Schmeisser (Vollversion)

di Mannu
(/viewuser.php?uid=32809)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Der erste Teil ***
Capitolo 2: *** Der zweite Teil ***
Capitolo 3: *** Der dritte Teil ***
Capitolo 4: *** Der vierte Teil ***
Capitolo 5: *** Der fünfte Teil ***
Capitolo 6: *** Der letzte Teil ***



Capitolo 1
*** Der erste Teil ***


Schmeisser (Vollversion)
Der erste Teil

Il treno d'ebano entrò in stazione fischiando e stridendo sulle rotaie di lucido acciaio. Si fermò in perfetta corrispondenza con la banchina dove ben pochi viaggiatori lo stavano attendendo, pazienti e ordinati. Il treno soffiò su di loro il suo alito caldo avvolgendoli in nuvole bianche puzzolenti di carbone.
Stette fermo con le porte chiuse: una muta, enigmatica sfida per i passeggeri che lo guardavano tranquilli e indolenti, ancora fermi dentro le nuvole di vapore che tardava a dissiparsi nella fresca aria del mattino. Il lungo, cupo fuso d'acciaio, legno e vetro, studiato per la migliore resa aerodinamica sembrava riposasse, ansimante dopo una lunga corsa sfrenata.
Scattando all'unisono un coro di bocche a soffietto si aprì per tutta la lunghezza del convoglio. Gradini dorati vennero estroflessi e la forza del vapore azionò meccanismi nascosti che fecero apparire corrimano d'ottone lucidissimo con pomoli decorati da motivi a foglie d'acanto.
Senza fretta pochi viaggiatori fecero la loro comparsa sul gradino più alto. Come un quadro impressionista che si animasse all'improvviso le ampie pennellate bianche di vapore si punteggiarono di verticali tratti neri: abiti da viaggio con code e gonne lunghe fino alla caviglia, borse e ombrelli, piccole valigie, eleganti cappelli a cilindro e velette nere. Passeggeri scesero dai gradini dorati, altri dalla banchina salirono scomparendo nel ventre del treno in attesa.
Un signore ben vestito, alto e slanciato nel suo bel pastrano scuro, con pochi passi colmò la distanza che lo separava dalla scaletta più vicina. Come saggiando le piastrelle ornamentali che decoravano il pavimento della banchina d'attesa, si faceva precedere dal silenzioso e lieve tocco del suo bastone da passeggio, nero con un pomo d'argento stretto nel pugno guantato. Il bastone si sollevò per posarsi sul gradino più basso ma con un gesto fluido ed elegante fu trattenuto e richiamato. L'uomo in segno di rispetto chinò il viso ornato da una barba scura e ben curata e si fece da parte. Facendo risuonare lievemente il metallo coi tacchi alti quattro dita, scarpe bicolori scesero i gradini fino a posarsi sulle piastrelle di ceramica sobriamente decorata. Scarpe strette e chiuse da una fila di lucidi bottoncini, palline d'argento che salivano verso lo stinco e presto sparivano alla vista sotto l'orlo di una severa gonna nera. La gonna di un accollato abito da viaggio che si stringeva intorno alla vita sottile di una giovane, le fasciava aderente il torace, si apriva in ampi sbuffi pieghettati sulle spalle, si stringeva strettamente intorno a esili gomiti e si chiudeva rigido intorno al collo stretto fino all'ultimo nero bottone. Sobri e lunghissimi guanti neri da viaggio salivano dalle sottili mani fino a infilarsi sotto le maniche del vestito, impedendo la vista di un solo centimetro di pelle. A celare il viso della giovane, sebbene solo in parte, la tesa di un cappellino da viaggio nero ornato di piume anch'esse nere e la veletta di pizzo lavorato finemente accuratamente disposta.
- Benvenuta a Kräaftenburg, fräulein. Perdoniate l'impudenza, se potete - disse il gentiluomo ancora leggermente inchinato, sollevando il cappello a cilindro come esigeva l'etichetta.
- Bentrovato, mein herr. Facciate buon viaggio - rispose quella altrettanto cortesemente, solo l'ombra di un sorriso sulle labbra del più tenue corallo rosa.
La giovane fece qualche passo. Era stata tra gli ultimi a scendere, riluttante ad abbandonare le lussuose comodità del treno. Morbidi velluti, imbottiture comode, ottoni lucidissimi, personale preparato e cortese, pochissimi ma squisiti compagni di viaggio abili a comprendere quando desiderava la compagnia di una brillante conversazione e quando la pace e la tranquillità che solo la solitudine di un comparto vuoto e il placido dondolio del treno potevano regalare.
Aggrappata con due mani alla sua borsa da viaggio stette un poco a guardarsi intorno. Era giunta a destinazione. La stazione ferroviaria di Kräaftenburg era grande anche se non poteva affatto rivaleggiare con altre ben più estese come Berlino Ostbahnhof e Monaco Carl Gustav VIII Hauptbahnhof. Aveva ben altri pregi: il caos, il rumore, la puzza soffocante, le migliaia di passeggeri in perenne movimento sui marciapiedi tra le decine di binari, il vociare, le urla degli ambulanti, gli ordini dei capotreni, le chiamate dagli altoparlanti che gracchiavano parole e numeri distorti al punto da essere a stento comprensibili in quel marasma. Tutto ciò era assente lì a Kräaftenburg Hbf. C'erano dodici binari per i treni passeggeri e l'unico dove vi fosse qualche attività era occupato da quello che l'aveva così dolcemente e velocemente portata lì. Su un binario lontano un indolente convoglio merci dalle carrozze chiuse color mattone procedeva a passo d'uomo, le ruote di acciaio che bussavano a intervalli regolari sugli interstizi tra le rotaie così piano che il vagito di un bimbo le avrebbe sovrastate facilmente.
Proprio mentre il treno merci le scorreva davanti agli occhi stregati dalla malìa del potere della ruota e del vapore, apparvero le carrozze di coda: aperte, mostravano il massiccio carico d'acciaio che rendeva Kräaftenburg degna di avere uno scalo merci. Enormi semilavorati di acciaio, parti di turbine a vapore che una volta assemblate avrebbero prodotto energia elettrica. Le riconobbe, sebbene smontate, dalla loro caratteristica forma a conchiglia nautilo. La radice dei suoi studi era profondamente umanista e poco si intendeva di tecnologia, ma anche un bimbo avrebbe riconosciuto le pale di una turbina. Era nata nell'era del carbone e del vapore, dell'energia elettrica e dell'acciaio speciale. Sulle spalle di questi giganti l'uomo procedeva a grandi balzi verso un futuro che non poteva essere che ricco e luminoso.
A quel pensiero una punta di amarezza la morse nel petto, vicino al cuore. Per potersi guadagnare da vivere in quel mondo di potenti macchine che avrebbero fatto grande l'uomo era stata costretta ad abbandonare gli studi, la casa dei genitori e la sua città per cercare un lavoro come domestica accompagnatrice. Mestiere non privo di un certo non so che di nobile, le aveva detto il tutore dell'istituto alberghiero che l'aveva preparata, ma quel non so che lei non l'aveva ancora trovato. E ciò che le restava era tutt'altro che ricco e luminoso.
Si diresse verso l'uscita della silenziosa stazione lasciandosi alle spalle il lungo fuso d'ebano sbuffante vapore e migliaia di metri di rotaie d'acciaio che scintillavano sotto il sole incrociandosi parallele all'infinito.
L'atrio della stazione di Kräaftenburg era ben proporzionato e ampio; dal soffitto alto pendevano lampadari possenti ma di stile sobrio ed elegante. La biglietteria era arroccata dietro una barriera di corrimani di alluminio lucidissimo, un labirinto per domare con file ordinate almeno un centinaio di viaggiatori alla volta. Dei dieci sportelli solo uno era aperto e nessuno dei presenti sembrava nemmeno lontanamente intenzionato a inoltrarsi nel serpeggiante labirinto per acquistare un biglietto.
Opposto alla biglietteria c'era un bar che ostentava arredi dalle linee moderne ed essenziali, intonandosi così al resto della stazione, ma anche orpelli un po' vistosi: una macchina del caffè a gas di produzione italiana, interamente dorata e con manopole decorate; file e file di tazze, tazzine e teiere tutte smaltate di un bianco abbagliante e ornate da un filo d'oro vicino al bordo; liquori in bottiglie di vetro intagliato con fantasiosi tappi scintillanti; espositori fatti di fili d'ottone saldati e arricciati con eleganza che mettevano in mostra coloratissimi dolciumi di ogni forma e dimensione.
Fu piacevolmente disorientata dal contrasto fra i sobri e composti viaggiatori che entravano e uscivano dalle luminose porte e il frastuono che cominciava a filtrare ogni qual volta se ne apriva una. La giovane fece ticchettare le scarpe lucide sul marmo liscio e decorato a grandi disegni geometrici fino a raggiungere un'uscita. Posò una mano guantata su una lunga maniglia d'acciaio lucidata dal passaggio di altre migliaia di mani come la sua e spinse il battente.
Kräaftenburg le cadde addosso, calda e rumorosa. Il sole era ormai sopra i tetti e l'abbagliava, schiaffeggiandola in viso coi suoi raggi invadenti. Se non avesse avuto cappellino e veletta, sarebbe rimasta accecata per ben più di qualche istante. Mentre i suoi occhi si adattavano, le sue orecchie dovettero sostenere l'assalto del rumore di una città dove l'industria pesante sfamava più della metà della popolazione. Motori elettrici gemevano, caldaie a vapore sibilavano, dai capannoni e dalle fabbriche si alzavano i ruggiti dei macchinari pesanti che sagomavano il metallo piegandolo alla volontà dell'uomo. Dopo il fresco dell'atrio della stazione gli sbuffi di calore soffocante prodotti dai veicoli le parevano insopportabili. A una vicina stazione di rifornimento l'acqua scrosciava con fragore da un tubo grande come una grondaia dentro il serbatoio di un camion col telone. Un arrotino ombrellaio passò col suo carretto a pedali su cui la mola a vapore sbuffava in folle. Gettò il suo richiamo senza smettere di pedalare e di guardarsi intorno alla ricerca di clienti. Il profilo della città era spezzato dai tetti dentellati delle fabbriche e dalle ciminiere di mattoni rossi terminanti con anelli dipinti di bianco e rosso. Un operaio si stava arrampicando su una di queste grazie a una scala a spirale che la percorreva fino alla cima eruttante fumo grigio.
Abbassò gli occhi sulla strada: veicoli e pedoni si contendevano l'ampia carreggiata senza che nessuno riuscisse a prevalere. Le affidabili vetture a vapore sibilavano tranquille grazie a collaudati meccanismi, ma in egual numero le più moderne e slanciate auto elettriche facevano la loro comparsa ronzando: eleganti e accattivanti, in esse era concentrato ogni più recente ritrovato della tecnologia. Fossero i piccoli e potenti motori installati direttamente nelle larghe ruote o le splendide vernici iridescenti delle carrozzerie, per lei non aveva importanza.
Cercò il posteggio delle auto pubbliche: doveva per forza essercene uno nelle vicinanze della stazione.
Fu molto sorpresa di trovare al posteggio un'auto elettrica. Le aveva sempre considerate troppo lussuose per un conducente d'auto a nolo. Evidentemente a Kräaftenburg non era esattamente così. Ignorò quindi i conducenti di auto a vapore e si avvicinò all'uomo appoggiato alla portiera della bella auto blu che attendeva silenziosa e luccicante nella luce del mattino.
- Buongiorno - salutò lei com'era buona educazione fare - quanto costa una corsa?
- Buongiorno... dipende da dove la bella signorina vuole andare.
- Alla Villa Schmeisser - rispose quella seria e decisa.
Il conducente alzò prima un sopracciglio e poi l'altro.
- Sicura?
- Certo. Forse non è raggiungibile? - chiese lei sempre seria come le avevano insegnato. Solo le ragazze troppo frivole e sciocche sorridono in continuazione, le aveva inculcato il suo tutore. Lei non si riteneva né sciocca né frivola.
- Affatto, è raggiungibile... - tentennò l'autista. Era una persona semplice: indossava abiti di panno marrone e blu, semplici e puliti, e un berretto a coste color del cioccolato stretto davanti da un bottone automatico sulla visiera rigida. Dalla giacca aperta sporgeva un po' di pancia e le sopracciglia all'ombra del berretto tradivano una spruzzata di grigio.
- È troppo costoso? - lo incalzò lei. La sua borsa da viaggio stava cominciando a darle noia per via del peso: voleva concludere.
- Ma cosa sono cinque demark per un viaggio a bordo di questo gioiello della meccanica? - esclamò l'autista suscitando ironici commenti da parte dei colleghi come lui in attesa di clienti.
La giovane ci pensò per qualche secondo e poi pagò all'autista la cifra richiesta.
- A bordo! - esclamò quello facendo tintinnare le monete nella tasca della giacca marrone.
L'auto era forse un gioiello della meccanica: certo pur non potendo competere in comodità col treno da cui era appena scesa, era però discretamente accogliente e confortevole. C'era spazio per il suo bagaglio nella cabina e poteva sedersi comoda. I finestrini erano ampi e l'abitacolo ben fatto al punto che poteva osservare bene tutto ciò che desiderava: le manovre del conducente, il traffico, il paesaggio che le scorreva intorno.
Attraversò il centro della città: qui l'abitato era moderno e ben mantenuto. Le case avevano tutte fiori alle finestre e le facciate ben dipinte. Alcuni tetti erano scuriti dal nerofumo, ma molti sembravano addirittura nuovi. C'erano bei negozi, bellissime vetrine luminose e accattivanti, merci di ogni tipo e di ogni prezzo. La gente che camminava per strada era ordinata e composta, nessuno sembrava avere fretta. Nemmeno i fattorini.
A causa dei lavori in corso per l'installazione di una nuova condotta di gas metano il conducente fu costretto a una deviazione e la scintillante auto elettrica, dai motori mugolanti e dall'accelerazione che la schiacciava nel sedile gentilmente ma fermamente a ogni ripartenza, si trovò a passare attraverso il quartiere industriale.
Il cielo si striò ancora di più di nero, le belle case furono sostituite da lunghi muri di mattoni grigi e rossi, da fughe di cemento interrotte da finestre dai telai a scacchi, da grandissimi cancelli di ferro che a intervalli vomitavano nella strada giganti dalle molte ruote carichi di materie prime o prodotti lavorati nelle fabbriche. I negozi divennero spogli ed essenziali e proponevano la loro merce esponendola su grezzi telai di legno e ferro. C'era perfino un treno a scartamento ridotto che circolava su rotaie affondate nella strada, in mezzo al traffico dei normali veicoli a ruote di gomma. Trasportava carbone e lingotti di metallo pronti per essere pressati, torniti e fresati da macchine per trasformarsi in parti di nuove, migliori macchine.
Un autocarro pesante uscì dal passo carrabile di un grande capannone senza rispettare la segnaletica, costringendo l'auto elettrica a una brusca frenata. La ragazza esclamò per lo spavento.
Teufel! Siano lodati i freni a disco! - l'autista gesticolò alla volta del mezzo pesante che come se nulla fosse accaduto si allontanava traballando, gravato dal suo carico.
- Tutto bene? - aggiunse poi rivolto allo specchietto interno.
La giovane fece un cenno affermativo con la testa. La cintura di sicurezza l'aveva abbracciata un po' rudemente, ma le aveva evitato ogni conseguenza.
Il conducente le offrì dell'acqua fresca da un thermos e usò l'accaduto come pretesto per cominciare a ciarlare. Le raccontò diffusamente di quanto stesse diventando pericoloso il traffico cittadino, di come fosse scandalosamente facile anche per i privati ottenere la licenza di condurre un veicolo, di come le automobili elettriche avrebbero migliorato la situazione con la loro modernissima e sicura tecnologia.
- Certo, più tempo si passa in strada, più rischi si corrono. Il nostro è un bel viaggetto, oggi... fino a Villa Schmeisser! Non capita tutti i giorni!
A quelle parole l'attenzione della giovane si destò. Del torrente di parole che fluiva verso il sedile posteriore quelle erano di certo degne di un piccolo approfondimento.
- Come sarebbe?
- Sarebbe che non capita spesso di portare qualcuno fin lassù.
- Lord Schmeisser ha forse un'auto privata? - volle sapere lei. Che esagerazione sarebbe, pensò. Certo se poteva permettersi di assumere una domestica referenziata come lei, non era una cosa da escludere a priori. Il conducente rise di cuore.
- Un'auto privata... Ach! - esclamò ancora ridendo - Un'auto privata! Un autista tutto per lui, pagato solo per guidare una delle tre vetture con le quali si reca qui in città! Ecco cos'ha!
Tre vetture! La ragazza si sbalordì, ma fu brava a controllarsi. Confidando nella veletta per celare il rossore del viso, non si mosse né fece gesti inconsulti.
- Decisamente benestante - osò dire. Il conducente continuava a ridacchiare e la cosa la stava infastidendo. Ma quel commento volto a interromperlo ottenne invece il risultato opposto.
- Guardi fuori, bella signorina... la vede quella grande "S" bianca sui muri?
Non ci aveva fatto caso. Effettivamente l'uomo aveva ragione: c'era un grande monogramma su moltissimi muri, su recinzioni, sulle pareti e sui tetti inclinati dei capannoni, ovunque. Sorpassarono tre camion dalle sponde di legno sulle quali campeggiava il medesimo simbolo: una grande esse bianca. Schmeisser.
- Esatto - le rispose quando esternò la sua intuizione - proprio lui. Lord Schmeisser. Camion, capannoni, fabbriche... tutta roba sua. Più di metà delle attività produttive di Kräaftenburg appartengono a lui. L'altra metà dipende da lui per i prodotti e le materie prime. Metà di Kräaftenburg è di Lord Schmeisser e l'altra metà... beh, l'altra metà - il tono del conducente si fece d'un tratto molto meno ilare - lavora per lui.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Der zweite Teil ***


Schmeisser (Vollversion)
Der zweite Teil

A questo non era preparata.
La strada in collina, larga e ombreggiata da filari di alberi perfettamente curati, terminava di colpo con un grande spiazzo circolare e una sorta di arco di trionfo decorato da candide statue di dei greci e da bassorilievi di antiche battaglie. Era sbarrato da un enorme cancello in ferro battuto, decorato da fiori e foglie di metallo nero e difeso da aguzze punte e lance dorate. Intorno... nulla. Non una recinzione, un'inferriata, una siepe. Nulla.
L'auto a noleggio si fermò leggermente in disparte, come se la sua vernice blu cangiante fosse troppo vivace per quel severo monumento che pareva piantato nel bel mezzo della campagna. Scesa dalla vettura la giovane si guardò intorno ma non scorse altro che il delizioso paesaggio di collina: prati verdi e alberi, e la strada che spariva serpeggiando in salita. Della caotica città di polvere nera, mattoni rossi e treni non c'era la minima traccia. Si sentivano gli uccelli cinguettare.
- Ora vedremo se i tuoi cinque demark sono stati spesi bene o no. Se davvero sei attesa, quel cancello si aprirà per te. Altrimenti... beh, spero tu abbia altri cinque demark.
Ciò detto l'autista, rimasto vicino alla sua auto, posò un piede sulla ruota anteriore sterzata e ficcate le mani in tasca stette zitto ad aspettare.
Dapprincipio non accadde nulla. La borsa di nuovo appesa alle mani che le batteva sulle ginocchia, se ne stette in piedi rigida come un baccalà attendendo un cenno qualsiasi e pensando che no, non aveva altri cinque demark.
Poi il sibilo caratteristico di un veicolo a vapore. Intuì lo scintillio dei cristalli e della carrozzeria attraverso gli alberi, in lontananza. La vettura filava veloce e divorò le curve una dopo l'altra. Il cancello cominciò ad aprirsi senza che nessuno l'azionasse direttamente. Oltre l'arco uno spiazzo ampio come quello dove lei sostava in piedi. Il conducente della vettura che l'aveva portata lì non trattenne un fischio di ammirazione.
Poi apparve la vettura. Era un modello estremamente lussuoso: il lungo cofano terminava con un radiatore che sembrava un piccolo Partenone affiancato da tre paia di fanali cromati, trombe d'ottone a specchio e sormontato da una “S” d'oro grande come un piattino da caffè. Le quattro ruote anteriori sterzarono tutte ostentando mille raggi lucidissimi mentre l'auto faceva manovra per offrirle il fianco. Era così ben realizzata da non lasciar nemmeno intuire dove si trovasse la caldaia e il serbatoio dell'acqua, mentre un soffio e un modesto sbuffo di fumo tradiva la posizione delle valvole e dello scarico.
Lo sportello si aprì e l'autista in divisa scese. Agitò un guanto bianco all'indirizzo del conducente dell'auto elettrica che afferrò al volo il messaggio senza parole: salì sulla propria auto e usò il piazzale per invertire la marcia. Sparì presto, tra il frusciare delle gomme sull'asfalto e il lieve vibrare dei motori elettrici.
L'autista gallonato aprì con fare ossequioso la portiera dell'abitacolo e da esso scese una figura che lasciò la ragazza stupita.
- La signorina Veruska Meinhertz, suppongo.
Alto e allampanato, i pochi capelli superstiti palesemente tinti di nero e una discreta spocchia, stretto in una divisa grigia e nera dall'alto al basso la squadrava un maggiordomo.
- Onorata – rispose lei con una poco sentita ma impeccabile riverenza. Quello per risposta estrasse un orologio d'oro dalla tasca del panciotto grigio cenere e le contestò un ritardo prossimo alla mezzora.
- Non accadrà più – lo rassicurò Veruska, certa di ciò che stava dicendo. Considerava ingiusta quell'accusa: era giunta col primo treno del mattino e aveva speso quasi tutto il denaro rimasto per noleggiare un'auto pubblica pur di fare presto.
- Sarà opportuno – rispose l'uomo con un tono affettato – Ora sbrighiamoci, su! A bordo!
La fece salire per prima, ma lasciò che la borsa da viaggio la impacciasse nei movimenti. Non le disse nulla ma Veruska si sentiva gli occhi di lui appuntati addosso che scandagliavano, soppesavano e valutavano ogni gesto, ogni movimento che lei faceva.
La vettura si mise in moto subito. C'era uno spesso e lindo cristallo che separava il posto di pilotaggio dal salottino dei passeggeri e un tubo di ottone chiuso da un grazioso coperchio incernierato consentiva di istruire l'autista. Non si percepiva alcun rumore del motore: se chiudeva gli occhi Veruska a stento aveva la sensazione di muoversi. Dal lato opposto del morbido e lussuoso divano il maggiordomo la squadrava cupo.
- Alla Villa l'etichetta è molto importante – disse senza preavviso alcuno – si rivolgerà a me con l'appellativo “signore” e vorrà sempre riferirsi a me come “signor Hirsch”. Parimenti si relazionerà con frau Besen, la responsabile di tutto il personale. La servitù, con la quale le suggerisco caldamente di non prendersi licenza alcuna, è composta da quattro giardinieri, due sguatteri, due cameriere e lavandaie, due cuochi, l'autista. E, a partire da oggi, lei signorina Meinhertz. Se si darà il caso.
Ci fu una breve pausa e Veruska ne approfittò per un lieve cenno d'assenso col capo. Come se fosse esattamente quello che stava aspettando, il maggiordomo riprese subito il severo monologo.
- L'ordine e la disciplina sono tenute nella massima considerazione. Non servirà Lord Schmeisser né il Signorino, quello è compito mio e di frau Besen. Dapprincipio affiancherà nel loro lavoro le cameriere. All'occorrenza darà una mano in cucina. Riceverà disposizioni esclusivamente da me e da frau Besen. La paga è di dieci demark a settimana al netto di ogni mancato servizio e di ogni eventuale danno arrecato, versati in contanti il trenta di ogni mese.
Veruska fu tentata di ribattere immediatamente e con vigore. Era stata assunta come domestica accompagnatrice, non come cameriera, sguattera e chissà cos'altro. Si ripropose di accantonare in fretta la cifra per un biglietto di ritorno a casa: qualora la situazione fosse diventata intollerabile, se ne sarebbe andata da lì a costo di scendere a piedi dalla collina.
Il signor Hirsch tacque, dandole modo di concentrarsi un poco sul panorama di rara bellezza che le si offriva agli occhi. L'auto stava scalando la collina seguendo la strada in salita che già un paio di volte si era arricciata in un vero e proprio tornante. Le curve sembravano non finire mai ed erano per lo più dolci: quando l'autista rallentò per affrontarne una più stretta delle altre Veruska poté gettare un lungo sguardo verso un panorama mozzafiato. Nessun albero le impedì di vedere lontane montagne turchesi, colline a perdita d'occhio, verdi di prati o cupe di boschi di aceri e sempreverdi. E una villa dalle dimensioni impressionanti.
Le pareti erano del color della crema e il tetto era nero d'ardesia, cosparso di cento comignoli. Le finestre erano tutte alte e decorate con archi e timpani, alcune avevano terrazzi fioriti. Era circondata da un giardino così grande da digradare assecondando la pendenza della collina in cima alla quale lo smisurato edificio era stato costruito. Ma soprattutto a colpire l'attenzione di Veruska fu che la villa aveva almeno tre piani ed era molto, molto estesa. Una voce le sussurrò all'orecchio che quella non poteva essere che Villa Schmeisser. Ci volle ancora un quarto d'ora a velocità sostenuta prima di arrivare alle scuderie.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Der dritte Teil ***


Schmeisser (Vollversion)
Der dritte Teil

Forse dopotutto frau Besen aveva avuto ragione.
Erano passate tre settimane e la vita a Villa Schmeisser si era rivelata tutt'altro che entusiasmante.
Le due cameriere, Inga e Karin, con cui aveva cominciato a lavorare da subito si erano rivelate presto due scansafatiche. Dapprima si era trovata a lavorare anche per loro; dal momento che piegare la testa e subire non era nell'indole di Veruska, il momento del conflitto era giunto inevitabile. Inga, la più velenosa delle due, da villana quale s'era subito dimostrata era passata dal bisticciare a parole al muovere le mani. L'aveva anche minacciata con un coltello a scatto, sbucato da chissà dove. Spaventata, Veruska era corsa dal signor Hirsch con in mano i due pezzi della lama di cui era avventurosamente riuscita a scoprire il nascondiglio. L'aveva spezzata sotto il tacco. L'aggressiva cameriera era stata licenziata in tronco, caricata su una delle auto e scortata fino in città. Non ne aveva saputo più nulla.
Purtroppo l'unico risultato pratico era che da quel giorno si era trovata costretta a lavorare spalla a spalla con una nemica giurata, Karin, e la medesima quantità di lavoro da suddividere in due anziché tre.
In tre settimane il suo carico di lavoro era aumentato tanto da arrivare alla sera così stanca da non avere la forza nemmeno di leggere il libro che suo padre le aveva regalato per il viaggio. Si alzava la mattina alle prime luci dell'alba, quando solo i giardinieri erano già all'opera. Spesso terminava gli ultimi lavori alla luce delle lampade elettriche che erano installate in ogni angolo della casa, perfino nell'alloggio della servitù.
In tre settimane non era riuscita a vedere tutte le stanze della villa, a visitare per intero il parco che la circondava né ad andare almeno una volta in città.
In tre settimane aveva visto una sola volta Lord Schmeisser.
Era accaduto una sera a cena. C'era un violento temporale e la corrente elettrica era venuta meno per qualche minuto. Era prossima a iniziare i preparativi per coricarsi quand'era successo. Le era bastato sedersi sulla sponda del letto e a tastoni aprire la cassettiera sotto il materasso per trovare candele e fiammiferi, prudentemente accantonati. Aveva subito ringraziato la previdenza di sua madre che le aveva trasmesso quell'abitudine. Veruska adorava le candele: la loro luce fievole e traballante era molto romantica e decisamente più bella della pur forte e smagliante luce elettrica. Più di una volta si era persa a fantasticare alla luce delle candele, fantasie di cene galanti, di begli uomini che la corteggiavano con preziosi doni.
Aveva appena acceso la candela che un'altra cosa era accaduta per la prima volta: il campanello sopra il suo letto aveva tintinnato tre volte. Nel semplice codice che il signor Hirsch le aveva dato ciò significava che era richiesta la sua presenza con sollecitudine. Mai era accaduta una cosa simile. Non senza un po' di batticuore si era alzata e, badando a non spegnere la candela, aveva attraversato stanze e corridoi completamente bui fino a giungere nella grande sala da pranzo, dove sapeva che Lord Schmeisser trascorreva del tempo dopo la cena.
Il signor Hirsch l'aveva apostrofata subito, ma con una decisa nota di sollievo nella voce. Anche la sala da pranzo era completamente al buio e il maggiordomo evidentemente aveva troppo timore di inciampare e cadere per muoversi. Le aveva ordinato di accendere il candeliere a capo tavola e di portarlo poi al capo opposto. Non se l'era fatto ripetere: ben sapeva che i due anziani servitori di Villa Schmeisser non amavano affatto dover ripetere gli ordini, né che essi venissero posti in discussione.
Facendo attenzione a non imbattersi in alcun ostacolo, si era incamminata lungo il tavolo, cercando con gli occhi abbagliati dai riflessi la posizione migliore per l'ingombrante e pesantissimo candelabro a cinque braccia. Finalmente tra bicchieri di cristallo e bottiglie di vino era riuscita a trovare un posto adatto.
Veruska era trasalita per lo spavento. Aveva sentito le sue mani scattare veloci verso il proprio corpo, incontrollabili come due animali in fuga. Senza nemmeno sapere da dove le era giunta la forza e la saldezza di spirito, si era controllata ed era rimasta ferma, apparentemente calma. Nel cerchio di luce dorata che il candelabro irraggiava forte di ben cinque candele accese c'era il viso di un vecchio spaventoso.
Se la peggiore vecchiaia avesse avuto un volto, sarebbe stato quello.
La pelle era come appesa al teschio e macchiata di scuro; era solcata da ramificate venuzze blu, percorsa da profonde rughe; il naso era butterato, le orecchie grandi, aggrinzite, pelose e trasparenti; i capelli radi erano bianchi e a dispetto degli sforzi fatti per mantenerli in ordine, si ribellavano rendendosi evidenti e molesti. E gli occhi! Liquidi e ingialliti, quasi spenti, l'iride a stento distinguibile dalla pupilla, e puntati su di lei.
Lord Schmeisser era più brutto e spaventoso di una mummia egizia.

Aveva trascorso diversi giorni col terrore di incontrare nuovamente Lord Schmeisser, soprattutto dopo il calar del sole. Ma non era accaduto. C'erano sempre frau Besen e il signor Hirsch a badare a lui. Lei presto giunse quasi a dimenticarsi dell'accaduto fino a quel giorno. Sin dalla mattina nere nubi si erano rincorse nel cielo e un freddo vento teso aveva sferzato la cima della collina facendo sbattere le imposte di tutta la villa. Veruska temette il temporale, la mancanza di corrente e il buio, ma non accadde nulla di preoccupante. Il temporale ci fu e con esso un violento acquazzone, ma accadde nel pomeriggio. Per l'ora di cena era già tutto finito e la fresca serata era sì umida, ma così bella e silenziosa che Veruska decise di fare quattro passi fuori prima di andare a coricarsi. Per non fare incontri sgraditi uscì da una delle porte di servizio e si limitò a pochi passi lungo la parete esterna della villa. Se ne stette lì a respirare l'aria fresca, a guardare le nuvole buie che mostravano ampi strappi stellati e, per osservarle meglio, si scelse un punto dove le lampade che rischiaravano il giardino stentavano ad arrivare con la loro luce tenue.
Proprio mentre fantasticava a naso all'insù sulla fetta di cielo nero trapunto di stelle visibile in quel momento, le luci da giardino, globi giallastri montati su aste di metallo verniciato di nero tentennarono, minacciarono di spegnersi un paio di volte e poi tornarono a brillare normalmente. Lontano si udirono gemiti elettrici e tonfi meccanici, come di macchinari pesanti che venivano avviati. Aveva già sentito rumori come quelli una volta uscita dalla stazione ferroviaria di Kräaftenburg. Le sembravano trascorsi cento anni.
Tese l'orecchio: non si sentiva più nulla. Solo un gran silenzio. Stette in ascolto fino a dubitare d'aver udito davvero qualcosa. Perfino il ricordo d'aver visto le luci tremolare per un attimo si stava già sbiadendo. Si stropicciò gli occhi e sbadigliò compostamente com'era stata educata a fare sempre, anche trovandosi da sola. Ancora lontani rumori meccanici, ma non così lontani rifletté: la città era troppo distante e a quell'ora erano ben poche le fabbriche attive. La fonte del rumore era decisamente più vicina, era lì intorno.
Veruska, con la pelle accapponata e un po' d'ansia che le gravava lievemente sul cuore, rientrò e si coricò.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Der vierte Teil ***


Schmeisser (Vollversion)
Der vierte Teil

- Eccomi, signor Hirsch.
La mano del maggiordomo si fermò sopra il campanello e si ritrasse dopo un istante di incertezza. Come se suonarlo nonostante lei fosse giunta in tempo fornisse una scusa valida per poterla rimproverare.
- Molto bene, Veruska.
Il maggiordomo assunse un'aria più spocchiosa del solito e si impettì come se ciò che stesse per dire richiedesse qualche centimetro di statura in più.
- Io e la signora Besen abbiamo valutato attentamente il tuo operato sin dal primo giorno del tuo servizio qui.
Ahi, pensò Veruska con la morte nel cuore. Adesso le pagherò tutte, a partire da quella faccenda del coltello. Il benservito è in arrivo!
- Nonostante tu sia ampiamente lontana dal livello di eccellenza richiesto, entrambi ti riteniamo più che adeguata a ricoprire il ruolo di domestica a Villa Schmeisser. I tuoi compiti saranno quello di mantenere il resto della servitù all'opera e di offrire il tuo aiuto e la tua competenza ovunque necessario.
Niente che già non faccia, pensò Veruska. Nella sua mente si formò subito l'immagine del secchio con lo spazzolone per i pavimenti che la attendeva: quella mattina c'era da lavare un paio di centinaia di metri quadrati di lussuose piastrelle qua e là per tutto il piano terreno. Era andata peggio a Karin, l'altra cameriera che dalle prime luci dell'alba stava arrotolando, trasportando, battendo e riposizionando pesantissimi tappeti. Da sola.
Si riscosse: il maggiordomo stava ancora parlando.
- ...quindi a partire da subito. Ti informo che sono attesi ospiti: li accoglierai e li farai accomodare nella biblioteca piccola. Ti manterrai a disposizione finché non saranno congedati.
Il signor Hirsch concluse aprendo la porta del suo piccolo studio, che Veruska sapeva confinante con la camera da letto. Chiaro invito a tornare alle sue faccende. Con una rapida riverenza si congedò e fece esattamente ciò che il maggiordomo si aspettava da lei: corse a controllare che la biblioteca piccola fosse in perfetto ordine e che altrettanto valesse del percorso che andava da lì all'ingresso. Tutto ciò che sarebbe potuto cadere sotto gli occhi degli ospiti fu scrutato con attenzione, spolverato, raddrizzato, pulito e lucidato. Veruska aveva appena finito di rassettarsi dopo la fatica quando suonarono alla porta d'ingresso principale.
Guten Morgen, fräulein.
Di fronte a lei c'erano due uomini. Quello che aveva salutato teneva la bombetta sollevata dalla testa con una mano guantata, l'altro la teneva all'altezza del ventre e si limitò a un cenno del capo.
Nel tempo di una misurata riverenza Veruska li squadrò entrambi. Vestivano con pastrani grigio piombo molto simili se non addirittura identici e avevano l'aria di essere poliziotti. Uno portava la barba nera impomatata e appuntita sul mento mentre le guance erano rasate alla perfezione. L'altro ostentava una capigliatura color del legno di noce, folta e ben pettinata, mentre il viso era ornato da baffi quasi neri lunghi fino al mento. Sembravano tutti e due oltre la trentina ma lontani dalla piena maturità maschile che lei, come sua madre le aveva inculcato, poneva a cavallo dei quaranta anni.
- Vogliate seguirmi, meine Herren.
Seguendo alla lettera le indicazioni avute Veruska li condusse nella biblioteca piccola e li fece accomodare. Si offrì di custodire i loro soprabiti nel guardaroba, ma entrambi rifiutarono cortesemente.
- Sarà questione di poco, non ci tratterremo – disse quello con la barba mefistofelica, la bombetta in mano.
Veruska si congedò da loro accennando una riverenza e si chiuse la porta alle spalle.
Il suo cuore perse un colpo.
C'era una persona che risaliva il corridoio procedendo spedito verso di lei. Una persona mai vista prima. Fu colpita dai capelli chiari tagliati a spazzola che incorniciavano un viso cupo dai lineamenti forti e squadrati. Gli occhi erano sottolineati dalle vistose borse di chi trascura il sonno e la salute per lo studio o per il lavoro. Anche la barba che ornava quel viso era chiara, molto fitta e mantenuta corta. L'uomo era nel fiore della gioventù e si muoveva grazie a una curiosa sedia a rotelle ronzante.
Le gambe, nonostante fossero celate da una coperta di lana, erano palesemente amputate sotto il ginocchio.
Mentre gli occhi di Veruska non riuscirono a staccarsi per un solo istante da quell'apparizione, lui non la degnò di uno sguardo. L'uomo aprì la porta della biblioteca piccola e vi entrò deciso.
Rimase imbambolata per qualche secondo, col cuore che faceva le capriole. Eric Schmeisser! Non poteva essere altri che lui! Nessuno le aveva mai detto nulla di lui ma la somiglianza con gli antenati i cui ritratti occhieggiavano severi in molte stanze della villa era innegabile.
Udì voci alle sue spalle. La porta della biblioteca non era chiusa bene e si poteva udire come il tono della conversazione si fosse già alzato. Si riscosse: era stata appena nominata domestica, con la promessa di riunire tutta la servitù domenica a pranzo per la comunicazione ufficiale e quanto stava facendo in quel momento, cioè origliare il padrone di casa, era motivo valido per il licenziamento.
Ma l'immagine di Eric Schmeisser non voleva uscirle dalla mente. Un'anima tormentata, una spugna gonfia di dolore. Ecco cosa aveva visto pochi istanti prima. Non poteva certo far finta di nulla! Era suo dovere alleviare le sofferenze di quell'uomo, almeno quelle fisiche! Che razza di domestica potrò mai essere altrimenti, si chiese. Ricordò le parole del suo tutore durante una delle prime lezioni all'istituto alberghiero, pronunciate in aula magna a tutti i giovani aspiranti domestici. “Servire non è solo un lavoro. Servire è uno scopo, servire bene un vanto. Servire, servire, servire il proprio signore fino alla fine, fino a quando egli ne avrà necessità, anche se lui stesso vi respingerà. Anche allora resterete vicino a lui, nell'ombra, non visti ma presenti. Pronti. Per servire”.
Veruska corse nella stanza adiacente e lasciò la porta aperta. Si acquattò contro la parete in modo da poter sentire senza essere vista da qualcuno che si trovasse a passare lungo il corridoio.
Non capiva nulla di quello che le arrivava alle orecchie: la biblioteca era fatta apposta per fermare i suoni. Tende pesanti, mobili massicci e spessi tappeti. Perfino la porta era imbottita per non trasmettere suoni attraverso il legno. Tese ancor di più l'orecchio cercando di catturare le parole che fuggivano dalla porta dimenticata accostata. Il tono della conversazione era salito ancora, rasentando il litigio. “Progetto”, “lavoro”, “fornitura” erano le parole pronunciate più di frequente, insieme a una gran quantità di negazioni. “No” e “non posso” erano forse quelle pronunciate dal giovane Schmeisser, una voce forte ma incrinata. Vi furono lunghi secondi di silenzio, o forse stavano parlando con un tono di voce troppo basso perché giungesse fino a lei. Poi un improvviso scambio di battute troppo ruvido per essere un cortese e formale arrivederci, ma altrettanto breve. Veruska sentì la sedia a rotelle con le sue strane ruote disposte a triangolo ronzare nel corridoio e allontanarsi rapidamente.
Si decise ad abbandonare il suo nascondiglio appena in tempo: aveva raggiunto l'atrio da meno di un minuto quando emersero dalla biblioteca i due ospiti. Rossi in viso, interruppero qualsiasi cosa stessero dicendo non appena la videro e si fecero accompagnare in silenzio fino all'uscita. Ricambiarono a stento i saluti e, guadagnata la loro vettura nera che li attendeva ai piedi della gradinata, se ne andarono.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Der fünfte Teil ***


Schmeisser (Vollversion)
Der fünfte Teil

Quella settimana proseguì ricca di avvenimenti. Il giorno seguente, un martedì, si presentò alla porta la nuova cameriera. Maria: un'immigrata italiana che a parte qualche piccolo problema di pronuncia e una fastidiosa venerazione per la Beata Vergine e San Gennaro si mostrò subito un valido elemento. Piccoletta, pettoruta e robusta non si spaventava di fronte ai lavori pesanti che anzi, portava a termine con solerzia mettendo in cattiva luce l'altra rancorosa cameriera, Karin. Questa avrebbe fatto volentieri uso del coltello che la sua cara amica Inga aveva sventolato sotto il naso di Veruska, ma era troppo vile per farlo davvero. Maria si guadagnò le simpatie di Veruska quando affrontata Karin a muso duro il giovedì seguente, gliene disse quattro digradando da un tedesco un po' incerto all'italiano e finendo col napoletano stretto, incomprensibile ma ugualmente efficace. Karin, da quella persona con poca spina dorsale che aveva già dimostrato di essere, abbassò la testa e cominciò a lavorare al punto che il signor Hirsch notò la differenza.
Il venerdì Veruska lo trascorse dividendosi faticosamente tra i suoi doveri e la perlustrazione della villa alla vana ricerca di una traccia qualsiasi di Eric Schmeisser. Venne meno la corrente elettrica dopo cena, ma fu solo per pochissimi minuti. Maria fu più lesta di Veruska nell'accendere una candela.
Sabato il sole dardeggiò da mattina a sera, nel cielo nemmeno un nuvola. La temperatura si alzò di parecchio e i giardinieri lavorarono con le maniche della camicia arrotolate fino sopra i bicipiti.
Domenica mattina Veruska, Maria e Karin lavorarono febbrilmente: il signor Hirsch aveva ordinato che tutta la servitù pranzasse nel cortile dietro la villa, in un grande spiazzo vicino agli alloggi della servitù stessa. Durante il pranzo mantenne la parola data e annunciò a tutti la promozione di Veruska. Era la prima per importanza dopo il signor Hirsch e la signora Besen. Tutti le fecero i complimenti e la applaudirono, poi si dedicarono al dolce: una Sacher torte che fu portata con una certa pompa dai due cuochi.
Poi, come ogni domenica pomeriggio, la servitù fu lasciata in libertà.
Maria e Karin approfittarono della cortesia di Lord Schmeisser che ogni domenica metteva l'auto a disposizione di chiunque intendesse recarsi in città. Si partiva dopo pranzo e il rientro era previsto subito dopo l'ora di cena. Le accompagnarono due dei giardinieri più giovani, un cuoco e lo sguattero. Veuska si sentiva troppo stanca: rimase a sbarazzare la grande tavolata avendo deciso che sarebbe rimasta alla villa per riposare e godersi il sole caldo e la quiete della collina. Aiutò Franz, il cuoco rimasto, a smontare e riporre il tavolo dopodiché si rinfrescò, prese il suo libro e si addentrò un poco nella prima parte del parco, quella più curata dai giardinieri.
Qui le siepi erano potate con geometrica maestria, le aiuole curate e fiorite, le statue delle fontanelle erano pulite e candide. Perfino i pesci rossi nelle vasche sembravano passarsela molto bene: pasciuti e vivaci, giocavano a rincorrersi guizzando di tanto in tanto in superficie.
Veruska si recò nel labirinto di basse siepi verdissime che circondava una larga vasca circolare dove pigri giochi d'acqua producevano un rinfrescante e tranquillizzante sciabordio. La vasca era circondata da un orologio floreale: si poteva dire l'ora, con una certa approssimazione, a seconda della porzione di aiuola che schiudeva i petali. In quel mentre le dalie gialle stavano cedendo il passo a un tripudio di gerani di un rosa accesissimo.
Si dedicò al suo libro, una storia romantica di amor cortese tra cavalieri senza macchia e damigelle dal cuore puro. Diverse struggenti pagine le scorsero tra le dita quando dovette interrompere per l'emozione. Appoggiò meglio la schiena alla panchina e offrì il viso ai caldi raggi del sole, chiudendo gli occhi per non rimanere abbagliata e lasciandosi andare all'immaginazione e alle più dolci fantasie.
Passi pesanti sulla ghiaia la riportarono in fretta alla realtà.
- Perdonate, magistra...
Jean, il capo dei giardinieri. Un uomo robusto, bruno come il cuoio, con una zazzera di capelli grigi e bianchi che sfuggiva da sotto il berretto verde bosco. Come sempre indossava i pantaloni da lavoro, la pettorina ben stretta con le tasche sformate dal peso degli attrezzi, la camicia blu con le maniche arrotolate a mostrare i bicipiti tesi, grosse scarpe spesse e sporche, adatte ai lavori pesanti. In una mano teneva un candido ombrello parasole, nell'altra la pesante pietra forata atta a sostenerlo.
- Ho pensato che forse avreste gradito un po' d'ombra di tanto in tanto.
Veruska sorrise all'anziano giardiniere che la trattava con ancor più deferenza del solito. Quel titolo, poi! Dove l'aveva pescato?
- Non sono magistra di nessuno, Jean. Metta pure l'ombrello dove crede, mi sposterò io.
- Ma certo, signora.
In un battibaleno l'ombrellone fu posizionato e aperto in modo da offrire ombra fino a metà della panchina.
- Non vorrebbe sedersi un minuto, Jean? - l'uomo si bloccò lì dove le parole di Veruska l'avevano colto: già incamminato verso un nuovo lavoro.
- Dopotutto è un giorno di riposo oggi, no? È domenica – lo incoraggiò vedendolo titubante.
Jean si accomodò, goffo come un orso, a rispettosa distanza da lei. Lo ringraziò per il pensiero gentile, aggiungendo che un ombrellone le avrebbe fatto comodo di lì a poco. Il sole era davvero caldo.
Cercò di mettere il vecchio operaio a suo agio complimentandosi con lui per come il parco e i giardini di Villa Schmeisser erano tenuti, e facendogli domande che lo invogliarono a chiacchierare di piante e fiori. Jean pian piano si sciolse e, forse complice il vino bevuto a pranzo, si lasciò portare verso altri argomenti.
Dopo meno di mezzora seppe che il giardiniere era un veterano della villa, al servizio degli Schmeisser da oltre trent'anni.
- Non è sempre stato così – le rispose quando gli fece notare l'assenza di un tocco femminile nella villa, parlando in generale. Jean ribatté d'aver conosciuto la Signora, la consorte di Lord Schmeisser: Eva Kraun, figlia del barone Franz-Ferdinand Kraun. Jean pronunciò quei nomi con il massimo rispetto e gli occhi lucidi. Divagò un poco narrando disordinatamente delle sontuose feste alla villa dove i coniugi Schmeisser erano soliti avere sempre almeno un centinaio o più di invitati.
- Poi la Signora si ammalò e morì – aggiunse curvando le spalle in avanti come se rivivesse il dolore di quella perdita – e nulla fu più lo stesso. Lord Schmeisser si chiuse sempre più in se stesso, il Signorino ebbe l'incidente e perfino la sua amata Janine se ne andò tragicamente di lì a pochi anni.
Sospirò così profondamente che Veruska ebbe la sensazione che perfino le lontane montagne turchesi avessero sospirato con lui.
Non riuscì a fargli dire altro: sentendosi in colpa per aver destato in lui ricordi così tristi lo trattenne ancora un poco cercando di riparare con argomenti più leggeri, poi lo congedò.
Trascorse il pomeriggio leggendo e riposando, concedendosi persino un leggero sonnellino. Tale era la quiete e la pace del giardino.
Il sole era giunto poco oltre la metà della sua discesa verso le verdi colline quando Veruska decise di sgranchirsi un po' facendo una passeggiata. Si allontanò ulteriormente dalla villa esplorando il giardino così sapientemente mantenuto dai giardinieri. Raggiunse il limitare dove le siepi erano tagliate a due metri e passò sotto l'arco festoso di bouganville viola. Sotto i suoi piedi il selciato bordato di ghiaia bianca si interruppe sostituito dal morbido terreno verde d'erba rigogliosa, tagliata all'altezza migliore. Nuovi profumi e colori la avvolsero mentre si beava della natura che sembrava d'un tratto riprendersi i suoi spazi: aboliti i geometrici confini delle siepi, sparite le fontanelle e i sentieri puliti e delimitati da piante di bordura, a Veruska parve di essersi inoltrata in uno dei boschi fatati di cui aveva letto nelle pagine del libro che ancora teneva tra le mani. Troppo pratica e realista per mettersi a sognare a occhi aperti l'incontro con un bel cavaliere in armatura da parata, si inoltrò tra gli alberi ben tenuti esplorando tranquilla e placida, rincuorata dalla luce del sole che non aveva difficoltà a giungere fino al terreno. Di tanto in tanto si voltava indietro per controllare che si vedessero ancora le pallide mura di Villa Schmeisser.
Quasi non si accorse che il terreno cominciava a digradare e a diventare più aspro. Rami caduti, foglie secche, tappeti di aghi di pino rossicci e punteggiati da qualche scura pigna qua e là. Frulli d'ali sempre più vicini e l'erba che si faceva più alta e umida per la pioggia caduta abbondante nei giorni precedenti. Era palese che quella parte del parco fosse poco frequentata dai giardinieri e che la sua passeggiata terminava lì. Tornò sui suoi passi, o così credette di fare. Quando pensò di trovarsi in vista della villa si rese conto con spavento che non era affatto così. Il luogo le era familiare ma evidentemente si trattava di un inganno della sua memoria. Che sciocca, si rimproverò. Troppo svagata e con la testa fra le nuvole! La consapevolezza di essersi smarrita le morse il petto ma non volle arrendersi subito. Con calma ma cercando di mantenere un buon passo cercò di ritrovare la via smarrita. Si affidò dapprima alla sua memoria e al suo senso dell'orientamento, che però l'avevano appena tradita entrambi. Poi fece appello agli espedienti narrati nei libri divorati nella sua fanciullezza e che ancora oggi prediligeva, ma la posizione del sole nel cielo rimase un enigma e no, non si era proprio ricordata di portare con sé un gran gomitolo di filo da svolgere passo dopo passo per poter ritrovare la via nel labirinto. A stento si rincuorò al pensiero che il mostruoso minotauro era solo un antico mito.
Il sole si abbassava a velocità sorprendente ora che la pungeva la fretta e l'ansia di rientrare. Verranno a cercarmi, pensò vedendo le ombre allungarsi sempre più, in fuga dal sole al tramonto. Verranno sicuramente, mi cercheranno con torce elettriche chiamandomi a gran voce, si augurò vedendosi cinta d'assedio dalle prime ombre della sera che le scivolavano addosso come inchiostro.
Stanca per il lungo tratto percorso a piedi, infreddolita per l'umidità del sottobosco, appoggiata al tronco di un albero per vincere la pendenza del terreno, Veruska giunse a un passo dallo sconforto. Ancora poco e sarebbe stato così buio tra gli alberi che a stento avrebbe potuto distinguere mani e piedi. C'erano alberi ovunque attorno a lei, e fruscii spettrali tra le loro chiome. Il terrore dei pipistrelli montò improvviso dentro di lei rischiando di gettarla nel panico: non ci aveva pensato fino a quel momento.
Calma, si disse. Sono figlia di un'era moderna e i vampiri esistono solo nei libri. Si guardò intorno: non vedeva più nulla, nessuna luce, nessun punto di riferimento. Nulla. Qualsiasi direzione era indistinguibile da un'altra. Qualcosa le volò sopra la testa facendola gemere per lo spavento come una bambina. Si chinò, le mani tra i capelli, e non poté vedere da dove erano sbucate all'improvviso le luci.
Il classico sibilo di un'auto a vapore, le luci dei fari che tagliavano veloci il buio sotto di lei, oltre gli alberi. Pochi istanti e si trovò a guardare con gioia le rosse luci di posizione, occhi brillanti e un po' diabolici che si allontanavano da lei. C'era una strada poco più sotto.
Rischiando una brutta storta a una caviglia a ogni passo Veruska discese in direzione della strada che non poteva vedere, ma che doveva esserci per forza. Quando finalmente le suole delle sue scarpe si posarono senza preavviso sull'asfalto, sorpresa e sollevata sospirò profondamente. La luna non era ancora sorta ma alla luce delle stelle, non più fermata dal tetto delle fronde degli alberi, riuscì a vedere la strada nel buio. Stanca e con le gambe indolenzite si incamminò ugualmente di buona lena. Non aveva la più pallida idea della sua destinazione, ma da qualche parte quella strada sarebbe pur arrivata. E, se fosse stata fortunata, avrebbe potuto chiedere aiuto fermando il prossimo veicolo di passaggio.
Fu la luce a distrarla dai suoi propositi. La vide chiaramente aumentare poco a poco al di là di una curva. Vi giunse col petto che rimbombava per i battiti del cuore esultante. Un edificio industriale di mattoni rossi, tutte le finestre erano illuminate. Ferveva dell'attività al suo interno, evidentemente. Si sentiva un forte ronzio elettrico in alto nell'aria, qualcosa sfrigolava. Mentre si dirigeva sempre più decisa grazie alla luce che le illuminava meglio la via, si trovò a passarvi sotto. Cavi elettrici, alta tensione. C'era una cabina elettrica lì vicino che alimentava i macchinari dell'edificio.
Con gli occhi tracciò il percorso verso la porta che le pareva di intuire nella faccia che l'edificio industriale le rivolgeva. I suoi piedi però si rifiutarono di muoversi. Le ginocchia si piegarono e tutto il corpo si chinò in avanti acquattandosi istintivamente. Nonostante le ombre aveva scorto del movimento. Due figure erano già presso la porta con fare sospetto. Proprio mentre le guardava quelle aprirono la porta ed entrarono nell'edificio. Grazie alla luce che proveniva dall'interno vide chiaramente i due uomini col pastrano.
Se ne stette lì inginocchiata allo scoperto, protetta solo da un velo di buio minacciato dalla luce elettrica che pioveva dalle vetrate del grande capannone. L'unico posto dove avrebbe potuto trovare aiuto e rifugio aveva ora un'aria minacciosa, inquietante. Era giunta proprio in procinto di qualche evento, qualcosa stava per consumarsi entro quelle massicce mura di mattoni. Tremava, non solo per il freddo. Non poteva certo starsene lì fuori ma nemmeno ficcare il naso in affari che non la riguardavano.
Decise che avrebbe aspettato un momento migliore e magari avrebbe chiesto aiuto a chiunque fosse uscito da quella porta. Si avvicinò: era inutile starsene piantata lì in mezzo nella penombra. Ma una volta nei pressi della porta furono le voci a farle cambiare idea.
Le riconobbe subito: erano quelle dei due misteriosi visitatori che avevano discusso col Signorino. Stavano di nuovo alzando la voce. Un'altra voce nota stava rispondendo loro, pacatamente. Eric Schmeisser, non c'erano dubbi.
Veruska non seppe giustificarsi nemmeno con se stessa. Fu il suo intuito a dirle che una situazione di pericolo si stava creando oltre quella parete, e che Eric Schmeisser era minacciato. Non esitò oltre e aprì la porta con cautela.
- È finita, Schmeisser. Consegnerà i progetti a noi, immediatamente!
- No! Non vi impadronirete anche di questo – fu la calma risposta dell'uomo. Veruska non poteva vedere niente: un tramezzo di mattoni forati cementati da calce e mai intonacati le sbarrava la vista verso l'interno del capannone, ben illuminato da molteplici lampade elettriche. Il tramezzo era alto circa tre metri e non arrivava certo al soffitto, che svettava altissimo sopra la sua testa ricco di tralicci, scale, passerelle, rotaie, condotte di scarico del vapore che si facevano strada verso il tetto e passatoie per cavi elettrici che serpeggiavano ovunque. Catene e pulegge per sollevare grandi carichi penzolavano da un carro ponte che aveva qualcosa di pesante agganciato ai verricelli più potenti. Robustissime catene triple erano in tensione ad angoli innaturali, ma il tramezzo le impediva di vedere di che macchinari si trattasse.
Si fece forza e si sporse di pochissimo per sbirciare.
Erano proprio i due uomini che erano stati alla villa quella settimana. Le offrivano il fianco e fronteggiavano decisi Eric Schmeisser.
Ritto in piedi.
Su gambe di acciaio e ottone.
Paralizzata dall'orrore e dalla sorpresa, non poté fare a meno di osservare quella straordinaria e spaventosa figura. Eric Schmeisser se ne stava ritto in piedi, la camicia bianca sporca di grasso e sudore, le maniche arrotolate sopra i gomiti tese intorno a massicci muscoli. Attraverso la camicia sbottonata si intuiva il petto ampio e poderoso. Sul viso stanco e lucido di sudore spiccavano profonde occhiaie scure, la barba chiara e sporca, lucidi occhi febbrili e la mascella larga e decisa. Aveva segni di nerofumo sulla fronte e gli tremavano le labbra.
Si appoggiava a una comune stampella e i moncherini delle gambe stretti nei pantaloni cuciti appositamente erano infilati in due protesi meccaniche: un intrico di molle, pistoni e tiranti che gli occhi di Veruska non riuscivano a cogliere del tutto.
La giovane ebbe la presenza di spirito di trattenere il fiato e di ritrarsi al riparo lentamente: i tre erano a pochi metri da lei.
- Non ci costringa ad agire, Schmeisser: non opponga resistenza. Noi rappresentiamo l'autorità del Kaiser!
- Possibile che non capite? Il Kaiser e tutta la nazione ricaveranno molto di più da tutto questo se verrà usato per ciò che io ho progettato!
- Adesso basta, Schmeisser! Nel nome del Kaiser August Gustav von Richter III, prendo possesso del suo progetto, del prototipo da lei costruito e di tutto ciò che si trova dentro e fuori questo edificio! Le ordino di collaborare!
Veruska si sporse appena in tempo per vedere l'uomo con la barba a punta estrarre una pistola brutta e squadrata da sotto il pastrano, e spianarla contro Eric Schmeisser.
Ancora una volta fu il suo istinto a decidere per lei. Senza nemmeno sapere esattamente cosa stava facendo, vinta dall'impulso protettivo nei confronti del giovane Schmeisser, saltò fuori dal suo nascondiglio e si gettò a mani tese sul braccio che impugnava la pistola.
Vi fu un rapido parapiglia: Veruska era terrorizzata dalle armi e a stento riuscì a opporre resistenza. I due uomini ebbero ragione di lei in poche mosse, ma lo scompiglio da lei creato ebbe risultati sorprendenti.
- Sua Maestà Vittoria, Regina d'Inghilterra vi porta i suoi omaggi e ringrazia sentitamente!
Veruska trattenuta a terra per le braccia dall'uomo più massiccio alzò lo sguardo imitando i due agenti del Kaiser. Su una passerella prossima al soffitto c'era l'autista di Lord Schmeisser, sorridente. In mano stringeva un tubo dorato: certamente si trattava di qualcosa di importante. Così importante che l'agente armato di pistola esplose contro la spia britannica tre colpi in rapida successione. Nessuno di questi andò a segno.
- Attenzione!
Veruska ebbe le mani libere, ma non il tempo di gioire.
Era così grosso che ai suoi occhi era passato inosservato.
Un enorme automa metallico alimentato da motori elettrici e reso potente da cilindri azionati dal vapore cominciò a muoversi, prigioniero delle catene dei verricelli che lo mantenevano in posizione eretta. Aveva braccia lunghissime e gambe tozze, era irto di meccanismi di ogni genere: valvole che si aprivano e scaricavano l'eccesso di pressione, ruote dentate sporche di grasso bruno, cinghie multiple avvolte e incrociate su pulegge cui si accoppiavano nere catene di trasmissione larghe quanto una mano. Era chiaramente incompleto.
Era comandato da Eric Schmeisser, che se ne stava alloggiato nel centro dello smisurato essere di metallo.
Tutto sommato il minotauro esiste, pensò Veruska dandosi della stupida un attimo dopo.
Uno dei bracci avvinto dalle catene dei paranchi si alzò tra gemiti elettrici e soffi di vapore per poi calare con straordinaria e inattesa velocità. Lo strattone che diede alle catene si trasmise alle rotaie del carro ponte che si piegarono. Il pesante congegno di sollevamento si inclinò insieme alla passerella scelta dalla spia inglese come via di fuga. Per sostenersi e non cadere da quella vertiginosa altezza quello fu costretto a lasciare cadere il cilindro di metallo che sparì alla vista tra i macchinari posati con ordine sul pavimento del capannone.
Il minotauro di Schmeisser nel frattempo si era liberato del tutto. Non era in grado di sostenersi sugli arti inferiori quindi cadde in avanti, a quattro zampe. Essendo gli arti superiori più lunghi delle possenti gambe, riusciva a mantenere una posizione quasi eretta.
- Via! Tutti via! - sbraitò il giovane Eric alzando un braccio e menandolo a mo' di martello contro l'agente del Kaiser che gli stava puntando contro la pistola. Quello dovette ripararsi per non perire schiacciato.
Strisciando a quattro zampe, terrorizzata dal caos che stava vedendo e dal frastuono di metallo che cigolava, dai colpi che martellavano il pavimento di cemento e dal rumore orribile dei motori di quel minotauro meccanico, Veruska si era trovata con le spalle al muro. La paura le aveva paralizzato il cervello e strillò come un ossesso quando le rotaie del carro ponte, danneggiate irreparabilmente, stridendo insopportabili cedettero di schianto sotto il peso delle attrezzature di sollevamento.
Molte volte aveva letto delle imprese del dio Thor che col suo Mjolnir era in grado di affrontare qualunque minaccia, certo del potere del tuono. Quando il coro di lamenti delle lamiere che si deformavano sofferenti e cadevano dal soffitto culminò nello schianto del carro ponte, fu come se Mjolnir si fosse abbattuto su quel capannone. Il pavimento vibrò, il tuono cancellò il grido dalle orecchie di Veruska e le rimbombò dentro polmoni, stomaco e ventre, lasciandola impotente. Nemmeno la pioggia di calcinacci e schegge di mattone la indusse a togliersi da dove aveva irragionevolmente trovato rifugio, terrorizzata come un piccolo topo in trappola.
Invulnerabile, il mostro meccanico spazzò via il tramezzo di mattoni con un unico colpo del braccio sinistro. Vedere il suo riparo precedente finire in briciole con quella facilità aiutò Veruska a scuotersi.
L'aria si stava riempendo di polvere di cemento e dal soffitto continuavano a cadere briciole di mattone. Tossendo la giovane domestica sgattaiolò ancora a quattro zampe senza una meta precisa. Voleva andarsene: il cemento vibrava a ogni passo del minotauro e lei non avrebbe voluto trovarsi sulla sua strada per nulla al mondo. Riuscì a rizzarsi in piedi e a rendersi conto di ciò che stava succedendo. Il mostro era lontano: si udì un colpo d'arma da fuoco, assordante. Ne vide anche la vampa: il braccio meccanico sinistro scattò subito in quella direzione ma centrò in pieno un pilastro di mattoni.
Veruska fu colta dal terrore. Il braccio si ritrasse vistosamente danneggiato, ma il pilastro aveva subito un danno grave. Pesanti mattoni cominciarono a cadere dall'alto dove si era creata una frattura. Il massiccio sostegno strutturale si era piegato sotto il colpo e stava per cedere. Il carro ponte cadendo aveva urtato il pilastro adiacente lesionandolo. Dovendo ora sostenere del peso aggiuntivo, anche quello cominciò a cedere rapidamente.
Una mano piccola e forte la afferrò per il braccio, tirandola con decisione.
Maria!
Aveva con se il tubo metallico, impolverato e acciaccato.
La trascinò tra macchinari e attrezzature, guidandola con sicurezza verso una grande porta schiusa di poco. Era lo scivolo di carico del capannone, dove i camion venivano a caricare e scaricare. Sgattaiolarono via in fretta e furia dalla porta carrabile: alle loro spalle l'intera struttura stava scricchiolando. All'interno instancabile il minotauro si agitava nella sua furia cieca e distruttiva.
Mentre ancora correvano un tuono potente rotolò in un crescendo assordante dietro di loro. Veruska si voltò in tempo per vedere più della metà del grande edificio accartocciarsi su se stesso in un nube di polvere illuminata dall'interno dalle azzurre e gialle scariche elettriche dell'alta tensione in corto circuito. Il terreno tremò, le luci si spensero.
- Peccato... in fondo erano tutti dei bravi guaglioni – sospirò Maria, già domato il fiatone per la corsa fatta.
- Il Principe di Savoia sarà contento – disse poi agitando il tubo metallico.
Veruska obbedì un'ultima volta al suo istinto. Strappò il cilindro metallico dalle mani di Maria, lo usò per colpirla in viso più forte che poté e corse via come il vento, nel buio.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Der letzte Teil ***


Schmeisser (Vollversion)
Der letzte Teil

Aprì gli occhi di scatto, sobbalzando.
Si era appisolata. Per forza, si disse umettandosi le labbra disidratate. Il sole la colpiva attraverso il finestrino del treno e la veletta di pizzo del suo cappello da viaggio non la riparava.
Con un solo sguardo perquisì il compartimento dove si trovava. Nessun viaggiatore seduto con lei, nessun bagaglio oltre la sua borsa. Si tranquillizzò un poco.
Non voleva addormentarsi: non doveva farlo. Anche se aveva dormito poche ore, anche se era stanca e indolenzita in ogni punto del corpo. Soprattutto le gambe a causa di tutta la strada che aveva fatto. Non si sentiva ancora abbastanza al sicuro. Si rimproverò subito per quel pensiero sciocco. Era tutto finito. Non doveva temere più nessuno.
Con la memoria andò indietro ai fatti della sera prima. Rivisse tutto come guardando una pellicola troppo veloce: l'edificio dove Eric Schmeisser aveva assemblato un titano di acciaio grigio azionato dalla potenza del vapore e dalle membra scattanti grazie ai prodigi dell'elettricità. Poi la lotta con gli emissari di diverse superpotenze europee. Chissà se l'avevano davvero tutti scambiata per una spia dello Zar di Russia. Certo non le avevano riservato un trattamento di favore: ricordava molto bene le abili e consumate mosse con cui i due uomini del Kaiser l'avevano ridotta all'impotenza. Ma li aveva distratti abbastanza a lungo da permettere a Eric di salire a bordo del suo mostruoso congegno e decretare così la sua stessa sorte. Le si strinse il cuore al pensiero, tanto da sentire dolorose lacrime affiorarle agli occhi. Non avrebbe voluto un epilogo del genere! Oh, come avrebbe voluto che le cose fossero andate diversamente!
Ma l'edificio di mattoni era crollato seppellendo tutto sotto le macerie. Tutto tranne lei, Maria e i progetti degli arti meccanici, trafugati dalla spia britannica avendoli forse scambiati per quelli della corazza gigante.
Veruska si abbandonò contro lo schienale e si lasciò cullare dal treno che procedeva spedito. Lasciò gli occhi sulle macchie sfuocate che correvano come impazzite incontro al treno, sfrecciando a poca distanza dalle rotaie.
Aveva colpito Maria e sfruttando la sorpresa era fuggita coi disegni di Schmeisser. Aveva corso e camminato fino a stare male. Finalmente aveva scorto i fari di un veicolo, salutandoli come un naufrago la terraferma: erano i tecnici dell'azienda elettrica che andavano a vedere cosa fosse accaduto alla cabina. Si era fatta accompagnare poi in città, dove aveva scoperto che doversi difendere tutti i giorni da due serpi velenose come Inga e Karin poteva avere dei risvolti positivi. Aveva tutto il denaro con sé e anche i documenti, quindi non ebbe difficoltà a farsi ospitare in un modesto albergo. Qui si lavò, pulì i vestiti in qualche modo e dormì più che poté. Sonni ricchi di incubi e intervallati da lunghe crisi di pianto. Dalla stamberga alla stazione del treno non c'era moltissima strada e subito andò a guardare gli orari dei treni per Berlino. Aveva comprato il biglietto e, dopo una robusta colazione e una fruttuosa visita a un negozio di abiti preconfezionati, era partita.
Non voleva più sentire parlare di Kräaftenburg, di Villa Schmeisser e di fabbriche per almeno una decina d'anni. Ne aveva avuto abbastanza. Di una sola cosa era contenta: di essersi sbarazzata del tubo metallico, ma non dei progetti che conteneva. Erano i disegni molto dettagliati delle gambe artificiali di Eric Schmeisser. Le parole dell'uomo l'avevano colpita profondamente: la tecnologia del metallo, la potenza del vapore e l'energia elettrica dovevano essere unite tra loro per la creazione di opere benefiche, non per creare altre armi. Distruzione, predominio, potere dei pochi sui molti. Mors tua vita mea. Era ora che qualcuno dicesse basta, che questo meccanismo perverso venisse fermato.
Veruska immaginò macchine di precisione manovrate da esperti operai produrre le parti che poi venivano assemblate da artigiani sotto la stretta supervisione dei migliori medici. Arti meccanici per bambini sfortunati, per invalidi del lavoro e mutilati di guerra; perché no, arti più forti per chi svolgeva lavori faticosi e ingrati. Sognò un futuro di uomini meccanici, un mondo più saggio e più felice. La fine della sua disavventura di una notte coincideva con l'inizio di una bella, duratura favola. Applaudita dalla folla, additata da tutti. E lei si voltava additando una colossale statua scintillante di Eric Schmeisser.
Sì, era deciso: avrebbe fatto in modo che così fosse.
Aprì gli occhi di scatto, sobbalzando.
Si era appisolata di nuovo. Il treno correva sempre velocissimo, accompagnando la sua fuga dai tristi fatti di Kräaftenburg. Il sole si era alzato e non riusciva più a raggiungerla. Le membra cantavano ancora in vivace coro il loro malcontento per il rude sforzo cui erano state sottoposte la notte precedente. C'era qualcuno nello scompartimento.
- Buongiorno, mia cara Veruska.
Il tedesco dell'uomo era quasi perfetto. L'averla chiamata per nome lo tradì: la sua pronuncia era uguale a quella di sua madre. Il ricordo della sua dolce genitrice non le fu di consolazione alcuna, anzi: eclissò subito nella paura e nello spavento, lasciandola sgomenta.
Tutt'altro che spaventoso, l'uomo la guardava sorridendo sereno. Aveva superato la quarantina e si vedevano i primi fili grigi nei capelli tagliati corti in stile militare. Le mani posate su un bastone dal pomo bianco a testa di levriero, aveva occhi di ghiaccio e il viso rasato era largo e squadrato. Indossava un completo blu scuro sopra un gilet nero dai bottoni d'argento; dal taschino pendeva la catenella dell'orologio, lucide maglie tubolari che giocavano con la luce scheggiandola in modo intrigante. Un Ascot nero decorato da una spilla d'argento era portato morbidamente intorno al collo.
Veruska lo guardò bene due volte: non si lasciò ingannare dal bell'aspetto. L'averla chiamata per nome, l'accento lo tradivano. E le mani: segnate, grandi, ruvide, forti. Mani da soldato.
- Chi siete? Che volete? Come sapete il mio nome? - Veruska soffiò quelle domande tutte d'un fiato, con lo stomaco freddo e serrato dalla paura.
- Le mie scuse, mademoiselle... il mio nome è Ivan Grimovski, capitano di artiglieria dell'esercito del Popolo Sovietico. Per servirla.
Accennò un inchino col capo, ma ostentava il sorriso di un coccodrillo. Sembrava una molla compressa: pronta a scattare.
- Non ho nulla che possa interessare il popolo sovietico o... il suo Zar, capitano.
Il sorriso del soldato si fece un poco più caldo, gli occhi brillarono di soddisfazione.
- Vengo da una famiglia di contadini e mio padre mi ha insegnato il prezzo del lavoro e il valore del tempo. Apprezzo sempre chi sa cos'è il primo e non spreca il secondo.
Sorrise ancora e poi disse con disinvoltura sconcertante:
- Che ne dice di diecimila corone svedesi? O preferisce i franchi svizzeri?

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3381311