffava, oppure sollevava gli occhi verso il cielo, quasi a supplicare pietà o pazienza ad un essere superiore, per poi rivolgergli un sorrisetto sghembo e vivace – allora si chiedeva se Mikaela, da fanciullo, avesse mai sorriso in quel modo dispettoso –. Si sedevano sul prato, sulle panche lignee, o perfino sugli scomodi coppi del tetto della chiesa – grazie all’aiuto dell’altro e ad un’instabile rampa, creata da lui con i pochi mobili ritrovati nell’edificio sacro – e la storia iniziava. Egli rimaneva silente fino alla conclusione, assetato ed attratto dalle sue parole, guardandolo incantato.
Sfortunatamente, il ragazzo continuava ad assentarsi per un motivo ancora ignoto. Il sedicenne scoprì che avveniva in maniera regolare: egli rimaneva nel suo rifugio per due giorni continui, trascorrendo insieme a lui quel magico momento composto dagli ultimi attimi della notte e dai primi dell’alba, e svaniva il dì successivo, raramente anche quello seguente ancora – e Yuuichiro temeva quelle giornate gonfie di preoccupazione e d’attesa, in cui sarebbe rimasto nel loro angolo di realtà fino al suo ritorno, ma l’irritante nenia di un pendolo immaginario gli ricordava il dovere, costringendolo ad andare via –. Il giovane disapprovava il suo comportamento taciturno, la testarda volontà di non rivelargli alcunché, ma soprattutto, egli detestava i momenti in cui lo sconforto intorpidiva il raro colore dei suoi occhi.
Quando l’altro mancava, il sedicenne rimuginava sui suoi segreti – l’identità del presunto benefattore, la natura del suo dono e la ragione delle sue partenze –, cercando possibili chiarimenti in ogni dove, dalle vecchie storie che i bimbi solevano temere, alle chiacchiere dei mercanti che ultimamente, notò Yuu, s’erano colorate di sfumature cupe e funeste.

Era seduto sulla cima della chiesa, chiuso timidamente in sé come un bocciolo acerbo, solo ed inerme e spaventato nella quiete del crepuscolo morente. Sembrava che volesse scappare, Mikaela, sfuggire a qualcosa, uno spettro o la sua ombra, svanire dalla realtà per riapparire soltanto con nuova forma. Tremava appena i soffi e i giocosi sbuffi della frescura vespertina lambivano la sua epidermide scoperta, gelando all’istante il sudore e il respiro – non la sete e le sue zanne e le sue fiamme, che avide divoravano il corpo –. Cercava di non pensare, di assorbire la calma della natura e rinchiuderla in sé stesso, ma un dolore sordo continuava a vibrare nei suoi denti, divenuti inspiegabilmente più aguzzi, bestiali. La fiera gli bisbigliava con suono di zucchero di sfogar la voglia nella caccia, ma una voce lo intimava a restare fino all’alba successiva, inquietata da un presagio nefasto. Mikaela sospirò e si prese il capo fra i palmi, angustiato dall’ansia che avvertiva. Ed il gelo improvviso lo colse e lo strinse, fermando il respiro nel petto.
Egli acuì l’udito al mormorio del vento, il quale portò il frastuono di grida e voci iraconde, di villanie e degli strilli penosi dei bambini. S’alzò ritto in piedi, ben stabile sulle tegole tintinnanti, e volse la sua attenzione verso la città. E nel suo ventre notò palpitare un bagliore sinistro, da cui una serpe di fumo si innalzava fino ad amalgamarsi con la nebbia tossica prodotta dalle fabbriche.
Il terrore lo assalì, penetrando facilmente nelle membra, nelle ossa, e giù, nel profondo del suo essere, facendo tremare la sua anima.
«Yuu…» mormorò, disorientato da quel terrificante preludio che stava formandosi di fronte a lui. Fletté le gambe, balzò, atterrò agilmente sul terreno. Cominciò a correre con falcate ampie e celeri verso l’agglomerato industriale, gli occhi ben fissi su ciò che gli parve pericolosamente un incendio – la debolezza insita nella sete annegò all’istante in un’emozione che gli infuse un vigore fittizio nei muscoli, arrestando così il tremore, ma il petto continuava a dolergli e il cuore a contrarsi con veemenza –.
Aveva paura, Mikaela. Temeva che lo spettacolo si deformasse nella peggiore delle disgrazie, in un epilogo non così dissimile da quella lontana, maledetta notte in cui il mondo si frantumò nell’indifferenza di tutti. Ti prego – disse, rivolgendo il pensiero a qualcuno di indefinito come cent’anni addietro – Se non di me, abbi pietà di lui. Non permettere agli altri di privarlo della vita.
Serrò con violenza le mani, fino a rendere evanescente la pelle e nette le ramificazioni delle vene azzurre, e si rimproverò, dandosi dello sciocco con un sussurro rotto dall’affanno. Avrebbe trovato e protetto Yuuichiro con la sua sola determinazione, impedendo a chiunque di avvelenare la sua candida anima o di incrinare il suo meraviglioso, spensierato sorriso, capace di purificare con semplicità anche il suo essere immondo, lottando fino allo stremo per conquistare la libertà di entrambi – poiché il biondo sapeva, lo aveva compreso durante il limbo di solitudine racchiuso tra le due vite di Yuu: essa non era un diritto, ma una pregiata ricompensa che levitava sopra una voragine scarsamente riempita da milioni di carcasse ed innumerevoli ossa –.
Un fragore reboante scosse il suo equilibro, spezzandogli l’andatura in passi lenti ed incerti; fu colpito dai successivi ululati che udì affiorare dall’eco del boato come gemiti dalle acque del Cocito, e il maledetto riprese velocità, impossessandosi finalmente della periferia. Sollevò lo sguardo e con ribrezzo osservò nuvole scure spandersi sopra gli edifici.
Nella mente del ragazzo, le strade presero a cambiare, assottigliandosi in vie secondarie, oppure circondando altre, familiari costruzioni, per poi tornare alla normalità – come neve, i ricordi della sua città originaria si posarono su quella presente, trasformando la realtà catturata dai suoi occhi in una visione spettrale –.
Luci aranciate bagnarono ogni superficie su cui si ritrovarono a danzare, oscillando ed affievolendosi, o acquistando nuove sfumature, dal cremisi al dorato. Soltanto allora Mikaela intravide falci di persone emergere dalle porte e dalle finestre tenute volontariamente socchiuse, così da spiare, stando al sicuro nelle proprie abitazioni. Le grida si fecero più intense, dolorosamente affilate, ed il giovane incontrò gli sguardi terrorizzati delle donne, oppure quelli increduli e lucidi dei bambini, sperduti nel tumulto o strattonati via da un genitore per salvarli. Individui dal volto anonimo si diressero verso di lui e lo superarono, pietrificandolo con il loro terrore. Farfugliò qualcosa, il povero derelitto, frastornato dal chiasso, dai rantoli del suo respiro e dalle percosse assordanti del cuore, e rabbrividì appena nuovi scoppi, questa volta brevi, secchi, penetranti, squarciarono la sera. Errò tra la folla, subendo passivamente colpi e spinte violente senza emettere neppure un lamento: il fiato era soltanto per lui, come l’attenzione e le pene, mentre lo cercava in quella marea di sofferenza; lo chiamò, ma la voce uscì fragile, troppo debole per sovrastare gli altri rumori, dunque strinse le mani, inspirò, ma il grido fu rubato prima di sfociare da una persona che, afferrandolo per l’avambraccio, lo trascinò, guidandolo lontano dall’origine di quel putiferio. E nel profilo dell’umano, il biondo scoprì Yuuichiro – le sopracciglia si tesero all’insù, le labbra tremarono visibilmente e le gambe si fecero deboli sotto la sensazione di sollievo che placò l’anima –.
Fu spinto nella bocca di un vicolo che si rivelò essere morto e fissò l’altro appostarsi all’angolo per ispezionare la situazione – sorrise quando lo vide tendere un braccio in sua direzione, quasi a volerlo proteggere da ogni minaccia –.
«Cos’è successo?» gli chiese, addossando il peso del proprio corpo contro la parete e scrutando la figura del giovane.
«Rivolta» rispose lui, aggrottando la fronte. «Gli operai di un’industria tessile hanno incendiato le macchine e le fiamme si stanno propagando ovunque». Gli lanciò un’occhiata. «Tu, piuttosto? Non dovevi essere chissà dove?» chiese, scoccandogli un sorriso indisponente.
Mikaela sollevò le braccia. «Eccomi qui, invece».
«Volevi fare una sorpresa?» lo punzecchiò, riuscendo ad ottenere soltanto uno sbuffo e nessuna spiegazione; rise comunque, brillando di gioia nonostante fossero circondati da tutto quell’odio, dall’angoscia, felice di avere l’amico al proprio fianco, ma ruggiti ed ingiurie sovrastarono la sua ilarità, strappandogli anche una sommessa imprecazione.
«Stanno arrivando!» lo avvisò, voltandosi completamente verso di lui. «Non possiamo rimanere qui!».
Il biondo asserì con un cenno della testa: gli prese la mano e si tuffò nella calca, in cui uomini sputavano le proprie amarezze insieme ad acerrime parole, colpendo o facendo ruzzolare altre persone. Dovevano immediatamente lasciare quella strada per una via minore e più sicura, che Yuu presto indicò ed intimò l’altro a seguirlo, ma quest’ultimo gli cinse le spalle con un braccio e lo condusse in una stretta improvvisa. Sorpreso, il corvino tentò di scostarsi dal suo petto, ma un botto, l’ennesimo di quella sera tormentata, lo raggelò all’istante: lo sparo di una pistola, seguito da un gemito trattenuto in gola. Sollevò gli occhi sbarrati, pregni dell’ansia e del panico che fu incapace di nascondere, di racchiudere ancora in una piccola parte di sé, e un placido sorriso lo accolse, dolce ed irreale come la sua espressione; il più piccolo lo fissò sciogliere il caldo rifugio in cui l’aveva trascinato, girarsi iracondo e colpire con un pugno la guardia della fabbrica, la quale perse la propria arma nella massa palpitante. Soltanto allora Yuuichiro si accorse del taglio che sfregiava la sua carne, appena sotto la spalla sinistra.
«T-ti ha ferito» pigolò, guardando il sangue sporcargli a poco a poco la stoffa della camicia. «Il proiettile…».
«Mi ha solo sfiorato» reagì. «Ora va’!» e lo spinse con leggera forza, riuscendo a strapparlo dal torpore dello sgomento.
Serpeggiarono piano tra i corpi vinti dalla furia, tentando di decifrare ogni rotazione o movimento per difendere sé stessi e l’amico di sventura, restando vicini ed avanzando insieme – allacciarono le mani in una stretta vigorosa, bisognosi di percepire il tepore confortante dell’altro per non smarrirsi e, infine, annegare –.
Altre persone rianimarono l’insurrezione, giungendo dalla direzione verso cui i due ragazzi erano rivolti, stringendo ed innalzando armi povere – bastoni, oppure arnesi per la terra – contro i nemici.
Il pensiero ripugnante di essere intrappolati tra la gentaglia e l’incendio abbatté il più grande, che rafforzò istintivamente la stretta sulle dita del giovane, il quale portò l’attenzione su di lui.
«Usciremo da qui» dichiarò il sedicenne, il tono duro ed inflessibile, l’espressione decisa. Mikaela annuì, così sorpreso ed affascinato dalla sua risolutezza da non accorgersi di una sagoma nera: un uomo che, persa la stabilità a seguito di un gancio, rischiò di travolgerlo, se il giovane non fosse intervenuto, dando una poderosa spinta allo sconosciuto.
«Stai bene?» lo sentì proferire, il tono alto a causa del trambusto, dell’apprensione, ma lo vide irrigidirsi l’attimo seguente e Mikaela avvertì la colpa rodergli il cuore e i polmoni, poiché intravide il ricordo dello sparo nelle iridi di preziosa giada. Non attese alcunché, il corvino, né un gesto, né una risposta, seppur il secondo bramasse dall’innocente desiderio di sfiorargli la mascella contratta, pregandolo di non caricarsi sbagli inesistenti; lo agguantò per l’avambraccio e riprese a camminare, urtando le persone e scoccando loro delle gomitate. Il derelitto posò gli occhi sulla sua stretta e li fece scorrere lungo il braccio, sulla sua figura, come una morbida e lenta carezza. Si sentì incredibilmente debole, fiacco.
Dopo, catturò un brillio inquietante.
Lesse il pensiero nei movimenti che esso generò.
E rabbrividì all’immagine che invase la mente.
Era stanco, Mikaela, stordito dalla voglia che gli artigliava e graffiava la gola, ma riuscì a porsi tra il suo amato e l’essere.
Il mondo intero sembrò perdere i suoi rumori fino a sbiadire penosamente, poiché l’urlo straziante di Yuuichiro riuscì a cancellare ogni cosa, gli schiamazzi, le esplosioni. Il biondo rimase immobile come il tempo intorno a lui, persino quando il balordo si ritrasse, levando con una roteazione del polso qualcosa di sottile e dannatamente freddo dal suo ventre. Un coltellaccio.
Percepì l’olezzo del sangue, il proprio, pizzicargli le narici e il liquido bollente cominciò a rovesciarsi fuori dallo squarcio; colse il ruggito del sedicenne e con orrore lo vide avventarsi contro l’umano, oramai pazzo d’ira. Tentò di chiamarlo, di catturare la sua attenzione, dandogli dell’idiota o dello sprovveduto, ma tutte le parole affogarono in un gorgoglio della gola. E quando lo stolto allontanò il braccio con la volontà di affondare nuovamente la lama nella carne, Mikaela scattò fulmineo e gli conficcò il pugno nell’alto addome senza alcun remore – un sorrisino compiaciuto balenò sul suo viso appena sentì le costole vibrare e sfasciarsi contro le proprie nocche –. Lo sconosciuto rovinò a terra e non si mosse più sotto gli occhi gelidi del maledetto, il quale gemette subito dopo per via della fitta che infine lo trafisse, penetrando l’indifferenza nata dal sentimento di protezione. E prima di cascare dolorosamente sulle ginocchia, avvertì qualcosa cingergli il busto con fermezza e guidarlo piano sulle pietre della strada, trascinandolo così in un piacevole calore.
«Y-Yuu…» mormorò, scoprendosi nel suo tremante abbraccio, e un singulto rispose al richiamo – il suo profumo l’avvolse, mitigando i sensi con la propria dolcezza fino a stordirlo piacevolmente –. Il più grande catturò un respiro colmo di lui e lo trattenne per alcuni secondi, quasi con gelosia, mentre il moro continuava a chiedergli scusa. E raggelò appena comprese l’inquietante interrogativo che sussurrò nella sua coscienza, riducendogli le iridi in fragili anelli: che sapore avrà mai la sua vita?
Si conficcò i denti nel labbro, preferendo bagnarsi il palato con la sua immonda essenza, piuttosto che con quella sconosciuta ed intrigante, voluttuosa e proibita del suo amore.
«Vattene…» riuscì a dirgli, premendo le mani contro il suo petto ansante, ma il giovane lo strinse maggiormente a sé – entrambi persero un singhiozzo, tutti e due si domandarono cosa fare per salvare il compagno –.
«Ascoltami» lo rimproverò, ma la voce parve piegarsi più in una supplica. «Rimani nella chiesa per qualche giorno» ansimò, nonostante il corvino scuotesse la testa con vigore ad ogni sua parola. «Nasconditi finché la città non tornerà tranquilla».
«No!».
«Ti prego».
Yuuichiro serrò le palpebre, si piegò in avanti e pianse il suo dolore nell’orecchio dell’altro.
«N-non posso» guaì e, ignorando le sue proteste, i colpi e le spinte lanciategli contro il costato, il moro s’alzò, svelando al secondo il viso graffiato dalle lacrime.
«Non… morirò» tentò di convincerlo, ma sapeva quanto grande fosse il terrore del ragazzo – preferì tenere il capo basso, così da strappare il proprio sguardo dal suo, e chiuse le mani intorno ai polpacci, affondando le unghie nei muscoli tesi, impedendo ad esse di protrarsi in avanti, verso la sua figura –. «Semplicemente, non posso. L’avrai capito».
Boccheggiò, sperando nella sua comprensione, ma un lamento gli sfuggì appena il sedicenne, chinatosi fra le sue gambe, se lo caricò sulla schiena, per poi sollevarsi e cominciare ad avanzare, a barcollare verso una via di fuga.
Il dannato non si ribellò, non lottò contro la decisione del compagno, bensì s’oppose alla belva e ai suoi desideri illeciti che gli scuotevano lo spirito e il corpo. Cominciò a piangere, Mikaela, a tremare, e si coprì il volto con la mano lercia di rosso, addolorando inconsapevolmente il giovane, il quale si morse il labbro per non lasciar volare neanche un piccolo suono, mentre il sangue rovente dell’amico gli bagnava la camicia, fino a penetrarla e ad ustionargli l’epidermide.
«Lasciami…» farfugliò debolmente, avvertendo l’istinto rodergli le viscere. «Ti prego» ripeté piano, più volte, una nota dolente riprodotta ciclicamente da un elegante carillon guasto, ma Yuu gli rivolgeva altre preghiere – «Andrà tutto bene», «Smettila, ti supplico» –, promesse di un futuro sereno e migliore, giusto, in cui avrebbero ripercorso quei bui attimi con dei sorrisi amari su visi ormai adulti, ma dei singhiozzi squarciarono le parole già fragili, tradendo la sicurezza delle sue affermazioni.
«Yuu…» lo chiamò fra gli ansiti, e il citato ribatté stringendolo maggiormente a sé, proseguendo a camminare e ad ignorare le sue inaccettabili richieste.
Tra percosse ed urti violenti contro i muri, fra imprecazioni e reazioni frenate dagli sguardi raccapriccianti del più grande, i due sventurati riuscirono a scivolare via da quell’infernale disordine, conquistando finalmente una minuscola vittoria e diversi, troppi lividi; vagabondarono per le vie isolate, mute come la pietà delle persone che li fissavano dalle loro abitazioni, fino ad abbandonare il paese ancora illuminato dalle fiamme del disastro.
Vagò per la campagna desolata, affondando leggermente i piedi nel terreno impreziosito di brina, ed ogni qualvolta il terrore l’aggrediva, rendendo ancora più incerti i suoi passi, invocava l’amico con un bisbiglio, e si acquietava soltanto al suo mugolio ovattato – il citato non poteva rivolgergli una vera rassicurazione, un rimprovero, qualcosa, perché, se avesse smesso di affondare e serrare le zanne nel palmo lacero della propria mano, avrebbe replicato non con delle affermazioni, bensì con un’azione atroce –.
Si arrestò dinanzi al portone della chiesa e, con un folle calcio, il sedicenne riuscì a spalancare l’entrata; perse l’equilibrio l’istante dopo e cadde sulle proprie gambe, ma riuscì a reggere e tenere il secondo sopra di sé, il quale parve liberarsi dal velo di silenzio sotto cui si era nascosto.
«Lasciami…» ripeté ancora, e l’altro replicò con uno sbuffo. Si rialzò, barcollando leggermente, e camminò in direzione del tabernacolo con l’intento di deporre il più grande sull’altare, meno sporco rispetto alle panche o al pavimento, ma il secondo si agitò e, premendo contro la schiena, si liberò dalle catene della sua stretta, facendo cadere entrambi.
Il giovane ringhiò, infastidito dal quel gesto privo di senno, ma appena si voltò nella sua direzione si zittì; l’osservò tremare ad ogni difficile respiro come una creatura indifesa, leggermente piegato a sinistra, le gambe flesse e l’intero peso sorretto dal braccio.
«Mika…».
L’interpellato rabbrividì, ma levò la testa, attratto inesorabilmente da lui; e nel mondo confuso, acquerellato dalla stanchezza e dal desiderio, Mikaela osservò l’amato deformarsi in un essere umano dall’aspetto ignoto, analogo a tutti gli altri. Si odiò per questo.
«Allontanati…» ansimò, volgendo lo sguardo lontano. «Per favore, vattene da qui» e gemette appena il corvino scosse violentemente il capo.
«Non ti lascerò per la seconda volta!» gridò. Si mosse, ignorando la sua volontà o la mano sollevata in una muta richiesta di ascolto, e cadde nello sbaglio peggiore che potesse commettere: si chinò e legò i loro corpi in un doloroso abbraccio, facendo collidere la propria spalla con la sua fronte – il dannato fremette e i suoi respiri divennero rochi e celeri contro il collo squisitamente sottile dell’umano –.
«Andrà tutto bene…» ribadì per l’ennesima volta, la voce incredibilmente fragile, gonfia d’affanno, di ansia e della sua irrazionale, consueta ed ingenua fiducia. «Ti medicherò e tutto tornerà come prima…» proseguì, ma il biondo non era più capace di intendere alcunché – percepiva le parole dalle ammalianti vibrazioni della sua gola segnata appena dal pomo d’Adamo, ma non le comprendeva, erano soltanto dei suoni particolati ed armoniosi –.
Yuuichiro deglutì; aprì la bocca per regalare conforto alle anime di entrambi, ma sgranò gli occhi e un verso strozzato sibilò fuori dalle labbra socchiuse.
L’aveva azzannato, Mikaela, oltrepassando la trama della camicia: dapprima un morso incerto, trattenuto, dato sull’unione della spalla con il collo, ma appena il sangue, dolce come la polpa della prima mela, gli bagnò leggermente il palato, i denti affondarono nella pelle, dilaniandola con fin troppa facilità. Il giovane cercò di liberarsi, ma l’altro gli conficcò le unghie nei bicipiti. E rabbrividì appena dei singulti cominciarono a vibrare nella morbida carne – la sua coscienza non si era ancora spenta e, seppur debole, il ragazzo era in grado di assimilare ogni azione commessa, senza però riuscire a fermarsi, a ribellarsi, a smettere di ferire la sua gioia più grande. Era diventato uno spettatore, e piangere era l’unica cosa rimastagli –.
«Sei un vampiro…» gli disse. «Q-questo… ti ha permesso di vivere per cento anni…» e un gorgoglio fuoriuscì dalla sua bocca. Alzò le braccia per allacciarle intorno all’altro, ma fallì, la sua piccola volontà non commosse nessun dio, ed esse scivolarono fino a cascare, inermi. «Tu sparivi per cacciare lontano, perché non volevi che io lo scoprissi». Serrò le palpebre, digrignò i denti. «Per non farmi sentire responsabile».
Avvertì il gelo pizzicargli la pelle delle mani, delle gambe, e capì di star per svenire. Cercò di sorridere, arcuando le labbra tremanti; affondò le dita nelle ciocche auree e gliele accarezzò con struggente delicatezza, come avrebbe voluto fare giorni e giorni addietro. «La prossima volta raccontami tutto, stupido» gli sussurrò nell’orecchio e provò a ridere, ma ciò che uscì fuori somigliò più a un lamento colmo di rimpianto. E le lacrime emersero dagli ultimi crepitii della sua anima quando gli chiese: «Perdonami».
Mikaela non colse né le sue parole, né i rintocchi finali del suo cuore. S’accorse della sua dipartita soltanto quando la sete ingorda lo abbandonò di fronte alla crudele conseguenza della sua debolezza. E la follia più nera lo intossicò. Urlò, il maledetto, nel fissare inorridito il corpo esanime del suo amato scivolare via dalle sue braccia. Si portò le mani tremanti al capo, affondò gli artigli nella pelle e si graffiò, più e più volte, deturpando i suoi bei lineamenti, ferendosi la gola e il petto. Pianse, dondolandosi secondo la nenia creata dai suoi gemiti, dai singhiozzi e dagli urli strazianti, sbattendo i pugni contro il legno del pavimento, anche dopo essersi spezzato le ossa. Perché, in fondo, il suo corpo si sarebbe rigenerato, cancellando ogni ferita senza lasciare cicatrici. Le palpebre lacere si aprirono, scoprendo gli occhi nella loro orripilante interezza. Un pensiero ributtante turbinò nella sua mente, e una risata sgorgò dalla sua gola, dapprima bassa e vibrante, poi tagliente e acuta e disperata.
Qualcuno l’aveva udito – ipotizzò, facendo stridere l’aria con malsana ilarità – mentre correva disperatamente verso la città. Un essere aveva accolto la sua richiesta, salvando così Yuuichiro dai perfidi umani. E si era impossessato della sua forza come saldo per il gesto misericordioso, lasciandolo impotente al cospetto dell’impulso ferino.
Lacrime apparvero e scivolarono delicate sul volto sfigurato, percorrendo i solchi dei graffi come i letti dei fiumi e tingendosi di vaghe sfumature rossastre.
«Tu non puoi morire» cinguettò candidamente una voce, ed un’ombra si innalzò vicino al suo defunto amore. «Puoi soltanto impazzire».

Per alcune settimane, fu possibile avvertire delle urla tuonare in una chiesetta poco lontana dalla città, abbandonata dalla gente insieme alle loro precedenti vite per adattarsi alla realtà nuova. Scoppiavano all’improvviso, sia nella maturazione che nella caduta del dì, squarciando con angosciosa veemenza quel sacro torpore che spirava fra le mura in pietra grezza. Erano grida orripilanti, atroci come gli ululati di un’anima dannata, e si levavano nel vecchio monumento per istanti lunghissimi, quasi eterni, fino a sfumare in pianti incontrollati di un fanciullino.
E quando ciò accadeva, quando l’echi giungevano ovattate fin nel borgo, le persone interrompevano i loro lavori per alcuni istanti, raggelati nell’ascolto.
Una mattina, spinto dalla tenera e smisurata curiosità, un bambino zampettò intrepido verso l’edificio, malgrado le innumerevoli ed uggiose raccomandazione materne, per scoprire l’identità del padrone di quelle tremende urla – era forse l’ombra di un giovane, perito senza adempiere al suo desiderio, oppure un nobile solitario, addolorato dalla scomparsa del proprio amore –. Ciò che l’accolse non fu una scena favolosa, ma l’intreccio pietoso di due corpi malandati.
Il bimbo non fece più ritorno, sordo alle preghiere disperate della madre, che lo implorava di tornare; rimase placidamente steso tra i fili d’erba, il viso incredibilmente pallido, la gola insozzata di vermiglio, e i suoi occhi vitrei, ciechi, scrutarono la volta e i suoi lenti mutamenti finché Natura, impietosita, non li chiuse con il tempo.
E da quel triste pomeriggio, una belva parve destarsi, simile ai mostri dipinti nelle favole, e ad ogni notte rubava implacabile la vita di un malcapitato. L’unico sopravvissuto, un soldato novizio mandato dalla città vicina per slegare il mistero, raccontò che, uccisi i suoi compagni d’armi, il demone fuggì via appena la foresta pianse insieme a lui: «Qual è la nostra colpa, mostro?».

















And all the people say
You can't wake up, this is not a dream
You're part of a machine, you are not a human being

*le lanciano un Timcanpy indemoniato in testa*

Ok, ok! Lo so, sono una persona orribile, ho aggiornato dopo quasi un anno con un coso enorme il testo netto è di 6000-e-katsudon parole, ho scritto robe bruttissime e mi sento in colpa per ciò. E, credetemi, questo capitolo è stato difficilissimo da scrivere: continuavo a ripetermi mentalmente parole di incoraggiamento, per poi allontanarmi un po’ con la sedia e cominciare a dire cose del tipo “Non posso farcela”. E vi giuro che ho pianto, e più di una volta – appena aprivo la pagina, quando scrivevo la parte finale o mentre rileggevo tutto –. Son due, le cose: o sono troppo sensibile, o la mia idiozia è sconfinata quanto l’universo.
Inoltre, ho aggiornato soltanto grazie a quella dea di Niv che si è offerta di leggere il capitolo per strapparmi dalla testa i miei soliti dubbi – ne ho ancora qualcuno, ma ho deciso comunque di buttarmi –.
Eeeee non so, davvero… vi ringrazio per aver letto la storia fino a questo punto, e spero attenderete la fine.



Alla prossima,
Cloud~



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