Nella Tana del Bianconiglio

di Lily Liddell
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***



Prologo
 
Gli auricolari nelle orecchie, la musica a palla e un cappuccio calato fin quasi agli occhi le evitavano un qualsiasi contatto con il mondo esterno.
Teneva lo sguardo basso mentre camminava a passo svelto, senza nemmeno guardare dove stesse andando – i suoi piedi ormai conoscevano a memoria quel tragitto.
Il sole era tramontato da poco, e le luci dei lampioni illuminavano la strada. Per un attimo le era sembrato di essere seguita, ma poi si era resa conto che si trattava solo di una delle diverse ombre che proiettava sull’asfalto.
Ogni elemento del parco che la circondava sembrava muoversi a ritmo di musica. Le fronde degli alberi danzavano lentamente, e perfino le altalene oscillavano ritmicamente, spinte piano dal vento.
Era da sola, ma la sua anima era cullata dalle note della canzone che stava ascoltando, e sapeva che più si avvicinava alla sua destinazione, prima avrebbe dovuto interrompere quel contatto intimo che si creava fra lei e il mondo esterno, durante quei momenti in cui in realtà si isolava.
Le avrebbero fatto tenere il telefono in clinica? Probabilmente no…
Non approvava la decisione dei suoi genitori, soprattutto perché era passata da tempo l’età in cui sarebbe servito solo la loro firma per qualcosa del genere – ma si era fatta convincere che quella sarebbe stata la soluzione per lei.
Da lì a due giorni, Alice Carmichael sarebbe stata ricoverata nell’Istituto Psichiatrico di Salute Mentale R. J. Johnson e non aveva idea se ne sarebbe mai più uscita.
Arrivata a casa, fu accolta da un’aria gelida proveniente dalla finestra del salotto che era stata dimenticata aperta.
Spense la musica e all’improvviso il silenzio le crollò addosso, soffocandola. La casa era scura e silenziosa, nemmeno un rumore osava disturbare quella quiete. Entrambi i suoi genitori erano ancora al lavoro, probabilmente. Insieme gestivano un vivaio, nella periferia di Londra.
Avrebbero voluto che la loro figlia studiasse per diventare dottoressa, o avvocato, magari – e invece lei aveva lasciato il liceo e viveva la sua vita immersa nel suo mondo fatto di musica, libri e fantasia.
Quattro sere a settimana lavorava come cameriera in un bar vicino, ma quella sera non avrebbe dovuto farlo, filò quindi dritta in camera sua e accese il pc.
Non potendo sopportare quel silenzio, e approfittando dell’assenza dei genitori,  Alice fece partire la sua playlist preferita, e le note musicali cominciarono di nuovo a riempire lo spazio vuoto lasciato dal silenzio.
Ancheggiando a ritmo di musica e lasciando ciondolare in avanti la testa china, Alice si diresse verso il suo letto, dove poi si lasciò andare con un sospiro stanco. Chiuse gli occhi, perdendosi ancora di più in quelle melodie, di una canzone che parlava di cuori infranti e rose rosse.
Solo dopo essersi rilassata a sufficienza, la ragazza si sdraiò prona sul materasso, allungando una mano per poter raggiungere il cassetto del suo comodino. Tirò fuori un sacchettino con dentro una piccola striscia colorata; dalla striscia ricavò tre piccoli quadratini di carta, che poggiò sulla lingua, inspirando lentamente.
Chiuse gli occhi, e stavolta si distese supina, aspettando che l’LSD facesse effetto. Quelle sostanze l’aiutavano a mettersi in contatto con la parte più interna di se stessa.
Le voci che parlottavano nel suo cervello diventavano più chiare, più distinte, più vere.
Aveva un diario, in cui scriveva quasi quotidianamente, ma le parole che vi scrisse quella sera furono poche. Tre brevi frasi, semplici e concise:
Vorrei che questi istanti potessero durare in eterno. Vorrei poter decidere per me stessa. Vorrei poter essere normale, e smettere di sentire le voci.”

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


CAPITOLO I
 
Un anno dopo.
 
Sono il narratore inaffidabile della mia stessa storia; non ho più idea di chi io sia.
Assolutamente incontrollabile e incontrollata. Sono come una boa alla deriva; galleggio sulla superficie dell’acqua temendo di essere portata via dalla corrente, senza sapere che in realtà sono legata saldamente al fondo del mare, al cemento, da una spessa corda.
Il mio Cappellaio è il cemento che mi tiene, la sua voce è la corda e il mare è la mia follia, sempre più in tempesta, sempre più forte e ho paura che presto la corda non sarà più sufficiente.
Bramo momenti di lucidità come questo, sono sempre più rari e sempre più brevi. Metto per iscritto i miei pensieri, le mie paure e ci sono giorni in cui non riconosco nemmeno la mia grafia.
Pagine di diario – piene di parole cariche di significato – si alternano a pagine su pagine di parole senza senso, disegni orribili e incubi ricorrenti.
Allucinazioni mostruose si presentano a me durante le ore del giorno, spesso non riesco a distinguerle dalla realtà.
La capacità che avevo di riconoscere ciò che è reale da quello che non lo è sta svanendo poco a poco, lentamente, al passo del briciolo di consapevolezza che mi è rimasta di ciò che ero.
Credo di aver ucciso qualcuno – non ricordo il motivo e nemmeno come si sono svolti i fatti. Nella memoria ho solo marchiato a fuoco il sangue che scorreva, che ricopriva le mie mani e il mio volto.
Per quanto io sappia che uccidere sia sbagliato, non mi sento colpevole. Dev’esserci qualcosa di sbagliato nella mia testa – questo è evidente – ma non sono responsabile delle mie azioni.
Sono intrappolata in un corpo che non mi appartiene, non ne controllo i movimenti, non ne posseggo i ricordi. Temo di non essere sola, qui dentro.
Divento sempre più convinta che ci sia qualcun altro con me; giorno dopo giorno, il sospetto che le voci esistano davvero diventa sempre più concreto.
Vorrei poter trovare un modo per comunicare con loro, ma da quando non c’è più il Coniglio, questo non è possibile.
Ero arrivata alla consapevolezza di essere il Coniglio e non so per quanto tempo io lo sia veramente stata – al momento non sono più sicura di nulla, nemmeno di essere Alice.”
 
La voce dell’agente Victoria Lutwidge s’interruppe all’improvviso, assieme alle parole scritte nero su bianco, sulla pagina ingiallita del diario che reggeva fra le mani.
Un’altra voce riempì il piccolo studio – nel quale anche tre persone erano troppe. « Continua così ancora per diverse pagine » disse l’altra donna, alzandosi dalla sua poltrona di pelle scura e facendo il giro della scrivania perfettamente organizzata. « Era fra le sue cose, nel magazzino dove l’hanno trovata e arrestata. Da quando è stata presa in custodia non ha più scritto o detto una sola parola » aggiunse, appoggiando gli occhialetti dalla montatura leggera sulla fronte.
Due segni rossi adesso le segnavano i lati del naso sottile e leggermente ricurvo, ricoperto di lentiggini chiare.
La dottoressa Cecily Carter lavorava da quindici anni in quell’ospedale psichiatrico giudiziario, e non avrebbe potuto paragonare nessun altro suo paziente ad Alice Carmichael.
Jonathan Lowee, che ormai si avviava verso i cinquant’anni, era in piedi accanto alla sua collega. Sollevò gli occhi dal diario e li poggiò sulla dottoressa; le gambe cominciavano ad indolenzirsi, quel colloquio stava andando avanti da quasi un’ora e lui era rimasto in piedi per far sedere Lutwidge – di appena due anni e mezzo più anziana di lui. Si chiese se era veramente necessario parlare in quel buco, considerando quanto fosse grande la struttura in cui si trovavano.
« Grazie per la collaborazione, dottoressa » nel suo tono di voce era palese una certa impazienza di andarsene. Cominciava ad averne abbastanza di quel posto, per di più i manicomi gli davano i brividi.
Lutwidge chiuse il diario e lo passò direttamente alla dottoressa, poi scambiò uno sguardo veloce con il collega e inspirò aspramente. Si alzò facendo leva sui braccioli della sedia su cui era seduta e strinse la mano alla donna di fronte a lei, limitando il contatto visivo all’essenziale – nemmeno lei era completamente a suo agio in una situazione del genere.
« È possibile che dovremmo provare ad interrogare la ragazza » l’avvisò, mentre percorrevano in fila indiana lo spazio dalla scrivania alla porta.
Carter l’aprì e si appiattì contro la parete, facendo passare prima Lutwidge e poi Lowee. « Siete i benvenuti, ma non contate troppo sulla sua collaborazione. In quattro mesi non ho sentito la sua voce nemmeno una volta ».
 
*
 
La fredda brezza mattutina risvegliò le membra stanche di Lowee; il cielo era grigio e l’aria asciutta. La struttura dalla quale erano appena usciti si trovava al centro di un parco privato, al momento non c’era nessuno nei paraggi.
« Non sappiamo chi sia la vittima citata nel diario » osservò Lutwidge mentre si avviava alla loro auto. « Non sappiamo nemmeno se esiste veramente o no. Lei stessa ha scritto di soffrire di allucinazioni ».
« Per quanto ne sappiamo, il diario potrebbe essere tutta una copertura; ci sono fin troppe informazioni utili scritte lì ».
« Secondo la dottoressa Carter non c’è modo che la ragazza abbia inscenato una messa in scena tale ».
Lowee non era completamente convinto, avrebbe dovuto constatare con i suoi occhi prima di poter decidere che posizione prendere in quella faccenda.
Quello che sapeva, era che negli ultimi tre mesi erano morte quattro ragazze – di cui loro sapevano – e che un serial killer era ancora a piede libero.
La ragazza, Alice Carmichael, era stata presa in custodia diversi mesi prima e giudicata incapace di intendere e di volere. Era stata rinchiusa e poi dimenticata.
Aveva ucciso almeno un uomo – Alan Spike, attore di una piccola compagnia teatrale – ed era stata complice nell’assassinio di altre due persone, se non di più – inclusi il suo precedente psichiatra, Joseph Roberts, e suo padre adottivo.
La madre adottiva era il loro prossimo obiettivo.
Di solito si occupavano di casi diversi. Solitamente avevano a che fare con creature sovrannaturali: vampiri, lupi mannari, lepricauni, e cose simili… questa volta si trattava di un serial killer.
Tecnicamente, sarebbe dovuta essere roba da Intelligence, ma l’ultima vittima faceva parte della loro Comunità, Lowee stesso conosceva di persona la ragazza e la sua famiglia. La madre era una loro collega, di conseguenza la loro Direttrice aveva deciso di incaricare loro per scoprire se quella storia fosse solo un’orribile coincidenza o se c’entrasse del paranormale.
Con base alla stazione Centrale della Sicurezza di New Keepsville, i restanti tre membri della squadra stavano lavorando sodo per trovare altre informazioni utili.
Lowee non era il miglior pilota sulla piazza – nonostante la sua autostima gli dicesse il contrario – e Lutwidge detestava essere il suo passeggero.
Prendendo larga una curva particolarmente stretta, Lowee accelerò ulteriormente. « È un viaggio inutile » disse. « Dobbiamo parlare con la ragazza, metterla sotto pressione, capire se è veramente qualcosa a cui dobbiamo pensare noi, o se dobbiamo sbolognare il caso alla polizia ».
Se non finiamo all’obitorio prima noi – pensò la collega, stringendo forte la maniglia della portiera.
Il suo cuore mancò un battito all’ennesima curva presa da Lowee.
« Per parlare con la ragazza ci serve un permesso scritto dell’ospedale, Carter ce lo farà avere ma nel frattempo non dobbiamo prendere sotto gamba i dettagli ».
Lutwidge sapeva perfettamente che era molto probabile che la madre adottiva sarebbe stata un buco nell’acqua, ma preferiva quello piuttosto che restare in Centrale a girarsi i pollici.
Mentre la dottoressa preparava le condizioni ideali per un colloquio con la ragazza, lei non voleva perdere d’occhio quello che la circondava.
Alice Carmichael aveva un lunghissimo referto psichiatrico che lei stava ancora leggendo e che risaliva al suo primo ricovero. Si chiese quante cose fossero cambiate da allora.
Era rimasta quasi tre mesi nell’istituto di igiene mentale di Roberts prima di perdere il controllo completamente.
Non le era mai stata diagnosticata ufficialmente un disturbo di personalità multipla, ma alla luce delle nuove informazioni ricavate dal diario, non poteva escluderlo.
Secondo il referto psichiatrico, Alice era stata un’adolescente paranoica e particolarmente problematica.
Adottata all’età di otto anni, dopo due anni passati nel sistema di adozioni in seguito alla morte violenta dei genitori naturali, aveva subito dimostrato di avere disturbi mentali più o meno lievi.
Dal momento che tutti i casi in cui potessero essere presenti eventi paranormali venivano vagliati dal personale addetto, e che la cartella di Alice dopo vari passaggi era finita fra le mani della loro Direttrice, adesso stava a loro cercare di stabilire se era effettivamente un caso che riguardava la loro divisione.
La ragazza era stata in cura presso diversi istituti, alla fine erano riusciti a tenerla sotto controllo con l’aiuto di Roberts. Nell’ultimo periodo, prima del declino, aveva smesso di assumere i suoi medicinali.
Adesso seguiva una cura fatta da psicofarmaci piuttosto generici, dal momento che non si riusciva a definire con esattezza il suo disturbo.
Quello che era certo, era che dal momento in cui era stata accettata all’interno della struttura non aveva avuto nemmeno una volta atteggiamenti violenti nei confronti di nessuno.
Le cause potevano essere centinaia. Poteva trattarsi sul serio di sdoppiamento di personalità, quanto poteva trattarsi di possessione demoniaca – e fra le due cose, passavano tantissime altre ipotesi, che avrebbero dovuto prendere in considerazione.
Nell’ultimo periodo apatia e disinteresse erano le uniche cose che dimostrava, alienata completamente dal resto dell’universo, viveva nel suo mondo delle meraviglie.
Il Cappellaio – così lo chiamava lei – era l’uomo malato a cui attribuivano gli ultimi omicidi. Non conoscevano la sua vera identità, ma ai media ormai era noto come Cappellaio Matto. Studiando i fascicoli e i referti della ragazza, gli agenti della Centrale avevano già scoperto che inizialmente si era pensato che le azioni di Alice fossero state condizionate dal suo incontro con l’uomo, ma in seguito erano riusciti a capire grossolanamente la cronologia degli eventi.
Come avesse fatto il Cappellaio ad entrare all’interno della struttura in cui era seguita Alice, ancora era un mistero. In seguito al rapimento della ragazza – anche se ormai erano praticamente certi che lei lo avesse seguito di sua spontanea volontà – i due avevano commesso una serie di brutali omicidi. La percentuale di colpevolezza di uno e dell’altra era ancora da definire.
Anche il motivo per cui lui avesse scelto proprio la ragazza come compagna era ancora sconosciuto. Speravano che in un modo o in un altro sarebbero riusciti a fare chiarezza sulla faccenda.
Alice e il Cappellaio avevano passato quasi sei mesi insieme, prima che lei venisse presa. La polizia locale era riuscita a rintracciare uno dei loro nascondigli, ma il Cappellaio non c’era. Alice invece dormiva – era stata messa sotto arresto e portata via senza che lei battesse ciglio.
A quel punto, il caso era passato a loro. Una volta stabilita la natura dei disturbi della ragazza, avrebbero potuto comportarsi di conseguenza. Sfruttare le sue potenziali capacità per aiutare la Centrale a risolvere il caso, o riconsegnarla nelle mani della dottoressa Carter, e far concludere le indagini alla polizia.
La spalla di Lutwidge sbatté violentemente contro il finestrino e avvertì una fitta di dolore acuto. Strinse i denti ed evitò di fiatare.
Un’altra sbandata del genere e gli avrebbe piantato una pallottola in testa – si promise – ma sapeva che non lo avrebbe mai fatto. In una gamba, forse… 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO II
 
Cecily Carter, quarantadue anni, era la direttrice dell'ospedale psichiatrico di New Keepsville, un paesino abbastanza sperduto, a sud dell’Inghilterra; e con quasi vent’anni di esperienza alle spalle, pensava di averle viste e sentite veramente tutte.
Diversi casi particolari erano passati davanti ai suoi occhi, sotto la sua cura, ma Alice Carmichael era una creatura bizzarra, unica nel suo genere.
Con lei avevano tentato diversi metodi di approccio, tutti falliti miseramente. Molti dottori avrebbero perso le speranza, gettato la spugna… lei invece continuava a sperare che un giorno avrebbe capito quale fosse la chiave per accedere alle informazioni riservate contenute in quella preziosa mente malata.
Carter era una donna determinata e forte, dopo la scalata sociale che aveva fatto e le persone con cui aveva avuto a che fare, erano rimaste poche le cose in grado di spaventarla.
Le foto che stava osservando in quel momento, le mettevano i brividi. Erano state scattate sull’ultima scena del crimine attribuita al Cappellaio Matto; rappresentavano la sua ultima vittima.
Kelly Newman, ventitré anni, rapita una settimana prima e trovata priva di vita dopo due giorni.
Era la quarta vittima trovata negli ultimi tre mesi, tre nella periferia di Londra e una – l’ultima – a Old Keepsville, il paese che una volta formava un’unica cittadina con New Keepsville. Al Cappellaio non piaceva molto spostarsi, evidentemente, ed era più vicino di quanto loro non pensassero.
I capelli color rame della ragazza ritratta nella foto erano impregnati del suo stesso sangue. Aveva diversi ematomi sul corpo, tutti risalenti a prima della morte. Diverse ferite superficiali, nessuna letale – e un profondo squarcio alla base del collo, che quasi le recideva la testa. Sicuramente la causa della morte.
Era stata ritrovata come le altre vittime: abbandonata in un bosco, vestita con abiti fiabeschi e un orologio da taschino rotto, lasciato accanto al corpo. L’ora segnata era sempre la stessa, le cinque spaccate.
L’ultima vittima presentava qualche differenza rispetto alle altre, c’era più rancore in quei colpi inferenti prima della morte e diverse ferite erano state causate post mortem. Nessun altra vittima era stata ulteriormente brutalizzata dopo l’omicidio.
Carter rivedeva molto di Alice in Kelly. Era probabile che il Cappellaio Matto stesse cercando una sostituta per la ragazza e si chiese se non avesse dovuto riferire quel suo pensiero agli agenti con cui aveva parlato quella mattina.
Non sapeva i dettagli sul caso, ma dalle foto che le avevano portato, c’erano parecchie cose che la sua mente le diceva su quell’individuo e si rese conto in quel momento di quanto poco conoscesse la sua paziente.
Mostrare ad Alice quelle fotografie poteva significare comprometterla psicologicamente, non poteva prevedere la sua reazione a quelle immagini, ma la ragazza non aveva mai mostrato il minimo interesse in nulla, forse aveva trovato un modo per comunicare con lei.
Dopo aver spedito i documenti che i due agenti le avevano chiesto quella mattina a New Keepsville, Cecily Carter prese ad attraversare i corridoi vuoti e asettici del suo ospedale psichiatrico.
Di tanto in tanto qualche infermiere faceva una rapida comparsa da una delle tante porte chiuse. Alcuni pazienti abitavano nelle zone meno controllate, altri erano detenuti nelle celle di sicurezza.
Alice Carmichael non aveva mai dato problemi, e occupava una piccola stanza bianca, in fondo ad uno dei corridoi.
La porta era chiusa a chiave, con una piccola finestra di vetro plastificato che permetteva a chiunque di vedere all’interno della stanza.
La dottoressa Carter possedeva una chiave elettronica universale. La fece scorrere all’interno del lettore e una lucina rossa divenne verde.
Alice sedeva accanto alla finestra – all’interno il vetro era protetto da uno spesso strato di plastica e all’esterno da una serie di sbarre in metallo.
La ragazza aveva ventiquattro anni, ma ne dimostrava molti di più, con lo sguardo perso nel vuoto, le profonde occhiaie viola, i lunghi capelli scuri che le ricadevano in grembo e i vestiti ospedalieri che le stavano grandi.
Le pareti bianche la facevano sembrare più pallida di quanto non fosse in realtà.
« Alice? » non rispondeva mai al suo nome, nemmeno con un cenno della testa. Questa volta non fu diversa dalle altre. « Alice, sono qui per mostrarti una cosa ».
Fuori la porta, tre infermieri erano pronti a intervenire nel caso fosse stato necessario, uno di loro aveva già pronta la siringa con il tranquillante nella mano destra.
Carter non sapeva cosa aspettarsi, un breve lampo negli occhi, un fremito o anche solo un cenno di capo che le avrebbe fatto capire la consapevolezza della ragazza.
Alice non batté ciglio, gli occhi a malapena si posarono sulle fotografie. La dottoressa Carter si diede della stupida anche solo per averci provato.
Forse era veramente una causa persa. Mandare quei documenti a New Keepsville era stata solo una perdita di tempo; avrebbe dovuto chiamare quegli agenti e dirgli di non scomodarsi a tornare.
Alice Carmichael non era più una persona, era un’ombra… un fantasma.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO III
 
Da quattro ore a quella parte, la piccola centrale di polizia di New Keepsville era sottosopra.
Tre agenti dell’S.A.P. (Sicurezza Attività Paranormali) stavano mettendo a soqquadro gli archivi riordinati da meno di tre settimane.
Cercavano informazioni sfuggite alla polizia locale, qualsiasi cosa in grado di trovare e di incastrare il Cappellaio Matto. Anche solo qualcosa che permettesse loro di legarlo a una situazione anomala, in modo tale da poter indagare più a fondo su di lui, e avere il totale controllo delle indagini.
Le cose che si sapevano su di lui erano pochissime. Era sicuramente un uomo, probabilmente fra i cinquanta e i sessant’anni. Supponevano fosse caucasico, ma non potevano esserne certi.
Senza ombra di dubbio soffriva di qualche malattia mentale, schizofrenia forse.
Se soltanto avessero avuto qualche informazione in più avrebbero potuto fare delle ricerche mirate negli archivi di tutti gli ospedali psichiatrici della zona, vedere se magari fossero riusciti a trovare una qualche sorta di traccia.
Tutti gli ospedali di pronto soccorso erano stati avvisati e dovevano contattare immediatamente le autorità nel caso in cui un maschio tra i cinquanta e i sessant’anni fosse stato portato lì in stato confusionale, o in preda a paranoie e allucinazioni.
Miranda Pertwee aveva in mano un fascicolo vecchio di due anni. Era il rapporto di vecchi casi riguardanti il Cappellaio.
Nell’arco di undici mesi, prima dell’incontro con Alice, aveva fatto dodici vittime. Alcune a distanza molto ravvicinata fra loro, altre a distanza di mesi una dall’altra.
Tutte ragazze tra i venti e i trent’anni, uccise in maniera diversa ma tutte posizionate nella stessa maniera dopo la morte. Sistemate il un bosco, con abiti fiabeschi e un orologio rotto accanto al corpo, sempre fermo alle cinque in punto.
Era stato stimato che probabilmente quel cinque rappresentava per tutte anche l’ora della morte.
Tutti gli omicidi erano stati commessi fra Londra e la sua provincia.
Dopo il rapimento – o arruolamento – della sua complice, Alice Carmichael, i gusti del Cappellaio erano cambiati.
Una serie di omicidi per motivi personali, legati alla ragazza – il suo psichiatra, due infermieri dell’ospedale che la ospitava e suo padre adottivo – e alcuni omicidi apparentemente scollegati fra loro.
Una casalinga di cinquant’anni – probabilmente vista come una figura materna da parte della ragazza – un impiegato delle poste, un insegnante, una barista e due studenti universitari.
Tutte le vittime erano state brutalmente seviziate, torturate e mutilate. In seguito deceduti per le ferite subite, per dissanguamento o rimozione di organi.
Il tossicologico di tutte le vittime riportava tracce una sostanza non riconosciuta, iniettata per via venosa o fatta ingerire.
« C’è solo un modo per fare qualche passo avanti… » era stato il più giovane del gruppo, Lewis McTown, a parlare. Un ragazzo di ventisette anni appena uscito dall’Accademia, ma con la sua dose di esperienza personale.
Lucas Moretti, quarantasei anni, smise di sfogliare il rapporto che stava leggendo da venti minuti e sollevò gli occhi scuri dalla carta. Sul suo viso era comparsa un’espressione contrariata. Sapeva perfettamente quello che stava pensando il ragazzo e – in fondo al cuore – sapeva che forse non aveva tutti i torti. Ma Moretti si rifiutava di volere credere a una cosa simile, quindi non rispose alla sua provocazione e decise di tornare a leggere il suo rapporto.
Contrariamente all’agente Moretti, l’agente Pertwee non era il tipo da lasciar cadere una provocazione simile.
Con un unico movimento chiuse il fascicolo che aveva in mano e l’aria spostata dalle pagine le fece impazzire per un secondo le punte dei capelli corvini. « Se pensi che la soluzione sia aspettare di trovarne un’altra nei boschi allora forse dovresti tornare sui libri… »
Respirando attraverso le narici, McTown scosse la testa stancamente. « Dico solo che così non andiamo da nessuna parte. Ci servono nuove prove, non roba vecchia di due anni ».
« Tu hai una sorella minore, no? » solitamente Moretti non s’intrometteva nelle discussioni altrui, ma per questa volta decise di fare un’eccezione. « Quanti anni ha? Venti? Ventuno? »
« Ventidue ».
« Saresti ancora così sicuro di volerne aspettare un’altra se si dovesse trattare di tua sorella? » il silenzio fu esattamente la risposta che cercava. « Ecco. Allora sta zitto e continua a cercare ».

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