Daìmon

di DreamingIsLiving
(/viewuser.php?uid=686031)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** capitolo I ***
Capitolo 2: *** capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII ***
Capitolo 13: *** capitoo XIII ***
Capitolo 14: *** capitoo XIV ***
Capitolo 15: *** Capitolo XV ***
Capitolo 16: *** Capitolo XVI ***



Capitolo 1
*** capitolo I ***


Tenebre.
 L'oscurità la inghiottiva, il buio l'avvolgeva, l'universo aveva cessato di essere, le ombre l'avevano avvolta a tal punto da impedirle di respirare.
Fiamme. Il calore la soffocava. Stava bruciando.
Sarebbe morta, lo sapeva, lo sentiva, lo accettava. Qualsiasi cosa purché tutto ciò cessasse.
Aveva sognato, aveva amato, aveva sperato, ma ora nulla aveva importanza, la sua mente non riusciva a formulare alcun pensiero, solo dolore.
Normalmente avrebbe pianto, avrebbe urlato, si sarebbe morsa il labbro a tal punto da sanguinare, ma ora non sentiva più nulla. Era come se  il suo corpo si fosse dissolto e la sua mente si fosse dimenticata di seguirlo, fosse rimasta imprigionata in quel nulla infernale.
Morte. Eccola, sopraggiungeva, il dolore diminuiva, il fuoco si smorzava.
Freddo. Nessuna luce la aspettava, non era come tutti le avevano detto, nessun tepore, nessun cancello dorato, nessun demone, nessun Alato. Solo il nulla.
Aria. I polmoni tornarono incandescenti come  tizzoni ardenti.
La sua mente non ebbe il tempo di formulare alcun pensiero, un tremito l'avvolse, quasi la carezza di un dio, che la illudeva di aver trovato la pace, prima di squarciarle il petto con la sua folgore.

 

Era morta, doveva esserlo, l'aria aveva ricominciato ad inondarle i polmoni ed il sollievo era tale che il suo respiro divenne sempre più forte. Ispirava con l'avidità con cui le onde del mare e le fiamme dell'inferno distruggono ciò che le circonda, mai pronte a dire basta. L'aria aveva un sapore cosi dolce, cosi appagante.
Voci.  
C'era qualcuno attorno a lei. Sentiva i movimenti frenetici di più persone, le loro parole accavallarsi le une alle altre, indistinte.                                                                                                                                           La tensione fendeva l'ambiente, non riusciva a cogliere i discorsi, ma sentiva la preoccupazione che da essi trapelava.
"dovrebbe aver.. due scosse.. impossibile.."
Solo piccoli dettagli le apparivano nitidi, il resto era un vociferare sconnesso.
"cinque proiettili.. non.. cervello.. arrendersi.."
Non aveva importanza dove fosse, una pace totale la cullava, le sussurrava parole di conforto, le cantava dolci melodie.
"ore.. morte.. neurol.."
Fiamme. Erano tornate. Ancora. Stava andando a fuoco, era stata solo una piccola tregua, l'inferno si era solo preso gioco di lei, l'aveva illusa, non l'avrebbe abbandonata, sarebbe stato il suo castigo eterno.
"ac..ua" bofonchiò, senza sapere da dove fosse riuscita a prendere le forze necessarie.
Non accadde nulla, le voci si erano spente, nulla intorno a lei si muoveva. Due grosse lacrime le inondarono le guance, poteva sentire i solchi che le lasciavano sulle guancia a fuoco.
"ac..." era inutile, per quanto il cervello si sforzasse, per quanto quella parola nella sua mente apparisse evidente, il suo corpo non rispondeva. Doveva fare quello che quella voce aveva detto, arrendersi.
No.

Ignorando il dolore che le causava, inspiro' a lungo, aveva una sola possibilità, una, poi tutto sarebbe definitivamente cessato.
"ACQUA!" urlo', o almeno lo sforzo fu tale che le sembro' di averlo fatto.
Aspetto'.
Da prima percepì un indistinto ticchettio, poi sempre più forte e regolare, passi, erano passi. Ce l'aveva fatta.
Qualcuno le si avvicinò, si bloccò accanto a lei, una mano tremante le accarezzò la gote, laddove la lacrima sembrava aver lasciato una cicatrice. Il tocco era leggero e delicato, eppure la temperatura di quelle dita era così fredda che le provocò un tremito. La mano si scostò immediatamente.
"dottore, dottore. venga qui, subito" riuscì a sentire, a distinguere le parole.
Nuovi passi si fecero sempre più vicini, 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** capitolo II ***


Era il momento, poteva aprire gli occhi. Il dolore era cessato, i rumori erano sempre piu nitidi e chiari, ricominciava a sentire i profumi in maniera distinta. Eppure non fece nulla. Aveva paura, paura di quello che avrebbe trovato, paura di quello che avrebbe visto, paura di quello che avrebbe scoperto. I ricordi si accavallavano nelle sua testa confusi e sconnessi, ma uno strano presentimento le diceva di prolungare quel piccolo momento di pace, come se fosse l'ultimo della sua vita. Era come quando sua madre l'andava a chiamare e lei fingeva di non aver sentito la sveglia, che ormai giaceva distrutta, scaraventata al suolo. In quei momenti si gustava il tocco delicato della donna, la sua voce dolce, sorrideva quando sentiva il tono alterarsi per buttarla giù dal letto. Poi tutto era cambiato, sua madre era morta, non erano più state  in due ad affrontare il mondo, era sola.
Aprì gli occhi, o almeno le parve di farlo, nulla cambiò, le tenebre non la abbandonarono, dal nero pece era passata ad un viola opaco. una nuova lacrima scivolò al suo controllo e le solcò la gote.
Alzò lentamente le mani, quando però stava per sfiorarsi gli occhi qualcosa la bloccò. Non tentò neppure di lottare, era stanca.
"sei viva" disse una voce calda.
Non rispose, poteva considerarsi vita? Era ceca ed il solo muovere le mani l'aveva stancata oltremisura.
"acqua" fu il suo istinto a parlare, prima ancora che la mente riuscisse a formulare alcunché.
La donna al suo fianco le strinse le mani, dopo pochi attimi vi pose un bicchiere e l’aiutò ad accostarlo alla bocca. Il primo sorso fu lento, come una fiera che guardinga si accosta alla trappola del cacciatore, ma appena l'acqua la riempì ne volle ancora, insaziabile.
"piano, starai male" tentò di avvisarla la donna ma lei non le diede ascolto.
Fu il suo  corpo a ribellarsi, quello che prima le aveva provocato una piacevole soddisfazione ora sembrò rivoltarsi contro di lei. Riuscì a fatica a voltarsi dalla parte opposta a quella in cui, almeno così credeva, doveva trovarsi la sua salvatrice e vomitò.
Pianse, non solo per il dolore, le lacrime scendevano incontrollate, due torrenti in piena.
"Andrà tutto bene" disse l'estranea scostandole i capelli e sorreggendole il capo.
"sono ceca" si limitò a rispondere.
"ma sei viva" replicò con veemenza "comunque non sei ceca, almeno non per sempre, solo momentaneamente".
Qualcosa di nuovo le riempì il ventre. Era forse felicità? soddisfazione? Qualsiasi cosa fosse, dopo minuti, ore e giorni, di fiamme infernali, ora quel calore che la scaldava, pur debolmente, era incredibilmente piacevole.

"per quanto tempo?" chiese.
"cosa?" la voce era paziente, calma, ma lasciava trapelare una sottile tensione.
"per quanto tempo non ci vedrò?"
Silenzio. Un piccolo sospiro di impotenza.
"non lo so"
"Avevi detto che non sarebbe stato per sempre" riuscì a formulare, nonostante l'arsura alla gola.
"e lo ripeto" rispose "ma non sono un medico, quando lui verrà, lo sapremo"
"dove sono?"
Fino a quel momento non si era posta il problema, aveva pensato di essere morta e in seguito, non appena era stata consapevole di aver ancora qualcosa da dare in quel mondo, ogni altra cosa aveva perso importanza. Erano passati diversi giorni dal suo risveglio, era la prima volta che parlava, fino a quel momento aveva assaporato ogni cosa come fosse  rinata, i profumi, i rumori, l'aria, l'acqua. Tutte le cose più semplici, ciò che prima aveva ritenuto scontato, tutto le sembrava un tesoro da custodire il più a lungo possibile.
"sei al sicuro" si limitò a risponderle.
"grazie" disse, sprofondando nei cuscini e gustandosi il torpore donatole dalle coperte. Per ora non aveva bisogno d'altro, le bastava la consapevolezza di come fosse il presente, del futuro si sarebbe preoccupata domani.
"ti ricordi chi sei?" le chiese la donna.
Prese fiato ma poi esitò, sapeva benissimo chi fosse e perché fosse ridotta in quello stato, ma si chiese se la sicurezza che le era stata promessa fosse reale. Ammettere la sua identità non avrebbe compromesso solo lei ma anche molte altre persone.
"io.." e se fosse sincera? e se veramente si sarebbe potuta fidare di lei? Confidandole tutto avrebbe messo a rischio la - o le - persone che l'avevano aiutata.
"tranquilla" fu interrotta, quasi le avesse letto il flusso di pensieri "noi sappiamo tutto e, se avrai bisogno, ti aiuteremo a ricollocare i tasselli nei posti giusti".
Mentre parlava le cambiava il bendaggio al polso sinistro, riusciva a sentire l'odore metallico del sangue, la  ferita doveva faticare a chiudersi.
"mi chiamo Isabelle" disse "facevo l'infermiera a Prugh ma a causa dei nuovi disordini hanno richiamato il maggior numero di civili in città e nella palude hanno lasciato solo membri dell'esercito. Solo pochi però, non la reputano una zona a rischio"
No, non era una zona a rischio, solo pochi conoscevano le strade esistenti che permettevano di superarla e chiunque avrebbe cercato di attraversarla, con grande probabilità, sarebbe stato inghiottito dalle sabbie mobili o sarebbe diventato cibo di mostri.
"dis.." la gola le dava ancora diversi problemi e dovette concentrarsi per riuscire a continuare "disordini?".
"avete fatto una bella confusione, lo ammetto" una breve risatina la obbligò a interrompersi "ma ci sono cose più grandi in atto".
A cosa poteva riferirsi? il suo cuore accelerò.
"ti avevo detto di non disturbarla"
Non aveva sentito nessuno entrare, si rimproverò, doveva stare più attenta.
"mi scusi" la tonalità era scesa, era diventata fredda e distaccata "ho pensato che avesse bisogno di parlare".
Un rumore acuto si sovrappose a qualsiasi altra cosa, ebbe paura che il nuovo arrivato la stesse picchiando, alzò la schiena e tentò di muoversi in direzione dello schiocco ma un giramento la travolse e sarebbe caduta dal giaciglio se due mani muscolose non l'avessero sorretta.
"queste macchine" disse la voce maschile "sono vecchie, troppo vecchie, e giocano brutti scherzi. riesci a farla ripartire, Is?".
Nessuna risposta, solo il rumore di qualcuno che si allontanava e trafficava con metalli.
"come sta la nostra paziente?" chiese l'uomo.
"quando tornerò a vedere?"
Un piccolo sospiro appena trattenuto. Doveva aspettarsi quella domanda anche se doveva aver sperato di evitarla.
"presto" disse "è difficile dirlo con esattezza, un proiettile le è esploso a pochi centimetri dal viso, un nervo è stato fortemente danneggiato ma, nonostante l'assenza dei macchinari adeguati, l'abbiamo ricostruito. Ricorda qualcosa?".
Nuovamente si chiese come rispondere. Sarebbe bastato negare tutto? O avrebbero voluto sapere sempre di più?
"ne stavamo parlando prima" intervenne Isabelle "solo immagini confuse e sfuocate".
Erano denti che si stringevano quelli che aveva sentito? Ebbe paura per la donna ma non accadde nulla, il dottore sospirò ancora prima di affermare "è normale, il nostro cervello spesso censura qualsiasi cosa possa ricordare il dolore. Incidenti, cadute e passioni, tutto viene rimosso. Prima o poi ricorderai".
"mi dispiace" disse addolorata.
Né il dottore né l'infermiera risposero, ciò non la rassicurò per nulla, era lei che volevano o le informazioni in suo possesso? Si morse la lingua, punendosi per quello che si era detta, infondo la donna l'aveva aiutata.
Rimase inerte mentre il medico la esaminava, sentì a malapena l'ago col quale le iniettarono un liquido dall'aroma pungente. Le fecero bere tre diversi tipi di medicinali e altrettante pillole.
Li sentì allontanarsi e riuscì a distinguere le raccomandazioni del medico. Avrebbe dovuto prendere fermenti lattici e la morfina doveva essere diminuita se non si voleva rischiare la dipendenza.
"come stai?" chiese l'infermiera al ritorno.
"ho un tubo nel ventre, due aghi per braccio e non so quante bende" sospirò "sono stata meglio".
"posso immaginarlo" rispose "devi dormire, da domani toglieremo gli aghi, che, concedimelo, ti danno l'aria di una più al di là che al di qua"
Una leggera risata riempì l'aria "sono messa così male?"
"ti abbiamo presa per i capelli da dove stavi andando, ovunque fosse. Ne ho viste tante ma.. non pensavo ce l'avresti fatta"
"sono contenta che ti sia sbagliata"
L'infermiera stava per replicare ma non appena vide la sua paziente contrarsi e mordersi le labbra, fino a sanguinare, sentenziò "ti do un po' di morfina così fino a domattina potrai stare tranquilla".
"ma il dott.. " una nuova fitta interruppe ogni tentativo di replica.
Riuscì appena a sentire la voce, nuovamente calda, che le diceva "sarà il nostro piccolo segreto", prima di sprofondare in un mondo di incubi, dove urla e sangue la accompagnarono per un tempo indeterminato.

Quando si svegliò qualcosa era cambiato, la luce che trapelava dalla benda era meno opaca e più luminosa, il dolore era diminuito e l'angoscia che aveva accompagnato i sogni fu sostituita dalla speranza di un nuovo giorno da vivere.
"è ora di mangiare" esclamò Isabelle.
La aiutò ad alzarsi e appoggiare la schiena a due cuscini abbastanza gonfi da permetterle di stare seduta eretta.
"Isabelle" bofonchiò "io ci.. insomma, c'è più luce, riesco a vederla"
"è un buon segno. Fermati!"
Il tono della sua voce fu così perentorio che la ragazza scostò immediatamente le mani dal viso e lasciò la benda dove si trovava.
"se acceleri le cose peggiorerai solo la situazione, fidati di me"
Lasciò cadere la questione visibilmente delusa e, sorridendo, sussurrò "parlavi di cibo vero?"
"per quanto si possa ritenere un  vero pasto una tazza di latte e dei biscotti affogati in esso" scherzò lei.
"ottimo" rispose "ho una fame da lupi".
Non era vero, non sentiva nessun bisogno in particolare, eppure voleva tentare di instaurare un rapporto con quella donna.
Si sentiva come una bambina mentre veniva imboccata. I biscotti si rivelarono essere pane vecchio di qualche giorno, reso appena più morbido dall'immersione nel latte annacquato. Ciononostante mangiò con avidità, gustandosi ogni sapore, le era mancato da morire e, man mano che deglutiva un boccone dopo l'altro, i ricordi delle diverse pietanze la inondava.
"mi spiace" disse Isabelle, il tono era imbarazzato "la cucina è un po' misera".
"ti assicuro, ci sono stati giorni in cui avrei dato un dito per una cosa del genere" rispose sincera, ricordando i giorni prima dell'incidente.
"allora devi averne proprio passate di tutti i colori" disse.
Lei si limitò ad annuire ed a scrollare le spalle. Rievocare il passato le faceva male, le preoccupazioni si ammassarono le une alle altre, vide i volti dei suoi amici, i loro sorrisi, immaginò le loro facce sfigurate e deturpate. Finse di addormentarsi subito dopo lo spuntino, ignorando lo stomaco che ne invocava ancora. Aveva bisogno di meditare sulle prossime mosse, doveva smetterla di illudersi che quella fosse pace, era solo un momento, presto sarebbe passato e lei non doveva farsi trovare impreparata.

"sei sicura?"
"si"
"non è troppo presto?"
"no"
"ma e.."
Isabelle sbuffò "prima era impossibile trattenerti, adesso non vuoi. Deciditi"
"va bene, fallo"
Le tolse la benda con calma e delicatezza, sorridendo per la sua evidente eccitazione, le mani le tremavano a mezz'aria, incerte se toccarsi il volto o stringersi alle lenzuola.
Quando le pezze di stoffa caddero a terra una luce immensa la obbligò a chiudere gli occhi. Era ironico, aveva così voglia di sistemare anche questo tassello della sua vita e, adesso che avrebbe potuto farlo, non ci riusciva.
"è normale" disse l'infermiera "i tuoi occhi non più sono abituati a ciò che una volta consideravano routine”.
Le ci vollero diverse ore per riuscire a distinguere i contorni dei diversi oggetti, non aveva fretta, passava il tempo a scherzare e ridere con la donna, l'euforia l'aveva conquistata.
Appena ne ebbe la possibilità studiò colei che l'aveva accudita. Era giovane, incredibilmente più giovane di come l'aveva immaginata, forse aveva tre o quattro anni più di lei ma non oltre. Il viso era delicato e magro, gli occhi, pur segnati dagli orrori che doveva aver vissuto, rimanevano gentili e vivaci. Qualcosa attirò la sua attenzione, un leggero rigonfiamento in prossimità dell'occhio sinistro. Sentì l'eco del rumore di alcuni giorni prima e vide confermarsi i suoi sospetti.
"ti ha picchiata" disse.
Lei scostò il viso e scrollò le spalle con un gesto di noncuranza "non è successo niente" si limitò a bisbigliare.
"non è vero" quasi urlò "mi hai aiutata e non sai neppure chi sono, ti ha picchiata perché sei stata gentile"
"se le persone dimenticano di fraternizzare con chi ha bisogno, in cosa potremmo differire dalle bestie?" chiese come se tutto fosse ovvio.
"ma non sai neppure chi sono"
"questo non cambia le cose" la voce era ferma e sicura.
La giovane trasse un profondo sospiro. Non aveva bisogno di altre prove.
"il mio nome è Ginevra".
Non aveva bisogno di dire altro, se veramente non l'aveva riconosciuta il suo nome le sarebbe bastato, la sua storia era conosciuta da tutti, più lei cercava di fuggirla più tutti sembravano interessarsi.

Il periodo che seguì ebbe per la giovane la stessa importanza che per un bambino ha l'infanzia. Dovette re imparare a compiere tutti quei gesti che prima aveva considerato istintivi e naturali, Però, differenza di un infante, lei sapeva esattamente quale fosse il suo obbiettivo e non riuscire in piccoli atti come stringere una penna o stare in equilibrio sulle proprie gambe, la estenuava. Aveva una maestra paziente, Isabelle le stava accanto il più possibile, le faceva tornare un sorriso sulle labbra quando lo sconforto era troppo e non la obbligava a far nulla.
I momenti peggiori erano quando si svegliava e, aprendo gli occhi, nulla era cambiato, ritornava ceca per interminabili istanti. La prima volta l'infermiera dovette sedarla, i  nervi le saltarono a tal punto che i singhiozzi rischiarono di soffocarlo. Era normale, dicevano, l'occhio lentamente sta tornando al suo lavoro, presto quelle ricadute sarebbero scomparse.
Non sapeva con certezza quanti giorni fossero passati. Aveva trovato un modo per capire il loro alternarsi: Isabelle usciva la mattina dopo averle servito la colazione e rientrava dopo molto tempo, doveva andare a lavoro, almeno così credeva. Al ritorno, prima di andare da lei, saliva le scale e rimaneva ai piani superiori per diverso tempo, probabilmente si riposava. Quando scendeva cominciava la  lezione. Riprendere il controllo dei propri arti, sentenziava, sarebbe stato più veloce se il riposo fosse stato accompagnato da un opportuno allenamento.

"Dannazione" Urlò Ginevra, lasciandosi cadere sul cuscino.
Isabelle la guardò pensierosa per un momento, sembrava incerta sul da farsi, quindi, improvvisamente, scoppiò a ridere senza ritegno.
"lo trovi così divertente? o magari hai pensato alla barzelletta del secolo?" disse sprezzante "no, perché se è così raccontamela perché ho una grande voglia di farmi due risate".
La donna continuò come se nulla fosse e solo quando i polmoni invocarono pietà riuscì a fermarsi.
"nessuna barzelletta, sei solo tu" disse, tutto d'un fiato.
"grazie, mi conforta"
"è solo che guardandoti sembri così giovane, ingenua e ignara di tutto" si spiegò "dopo, in pochi secondi, imprechi e diventi estremamente aggressiva. Sai nascondere bene le tue carte migliori".
Nuova risata che la paziente ignorò, guardando in direzione della finestra serrata. Quelle parole.. non  era la prima volta che le sentiva, qualcun altro gliele aveva rivolte, in circostanze così diverse, circostanze che le sembravano appartenere ad un'altra vita.
"perché le finestre sono serrate?" chiese per distrarsi.
Lo sguardo della donna che l'accudiva tornò freddo e distante, scrollò le spalle e si limitò a rispondere "ordini dall'alto".
"che sarebbe?"
"quando sarai pronta saprai tutto, ora ti basti sapere che è meglio che nessuno sappia dove tu sia" il tono non ammetteva repliche.

Quella mattina, dopo che fu sola, decise di fare da sé alcuni esercizi di equilibrio. Era stanca di passare le giornate a dormire e pensare, i sogni, come i pensieri, diventavano sempre più cupi e violenti. Inoltre un rumorio, che doveva provenire dalle stanze accanto, aveva attirato la sua attenzione. Si alzò lentamente e, dopo i primi passi incerti, tenendosi alle pareti, iniziò la perlustrazione. Trovò la fonte del suo interesse nella stanza adiacente, era una televisione vecchio stile, dimenticata accesa. Nonostante il suono fosse disturbato, le immagini erano chiarissime. Cadde sul pavimento con le lacrime che sgorgavano incontrollate e la testa stretta fra le mani, mentre la il monitor presentava un gruppo di soldati che, senza pietà, sparavano ad un uomo  con i vestiti già intrisi  di sangue. Supplicò sé stessa di chiudere gli occhi ma era troppo tardi, vide il corpo cadere a terra esanime e si chiese se in quell'istante anche il suo cuore avesse smesso di battere.

Isabelle la trovò in quell'identica posizione diverse ore dopo. Non le ci volle molto per capire cosa fosse successo. Sospirò. La fece alzare e la riportò a letto. Non fu difficile, le sembrava di stringere tra le mani un corpo senza vita, che procedeva per inerzia, due lacrime ormai secche le marcavano il volto e lo sguardo era vacuo e freddo, rivolto altrove. Non si oppose quando la fece mangiare ma, non appena ebbe finito, vomitò tutto, prima di cadere in un sonno profondo e disturbato, in un sonno che di ristoratore non aveva nulla.


"è successo veramente?" chiese Ginevra.
Non sapeva neppure se accanto a lei ci fosse qualcuno, non aveva ancora aperto gli occhi, eppure aveva bisogno di demolire anche l'ultima speranza che le era rimasta.
"si" fu la semplice risposta, senza nessun'inutile frase d cortesia.
"gli altri?" chiese ancora, evitando di aprire gli occhi, non voleva nessuno sguardo di pietà, non se lo meritava, lei era viva.
" non c'e nessun altro. Solo quel ragazzo è stato riconosciuto come colpevole e condannato".
Condannato? lui non poteva essere condannato, è una legge universale, loro possono essere uccisi, questo si, ma non condannati, non da un giudice o da un politico qualsiasi.
"non è possibile" bisbiglio'.
"è quello che succede quando cerchi di uccidere un parlamentare" le spiegò con dolcezza, quasi si trovasse di fronte ad una bambina ostinata che non accetta che le cose vadano in maniera diversa da come se le era aspettate.
"ma lui non p.."
Il silenzio divenne padrone. Non era troppo tardi, poteva far finta di nulla e tacere. D'altronde che senso aveva ormai il suo silenzio? chi poteva essere compromesso lo era già stato in maniera irrimediabile.
"dove sono?" chiese invece.
"ti ho già risposto"
"no, non l'hai fatto. Hai deviato le mie domande. Non voglio sapere se sono al sicuro o meno, mi interessa sapere il perché. Perché io sono viva? Perché non sono morta anch'io?" dovette fermarsi per riprendere fiato, tale era stata la foga con cui aveva parlato.
"perché non tutti hanno persone potenti che si interessano a loro" si limitò a risponderle.
"chi?"
"lo sai benissimo"
Lo sapeva? si, l'aveva sospettato fin da subito. Suo padre. Il suo senso del dovere doveva averlo portato a fare qualche chiamata. Il dovere, nient'altro. Il sentimento? l'affetto? no, a quello non credeva.
Batte' rabbiosamente i pugni sul letto, non facendo altro che aumentare il suo senso di impotenza.
"hanno violato gli accordi" bisbigliò.
"di cosa parli?"
"loro non potevano condannarlo. Quelli come lui possono morire in missione, possono essere uccisi, ma non possono essere condannati come nemici dello stato" non si stava rivolgendo ad Isabelle, stava riflettendo tra sé  e sé, analizzando tutti i dati in suo possesso.
"di che diavolo parli?"
"dei Daimon. Loro sono sopra le parti, le leggi internazionali l'h.."
"i Daimon?" l'infermiera sobbalzò sulla sedia.
Ginevra la osservò, sembra realmente sorpresa, con gelido sarcasmo affermò "in un mondo dove il miglior alleato può essere una strega, dove i mostri invadono il mondo, mietendo vittime su vittime, senza distinzione alcuna tra bambini o anziani, in un tale mondo, ti sorprendi dell'esistenza di un corpo speciale di mercenari?"
La donna la osservò in silenzio, cercando di cogliere nella giovane qualche segno che le sue parole fossero solo frutto del delirio. Scrollò le spalle e bisbigliò "le tasse".
"come?"
"tutto torna, nelle ultime settimane lo stato ha imposto tasse enormi, ovunque è stato possibile i prezzi sono aumentati" la guardava con uno sguardo nuovo, da una parte orgogliosa della nuova scoperta, dall'altra spaventata "allora è vero, accadrà".
"di cosa stai parlando?" chiese Ginevra.
Isabelle, nonostante l'iniziale eccitazione si era calmata ed ora osservava un punto lontano, oltre la parete di fronte a lei.
"si stanno preparando alla guerra. Accadrà, tutte le  nazioni saranno coinvolte, tutte le città autonome, le tasse a cui ci stanno sottoponendo non sono altro che il modo per potersi permettere l'esercito migliore. Dopo quello che mi hai detto capisco anche chi cercheranno di ingaggiare.." disse.
"Aspetta, hai detto guerra?"
"te l'avevo già accennato"
"no" urlò la giovane "avevi parlato di disordini".
"quelli sono i primi sintomi, fazioni che si scontrano, interventisti e neutrali, anarchici e imperiali..".
La ragazza sprofondò ulteriormente nel giaciglio, poi si ricordò di un dettaglio  "la finestra" disse e, dopo aver visto la reazione dell'infermiera, seppe di aver colto nel segno "perché è sempre sigillata?"
"a volte è meglio rimanere all'oscuro" bisbigliò in risposta "sono cambiate molte cose".
"spiegati" la intimò.
La donna esitò ma non ebbe il tempo di trovare alcuna scusa, Ginevra la incalzò, cercando di dissimulare con un tono comprensivo la sua ansia "se vedrò con i miei occhi tu non avrai infranto nessun patto".
"ce la fai a camminare?"
"si" non ne era così sicura ma non si sarebbe lasciata perdere l'occasione tra le mani.
I primi passi furono difficili ed estremamente stancanti ma riuscì a raggiungere la finestra, ora socchiusa. Lo spettacolo che le si presentò la lasciò senza fiato. Il mondo non era cambiato? il mondo era impazzito e scoppiato.
"i primi giorni dopo l'incidente diverse squadre hanno invaso la città, saccheggiato i negozi, distrutto abitazioni, razziato, ucciso.." le spiegò una voce che le apparse distante diverse miglia.
"perché?" Riuscì a trovare la forza di chiedere.
"perché molti di noi hanno dimenticato il confine tra uomo e bestia" il tono era di critica, ma anche di rassegnazione.
"tutto per colpa nostra" stringeva la base della finestra con tale intensità che le mani cominciarono  a sanguinare.
"no, siete stati solo la scintilla di una miccia troppo lunga" non c'era nessun intento consolatorio, era una semplice constatazione.

Un tempo i politici, dinnanzi alle accuse che venivano loro mosse di inefficienza e leziosità, rispondevano che il mondo non si poteva cambiare in pochi giorni. Si sbagliavano, quanto si sbagliavano. Macchine capovolte, bidoni in fiamme, muri dipinti da frasi troppo volgari per essere ripetute. Tutto il mondo, come lei lo ricordava, si era capovolto. Quella città, riconosciuta ed eletta come modello, ora non era altro che caos. L'odore acre dei rifiuti bruciati la nauseava, eppure la sua mente la obbligava a guardare, come se fosse una punizione per la sua impossibilità di cambiare le cose. Le persone camminavano appresso ai muri, cercando il più possibile di mimetizzarsi con essi, i volti scuri e attenti a non incrociare gli occhi di nessuno. Ginevra fu sorpresa di vedere una madre tenere stretta a sé la figlioletta, era tutto sbagliato, loro non dovevano essere li, troppo indifese, troppo deboli e gli sciacalli sentono l'odore della debolezza a chilometri di distanza. Sentì un  botto e spostò velocemente lo sguardo in sua direzione. Due uomini camminavano urlando e ridendo, resi spavaldi dalle armi che reggevano, armi misere e inutili se comparate con quelle in dotazione dell'esercito, ma si trovavano nella zona povera della città, lì l'esercito non passava mai, fatta eccezione di qualche militare che affittava qualche camera da condividere con una o più prostitute.
"dove vai?" chiese Isabelle quando la vide dirigersi verso la porta della stanza.
"secondo te?" chiese "l'hai detto tu, gli uomini sono delle bestie, se gli agnelli vogliono sopravvivere hanno bisogno di una mano"
"da chi? da un disabile?"
"da chi abbia abbastanza coraggio da offrirla loro"
Gli occhi della donna la scrutarono "non ha senso andare ad ammazzarsi, non aiuterai nessuno".
"ma.." un urlo la interruppe e la spinse a riguardare fuori dalla finestra. La madre urlava e si dimenava ma l'uomo più grosso le bloccava i polsi, l'altro, nel frattempo, teneva le ginocchia sul petto della bambina e tra una risata e l'altra biascicava "in questo mondo non c'e spazio per l'innocenza" e poi "ti faccio un favore, dovresti pagarmi". La madre urlava la sua disperazione, supplicava, prometteva, ma le sue parole venivano derise, lasciate disperdersi in un oceano di indifferenza e paura. La bambina, la sua piccola creatura, avrebbe dato sé stessa per salvarla, ma lei era vecchia, le sue mani callose, la sua pelle ruvida, per quegli uomini non ci sarebbe stato alcun gusto: lei si sarebbe arresa, immolata a mostri senza pietà, mostri che però aspiravano a qualcosa di diverso, mostri che, incapaci di  vedere un futuro, incapaci di andare avanti in quei giorni bui, cercavano di aspirare ciò che avevano perso, la vita, da una creatura troppo innocente per trovare alcuna ragione di odiare l'esistenza. Le invocazioni squarciavano il cielo, mentre le richieste di aiuto lo fendevano, ma chiunque passasse accelerava il passo e guardava ostinatamente d'avanti a sé, come se, non vedendo nulla, fosse legittimato a non intervenire. Indifferenza, paura, violenza, così diversi eppure così legati: indifferenza per la sofferenza, paura della sofferenza, violenza come maschera che ti permette di crederti superiore, intoccabile.
Due boati, uno in seguito ad un'altro, poi solo silenzio. Due colpi perfetti. Ginevra vide i due uomini piegarsi avanti e cadere, il loro volto rifletteva ancora un ghigno di soddisfazione, l'ultimo, macchiato solo da un rivolo di sangue che scendeva lento da un foro al centro della fronte.
La donna si alzò velocemente, prese la bambina per mano e cominciò a correre. Dopo alcuni metri si fermò, come colpita da un'illuminazione. Si guardò attorno circospetta, uno sguardo a destra, uno a sinistra, nessuno si era ancora avvicinato. Strinse con forza la piccola mano della figlia, le sussurrò qualche parola e la nascose sotto la carcassa di quello che una volta doveva essere stato un Sidecar all'ultimo grido e tornò indietro. Fatti alcuni passi si rivoltò e con un sorriso dolce le fece cenno di fare silenzio, sarebbe tornata subito, o almeno così sperava.
La dolcezza del suo volto lasciò posto ad una maschera di pietra e, con la stessa indifferenza degli uomini che avevano ignorato le sue suppliche, cominciò a perquisire i due cadaveri. Ne ricavò due piccole armi da fuoco, qualche scorta di cibo, due portafogli carichi ma soprattutto sette pacchetti di sigarette e due di sigari, la cosa più preziosa in guerra. Riprese la bambina e se ne andò senza più voltarsi.
"ecco a chi hai voluto salvare la vita, ad una ladra"
La voce atona di Isabelle la portò a rivolgersi a lei e la vide mentre ripuliva la canna di una piccola pistola.
"Colt M1911" sorrise rigirandosi l'arma tra le mani "piccola, leggera, precisa".
"li hai uccisi" disse la giovane.
"non era quello che volevi?" era pungente, carica di sarcasmo e velata di rabbia.
"io...si..insomma.. non .."
"dannazione, devi decidere cosa vuoi" sbottò la donna "saresti andata giù e cosa avresti fato? chiesto se, per favore, potevano smetterla di far baccano, perché tu, piccola  principessa, dovevi dormire?".
Lacrime roventi di rabbia cominciarono a scendere, Ginevra rinunciò presto a trattenerle e, in un sospiro, rispose "non chiamarmi così".
"come?" le fu risposto dopo una risata forzata "piccola principessa? è quello che sei. Questa volta non ci sarebbe stato tuo padre a salvarti. Cazzo, non sai nemmeno cosa vuol dire.."
Non le fu dato tempo di proseguire, una frase, pronunciata da una voce così distante da sembrare provenire da un'altra stanza sussurrò "avevo sei anni".
"cosa?" qualcosa nella sua voce aveva allarmato l'infermiera e torno ad assumere un'aria professionale e calma, ma era troppo tardi, nessuna diga avrebbe fermato quel fiume in piena.
"avevo sei anni la prima volta che uccisi una persona".

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Le carezze di sua madre erano magiche, sapevano convincerla a fare qualsiasi cosa, che lo volesse o meno. Quella  mattina non voleva andare a scuola, "È il tuo primo giorno, sarà stupendo" le avevano detto, ma lei non ci credeva. Altri avevano provato con un "ti farai tanti amici" ma neppure questa era la verità, anzi, suonava estremamente falso. Nessuno voleva avere per amico una bambina che era controllata a vista da due soldati in borghese, troppo fuori luogo in mezzo a ragazzini perché una camicia a strisce potesse nascondere la loro identità. Avrebbe compiuto l'indomani sei anni eppure i suoi coetanei avevano paura di lei, di cosa avrebbe comportato parlarle. Per sua sorella era tutta un'altra storia, lei con il suo carattere deciso riusciva sempre a sopportare la pressione e superarla, vincerla, sembrava più grande eppure erano gemelle. Lei era quella con un sacco di amici, a scuola, a casa, non era mai sola. Sapeva che Laura l'avrebbe difesa, lo sapeva da sempre perché non ricordava un giorno in cui non fosse stato così, ciononostante quel giorno non le bastava. "sei agitata?" le chiese la domestica, una donna anziana e dal volto spigoloso. Alla bambina ricordava il tronco di un albero e a volte, se la luce era soffusa, faticava a scorgere gli occhi in quel pare di rughe. No, non era agitata, aveva paura. Non paura della cattiveria di cui nemmeno si può immaginare i bambini siano capaci, non paura di pranzare da sola, non paura di venir isolata. Aveva paura e basta, sentiva qualcosa attanagliarle il petto e morderla.
Nonostante tutto sua madre era riuscita a convincerla ed in quel momento camminava svogliata tra i corridoi, ignorando gli sguardi di ragazzini curiosi.
"io vado" la salutò Laura schioccandole un bacio sulla guancia "Lucy mi aspetta in aula canto".
Rispose con un sorriso e proseguì verso la sua meta, uno squallido banco dove il compagno era perennemente assente. Aveva cominciato a vedere la cosa in maniera positiva: più spazio per i suoi libri.
"tu devi essere Ginevra"
L'idea che qualcuno le rivolgesse la parola la sorprese tanto da farla sobbalzare. Scrutò il suo interlocutore, era più grande di lei, un sorriso simpatico stampato in volto e le mani dietro il capo.
"non so come tu sia abituata dalle tue parti" continuò lui "ma qui si ha UN banco a testa e, soprattutto, non si fissano le persone senza proferire parola".
"scusa" rispose lei imbarazzata.
Lui scoppiò a ridere e scosse la testa "tranquilla, scherzavo. Io sono Jack e, comunque, non preoccuparti, ti disturberò solo per oggi" detto questo indico' la targhetta con scritto - tutor - mentre con l'altra mano la invitava a guardarsi attorno per notare che ognuno aveva il suo personale. Continuò a chiacchierare fino all'ora di pranzo, era fantastico sentirsi apprezzata, trovare qualcuno con cui confrontarsi ma, ancor più, era stupendo essere guardati dai suoi coetanei con stima e ammirazione, sentendo sussurrare frasi come "guardala, sta con quelli dell'ultimo anno". Oltre tutto questo si sentiva sempre più a suo agio e le sembrava che ora dopo ora le guardie del corpo affidatagli da suo padre diminuissero, finalmente avevano imparato a mimetizzarsi.
Sua sorella la raggiunse a pranzo e le sussurrò all'orecchio "tutti parlano di te" rise "stai con I GRANDI" scandì l'ultima parola con quell'enfasi che solo i ragazzini sanno provare.
Ginevra si limitò a sorridere e guardò Jack con aria sognante, lui le fece una linguaccia e subito dopo un occhiolino.
"è solo il mio tutor" rispose.
"e che tutor" la sagacità della sorella era un'altro carattere che la faceva sembrare più grande.
Sentì qualcosa infilarsi tra i capelli e, cercando tra i fiumi di ricci ne estrasse un biglietto accartocciato.
- prima di tornare in classe vieni al mio tavolo, ti portiamo noi. Jack. -
Laura trattenne un sospirò e scoppiò a ridere in maniera teatrale, Ginevra la colpì alle costole e la fece tacere.
"tanto non ci vado" disse.
"perche?"
"perché tu mi prendi in giro" era un discorso infantile, ma lei aveva solo sei anni.
"dai, dai, dai..." avrebbe cominciato per ore se la campanella non fosse suonata in quell'istante e lei non fosse stata obbligata ad andarsene.
"ti avevo detto di venire da noi" Ginevra si girò sorridendo ma lo sguardo che incrociò la spaventò. Il ragazzo allegro di poche ore prima era scomparso, la sua espressione era seria, arrabbiata.
"devo andare" bisbiglio' lei.
Lui la strattonò così forte da farle perdere il fiato "tu non vai da nessuna parte, non capisci proprio?"
"mi fai male"
"stammi a sentire dobbiamo andarcene, sono ovunque" disse lui, il tono era gelido.
"chi?"
"mi prendi in giro?" chiese lui.
"lasciami" urlò lei scostandosi, ma lui era troppo forte.
"senti, tuo padre mi ha pagato, è vero, ma non ho intenzione di morire"
Ginevra lo guardò attonita, cominciò a tremare, il ragazzo le prese le spalle e la obbligò a guardarlo negli occhi "sono qui per difenderti, lo farò, fidati".
"Mia sorella" riuscì a formulare la bambina tra tutti i pensieri che le affollavano la mente.
"ha i suoi difensori"
No, non li aveva, adesso capiva perché il numero di bodyguard le sembrava essersi ridotto ora dopo ora.
"andiamo" la intimò lui.
Fu tutto inutile, lei non si mosse, lo guardò con occhi vitrei, non provando nulla. Cominciò a tremare, sentì un velo di sudore coprirle la fronte ed il mondo iniziò a tremarle attorno.
"Ginevra, ascoltami" la supplicò stringendole le spalle con ancor più forza. La pressione esercitata dalle mani di lui, che prima era stata tanto intensa da farle male, ora le era appena percepibile. Sentì le gambe farsi deboli e crollare sotto il suo stesso peso, sarebbe caduta se il ragazzo non l'avesse sorretta.
"capisco che tu sia in uno stato di shock ma non è il momento. Hai paura, saresti stupida se così non fosse,  ma tra poco tutto sara' finito".
Tutto finito? non era affatto rassicurante, cosa avrebbe voluto dire -tutto finito-? Immaginò il suo corpo grigio, un verme le usciva dal naso. Doveva sicuramente smetterla di guardare certi film..
Sorprendendo soprattutto se stessa, scoppiò a ridere con tanta foga da rimanere senza fiato.
Lo schiaffo la sorprese e, perciò, riuscì ad ottenere lo scopo che l'esecutore di quel gesto si era posto, la bambina smise di ridere e tornò a guardare Jack negli occhi, era visibilmente preoccupato e aveva smesso di sforzarsi di apparire rassicurante, limitandosi solo a nascondere, riuscendoci a fatica, la rabbia.
"ora mi ascolti?"le chiese burbero.
Lei si limitò ad annuire e lui continuò "ora ce ne andiamo, passiamo per la cucina e scendiamo per il tubo di scarico rifiuti, non quello tra i cesti che deposita lo scarto negli appositi contenitori, quello tra le celle frigorifere, perché si getta direttamente nelle fogne, cosa non proprio legale.." fece una pausa e i suoi occhi si illuminarono di orgoglio "Non verranno a cercarci, nessuno conosce l'esistenza di quello scarico,io stesso ho faticato a trovar.."
Lui? che ne sapeva lui? Avrà avuto si e no undici anni, forse dodici, come faceva a saper..
"mi stai ascoltando?" ora il ragazzo non si sforzava più neppure di soffocare la rabbia.
"mia sorella" bisbiglio' Ginevra.
"ci sono uomini di fiducia con lei"
"non è vero, sono morti" fu sufficiente vederlo distogliere lo sguardo per farle capire che aveva ragione.
Dopo un breve silenzio lui le rispose "Non c'e' tempo".
"si".
Lui la scrutò dall'alto verso il basso "pensi che non sia in grado di portarti via a peso?"
"non riusciresti a difendere né me né te" ormai la bambina si aggrappava a qualsiasi scusa le sembrasse accettabile.
"sono stato allenato a fare cose ben più difficili" la sfidò lui, trattenendo una smorfia.
"urlerei e tutti mi sentirebbero"
"touchè" si arrese e, cominciando a rovistare nel suo zaino, borbottò "sei furba e incredibilmente stupida".
Lei fece per sorridere, quasi lusingata, ma appena lui estrasse dallo zaino un oggetto metallico e le lo porse, non riuscì a far altro che osservarlo con occhi spalancati.
"non hai mai visto una pistola?" chiese lui.
Lei la prese tra le mani e si lamentò "è pesante".
"sfortunatamente questo mi hanno dato, sai usarla?" la domanda, posta ad una bambina così giovane, sarebbe sembrata stupida ma non a quella bambina. Suo padre aveva regalato a lei e Laura una pistola prima ancora di scegliere il loro nome.
Annuì e lui la prese per mano mentre con l'altre stringeva la sua arma.
"perché non mi lasci la tua" gli suggerì lei, l'arma che il Jack stringeva le sembrava più rassicurante.
"una Vz61 scorpion ad una mocciosa?" rise "fossi matto. Ho dovuto sudare sette camice per averla".

Sembrava tutto surreale, doveva essere un sogno, non poteva essere altrimenti. O era uno di quei videogiochi che piacevano tanto ai suoi coetanei? Quelli dove il mondo cade a pezzi e i bambini si esaltano sparando a zombie o soldati nemici, quelli dove se muori non ha importanza, tanto risorgi subito, quelli che si sono dimenticati che qualcuno la guerra l'ha vissuta sulla sua pelle ed è morto ignorando sul perché stava combattendo. Be', lei non era per nulla esaltata ma, stranamente, neppure spaventata.
Ebbe una voglia matta di urlare <>, come quando la notte si svegliava tremante nel suo letto, riuscì a fatica a trattenersi. Doveva pensare a sua sorella e, soprattutto, non era del tutto certa che Jack l'avrebbe capita, anzi, il ragazzo era più teso che mai e, probabilmente, l'avrebbe soffocata con le sue mani.
"sai che lezione avrebbe dovuto avere?" sussurrò.
"disegno"
"ne sei certa?"
"no, al 99  % " si trattava più di un 55% ma evitò di essere completamente sincera.
Lui le avrebbe chiesto almeno altre mille volte se fosse sicura di quello che diceva ma, sentiti dei passi che si avvicinavano, la prese per un polso e la trascinò oltre la prima porta che vide.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Fu da uno sgabuzzino che Ginevra ebbe la conferma di ciò che stava succedendo. Sentì i passi farsi sempre più vicini e i mormorii più distinti.
"era proprio necessario?"
"ci aveva visti"
"ma era solo una mocciosa, avremmo potuto.."
"non sono interessato a conoscere che scusa avresti potuto inventare per giustificare due fucili in una scuola Elementare"
"come non detto. Là non c'era comunque, dove potrebbe essere?"
"secondo Harry non è uscita dall'edificio"
"sara' al bagno" rise il primo che aveva parlato "le signore, quando non le trovi, sono sempre al bagno".
"hai voglia di ridere?" l'altro sembrava irritato.
"NO, sia mai. Finiamola presto, già uccidere due bambine è ben poco ratificante. Faticare nel farlo mi rende nervoso"
Ginevra senti la prese di Jack sulle su spalle farsi più forte, mentre sputava tra i denti un "bastardi".
Aspettarono fino a che le loro voci non furono scomparse del tutto, trattenendo il fiato, quindi uscirono.
Raggiunta Laura la fecero uscire con una scusa banalissima. La sorella guardò Ginevra con sospetto e le chiese ripetutamente se fosse successo qualcosa di grave.
"si, dobb.."
Fu interrotta da Un bombardamento di domande -mamma stava bene? i nonni? Papà era tornato? -. Parlava così velocemente che le parole, a fatica, si distinguevano le una dalle altre.
"stanno tutti bene noi.."
"che cosa vuoi allora? mi stavo divertendo e ero d'accordo di incontrare Lucy a fin.."
"Laura, io.."
"..sai quella ragazza è fantastica, è l'unica che mi capisce.."
Ginevra non riusciva ad interromperla, la sorella era sempre stata più forte di lei e l'ultima frase che le aveva detto l'aveva ferita, anche lei la capiva e le voleva un mondo di bene.
"senti cara" Jack a differenza sua no si fece alcuno scrupolo "ora noi ce ne andiamo".
Lei tentò di interromperlo ma lui le voltò le spalle "i tuoi genitori stanno bene. Noi no, quindi muoviti perché non vedo l'ora di stare bene anch'io".
Ginevra sorrise delle parole non dette di lui ma che aveva comunque inteso, il suo stare bene comprendeva liberarsi di loro due.  Spigare a sua sorella cosa fosse successo non le fu facile, la bambina continuava ad interromperla con domande futili e solo il racconto delle parole dei due uomini riuscì ad ammutolirla.
Jack spezzò il silenzio chiedendo "questa Lucy.. hai detto che avreste dovuto incontrarvi, non è della tua classe?"
"no,no" rispose Laura "è più grande"
"quanto più grande?" l'incalzare delle domande cominciò ad intimorirla.
"avrà la tua età".
Jack accelerò il passo.
No, non poteva essere, il ragazzo si stava sbagliando. Un brivido attraversò Ginevra mentre si ritrovò a ricordare tutte le volte che Lucy era stata a casa loro, libera di comportarsi come se fosse sua. La parte di lei che sperava che si trattasse solo di una sua congettura divenne ancor più debole dopo che il ragazzo incrociò il suo sguardo. Si ricordò delle sue parole, aveva ragione, erano ovunque e non avrebbero avuto pietà. I suoi pensieri furono interrotti da Laura, che bisbigliò "è dalla merenda che non vedo Toni". Ginevra le strinse la mano cercando di non pensare a nulla, ma non vi riuscì.
Toni era uno degli agenti che le sorvegliava, quello che portava sempre loro i dolcetti fatti da sua moglie. Toni aveva due figli, un maschio e una femmina. La più grande aveva solo due anni.
I piedi le dolevano, il respiro cominciava a farsi sempre più accelerato e difficoltoso. Tre volte Ginevra pensò di avercela fatta, di essere a pochi metri dall’uscita, ma ognuna di queste volte Jack deviò o tornò sui suoi passi, preoccupato dal numero degli uomini che, sempre maggiore, impediva a chiunque di entrare o uscire non visto.    Il ragazzo spronò  le due sorelle ad accelerare e smetterla di lamentarsi. Nessuno si stava lamentando, Laura ancora risentita per la ramanzina precedente taceva, Ginevra invece pensava a Toni e imponeva a se stessa di non piangere.
“noi non..” provò a ribattere Laura ma lo sguardo omicida lanciatole dal giovane le suggerì di fermarsi finché era in tempo.
Si incamminarono verso la palestra, Ginevra contò mentalmente tutte le vie di fuga che rimanevano loro. Ne restavano, almeno per quanto le era dato saperlo, solamente due.
“vi ho cercato ovunque” il suono di quella voce, nonostante fosse allegro ed amichevole, le fece venire la pelle d’oca.
Lucy, sorridendo loro, fece due passi avanti.
“non sapete che disastro stia succedendo, una confusione pazzesca!” disse con noncuranza “due ragazzi non si trovano più, gli insegnanti sono stati chiamati per una riunione extra ed ora, in classe, sono rimasti solo degli uomini strani. Ci lasciano fare quello che vogliamo, ma sono così seri!” altri due passi.
Jack si inframmise tra le due sorelle e lei, impedendole di avvicinarsi ulteriormente.
Ginevra impedì a Laura di muoversi, stringendole il braccio con una tale forza da sorprendere se stessa.  
“anche qui non scherzate in quanto serietà” disse la giovane, muovendosi ora con cautela.
“no, qui non sono seri” rispose Laura “sono stupidi. Mia sorella ora si sente importante perché ha trovato il fidanzatino. Andiamocene! Mi sono stancata!”
“come vuoi. Forse è meglio lasciare soli i due piccioncini” il sorriso che le comparve sul volto andava oltre l’ironia e la malizia tipici di una semplice battuta di spirito, era il sorriso di un serpente che lentamente avvolge la preda con le sue spire.
“mi piace fare le cose a tre” si limitò a rispondere Jack, non interessandosi al fatto che certi doppi sensi non fossero colti da quelle che erano poco più di due bambine ma guardando con crescente sospetto ed ansia alla mano nascosta dietro la schiena di Lucy.
Quest’ultima rise “devo insistere. Io e Laura avevamo un appuntamento”, detto questo strizzò l’occhio alla ragazzina.
Ginevra strinse ancora più forte il braccio della sorella.
“stupida, mi fai male!” urlò quest’ultima.
“Lalla, ti prego, andiamocene” bisbigliò l’altra, senza staccare gli occhi da quelli della persona che aveva d’avanti, quasi vittima del suo sguardo, rapita da questo.
 “si, è meglio che ognuno vada per la sua strada” la voce di Jack era assimilabile al ringhio soffocato di un lupo.
“mi spiace ma mantengo sempre gli accordi”
Ginevra non fece neppure in tempo a sentire queste parole che sentì la stretta sulla sorella venirle meno. Lucy si era mossa con una velocità incredibile, sovraumana. La mano, prima nascosta, si rivelò e insieme a lei un’accetta, piccola ed estremamente acuminata. 
Avrebbe potuto fare qualcosa, avrebbe dovuto fare qualcosa, stringeva tra le mani l’arma per la quale aveva tanto insistito. Cominciò a tremare.
Era un incubò, si ripeté,  doveva essere un incubo.
Presto si sarebbe svegliata.
Successivamente tutto accadde in pochi secondi, Jake si frappose tra le bambine e l’aggressore, incurante del fatto che nulla aveva per difendersi, comportandosi come uno scudo umano. L’arma lo sfiorò appena, un piccolo rigolo di sangue gli percorse il volto. Il ragazzo guardò stupefatto d’avanti a sé la giovane sbiancare, la gelida rabbia che aveva seguito l’attacco era stata soppressa da uno sguardo di terrore. Il dolore le riempì gli occhi solo un attimo prima del vuoto.
“l’hai uccisa” la voce stridula della bambina lo riscosse “sei un mostro”.
Ginevra tremava come una foglia, l’arma ancora stretta tra le piccole mani.
Il giovane si mosse come un fulmine, alzò senza apparente fatica Laura, non curandosi di farle del male.
“taci” ringhiò “tua sorella ti ha salvato la vita, stupida!”
Senza cura la lasciò andare e si rivolse alla piccola creatura smarrita che stava a pochi passi da loro.
“Ginny” la voce calda e, per quanto possibile, rassicurante “va tutto bene, hai fatto quello che..”.
Lo sguardo di lei cambiò, da assente divenne serio e attivo, qualcosa era cambiato, quella piccola luce serena, infantile e spensierata, che lo aveva inizialmente colpito, era scomparsa.
“dobbiamo andarcene subito” disse lei, precedendolo.
“io li distrarrò, voi correte verso la cucina. I miei colleghi mi hanno parlato di un tunnel, un tubo per buttare i rifiuti o qualcosa del genere..”
“..perchè non vieni con noi?” lo interruppe.
“perché ci prenderebbero prima che fossimo in grado di raggiungerla. La tua amica.. “ e nel dire questo indicò con disprezzo sia sua sorella sia il corpo a terra “.. aveva un ricettore al polso, la distrutto prima di..”
si interruppe quando vide una leggera ombra percorrere il volto della fanciulla. Era difficile, in quel momento, vederla solo come una persona da proteggere ora. Sarebbe stata un’agente perfetta, si ritrovò a pensare.
“va bene” lei lo guardò dritto negli occhi, prese la sorella per mano e cominciò a correre.
Il ragazzo le guardò allontanarsi cercando di ordinare il turbine di pensieri, emozioni e adrenalina che, in vista dei futuri eventi, lo stava assalendo. 
“Jake” gli urlò Ginevra, già a diversi metri di distanza.
“dimmi”
“vedi di sopravvivere”
Lui trovò la forza di fissarla dritto negli occhi e di dichiarare con voce sicura “te lo prometto”.
Lei si girò nuovamente ma, prima di allontanarsi si voltò e fece qualcosa che lo sorprese: gli sorrise, un sorriso caldo e sincero, estremamente fuori luogo in quella circostanza, eppure estremamente rassicurante.
 
Passi, prima solo un debole rumore, forse dovuto all’angoscia della fuga, ora una certezza. Sapevano dove stavano andando. Non erano state abbastanza silenziose, si erano mosse troppo lentamente e rumorosamente.
Si catapultarono in cucina non appena scorsero la porta e la richiusero alle proprie spalle.
“non c’è nessuna via di fuga” bisbigliò Laura “siamo in trappola”.
Ginevra si guardò attorno, cercando di aggrapparsi a qualcosa, qualsiasi cosa che le desse speranza, un piccolo buco in cui nascondersi insieme alla sorella.
Jake aveva parlato di una via di fuga. Jake.. quei passi si facevano sempre più vicini, questo poteva voler dire solo una cosa: lui era…
“Ginny, guarda!” la bambina bionda stava indicando qualcosa sotto il lavandino, dietro la cella frigorifera, ed il cestino colmo di rifiuti maleodoranti.
Si avvicinò con il cuore in gola. L’avevano trovato. Grande appena per permettere il loro passaggio il tunnel stava lì, scuro e maleodorante.
“andiamo” sentenziò.
“ma..”
“Laura guardami”
Ginevra sentì un tuffo al cuore quando vide la sorella con gli occhi gonfi e invasi dal terrore.
“Laura, fidati di me, andrà tutto bene. Sta sera chiederemo a mamma di farci mangiare la pizza davanti alla televisione e guarderemo quei programmi che piacciono tanto a me e a te, quelli che papà non ci lascia guardare perché dice che sono stupidi” la abbracciò con tenerezza, sforzandosi di sopprimere il cuore che, come un martello automatico, le distruggeva il petto.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo V ***


“si, papà è stupito” sentenziò l’altra, tentando un risolino rilassante. Quindi, si sciolse dall’abbraccio e indico l’imponente bidone di rifiuti.
“fa schifo anche a me” disse Ginevra ma fu subito interrotta da Laura che scosse la testa con foga.
“non importa che faccia schifo” le rispose “usiamolo per coprire questo tunnel”.
“ok, tu vai, ci penso io”
“no, insieme”
“non ha senso, tu infilati e conta fino a dieci, sarò lì prima che tu riesca a scandire U-N-D-I-C-I”
“promesso?”
Ginevra nuovamente sorrise, questa volta ciò le costò uno sforzo sovraumano, eppure non lasciò che quell’espressione la abbandonasse prima di aver visto la sorella scomparire nel cunicolo.
 
L’adrenalina le percorreva le vene così impetuosamente da impedirle di pensare. Sentii i passi farsi sempre più vicini e minacciosi. Le braccia le dolevano nello sforzo di smuovere il bidone che, invece, non accennava a collaborare. Le lacrime cominciarono a scorrerle attraverso le gote, calde come torrenti di lava. Non aveva paura, era arrabbiata. Dopo tutta la fatica che avevano fatto non poteva finire così, non era giusto.
Quando ormai sentii la speranza abbandonarla, un nuovo fuoco la invase e, finalmente, il bidone si mosse, spinto da una forza che sembrava non appartenerle. Riuscì ad infilarsi sotto ed ad entrare nel tunnel dei rifiuti. Da qual momento tutto fu buio e silenzio.
 
 
Brividi le percorrevano la schiena. Rabbia, dolore, paura. I ricordi si accavallavano tra loro così vivi da farle del male. Sentiva le meningi esplodere. Ispirò a fondo più volte, ma sentiva un incessante bisogno di aria pulita, di sentire l’ossigeno attraversarle la gola per ricordale che fosse viva, solo così avrebbe avuto la forza di continuare. Continuare? Continuare cosa? Ricordava abbracci confusi, sua madre che piangeva, suo padre che le metteva la mano sul braccio e, nonostante l’espressione seria, avrebbe potuto giurarci, per la prima ed ultima volta, le lanciava uno sguardo di fierezza. Ricordava che le mani le dolevano, ma non ne riusciva a capire il motivo. Ricordava di averle guardate e di averle viste bruciare, come se una fiamma interna le stesse consumando. Trattenne a stento un singhiozzo, tutto si stava facendo sempre più confuso, una tela dove tutti i colori si uniscono senza motivo.
“non devi continuare se non vuoi”
“non ho altro da aggiungere”
“Hai parlato di te in terza persona”
Già, l’aveva fatto. Il motivo le uscì dalle labbra prima che la sua ente se ne chiedesse ragione. Era il suo cuore a parlare.
“l’ho fatto perché quella bambina ormai è morta”.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


Da quel momento le  giornate passarono ancor più lentamente. Nessuna delle due iniziava una conversazione che avesse come argomento qualcosa di più profondo del tempo o del cibo. Le notti erano il momento peggiore, incubi assalivano Ginevra e la lasciavano impotente, debole. Le capitava di svegliarsi stordita alle prime luci dell’alba e di trovarsi rannicchiata ad un angolo della stanza, non ricordandosi bene come vi ci fosse finita. Per quanto si sforzasse di assemblare le immagini che  l’avevano accompagnata nella notte, le riusciva impossibile. Tutto ciò che le rimaneva al sorgere del sole era il sapore del sue sangue che, mordendosi le labbra con una tale forza per impedirsi di urlare, non la abbandonava mai.
 
“non puoi continuare così” Isabelle la stava osservando da diversi minuti.
Ginevra fingeva di dormire, ma quella notte un incubo l’aveva scossa a tal punto che a nulla erano valsi i suoi sforzi per trattenersi. Si era svegliata urlando, con le lacrime che le rigavano il volto e la fronte impregnata di sudore.
“ti sembro cosi stupida da credere che tu stia dormendo?” il tono freddo con cui l’infermiera spesso sentenziava le sue diagnosi o le diceva quali medicine avrebbe dovuto prendere aveva lasciato il posto ad un qualcosa di diverso. C’erano calore, preoccupazione e rabbia nella sua voce.
La ragazza si sedette sul letto senza dir nulla, fissando il vuoto davanti a sé. Rivedeva la macchina rossa, i due fanali, una donna che sorrideva e…
Altre lacrime passarono al suo controllo.
“è morta..”
Isabelle la guardava con premura e pazienza, senza spingerla ad aggiungere altro.
Fece per avvicinarsi per sentirle la fronte con la mano. “penso tu abbia la febbre, potrebbero essere vision..”
“NO!” la giovano urlò con rabbia “lei è morta ed è stata colpa mia!”
“ascolta..”
“voleva salvarmi, allontanarmi da lui, oggi capisco perché ma non avrebbe dovuto, lui è troppo..”
“di chi parli?”
La mente suggeriva a Ginevra di zittirsi, di tenere per sé tutto, ma aveva bisogno che le immagini si fermassero nella sua testa, e l’unico modo era di far esplodere quei ricordi non dentro si sé ma dar loro vita, farli uscire.
 
 
“Mamma, dove mi porti?”
Nessuna risposta.
“dov’è Laura?”
Niente,
“mamma è successo qualcosa?”
Sua madre continuava a guidare ignorandola, guardando la strada d’avanti a sé e superando più macchine possibili. Premeva con rabbia sull’acceleratore e il motore rombava sotto di loro.
Ginevra si guardò i palmi delle mani. Erano passati cinque anni da quello che suo padre si ostinava a definire “piccolo incidente”, eppure le mani spesso le davano fastidio a tal punto che avrebbe voluto strapparsi i polsi a furia di grattarsi.
“mamma mi fann..”
Non fece in tempo a finire la frase che sua madre sterzò di colpo e frenò all’improvviso. Scese dalla macchina ed aprì la portiera della figlia senza dire una parola, obbligandola solo a seguirla. Camminarono per diversi minuti lungo un capo e poi la bambina vide lo sguardo della donna al suo fianco lasciare spazio ad un po’ di luce. Accelerano il passo in direzione di due uomini che, accanto alle proprie rispettive macchine le stavano aspettando.
“non dire una parola” era un ordine che non ammetteva repliche.
“Finalmente sei arrivata” disse uno dei due appena le scorse.
“non è stato facile seminarli”
“dobbiamo muoverci, qui non è più al sicuro da tempo”
“lo so” sentiva i denti della madre stridere, mentre tentava di reprimere la rabbia “ho sperato che le cose non fossero così per troppo tempo”.
“non si può cambiare quello che è scritto, tu dovresti saperlo”.
“ora sono pronta”
“e lei?”
La madre la guardò, le sorrise e Ginevra sentì un nuovo calore farsi spazio tra tutte le paure che la circondavano. Lentamente e per mano si diressero verso la porta posteriore di una delle automobili. La bambina si sedette. Quando vide la donna allontanarsi si sentì persa, non capiva cosa stesse succedendo.
“mamma, dove vai?”
Sembrava che sua madre la stesse guardando ma in realtà fissava un punto dietro di lei, come assorta in pensieri lontani.
“sei una brava bambina lo sai?” disse ad un tratto.
“mam..”
“lo sei sempre stata” continuò ignorandola “la luce che ti illumina gli occhi, il fuoco che arde al loro interno, non permettere che quel fuoco si spenga”.
“mamma, cosa dici?” era paradossale, capiva sempre meno cosa stesse succedendo.
“promettilo!”
“lo prometto” disse e nel farlo cercò di catturare lo sguardo della sua interlocutrice.
La donna sembrava combattere una battaglia dentro di sé ma alla fine iniziò a guardarla sul serio, iridi contro iridi, paura contro tristezza ed angoscia.
“andrà tutto bene” le disse “io sarò nella macchina d’avanti alla tua”
“non possiamo viaggiare insieme?”
“no, non possiamo”
“ma..”
“ti voglio bene, piccola” e la abbracciò, soffocando qualsiasi protesta.
Ginevra la guardò fare diversi passi verso i due signori che le stavano osservando.
“mamma” la chiamò.
“si piccola?”
“sta sera possiamo mangiare il gelato?”
“certo” le sorrise.
“d’avanti alla tv?” insistette.
“tutto quello che vuoi”
“e, mamma..”
“si?”
“io non sono più piccola” sbuffò con fierezza.
“lo so” la donna continuava a sorridere ma ora il sorriso era più tirato e teso, gli occhi due abissi di tristezza e di pensieri non espressi.
 
Era successo tutto in pochi istanti. Le ruote avevano cigolato, l’auto era sbandata mentre di sfondo esplosioni si susseguivano, seguendo quelli che, agli occhi di un’undicenne a cui la vita non aveva ancora strappato i sogni, apparivano come piccoli, meravigliosi, fuochi d’artificio.
 
“tenetela in macchina” la voce dell’uomo era dura come l’acciaio.
“si, signore” risposero in coro altri individui.
Cos’era successo? Si era addormentata?
“mamma.. “ cominciò a chiamare come quando di notte si svegliava, oppressa dalle tenebre della sua camera.
“va tutto bene” ma la voce femminile che le rispose non le era conosciuta.
“dov’è mia mamma?” chiese guardando dritta negli occhi la sconosciuta.
La vide abbassare lo sguardo per una frazione di secondo e capì.
“no” urlò come un animale ferito e corse fuori.
Sentiva ordini sparsi di persone che cercavano di trattenerla, rimproveri, imprecazioni. Nulla di ciò aveva importanza. Corse senza chiedersi dove stesse andando, qualcosa dentro di lei guidava i suoi piedi.
Quindi lo vide.
Stringeva i pugni all’estremità della strada, guardando in direzione di un ammazzo di detriti a pochi metri di distanza.
Ai suoi occhi sembrava un eroe. Immobile, solo, contro il vento gelido che lo sfidava.
“papà” disse avvicinandosi e stringendoli la mano.
Lui non sembrava essersi accorto della sua presenza.
“papà, dov’è la mamma?”
“la mamma è morta”
Non disse nessuna parola di supporto, non tentò di consolarla, continuava a guardare l’auto distrutta.
Quando finalmente suo padre voltò il viso Ginevra sperò di potervici trovare supporto, di potersi buttare tra le sue braccia in cerca di un rifugio che le permettesse di allontanarsi dal mondo. Ciò che quegli occhi invece le riservarono fu solo distese di ghiaccio e, nascoste in profondità, praterie di odio. 
 
“hai nuovamente parlato di te in terza persona” fu l’unico commento che Isabelle le riservò.
“il motivo lo sai” disse, sprofondando tra i cuscini e sospirando “fu quello il giorno della sua morte”.
L’infermiera la guardò, chiedendosi a lungo a chi, l’aggettivo “sua”, si riferisse. 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


L’uomo che aveva aggredito Isabelle, la andava a trovare sempre più frequentemente, una o due volte al giorno. Alto, muscoloso, atletico. Consapevole della sua bellezza e del potere che essa poteva esercitare. Si dimostrava gentile, interessato al suo stato di salute. Si compiaceva della velocità con la quale il suo fisico si riprendeva ma, al contempo, si preoccupava del riscontro che l’”incidente”, come lo definiva lui, stava avendo sulla sua mente. Gli incubi avevano, infatti, fatto del sonno il suo peggior nemico. Quando, però, il  fisico cedeva esausto alla sua volontà il riposo era tutt’altro che ristoratore. Si svegliava in lacrime, urlando, incapace di contenersi.
Sebbene lui non si fosse più dimostrato violento ed aggressivo, ogni volta che lo vedeva scomparire con l’infermiera per lasciarla riposare, Ginevra si allarmava e tendeva ogni suo senso per sentire qualsiasi rumore preoccupante, pronta ad intervenire. Quando, finalmente, Isabelle tornava, la ragazza scrutava a lungo il suo volto, in cerca di qualsiasi segno di violenza.
 
“lui pensa che dovresti cercare di liberarti dei tuoi nemici” le disse una sera.
Una smorfia che doveva avere la parvenza di un sorriso invase il volto di Ginevra. Nemici? Liberarsi dei suoi nemici? Forse le sarebbe state necessarie due vite per riuscirvi.
“e crede che il tuo nemico principale sia tu stessa”
“buono a sapersi” cercò di controllare la nota di aggressività della sua voce ma senza riuscirvi. Già qualcuno le aveva fatto un discorso simile e, ora, lui..
una nuova esplosione di immagini le invase la testa, strinse con forza i lembi delle lenzuola cercando di stare attaccata alla realtà, cercando di impedire che la marea la spingesse in un abisso troppo profondo.
Il ticchettio dell’orologio appeso alla parete, la macchina che, a intervalli regolari le controllava pressione e battito cardiaco, somministrandole due volte al giorno un siero verdastro, le sirene fuori dalla finestra, il respiro di Isabelle. Solo concentrandosi sulla concretezza che la circondava riusciva a restarvici ancorata. Urla, pianti, invocazioni, suppliche, quelli non erano reali.
“sta succedendo anche adesso” sospirò la donna innanzi a lei “stai distruggendo tutti i progressi che il tuo fisico sta facendo”.
“non posso controllarlo” digrignò.
“si che puoi”
“no, non posso. E se sei così convinta che ci possa riuscire allora, forse, sto impazzendo. Rinchiudetemi” inspirò profondamente prima di aggiungere “non che faccia molta differenza”.
“tutto quello che facciamo lo facciamo per te” disse e, resasi conto che non avrebbe ottenuto alcuna risposta, aggiunse “non sto dicendo che tu possa riuscirci da sola, sto cercando di farti comprendere che posso aiutarti”.
Ginevra la guardò interrogativa. Tutto quello che voleva era dormire non svegliandosi poche ore dopo con mille pugnali che le trafiggevano il ventre. Riposare e, possibilmente, dimenticare.
“parla con me” propose, non smettendo un istante di reggere il suo sguardo “dai vita a ciò che cerca di distruggerti, solo così potrai liberarti da quelle catene che ti impediscono di vivere”.
“cosa vuoi sapere?”
“non è questione di cosa voglio sapere io, ma piuttosto di cosa sei pronta ad affrontare tu, ne avrai la forza ed il coraggio? Io credo che se non tentiamo non lo sapremo mai”.
No, non ne avrebbe mai avuto il coraggio, la forza non sarebbe mai stata sufficiente a rivivere ciò che già una volta l’aveva spezzata. Perché avrebbe dovuto  farlo? Per frantumare quei pochi pezzi di lei che, a fatica, ancora restavano attaccati l’uno all’altro?
“dimmi cosa successe dopo la morte di tua madre” propose allora Isabelle.
“il caos” sorrise laconica Ginevra, i suoi occhi erano ormai diventati vitrei mentre fissavano un punto lontano, vedendo ciò che nessun altro avrebbe potuto almeno immaginare.
“mio padre si gettò sul lavoro come mai prima di allora, le poche volte che lo vedevamo era immerso in documenti governativi e militari, attorniato da uomini di fiducia che ci riservavano quei sorrisi che lui mai ci regalava…”
“tua sorella?”
“mia sorella..” un respiro profondo “lei dimostrò di essere l’unica misera luce rimasta nel nostro palazzo di ghiaccio, sorrideva a tutti, stringeva le mani, ringraziava chi ci veniva a trovare e si prendeva cura di me..”
Un sorriso le attraverso le labbra “..di ciò che rimaneva di me”
“non deve essere stato facile, tu eri lì quando..”
“fu lei che mi preparò il giorno del funerale, con cura mi legò i capelli in una lunga treccia, mi aiutò ad indossare quell’orribile abito nero, mi guidò verso la macchina tenendomi per mano. Nostro padre non c’era, entrate nell’abitacolo fummo solo noi due, due ragazzine contro il mondo..
 
Il profumo di pelle appena pulita riempiva l’abitacolo, l’aria calda che usciva dal climatizzatore mi accarezzava le guance. Non mi importava, non sentivo più nulla da giorni. Caldo, freddo, dolore e piacere erano ricordi lontani dopo quella notte. Mi guardai le mani, le nocche ancora sbucciate e arrossate. Mi avevano raccontato che, dopo aver realizzato cosa fosse successo avevo cominciato a comportarmi come un animale impazzito, mi ero buttata a terra ed avevo cominciato a colpire l’asfalto urlando. Era la realtà? Non lo sapevo, una nebbia avvolgeva il ricordo di quella notte rendendomelo inaccessibile.   
Diverse volte presi fiato per dire qualcosa a mia sorella, sentivo la necessità di parlare ma al contempo non mi importava nulla riuscirvi o meno. La studia con attenzione. Lei era lì, accanto a me, seduta con eleganza, avvolta nell’abito di seta nera che qualche stilista le aveva disegnato su misura. Anche in questa occasione la nostra vita era diventata un fatto mediatico, seguito tanto quanto le previsioni meteo della sera. Case d’alta moda avevano fatto a gara per ottenere l’onore di “starci accanto e supportarci n questo terribile momento”. Così almeno riportavano i mille telegrammi che ci erano pervenuti con allegati bigliettini da visita e listini prezzi. 
“sei bellissima” dissi, riuscendo con difficolta io stessa a sentirmi.
Lei mi guardò stupita, nessuno era riuscito a farmi formulare parola da quel giorno. Riuscii a sostenere il suo sguardo e solo per pochi secondi, vergognandomi subito di quello che avevo detto.
Avrei dovuto scusarmi, avrei dovuto raccontarle quello che era successo, spiegarle quello che sapevo. Invece l’ unica cosa che mi aveva attraversato il cervello era state un’affermazione da imbecille.
La sentii sospirare e subito mi rivoltai verso di lei per scusarmi. Questa volta fu lei a sorprendermi. Stava ridendo. Non il sorriso da telecamere sfoggiato fino a quel giorno, bensì una risata genuina, leggera e controllata ma, comunque, sincera.
“dici così perché sei sotto shock” disse “lei avrebbe sicuramente qualcosa da ridire: le calze sono troppo scure, il trucco troppo pesante, le ciglia troppo folte..”
“..il vestito troppo corto” aggiunsi ed entrambe scoppiammo a ridere insieme.
Subito un nuovo dolore mi pugnalò il petto. Tutto mi apparì sbagliato. Come potevo ridere? Come potevo scherzare?
“non devi fare così” sospirò Laura “non devi smettere di provare emozioni, non è così che lei vorrebbe che..”
“lei non ha più voce in capitolo, forse non lo sai ma è morta e sicuramente non ci dirà più come comportarci”
Non vi fu nessuna replica, la vidi guardarmi con dolore e sentii un nodo stringermi la gola. Avevo ferito anche lei, ancora una volta qualcuno stava male a causa mia. Avrei dovuto fare qualcosa, dire qualcosa e stavo per farlo ma non ne ebbi il tempo. La macchina si fermò e non appena l’autista ci aprì la portiera i flash cominciarono ad investirci come se si stesse per celebrare il matrimonio del secolo e non il funerale di una donna che era stata madre e moglie.
La pelle era bianca come il latte, rilassata come mai l’avevo vista fino a quel giorno. Il volto sereno infondeva calma e pace. Le mani erano avvolte ad un mazzo di rose blu appoggiato sopra il ventre piatto. Indossava in abito bianco, delicato ed elegante, semplice ma, al contempo, magnifico. La pelle, diafana, assumeva un colorito roseo solo sulle gote. I capelli, biondi, erano stai raccolti in una moltitudine di trecce che, a loro volta, erano racchiuse in un diadema argenteo, tempestato da lapislazzuli e zaffiri. Un angelo, non una persona, non una semplice donna, nel cui corpo, un tempo, scorreva sangue caldo. Un essere sopraterreno, ecco cosa giaceva in quel candido letto di legno.
Così la vedevano tutti, così la vedeva sua sorella che, in silenzio, temendo che un singolo rumore potesse danneggiare quella perfezione, lasciava che le lacrime le rigassero il volto.
Perché tanta tristezza? Non lo capivo. Tanto non era morta, in quel momento ne ero certa. Se mi sforzavo riuscivo a vedere il petto alzarsi e rilassarsi, un movimento appena percettibile. Stava dormendo, doveva essere così. Era così magra, forse era per questo che non si era ancora svegliata, era stanca ed aveva bisogno di più tempo per riprendersi.
Chiusero il coperchio ed io cominciai ad urlare, a divincolarmi a chiunque cercasse di trattenermi.
“così non respira” dicevo “morirà”
Le persone mi guardavano sconcertate, tristi, non sapendo cosa fare e come comportarsi.
“portatela via” la voce di mio padre arrivò perentoria, chiara e nitida come quando ordinava operazioni di guerra. Era un ordine e non accettava repliche, non accettava che nessuna concedesse spazio alla pietà verso una bambina.
“ma se chiudete morirà” gridai “sta dormendo! Non lo vedete? Si sveglierà, ha solo bisogno di tempo”
Lui mi guardò con sprezzo e cominciò a spingermi verso le sue guardie. Agii distinto e cominciai a picchiarlo con tutta la forza che avevo.
“la ucciderai” gli dissi.
Le sue iridi persero il gelo che abitualmente le dominavano, lasciando spazio al fuoco dell’odio.
“non potrei ucciderla” disse “ci ha già pensato una mocciosa”.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***


questo capitolo tocca temi delicati e mi sento in dovere di spiegare una scelta che guiderà l'intero percorso narrativo. Cercherò di trattare temi delicati, sociali, personali, politici, attuali e passati.. perché la letteratura.. per quanto strumento nelle mani di un inesperto come me, rimane il mezzo principale per sensibilizzare tutti.


“non vuoi sapere dove vado?”
Non risposi, guardavo fuori dalla finestra, la pioggia cadeva incessante da giorni.
“ti interessa così poco delle persone che ti amano.. una volta non eri così”
Mi voltai a guardare Laura.
Durante i sette mesi seguenti al funerale era diventata la figlia perfetta che un padre come il nostro avrebbe potuto desiderare. Genio della scuola, apprezzata dal popolo, benvoluta da tutti, le richieste di matrimonio avevano già cominciato ad arrivare alla nostra porta. Tutti sembravano dimenticarsi che avesse solo quindici anni. Sarebbe andata in un college per super dotati, per i futuri presidenti di domani. Che importanza poteva avere per me sapere di quale tra i più prestigiosi si trattasse? Non ci sarebbe più stata, solo questo mi interessava.
“io..” riprovò “.. tornerò appena possibile”
Non era vero, lo sapevano entrambe. Non stava semplicemente andando a costruirsi un futuro, stava scappando da un passato che rischiava di soffocarla, che rischiava di ucciderla.
“non puoi odiarmi per questo” continuò.
“non ti odio” dissi.
La sua reazione mi stupì, sentii la sedia sbattere con forza a terra e subito una mano che mi afferrava i polsi e mi obbligava a stare immobile, gli occhi fissi sui suoi.
“dannazione, devi reagire” mi urlò contro “devi riprenderti, sono passati mesi, non puoi stare qui, immobile a lasciarti andare. Non fai del male solo a te, ci siamo anche noi e ci saremo sempre. Non puoi non mangiare e vomitare quando ti obblighiamo farlo”
La guardai stupita.
“pensavi che non ce ne fossimo accorti? Ci credi stupidi? Pensavi che non sentissimo i gemiti che giungono dal bagno ogni volta che ti ci chiudi dentro? Pensavi che non ti vedessimo appassire giorno dopo giorno?” la rabbia che trapelava dal suo tono era incontrollabile.
“io..”
“cristo! Non ti vedi? Quanto peserai adesso? Trenta kili? Ti prego reagisci”
“non..”
Mi strinse i polsi con più forza ancora, mi fece male. Ancora più dolore mi fu però procurato dal vederla inginocchiata di fronte a me, con le lacrime, mentre mi supplicava di reagire, di parlare.
Distolsi lo sguardo e guardai lontano.
Sentii la sua stretta diventare sempre più leggera al crescere della sua rabbia verso di me. Sentii la porta chiudersi alle sue spalle.
Come poteva non capire che lo facevo per noi? Come poteva non comprendere che tutto il mio agire era per farla tornare indietro? Se fossi diventata magra abbastanza da essere come lei allora sarebbe tornata, ci avrebbe sorriso e avrebbe riso della sua lontananza, ci avrebbe sgridato per il disordine della casa. Ci avrebbe rimproverate per quella gonna troppo corta..
Questo mi ripetevo, mentre una voce, sola nell’abisso, cominciava a sussurrare.. sei solo una stupida egoista.
 
Pochi erano a conoscenza di quella fase della sua vita, era forse l’unica circostanza in cui le era stata concessa un po’ di privacy. Di questo Ginevra era realmente contenta, era stata una fase della sua vita di cui si vergognava.
“eri..” cominciò a chiedere l’infermiera.
“si” rispose la ragazza.
“sei stata brava, l’hai superata, non tutti..”
“ti ho già detto una volta che non voglio la tua pietà. Non ho bisogno di nessun applauso. Ero una ragazzina viziata che voleva che il mondo le girasse attorno e ha capito, fortunatamente, che era giunto il momento di reagire. Da quei giorni mi sono sempre sentita in debito con qualcuno, con qualcosa.. non so dirti se credo in dio o negli dei o in altro.. a so di non avercela fatta da sola, so di essere stata aiutata. Credo nel genere umano, credo che, sotto le atrocità che gli uomini compiono in nome di qualcosa di superiore, vi sia qualcosa di nascosto, si siano sempre quelle persone che permettono alla speranza di sopravvivere, che permettono a quel piccolo lume di non spegnersi. Credo che, qualsiasi cosa l’odio, l’egoismo, la vanità, facciano cresce, non potrà impedire al sole di sorgere, giorno dopo giorno”.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo IX ***


Il sole doveva essere sorto da poche ore, solo un piccolo fascio di luce riusciva ad attraversare le bende che gli coprivano gli occhi. Lentamente si stava abituando alla mancanza della vista, una delle tante torture che la prigionia gli aveva imposto. Gli altri sensi si erano fatti più acuti. L’udito ora gli permetteva di distinguere i passi provenienti dalle stanze attigue. Soprattutto, gli dava la certezza di essere solo in quella stanza, che i suoi compagni non stessero subendo come lui quelle sofferenze, quella routine di terrore e dolore. Cercava di rimanere il più possibile lucido e attento, ma non riusciva ad impedire che una piccola speranza gli crescesse in petto. La speranza che loro fossero riusciti a scappare, che loro fossero sani e salvi. Solo il suo respiro accompagnava quelle interminabili notte che inesorabilmente si univano al giorno, rendendo tutto uguale, arido, buio. Inizialmente aveva tentato di contare il passare del tempo ma a nulla erano valsi i suoi sforzi. Il sonno vinceva il suo corpo stremato e, solo dopo quelli che potevano essere al contempo minuti o ore, lo riportava ad una realtà che a lui si presentava nella sua totale inconsistenza ed atemporalità.
Non sono queste le cose che insegnano in Accademia, gli ripeteva una voce nella sua mente.
Ben presto aveva imparato ad aggrapparsi alle uniche cose materiali che gli erano stati concessi.
Tirando le braccia e le gambe il dolore provocato dalle catene che gli legavano polsi e caviglie lo riportava alla realtà nei momenti di peggior smarrimento.
Anche l’olfatto si era fatto più fine. Distingueva l’odore del metallo delle manette e del sughero. Un isolante acustico perfetto, i suoi aguzzini ci sapevano sicuramente fare. Distingueva l’odore di sangue e di bruciato che più di ogni altro riempiva la stanza, l’odore che la sua pelle, testimone delle sue torture, emanava. Eppure solo questo gli permetteva di impedire che il dolore lo vincesse.
Il fatto che i suoi sensi, addestrati al combattimento, si stessero sempre più risvegliando lo tranquillizzava.
Ciononostante ce n’era uno che, per quanto si sforzasse, non riusciva a far riemergere, quel fuoco che gli riempiva il ventre in ogni combattimento restava sopito. L’unica cosa che avrebbe potuto salvarlo non accennava a riemergere.
Fu il quel momento che entrò qualcuno. Non appena sentì scattare la serratura chinò la testa in avanti e finse di dormire.
Nonostante questo non riuscì a trattenere un gemito quando gli strattonarono un braccio e, incuranti dei polsi sbucciati lo tirarono con forza. Con altrettanta irruenza gli piantarono quello che doveva essere un ago .
1,10 mm, subito calcolò la sua mente, prima di cadere nel coma che quel liquido dall’odore pungente doveva avergli indotto.
 
 
 
 
 
 
Due figure in nero percorrono strade appena illuminate dalla luce fioca di una luna mai così vicina alla terra. Sembrano due macchie d’ombra che con agilità ed eleganza cercano di nascondersi al albore, consapevoli dentro di loro che, alla fine, questo li troverà. Scappano senza meta, sanno che non esiste un rifugio sicuro a ciò che un qualcosa superiore ha scelto per loro, ciononostante non si arrendono. Si tengono per mano, consapevoli che quello potrebbe essere il loro ultimo contatto, ma troppo spaventati per respirare o dire parole d’amore che rimpiangeranno di non aver detto. La preghiera di entrambi non è però per la loro vita, ma per quella del prodotto del loro amore, per quel figlio che potrebbe non vedere la luce del sole, per quella figurina che la donna stringe al petto con la stessa forza con la quale stringe la mano del marito.
“ancora poco” sussurra l’uomo e quasi crede alle sue stesse parole “una nave ci attende, lo porteremo in salvo, vedrai”.
La donna annuisce appena, senza smettere di camminare guarda con occhi amorevoli l’esserino che tra le sue mani dorme senza rendersi conto che il mondo gli sta crollando addosso, senza rendersi conto del potere del quale gli dei lo hanno onorato. Potere superiore a quello di ogni altro e in grado di far nascere l’invidia anche di quelli che prima erano considerati alla stregua di fratelli.
In lontananza si vede il fiume che offre un confine sicuro alla città, per la prima volta in quella notte la speranza sembra riempire realmente il padre e la madre.
“Jack ci aspetta con la Raptim” sussurra lui “non c’è nave più veloce o uomo più fidato”.
Nuovamente lei non risponde, troppo spaventata, credendo che il solo ritenere vero il risultato dell’impresa possa vanificare il tutto.
Un rumore di passi blocca entrambi. Sono soldati, li stanno cercando e a nessuno dei due serve averne conferma, lo sanno perché è il loro cuore a suggerirlo e la loro mente a concretizzarlo.
I due si scambiano uno sguardo triste, si rimproverano per aver solo creduto nella facilità dell’impresa.
L’uomo sussurra poche parole in una lingua sconosciuta, antica, potente, si stacca dall’ombra e i soldati lo vedono, cercano di parlare ma è troppo tardi. Dalle loro gole non esce nessun suono, si guardano spaventati e increduli, prima di cadere a terra esanimi, strangolati da una forza invisibile.
L’uomo riprende la sua fuga ma la ragazza non riesce a non guardare i due corpi a terra, trovando nella sua angoscia uno spazio per chiedersi se sia giusto che loro, suoi simili, siano morti.
“meglio loro che noi” risponde ad un pensiero mai formulato lui, con una crudeltà forzata e estranea.
Più nessuno incrocia il loro cammino e, nel profondo, sanno che questo non è un fatto positivo. Più il fiume si avvicina più ambedue stringono l’elsa della spada che pende al loro fianco, come se non sapessero che tra tutte le armi sulle quali possono contare quella è la più inutile, poiché un pezzo di ferro non è comparabile alla crudeltà del fuoco, alla spietatezza dell’acqua, all’acutezza dell’aria, alla ferocità del tuono e alla potenza della natura.
Lei sa cosa accadrà, sa che non deve mentire a se stessa, lei l’ha visto, in quanto figlia di un dio anche a lei è toccato un dono superiore, il più crudele che possa capitare: la Vista.
L’odore dell’acqua comincia ad essere percepibile e allora, automaticamente, nel momento in qui occorre essere più cauti e attenti, il loro passo diventa più spedito e diretto.
La nave dorata rispecchia la luce lunare creando uno spettacolo mozzafiato e unico.
Senza mollare l’uno la mano dell’altra i loro piedi si poggiano nelle mattonelle portuali, dove da piccoli giocavano ai pirati, dove mai avrebbero creduto in un destino così crudele.
“guarda, è Jack” sussurra il marito.
La donna sorride, gli stringe la mano, comincia a concedersi di respirare con calma, inizia a credere di essersi sbagliata, di aver interpretato male la visione, comincia a immaginare di veder crescere suo figlio, di vederlo diventare un combattente valoroso e forte, di vederlo ridere e piangere, di stringerlo a se nei momenti belli e difficili.
La figura di Jack è ricoperta quasi interamente dalla nebbia mattutina, nebbia che era stata loro tanto amica nella fuga.
Si avvicinano quasi correndo e nonostante ciò il bambino ancora dorme tra le braccia della madre, come se fossero una morbida culla.
Il fato è crudele, ti lascia pregustare la felicità e poi te la toglie senza neppure guardarti negli occhi.
La figura che aveva concesso loro l’ultima speranza cade a terra in maniera scomposta e dietro di lui ne compare un’altra più massiccia e slanciata.
La sua risata fende la triste aria mattutina e raggela il sangue dei fuggitivi.
“non c’è prova più importante per un peccatore che tentare la fuga” urla senza smettere di ridere.
L’uomo lascia la presa dell’amata, impugna la spada e si lancia all’attacco con tale impeto che lei non può fare nulla per fermarlo.
Un breve scambio di fendenti, una lama contro uno spadone rosso sangue, la piccola spada si spezza, i muscoli del possessore cedono per lo sforzo e l’assassino gli ferisce la spalla, la oltrepassa da parte a parte, senza curarsi che la sua superiorità non è frutto di altro e non che della potenza dell’arma.
L’uomo crolla indietro concedendosi un  grido di dolore e la moglie gli è subito al fianco, lo sorregge, diventando scudo tra i due.
“non te, Elizabeth” urla con rabbia l’aggressore “non è te che voglio e lo sai”.
Elizabeth non si lascia intimorire, sa che, se in quel uomo è rimasta un briciolo di umana compassione, lei è l’unica a riuscire a farla riemergere . Umana, pensa, consapevole che l’umanità ha da tempo immemore abbandonato quelle lande.
“Modred ti supplico, lasciaci andare, è solo un bambino” invoca la sua pietà mantenendo un contegno tale da fare tentennare l’assalitore, da far ricordare anche a lui il tempo in cui giocava in quel porto, il tempo in cui si riprometteva di essere migliore di suo padre, di essere un paladino.
“è maledetto” urla cercando di bloccare la memoria, di impedirle di avere il sopravvento.
“non è vero, lo sai, è stato prescelto per un qualcosa di superiore, noi non possiamo fare nulla se non prepararlo nel migliore dei modi” risponde lei con sicurezza.
Modred la fissa, incrocia il suo sguardo speranzoso, carico della stessa fiducia di quando erano giovani, di quando a lui era ancora concesso sognarla.
“non credere alle menzogne di tuo pad..” non fa in tempo a finire la frase che una luce la scaraventa lontana.
“sapevo che eri troppo debole” dice con disgusto una voce estranea.
Modred si gira irrequieto, nei suoi occhi c’è la paura, paura di chi sa che adesso anche la piccola speranza di salvare colei che un tempo aveva amato si è infranta.
“sei sempre troppo compassionevole, non sarai mai un uomo del consiglio degno di me” il disprezzo è così grande che è possibile respirarlo.
Il figlio si arrende, ormai vive la sua vita cercando di soddisfare quel padre che non vede nulla di buono in lui, non intende opporsi in alcun modo, succeda quel che succeda.
Elizabeth si rialza, vede il pargoletto che fino a poco tempo prima era tra le sue braccia svegliarsi tra le braccia di un estraneo, sente il suo disappunto.
“e così tu sei il figlio di Elizabeth e William” dichiara il vecchio che lo tiene tra le braccia con freddezza e intransigenza.
“mollalo, maledetto” urla William scaraventandosi con foga contro la sua figura.
Lui lo evita senza problemi, senza proferire parola crea una barriera di tuoni che investono il padre del piccolo.
“maledetto?” ride mentre la puzza di carne bruciata riempie l’aria “è così che ti rivolgi a tuo padre dopo tutto quello che ha fatto per te?”.
William tossisce ormai senza forza, due lacrime di rabbia gli attraversano il viso e bruciano la pelle già scottata.
“padre? Che padre sei tu che vuoi uccidere mio figlio?” esclama.
“un padre che ti vuole proteggere da un mostro maledetto” risponde senza enfasi, come se il tutto fosse banale ed evidente.
Il figlio non risponde, guarda il fratello più vecchio, lo implora con lo sguardo, sembra mettere da parte tutto ciò che provava contro di lui, gli affida la sua vita e quella della sua famiglia. Modred sostiene lo sguardo solo per pochi secondi, si vergogna, non sa perché, uno strano calore gli riempie il petto e gli fa desiderare di essere da tutt’altra parte, lontano da quei mesti eventi.
“pensavo che fossi la mia creazione migliore” dice il membro del consiglio “pensavo di aver rimediato con te alla stupidità di tuo fratello” parla come se si riferisse a degli oggetti, a trofei per cui essere lodato.
“effettivamente ti sbagliavi” William riesce a trovare la forza per ridere in faccia al padre.
“colpa delle idee rivoluzionarie di libertà che come un virus ti hanno riempito il cervello” sibila tra i denti “ora ucciderò questo essere maledetto”.
Elizabeth invoca pietà, misericordia e compassione.
“padre quel è la loro colpa?” la voce di Modred è assente, lontana.
“cosa?”
“invoco il consiglio affinché esso possa giudicarli e fargli pagare per ciò che hanno fatto” mentre parla mette mano al ciondolo che gli pesa al collo e recita la sacra formula.
Dal fuoco compaiono tre uomini, dall’acqua altrettante ombre e l’aria porta con se cinque donne. La famiglia è circondata, per loro nessuna via di fuga è possibile.
“questo è il bambino marchiato” sentenzia una donna con voce imparziale, senza nè condanna nè assoluzione.
La discussione è veloce, parlano ancora una volta in quella strana lingua perché l’argomento trattato è troppo grande e potente perché la comune lingua possa affrontarlo.
Uno ad uno i membri del consiglio se ne vanno, rimangono in pochi, i più anziani.
“giudichiamo gli imputati colpevoli di alto tradimento, la pena capitale è la morte, consegnateci il bambino”.
I genitori non sembrano arrendersi, le guardie così intervengono.
Il bambino percepisce la tensione, scoppia in pianto. Una strana luce sembra aleggiare sopra di lui, dal suo pianto una strana energia sembra scaturire e trovare forza. I soldati cadono a terra esanimi.
“è un bambino della morte!”  urlano in molti.
“uccidetelo”.
“NO” risponde con calma l’anziano consigliere e a lui nessuno osa replicare “la legge vuole che sia mandato nell’inphin”.
“che lì paghi per la colpa dei padri e per la sua nascita” dichiara un’anziana donna.
Cori che invocano la sua condanna si levano nel cielo sino a ricoprire gli urli di dolore dei genitori.
Nessuno però ha il coraggio di marchiarlo, troppi temono quel infante.
 “Modred” LO chiama il padre e  lui,come uno zerbino, ricompare, prende il bambino e fa ciò che và fatto. 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo X ***


Il ragazzo si sveglia tremante.
Ancora quel sogno, pensa senza forza.
Ogni volta che chiudeva gli occhi quelle erano le figure che si presentavano alla sua vista. In principio si era trattato solo di ombre indistinte ma più il tempo passava, più le figure assumevano forma e spessore. Ora riusciva a percepire le loro emozioni, le loro paure. Odio e amore si mischiavano nella sua testa con una forza senza tempo. Tutto questo lo spaventava. Era un soldato, addestrato per uno dei principali corpi del pianeta. Soffrire e vincere, indipendentemente dal come, questa era la sua vita. Il non poter controllare quella situazione lo spiazzava. Si trattava solo di sogni, eppure erano così chiari e reali..
“brutto sogno?” una voce sprezzante interruppe i suoi pensieri “piangevi come una femminuccia”.
Il timbro era sicuramente contraffatto da qualche macchina, una maschera probabilmente.
“eggià” rispose in un sussurro.
“parla più forte, non ti sento”
“devo aver sognato la tua brutta faccia” per quanto si sforzi alzare il tono gli risulta estremamente difficile, la gola arde. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che aveva bevuto?
La frustata arriva precisa, il dolore parte dalla schiena e si dilata ad onde in tutto il corpo.
“facciamo meno gli spiritosi” la voce è fredda, eppure si distingue la nota rabbiosa.
“farò il possibile”
Nuova frustata.
“vediamo di fare in fretta, la tua presenza mi irrita”.
C’era qualcosa nella sua voce, qualcosa di famigliare nonostante la contraffazione.
“vedo che hai recepito  il messaggio, bravo ragazzo”.
L’accento era sicuramente del sud, nonostante il controllo che l’aguzzino esercitava nel suo timbro le consonanti doppie erano acutizzate ed enfatizzate.
“ora ti farò delle domande, rispondi in fretta e tutto sarà presto finito?
Tutto? Quasi ci sperava.
“mi hai capito?”
“sbandisc..” provò a rispondere ma l’immagine di quel bambino che veniva lasciato cadere dalla rupe gli proruppe nella mente, lasciandolo senza fiato. Dannazione, doveva riassumere il pieno controllo di sé, doveva essere lucido.
Frustata.
“parla chiaramente”.
“potresti scandire meglio le parole, sembri un ubriacone da osteria”.
Frustata.
“avevo sentito l’odore dell’alcol ma..”
Ancora una frustata, questa volta più veloce e precisa. La forza si era ridotta. Non vogliono che svenga di nuovo, pensò, vogliono informazioni, hanno già perso troppo tempo.
“educazione, ragazzo. Pensavo che a quelli come voi venisse insegnata un po’ di disciplina”.
“.. ma pensavo non fosse professionale presentarsi ubriachi a lavoro, Signore”
Strinse i muscoli aspettando un nuovo colpo. La risata che dilagò per la stanza lo stupì. Sentì i polsi e le caviglie che venivano liberati dalle catene e cadde rovinosamente al suolo, incapace di reggersi.
Mani potenti lo afferrarono e lo legarono a nuove cinghie, stretto al muro.
“sai mi sto stancando di faticare per punire la tua arroganza” la voce sostituì la risata “siamo uomini e dominiamo la tecnologia, ce ne dimentichiamo troppo spesso e sgobbiamo quando potremmo solo ammirare quello che le macchine possono fare per noi”
L’onda arrivo inaspettata e lo lasciò senza fiato. Sentì il suo stesso cuore impazzire e quasi uscirgli dal petto.
Elettricità. Abbastanza debole da non ucciderlo. Abbastanza forte da farlo impazzire.
“forte no?”
Il ragazzo riuscì con difficoltà a distinguere la domanda.
“la trovo un tortura estremamente elettrizzante” continuò ridendo “ ma ora basta perdere tempo, sono convinto che risponderai d’ora innanzi”.
Un piccolo cenno del capo fu l’unica cosa che riuscì al giovane.
“qual’era il vostro piano?”
“io eseguo solo gli ordini”
Scossa.
“non è quello che ti ho chiesto”
“non sono a conoscenza dei piani dei miei superiori”.
Scossa.
“ci prendi per stupidi?” lo sprezzò della voce era difficilmente trattenuto “sappiamo chi siete, cosa siete, come operate. Sappiamo che venite ingaggiati e piccoli gruppi e che siete voi le menti di ogni impresa”
“se veniamo ingaggiati ci basta essere pagati per eseguire gli ordini, come tu hai detto”.
“quale pazzo avrebbe l’ardore di uccidere la Protettrice se non uno di voi?”
“Protettrice?” chiede il giovane “è così che la chiamate ora? Ironico..”
Un’ondata lo investì.
“nuova regola: rispetto” l’uomo ora si era avvicinato, sentiva il calore del suo respiro “se non fosse per lei ora saresti morto”
“che misericordia”
Scossa. Ormai sentiva i muscoli cedere.
“puoi dirlo forte. Io ti avrei decapitato e spellato vivo. Lei però ha intenzione di spremerti per bene”.
La voce gli appariva sempre più distante, l’energia lo stava abbandonando.
“cosa significa Daimon?”
La domanda lo spiazzò. Sapeva che tutte quelle precedenti erano state solo un preambolo. Tutte avevano già una risposta e non servivano ad altro che a valutare il suo grado di collaborazione. Era veramente questo l’obbiettivo? Quello che volevano sapere?
“Rispondi!” rabbia, sempre più acuta.
“esistono veramente?” era una risposta meccanica, che si imparava al primo anno.
Ancora una scossa lo portò a chiedersi quanto sarebbe potuto resistere ancora, l’abisso era alla soglia e lui non sapeva se esserne grato o terrorizzato.
“te l’ho già detto una volta: non siamo stupidi!” disse “non mi piace ripetermi”.
“se già lo sai perché me lo chiedi?”
“le tue armi non sono quelle di un soldato comune, basta prese in giro”.
Tue, non vostre. Si ritrovò a sperare che non si trattasse di un semplice errore.
“siamo un corpo scelto, mercenari, lavoriamo e veniamo pagati”
Scossa.
“so benissimo cosa siete, qual è il vostro scopo? Cosa nasconde questa facciata?”.
Il silenzio successivo non voleva nascondere nulla. Cosa c’era dietro il loro essere? Ci pensò. Nulla, questo erano e questo sarebbero sempre stati.
“rispondi”
“siamo allenati ed addestrati per combattere..”
“aumentate il voltaggio!”
Questa volta urlò di dolore, abbandonando la testa penzolante. Un liquido caldo gli scese lungo il collo. I timpani dovevano essersi perforati.
Il panico lo prese. Cos’erano? Mercenari. Senza una frontiera precisa. Lavoravano per chi li pagava. Senza distinguere giusto o sbagliato. Questo almeno fino alla loro ultima missione..
“il vostro obbiettivo”
“te l’ho..”
L’ultima scossa la senti appena. Distinse solo poche parole prima di scivolare in un sonno senza sogni.
“Dannazione hai aumentato troppo” sentì dire “la prossima volta vedi di regolarti o gli farai  compagnia, dobbiamo ancora scoprire che fine ha fatto la sua squadra”.
Si concesse un sorriso, almeno loro erano vivi, lei era viva.. la missione era fallita solo in parte.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo XI ***


"Oggi come stai?" 
"Forse se mi lasciaste uscire mi riprenderei prima" rispose Ginevra con acidità.
"Lo facciamo per il tuo bene" Isabelle rispose paziente.
"Per quanto mi sforzi, non capisco perché abbiate sprangato le finestre" e neppure come abbiate fatto senza che lei se ne accorgesse, si tenne per sè. 
Probabilmente doveva essere successo una delle ultime notti, durante le quali erano stati obbligati a sedarla per permetterle di dormire almeno alcune ore. 
La ragazza vedeva il suo corpo riprendersi in fretta. Si sentiva, però, soffocare. Le giornate chiuse in quella stanza angusta la estenuavano. Aria, il sole che accarezza la pelle, le stelle, ecco ciò di cui aveva bisogno.
"Il mondo come lo conoscevi è finito" rispose l'infermiera "non è più sicuro uscire da soli. Veramente non è più sicuro uscire e basta, lo sai anche tu, l'hai visto".
"Sono stata al fronte" le ricordò "penso di riuscire a sopportare certe situazioni".
"Hai detto bene.. Pensi" un sorriso le affiorò sulle labbra. 
"A volte penso che stiate cominciando a considerarmi una matta" sospirò la giovane.
L'altra scrollò le spalle "Una persona della tua età che si sveglia urlando, che dorme tre ore a notte, parlando o piangendo, che ha attacchi di panico, che passa ore guardando il vuoto.. Tutto normale, no?".
"Perfettamente normale, siamo una generazione bruciata dopotutto, o no?" Si lasciò scappare un rosolio senza entusiasmo "rispetto solo questa etichetta".
"Forse la colpa non è del tutto vostra" 
"Forse?"
"Bè.. Diciamo che è facile incolpare la foglia per avere qualche macchia ci si dimentica spesso dei rami"
La Giovane la guardò interrogativa "le tue massime fanno un po' schifo, senza offesa".
"Dico solo che voi avete i fari puntati addosso, giovani di non ancora vent'anni che devono cambiare il mondo.." Prese fiato, guardandola negli occhi con tristezza "..ma i trentenni? Sono.. Siamo.. Cresciuti coccolati, abbituati ad avere tutto, in un periodo di ricchezza.. Ma ora.. Ho paura a crescere un figlio in questo mondo.."
"Aspetta hai un figlio?" 
"No!" L'urlo fece sobbalzare Ginevra. Rabbia? Paura? Cos'era il sentimento che si celava nel profondo di quella reazione? 
"Scusa" continuò "non volevo reagire così. È solo che non è un buon momento.." 
"È così grave la situazione? Così grave che non posso vederla?"
Il sorriso sulle labbra di Isabelle era privo di qualsiasi sentimento "ricordi quei giorni in cui guardavamo con sprezzo il Sud e lo incolpavamo di ogni male? Pensavo che fosse il cancro della nostra società, che fosse un virus letale che lentamente ci stava corrodendo, infettando. Ingiustizia, corruzione, pensavo che quella fosse la culla di tutti i Mali e che noi ne fossimo superiori. Pensavo che nella divisione avremmo trovato la libertà, la ricchezza e la pace.. Ricordi?" 
Lo ricordava? Ginevra ricordava perfettamente i discorsi che, di soppiatto, ascoltava quando suo padre si riuniva con i Generali. Ricordava le locandine di qualche gruppo politico che faceva della propaganda "della divisione" la sua forza. Ricordava come i giovani aristocratici si appoggiassero a questo ideale. Ricordava le risse ai bar. Sempre cinque contro uno, per -purificarsi dal male-.
"Si" sospirò "ricordo"
"Bene.." Continuò "..ora noi siamo il Sud".
"Non capisco cosa tu intenda dire" la osservò Ginevra.
"Fame, rabbia, dolore, angoscia! Ecco chi domina il mondo ora.. E intanto bambini muoiono di fame, mentre alle loro spalle questa stupida classe politica continua a litigare per chi si è portato a casa la puttana di chi" le parole dell'infermiera riprendevano alla perfezione l'umore del popolo, poi continuò "come se contassero ancora..".
"I politici, intendi?" Allora anche lei sapeva.
"Già.. Ormai altre forze sono in ballo, più oscure.. Protettrice si fa chiamare, li lascia sfogare, fa loro credere di poter ancora giocare con le nostre vite.. Invece è lei che tira le funi di noi, miseri burattini".
C'erano troppe informazioni sulle quali riflettere, troppe notizie di cui aveva avuto certezza da queste poche parole. La missione era fallita, lei aveva vinto.. Questo era certo ma poi? 
"Tutto bene?" Chiese Isabelle, vivamente preoccupata "ho parlato troppo forse.."
"Una mia compagna era del Sud.." La interruppe Ginevra, doveva dire qualcosa, non poteva permettere che anche quest'ultima fonte di informazioni che le rimaneva si spegnesse. 
"Cosa?"
"Una mia compagna di missione era del sud" ripeté "dovresti averla conosciuta, era fantastica, piena di vita, di entusiasmo, vedeva del buono in tutti..".
"Era?" Chiese "lei è..?"
"No!" Scattò lo giovane "cioè, io non lo so.."
"Cos'è successo quel giorno?" La domanda era così diretta che si sorprese.
"È una storia lunga.."
"Il mondo sta cadendo a pezzi" sorrise Isabelle "ma prima di spezzarsi del tutto abbiamo ancora il tempo per un racconto".
"Un racconto?" Ricambiò il sorriso "si potrebbe scriverci un libro"
"Magari un giorno qualcuno lo farà" sentenziò.
"Insomma non ho scelta.."
"No" 
Così cominciò a raccontare, sperando di trovare una risposta a tutte le domande che le affollavano la mente, sperando di ritrovare quella speranza in cui tanto credeva e di cui tanto aveva bisogno.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo XII ***


Nonostante la lontananza, il suono degli archi dell'orchestra riempiva il corAle d'ingresso. Ammaliata, contemplavo gli alberi che fiancheggiavano l'ampio corridoio all'aperto. Tu?o era ordinato punAgliosamente, tu?o era perfe?o. Ogni cosa, dal marmo al prato dava l'idea dell'ordine e di quanto questo fosse perseguito intransigentemente.

Sorrisi, pensando che ce l'avevo fa?a. Ero riuscita a trovarli ed ero stata invitata alla cerimonia per parlare con il dire?ore in persona. Un ballo.. Il pensiero mi diverAva. Loro, così ligi, così letali, che si concedevano di dilet- tarsi in quesA passatempi da.. Bè.. da umani. Certo, si tra?ava di uomini dopotu?o. Di uomini, però, educaA fin dall'infanzia, alla guerra, ad esegui- re gli ordini, ad uccidere. Per anni aveva pensato che fossero solo leggen- de, che quest'Accademia non fosse altro che il deterrente per impedire al- l'esercito di senArsi padrone del mondo. Invece il corpo Daimon esisteva, riconoscendo leggi diverse da quelle conosciute da tu:.

"Ehi" una ragazza interruppe i suoi pensieri. La osservai, indossava un completo elegante, curato. Nella giacca risaltavano disAnAvi d'argento ed oro. La gonna si fermava sopra le ginocchia. Era un'eleganza che, allo stes- so tempo, incuteva rispe?o, lontana dalla monotonia dei vesAA militari. Questo era disegnato su misura, pensato per la persona che avrebbe do- vuto indossarlo.

78

"Ehi" ripeté "tu?o bene?" L'austerità del complesso creava un contrasto affascinante con l'allegria che emanava il suo viso.
Le sorrisi, riprendendomi "io.. Si, tu?o bene" cercai di scandire le parole in modo da dimostrare una calma che non avevo "sto solo cercando il Di- re?ore".

"Per lui dovrai aspe?are, è sempre l'ulAmo ad arrivare e c'è sempre la co- da di persone che vogliono parlare con lui" disse, conAnuando a sorridere.
"Sarà il fascino dell'uomo maturo" provai a scherzare.

Lei scoppiò a ridere e, al mio sguardo interrogaAvo, sentenziò "tu non de- vi averlo mai visto, vero?".
"Qualche foto di quando era più giovane, era un primo ufficiale molto pro- me?ente" o almeno così mi ha sempre de?o mio padre, aggiunse nella sua testa.

"Eh.. Si parla di quindici anni fa, quindici anni di tanto esercizio mentale ma nulla di fisico" la scioltezza con la quale quella ragazza parlava, guar- dandola sempre negli occhi, la sorprese.
Al mio silenziò, lei conAnuò "è la prima volta che vieni qui?".

"Si" sorrisi "non è facile trovarvi".
"No, decisamente no. Sei stata fortunata però, il Dire?ore non concede a tu: di partecipare a questo evento" sentenziò.
Un lieve rossore mi invase le gote, non avevo idea di cosa si tra?asse e so- lo il pensiero di chiederlo mi me?eva in imbarazzo.
"Cioè.. È l'evento dell'anno per noi, la cerimonia di nomina dei nuovi membri del corpo vede presenA le persone di massimo riguardo del mon- do.. O almeno quelle che il Dire?ore riAene necessario invitare".
“sembri molto entusiasta” dissi, non trovando alcun altro argomento d’af- frontare senza evidenziare il mio imbarazzo.

79

“lo sono” affermò “vedi tu?o questo?” chiedendolo roteò su se stessa in modo tanto aggraziato quanto buffo “tu?o questo è una doppia festa per me. Da un lato è la mia festa perché ho pensato a tu?o io, organizzazio- ne, bar, orchestra.. tu?o!.. dall’altro perché sono ufficialmente una di lo- ro”.

Non trovai parole per replicare. Lei? Una di loro? Doveva avere la mia età. Avevo notato la divisa ma pensavo fosse solo una cade?a.
“fate tu: la stessa faccia quando lo dico” sbuffò affli?a.
“io..bè.. no.. cioè..” trassi un profondo respiro per riprendere un po’ di contegno, senAvo le orecchie bollire “complimenA” dissi infine schiaren- domi la gola.

Lei rise nuovamente, una risata così genuina trovai ancora più difficile cre- dere alle sue precedenA parole.
“vieni, A accompagno” Non feci neppure in tempo a replicare che già mi aveva presa so?obraccio e mi stava trascinando verso l’entrata.

“è con me” affermò con autorevolezza alle guardie all’entrata.
Mi invitò a togliermi il cappo?o e lasciarlo al guardaroba. Feci per farlo, ma subito due ragazzi in completo rosso fiammeggiante furono al mio fianco, presero il soprabito e lo lasciarono nella stanza assegnata.
“come vedi, tu?o è perfe?o” disse la ragazza compiendo un gesto teatra- le.
“già” formulai in un sussurro.
Lei si guardò a?orno con fare circospe?o, qualcosa aveva a:rato il suo sguardo in lontananza, ma per quanto mi sforzassi non riuscii ad idenAfica- re di cosa si tra?asse.
“troppi bicchieri vuoA” squi:i scocciata “appena lascio un po’ il guinza- glio questa gentaglia fa quello che vuole”.
Mi guardai a?orno, bicchieri vuoA? A me proprio non sembrava.

80

“devo andare” sca?ò.
Aveva già fa?o diversi passi quando si girò “comunque io sono Alyssa, pia- cere di conoscerA”.
“io sono Gin..” inuAle conAnuare, ormai Alyssa era una venAna di metri più avanA, intenta a sgridare un cameriere e, contemporaneamente, scherzare con un altro giovane in divisa.

Non era male, non era affa?o male.
La musica, il vino, l’atmosfera.. tu?o era elegante e raffinato. Gli invitaA ballavano nell’ampio salone, divenendo un tu?’uno con la musica. Volteg- giavano, i loro movimenA erano così spontanei che sembrava stessero camminando. Nessuno era fuori tempo, nessuno sbagliava un passo. Gli uomini, pressoché tu: in alta uniforme, tenevano stre?e a sé le compa- gne, avvolte in magnifici abiA da sera, di sete preziose e finemente riela- borate.
“nonostante siano anni che li osservo, non riesco mai a saziarmi di uno spe?acolo come questo” interruppe i suoi pensieri una voce profonda, al- le sue spalle “è adesso che vorrei che il tempo si fermasse”.
Mi voltai, ma non ebbi il tempo di dire nulla perché lui afferrò una delle mie mani e se la portò sulle labbra, compiendo un leggero inchino.
“A starei chiedendo chi è questo vecchio pazzo con quesA modi alquanto anAquaA” sorrise “eppure io so chi sei, Ginevra Reveur, e posso anche dir- le, signorina, che avete trovato chi stavate cercando”.
Calma, senAi una voce riempirmi la mente, dovevo stare calma. Anni di eAche?a che la mia educazione mi aveva imposto non potevano andare sprecaA così velocemente.
“signore” dissi “è un piacere conoscerla” e mi lasciai andare al sorriso più

81

spontaneo che mi fosse permesso.
“piacere mio” disse lui, spostando lo sguardo dai miei occhi ai ballerini “guardali, perfe: in ogni loro movimento, a loro agio in ogni situazione, è questo che li disAngue da scia: soldaA e li avvicina a dei della no?e, mici- diali in maniera così amabile da rendere felici chi riceve l’ulAma sentenza per mano loro”.
Un brivido mi percorse la schiena. Le voci, le leggende, nel corso degli an- ni, diffuse tra i sussurri di persone che avevano troppa paura per invocarli ad alta voce, mi avevano dato proprio quella immagine di loro: dei.. ma ora vederli così, in carne ed ossa, mentre si diverAvano in vicende così mortali, simili a noi, me li faceva temere ancora di più-
“li educhiamo a tu?o” conAnuò “strategia, comba:mento corpo a corpo, galateo.. non vorrei apparirle monotono ma quello che cerchiamo di ri- creare è..”
“..la perfezione” conclusi per lui.
“è una ragazzina sveglia, l’ho osservata e non solo in quesA pochi minuA ma da quando ho ricevuto la sua richiesta, ha talento, il suo sguardo inda- ga oltre le apparenze, ha le cara?erisAche che si richiedono ad una dei no- stri” un nuovo brivido, che a stento riuscii a tra?enere, mi percorse la spi- na dorsale “ed è per questo che l’ho acce?ata, nonostante la cifra irriso- ria da lei e dal suo gruppo..”
Si sen[ ancor più a disagio ma cercò di nasconderlo con la graAtudine “si- gnore io gliene sono infinitamente grata e, se lo desidera, possiamo di- scut..”
“no” il sorriso non abbandonò per un secondo le sue labbra “è una festa, se la goda, ci senAremo più tardi”
“ma..”
“si diverta” ripeté “questo, dopotu?o, è il suo ambiente”.

82

Lo osservai stupita. Era impossibile che sapesse chi fossi, avevo nascosto ogni traccia, mantenendo solo il nome, un nome comune. Eppure sembra- va così sicuro di sè.
“troverà diverse sue vecchie conoscenze” sentenziò, allontanandosi e salu- tandomi con un gesto elegante della mano.

Osservai la sua figura immergersi nella folla, camminando con grazie, salu- tando con cenni del capo le persone che gli si avvicinavano.
Aveva ragione, era una festa e, perciò, promisi a me stessa che mi sarei di- verAta.

Quello splendore che tanto il Dire?ore aveva esaltato apparì, ben pre- sto, a mie occhi, come una monotonia velata da rifiniture dorate. Tu?o si ripeteva ugualmente. Uomini in divisa si avvicinavano, chiacchieravano educatamente, poi A porgevano il braccio, invitandoA a danzare con loro. Perfe: ballerini, A guidavano con scioltezza e naturalezza, eleganA ed or- gogliosi nello loro divise blu no?e, argento e rosso rubino.
Robot, conAnuava a ripetere una voce nella mia testa. Macchine senza un’anima, create con il solo scopo di uccidere. Il tu?o per soldi. Più ci pen- savo più il disgusto prendeva il dominio di me.
Fui sorpresa di trovare, tra gli invitaA, alcuni importanA imprenditori che frequentavano i salo: aristocraAci della Capitale. Riuscii a rintracciare an- che alcuni diplomaAci di diverse ambasciate. Freninthur, Ismirn, Venen- ce.. non importava lo stato di provenienza, in quel posto tu: si stringeva- no le mani, sorridevano tra loro, studiando con cura la prossima mossa della scacchiera una volta che quella pausa fosse finita.
Fu in quella monotona perfezione che vidi qualcosa che a?rasse la mia at- tenzione, la rosa blu, che emerge nel mazzo di candide rose bianche, im-

83

puroa innaturale. Così diverso, così unico.
Appoggiato alla parete, non sforzandosi di nascondere la noia, stava un ra- gazzo che doveva avere pressoché la mia età. L’uniforme, come per i com- pagni, gli calzava alla perfezione, facendo risaltare le spalle larghe ed i mu- scoli, l’imponenza di un fisico, comunque, non ancora pienamente matu- rato. Ciononostante, c’era qualcosa, piccoli de?agli che mi impedivano di distogliere lo sguardo. La postura, rilassata, mentre si abbandonava alla parete. I capelli ribelli, di un nero assoluto, che gli ricadevano sul viso,
non congelaA da alcuna pe:natura rigida e composta come quella degli altri uomini. Gli occhi, un oceano grigio, nel quale, nonostante la lontanan- za, era possibile disAnguere infinite sfumature. Mi stava fissando, studian- domi con la stessa intensità con la quale lo stavo facendo io. Lo vidi disto- gliere lo sguardo non appena i nostri occhi si incrociarono. Ritornò a rigi- rarsi il bicchiere semi pieno tra le mani, fissandolo come se fosse l’ogge?o più interessante che avesse mai visto.

Mi avvicinai, qualcosa mi impediva di fare altrimenA, di girarmi ed andar- mene, di ballare, di bere.
Bere.. pensai, forse quello aiuterebbe.
Lo vidi allontanare rudemente un ragazzo che gli si era avvicinato e, con più genAlezza, la ragazza che mi aveva accompagnata all’entrate. Alyssa.. riportai alla mente il suo nome. Quando la vidi a sua volta allontanarsi SenAi uno strano calore riempirmi il ventre, cos’era? Sollievo? No, quella ragazza era in gamba, simpaAca, solare, anche lei, a suo modo, diversa. Ma allora di cosa si era tra?ato? Non avevo più tempo per rifle?erci, ormai ero lì, a pochi passi.
“non sei di molta compagnia, mi sbaglio?” gli sorrise.
Lui alzò lo sguardo, mi guardò a fondo poi lo distolse e tornò a concentrar- si sul bicchiere.

84

Se sperava di irritarmi, aveva fa?o centro.
“e neppure di molte parole” conAnuai.
“scusa?” chiese gelido tornando a guardarmi.
“eppure saresA un ragazzo molto carino, sai?”.
Risposi al suo sguardo interrogaAvo roteando un dito nella sua direzione.“penso che il tuo punto forte siano gli occhi” sussurrai avvicinandomi, con un coraggio ed una sfrontatezza non miei, in modo che solo lui potesse senArmi “comunque anche il resto non è male”.

Si irrigidì, abbandonando parzialmente la posa rilassata che aveva mante- nuto in precedenza.
“no A prego, non diventare come tu?e quesA manichini da esibizione qui intorno” lo pregai.

Lui non rispose, conAnuando a fissarmi con un misto di irritazione e noia. “ma non sorridi mai tu?” sbuffai.
“tu saresA?” chiese, la voce profonda e rilassata.
“allora sai parlare” esclamai soddisfa?a.

Fece per allontanarsi ma io lo boccai “sono qualcuno con una gran voglia di ballare”.
“io non ballo” disse, tornando a concentrarsi sul calice.
“non te l’ho chiesto” sbuffai e, non appena lo vidi tornare a concentrarsi sul calice, gli presi il polso “ma è una festa e non riesco a diverArmi veden- do il tuo muso triste, quindi”.

Lo trascinai verso la pista. Avendolo preso di sorpresa ebbe appena il tem- po di lasciare il bicchiere sul tavolo.
“io non so ballare” bofonchiò con sAzza.
Lo zi:i, presi una sua mano e me la lasciai scivolare sul fianco, strinsi l’al- tra alla mia e cominciai a muovere i primi passi.

Al principio fu un disastro. Finse di non senAre il ritmo degli archi, mi pe-

85

stò i piedi diverse volte.
Sapevo che fingeva, faceva parte della sua educazione come della mia sa- persi ada?are in situazioni come questa. Strinsi i denA e Arai fuori tu?a la tenacia che avevo.
Sembrò lentamente rilassarsi ma il suo sguardo restava distante, fissato in un punto lontano, assorto nei suoi pensieri. Finii per deconcentrarmi a mia volta e persi l’equilibrio. Sarei sicuramente caduta se lui non fosse sta- to agile ad afferrarmi e, facendo forza sulle braccia, fingere che si fosse tra?ata di una semplice piroe?a. I nostri sguardi si incrociarono. Rima- nemmo così per qualche istante, studiandoci. Le mani salde di lui stre?e alla mia vita. L’uomo di Un'altra coppia, che, differentemente da noi, dan- zava, si scontrò contro la sua schiena. La magia che, in precedenza, era riu- scita a fermare lo scorrere del tempo, si ruppe. Con uno sguardo furente bloccai qualsiasi protesta dell’individuo dall’altra coppia e tornai al mio compagno. Riuscii a fermarlo, mentre già si stava allontanando. Gli sorrisi. Lui mi studiò ancora, senAvo il cuore ba?ere sempre più forte. Stavo respi- rando? Non ne ero certa. Lo vidi scuotere appena il viso. Fece un leggero inchino e mi prese la mano. Strinse il mio fianco con quella presenza che fino a quel momento era mancato, in quel punto senAi la pelle bruciare. Controllo, ripetei a me stessa. Qualsiasi presupposto si spense non appe- na i miei occhi incrociarono i suoi, finalmente presenA, vivi. Fu la musica a guidarci, o forse noi diventammo un tu?’uno con essa. Lasciai che il mio corpo seguisse l’isAnto, affidandosi completamente a lui, un ballerino im- peccabile, superbo.
La musica si interruppe, lasciando a pochi millimetri l’uno dall’altra. SenA- vo il suo fiato caldo accarezzarmi il volto, eppure non mi bastava, volevo
di più. Lui non sme?eva di guardarmi, ca?urandomi nella rete dell’ocea- no grigio delle sue iridi.

86

Un movimento in lontananza distolse la mia a?enzione, una sagoma indi- sAnguibile, nonostante il tempo passato dall’ulAma volta che l’avevo vi- sta.
Mi staccai con delicatezza dalla sua presa, maledicendo me stessa e, con- temporaneamente, convincendomi di non poter fare altrimenA, dovevo parlare con quella persona, era come se, vedendola, una parte di me fos- se guarita.

“aspe?ami” sussurrai “torno subito”.
Mi allontanai, assaporando, senza saperne bene il moAvo, lo sguardo de- luso che si lascò sfuggire, mentre il fianco che la sua mano aveva accarez- zato ancora ardeva.

“sei stata decisamente ardita” rise Isabelle.
Ancora immersa nel calore di quel ricordo Ginevra si limitò a commenta- re “sapevo che sarebbe stata la prima e unica volta che l’avrei visto”.
Lei esaminò la sua espressione.
“riuscisti a parlare con il Direttore in seguito?” chiese.
“non sarei qui se così non fosse”
“era lui la persona che notasti?”
“no”
“mi dirai di chi si tratta?”
“forse, in futuro”. 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** capitoo XIII ***


“come si diventa come voi?” 

Ben presto il ragazzo aveva imparato che non esistevano risposte giuste, tutte erano sbagliate, tutte erano nuovo dolore. Ecco perché non fu sorpreso della scossa che lo attraversò completamente, lasciandolo per un secondo senza Fiato.

“qual è il momento che vi rende tali?”

Al suo silenzio seguì una scossa più forte della precedente, sentii i muscoli cedere sotto il peso del suo corpo. 

“ci sarà un evento che vi incorona come tali”

Sentii appena l’ondata elettrica percorrergli le membra, mentre la mente si lasciava andare al ricordo legato a quell’ultima domanda.

Un evento che ci incorona come tali...
I miei piedi si erano mossi automaticamente, come un corpo separato da me. Io non ero riuscito a fare altro se non guardarla, immergermi in quelle profonde iridi marroni. L’avevo sentita affidarsi completamente a me, lasciarsi trasportare, sorreggere, sostenere. Per quei pochi istanti un calore estraneo mi aveva invaso, alieno da qualsiasi altra cosa avessi mai provato in precedenza. 

Ora la vedevo allontanarsi, soffocando a stento un ruggito che, nel petto, mi spingeva a fermarla. 

Quando si girò sapevo cosa mi avrebbe aspettato, il suo sorriso. Quell’espressione così genuina da riuscire a sorprendersi, a smuovere qualcosa al mio interno. 

Eppure non fu così, il suo volto era senza espressione, opaco, come ricoperto da una nebbia. Avrei voluto raggiungerla ma non riuscii a muovermi. Mi sentii soffocare. Tentai di urlare ma tutto era inutile, il mio corpo non mi apparteneva più. Vidi me stesso estrarre la lunga spada color rosso sangue che avevo imparato a considerare come mio stesso prolungamento. Sentii la sede di sangue che mi assaliva ad ogni combattimento. Cercai di reprimerla, di controllarla, ma era inutile. Vidi il mio corpo trafiggerla come se fosse un semplice ramo d’ulivo, la vidi piegarsi su se stessa. Quindi, il sapore di sangue invase la mia gola. Il suo sangue, suggerì una voce nella mia mente. Fui disgustato dalla sensazione di sazietà che mi invase. Ancora una volta tentai di urlare, ma ciò che ottenni fu di rendere ancora più inequivocabile il gusto metallico che mi invadeva il palato.
“così non va” urlò quella voce contraffatta riportandolo alla realtà “se cerchi di ucciderti soffocandoti nel sonno ci togli tutto il piacere”.
 Qualcuno gli stava facendo ingoiare un liquido denso. Cortisone, indicò la parte razione del suo cervello. 

Continuò a ripetersi che si fosse trattato di un semplice sogno, eppure era tutto così reale. Ora neppure il sonno era diventato un rifugio sicuro. L’ansia lo invase. Cominciò a tossire senza controllo, sputando sangue, ma non preoccupandosene, questa volta aveva la certezza che si trattasse del suo

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** capitoo XIV ***


Avevo già compiuto azioni di ribellione con il mio gruppo. Ciononostante si era spesso trattato di casi isolati, veloci toccate e fughe. Questa volta sarebbe stato diverso. Ci sarebbe stata una strategia precisa e uomini addestrati in grado di portarla a termine.
Non uomini, mi ripetei, qualcosa di più che semplici soldati.
Sarebbe andato tutto alla perfezione, poco importava che l’obbiettivo non fosse, come in precedenza, un semplice camion di approvvigionamenti ma il Dictator in persona. Ci sarebbero riusciti.
Corsi al rubinetto non appena sentii l’angoscia avere i dominio di me. Lascia scorrere l’acqua tanto fredda da bruciarmi i pulsi ed il viso, facendomi riottenere il controllo della situazione.
Qualcuno bussò alla porta. Lo ignorai, sapevano che non sarei voluta essere disturbata, li avevo avvisati.
Studiai la mia immagine allo specchio, due leggere occhiaie creavano un contrasto con la carnagione troppo chiara. L’espressione tesa lasciava trapelare due rughe fuori luogo in un viso tanto giovane.
Chi sei? Chiesi a me stessa. Ignorando che da tempo inseguivo questa risposta senza averne mai certezza.
“vattene” urlai riudendo il bussare.
Mi distesi sul letto, sperando di ottenere un po’ di conforto dalla morbidezza del materasso, dal calore delle coperte.
Ero immersa nei miei pensieri quando udii la serratura scattare. Senza riflettere agguantai la rivista che avevo lasciato sul giaciglio la notte precedente e la lanciai contro l’intruso.
“ti avevo detto di andartene” sibilai.
Lui interruppe il silenzio che si stava instaurando “siete stati voi a chiamarci”.
Mi alzai di scatto.
Sono arrivati, sono qui, pensai, e, con il cuore in gola, io conosco questa voce.
“sei tu” dissi alzandomi, senza il bisogno di averne prima conferma.
Lui non rispose, mi guardò infastidito e annoiato, ciononostante non mi sfuggi l’ombra di sorpresa che aveva attraversato i suoi occhi. Non riuscì a fare a meno di perdermi osservandoli.
Concentrati, mi rimproverai, è stata solo una serata di divertimento, volevi svagarti, avevi bevuto.
“siete arrivati” scattai con nonchalance, non riuscendo a trattenere un risolino che dovette apparirgli ridicolo.
“così sembra” sospirò, voltandosi, un lieve rossore gli colorò le guance.
“potresti..?” chiese, schiarendosi la gola, puntando il dito verso di me e poi incrociando le braccia al petto.
Solo in quel momento mi resi conto di indossare unicamente una lunga felpa logora che lasciava scoperta gran parte delle gambe, fatta eccezione per i piedi, coperti da ridicoli calzini arcobaleno.
Cominciamo bene, mi rimproverai.
 
Il primo istinto fu quello di saltare sul letto e coprirmi con le coperte. Il secondo di ucciderlo. Riuscii, però, a soffocarli entrambi.
"Ti metto in imbarazzo?" Dissi invece facendo altri due passi verso di lui. L'unica cosa imbarazzante sono i miei calzini, aggiunsi mentalmente.
Un lieve rossore gli attraversò le gote, mentre continuava ostinatamente a fissare un punto lontano.
"Sembravi più sciolto l'altra sera"continuai.
Questa frase lo fece scattare, lessi nei suoi occhi la rabbia e dovetti stringere i denti per mantenere la mia naturalezza.
"E io pensavo si trattasse di una missione" sentenziò lui, ritornando a fissarmi senza alcuna apparente partecipazione emotiva.
"E così è" confermai "sono contenta che siate venuti".
"Il Direttore non vi aveva avvisati del nostro arrivo?" chiese.
"Si ma.."
".. Allora non vedo il problema"
"Non ho detto ci sia un problema" stava cominciando ad infastidirmi, non ero stata io a scegliere lui, sembrava ce l'avesse col mondo.
"Bene" tagliò corto lui.
"Bene" confermai.
"Daimon Azrael al tuo servizio" si presentò "con me ci sono altri due compagni, ci aspettano nel salone".
"Due?" Mi sorpresi "pensavo foste di più"
"È stato concordato che, in caso di necessità, si possa chiamare un altro Daimon più.. Maturo" mi spiegò. Qualcosa nel tono della sua voce mi fece capire che avrebbe preferito tagliarsi il collo piuttosto che farlo.
"Ah" sospirai, cercando di nascondere il rammarico.
"Io sono Ginevra" mi presentai, muovendo un altro passo verso di lui. Istintivamente si ritrasse ed io sfruttai il suo attimo di distrazione per stringergli la mano.
"Penso ci stiano aspettando" suggerì.
Annuii impercettibilmente, mi stava ancora stringendo la mano, avevo appena sentito la sua voce, tanto ero concentrata nel calore che veniva irradiato da quel punto.
Ci misi solo pochi minuti a vestirmi, pantaloni stretti neri, stivali, canotta bianca e giubbetto in pelle. Lanciai un'occhiata al punto in cui tenevo nascoste le armi ma mi convinsi a lasciarle al loro posto. Non volevo che nessuno sapesse dove le tenevo. Sembrava assurdo ma erano il bene più prezioso che mi rimaneva.
"Allora?" Chiesi gioviale "andiamo?" Gli battei una mano sulle spalle, lasciandolo lì sul posto e incamminandomi nel lungo corridoio.
Sentii che mi stava osservando ma non ci feci caso, poi udii i suoi passi felpati e subito mi fu al fianco.
"Lui è Gabriel" disse indicando un giovane con i capelli rossi "e lei é.."
"Alyssa" finii la frase per lui. Nonostante indossasse abiti informali, ed il trucco fosse appena accennato, la sua sagoma era indistinguibile, i capelli biondo ramato legati in lunga treccia.
"Ehi" mi salutò, venendomi in contro e prendendomi le mani "che casualità, una fortuna incredibile" rise.
"Hai visto, Gin?" Un uomo seduto alla scrivania alzò la testa dal computer "ci hanno mandato dei poppanti".
"Ehi" urlò Gabriel per protesta.
"Mattew, stai calmo" lo bloccai "non voglio che per dimostrarti il contrario siano obbligati a stenderti. Mi servi sveglio"
"Che ci provino" scattò battendo i pugni sulla scrivania.
Vidi Azrael portarsi una mano sulla fronte, sconcertato.
"Stai buono" lo stuzzicò Gabriel "la tua amica ha ragione, meglio che tu non finisca a gambe all'aria.. A quanto pare ci servi".
La situazione perse ogni controllo. Mettew scattò ancora, assaltando i Daimon frontalmente. Gabriel emise un ghigno soddisfatto, evitò il suo assalto e lo bloccò senza difficoltà. Un altra figura gli comparve alle spalle, bastonandolo dritto sulla schiena ed obbligandolo a porsi sulle ginocchia per mantenere l'equilibrio.
"Luke, non cominciare anche tu" gli ordinai.
Vidi la furia riempire lo sguardo di Gabriel, senza difficoltà stese Mattew e si ritrovò a fronteggiare due altri individui che erano intervenuti. Il numero non aveva importanza, avevo studiato i movimenti del soldato, ero convinta che neppure si stesse impegnando.
Sembrava che per lui fosse solo un gioco, deviava, scartava e colpiva con una rapidità fulminea.
Mi decisi ad intervenire e scattai a mia volta, lasciando che fosse l'istinto ad avere la meglio.
Sentì Azrael superarmi e non ebbi il tempo di fare alcunché. Non si interessò minimamente dei miei assistenti, puntò direttamente il suo commilitone. Senza alcuno sforzo apparente lo alzò da terra tenendolo per la gola.
"Siamo qui per eseguire gli ordini" sibilò "e quando io ti ordino di stare calmo tu stai calmo, chiaro?"
L'altro mugugnò qualcosa.
"Chiaro?" Chiese nuovamente. Il gelo della sua voce mi fece rabbrividire. Lo vidi stringere ulteriormente la presa sul collo.
"Chiaro" confermò.
Ero ancora stupefatta dalla velocità con cui si era mosso, così non mi accorsi di Luke che tornava all'attacco. Notai invece Alyssa che, tranquillamente, senza sforzo, allungò la gamba e lo vece cadere.
"Scusa" squittì "Gin, mi dai una mano per aiutarlo ad alzarsi?" Il sorriso non aveva abbandonato un attimo il suo viso. Annuii e lo sollevai "adesso piantatela, questo è un ordine!" gli sussurrai all'orecchio.
La tensione fendeva l'aria. "Uomini" scosse la testa Alyssa, riuscendomi a farmi rilassare almeno in parte.
Un applauso ruppe l'aria, leggero e ritmato.
"Prova superata" sentenziò una voce nel buio.
Vidi i muscoli di Azrael rilassarsi, allontanarsi con passo felpato. Con grazia si appoggiò alla parete, in attesa.
"Che sta succedendo?" Chiese invece Gabriel, rigido, al centro della sala.
"Quando Rafael ha risposto al nostro messaggio sono stato molto sorpreso, le tre richieste precedenti erano state rigettate al mittente.. Così volevo valutare personalmente il vostro valore, sono contento.. cadetti, ma cadetti ben addestrati" rise, allontanandosi dall'ombra.
"Pensa sia un gioco?" Ringhiò Gabriel "si sta prendendo gioco di noi?".
"Assolutamente no"
"Di che stai parlando, Frederich?" Chiesi irritata "perché non ne sapevo nulla?".
Lui mi guardò, agitò la mano con un movimento di stizza "ora non ha importanza".
"Il piano?" Chiese Alyssa, Appariva perfettamente a suo agio, rilassata e si comportava con naturalezza.
"Venite alla scrivania" ci invitò "Luke vi illustrerà tutto, sempre che si decida ad alzarsi dal suolo".
Li osservai mentre ascoltavano il piano. Studia con cura le loro espressioni. Erano assorti, ma non fui in grado di capire se fossero colpiti dalla strategia o ne stessero studiando di nuove. Annuivano in silenzio, composti e puntuali, senza esitazione. Studiando le loro espressioni non potei che ritrovarmi a pensare a quanto giovani fossero. Dei ragazzi, ragazzi come me. Nulla faceva pensare il contrario. Ben presto passai dai volti all'abbigliamento. La ragazza indossava pantaloni stretti e neri. Un corpetto, le stringeva il ventre a tal punto che mi chiesi come riuscisse a respirare, sotto una camicia bianca che le ricopriva, almeno un parte, il petto. Il ragazzo con i capelli rossicci, a confronto, appariva trasandato. I pantaloni larghi, coperti di tasconi, coprivano le gambe muscolose ed erano stretti alle caviglie, dove si infilavano sulle scarpe. La felpa, di un verdone militare, aderiva perfettamente al torace ed era dotata di un collo alto ma largo, in modo da garantire protezione e, contemporaneamente, confort. Mi tenni per ultimo Azrael. Sapevo l'effetto che mi provocava e, non volendo distrarmi, gli concessi una fugace occhiata.  La giacca a doppio petto gli cadeva perfetta sulle ampie spalle e, lasciati con noncuranza aperti i primi bottoni, lasciava intravedere la semplice maglia nera aderente sottostante.
Pur nella sua sobrietà, rimaneva elegante. Notai che nessuno di loro portava armi, almeno all'apparenza. Facendo più attenzione era possibile scorgere che ognuno di essi nascondesse qualcosa. Alyssa possedeva una serie di coltelli da lancio che si mimetizzavano alla perfezione con il corpetto. Gabriel nascondeva due pistole Glock 18HCJ. Azrael.. Lui sembrava già micidiale così, non mi sforzai di trovare qualcosa. Più lo osservavo infatti, più la mia mente si distraeva.
"Ci state dicendo che il vostro piano è prendere non un politico ma il Dictator in persona, approfittando di un presunto viag.." Stava chiedono Gabriel.
"Non presunto" lo fermai "abbiamo notizie certe riguardo la sua partecipazione, è un modo per far mostra della sua indifferenza nei confronti delle rivolte di questa città, per dimostrarsi superiore" lo sdegno della mia voce era evidente.
"Come vuoi" proseguì lui "allora il piano è prenderlo mentre lo stanno scortando alla Domus e.. Basta?"
"Dopo averlo preso lo obbligheremo a dichiarare questa città territorio neutrale" esclamò con orgoglio Mattew.
"Non pensate che avrà minimo un centinaio di uomini per scorta? Per non parlare di quelli sotto copertura uniti alla folla.."
"Vedi è per questo motivo vi saranno due punti da rispettare: il primo è assaltare il corteo con più uomini possibili, il secondo è diventare la sua scorta" spiegai.
"Dunque l'assalto sarà un diversivo per permettere a noi tre di sostituirci ad alcune guardie per rapirlo in un secondo momento.." Intervenne Alyssa. Studiai la sua espressione, oltre ad un velo di scetticismo, era evidente che stava valutando tutti i possibili pericoli e miglioramenti.
"Quattro" la corressi.
"Come?" Azrael ruppe il silenzio, sorprendendomi. Ero convinta che non stesse neppure ascoltando, invece ora era lì, mi fissava con occhi tanto intensi da bruciare.
"Sarete in quattro" intervenne Frederich, dato il mio silenzio.
"Non abbiamo bisogno di nessuno dei vostri uomini" ghignò Gabriel.
"Lo sappiamo" continuò l'uomo "infatti non verrà con noi nessuno dei nostri uomini.."
"Ma.."
"Sarò io a venire con voi" mi decisi ad intervenire, senza distogliere lo sguardo da quell'oceano grigio che ancora mi studiava.
Quando si voltò, tornai finalmente a respirare. Lo vidi voltarsi e fare due passi verso la finestra "non se ne parla proprio" affermò perentorio.
"Non credo che tu possa decidere" replicai calma. Vedendo la sua schiena irrigidirsi, continuai "è previsto nel contratto che io debba accompagnare la missione passo dopo passo, fino al suo completamento".
Una mano si appoggiò sulla mia spalla, calda e gentile "non lo facciamo perché ci sentiamo invincibili o, tantomeno, superiori" c'era un calore inconfondibile nel tono di Alyssa, come se ci conoscessimo da anni, "ma devi capire che sarà pericoloso e noi no vogliamo cogliere il rischio di.."
"Il contratto" la interruppe glaciale Azrael.
"Scusa?" Chiesi, non capivo dove volesse arrivare e non appena lo compresi, glielo porsi con mano ferma. Voleva una conferma? L'avrebbe avuta. Avevo studiato quel foglio per ore, avrei potuto ripeterlo a memoria. Non avrebbe trovato scappatoie.
Dopo la lettura, una ruga gli solcò la fronte mentre la mascella si contraeva.
"Trovato quello che cercavi?" Canzonarlo non era un'idea geniale, ma la superbia con la quale si stava comportando cominciava veramente a infastidirmi.
"Lei verrà con noi" spiegò ai suoi compagni "qualsiasi cosa dovesse accadere da oggi diventa parte del nostro gruppo" quindi si rivolse a me "cerca almeno di non ostacolarci".
"Quando si potrà considerare soddisfatto il contratto?" Chiese Gabriel.
"Con la pace" c'era rassegnazione nel tono del loro capo.
"Ma è assurdo.. Qualcosa di più generico no?"
"A questo punto" sospirò Alyssa, poi si mise di fronte a me è sorrise "Benvenuta tra noi".
"Partirete tra due giorni" sentenziò Frederich, non concedendomi il tempo di replicare "nel frattempo.." Allargò le braccia indicando la stanza "fate come se questa fosse casa vostra".
Mattew cominciò la spiegazione, distogliendo l'attenzione dal palmare "l'intera palazzina è sotto il controllo della Resistenza" indicò con l'indice il pavimento "ai piani inferiori sono situate diverse stanze da letto, per quanto riguarda quelli superiori potrete trovare due palestre ed una piscina.."
"Vi mostrerò le vostre stanze" lo interruppe Luke.
Li osservai mentre si allontanano uno alla volta, Alyssa sussurrò qualcosa e Gabriel si portò una mano alla nuca sorridendo colpevole, mentre Azrael scosse piano il viso e voltò lo sguardo. Erano una strana compagnia, l'uno così diverso dall'altro. Mi ritrovai a sorridere. Frederich,tossendo, mi riportò alla realtà indicando le mappe. C'era altro di cui discutere ma si trattava solo di dettagli marginali ed irrisori.
Sbuffai e mi avvicinai. Ormai mancava veramente poco..

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Capitolo XV ***


Ciao a tutti! grazie a quelli che hanno avuto la pazienza di aspettare così a lungo la mia pigrizia :) 
Sono pronta a commenti sia positivi che negativi 



  -­‐selezionare livello gravità-­‐ 
 "Massimo"
 

-­‐selezionare variabile climatica-­‐
 "Pioggia" 

-­‐selezionare caratteristica principale nemici-­‐

"Velocità"


-­‐scelta selezionata con successo. Inizio sessione tra dieci, nove,..-­‐

Controllare la respirazione, rallentare il battito cardiaco, chiudere gli occhi, cancellare qualsiasi emozione possa influenzarti.
Mentalmente ripetei tutte le istruzione che potessero tornarmi utili.


-­‐..cinque, quattro,..-­‐


Aprire gli occhi, abituarsi alla luce, tendere i muscoli, renderli pronti a scattare.

-­‐.., due, uno -­‐
--- sessione iniziata, in caso di interruzione d’emergenza pronunciare la parola decisa -­‐.


Nonostante le gocce di pioggia fossero virtuali cominciai ben presto a sentire freddo. Ovunque esse si appoggiassero, a causa dell'aumento di gravità, sentivo come se a colpirmi fossero stati sassi.
Mi accorsi a mala pena del primo nemico e schivai di un soffio il proiettile che mi aveva indirizzato. Con rapidità estrassi la balestra dalla fodera alle mie spalle, presi la mira e premetti il grilletto. L'uomo cadde a terra agonizzante, la punta piantata in gola, prima che la sua immagine si infrangesse in un mare di numeri e lettere.


-­‐ un nemico sconfitto, nessun segno vitale, morte immediata, trachea trafitta -­‐
 Ne colpii altri due con la stessa precisione precedente, concedendo ad essi appena il tempo di vedermi.


-­‐ aorta perforata, morte immediata -­‐


-­‐ scatola cranica disintegrata, morte immediata – 

-
Non riuscii ad evitare che il proiettile di un quarto mi sfiorasse la spalla. Sentii un dolore acuto. Soffocai un gemito e scoccai la mia ultima freccia.


-­‐ recisione di sezione collo midollare, morte immediata -­‐


Mi rilassai, lasciai che i muscoli si distendessero. Quando udii l’ultimo nemico avvicinarsi ebbi appena il tempo di estrarre i due coltelli che portavo alla base della schiena per deviare la sua mazza ferrata. Era uno umo robusto, circa il doppio di me, come statura e, soprattutto, come forza.
Sfruttalo a tuo vantaggio, mi imposi. La testa cominciava ad esplodermi, ogni goccia artificiale mi rendeva sempre più debole. Con un colpo di reni riuscii ad evitare il suo attacco diretto e, sfruttando il suo sbilanciamento, colpirlo al cuore.
 

-­‐ morte immediata -­‐

Aspettai che lo scenario si dileguasse e la stessa voce annunciasse la fine dell’addestramento.
– ferita mortale, sessione fallita – disse invece, prima che una scossa si addentrasse nel mio petto costringendomi a piegarmi su me stessa.
Riguardai più volte il video dell’addestramento.
Possibile che non mi fossi accorta di averne tralasciato uno? Adesso che mancava così poco a che tutto divenisse realtà, a che venissimo trovarci nella battaglia concreta.. come potevo permettermi errori del genere? Come potevo essere così superficiale. Là fuori non avrei avuto una seconda possibilità. Non sarebbe stato un semplice Game Over che non danneggia nessuno se non il
tuo orgoglio. Tutto quell’addestramento, quella preparazione, a nulla sarebbero valsi se avessi sprecato le poche occasioni che mi sarebbero rimaste. 


“ho imparato a non prendermela troppo” la voce alle mie spalle mi vece sobbalzare, non mi ero resa conta che ci fossero altre persone con me in quella stanza.


“da noi” aggiunse “un addestramento rimane un addestramento, nonostante gli istruttori cerchino di fare di ogni cosa una questione di stato, ben presto si capisce che è necessario dare a tutto il giusto peso”. 

Il sorriso di Alyssa era sincero, spontaneo, senza alcuna traccia di compassione. Non stava cercando di consolarmi, bensì di insegnarmi. 


“già ma se fossimo stat..” provai a replicare.


“se ci si ferma troppo a riflettere su cosa sarebbe potuto accadere, si perde il contatto con la realtà. Ciò che serve, quando si sbaglia, è analizzare con attenzione le cause. Traccia il percorso con tutte le trappole in cui ti sei imbattuta ed evidenzia quelle che non sei riuscita ad evitare. Solo così non ricadrai negli stessi errori”. 


Aspettai che continuasse, lasciando che i minuti passassero, la fiducia che era in grado di trasmettere mi rassicurava. 

“nei film dopo un silenzio come questo, di norma, si passa al bacio tra i protagonisti, prima della grande guerra, dopo la quale non sanno se si rivedranno o meno..” mi fissò con una tale intensità che non riuscii ad evitare di indietreggiare “.. A te spiace se saltiamo e passiamo direttamente alla parte in cui si parla del più e del meno?”. 

Scoppiò a ridere ed io non potei che imitarla. 


“c’è un bel tempo fuori” sospirai quando riuscii a riprendere fiato. 


“no, ti prego” esclamò “quando si tocca l’argomento tempo vuol dire che l’interlocutore è così noioso che non vedi l’ora di sbarazzartene, è una sorta di..” assunse un’espressione scherzosamente minacciosa “..vedi di levarti dai piedi perché sono troppo gentile da mandarti via a calci io!”.


“allora tocca tornare all’argomento bacio?” mi finsi preoccupata “hai una mentina?”.


“sfortunatamente è nell’altra borsa” sorrise “è destino che si lascia perdere, la prossima volta mi farò trovare pronta”.


Non prendere troppa confidenza, mi raccomandai, è e rimane un sicario, micidiale e letale.


“pronto??” urlò “ci sei?”


“eccomi” riacquistai il controllo di me, imponendomi di stare al gioco.
Non che fosse difficile, stare con lei mi permetteva di essere me stessa, quella persona che spesso cercavo di nascondere, impedendomi di fingere qualsiasi distacco.


“vuoi che ti faccia fare un giretto di visita?” le proposi.


“oh, sei gentile maaa.. no, grazie. Ci ha già pensato il tipo abbastanza agitato di prima” mi rispose.


“devi scusarlo, a volte è così..”

“..impulsivo? testardo? Tranquilla, Gabriel è uguale. Sempre pronto a scattare, però sono convinta che farebbe di tutto per aiutarmi, è un bravo ragazzo..”


“è il tuo..?” chiesi, di impeto, pentendomi subito di averlo fatto. Anche se fosse stato la cosa non riguardava me.


“no.. anche se le prospettive di vita per quelli come noi sono mediamente basse” si prese una pausa per enfatizzare il concetto “ci tengo ad arrivare alla mia ultima ora con tutte le rotelle al loro posto e non sclerata completa”.


La sua risata genuina era estremamente contagiosa “compiango la poveretta che un giorno starà con lui, ma sono contenta di poterlo considerare un amico”. 


Amico, ripetei fra me e me, non sono così diversi da noi, amano, provano affetto..


“è la classica persona che si butterebbe in mezzo al fuoco, incurante del pericolo, per salvare me. Lui e Azrael sono una bella coppia” concluse. 

“non sembra l’ideale come capitano” provai a cambiare l’indirizzo della conversazione. 


“Azrael dici? Non si può dire che sia logorroico e neppure particolarmente socievole ma è leale”.


La ragazza si immerse nei suoi pensieri, lasciandomi fuori ad aspettare. 

“già” sospirai “lealmente e fedelmente pieno di sé”.


“non è facile capirlo” sospirò “nessuno penso sia stato in grado di riuscirci, di riuscire ad andare molto oltre la superficie. Ciononostante io e Gabriel non saremmo qui se non fosse per lui, ci ha salvati senza pensarci due volte, gli siamo debitori..”.

Qualcuno deve avergli ordinato di salvarli, mi sorpresi a pensare, non trovando alcuna altra ragione per cui un tipo come lui avrebbe dovuto fare qualcosa che non fosse un ordine. 


“non giudicarlo troppo frettolosamente.. e non perderci neppure troppo tempo.. è..” si fermò a riflettere sulla parola più adeguata “.. difficile”.

Troppo tardi, disse una voce nella mia testa, non riesci a pensare ad altro, vero? Aggiunse maliziosa. 

“quando due ragazze si ritrovano a parlare con così tanto feeling, cominciano i problemi per noi maschietti”.

Vidi la figura imponente di Gabriel comparire al nostro fianco.
Rimasi basita, come facevano ad essere così silenziosi?

“se stavate parlando di me non fermatevi, sono tutt’orecchie” il suo sorriso malizioso fece risaltare gli ultimi tratti infantili del suo volto. 


Erano così giovani..


“non ci siamo fermate dieci minuti fa, quando tu sei arrivato. Quindi non vedo perché dovremo fermarci ora” sospirò Alyssa.

Allora lei si era accorta della sua presenza, eppure mi era sembrata assorta nel dialogo quanto me. Nonostante le sessioni di allenamento il divario che mi separava da loro era immenso.

“appunto” la provocò lui. 

“stavo appunto per raccontare a Ginevra di quella volta che ti tinsi i capelli di verde oliva” 

Più o meno il colore che stava assumendo la carnagione del suo viso in quel momento, notai.

“ci sono state scelte migliori” ammise, scrollando le spalle.


“che poi..” aggiunse ridendo la ragazza “ qual è il tuo colore naturale? Per quanto mi sforzi non riesco a ricordarlo” 

“allora siamo in due, sorella” esclamò, accompagnando la risata di lei con la propria, molto più fragorosa.
Erano ricordi lontani, di una felicità così semplice da apparire impalpabile. Sentii il ventre che le doleva come se avesse ricevuto una pugnalata.
Amici.. affetto.. cosa le rimaneva ora? Raccontava la sua storia come se valesse qualcosa. Come se le servisse a qualcosa.
Immagini confuse nel silenzio che la opprimeva. Colori leggeri che ora lasciavano un vuoto incolmabile.
Aveva affrontato tutto distrattamente, dandolo per scontato. Non rendendosi conto di quanto poco tempo e spazio vi fosse. Di quanto avrebbe fatto male ripensare ogni attimo a ciò che non aveva più, di quanto anche il solo non aver potuto dire addio l’avrebbe sconfortata. Faceva male, un male cane.
La guerra infuriava dentro di lei, avrebbe voluto urlare per combattere quel maledetto silenzio, avrebbe voluto correre fino a perdere il fiato, obbligando anche la sua stessa mente ad abbandonarla all’unico oblio che le avrebbe impedito di pensare, immaginare, ricordare.
Eppure più di ogni altra cosa avrebbe voluto non sentirsi più così infantilmente, stupidamente, sola. 

Sentì appena la mano di Isabelle stringersi alla sua, cercando di confortarla.
Ginevra era stata ancora risucchiata in quell’abisso, in quell’inferno, dove passato e presente combaciavano, levigandosi. 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Capitolo XVI ***


Ciao ragazzi, spero di non deludervi continuando a scrivere e per come le cose si stanno mettendo. Scrivete per qualsiasi commento, positivo o negativo.
 
"Così non funziona" nonostante la delusione della voce, era distinguibile un certo divertimento "questo bastardo sopporta il dolore troppo bene. Sto cominciando ad annoiarmi".


Il ragazzo riusciva a mala pena a distinguere le parole del secondo interlocutore, avvolto com'era in uno stato di semi coscienza, di luci soffuse e ombre. 

"Cosa pensa di fare?"
Dovevano pensare che fosse svenuto perché avevano lasciato passare molto tempo dall'ultima scossa. Sentiva il battito in procinto di tornare regolare.


"Passeremo ad un altro livello" la risata riempì la stanza "se il dolore Fisico non è un problema, cominceremo con quello psicologico".
Le prime volte era stato terribile. Aveva visto morire tutti i suoi amici, tutte le persone a cui teneva. Le immagini sembravano sempre così reali, eppure in ogni occasione si risvegliava sudato ed agonizzante, la testa sul punto di esplodere.
Vedeva i volti tristi dei defunti, le loro labbra che si muovevamo, senza riuscire a formulare alcuno suono.

Sarebbe impazzito.
L'unica cosa che gli rimanevano erano i ricordi. Non quelli maestosi ma quelli più intimi, personali e, per questo, perfetti. Pensare ad essi lo ancorava alla
 Vita.


Tra tutti lei, lei che gli aveva insegnato che non tutto si può risolvere da soli.

 Che non c'è mai abbastanza distanza per le persone che si possono considerare amici. 


Sorrise.
Loro due erano come il sole e la luna durante un'eclissi, così diversi, l'uno ostacolava l'altra. Eppure era come se prima avesse conosciuto solo parzialmente il mondo.
"Bene" sorrise Mattew "così avete avuto modo di capire come funziona questa sala addestramento. Non che mi aspettassi che voi non riusciste ad arrivarci da soli".
Quel ragazzo non mi piaceva. I doppi sensi, i giochi di parole, i sorrisetti maliziosi.
Allo stesso tempo mi faceva pena il fatto che sembrava
non accorgersi di giocare con il fuoco. Il vero problema era Gabriel. Sul fatto che fosse un buon combattente non c'era nulla da obbiettare, ma era iroso, istintivo. Si potevano contare sulle dita di una mano le volte in cui l'avevo visto fermarsi a riflettere.
Continuavo ad osservarlo stringere i pugni, mentre le sue nocche diventavano sempre più pallide per la rabbia.
Se fosse scattato ancora, avrei dovuto fermarlo prima che combinasse qualche disastro. 

"Fantastico" urlò Alyssa, distogliendomi dai miei pensieri. 

Quando i suoi occhi mi puntarono per trovare una conferma, scrollai appena le spalle e mi appoggiai alla parete, mentre un membro della resistenza ci illustrava il funzionamento di qualche macchinario. Il suo perpetuo entusiasmo mi metteva a disagio. 

"è strano però" continuò lei.


"Di cosa parli?" Le chiese Gabriel.
Tipico, guardava all'apparenza senza chiedersi cosa ci fosse più a fondo. Possibile che non si fosse chiesto come fosse possibile che la Resistenza controllasse un intero palazzo della zona residenziale e nessuno vi avesse mai fatto un controllo? 

Ma, dopotutto, che importanza aveva? Prima questa missione avrebbe avuto fine, prima saremmo potuti andarcene.


"Non è mai venuto nessuno a fare qualche controllo?" Chiese la ragazza.

"Qualcuno in entrata, ma raramente" rispose evasivo "perché lo chiedi?"

"Un palazzo come questo non scompare nel nulla"


"Abbiamo i nostri metodi" si vantò, spostando l'attenzione su un altro attrezzo e iniziando una nuova spiegazione.


-nostri metodi- mi ripetei.
Se fossero stati veramente così efficaci, non avrebbero potuto ideare un piano che, a differenza del loro, non avesse buchi da tutte le parti?


La mia attenzione si spostò su Ginevra.
Doveva aver percepito la nostra presenza perchè i suoi movimenti si stavano facendo sempre più rigidi e controllati.
La studiai mentre con un asciugamano si puliva dal sudore che le imperlava la pelle. Piccole gocce le ricadevano lungo la spina dorsale, incatenando i miei occhi e obbligandoli a seguirne il percorso.
Cosa diavolo ti sta succedendo? Mi rimproverai. Mai perdere la concentrazione.

"Il centro è aperto tutta la notte?" Chiesi.


"Certamente"


Bene, avrei lasciato che la mia mente fosse impegnata, così
da permettere all'istinto di avere il predominio.
Non mi sarei mai aspettato un tale livello tecnologico in una cittadina come quella. Soprattutto nelle mani dei ribelli. 

Alyssa aveva ragione, era pressoché impossibile che tutto questo fosse rimasto non visto. Ciononostante non si trattava di affari che mi riguardavano. Il mio compito consisteva esclusivamente nell'eseguire gli ordini. 

Dopo l'ennesima sessione di allenamento mi ritrovai a girovagare per i corridoi del palazzo.
Per quanto quelle macchine dessero l'impressione di riflettere la realtà, diventavano ben presto noiose, monotone. Osservai con attenzione ogni porta che mi si presentò innanzi, finché, finalmente, non trovai le scale che portavano al terrazzo panoramico. 

Osservare la città dall'alto mi rilassò.
Tutto sembrava incredibilmente piccolo ed innocuo, non si distinguevano persone e cose, solo numerose luci, alcune immobili, altre in un frenetico movimento.
Mi immersi a tal punto in quella visione che quando sentii un rumore alle mie spalle scattai. Senza rendermene conto ero già lì, pronto a uccidere l'individuo che mi si trovava innanzi, con un pugnale puntato alla gola. Non appena incrociai i suoi occhi ebbi un brivido. Ancora lei, anche in quella circostanza la sua visione mi tormentava, mi impediva di essere lucido e freddo. 

"Non volevo disturbarti" riuscì a dire e solo a causa della sua voce roca riuscii a rendermi conto che non avevo ancora allentato la presa.
Allontanai l'arma e le voltai le spalle.


"Da quanto tempo mi stavi osservando" chiesi, velando l'imbarazzo. Era il mio compito essere sempre pronto al peggio, non c'era nulla di sorprendente, nulla di cui doversi scusare, nella mia reazione.
 "Veramente ero qui da prima che tu arrivassi" rispose "mi rilassa Stare qui sola, solo le stelle a farmi compagnia.  È l'unico momento in cui mi sento pienamente padrona di me stessa".

Strinsi le braccia al petto, osservando l'orizzonte. Padroni di se stessi, mi ripetei. Come se fosse veramente possibile esserlo.

"Ti conosco da così poco" sospirò avvicinandosi e appoggiandosi alla ringhiera al mio fianco, facendo leva sulle braccia per protendersi verso il vuoto "ma pagherei per sapere cosa ti passa per la testa ogni volta che ti chiudi in quell'ostinato silenzio". 

La brezza notturna le accarezzava il viso, i capelli sembravano vibrare di vita propria, riflettendo le mille sfumature delle stelle. 

"Stai attenta, potresti cadere".

Sbuffò e, ritraendosi agilmente con un balzo, "come fanno i tuoi amici a sopportarti?" Chiese, scostandosi un ciuffo ribelle. 


Amici? Erano solo compagni di missione. Come me anche loro non vedevano l'ora di finirla, tornare alle loro rispettive vite. 

"Non vorrei che, cadendo, facessi fallire la missione prima del tempo" dissi invece. 


I suoi occhi mi studiarono a lungo, cercando qualcosa che neppure io riuscii ad identificare. Quindi tornò ad osservare il cielo. 

"Sarebbe meraviglioso vivere tra le nuvole" bisbigliò con aria sognate. 

Vivere tra le nuvole? Ma cos'ha? Cinque anni?
"Anzi no.. È una fortuna che non lo si possa fare" si trattava
di una constatazione, velata da un'amara malinconia "altrimenti gli uomini riuscirebbero a contaminare anche quello con la sete di potere, con le loro stupide manie di onnipotenza".

Mai sentito parlare di scontri aerei?
Eppure, per quanto tentassi di contrastare i suoi pensieri, la capivo ed, in parte, condividevo le sue parole. 

"È ora di andare" il fatto che si comportasse con me come
con una persona che conosci da anni cominciava ad infastidirmi seriamente. 


Si issò nuovamente sulle braccia, allungandosi il più possibile, lasciando che la brezza fredda le accarezzasse le gote.
 Irritato la tirai indietro, cercando di essere il più delicato possibile, ma non nascondendo l’irruenza che l’avrebbe spinta a non ritentare. 


"Si" mi assecondò dopo uno sguardo di stizza “volevo solo al- lungare il più possibile questo momento, volevo costruirmi un ricordo”. 


I ricordi non si costruiscono, la vita si vive e basta. I ricordi sono semplicemente dei demoni sempre pronti a tormentarti. 

Proseguimmo verso le nostre rispettive stanze in silenzio.
Non ricambiai il suo saluto quando ad un incrocio prendemmo strade opposte.
Mi sentivo strano ma non aveva importanza.
Amici? Chi ne ha bisogno? Chi ha bisogno di queste conversazioni strappalacrime?
Avrei affrontato tutto da solo.
Come già in passato avevo fatto. 

Come avrei continuato a fare. 

Io contro il mondo o, meglio, io che cercavo con tutto me stesso che il mondo non si accorgesse di me, che mi lasciasse fuori dalla partita a scacchi che gioca contro il fato, incurante di sacrificare una qualsiasi pedina per uno scopo noto solo a lui.
Il prigioniero aprì gli occhi quel tanto che gli fu necessario per accecarsi con le flebili luci soffuse della stanza dove lo stavano torturando.
pochi secondi sufficienti per fargli comprendere la fine di un altro ricordo rivissuto in un sogno che temeva non fosse stato visibile solo a lui stesso.
---------------------------------------------------------------------------------

“avevate un piano”
“si..” sospirò Ginevra, mordendosi impercettibilmente un labbro.
“un buon piano” aggiunse.
“così pensavamo” sospirò la più giovane.
“e..?”
“e ci sbagliavamo..”
 
“non posso crederci” mi ringhiò a pochi centimetri dal volto.
“io..”
“tu cosa?” soffocò un urlo “vuoi chiedermi scusa? Oh certo cara bambina, ti perdono per avermi fatto cadere il gelato.. ah no, aspetta! Non si tratta di questo. Non è, semplicemente un maledettissimo gioco!”
“Azrael, basta” intervenne Alyssa.
“si, amico” Gabriel gli posò una mano sulla spalla “datti una calmata”
Udite quelle parole temetti che gli venisse staccato il braccio, tanto il ragazzo era furente. Eppure non fece nulla. Sembrò non accorgersi della presa, era totalmente concentrato su di me. Probabilmente stava escogitando un modo per uccidermi mantenendo comunque fede al patto.
“lo so che non è un gioco” ed era vero, avevo dato anima e corpo per quella missione, erano notti che non dormivo, che  ripetevo, secondo dopo secondo, il piano a me stessa. Come non avevo potuto pensare a..
“le uniformi sbagliate” sibilò “Dio.. come avete potuto essere così..”
“..stupidi?” lo bloccai “dai offendi pure, così si che risolvi la situazione”.
“cosa dovrei fare?” chiese, preso in contropiede “noi siamo..”
“.. il braccio che muove la spada? Il dito che preme il grilletto? voi eseguite gli ordini che altri hanno già predisposto per voi. Facile, no?” chiesi non riuscendo a trattenermi.
“cosa vorresti dire?” la sua voce era così roca che temetti stesse per allungare le mani e stringerle intorno alla mia gola. Eppure ormai dovevo continuare, non riuscivo a capirne appieno il motivo, ma ero arrabbiata quanto lui, arrabbiata con lui.
“è questo che vi raccontate la notte prima di dormire?” presi fiato “quando i volti di tutti quelli che avete ammazzato vi compaiono innanzi? Che tanto non è colpa vostra, per voi sono tutti carne da macello che vi è stato ordinato di sventrare!”.
“tu ci hai voluto” sembrava essersi calmato, non mi guardava più negli occhi, fissava un punto lontano alle mie spalle.
“ora calmatevi tutti e due” sentii il palmo caldo di Alyssa posarsi sulla mia spalla “non è colpa di nessuno, il tempo si sta riducendo velocemente, dobbiamo agire subito”.
“Ally ha ragione” l’appoggiò fermamente Gabriel “inoltre, tra tutte le possibili scelte, neppure io avrei mai immaginato che avesse come scorta i membri della Legion. È un corpo che pensavo fosse caduto in disuso da tempo.. senza parlare che non fu istituito per interventi militari ma, soprattutto, per tutelare l’ambito finanziario”.
Azrael si rilassò, i suoi muscoli si distesero e la mascella si distese “cosa proponete?” chiese ai suoi compagni, ignorandomi, con l’unico scopo di umiliarmi, di sottolineare la mia inferiorità.
“come ho detto, dobbiamo agire” sottolineò L’altra ragazza, sfoderando uno sguardo fintamente innocente.
Gli abissi grigi del giovane si illuminarono di una luce maliziosamente diabolica. Sentii il cuore perdere un battito, mentre una strana sensazione mi inondava il petto, lasciando un vuoto nel ventre.
“non abbiamo le uniformi giuste? Bene, rimedieremo subito” sentenziò.
 
“avete steso dei membri della Legion?” chiese sorpresa Isabelle.
“al tempo non sapevamo che fossero stati addestrati per diventare la guardia personale del Dictator” sottolineai.
“questo non toglie nulla al fatto che l’abbiate fatto”
La ragazza ripensò a quello che era realmente accaduto, a quanto velocemente i fatti si erano susseguiti non lasciandole neppure il tempo di riflettere.
“posso farti una domanda?” le venne chiesto.
“non capisco perché tu me lo chieda ogni volta” scrollò le spalle “come se la mia risposta ti facesse desistere”.
Lei scoppiò a ridere con tanta forza che mi sorprese.
“mi trovi tanto buffa?” chiese sospirando.
“non era una battuta?”
“quale?”
“non vorrai dirmi che avete veramente preparato le uniformi sbagliate”
La giovane sospirò di nuovo “non ti ci metterai pure tu!” si rese conto che anche lei stava faticando a trattenere le risate.
“ma dai..” insistette l’infermiera.
“senti sono già stata rimproverata abbastanza per questo. Se vuoi continuare fallo in un’altra stanza”.
“questa poi” rise più fragorosamente “vuoi mandarmi via da una camera di casa mia”.
La banalità di quell’affermazione non impedì a Ginevra di cogliere ciò che si nascondesse oltre la superficie.
“non mi avevi mai detto che si trattasse di casa tua”, si sforzò il più possibile di apparire calma e disinteressata.
Il silenzio invase la stanza. Isabelle guardò in basso e, in un sussurro “infatti non lo è” disse.
Detto ciò cominciò a guardarla, col lo sguardo fisso nei suoi occhi, come se stesse decidendo se aggiungere altro o rimanere lì, immobile. Le iridi lasciavano trapelare una mal velata tristezza, un crescente disagio e qualcosa che riusciva ad identificare solo come senso di colpa
“devo andare” scattò in piedi e si diresse verso la porta.
“aspetta, quando torni?”
“non lo so” non si fermò neppure e, mentre la porta si chiudeva alle sue spalle, aggiunse “ma presto, tranquilla, devo solo sistemare alcune faccende”.

 
Un leone, seppur incatenato e imprigionato, non si arrende mai, la sua esigenza di libertà non si placa, così come mai muore il suo istinto di cacciatore.
Così come la nobile fiera anche William aveva atteso, vigile, soffocando quanto possibile il dolore.
Sapeva che Elizabeth sarebbe stata pronta ad intervenire, il suo compito consisteva solo nel permetterglielo.
Il Consiglio in quel momento stava sottovalutando i due prigionieri.
 La gioia nata da quell’apparente vittoria aveva offuscato le loro menti, alleggerito i loro sensi. Urli di esultanza avevano riempito l’aria accompagnati, come fossero un coro d’archi, da risate sprezzanti.
Nessuno si era accorto che William aveva messo mano a Levorith e un nuovo ardore aveva colmato il suo cuore tale era la forza che quell’arma gli dava.
“Ferith!” aveva urlato e un unico, enorme tuono aveva sovrastato il cielo, lasciandolo ancora più scuro. Ogni suono era cessato, la puzza di morte aveva riempito l’aria.
L’uomo combatteva rendendo merito alla fama che l’aveva sempre preceduto. Non era il più forte ma l’astuzia e la destrezza riempivano questa sua mancanza. Corse verso l’Anziana. Inutili furono i tentativi delle guardie che si opposero, una a una vennero decapitate, mutilate, uccise. In una situazione normale quella l’avrebbe distrutto solo con la forza del pensiero, ma lui l’aveva sorpresa, l’aveva colta alla sprovvista e, come la severa educazione militare gli aveva insegnato, era stato in grado di sfruttare la sua incertezza per catturarla.
“ridatemelo” urlò ai presenti “ridatemelo e nulla le sarà fatto”. Pronunciò queste parole lentamente, affinché i presenti capissero che la sete di sangue della sua arma non era stata ancora placata e che lui era ancora pronto a soddisfarla.
 
Si svegliò con il cuore che minacciava di uscirgli dal petto, chiedendosi dove fosse e ancor più chi fosse.
Solo le fitte ai polsi, corrosi dalle catene che li devastavano e l’aria avvolta dal tanfo di pelle bruciata e sangue lo riportarono alla realtà.
Ancora quel sogno, ancora quelle persone, si disse. Gli  interrogativi riuscirono a riempire il vuoto di quella cella, a colorare il buio che vi regnava.
Chi erano? Cosa volevano? Perché proprio lui?
Eppure, ciò che quella volta più lo tormentava, ciò che più lo lasciava basito  era perché avesse sentito la rabbia di quell’uomo come se fosse sua, tanto vivamente che ancora adesso gli riempiva il petto di una sete di vendetta al contempo estranea, aliena, famigliare  e, perversamente, appagante.
 
“ci stiamo stancando di ospitarti” la voce sprezzante, a stento trattenuta, lo riportò alla realtà.
“io sono pronto ad andarmene” disse.
“c’è solo un modo per te di uscire da qui e, sinceramente, l’ipotesi che sia sulle tue gambe non è contemplata” rise, mesto.
Il giovane strinse i denti, cercando di resistere all’impulso di urlare, di permettere che tutta la sua rabbia uscisse, inutilmente. Quel sentimento sarebbe diventata un’arma temibile se avesse saputo attendere, una risorsa micidiale.
“come siamo silenziosi questa mattina”
Mattina, si ripeté mentalmente. Lo spazio ed il tempo scivolavano attorno a lui lasciandolo estraneo, alieno. Qualsiasi appiglio con la realtà gli venisse dato, lui lo stringeva, aggrappandosi ad esso con quelle poche forze che gli rimanevano.
“che c’è?” disse la guardia “non ti sarai per caso deciso a fare il bravo”.
Lui lo ignorò, sentiva l’ombra del sonno avvicinarsi a lui, inghiottirlo. Era stanco, bramava solo la pace, il riposo.
 
Sentii i miei stessi denti stridere. Solo in quel momento mi resi conto di aver sottovalutato il nemico. Non li avevo mai visti combattere, eppure non mi sarei mai aspettato così tanto da un semplice corpo di rappresentanza.
Tramortire il primo era stato facile. Preso alle spalle non si era neppure accorto di ciò che stesse accadendo. Con i restanti quattro avevamo faticato, invece.
Si muovevano veloci, danzando, si buttavano sulle nostre armi senza alcuna paura della morte. Nonostante le ferite avevano continuato a combattere fino all’ultimo.
La nuova posizione di capo che la missione mi aveva imposto non mi piaceva affatto. Non mi permetteva di concentrarmi come avrei dovuto, sempre attento com’ero ad accertarmi che i miei compagni stessero bene.
Quando, finalmente, la mia lama recise il collo del mio avversario come se la sua carne e le sue ossa fossero semplice carta, vidi che Alyssa era stata messa alle strette da due soldati.
Bastardi, pensai, ve la prendete con l’anello debole del gruppo.
Mi sbagliavo.
Feci per intervenire ma lo sguardo che lei mi lanciò mi bloccò.
Se loro danzavano lei non era da meno, deviava, parava e schivava come se si trattasse di un semplice gioco, con una grazia che raramente avevo visto. Non sembrava essere preoccupata, anche se scorgevo i suoi muscoli tendersi ad ogni colpo, i suoi occhi divenire sempre più concentrati e pronti a cogliere la loro minima incertezza.
Fu così veloce che faticai a seguirla. Si piegò sulle ginocchia, scansando un affondo. Il soldato guardò terrificato la sua stessa lama trafiggere il petto del suo commilitone che non ebbe neppure il tempo di emettere un respiro prima di accasciarsi al suolo.
La ragazza non gli diede la possibilità di reagire, gli recise i legamenti delle ginocchia, spingendolo a piegarsi al suolo. Lo decapitò, senza la minima esitazione, con una precisione chirurgia a tal punto che ad un solo rivolo di sangue fu permesso di uscire.
“ce ne avete messo” sospirò Gabriel, mentre con un piede controllava che il suo avversario fosse realmente deceduto.
“svestilo” mi limitai ad ordinargli senza accogliere la sua provocazione.
“cosa?” chiese una voce femminile.
Mi ero dimenticato di lei. Aveva assistito alla scena immobile, quasi pietrificata.
“stiamo rimediando ad un tuo errore” le risposi “diremo che un gruppo di insorti ci ha trattenuti, il sangue delle vesti ne sarà la prova”.
Lei non si mosse, lo sguardo sul mio come se non trovasse il coraggio di chiedermi se stessi scherzando o meno.
“pensavo fossi pronta a tutto” dissi aspramente.
Si riscosse, senza aggiungere altro cominciò a svestire una delle guardie al suolo.
Una volta che finimmo mi voltai, intento a raggiungere il corteo. Avevamo le divise ma ciò non era una garanzia, solo un espediente per ritardare l’inevitabile, saremmo stati scoperti, bisognava agire in fretta.
“Aspetta” la mano di Ginevra strinse la mia e mi irrigidii al solo  contatto, sentivo il suo calore che trapelava nonostante i guanti di pelle.
“sei ferito” aggiunse.
“non è niente”
“sanguini” insistette.
Mi osservai il braccio, piccole, fredde gocce rosse colavano lungo il polso.
“non dirmi che un po’ di sangue di spaventa” mi liberai dalla sua presa.
Lei però mi fu subito d’avanti, le mani tese verso il mio petto. La guardai incuriosito, era ostinata a non lasciarmi fare un passo in più. Alyssa e Gabriel ci studiarono divertiti. Sapevo, comunque, che erano pronti a reagire in caso di una mia reazione esagerata.
“se solo fossi meno ottuso ti renderesti conto di quanto così tu non possa andare da nessuna parte” non distolse i suoi occhi dai miei.
“è un graffio” sospirai “sono abituato a ferite peggiori”
“quanto è vero” ghignò Gabriel.
Lo ignorai, avrei voluto lanciargli un sguardo che l’avrebbe zittito per parecchio tempo ma non riuscivo a distogliere le pupille dalle sue.
“no, tu non capisci” disse, muovendosi verso di me, alzando la manica dell’uniforme, mentre si stracciava un pezzo della camicia che, troppo larga, a stento riusciva a ricoprire con la giacca.
Lasciai che avvolgesse quel lembo di stoffa intorno alla mia pelle e, solo in quel momento capii.
Sangue, per quanto gli avessimo feriti non avevano che qualche rivolo di sangue lungo il corpo.
La scansai rudemente appena ebbe fatto l’ultimo nodo e mi inginocchia a lato dell’uomo che avevo trafitto. Un liquido trasparente colava dalle ferite con la stessa intensità di come avrebbe dovuto fare il sangue.
Lei se n’era accorta, sebbene sembrasse così sconvolta, non aveva lasciato che quel dettaglio le sfuggisse.
Non è poi così inutile, pensai con stizza, lasciandola sul posto, mentre tentavo di rendere meno assurda quell’impresa folle.
 
Mi guardai attorno, studiando la situazione che mi si presentava.
I soldati avevano abbandonato la rigidità e conformità dei movimenti, a cui erano stati obbligati nel corso della parata. Molti di loro erano già sdraiati a terra, incapaci di muoversi, la mente annebbiata dall’alcool. Altri guardavano famelici qualsiasi essere che potesse vantare una qualche curva. Cantavano a squarciagola, bestemmiavano e imprecavano. L’ambiente malsano e caotico dell’osteria, sembrava divenire sempre più piccolo, obbligando i presenti a stringersi l’uno accanto all’altro, a sfregarsi. L’aria rarefatta consisteva in una miscela di sudore, puzza di vomito e urina. Ciononostante l’euforia cresceva via via che i minuti scorrevano, poiché quello era il paradiso confronto alle atrocità della guerra, atrocità di cui quegli uomini erano stati testimoni, vittime e carnefici.
Un fiume di fischi proruppe quando la porta si spalancò ed entrò un uomo robusto. Le guance erano arrossate, gli occhi limpidi e scintillanti, ricchi di libidine e divertimento.
“tranquilli” intimò, la divisa aperta, sgualcita, di un colore appena più scuro, suggeriva che si trattasse di un ufficiale di grado superiore “nessun ordine per voi stasera, almeno dopo che voi avrete rispettato l’ultima volontà del Dictator”.
Calò un silenzio di tomba, gli sguardi si fecero attenti, in alcuni casi disperati e stanchi, in altri semplicemente sconfortati. Azrael notò che, invece, diversi uomini si stavano leccando le labbra, in attesa, eccitati.
“bisogna dare una lezione a queste povere bestie” continuò il nuovo arrivato solennemente “fino ad ora hanno avuto a che fare solo con piccoli cani da guardia addestrati, è ora che imparino come si comportano i leoni..”
Schioccò le dita e dalla porta proruppe un gruppo di donne. Alcune poco più che bambine, con lo sguardo intimorito e gli occhi spaventati, altre donne mature, volpi che cercavano la loro preda tra i predatori.
“..e le leonesse. Perché non si dica che il nostro amato comandante sia ingiusto” questa volta fu un battito di mani che portò all’ingresso di giovani uomini. Portavano ancora i resti delle uniformi dell’esercito locale, accuratamente stracciate per lasciar intravedere i muscoli, il corpo scolpito dalla dura vita militare. Erano più preoccupati delle donne, procedevano con una lentezza estenuante, guardando a terra, inciampando sui propri passi. Non erano abituati a tutto questo, almeno non a recitare quella parte del racconto, quel ruolo.
“allora vuoi da bere?” la voce roca dell’uomo, le parole appena scandite, lasciavano intendere molto su come avesse passato le sue ultime ore.
Osservai Ginevra studiarlo, per poi ignorarlo completamente.
Lui tornò alla carica, colpito da quell’atteggiamento superiore, non rendendosi conto di quanto la scena precedente avesse sconvolto la ragazza, occupando tutti i suoi pensieri. Per il soldato si trattava, ormai, di una questione d’onore. Ordinò all’oste da bere e buttò tra le mani della giovane un boccale colmo.
Lei gli lanciò un’occhiata furente. “no, grazie” rispose gelida.
“facciamo la preziosa con quell’uniforme?” chiese malizioso “come se non l’avessi aperta così tanto apposta per mostrare il seno. Che c’è? Non sono abbastanza per te? Lascia almeno che ti offra da bere”
“no, io non..”
“lei non è affar tuo” intervenni duro, sfidandolo, mantenendo il suo sguardo. Non mi ero neppure conto di aver fatto i passi necessari a raggiungerli. Sentivo una strana sensazione avvolgermi il ventre. Rabbia? Non aveva importanza, quel uomo mi dava la nausea.
“e tu saresti?” mi sputò sul volto il suo alito maleodorante, misto di tabacco e rum.
“qualcuno che non ti conviene avere come nemico” sibilai minaccioso.
Lo vidi afferrare la lama che nascondeva sotto la camicia e stringere l’impugnatura. Irrigidii i muscoli, pronto a renderlo inoffensivo.
“ehi” intervenne un terzo soldato, stringendogli una spalla “c’è abbastanza carne per tutti. Lei è una di noi e loro sono giovani” la sua presa sulle spalle del commilitone si fece più salda “non puoi biasimarli se preferiscono unirsi tra loro, sono così giovani, non ancora pronti a esperienze, per così dire, esotiche”.
Ammiccò verso di me e io, istintivamente, strinsi un braccio intorno alla vita di Ginevra, rendendo il messaggio il più chiaro possibile.
L’uomo lasciò andare il pugnale e sputò a terra.
Poi rivoltò verso di me “poppante” disse, scoppiando in una risata fragorosa ed afferrando una ragazza per i fianchi appena ne ebbe la possibilità, ignorando i suoi gridolini di diniego.
“accoglierete il volere del dictator?” urlò l’ufficiale alla porta.
Il silenzio continuò per alcuni istanti. Un soldato, alzando lo sguardo dalle carte da gioco, si accese una sigaretta e, dopo un profondo respiro sentenziò “e chi ci dice che questi non siano gli scarti del nostro amato protettore?”, una nuvola di fumo usci dalla sua bocca semiaperta.
Un nuovo schiocco delle dita risuonò nell’aria, seguito da un sorriso carico di malizia.
“scegline due, uno per sesso”.
Applausi e urla proruppero da ogni angolo della stanza. Fischi anticiparono quello che stava per accadere. Venne scelta una ragazza magra, gli occhi arrossati e gonfi di chi non ha ancora accettato il suo destino. Il ragazzo invece era alto e robusto, portava solo un paio di braghe, il petto nudo lasciava trapelare addominali appena scolpiti e una peluria scura. La giovane si guardava attorno confusa, cercava nello sguardo dello sfortunato compagno prescelto un appiglio, un ultimo conforto. Non trovò nulla di tutto ciò, lui continuava a guardare a terra, troppo codardo per fissare i suoi occhi, sapendo quello che stava per accadere.
Ginevra si lasciò andare di peso sul mio braccio. La guardai, mi riscossi, mi era stato così naturale non mollare la presa intorno alla sua vita che me ne sorpresi io stesso.
Lei fissava il pavimento, ostinata, rigida, fredda come il ghiaccio.
“portami via” sembrava una lieve brezza estiva, un soffio leggero e lontano.
“cosa?” chiesi.
“portami via, è un ordine” si schiarii la  voce.
La trascinai lontana, fuori. La frescura dell’aria serale fu un toccasana, per entrambi.
La giovane si scansò, fece due passi avanti, incerta sui suoi stessi piedi, brancolante. Si fermò, trasse un profondo respiro e si allontano ancora di qualche metro, questa volta più salda. La seguii. Si bloccò di colpo e, girandosi, ebbi il suo volto a pochi centimetri dal mio. Un’ombra impediva alle sue iridi di brillare nel modo a cui mi era abituato, una tempesta incombeva sul quel profondo abisso.
“ti prego..” iniziò ma la voce le morì in gola.
Non dissi niente. L’incertezza, la supplica silente del suo sguardo mi aveva colto completamente impreparato, in bilico tra sentimenti che non avrei mai pensato di poter provare.
“ti prego, dimmi perché l’hanno fatto, perché lo stanno facendo” questa volta la voce era chiara, dignitosa.
“questa è la guerra” mi limitai a dire.
“ma..”
“quali ma?” la rabbia che mi invase la sorprese “eri pronta a tutta o mentivi?”.
Mi guardò ferita, “cosa ti aspetti da me? Che abbia tutte le risposte? Beh, mi spiace deluderti”.
“io..” tentò di replicare.
Non le diedi il tempo di aggiungere nulla, mi allontanai nel buio, sentendo il bisogno di stare da solo, sentii a mala pena la sua ultima frase.
“..perdonami, non sarò più un peso”.


“Devi resistere” la voce era lontana, una leggera brezza estiva sotto il caldo sole di mezzogiorno.
“devi resistere” ripeteva ad intervalli regolari.
Dov’ero? Non ero nel freddo buio della prigione, non ero avvolto dai vivaci colori dei ricordi.
Più cercavo di sforzare gli occhi, più essi rimanevano accecati dalla luce che inondava l’aria.
“devi resistere”
Quel timbro, quella preoccupazione, quella rassicurazione intrinseca, c’era qualcosa di famigliare, ma cosa? Per quanto mi sforzassi quella domanda rimaneva senza risposta.
“devi resistere”
Ancora, ancora e ancora, mentre io, immobile, cominciavo ad acquisire consapevolezza del mio corpo. Sentivo il gelido metallo delle manette bruciare la ferita aperta da loro lasciatami nei polsi, la testa pulsare in sintonia con il cuore. Stavo per svegliarmi, o così avrei potuto dire se quello fosse stato un sogno.
“devi resistere”
“chi sei?” trovai la forza di pensare.
“devi resistere”
“cosa vuoi?”
“devi resistere”
“dove sono?”            
“è nell’anima la virtù, nel cuore la passione, nella mente la coscienza, non cercare la risposta in un solo luogo, altrimenti ciò che accenderai non sarà il fuoco eterno della conoscenza, ma la fiammella effimera dell’ipocrisia” sembrava una canzone, la voce perfetta, cadenzata, dolce.
“chi sei?” questa volta urlai, sentivo la realtà avvicinarsi sempre di più e la necessità di avere risposte diventava sempre più incombente, urgente.
“resisti e io resisterò con te, dividerò con te il tuo dolore, assorbirò ciò che tu non puoi sopportare” continuò “è questo il nostro compito, il nostro ruolo”.
“chi sei?”
“io sarò, noi saremo, sempre parte di te” era malinconia? “resisti!”
La luce divenne accecante, esplose, lasciandomi alla fredda oscurità della cella.
 
“il nostro ospite parla dal solo” lo canzonò la guardia.
Sebbene fosse ancora scosso per ciò che era successo, trovò la forza di controbattere “non ho nessun altro con cui trattenere conversazioni interessanti”
“potresti rispondere alle mie domande”
“pensavo di aver usato l’attributo interessanti” rispose il ragazzo “vuoi un sinonimo o lo capisci?”
“bastardo” digrignò, il giovane udì i suoi passi farsi sempre più vicini. Contrasse i muscoli appena la fredda verga si appoggiò al suo costato, pronto a resistere ai colpi, senza concedergli la possibilità di assaporare il suo dolore, la sua paura.
“pagherai la tua arroganza moccioso”
La frusta schioccò a terra, minacciosa.
“no” si oppose “tu non farai nulla”.
Il soldato fu preso in controtempo, rimase scioccato dalla convinzione del prigioniero e passarono diversi minuti prima che riuscisse a replicare “come?”
“conosco i miei limiti, ho la piena consapevolezza del mio corpo” la freddezza del giovane era inumana “so di essere allo stremo, so che forse morirò qui e non mi importa ma a te?”
“a me non interessa nulla d..”
“.. di far si che il tuo capo al suo ritorno mi ritrovi esanime e, soprattutto, ritrovi te senza alcuna risposta?”
“cos..” la voce del suo aguzzino era spezzata, aveva colto nel segno.
“mi sbaglio? Colpiscimi allora” lo provocò “e falla finita una volta per tutte, mi faresti un favore” il sibilo di una frusta che si riavvolge e viene rinfoderata si contrappose al silenzio.
“avete solo me” sorrise il giovane “e, quando sarà, l’onere di far scorrere il mio sangue per l’ultima volta non spetterà ad un semplice soldato come te”
I passi della guardia risuonarono, incapaci di nascondere la sua rabbia, mentre si dirigeva verso la porta.
La spalancò, ma prima di richiuderla alle sue spalle sussurrò “su una cosa ti sbagli, abbiamo sempre un piano di riserva” poi aggiunse “c’è un nome che continui a ripetere nel sonno, un nome femminile” sorrise nel vedere il prigioniero raddrizzarsi, allertato “sai? È un nome veramente famigliare, deve essere una ragazza speciale”.
La risata di sprezzo coprì le stridore delle catene che si contraevano e, ancor più, il battito di un cuore impazzito per furore, rabbia e preoccupazione.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2618809