I'm not in love cause I'm a mess

di Lost In Donbass
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il frontisterion di Tom ***
Capitolo 2: *** E' tutto nella mia testa ***
Capitolo 3: *** I Casi del Destino ***
Capitolo 4: *** Penso di aver capito chi è! ***
Capitolo 5: *** The Walking Dead non insegna queste cose! ***
Capitolo 6: *** Ho bisogno che tu mi baci, Tom ***
Capitolo 7: *** Credo di averlo ucciso ***
Capitolo 8: *** Mi abbracci? ***
Capitolo 9: *** Siamo sulla pista giusta! ***
Capitolo 10: *** Puoi andare al cimitero, Tom? ***
Capitolo 11: *** Ho imparato a giocare, fratello mio ***
Capitolo 12: *** Torniamo a casa ***



Capitolo 1
*** Il frontisterion di Tom ***


I’M NOT IN LOVE CAUSE I’M A MESS
 
CAPITOLO PRIMO: IL FRONTISTERION DI TOM

-Allora, Tom, hai capito tutto?
Tom annuì distrattamente, tenendo ancora stretta la gonna di sua madre, sotto lo sguardo comprensivo della donna e della vecchia suora premurosa. Era troppo impegnato a fissare quel punto indistinto nel giardino, sotto quel bellissimo ciliegio in fiore che avrebbe dato non si sa cosa per potervicisi arrampicare.
-Devi ascoltare sempre quello che ti dicono Suor Hilda e Suor Stella, va bene?- continuò sua madre, scompigliandogli dolcemente i capelli arruffati.
-Signora, sono sicura che Tom si troverà benissimo da noi. Non si preoccupi e lo venga a ritirare per le quattro del pomeriggio. Se il piccolo non si dovesse trovare bene, provvederemo a chiamarla.- Suor Hilda sorrise dolcemente alla donna e al nuovo piccolo allievo dell’asilo gestito dalle suore di Magdeburgo.
-Speriamo.- la signora Kaulitz si inginocchiò per terra, stringendo tra le mani le guance paffute di Tom – Divertiti, tesoro. La mamma torna presto.
Tom si limitò ad annuire, dando un bacino appiccicoso sulla guancia della madre, lasciando però vagare lo sguardo su quel bambino seduto sotto l’albero, sì, quello con i capelli scuri e dei fogli in mano.
Non guardò sua madre che si allontanava dall’asilo lanciandogli occhiate apprensive, e non si accorse nemmeno della suora che lo prendeva per mano, e lo portava con dolcezza verso un gruppo di bambini intenti a giocare nel recinto della sabbia, mentre gli diceva cose che il bambino nemmeno registrava. Era troppo concentrato a guardare quello strano bambino sotto l’albero, da solo, lontano da tutti e da tutto. Perché non era nel recinto della sabbia?
-C’è un bambino, laggiù.- tirò la manica della tonaca di Suor Hilda, costringendola a girarsi e a posare lo sguardo stanco sul grosso ciliegio.
-Sì, Tom. Lo conosci, per caso?- la suora gli sorrise, tentando di trascinarlo verso gli altri e i loro camioncini di plastica.
-No. Però è da solo.- insisté il bambino, puntando i piedini sul terreno.
-Magari vuole stare solo.- suggerì la donna, sospirando.
-Come si chiama?
Suor Hilda guardò quello strano bambino biondo appena sbarcato nel loro asilo. Che strano piccino, con quei grandi occhi scuri che sembravano scavare in fondo all’anima nella loro inquietante serietà infantile.
-Lui è Bill. Ora andiamo a conoscerlo.
Tom sorrise impercettibilmente, aspettando che la suora lo portasse dagli altri bambini e dicesse, sorridendo
-Bambini, lui è Tom, è appena arrivato, dobbiamo accoglierlo come si deve.
Tom non ascoltò neppure i suoi coetanei che dicevano qualche nome, grattandosi le guanciotte paffute, che gli sorridevano con quelle boccucce rosee, che lo guardavano diffidenti dall’alto dei loro quattro anni di vita. Quattro anni, ed erano già belve, avevano già capito come bisogna comportarsi in questo mondo. Quattro anni e già sapevano riconoscere l’amico dal nemico, lo strano dal normale, il potente dal debole. Già pronti a schierarsi, come piccoli soldatini senza armatura. Lui voleva andare dal bambino sotto l’albero di ciliegio. Tirò la manica di suor Hilda dopo aver biascicato un “ciao” agli altri bambini, che si misero immediatamente a giocare come se lui non fosse nemmeno esistito. Una piccola, inutile, momentanea, apparizione mattutina nel loro giocare infinito, che tutti avrebbero immediatamente dimenticato dopo pochi secondi.
Suor Hilda sospirò, accompagnando quel buffo, piccolo alunno del loro piccolo asilo verso l’albero, e verso Bill. Bill, che se ne stava rincantucciato in mezzo alle radici, le manine sporche di carbone e i suoi fogli sparpagliati per terra, tutti macchiati di carbone. “Sono loro che vengono a darmi la buonanotte”, diceva spesso Bill, quando qualcuno gli chiedeva cosa fossero quei mostri neri con gli occhi verdi. “Sono i miei amici e vivono sotto il mio letto”.
-Bill, è arrivato un nuovo bambino. Forza, saluta Tom.
Tom si grattò la guanciotta paffuta e disse un misero “Ciao”, troppo impegnato a guardare i capelli arruffati del bambino pallido che stringeva tra le dita piccole e nervose un carboncino. Bill alzò lo sguardo, vuoto e languido allo stesso tempo, e lo posò dentro gli occhi scuri e curiosi dell’altro bambino. E fu un attimo, in cui Tom si sentì pervadere da una sensazione troppo grande e troppo angosciosa per un bambino di soli quattro anni. Gli sembrò di cadere nel vuoto e di non riuscire a respirare, di venire catapultato lontano mille miglia e di venire sollevato da una forza invisibile, per poi rotolare di nuovo sul suolo umidiccio e duro del giardino dell’asilo. Si sentì pervadere da qualcosa di innominato, non appena percepì quelle pupille nere che sembravano scavargli dentro come due mostri divoratori. Distolse subito lo sguardo, arrossendo vistosamente, seguendo con lo sguardo umido di lacrime quel buffo bambino che si era alzato di colpo e si era messo a correre verso il cancello, inseguito da Suor Hilda che inciampava nell’abito monacale.
 
-Che cazzo ci fa la Polizia a scuola?- Tom si grattò i dreadlocks sporgendosi fuori dalla porta della proprio classe insieme ai suoi compagni, guardando con  curiosità alcuni poliziotti che trascinavano a forza fuori da un aula un ragazzo urlante e piangente.
-Dicono che un ragazzo abbia tentato di suicidarsi.- borbottò Julia, occhieggiando curiosamente e con una smorfia i professori che tentavano di rispedirli nelle rispettive classi e di non dare spettacolo.
-Stai scherzando?- Gustav, si alzò sulle punte dei piedi, sporgendosi oltre la spalla di Tom – Ma lo sai chi è quello?
Tom scosse la testa, facendosi largo tra la calca per vedere da vicino il “suicida” che, a giudicare dai pianti atroci e dalle imprecazioni dei poliziotti doveva essere un vero osso duro.
-Bill Schadenwalt. Quello che non ci sta con la testa.- Gustav lo raggiunse ansimando.
-Il nome non mi è nuovo ma non mi dice niente.- grugnì Tom, raggiungendo in fretta il professore di filosofia che stava cacciando quell’orda di liceali morbosi che si erano riversati nei corridoi non appena avevano sentito le volanti della Polizia arrivare – Prof, ma che è successo?
Il professore lo guardò con severità, mentre strappava il telefonino di mano a una ragazza che tentava di riprendere l’accaduto e la spediva via
-Tom, non deve interessarti.
-La prego, prof. Voglio solo sapere che succede.- insisté il rasta, inseguendo il professore nella calca, senza perdere di vista la scena dei poliziotti che trascinavano via quel ragazzo matto, che urlava e si dimenava come fosse posseduto. Cercava di fare leva sul suo sereno rapporto con l’anziano professore, delle loro pacifiche e filosofiche chiacchierate extra scolastiche e sui suoi ottimi voti in filo.
-Un ragazzo ha tentato di suicidarsi con una pistola davanti ai suoi compagni di classe. Finito. Tornatene in classe.
Tom trattenne il fiato, correndo di nuovo nella calca, evitando la prof di matematica e quella di motoria, riuscendo a svicolare ancora una volta e incontrare con lo sguardo un poliziotto particolarmente robusto che sollevava tra le braccia e trasportava Bill. E fu un attimo. Una frazione di secondo in cui Tom vide il viso splendido e femmineo di quel ragazzo distorto dalla furia e dal pianto, i capelli corvini completamente arruffati e il trucco che colava pesantemente sulle guancie, che si dibatteva impotente urlando come se fosse in preda a una vera crisi isterica, scalciando e frignando. L’attimo in cui Tom incrociò gli occhi scuri di Bill fu come una coltellata in pieno petto; nonostante la lontananza, si rese bene conto di quanto quello sguardo perforante lo avesse trapassato come fosse una spada laser. Era una sensazione che non gli era nuova, che già il suo organismo riconosceva ma a cui non sapeva dare un’origine precisa. Si sentì semplicemente trafitto dallo sguardo di quel ragazzo matto, come se gli stesse leggendo dentro l’anima, come se l’incrociarsi delle loro pupille potesse connetterli in un modo così drammatico e potente. Si sentì scandagliato e distrutto da quell’occhiata disperata e malata che lo colpì come un colpo di pistola dritto al cuore. Fu un attimo, la durata di uno sguardo talmente forte  e bruciante da farlo barcollare, e quelle labbra piene e ricoperte di rossetto nero che sillabavano (o era forse solo un brutto effetto della luce) “Salvami”. Tom lo sentì urlato nella sua testa, quel “Salvami”, così potente da fargli quasi venire un conato di vomito. Si sentì gelato sul posto, anche se già un secondo dopo Bill era scomparso dietro il portone della scuola e lui veniva spinto dalla folla verso la sua classe.
Scoprì qualche giorno dopo che Bill, prima di alzarsi di colpo e di puntarsi una pistola in bocca come aveva fatto Kurt Cobain ( solo che lui aveva usato un fucile da caccia ed era … beh, era Kurt, accidenti), si era levato di scatto la maglia e che tutti avevano potuto leggere che sulla pelle si era inciso, con un coltellino, con leggerezza, “Bill  spoke in class today” ( e Tom non poté fare a meno di pensare a quella dannata canzone dei Pearl Jam, “Jeremy” e alla voce di Eddie Vedder quando diceva con quella voce straziante che Jeremy ha parlato) e, poco più sotto “Rette Mich”. E appena capì che quel ragazzo che aveva tentato di suicidarsi e che in fondo aveva solo quindici anni come lui forse stava veramente chiamando lui a salvarlo, non poté fare altro che cominciare a vomitare.
 
Tom se ne stava seduto su quella vecchia poltrona della sala d’aspetto di quel fottuto ospedale comunale, con il braccio al collo, in attesa che lo chiamassero per levargli quella dannata ingessatura. Si era stufato di stare ore ad aspettare in mezzo a vecchi bavosi e bambini frignanti che arrivasse qualcuno a levargli quel fastidiosissimo gesso che da più di tre mesi si teneva appeso al collo. Solo lui era stato così fortunato da iniziare l’Università di Lingue col braccio al collo, delle treccine vagamente esotiche e una splendida espressione da “chi cazzo me l’ha fatto fare di venire qui a studiare russo, francese e inglese con indirizzo per approfondimento in finlandese?”. Sospirò, grattandosi il collo distrattamente, cercando di non guardare la vecchia cellulitica che vicino a lui russava mettendo in mostra una dentiera che aveva visto giorni migliori. Era stufo marcio di perdere il suo tempo in quel vecchio ospedale nella speranza che qualche medico si facesse vivo e gli togliesse quello stramaledetto gesso pieno di stupide firme e faccine cretine. Voleva avere di nuovo il braccio libero per suonare la chitarra, per scrivere a computer, per farsi il caffè da solo senza chiedere aiuto alla sua coinquilina. E buon Dio, no. Lui e Julia non stavano insieme. Anche perché l’avrebbe vista un po’ dura che un tizio profondamente gay stesse insieme a una profondamente lesbica. Sarebbe stato un controsenso, no?
-Signor Kaulitz? È il suo turno.
Trattenne un profondo sospiro di sollievo quando l’infermiera gli fece un cenno, e si alzò, stiracchiandosi e saettando tra gambe ingessate e bambini iperattivi.
L’infermiera lo guidò per una lunga serie di bianchi corridoi asettici e puzzolenti di ammoniaca, facendolo trottare per quello che gli parve un’eternità in mezzo a porte con tristi cartellini, superando malati di ogni genere e barelle che andavano avanti e indietro. E fu proprio attraverso una di quelle porte bianche, rimasta aperta, che vide un ragazzo. Un ragazzo con i capelli neri e lunghissimi, che sembrava tanto una ragazza, appollaiato su una sedia bianca di fianco a un letto vuoto. Avrebbe proseguito senza indugiare oltre se lui non avesse alzato la testa e lo avesse guardato, con quegli enormi occhi scuri contornati di trucco. Di nuovo Tom si sentì sommergere da un’onda che ben conosceva, ma che nuovamente non sapeva catalogare. Rimase incollato agli occhi di quel giovane solitario, riconoscendo l’ondata di depressione e di drammaticità che già aveva visto tanto tempo addietro negli occhi di qualcuno di cui però non gli sovveniva né il nome né il viso. Di nuovo, percepì coltelli che gli affettavano le carni, spazi intergalattici che si spalancavano sotto i suoi piedi e lo lasciavano precipitare all’infinito, prendendo sempre più velocità, sprofondando in qualcosa che sentiva suo ma che allo stesso tempo non conosceva. Un richiamo. Qualcuno lo stava chiamando dentro a quello sguardo fugace ma destabilizzante, come se una persona stesse urlando il suo nome fino a perdere la voce e lui non riuscisse a localizzarla. Cercava di capire da dove venisse, ma si moltiplicava sempre di più quella tacita ma rumorosa richiesta d’aiuto
-Signor Kaulitz? Andiamo?- la voce dell’infermiera lo riscosse, facendolo quasi barcollare dalla brutalità con cui era stato strappato a quello sguardo.
-Eh? Si, scusi, certo, arrivo … - balbettò, affrettandosi dietro alle lunghe gambe snelle della ragazza.
Il ragazzo alzò una mano in segno di saluto, un attimo, ma per Tom fu abbastanza per vedere una scritta fatta a penna sul palmo “Bill has spoken another time”. Ma dove diavolo aveva letto una frase simile? E perché quel nome, Bill, continuava a rimbombargli in testa senza motivo da oramai troppi anni?
 
-Stai scherzando? Mara ti ha chiesto di uscire? Non ci credo!- Tom rise, passandosi una mano tra i capelli scuri, rifacendosi per l’ennesima volta nel giro di un’ora il muccetto. Stavano camminando lungo la Von Eschenbach Strasse, la strada che costeggiava il fiume, ascoltando il rumore delle acque silenziose che scorrevano, illuminate dalle piccole stelle berlinesi che facevano un timido capolino nel cielo nero come la pece. Una delle solite bollenti notti estive tedesche, l’aria calda e soffocante che soffiava e muoveva delicatamente le acque torbide e oscure della Sprea, le luci dei lampioni che illuminavano con il loro pallido alone porzioni di cemento, con quelle grasse e cieche falene che svolazzavano pigramente attorno alla triste luce, il sordo rumore di qualche macchina che rombava ancora nelle strade, i suoni elettronici delle miliardi di discoteche che si svegliavano non appena calava l’oscurità, le risate lontane della gioventù berlinese che si liberavano nella notte buia e bollente, covante di vita sotto le piccole stelline solitarie e biancastre.
-Ti dico di sì! Vi rendete conto? Mi sembra di stare toccando il cielo con un dito.- Georg scoppiò a ridere facendo una sorta di  goffa giravolta, indicando il cielo.
-Secondo me ha fatto una scommessa con qualcuno. Dai, Mara che si mette con te?- Gustav scosse la testa, senza voler dare a vedere che in realtà era piuttosto indispettito. Mara, proprio lei, la mora a cui tutti, ma proprio tutti andavano dietro, sceglieva quella ciofeca di Georg. Impossibile, su.
-Sei solo invidioso.- ribatté l’interessato, dandogli una spinta.
-Però, in fondo, Mara non è sta gran bellezza.- considerò Tom, accendendosi mollemente una sigaretta e soffiando una delicata voluta di fumo chiaro nel vento bollente del sud.
-Tu sei l’ultimo a poter parlare.- Gustav soffocò una risata – Che diavolo ne può sapere un finocchio come te?
-Sarò anche finocchio quanto vuoi, ma gli occhi ce li ho ancora. Ha il mento troppo sfuggente e gli zigomi troppo schiacciati.- Tom lo guardò con fare eloquente.
-E tu me la cassi solo per il mento e gli zigomi? Ma le hai guardato il posteriore, e le curve, e il davanzale?- sbottò Georg, con gli occhi comicamente dilatati.
-Ma dai, su, non potete classificare una ragazza solo in base ai numeri. Mi sembrate il protagonista di quello stupido libro che sto traducendo.- Tom scosse la testa, affondando la mano dentro il tascone della felpa troppo larga, impregnata di fumo e di fritto da fare schifo.
-Che libro è?- chiese Gustav, attaccando voracemente un pacchetto di patatine.
-Una stronzata scritta da un americano, che parla di un ragazzino del college che non ha successo con le ragazze e che quindi parte per un “viaggio ricreativo” insieme a tre suoi amici su un Volkswagen cadente verso la Florida per ritrovare loro se stessi e divertirsi.- Tom tirò fuori dalla tasca un libro spiegazzato, con la copertina chiazzata di caffè e lo mise sotto al naso dei due ragazzi.
Georg lo prese in mano, osservando la foto macchiata di un T1 verde acqua con grandi fiori dipinti sopra e due surf posati affianco in copertina, il titolo scritto a caratteri cubitali “Me, a Tie and a Daydream” in un tripudio di colori fluorescenti.
-“Io, una cravatta e un sogno ad occhi aperti”. Che diavolo c’entra la cravatta?
Tom alzò le spalle, rintascando la sua copia
-Il protagonista ha una cravatta a righe che era appartenuta a suo zio e che si porta sempre dietro, tipo cimelio di famiglia. Ma poi che ne so, non voglio nemmeno capire cosa c’è scritto, e figurarsi che sono appena a tre quarti di libro. Non oso immaginare come vada avanti sto scempio.
-Posso sapere perché tutte le cose più deficienti le danno tutte a te?- Gustav scoppiò a ridere, ricordando ancora la faccia sconvolta di Tom quando si era ritrovato davanti un libro francese che parlava dell’arte erotica dell’Impero Cinese.
-Ispirerò deficienza, cosa ti devo dire?- grugnì Tom, sbuffando un altro soffio di sigaretta nel venticello che aveva cominciato ad alzarsi. Ora, sua madre era sempre così entusiasta quando diceva alle sue amiche che “Il mio Tom è diventato un traduttore di libri, articoli di giornale e manuali veramente eccellente. Traduce dall’inglese, dal francese e dal russo”. Santa donna, si diceva sempre il ragazzo, quando la vedeva così fiera del suo mestiere da accattone con un filo di cultura. Beh, lui solitamente cercava di eludere l’argomento quando usciva fuori con dei suoi coetanei. Perché finiva sempre che le ragazze dicevano il solito, tranquillo, commessa o cameriera, o apprendista segretaria, insomma i tipici lavori da neo laureate non particolarmente brillanti. I ragazzi riuscivano sempre a tirare fuori poliziotto, apprendista avvocato, ma anche un sempre utile elettricista, o portuale. Poi arrivava lui, che diceva, tentando di nascondersi nel divanetto del pub in questione e di diventare un tutt’uno con la tappezzeria, “Ehm, traduttore di romanzi”, facendo solitamente scoppiare un moto d’ilarità nella gente. Che poi, non era colpa sua se era particolarmente portato per le lingue ma si era trovato a spendere tutti i suoi giorni, appena uscito dall’Università, a tradurre libri e saggi, solitamente quelli più stupidi e inutili. Ringraziava il Cielo di aver trovato subito lavoro, quello ovviamente, ma a volte era veramente deprimente essere lì, mentre tutti dormivano a dover completare la sua traduzione. La scena più tipica che si poteva vedere nel suo microscopico appartamento sulla Brandenburg era lui, alle tre del mattino, con un paio di occhiaie talmente gonfie da fare paura, appollaiato sul divano a scrivere a computer le ultime pagine della nuova traduzione che gli avevano spedito, ovviamente in terribile ritardo con la consegna (perché in fondo Tom era perennemente in ritardo), con cinque lattine di birra sparse ai piedi, dieci pacchetti di patatine alberganti sul pavimento, la tv che trasmetteva per la decima volta la quinta stagione di House of Cards, la canottiera unta e bucata, la barba di almeno tre giorni, i capelli sporchi e appiccicati al collo, i pantaloni della tuta talmente luridi che galleggiavano da soli, scatole di cibo cinese che invadevano il pavimento insieme a un numero imprecisato di tazze di caffè vuote e una splendida espressione da cane rabbioso stampata sulla sua faccia. Perché Tom alla fine si riduceva sempre a leggere e a tradurre i libri che gli venivano assegnati dalle case editrici negli ultimi giorni disponibili, quelli dove i traduttori normali finivano di mettere i puntini sulle i. Beh, lui era alternativo. E meno male che il suo capo, nonostante lo avesse più volte minacciato di licenziamento in tronco ed estromissione a vita da tutte le case editrici tedesche, apprezzava molto le sue traduzioni e così lo lasciava stare nel suo mondo fatto di cibo grasso, vestiti unti, e televisione. Un po’come faceva Julia, in realtà. Che poi, probabilmente gli abitanti del palazzo erano convinti che loro due fossero anche sposati, visto che convivevano in quel lurido appartamentino da quando avevano diciannove anni ed erano sbarcati a Berlino per l’Università, quando lui aveva ancora le treccine e lei aveva la fissa dei boccoli. Ed erano tranquillamente passati sette anni, e tutti e due, a quasi ventisette anni, continuavano a rimanere i soliti squattrinati di sempre, che litigavano come due cani, che si volevano bene, che non riuscivano a uscire dalla loro situazione rimasta stagna da quando erano arrivati nella capitale e che tiravano avanti, anche se lui adesso non aveva più le treccine ma i capelli lunghi e lisci e lei era tornata a lisciarseli meticolosamente con la piastra. Ah, e che ovviamente lei si era trovata da un annetto circa una ragazza fantastica, mentre lui rimaneva il solito single senza via d’uscita di sempre. E Tom non avrebbe mai dimenticato la volta in cui erano stati invitati al matrimonio della cugina di Julia (che poi, lui se ne sarebbe guardato bene dall’andarci, ma la fantomatica cugina aveva insistito che Julia avrebbe dovuto accompagnarsi di un “cavaliere”, ignorando il fatto che l’amata cuginetta mai avrebbe potuto avere un cavaliere. Forse una principessa.) e così erano andati, tutti e due, vestiti con smoking unto e bisunto affittato dagli indonesiani sotto casa lui, e con abitino bianco succinto rubato alla vicina lei, e Tom si ricordava ancora tutta la sfilza di complimenti che avevano fatto a quella “coppia fantastica” che erano. Peccato che poi era finita con Tom che si faceva lo sposo nei bagni della Chiesa, all’insaputa dell’ignara sposa, e che Julia si faceva contemporaneamente la damigella. Oh, sì, Tom e Julia erano veramente una coppia fantastica.
-Più che deficienza, ispiri accattonaggio.- commentò Georg, incassando ridendo il pugno che puntualmente Tom gli diede sulla testa.
-Perché infatti voi ispirate grandi sentimenti.- disse Tom – Dai, un traduttore, un barista e un agente immobiliare. Un bel trio per un film di Woody Allen. Se poi ci aggiungiamo Julia, che è pure ebrea, siamo veramente pronti per sbancare sulla scena hollywoodiana  con “Midnight in Berlin”.
-Eh, non sarebbe malaccio.- acconsentì Gustav, ruminando un’altra patatina – In più, con due ragazzi omosessuali che dividono l’appartamento e un brillante trasferimento da una città di periferia come Magdeburgo, siamo certi che il buon, vecchio Woody ci assolda subito come cavalli di battaglia per il nuovo Oscar.
-E se farò l’attore, Mara cadrà definitivamente ai miei piedi.- sorrise compiaciuto Georg, sfregandosi le mani.
-Ragazzi! Scusatemi, ragazzi!
Una voce piuttosto acuta e affannata rimbombò nella via, facendo immobilizzare i tre amici. Beh, evidentemente stava chiamando loro. Visto che quell’anziana coppia di vecchietti che transitava non potevano venire etichettati esattamente come “ragazzi”. Si girarono tutti e tre, incuriositi, e videro sopraggiungere di corsa un ragazzo, che barcollava su un paio di stivali col tacco a spillo esageratamente alti.
-Se è una drag queen che ci vuole accalappiare, Tom distoglila e noi ce la battiamo.- sussurrò a denti stretti Gustav, pronto a darsi alla fuga.
-Hai bisogno di qualcosa?- Tom non stette a sentire l’amico e si avvicinò al ragazzo ansimante e instabile sulle gambe lunghe e magre (e che gambe, si ritrovò a pensare Tom, dandosi poi del pervertito da solo), appoggiato al parapetto del fiume, il respiro pesante di chi aveva appena fatto una corsa sfiancante.
Il ragazzo alzò lo sguardo su Tom, un debole sorriso gli decorava le labbra piene e ricoperte di un tenue rossetto, i capelli biondo platino tenuti indietro da un quintale di gel rilucevano sotto la luce malaticcia del lampione, i grandi occhi scuri ombreggiati da quintali di trucco brillavano di una luce esaltata, i piercing sulle orecchie e sulle sopracciglia brillavano sinistramente, i succinti vestiti neri gli fasciavano un corpo magrissimo e slanciato, quasi femmineo.
-Non mi riconosci?- sussurrò, sorridendo un po’ più apertamente e sfarfallando le lunghe ciglia ricoperte di mascara argentato.
Tom si grattò nervosamente la guancia, con un’espressione un po’ da allocco.
-Ehm, veramente io … no. Ci conosciamo?
Ok, lui non era fisionomista, proprio per nulla. Però cavolo, se avesse conosciuto un tipo così appariscente se lo sarebbe ricordato! (E un fondoschiena così mica lo trovi tutti i giorni, gli suggerì la coscienza. Vero anche quello. Tom non dimenticava i ragazzi potenzialmente scopabili, proprio no).
-Certo che ci conosciamo!- disse il ragazzo, con quella voce suadente e melodica, dolce e vibrante. – Fante di Picche, ti sei dimenticato di Alice?
Tom sbatté incredulo gli occhi, assumendo una buffa espressione corrucciata
-Ehm, no. Scusa, ma temo che tu mi abbia confuso con qualcun altro.
-Io non mi confondo mai.- il ragazzo biondo incrociò la magre braccia al petto – Davvero, non sai chi sono?
-Ti ho detto di no.- disse pazientemente Tom, sentendosi fastidiosamente scandagliato da quei grandi occhi caramellati che lo analizzavano come se fosse una cavia da laboratorio, e cercando di ignorare le occhiate terrorizzate di Gustav e i gesti che lo invitavano a una fuga precipitosa di Georg. – Sul serio, non ti conosco. Magari cerchi qualcuno che mi assomiglia, ma ti assicuro che io e te non ci siamo mai visti prima.
-Ti dico che ci siamo visti tre volte, invece.- il biondo sbatté un tacco per terra, innervosito – Tre volte, come la Trinità, come le tre donne di Klimt, come le fasi di vita di un uomo. Tre volte!
Il ragazzo cominciò a contare sulle lunghe dita pallide il numero tre.
Tom prese un profondo respiro, passandosi una mano tra i capelli. Perfetto, proprio la serata ideale in cui beccarsi un malato mentale che tentava di tacchinarselo citando Klimt e Alice nel Paese delle Meraviglie. Ci mancava giusto il matto, per i loro film da proporre al vecchio Woody. Magari ci usciva pure l’Oscar come Migliore Sceneggiatura Originale.
-E io sono certo di no.- continuò, tentando di non perdere la calma, e di tenere buona la coscienza che tornava a bussare. In effetti, da quanto era che non faceva sesso con qualcuno? Tipo … un mese? Si sentiva peggio che quello sfigato cronico del protagonista di quel fottuto libro. Ok, non era quello che avrebbe dovuto pensare di un ragazzo completamente fatto (o completamente matto), ma, seriamente, come poteva non soffermarsi a guardare quel fisico scheletrico e malaticcio, che lui trovava semplicemente da urlo, e quel visino che non aveva niente a che invidiare a quelle bambole vittoriane?
-Ah.- il biondo abbassò lo sguardo sugli stivali neri borchiati, con quei tacchi a stiletto troppo alti, sbiancando ancora di più sotto quelli che potevano essere tripli strati di ciprie e fondotinta bianchi.
-Mi dispiace ma … - biascicò Tom, non osando toccargli quella spalla pallida lasciata nuda dalla maglia a rete che gli ricadeva troppo larga sul petto magrissimo. Le sue spalle sembravano i rimasugli di un paio di ali angeliche, o demoniache. Come se lo avessero strappato a forza dal Paradiso o dall’Inferno e gliele avessero bruciate, con milioni di sigarette vilmente umane, lasciando due tristi e doloranti monconi che si muovevano come ciechi occhi nel buio. A Tom sembrò quasi di intravedere i due rimasugli della sua struttura alata fatta di ossa, e immaginò un enorme paio di ali da pipistrello che si aprivano dietro la schiena del ragazzo.
-Scusami.- i grandi occhi del ragazzo, brillanti sotto quintali di lustrini e mascara argentato, si posarono di nuovo sul viso di Tom – Io … non … pensavo fossi lui. Ma se non lo sei allora … come non detto … addio.
Tom non realizzò nemmeno quando afferrò il tipo per il polso magro e coperto da enormi bracciali tribali, stringendolo nella sua morsa forte.
-Sei sicuro di sentirti bene?- sussurrò. E poi perché cazzo gli era rimasta sta specie di spirito da Giovane Marmotta, di quando era ancora uno stupido scout di otto anni? Non aveva fatto che metterlo nei casini, come quando si era offerto di portare alla vecchietta di sopra le borse e lei lo aveva preso a ombrellate chiamandolo “Vile ladro e violentatore di signore in età!”. Beh, ora era più o meno uguale. Perché preoccuparsi di un demone caduto giù dall’Inferno? “Lascia stare i demoni, Tom, ne hai già abbastanza per conto tuo per doverti sobbarcarti quelli degli altri” gli suggeriva sempre la zia Gretel, davanti a una calda tazza di cioccolata bollente e un ginocchio sbucciato dopo essere caduto dall’altalena della fattoria della zietta.
-Certo che sto bene. Io sono felice- sussurrò il biondo, guardando la mano grande e callosa di Tom circondargli il polso delicato e pallido e togliendolo delicatamente dalla sua presa, indietreggiando lentamente, con quel sorriso malinconico e vagamente clownesco stampato sulle labbra truccate – Bill é sempre felice dopo che ha trovato i suoi amici.
Tom spalancò gli occhi, aggrottando le sopracciglia
-Come, scusa? Non credo di …
-Sono nella mia testa.- il ragazzo scoppiò a ridere, con un filo di isteria nella voce. E poi alzò finalmente lo sguardo, puntandolo negli occhi di Tom. E per il ragazzo fu una sorta di brutto dejà vu, un viaggio a ritroso in momenti della sua adolescenza che si era tranquillamente dimenticato, che aveva pensato bene di seppellire sotto strati di avvenimenti e libri. Qualcosa si risvegliò dentro la sua coscienza, un sentimento che si era adagiato in mezzo a piccoli parti di vita, scavandosi un comodo rifugio sotto i ricordi confusi di Magdeburgo, sotto le risate dimenticate, i suoi vecchi sogni, i rimasugli della sua spensierata infanzia, le stupidate che continuava a ripetere come fosse sempre un eterno bambino. Cominciò a risalire in superficie, a riaffiorare nella mente confusa e trasognata di Tom, bussando all’anticamera del suo cervello e rifacendosi largo, ricordandogli la sua esistenza nascosta ma sempre pronta a uscire allo scoperto. Perché indubbiamente il corpo di Tom conosceva quello sguardo languido e drammatico, disperato ma malizioso, innocente ma diabolico. Era una forza che lo aveva già scosso in precedenza, ma a cui non sapeva dare un nome, un’origine. Non la ricollegava ma la riconosceva, come fosse un cieco che si trova sotto le mani la stessa persona dopo tanti anni. Eppure sapeva che in  qualche modo era una cosa già vissuta, e che si ripeteva, come un avvertimento in una lingua che per lui era troppo criptica per essere compresa a fondo. Si sentì semplicemente scandagliato da quegli enormi occhi truccati, vuoti ma allo stesso tempo ridondanti di infantile tristezza, che sembravano leggergli all’inverso nelle pupille, cercare nel suo subconscio qualcosa che lo potesse aiutare nella sua strampalata ricerca.
-Evidentemente mi sono sbagliato.- il biondo si passò una mano tra i capelli indubbiamente tinti, distogliendo lo sguardo e facendo quasi barcollare Tom, come se avesse tagliato un filo elettrico – Scusami. Ci assomigliavi così tanto … pensavo che potesse essere il solo ad essere così perfettamente imperfetto. Forse allora non è l’unico al mondo.
-Ahem, non c’è problema, figurati, io … - cominciò a balbettare, guardando il collo niveo del ragazzo, appesantito da grosse collane di perle.
Avrebbe voluto dire qualcosa di geniale, di intrigante, qualcosa che lo rendesse anche solo un minimo interessante agli occhi del biondo come il tizio che evidentemente gli assomigliava, ma gli venne fuori solo la sua migliore espressione da allocco patentato mentre guardava il ragazzo fargli un mezzo sorriso apologetico e poi cominciare a correre nella direzione del Banhof Zoo, le lunghe gambe che saettavano come quella di una gazzella nella cupa mezzanotte berlinese, i capelli platinati che rilucevano come le borchie sotto le incerte luci dei lampioni.
-Oh Tom, ma si può sapere chi era?- Georg gli si avvicinò guardingo, posandogli una mano sulla spalla.
-Era una drag queen? Avevo ragione?- insisté Gustav – Stava cercando di estorcerti una nottata insieme?
-Ma che drag queen, Gustav, era un ragazzo che mi ha scambiato per qualcun altro, si è solo confuso.- sbottò Tom.
-Sbaglio quando dico che doveva essere particolarmente attraente?- Georg sogghignò, vedendo l’espressione sempre vagamente trasognata del suo amico.
-Chiamalo attraente, Geo. Era una stella del firmamento.- mormorò Tom.
-A me sembrava solamente uno drag queen tossica, anoressica e affetta da AIDS.- commentò Gustav, attaccando il secondo pacchetto di patatine – Belin, Tom, se quello era bello, io nella mia vita precedente ero Gloria Swanson.
-Senti un po’, qui dentro quello frocio sono io, quindi, sono io che decido se un uomo è bello o no. Hai mica cambiato sponda?- Tom gli diede una amichevole spinta, spettinandogli la zazzera bionda.
-Ehi! Non insinuare!- Gustav cercò di ricambiare la spinta, borbottando qualche insulto tra i denti.
Tom si sciolse lo chignon, passandosi una mano tra i capelli, cercando di riordinare nella sua mente confusa quella specie di visione surreale che si rifletteva nel suo cervello come fossero una cascata di luci che si riflettevano sull’oscura Sprea che scorreva placidamente vicino a loro. C’era qualcosa che effettivamente non gli era nuovo in quel buffo ragazzo confuso e matto. Come quegli occhi, e quello sguardo che avrebbe distrutto la Muraglia Cinese con una sola occhiata, che avrebbe sciolto Stalin, che avrebbe spezzato il diamante puro. O anche quel nome che aveva detto, quel Bill, un nome tanto semplice e elementare quanto rimbombante da anni nella testa di Tom, perché erano anni che lui ogni tanto, nella veglia delle cinque del mattino sentiva delle voci che gemevano quel “Bill”, che gli facevano scorrere quelle quattro lettere davanti nonostante lui si ostinasse a non ricordare se avesse mai conosciuto qualcuno che portasse quel nome. Oppure quell’accenno ai Nirvana, quella citazione lampo di Lithium, che gli aveva fatto riverberare nel cervello una vecchia immagine che oramai il suo cervello aveva voluto cancellare. Eppure vi doveva per forza essere qualcosa legato al suo passato, immagini, fotografie dell’attimo, suoni, era come se avesse richiamato alla luce ricordi che nessuno avrebbe dovuto svegliare. Non ricordava nulla di chiaro, solo immagini flash senza un ordine preciso. E sembrava quasi che la visione del biondo tinto avesse risvegliato il suo vecchio Io, in pezzettini, lasciando stranito ma allo stesso tempo assurdamente rilassato. Eppure era sicuro di non averlo mai visto prima. Cercava di auto ribadirsi il concetto: se lo sarebbe ricordato, e ok che aveva la memoria di un criceto ritardato, ma un tizio come il biondo di prima era qualcosa di indimenticabile.
-A questo punto, abbiamo anche l’inizio del film assicurato.- commentò Georg – Un incontro notturno con una figura dalla discutibile sanità mentale.
-Figlioli, siamo i nuovi Saranno Famosi.- rise Tom.
-Quella cazzata di Saranno Famosi, solo te potevi guardarla.- Gustav sospirò – E comunque, che ne dite se ci infiliamo in un altro pub?
-Hai ancora dei soldi in tasca?- Georg fece tanto d’occhi.
-No, ma semmai mandiamo avanti Tom che si tacchini la cameriera e così ci molla la roba a scrocco.- Gustav gonfiò il petto, fiero dei suoi geniali piani d’assalto ai bar.
-Però sta cosa me la dovrai spiegare un giorno: sono l’unico, e dico l’unico, gay di tutta la compagnia e mandate sempre me a fare il filo alle donne. Perché? Cioè, non so manco da dove iniziare a fare complimenti per scroccare la roba!- sbottò Tom, memore di tutte le volte, da quando avevano quindici anni, che veniva spedito avanti con il compito di incantare la ragazza in questione e prendere il bottino di guerra. E poi gli toccava fare di tutto per tenere lontane quelle galline che tentavano di estorcergli prima baci e appuntamenti, poi a mano a mano che cresceva anche rapporti intimi. Era dura la vita del migliore amico.
-Tu hai il sex appeal che piace alle donne di cui noi siamo sprovvisti.- spiegarono in coro i G&G.
-Comunque, no. Oggi ve l’arrangiate da soli, io e Lloyd torniamo a casa- prima che Georg e Gustav chiedessero chi mai fosse Lloyd, si affrettò ad aggiungere – No, non ho un amante, è semplicemente quel coglione del protagonista del libro che, sì, oltre a essere un deficiente ha pure un nome deficiente.
-Mi stavo infatti chiedendo come mai ti fossi andato a scegliere un amante con un nome così orribile.- commentò Gustav, passandosi una mano unticcia nella zazzera bionda ancora più unticcia.
-Piuttosto, perché vuoi andare a casa? È solo l’una di notte.- Georg lo guardò con aria interrogativa, pronto a lanciarsi in uno di quei terzi gradi che solo lui poteva fare, direttamente scopiazzati da C.S.I. e dal Tenente Colombo.
-Potrei dirti che sto crollando dal sonno, ma non mi crederesti, vero?- Tom gli lanciò un’occhiata penetrante.
-Beh, per uno che riesce a stare tre giorni senza chiudere occhio a tradurre tomi di ottocento pagine dal russo, diciamo che sarebbe improbabile.- Georg assunse un’espressione vagamente simile a quella di Nero Wolf.
-E se ti dicessi che voglio andare a vedere come sta Julia?
-Ci credo ancora meno, visto che voi due siete il prototipo perfetto di gemelli coltelli.
-E allora non potresti farmi andare pacificamente a casa?
-Nemmeno questo, perché non sia mai detto che Tom Kaulitz vada a casa prima delle tre del mattino.- Georg fece un’aria saputa – Sputa il rospo. Secondo me c’entra la drag queen di prima.
-Grazie al tubo, Holmes. A quello c’ero arrivato anche io.- grugnì Gustav – Su, Tom, dettagli! Ci scommetto che ti stava ricattando con qualche sporco trucco.
-E meno male che poi ero io quello che vede troppi film e legge troppi libri.- Tom si mise le mani nei capelli – Primo, non è una dannata drag queen, come ve lo devo dire?! È solo un ragazzo che evidentemente si concia in modo un po’ … ehm … appariscente e che è indubbiamente, palesemente, terribilmente effeminato. Secondo, non mi stava ricattando, Gus, si è solo confuso. Guarda che può succedere di sbagliare.
-Però deve averti detto qualcosa di conturbante.- profetizzò Georg – E noi, in qualità di tuoi migliori amici, vogliamo sapere cosa ti ha detto. Saremo anche un po’ brilli, ma le tue smorfie le vedevo.
Tom alzò gli occhi al cielo, volendo scomparire nella Sprea e non tornare più su.
-Accidenti che pettegole che siete! È solo che … va bene, ok, era particolarmente insistente per uno che canna persona. E poi ha cominciato a dire che c’eravamo già visti tre volte, e a fare strani paragoni col numero tre, e poi ha tirato fuori Alice in Wonderland e un certo Fante di Picche, e ha attaccato con citazioni caotiche dei Nirvana, e poi niente. Se ne è andato, è scappato.
-Allora era un bucomane. Anzi, no i bucomani sono apatici, forse uno strafatto di acidi. Sì, sono sicuro.- Gustav assunse un’espressione da grande esperto – Se era sballato di LSD, avrà avuto delle visioni metafisiche e così ci spieghiamo tutta la schizzata.
-Non era fatto.- rispose Tom, rivedendo per un intensissimo attimo quei pozzi senza fondo che erano gli occhi dell’affascinante sconosciuto – Aveva le pupille normali. E il tono di voce fermo. Senza contare che barcollava solo perché aveva i tacchi alti almeno 10 centimetri. Ma no, Gustav, era solo un tipo clownesco, vagamente grottesco, forse un po’ mentalmente instabile.
“Ma allora” gli ricordò la coscienza “se fosse solo una figura così, perché ti sei trovato a dover combattere contro ricordi che avevi cercato di cancellare tanto tempo addietro? Come mai sai di aver riconosciuto quegli occhi, di averli già sperimentati quando eri bambino? Come mai non ti è nuovo quel nome e quella stupida citazione di Kurt Cobain? C’è qualcosa che non ricordi, Tom, qualcosa che hai tentato di scordare ma che è involontariamente rimasta nel tuo oscuro subconscio. E lui l’ha risvegliata. Ragiona, Tom, ragiona: perché non ti è nuovo nulla del biondo tinto di prima?”
-Ragazzi, sapete bene che ho la memoria straordinariamente corta- esordì, rifacendosi per almeno la centesima volta la coda – Perciò approfitto del fatto che ci conosciamo da quando siamo venuti al mondo per chiedervi: abbiamo mai avuto, nel nostro giro a Magdeburgo, un amico o un conoscente, o anche un parente di qualche nostro amico, che si chiamava Bill?
-Bill? No, non mi pare.- disse Georg, grattandosi il mento – No, nessun Bill. C’era Wilhelm, ma lo abbiamo sempre chiamato Helm, mai Bill, e nemmeno Will.
-Nah. Mai sentito.- annuì Gustav. – Perché ti interessa?
-E qualcuno impallato, ma proprio fissato intendo, con i Nirvana, i Pearl Jam, il grunge in generale? Conoscevamo qualcuno?- insisté Tom.
-A parte te nessuno.- commentò Georg – Intendo, c’era Frederick ma …
-Ma va beh, Fred è come me, su, fans normali.- tagliò corto Tom – Io ne voglio uno che non vedeva altro.
Gustav scosse energicamente la testa
-Nessun groupie ritardatario di Cobain, mi dispiace. C’era Dana, ma lei era quella con la fissazione dei Iron Maiden e dei White Snake, non conta.
-Dio, Dana e quella dannata “2 Minutes to Midnight” sparata a tradimento nelle orecchie mentre dormivo … figlia di … - ricordò Georg, grugnendo di disappunto al ricordo di quella brutta mattinata in campeggio.
Tom annuì distrattamente, cacciandosi di nuovo le mani in tasca e limitandosi a dire
-Andata, ragazzi, io torno sul serio a casa. Devo rimuginare.
-Tom che rimugina: domani nevica.- commentò Gustav, beccandosi la solita spallata piena di insofferenza.
E Tom cominciò a veleggiare silenziosamente verso casa, senza ascoltare le battute dei G&G, alla perenne ricerca di un altro pub, le mani affondate nelle tasche e strette attorno a quel dannato libro spiegazzato e unticcio, la sigaretta che ormai spenta gli pendeva all’angolo della bocca. Avrebbe chiesto a Julia qualche illuminazione, lei aveva una memoria di elefante, se lo sarebbe sicuramente ricordato se c’era qualcheduno impallato con il grunge americano degli anni 90, e che magari, casualmente, si chiamava pure Bill. E indubbiamente, nei ricordi confusi che il biondo gli aveva tirato fuori dal suo addormentato subconscio, c’era anche una pistola e un attacco di vomito improvviso, ai quali però non sapeva dare una consequenzialità e un filo logico. Solo, una pistola, la scuola, vomito, e il vago ritmo di una canzone dei Pearl Jam che gli rintronava i canali uditivi senza però riuscire a capire di quale canzone si trattasse.

***
Buonasera ragazze! Eccomi qui tornata con un'altra storia (per chi mi conosce già: sì, sono una palla lo so, ma non posso fare a meno di scrivere stupidate e impestare il sito). Innanzitutto, spero che il primo capitolo vi sia piaciuto, anche se non si capisce un tubo di niente ed è scritto da cani come al solito. Prometto che la storia si farà più interessante andando avanti, ovvio (sperem); ci sarà tanto, ma tanto angst, stemperato da quel coglione di Tom (si, Tom, lo sai che ti voglio bene amico) ma anche un po' di fluff che non guasta mai. Poi non so, visto che ho paura di cosa uscirà fuori (leggo troppi libri, devo darmi una calmata) ... spero solamente che mi vogliate lasciare una recensione per sapere che ne pensiate, se vale la pena di continuarla o no
Grazie a tutte, fatevi sentire, un bacione
Charlie ;*
P.S. il frontisterion è il "pensatoio" in greco, termine coniato da Aristofane nella sua commedia "Le Nubi", dove Socrate e i suoi filosofi si rintanano in questo frontisterion ... un po' come Tom, dai.
P.S. 2: riferimenti a Nirvana e Pearl Jam assolutamente veri

 

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Capitolo 2
*** E' tutto nella mia testa ***


CAPITOLO TRE: E’ TUTTO NELLA MIA TESTA

Tom si ritrovò quindi seduto per terra nel corridoio del primo piano del Flugel, guardando dal basso la fiumana di gente che andava e veniva e che non li degnava di uno sguardo, al fianco dell’affascinante biondino che come se nulla fosse continuava a battere a computer il suo pacco di fogli. Tom si schiarì la voce, incrociando le gambe e passandosi una mano sul viso
-Comunque, io mi chiamo Tom. Piacere di conoscerti.
Gli tese la mano, con un sorriso il più accattivante possibile sul viso, sentendola presto accarezzata da una mano pallida e scheletrica, le dita sottili ridonanti anelli di ogni foggia e dimensione, le unghie lunghe e smaltate di un improbabile rosso ciliegia venato di bianco.
-Io sono Bill. E ti conosco da tanto, tanto tempo.
Tom annuì, evitando di insistere come aveva fatto la notte prima, lasciando semplicemente il suo sguardo vagare per il profilo perfetto di Bill, studiando gli anelli che gli ciondolavano dalle orecchie. Bill, che razza di nome stupido, lo stesso che lo accompagnava passo passo nel suo subconscio più nascosto e indecifrabile.
-Cosa stai ascoltando?- chiese, per interrompere quel fastidioso silenzio che era calato tra loro due, reietti della società, abbandonati per terra a guardare tutti gli altri conquistarsi un posto di rilievo nella vita.
-I Soundgarden.- rispose atono Bill, alzando un po’ il volume di You Tube. – Mi è sempre piaciuta la musica grunge.
 -E’ indubbiamente interessante.- commentò Tom, riallacciandosi ai suoi vecchi e confusi ricordi di musica grunge a cui non riusciva comunque a dare un volto e una storia. Solo un’accozzaglia di suoni senza padrone e immagini talmente sgranate da risultare indecifrabili. – E si può sapere come mai sei qui? Non hai un ufficio tuo?
Bill lo guardò, sfarfallando i grandi occhi scuri elegantemente truccati. Era molto più sobrio rispetto alla notte precedente, pensò Tom. Ora sembrava solo eccentrico, non sembrava una battona da angiporto.
-Certo che ho un ufficio mio.- rise, gettando indietro la testa, e Tom si trattenne dal non sbavare a vedere quel meraviglioso collo da cigno. Una briciola di contegno ce l’aveva anche lui, in fondo al cuore. Ma proprio in fondo, eh. – Però non lo uso.
Bill si scompigliò i capelli, continuando diligentemente a scrivere, le lunghe dita aggraziate che scivolavano con una delicatezza unica sulla tastiera del computer, senza fare il minimo suono, nemmeno stessero danzando silenziosamente sull’acqua. C’era lo spirito di un balletto da Lago dei Cigni nella sua grazia principesca nello scrivere quello che stava scrivendo.
-Sai, Tom, mi fa paura. L’ufficio, intendo.
-Come fa a farti paura un ufficio?- Tom spalancò gli occhi, per poi tapparsi la bocca subito dopo. Era sempre troppo, dannatamente impulsivo.
-C’è una vetrata che dà sul retro della strada, vagamente sullo stile newyorchese. Beh, a me fanno paura i vetri troppo grandi. Non ci metterei niente a volare.- Bill mimò con le mani un paio d’ali – Ma io non voglio ancora volare, Tom.
-Un uomo non può volare, Bill. È impossibile.- Tom rise, anche se qualcosa dentro di lui gli suggeriva di non prendere tanto alla leggera quel discorso. Qualcosa di fastidioso, di pressante, che cercava di metterlo in guardia da quel ragazzo e dalla sua voce cantilenante e melodiosa.
-Sono d’accordo, Tom. Un uomo non può volare. Ma io posso.- Bill gli fece un largo sorriso, continuando a scrivere. – E comunque, stare in corridoio è più divertente. Vedi, puoi guardare la gente senza che lei ti veda. Puoi studiarla, fissarla, discernerla da tutti gli altri. Si imparano tante cose dagli altri, soprattutto quando agiscono ignari di essere osservati. Loro non mi vedono, perché sono talmente diverso dai loro canoni razionali da non poter nemmeno essere percepito.
Tom annuì di nuovo, guardando incantato il viso di Bill, cercando di ricordare la minima traccia del suo viso, senza giungere però a nessuna conclusione. Si sentiva strano, perché Bill non era normale, era palese. Aveva la follia negli occhi, nella voce, nel suo comportamento, Tom la avvertiva chiara eppure per qualche motivo non ne aveva paura. Lui, che era sempre stato messo in soggezione dalle persone considerate “pazze”, che era sempre stato inquietato dai racconti dei matti in manicomio, non riusciva a vedere nel biondo il minimo pericolo. Era una pazzia che in qualche modo Tom capiva, quasi razionale nella sua irrazionalità, umana nella sua diversità evidente. Come trovarsi davanti a un congegno del futuro per noi impossibile da capire ma che riconosciamo in qualche modo come nostro, un qualcosa che deve ancora avvenire per tutti, una prima illuminazione di un futuro incerto e bruciante. C’era una lucina, in fondo a quelle pupille nere come ossidiana che illuminava a giorno la mente nervosa e confusionaria di Tom.
-Cosa stai scrivendo, Bill?- chiese, allungando il collo verso il computer.
-Un articolo di denuncia alla periferia di Berlino. Condizioni sociali, igiene, roba così. Tutto quello che una denuncia fatta come si deve comporta.- Bill gli allungò i fogli scritti a mano, carichi di svolazzi a disegnini in mezzo alle parole.
-Ma … aspetta un attimo!- esclamò Tom, osservando una firma fatta sul lato di uno dei protocolli – Non vorresti farmi credere che il giornalista che si nasconde dietro lo pseudonimo di Dafne Skuld sei tu!
Tom fece tanto d’occhi. Spesso e volentieri Julia portava a casa il Flugel, ed era inevitabile che alla fine si mettessero entrambi a leggerlo, a scorrere tra i suoi articoli che di giornale normale non avevano proprio niente. Quelli che Tom preferiva, alla faccia di tutti, erano i lunghissimi articoli scapestrati e fuori dalle righe di quella giornalista, tale Dafne Skuld. Che era la stessa firma che veniva riportata in ogni protocollo che Bill gli stava consegnando a mano a mano che copiava.
-Sì, Tom, sono io.- Bill gli sorrise dolcemente – Non mi è mai piaciuto firmarmi col mio vero nome. Quindi uso uno pseudonimo.
-Wow. Cioè, io stimo un sacco i tuoi articoli, davvero, io … - Tom scosse la testa, passandosi una mano tra i capelli, ormai dimentico dell’essere seduto per terra in attesa che gli dessero il pacco del signor Levi. – Ma posso sapere perché proprio questo nome?
-E’ semplice.- rispose Bill, scuotendo i bracciali – Dafne era una ninfa delle mitologia greca che si mutò in alloro per sfuggire alla pressante corte di Apollo; d’allora l’alloro divenne il simbolo dei poeti. Skuld invece era una delle tre Norne norrene, per precisione quella che viene assimilata all’Atropo greca. La norna della fine.
-Certo che ne sai di cose, eh Bill?- Tom guardò il suo viso perfetto che sorrideva.
-Io c’ero Tom. Ci sono sempre stato. È tutto nella mia testa, tutti i ricordi.- Bill si diede un pugnetto sulla tempia – Io mi ricordo tutto.
Tom stava per ribattere, quando la porta dietro di loro si spalancò di scatto e un grasso ometto sudato si catapultò fuori.
-Dov’è quello scocciatore di prima?!- abbaiò nel corridoio, guardandosi attorno.
-Sono io, signore.- Tom balzò in piedi – Posso prendermi il mio pacco?
-Mi chiedo perché Levi abbia mandato te, razza di volgarissimo ragazzotto di provincia!- il capo redattore si grattò il panciotto – Prendi quel dannato pacco e vedi di sparire, barbone!
Tom alzò gli occhi al cielo ma tacque, entrando nell’ufficio alla ricerca del suo pacco. In quel momento fu anche grato al capo redattore di averlo cacciato di malo modo. Gli aveva dato il tempo di fare la conoscenza di quella meraviglia della Natura che era Bill, di parlarci, di confrontarsi con quel sorriso infantile ma disarmante.
Da fuori, sentì i latrati strozzati del ciccione e le risposte placide di Bill.
-Ho finito, signore. Qui c’è l’articolo e la sua appendice.
-Non hai tagliato un fico secco come al solito, eh?
-Perché avrei dovuto?
-Vattene a casa, Bill. Per oggi ti ho già sopportato fin troppo.
-Ma non dovrei …
-Dovresti niente, decerebrato mentale! Scompari dalla mia vista!
Uscendo dall’ufficio, Tom avrebbe volentieri detto qualcosa al grassone, l’avrebbe obbligato a scusarsi educatamente, gli avrebbe tirato un pugno in testa, ma, nemmeno gli avesse letto nel pensiero, incrociò lo sguardo di Bill e con lui la tacita richiesta di non dire niente, di ignorarlo. Obbedì, stringendo il pesantissimo pacco tra le mani, tentando di vedere dove andava per non capitombolare miseramente per terra come un ciocco. Attese che Bill salutasse il capo redattore, raccattasse la roba disseminata per il suo angolino di corridoio, infilasse il tutto in un’orribile borsa di lacca rossa in pandan con le unghie, si desse una pettinata e lo guardasse con un’espressione vagamente interrogativa
-C’è qualcosa che non va?- chiese, piegando il capo di lato.
-Beh, veramente ti stavo aspettando.- rispose Tom, alzando gli occhi al cielo. Meno male che quello tardo di sinapsi era lui, eh.
-Aspettando? Dobbiamo andare da qualche parte insieme?- Bill sfarfallò gli occhi con l’espressione stupita più dolce che l’altro avesse mai visto in vita sua.
-No, però che so, potremmo fare una passeggiata insieme?- tentò Tom. Julia glielo aveva sempre detto che aveva il tatto di un bisonte e la capacità di seduzione di un ornitorinco malandato.
-Perché dovremmo andare a fare una passeggiata insieme?
Tom a quel punto avrebbe rinunciato e se ne sarebbe andato per la sua strada, era lapalissiano che non lo voleva più tra i piedi, ma qualcosa lo trattenne. Forse l’espressione genuinamente stupefatta di Bill lo convinse a restare, come se non avesse capito davvero quello che gli stava tentando di chiedere.
-Per conoscerci meglio.- affermò con una sicurezza ostentata Tom.
-Capisco.- Bill abbassò lo sguardo sugli stivali borchiati, barcollando sui tacchi a spillo. Si mordicchiò un po’ il labbro inferiore accuratamente spennellato di nero – Allora va bene, vengo con te.
Tom resisté dal fare un balletto entusiasta in mezzo al corridoio. Lui sì che aveva delle capacità di seduzione. Bisognava solo capirle.
Uscirono in strada insieme, sotto la pioggerellina fitta e fastidiosa che cadeva da nubi nere come l’inferno e pesanti come piombo; non sembravano un’accoppiata particolarmente azzeccata, un tizio disordinato e una specie di drag queen a braccetto per i vicoli di Berlino. Che poi, era Bill che gli si era appeso al braccio come fosse un’ancora, limitandosi a dire che era sempre stato il suo sogno camminare a braccetto con qualcuno fradici fin nel midollo di pioggia acida. Tom si era semplicemente trovato a tenere con un braccio il pacco, e con l’altro a tenere in piedi Bill, molto poco stabile su quei tacchi esagerati. Veleggiarono silenziosamente verso la casa editrice per la quale lavorava Tom, meritandosi una quantità di occhiatacce dalle persone della Berlino bene, sguardi increduli da alcuni teenager che li fissavano nemmeno fossero due elementi da baraccone, strilli terrorizzati dai bambini che correvano a rifugiarsi dalle loro mamme.
-Non sei di Berlino, vero Bill?- si decise a chiedere Tom, accelerando il passo verso la casa editrice pressata tra due vecchi palazzi in rovina in un vicoletto buio e sporco.
-Nemmeno tu, Tom.- fu la risposta, corredata di barcollamento e relativo incespico.
Tom lo tenne in piedi a forza, stringendoselo meglio al fianco. Era tutto il tragitto che Bill non faceva che caracollargli dietro a fatica, inciampando e traballando ad ogni passo ed era tutto il tragitto che Tom lo reggeva in piedi in silenzio, sollevandolo quasi di peso quando proprio sembrava aver perso la facoltà di movimento. Si chiese come facesse quando non c’era nessuno con lui.
-Siamo tutti e due di Magdeburgo.- continuò Bill – E ci siamo conosciuti da ragazzi, solo che tu te lo sei dimenticato.
-No, Bill, ti ho già detto ieri notte che …
Tom venne bruscamente interrotto da un dito sulle labbra
-Ci ho rimuginato su tutta la mattina. Ho ragione io, indubbiamente. Ma non ti biasimo per la tua memoria. Sono sicuro che prima o poi ti ricorderai di me.
Tom annuì stancamente di fronte a quei grandi occhi di porcellana. Aveva capito l’antifona, doveva dire tutto a Julia. Lei se lo sarebbe ricordato, o perlomeno gli avrebbe dato una mano per sapere come comportarsi.
-Ehi, Tom, sei arrivato finalmente!
I due ragazzi alzarono lo sguardo e videro, sulla porta della casa editrice un vecchietto con i lunghi capelli bianchi e dei buffi occhialini pincenez sul naso aquilino che saltellava nervosamente tra la porta e il vicoletto sudicio, facendo cenno ai due ragazzi di sbrigarsi a entrare.
-Buongiorno, signor Levi, le ho portato il pacco. Scusi se ci ho messo così tanto ma il capo redattore del Flugel non mi faceva entrare.- si scusò deferentemente Tom, posando il pesantissimo pacco in un angolino dell’incasinatissima stanza in cui erano finiti, ridondante di fogli volanti, libri di ogni sorta, macchine da scrivere, enormi rotoli di papiro, vecchi e polverosi arazzi arrotolati. Era sempre stata una stanza un po’ speciale, per Tom, con quel suo forte fragranza di caffè che impregnava le pareti di mogano scuro, l’odore dell’inchiostro che riempiva l’aria e che rimaneva inesorabilmente addosso a chiunque fosse un assiduo frequentatore, il profumo delle brioche calde con la marmellata di albicocca che il signor Levi mangiava praticamente in continuazione, l’aroma di incensi arabi che bruciavano nel grosso braciere di ferro sempre acceso anche in piena estate, l’odore stantio delle pergamene antiche e degli arazzi di cui si circondava il vecchio ebreo e che davano un tocco fiabesco allo studio. Era davvero un posto quasi magico, dove ti potevi immergere completamente nella dimensione irreale e favolosa che si creava, lasciandoti trasportare da quegli effluvi ormai quasi sconosciuti al mondo moderno, trovandoti a confrontarti con un passato incredibilmente lontano e perduto nelle sabbie del tempo, pronto a toccare quasi con mano tutte le leggende che si celavano agli occhi nel meraviglioso studiolo. La luce filtrava a stento da una grande finestra a bovindo sul retro, riflettendo sul pavimento i colori cangianti della vetrata istoriata, passanti da un profondo blu di Prussia, a un accesso rosso amaranto, per un verde Irlanda abbagliante, e un bianco avorio dai riflessi azzurrini, da un viola prugna a un arancione accecante, per poi sfumare tutto nel caldo giallo ocra di cui era dipinto il resto del vetro. Due grosse lampade di vetro soffiato di Murano illuminavano debolmente la stanza, con le loro candele quasi sciolte, dando un’aria mediorientale semplicemente splendida all’ambiente.
-Finalmente sono entrato in possesso di Potere e Sopravvivenza, di Canetti! Non sapete quant’è che lo cerco!- il signor Levi si fregò le mani soddisfatto, una luce cupida brillante nei piccoli occhietti cisposi. – Grazie, Tom. Io sono vecchio ormai, certi pesi non li posso più tirare su! Ed ecco qui tutta l’Enciclopedia del Cinema e tutta l’Enciclopedia dell’Arte e della Tecnica. Finalmente!
Il vegliardo abbracciò con una risatina gracchiante il pacco, aprendolo con le mani artritiche e scure, un sorriso bramoso stampato sulla bocca storta. Poi, nemmeno fosse stato punto da una vespa, fece un salto e si girò verso i due ragazzi immobili dietro di lui.
-Oh, ma ci sei anche tu!- saltellò davanti a Bill, la papalina ballonzolante sulla nuca – Sei il fidanzato di Tom? Te l’avevo detto figliolo che avresti trovato un tipo davvero originale.- si girò verso il ragazzo – Tom, perché non me l’hai detto prima?
-No, signor Levi, lui non è il mio ragazzo, è solo un amico.- sospirò l’interessato, sentendo Bill stringersi spasmodicamente al suo braccio. E questo, a dispetto di tutto, gli fece enormemente piacere. Forse troppo per essere solo un perfetto sconosciuto raccattato per caso per strada.
-Mi dispiace deluderla, signore, ma tra me e Toooom per ora non c’è nulla di più che tanti ricordi chiusi a chiave, che aspettano solo di essere aperti. Come Alice, ce l’ha presente?
Tom guardò con un certo sgomento misto a orrore Bill che si staccava da lui barcollando, avvicinandosi alla finestra ondeggiando sui tacchi. Si fermò di fronte al vetro istoriato, e Tom poté bearsi di come i colori assunti dalla luce che si rifletteva sul vetro decorato giocassero con il biondo platino dei capelli di Bill, tingendoglieli di meravigliose sfumature dorate, ma anche blu mare o rosso fuoco. Gli piaceva i giochi di luce che lo illuminavano, lo rendevano qualcosa di pazzescamente disumano. Come se fossero i lampi di luci dei demoni infernali che cercavano di riportarlo giù senza che nemmeno lui se ne accorgesse. C’era qualcosa di divinamente diabolico nel modo in cui sembrava sul punto di prendere il volo, come se davvero sentisse un paio di ali invisibile sulla schiena, nel modo in cui sorrideva in quel modo bambinesco e innocente ma allo stesso tempo stranamente saputo, come se fosse il bambino più vecchio del mondo. Aveva un che di speciale nel modo in cui ti guardava, vuoto e presente allo stesso tempo, come se vivesse dall’altra parte di un vetro troppo spesso per poter essere superato ma estremamente trasparente tanto da permetterti di vedere chiaramente il mondo circostante. Bill era dall’altra parte di quel vetro: sembrava vivere in una dimensione paradigmatica tutta sua, dove vedeva demoni che nessuno conosceva e parlava ad angeli che solo lui vedeva. Era di passaggio su questa terra, non si sarebbe fermato più del necessario per una rapida visita a quel mondo sconclusionato che era quello umano, ritornandosene poi sul suo stralunato pianeta perduto. Però Tom ci leggeva qualcosa di amorevolmente tenero, in lui. Qualcosa che lo aveva colpito sin dal primo momento in cui l’aveva visto, sulle rive della Sprea. Lo voleva, per qualche astruso motivo. Voleva leggergli all’inverso nelle pupille e scalfire pian piano quello che nascondeva, tirare fuori i cablogrammi che si intrecciavano in quelle iridi e dispiegarli uno a uno, cominciando a tradurli in lettere comprensibili, strappare la sua maschera e vedere cosa c’era dietro quel visino scavato e truccato, farsi strada nella sua fiumana di parole senza senso, trovare uno scampolo di normalità in tutto quello che diceva con quel tono melodioso e cantilenante. A modo suo, era un ragazzo incredibilmente eccitante. Nel modo in cui si reggeva a stento sui tacchi e su come ancheggiava come se vivesse in una passerella di alta moda, nel modo in cui rideva gettando indietro la testa facendo scintillare le innumerevoli collane, nel modo in cui ti guardava da sotto le lunghe ciglia truccate, quella luce persa ma sagace che brillava come un falso fuoco. Tom lo trovava esattamente un falso fuoco: talmente bello e invitante da costringerti a seguirlo per poi ritrovarti a colare a picco su una scogliera scoscesa, vittima delle fauci delle sirene, senza sapere dove volgere la testa per trovare il fuoco infernale che ti aveva guidato nell’oscurità.
-Dici quindi che Cleopatra non fosse la donna bellissima che tutti ricordiamo?
Tom si svegliò di colpo dalla crisi mistica in cui era sprofondato nel vedere Bill illuminato come una Madonna dalla luce riflessa delle immagini del vetro. Il signor Levi saltellava curioso intorno al biondo, fissandolo con i suoi curiosi occhietti azzurri, aggiustandosi ora la papalina ora il vestito di vecchia sartoria.
-Beh, ovviamente io di donne non me ne intendo, non in quel senso almeno, ma sono assolutamente sicuro che Cleopatra venne sopravvalutata. Aveva gli zigomi aguzzi e il mento sfuggente, per non parlare delle orecchie quadrate che aveva!- gesticolava Bill, tutto preso dalla conversazione.
-Ehm, scusate, temo di aver perso un passaggio … - Tom si grattò la testa – Come mai siamo arrivati a parlare di Cleopatra?
-Il tuo fidanzato mi stava giusto dicendo che lui era presente quando la Regina era al potere e di aver assistito anche alla sua tresca con Antonio e Cesare!- trillò l’editore, improvvisando una giga yiddish sul posto.
-Non stiamo insieme, signor Levi.- sospirò Tom – E comunque, che storia è questa? Bill che diavolo dici?
Fece tanto d’occhi, vedendo Bill sorridergli dolcemente, facendo tintinnare i bracciali e gli orecchini
-Che io ho conosciuto Cleopatra, Tom. Non mi guardare così.- gli si avvicinò ancheggiando, e Tom dovette trattenere l’occhio che cominciava a scendere verso il suo posteriore perfetto e anche la bava pronta a colargli sul mento. Non doveva fare la figura del malato di sesso, come lo definiva sempre molto amabilmente Julia, anche se probabilmente ce l’aveva già fatta. – E’ tutto qui dentro.- Si picchiettò con l’indice sulla tempia, facendogli un largo sorriso – La storia del mondo è qui.
Tom avrebbe voluto ribattere, rispondere che non era possibile, che stava scherzando, eppure non ce la fece. Solo a guardarlo, a vedere la sincerità brillante nei suoi occhioni da panda non riuscì nemmeno ad aprire bocca. Gli sarebbe dispiaciuto troppo contraddire quella bambolina preziosa che era Bill.
-Certo Bill, è tutta lì.- acconsentì passivamente, per poi prenderlo di nuovo a braccetto prima che rovinasse di nuovo per terra e girarsi verso quel vecchio matto di Juda Levi dicendo – Bene, signore, allora …
-Senti un po’ tu Tom!- il vegliardo sembrò essersi svegliato dalla crisi etica in cui era caduto non appena Bill si era messo a spettegolare su Cleopatra – Entro dopodomani devi portarmi la traduzione del libro che ti ho assegnato. Spero tu la stia correggendo.
Tom si grattò la guancia, e rispose evasivo
-Sì, beh, forse tra tre giorni magari gliela posso portare finita ma …
-Thomas Kaulitz! Ti avevo detto che questo sarebbe stato l’ultima tua chance per non farti licenziare in tronco! – in realtà, era la quinta volta che lo minacciava ma. – Entro dopodomani voglio la traduzione di Me, a Tie and a Daydream.
-Ma signor Levi, su … un altro giorno che le cambia, ahia!- Tom guardò con occhi comicamente dilatati il vecchietto che gli aveva appena mollato un sonoro pugno in faccia con uno scatto di un’agilità insospettabile.
-E’ il tuo lavoro, ragazzo, e per quanto …
-E’ colpa mia.
I due uomini si girarono di scatto verso Bill, che si era nel frattempo appeso a Tom come un serpente arboricolo al proprio ramo, facendogli scorrere l’eccitazione lungo la spina dorsale e facendogli desiderare per un unico, intenso attimo, di essere nella sua lercia stanza che puzzava di patatine fritte e caffè rancido, sul suo letto perennemente sfatto e sfondato, illuminati dalle luci notturne riflesse dalla discoteca sotto casa, a scopare tranquillamente come se fosse l’ultimo giorno delle loro vite. Decisamente eccitante. Decisamente da fare. Decisamente la cosa meno consona da pensare in quel momento.
-Sa, è colpa mia se Cleopatra si è ammazzata … gliel’avevo consigliato io.- Bill annuì con aria saputa – Non avrei voluto farlo, ci ho pensato a posteriori.
Tom boccheggiò, mentre Juda Levi annuì comprensivo, dimentico della lavata di capo che stava facendo al suo giovane e scapestrato dipendente
-Capisco, ragazzo. Tutti noi possiamo commettere degli errori.
Bill sospirò, facendosi delicatamente aria con un ventaglio di carta di riso tirato fuori dalla borsa di lacca rossa, per poi girarsi verso Tom e mugolare
-Tooooom, mi accompagneresti fuori? Non respiro tanto bene in mezzo a tutta questa polvere …
Tom fu talmente sorpreso dal sentire quel dolcissimo modo di pronunciare il suo nome, con tutte quelle “o” tirate fino all’inverosimile da non rendersi conto del semplice fatto che Bill voleva uscire da lì e che voleva salvarlo dalle artritiche grinfie del vecchio ebreo, che esclamò
-Insomma, Tom! Il tuo splendido ragazzo ti sta chiedendo di uscire! Svegliati ragazzo mio, vai, vai e portami la traduzione!
-Certo capo! Vado e porto la traduzione! Sì! Lehitraòt!- Tom sembrò svegliarsi di colpo, trascinando di peso Bill fuori dalla porta, che si limitò a fare un largo sorriso al signor Levi:
-Arrivederci signore. E comunque, io e Tom non stiamo insieme.
Quando furono fuori, finalmente all’aria aperta resa bollente dal caldo fohn che soffiava imperterrito sulla città, trascinandosi dietro ondate di calore sconosciute, Bill scoppiò a ridere, facendo tintinnare le numerose collane
-Certo che quel vecchio ebreo è davvero esilarante.
-Sì, beh, a volte … - Tom si grattò distrattamente il collo, pensando a Lloyd e Paris che lo aspettavano insieme al vecchio e macilento computer nel “Brecheisen”. Dio, il Brecheisen. La seconda casa di Tom, il bar infognato nei vicoli più sporchi e luridi di tutta Berlino, quello buio e impregnato di fumo, dove si respirava fumo di sigarette e di canne, dove bevevi fino a vomitarti addosso, dove mangiavi panini enormi e patatine imbevute d’olio, dove volavano pugni e bestemmie che era un piacere, dove si nascondevano i rifiuti della società come lui e i suoi amici, quei fottuti quasi trentenni che non sapevano che fare delle loro vite, indecisi se darsi una mossa a crescere o se rimanere gli eterni bambini di sempre. Tom si era praticamente trasferito in quel buco di cerca rogne e di scarti sociali da quando Gustav aveva cominciato a lavorarci, e in breve lo avevano fatto diventare il perno principale dove giravano le loro vite. Per qualsiasi problema, scoperta, lutto, gioia, ci si precipitava al Brecheisen per urlarlo a tutti, sicuro che chiunque fosse stato lì in quel momento sarebbe stato pronto a consolarti, aiutarti, gioire con te, darti consigli di vita. Potevate essere perfetti sconosciuti: ma a un certo punto, pensava Tom, se sei così perso da andare al Brecheisen, allora non puoi far altro che fare gruppo con i perduti come te. Era come se fosse un esclusivo club per loro, i quasi trentenni che si sentivano Peter Pan. Gustav viveva dietro a quel bancone malconcio e sudicio, Tom passava tutto il suo tempo seduto in un tavolino in fondo con computer e vocabolari a lavorare, con i soliti hamburger ricoperti di ketchup davanti, Georg faceva la sua comparsa incarognita alle cinque spaccate di ogni pomeriggio insieme a Julia, perennemente arzilla e su di giri, e poi arrivava Rebecca, e tutti gli altri, pian piano, a riempire quel covo di poco di buono che erano. Tom si ricordava ancora quando, una notte, Julia era arrivata barcollando vicino a lui, ubriaca fradicia, i capelli biondi tutti arruffati e i vestiti vertiginosamente corti completamente bagnati di alcol, che si reggeva a stento a una ragazza con la faccia esaltata e i capelli rosa chewingum, conciata come una di quelle che battevano dalle parti dello zoo e gli aveva detto “Tom, io hic ti volevo hic presentare la hic mia nuova hic fidanzata hic Re … hic Rebecca! Sa … saluta hic, Tom hic!” e poi gli era svenuta addosso. E la tizia inquietante gli aveva fatto un sorriso da squalo, stritolandogli la mano con forza inaudita e si era caricata Julia in spalla con una rapidità di movimenti sconcertanti, facendogli un buffo saluto militare e scomparendo tra la folla. Tom si era semplicemente preoccupato della sua mano fatta a pezzi dalla presa ferrea della tizia strana, salvo poi doversi abituare ad averci spesso in casa quell’affare rosa, che per sua sfortuna divenne misteriosamente la Fidanzata con tanto di F maiuscola della sua coinquilina, che mangiava giapponese, picchiava come fosse normale, giocava a freccette con i coltelli e faceva riti esoterici nella loro doccia. E ballava la salsa sul terrazzo in mutande. E gli infilava i ragni nel letto. E lo faceva andare fuori di testa che era un piacere. Beh, comunque lui al bar di Gus doveva andarci; si era fatto portare apposta tutti gli strumenti del mestiere, non poteva non presentarsi.
Prese fiato, guardò Bill che fissava interessato una vetrina di vestiti da sposa e chiese
-Ehm, Bill, ti … ti andrebbe di venire con me al Brecheisen? Ti offro da bere.
Bill lo guardò, sfarfallando gli occhioni truccati, mordicchiandosi pensosamente il labbro inferiore
-Mi offriresti da bere? Come sei galante, Tom.
Tom arrossì senza volerlo, cercando di nascondersi dietro al cortina di capelli unti.
-Ti andrebbe davvero?
-Se potresti offrirmi un bicchiere d’acqua te ne sarei grato, devo prendere i miei tranquillanti.- Bill agitò una scatoletta di medicine tirata fuori dalla borsa – Mi dimentico sempre di portarmi dell’acqua dietro …
-Beh, ma certo! Voglio dire, ti offro tutto quello che vuoi!- Tom fece un sorriso raggiante, evitando accuratamente di dire come fosse il bar in questione, nella speranza che Bill non lo piantonasse lì da solo come lo sfigato che era – Allora andiamo?
-Va bene, Tom. Andiamo!
Bill si fece prendere a braccetto con un sorriso dolce, stringendosi al braccio di Tom con forza, barcollando sui tacchi vertiginosi e Tom sospirò rumorosamente. Eppure, in qualche modo, Bill non gli era nuovo, forse aveva ragione lui, si conoscevano. Ma proprio, per quanto si sforzasse, non vedeva altro che nebbia nel suo cervello.

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Capitolo 3
*** I Casi del Destino ***


CAPITOLO DUE: I CASI DEL DESTINO

-Questo sarebbe l’articolo?
Bill alzò di scatto lo sguardo, fissando i grandi occhi contornati da un preciso strato di trucco nero, il più sobrio possibile, sul grassoccio capo redattore del giornale. L’uomo stringeva tra le dita grassottelle e unticce un vistoso pacco di fogli fittamente scritti, guardandoli da sopra un monocolo di ottone, la tempia destra che pulsava vistosamente e gli faceva venire un imbarazzante tic nervoso all’orecchio.
-Sì, signore. L’articolo che mi aveva commissionato.
-Bill, ti rendi conto di cosa hai scritto, vero?- disse il caporedattore, prendendo un profondo respiro, tentando di non fare aumentare vertiginosamente i battiti del cuore, e di non saltare al collo di quella specie di checca nevrastenica che lo guardava dall’alto dei suoi stivali di pelle nera col tacco a stiletto.
-Certo che mi rendo conto di quello che ho scritto.- Bill chinò la testa di lato, sfarfallando le lunghe ciglia appesantite dal mascara.
-E ti sembra che io possa pubblicare un simile articolo sul nostro giornale?
-Non vedo il problema, signore.
Bill si sedette sulla scrivania di vetro del sudato e ansante capo redattore, accavallando le gambe vagamente femminee, in un movimento di una sensualità disarmante, passandosi una mano tra i capelli biondo platino.
-Ovviamente glielo posso battere a computer in dieci minuti.- girò voluttuosamente una pagina, rivelandone un’altra fitta della sua calligrafia larga e rotonda, abbellita da svolazzi, disegnini, cuori e incredibili miniature stilizzate. – Ha qualcosa che non va?
Il capo redattore si mise le mani tra i radi capelli imbrillantinati, asciugandosi il sudore che colava a rivoli dal suo grasso e flaccido viso rubicondo, cercando di mantenere la calma e di non saltargli al collo.
-Allora, quante volte ti ho già detto che  non puoi scrivere articoli lunghi più di dieci pagine a mano?!- ruggì l’uomo, sbattendo un pugno sul tavolo. – Io non riesco a capire se sei completamente scemo o fai bellamente finta di non stare a sentire.
-Ma io non riesco a concentrare quello che voglio dire in meno di sette pagine.- si difese Bill, riordinando seraficamente il suo pacco di fogli – Devo dire alla gente il mio punto di vista, non devo esporre solo i fatti obiettivamente.
-Allora opto per scemo.- grugnì il caporedattore. – Alla gente non interessa il tuo dannato punto di vista, razza di … di … - si morse il dorso della mano per evitare di riversare addosso a quel ragazzino troppo dotato una serie di epiteti molto poco fini.
-Se interessasse solo il fatto obiettivo, allora andrebbero a consultare le enciclopedie, signore. Se leggono un giornale, vuol dire che interessa sentire i pareri delle persone. Però io non ce la faccio ad ammassare la mia linea di pensiero in merito a un determinato argomento in poche pagine.- Bill sorrise gentile, prendendo un altro pacchetto di fogli e consegnandolo al capo redattore – Questa qui è l’appendice dell’articolo. Pensavo che me la potesse pubblicare nel prossimo numero. Spero solamente che la mia scrittura sia decifrabile; l’ho scritto questa notte sulla metropolitana, forse è un po’ rovinata.
Bill guardò con disappunto uno sbafo di penna dovuto a un sobbalzo della metro, passandoci ossessivamente il pollice sopra nel tentativo di cancellarlo.
-Un’appendice? Non solo hai scritto trenta pagine per una dannatissima denuncia al Gropiusstadt, ma ci hai pure fatto un’appendice?- il caporedattore era fuori di sé, lo si capiva da quella vena sulla tempia che andava ingrossandosi e al sudore che cominciava a macchiare il colletto della camicia già irrimediabilmente macchiato da vecchi aloni di sudore.
-Non sapevo dove inserire i riferimenti letterari e cinematografici. Quindi ne ho fatto un articolo a parte da ricollegare a quello principale.- Bill sorrise dolcemente, recuperando i suoi pacchi di fogli – Mi faccia sapere se devo correggere qualcosa.
Se ne andò ancheggiando come era abituato a fare, i bracciali tribali che cozzavano rumorosamente tra loro, guardando con un sorriso soddisfatto il ritratto che emergeva dalle sue carte. Il ritratto a carboncini che aveva disegnato non appena era arrivato a casa, quello di quel ragazzo della Escenbach Strasse. Oh, lo sapeva che era lui il Fante di Picche. Glielo leggeva dentro, che sapeva qualcosa che il suo cervello si rifiutava di elaborare. Poi si girò, una volta arrivato sulla porta dell’ufficio, rivolgendo al capo redattore uno dei suoi soliti sguardi languidi e vuoti
-Comunque, non mi considererei scemo. Perlomeno, fino a qualche anno fa avere un quoziente intellettivo di 190 non era valutato da scemi. Se poi sono cambiati i tempi, beh, non sta a me giudicare.
Sentì chiaramente l’insulto che gli urlò dietro il capo redattore mentre si avviava pacificamente verso l’ufficio, sorridendo placidamente in modo quasi impercettibile non appena vide un oggetto non ben identificato schiantarsi sul muro dove pochi secondi prima c’era lui.
 
-Julia, Julia, Julia!
Tom era affondato letteralmente nel divano di casa, che sicuramente aveva visto giorni migliori, con due dizionari di inglese in mano, uno di slang, il computer e il maledetto libro aperto sulle gambe. Si grattò la guancia, aguzzando gli occhi per cercare un qualche significato nascosto di quella stupida frase che lo stava dannando da un’ora a quella parte, maledicendo silenziosamente quella cretina di Paris ( e poi dai, come cazzo fai a chiamare un personaggio di un libro con un nome così orrendo?!) che si andava a impelagare con modi di dire sconosciuti all’umanità intera. Il vecchio divano che un tempo era stato rosso, ma che in quel momento poteva vantare interessanti chiazze di senape, fritto, sudore, e qualcos’altro di non ben identificato, probabilmente resti di qualche serata particolarmente snervante, cigolò sotto il suo peso quando tentò di girarsi.
-Cosa vuoi?- ruggì Julia dall’altra stanza – Sei sempre a rompere!
-Ma tu lo sai cosa vuol dire “I wanna take a ride on your disco stick”?!
-Tom! Che eri un pervertito si sapeva, ma non a sti livelli!
Julia apparve sulla soglia del piccolo salotto, i capelli biondi tirati in una codina, la bocca sottile piegata in una smorfia divertita, i pantaloni non ancora del tutto infilati e il maglione sghimbescio addosso.
-Perché?- Tom fece una smorfia confusa – Cosa vuol dire? È un’ora che sto cercando di capirlo, ma l’unica soluzione a cui sono giunto è che Paris vuol fare un giro su un disco di colla, e io non ho la più pallida idea di cosa sia un disco stick!
Julia trattenne una risata, dandogli un’affettuosa pacca sulla testa
-Si vede che non ascolti Lady Gaga, amico.
-I dischi di Lady Gaga si chiamano dischi di colla? Davvero?- Tom spalancò gli occhi, scostandosi i capelli unticci dal viso. Doveva lavarli, forse. Cioè, doveva lavarsi del tutto, piuttosto. Sembrava un barbone.
-Vuol dire “Voglio fare un giro sull’amico là sotto”.- Julia scoppiò a ridere.
-Ma mi stai prendendo in giro?- Tom fece tanto d’occhi – Una gnocca come Paris non può voler andare a letto con uno sfigato come Lloyd, dai!
-Che sia strano o meno, non lo so, comunque vuol dire quello.- Julia finì di abbottonarsi i jeans e si sistemò il maglioncino, sciogliendosi la coda e dandosi una veloce pettinata con le dita. – Esci stamattina?
Tom annuì, scrivendo la fantomatica prima traduzione, grattandosi piuttosto volgarmente la pancia e passandosi una mano sul viso.
-Sono a pezzi, Juls! Ho sonno.- si lamentò. – E in più mi tocca anche andare nella sede di un giornale per recuperare delle cose che servono al mio capo. Non voglio.
-Sei tu che decidi di fare le ore piccole perché vivi in ritardo; e comunque, se devi fare questa commissione, lavati! E vedi di farti una doccia come si deve, puzzi di fritto e di sudore come se fossi un cencioso pezzente
-Juuuuls, lo sono un cencioso …
-Thomas, se scopro che non ti sei lavato, pettinato, e vestito con dei vestiti decenti e non stracci bucati e pieni di patacche, giuro su Dio che non ti apro e ti spedisco a dormire sotto un ponte!
Tom sbuffò, nascondendosi dietro un cuscino bucherellato. C’era un motivo psicologico, oltre che fisico, per cui non avrebbe mai voluto una donna come fidanzata, a causa di un brutto lavaggio del cervello durato tutta l’infanzia, tutta l’adolescenza e adesso anche l’età semi adulta: ovvero, essere cresciuto a stretto contatto con una coetanea arcigna, supponente, militarista, intrigante, rompiscatole, ficcanaso, audace, guerrafondaia, femminista, lesbica e per di più dal pugno di ferro. Insomma, non che Julia gli avesse particolarmente illuminato la prospettiva di avere una fidanzata, o, perché no, magari anche una moglie. E si sa che certe traumi infantili ti segnano a vita.
-Ok, capito l’antifona. Mi lavo, contenta?- sbadigliò, alzandosi dal divano dove si era addormentato la notte prima.
-A proposito, stasera a cena viene Becca.- Julia fece un sorrisino divertito nel vedere Tom bloccarsi e girarsi con un’espressione terribilmente distrutta
-Dimmi che ho sentito male, che ho i postumi di una sbornia.
-Hai sentito benissimo, tesoro. Stasera ospitiamo Rebecca, e tu non me lo impedirai.
-Ma Becca uguale giapponese. A me non piace il sushi! E nemmeno i noodles, o la tempura, o tutte quelle rumente che mangiano i musi gialli.- Tom la guardò con aria disperata, boccheggiando. L’ultima volta che la fidanzata della sua migliore amica lo aveva letteralmente obbligato a mangiare quello stramaledetto sashimi, aveva passato una notte intera a vomitare ininterrottamente pezzi di pesce crudo e chicchi di riso. Certo, avrebbe potuto opporsi dicendo che era allergico all’anguilla, ma come potevi opporti a quegli enormi occhi giallastri, a quei capelli cotonati rosa bubblegum e a quei piercing appesi al naso e alle sopracciglia? Stesse turbe femminili che non avrebbero mai lasciato quietare Tom.
-Oh, su, quante storie che fai sempre!- lo redarguì Julia con un gesto della mano, infilando nella borsa le chiavi – Vado a fare la spesa, ho il turno al pomeriggio oggi.
Tom sospirò, mentre vedeva Julia scomparire dietro al portoncino con quel suo sorrisetto combattivo e  tagliente, vagamente “da squalo”, come amava definirlo Tom da tempo immemorabile. In fondo, Julia era un po’ uno squalo, in senso buono, ovviamente. Era una buona amica, Tom le era grato di essere sempre rimasta al suo fianco, senza mai abbandonarlo un solo minuto; il loro era uno di quegli amori platonici che duravano da una vita intera, troppo difficile da spezzare, duro come il diamante e impossibile da scalfire, un misto di amore, odio, affetto, litigi, come quello di due fratelli che non fanno che azzuffarsi ma che sarebbero pronti a dare la vita per l’altro. Loro due erano fatti così, troppo testardi per ammettere davanti a qualcuno che si adoravano, ma troppo incapaci di vivere senza l’altro per osare anche solo stare una settimana distanti. Erano cresciuti insieme, si erano fatti le cicatrici nella stessa parte di città, avevano condiviso tutte le gioie e i dolori di una vita, si erano sempre e immancabilmente schierati dalla stessa parte, si erano fatti anche il primo occhio nero insieme. E se non era un segno di amicizia tirarsi un pugno in contemporanea e spappolarsi mezza faccia a vicenda.
Tom grugnì rumorosamente, trascinandosi mollemente in bagno per affrontare quel nemico comune che era la doccia. Si specchiò con poco coraggio. Forse Julia aveva ragione, sembrava uno spiantato visto da quella prospettiva (anche se, a ben pensarci, in quale prospettiva Tom non pareva il tipico prototipo di spiantato sfigato?). Studiò i suoi grandi occhi scuri, in quel momento gonfi e cisposi dal sonno e dalle tante ore passate a leggere e a cercare su dizionari antiquati e polverosi, il viso tirato e stanco, i capelli unti e scarmigliati che gli ricadevano sotto le spalle, la barba disordinata, la canottiera unta e bucata, le braghe della tuta ancora più unte e bucate della canottiera, il fisico che per qualche strano motivo sconosciuto all’Umanità rimaneva attraente e quasi muscoloso (che poi, Tom non capiva come diavolo potesse avere quel fisico che mandava in palla tutta la popolazione giovane femminile che incontrava quando non faceva altro che vivere la sua vita parcheggiato sul divano a mangiare patatine e a guardare la tv, alzandosi occasionalmente per andare a bere al pub o per scroccare una pizza alla pizzaiola all’angolo). Insomma, un disastro, come al solito.
-Vai così che sei figo Tom!- urlò al se stesso nello specchio, alzando il pugno chiuso con un sorriso tirato che gli si spense subito sul viso.
-Madonna, Tom, tu sì che sei uno che spacca!- esclamò nuovamente, facendosi l’occhiolino con una mossa vagamente da Fonzi.
-Arriva Tom, gente, non c’è n’è più per nessuno!- strillò, tentando per una mossa che ricordava un ibrido tra 007 e Jack Sparrow.
-Oi, Tom, lo sai che sei un fottuto fallito del cazzo?- si disse, dando al se stesso di là un amichevole pugnetto sulla spalla. Era l’unica frase con un briciolo di verità dietro, purtroppo. Sbuffò, dando una testata allo specchio e cominciando la lotta impari con quella doccia bastarda.
Quando poi riuscì a trovare dei vestiti relativamente puliti e non impregnati di inchiostro e fritto di patatine, legandosi i capelli in un muccetto quasi ben fatto, si sentì quasi perfetto. Forse, per una volta in vita sua, avrebbe fatto una figura quasi bella. Quasi, perché lui non era mai stato qualcosa al 100%. Si avviò mollemente per le strade rumorose e incasinate di Berlino, le mani affondate nelle tasche, sentendo il caldo föhn che soffiava incessante sulla sua pelle, appesantendo l’aria bollente di quell’estate dannatamente umida e appiccicosa. Non che a Magdeburgo facesse sto gran freddo, in fondo. Ma a Berlino c’era un’umidità tale che proprio Tom non riusciva a sopportare, e sette anni non gli erano ancora bastati per acclimatarsi. Lo sentiva ogni giorno, quando andava a tradurre i suoi libri seduto ai piedi della grande quercia di uno degli immensi parchi, quel vento bollente che gli entrava nel naso e nella bocca e non lo faceva respirare, quella fastidiosissima cappa d’umidità estiva che proprio non perdonava. Si frugò in tasca, estraendo il bigliettino dove aveva trascritto l’indirizzo piuttosto pasticciato della sede del “Flugel”, quel giornale con gli articoli alternativi e straordinariamente assurdi che ogni tanto Tom leggeva. Non aveva propriamente capito cosa dovesse ritirare per conto del suo vecchio e decrepito capo, solo che c’era in ballo una spedizione dall’estero, che per qualche motivo contorto si era fatto recapitare al “Flugel”. Si accese una sigaretta sbuffando, imboccando qualche stradina secondaria dove i palazzi oscuravano il selciato e tenevano un po’ lontana quell’afa sconosciuta, oltrepassando una serie di giardini nascosti nel retro di questi vecchi palazzi bui e decrepiti, svicolando in stradine strette e puzzolenti ma straordinariamente fresche, superando negozi talmente tenebrosi e oscuri da farti passar la voglia di entrarci, scantonando per vicoli dalla fama molto dubbia. Finalmente sbucò davanti alla facciata di quel benedetto giornale, un po’ scrostata, nascosta nel buio di un vicoletto, quasi invisibile se non fossi stato intenzionato a cercarla. L’insegna “Flugel” era quasi mangiata da rose rampicanti che tingevano l’ambiente di un forte arancione e rosa pallido. Sicuramente un posto alternativo, pensò Tom, mentre si arrischiava ad aprire il portone.
-Desidera?
Nemmeno il tempo di mettere piede dentro la sala luminosa e fresca della redazione, che una ragazza alta e magra gli fu addosso, sventolando un ventaglio.
-Aehm, io sono qui per conto del signor Levi. Dovrei ritirare un pacco che è stato recapitato qui …
-Oh, allora devi andare dal capo!.- la ragazza fece una smorfia che a Tom non piacque per nulla – Secondo piano, quinta stanza, c’è comunque una targhetta di riconoscimento. Comunque, trattalo con le pinze, è nervoso oggi.
-Ah, ok, ma … - Tom non fece in tempo a fare una frase di senso compiuto, che la tipa era fuggita via come una lepre.
Tom sospirò rumorosamente, imboccando le scale che portavano al secondo piano, in mezzo a persone agitate e strepitanti che gli sfrecciavano da tutti i lati, scontrandolo senza nemmeno fermarsi o scusarsi, sbattendolo di qua e di là come una sardina. Certo che non gli sarebbe piaciuto lavorare in un ambiente simile, lui impazziva in mezzo al caos, alla gente, al nervosismo imperante. Era ancora di quelle persone vagamente vecchio stampo, di quelle che avevano bisogno della tranquillità e del riposo mentale, che non poteva soffrire la fretta (cercava ancora di nascondersi dietro alla scusa fasulla della finta frase zen che rifilava sin dalla prima elementare a sua madre quando lo voleva buttare giù dal letto “La fretta non è amica del sapiente, dovreste saperlo. Io vado con calma e con saggezza. Sì, erano solo utopiche giustificazioni per la sua naturale predisposizione a vivere sempre con cinque minuti di ritardo sulla tabella di marcia; comunque, se aveva contato giusto, la Morte sarebbe potuta arrivare in ritardo visto che lui avrebbe brillantemente mancato l’appuntamento con l’Oscura Signora, troppo in ritardo per precipitarsi sul luogo dell’incontro). Naturalmente lento in tutto quello che faceva, dal lavarsi i denti, al fare il filo a un ragazzo, al tradurre i libri, Tom viveva come un Trasformer dei primi film, come lo amava chiamare Julia, e vagava tranquillamente dietro a tutta quella massa di persone nervose come se non gli importasse. D’altronde, dal tanto correre cosa ne avrebbe ricavato se non polmoni a pezzi e gambe stanche?
Arrivò davanti all’unica porta chiusa di tutto il corridoio, spintonando in mezzo alla fiumana di gente esagitata e strillante, e lì si bloccò, mettendosi in ordine la coda di capelli ribelli e prendendo un profondo respiro. Ci teneva a recuperare quel dannato pacco, portarlo al signor Levi, e concentrarsi nella traduzione del romanzo più brutto che avesse mai letto visto che se non lo avesse portato in tempo forse era la buona volta che il buon vecchio ebreo lo avrebbe cacciato dalla casa editrice.
Bussò con discrezione, tossicchiando.
-Chi è?!- ruggì una voce tonante da dentro. Non molto rassicurante.
-Ehm, sono un inviato di Juda Levi … dovrei ritirare un pacco che è stato recapitato qui a suo nome … - rispose Tom, posando la mano sulla maniglia e provando a girarla senza successo.
-Fuori di qui!- tuonò la voce.
-Ma non voglio disturbarla, voglio solo prendere il pacco.- insisté il ragazzo.
-Dopo! Ora ho da fare, passa dopo!- qualche imprecazione volò nella stanza.
-Giuro che non ci metto tanto, prendo il pacco e lei non mi vede nemmeno …
-Ho detto di no! Non disturbare o ti caccio a pedate!
-Senta, io dovrei …
-Aspetta un attimo, nervoso ragazzino!
Tom boccheggiò. Non che non fosse abituato a essere trattato male e a essere insultato senza un motivo apparente, però dannazione, quello non gli piaceva. E nessuno lo chiamava più ragazzino, e che diavolo! Aveva 26 fottutissimi anni, aveva smesso di essere un ragazzino tanti anni prima. Già c’era sua madre che era rimasta bloccata a quando lui aveva compiuto tredici anni e più in là aveva deciso di non andare. Senza dimenticare la zia Gretel che oltre i nove non andava (e Tom ricordava ancora con un certo imbarazzo il suo diciottesimo compleanno e la zia Gretel che entrava in casa tranquillissima, senza rendersi conto della mezza orgia in corso con un film di serie Z in tv e i The Ramones che rintronavano nello stereo, e gli consegnava con aria solenne un pigiamino di Spider Man da bambino con un bigliettino a fiori con su scritto “Buon nono compleanno al mio nipotino preferito”. Beh, erano dieci anni che Tom non faceva che ricevere pigiamini di Spider Man e biglietti da nono compleanno).
-Non provi a chiamarmi ragazzino, sono un lavoratore io, parte attiva della comunità di questo Paese, contribuisco anche io ad accrescere la posizione della Germania … - Tom avrebbe continuato con il suo sproloquio dando qualche pugno nella porta finché non gli avesse aperto e gli avesse dato quel benedetto pacco, quando sentì una voce dolce e melodica, tenera e vibrante dire
-E’ inutile, non ti ascolterà mai.
Si girò di scatto, sbuffando, cercando la fonte della voce ma nessuno sembrava essere interessato alla sua berciante persona che picchiava i pugni sulla porta del capo redattore. Correvano, lo oltrepassavano come se non fosse nemmeno lontanamente esistito. Che se la fosse sognata? Beh, non sarebbe stata un’esperienza nuova, quella di sentire strane vocine che …
-Sono qua sotto.
Sentì una mano tirargli il bordo dei jeans, e abbassò di colpo lo sguardo, con un urlo soffocato ma terrorizzato. Seduto ai suoi piedi, con la schiena poggiata al muro e le gambe intrecciate in una posizione yoga, un computer in grembo e un altissimo pacco di fogli accuratamente scritti a mano giacente al fianco, stava un ragazzo. O per meglio dire Il Ragazzo. Con i capelli biondo platino accuratamente pettinati all’indietro, il viso truccato, i gioielli e i piercing sfavillanti alla luce al neon dell’anonimo corridoio, i vestiti eccentrici e stravaganti, il sorriso larghissimo e infantile, gli occhi turbolenti ma straordinariamente vuoti come quelli di una bellissima bambola.
Tom trattenne inconsapevolmente il fiato, sussurrando, quasi più a se stesso
-Ma … ma tu … tu sei il ragazzo di ieri …
-Esattamente.- il biondo scoppiò a ridere, una risata argentina e cristallina, vagamente cantilenante come la voce quando parlava – Sono io.
Tom boccheggiò, fissando di nuovo quella specie di meraviglia notturna che lo fissava seduto per terra, sfarfallando quei dannati occhi profondi come l’oceano e vasti come l’Universo intergalattico. Non ci poteva credere, che scherzo del Destino era mai quello?! Il ragazzo si leccò le labbra carnose, in un modo che Tom trovò stranamente inquietante ma eccitante, e gli fece segno di sedersi sul pavimento vicino a lui e al suo pacco di fogli.
-E ora, Fante di Picche, ora ti ricordi di Alice?
 
 

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Capitolo 4
*** Penso di aver capito chi è! ***


CAPITOLO QUATTRO: PENSO DI AVER CAPITO CHI E’!

-Belin, Tom, finalmente ti sei fatto vivo, pensavo che fossi morto affogato nel fiume!
Gustav si sbracciò dal bancone del Brecheisen, lasciando cadere con un rumore sordo il grosso boccale da birra sul bancone di legno scuro incrostato insieme al lurido straccio con cui fingeva di pulire i bicchieri.
-Ohi, Gus. Guarda qui chi ti ho portato.- Tom spinse delicatamente avanti Bill, vergognandosi per il posto dove l’aveva portato. Non che quello fosse un appuntamento, e nemmeno un’uscita tra amici (in effetti, a ben vedere, cos’era? Un tentativo piuttosto malfatto di circuire Bill per poi portarselo a letto? Certo che le sue tecniche di seduzione erano migliorate un sacco, si sentiva fiero di sé. Oppure era semplicemente masochismo puro di andarsi a cercare qualcuno di ancora più strano da aggiungere alla categoria “fottuti quasi trentenni che non sanno che fare della loro vita”), eppure si sentiva impacciato e confuso come la prima volta che all’Università gli avevano chiesto come mai aveva deciso di studiare russo. Non poteva dire che era tutto dipeso dal fatto che aveva sempre tifato per il “Ti Spiezzo in Due” di Rocky, ma aveva semplicemente ripiegato su un vago “sai, la zia del nipote del vicino di casa dell’ex ragazzo di mia cugina vive a Mosca, mi ha messo la curiosità di studiare russo …”. Più o meno l’imbarazzo che provava con quell’angelo caduto di Bill era lo stesso.
Gustav strinse gli occhi dietro le lenti degli occhiali unti, per poi sbottare
-Ma è la drag que…
Ma un pugno in testa da parte di Tom lo fece desistere dal continuare, mascherando abilmente l’insulto con un allegro
-Cioè, volevo dire, sei il ragazzo di ieri notte! Quello che si confondeva! Piacere di conoscerti, io sono Gustav.
Gli tese la mano sudata e appiccicosa, sfoderando un sorriso il più possibile convincente.
-Piacere mio, io mi chiamo Bill, e mi ricordo che tu una volta, a scuola, hai rovesciato tutto il tuo pranzo addosso a Lise Herder, ve la ricordate, quella con i codini castani e le magliette di Hanna Montana? E nel tentativo di aiutarla l’avevi fatta cadere per terra di fronte a tutta la mensa, anche se era la ragazza a cui andavi dietro. Voi ve lo ricordate?- Bill rise, con la sua risata argentina e scrosciante.
Tom sarebbe stato tentato di dire che no, non se lo ricordava come d’altronde non si ricordava il 99% di ciò che gli era successo prima dell’anno passato, ma decise di optare per una risatina nervosa e un “Sì, indimenticabile” poco convincente. Gustav si limitò a ridere imbarazzato per poi saltare con un’agilità insospettabile dalla povera famigliola straniera appena entrata.
Tom sospirò rumorosamente, prendendo Bill per mano e conducendolo nel tavolino rotondo e incassato in un angolo dove si stabiliva praticamente ogni giorno, e dove lo aspettavano pazientemente il vecchio computer pieno di virus, il libro maledetto con le ditate di unto sopra e le pagine spiegazzate, i vocabolari che avevano visto giorni migliori, la solita birra con troppa schiuma e il panino ridondante prosciutto e senape con quelle patatine che erano solo olio. Quella era la sua routine: andare al bar per le undici e mezza, ovvero quando si alzava, lavorare standosene paciosamente seduto allo stesso tavolo con il pranzo che oramai nemmeno pagava più, guardare le partite e MTV alla televisione. Una vita sfigata che ricordava tanto una commedia surreale di Woody Allen. Una vita ordinaria ma totalmente fuori dalla righe per i canoni sociali delle persone normali.
-Tom, come mai qui c’è scritto “Angolo dell’Idiota”?
Bill gli tirò la manica della maglietta in un gesto vagamente infantile, ma Tom non poté che trovarla una cosa estremamente splendida, conscio dell’espressione ebete che gli si dipinse sul viso non appena sentì la mano di Bill stringersi attorno al suo braccio. Beh, non era colpa sua se gli faceva quell’effetto deleterio, se quegli occhi lo mandavano in paranoia e se quel sorriso lo mandava in completo subbuglio.
-E’ una lunga storia: l’avevo scritto io un annetto fa, dopo che Gustav mi aveva detto, siccome io praticamente vivo su questo tavolo, che a lungo andare sarebbe diventato un angolo dell’idiota proprio perché ci sono io che continuo a dire idiozie dalla mattina alla sera e che impesto questo tavolo.
Tom rise, sciogliendosi la coda e accendendo il computer, pronto a lanciarsi dietro a quel cretino di Lloyd e dei suoi amici.
-Capisco.- Bill annuì poco convinto – Cosa fai?
-Lavoro; l’hai sentito anche tu Levi, no? Devo darmi una mossa a consegnargli la traduzione di sta stronzata, sennò è la volta che mi licenzia in tronco sul serio. Vuoi qualcosa da bere? Una birra, un liquore, un aperitivo … - ok, lo sapeva di non essere in grado di fare il filo a qualcuno. C’era un motivo infatti se era single dagli inizi dei secoli e si limitava a portarsi a letto tizi ubriachi fradici in dei pub di mala affare.
-No, grazie, sono astemio.- Bill gli fece un largo sorriso, il piercing sulla lingua che brillò sinistramente alle basse luci del pub fumoso – Ma un bicchiere d’acqua del rubinetto mi va più che bene.
-Ma no dai! L’acqua no!- esclamò Tom, cominciando a sfogliare il suo libro e trattenendo un filo di bavetta pronto a scendere nel vedere Bill sedersi sul vecchio divanetto rosso accoccolandosi seducentemente vicino a lui – Se sei astemio, ti offro una Coca Cola, un succo, non so …
-No, Tom, grazie, non bevo altro che acqua del rubinetto.- ripeté Bill con un sorriso vagamente svenevole.
-Oh, ok, allora te lo vado a prendere.
Il ragazzo si alzò malvolentieri, lasciando Bill a leggiucchiare Me, a Tie and a Daydream, dirigendosi verso la cucina per riempire un bicchiere d’acqua. Ma nemmeno il tempo di imbucarsi nella stanza, che la mano unticcia di Gustav lo afferrò per un braccio, facendolo voltare e incontrare di conseguenza un paio di occhi letteralmente terrorizzati e una quantità industriale di briciole di patatine a decorargli le guance rosee.
-Tom, Dio, Tom!
-Cosa c’è Gustav? Hai visto un fantasma?
-No peggio! Mi hai portato il demonio nel bar!- Gus si guardò attorno con circospezione, facendo nascondere l’amico in un anfratto buio e polveroso nel fondo del locale, pulendosi le lenti degli occhiali freneticamente.
-Adesso smettila con questa storia, Bill non è affatto un demonio, razza di nazifascista razzista.- sibilò Tom, cercando di non alzare troppo la voce e di farsi udire dai vecchietti del poker, sempre pronti a fomentare qualche rissa conservatrice come ai tempi del fascio.
-Ma non parlavo dell’aspetto estetico!- tartagliò Gustav, appiattendo ancora di più Tom nell’angolino e osservando i movimenti dei vecchietti del poker, pronto a riempirli di birra non appena avessero finito i boccali, nel tentativo di tenerli buoni. – Prima, quando ci hai presentato, ha detto che si ricordava di me!
Tom alzò gli occhi al cielo, passandosi una mano tra i capelli unticci. Fra lui e Gus potevano vincere il premio per “Coppia più unta dell’anno”. Che a ben vedere, a scuola, nell’annuario avevano pure messo la loro foto con scritto “Tom Kaulitz e Gustav Schafer, gli studenti-patatina, che non fanno altro che mangiare patatine fritte e vincono il premio Untume!”. Quando sua mamma lo era venuto a sapere era svenuta lunga distesa sul pavimento, e Tom era stato costretto a trasferirsi temporaneamente a casa di Georg per non incappare nella furia omicida dei suoi genitori. E inutile dire che aveva affogato la sgridata di mamma in un piatto di patatine fritte, che si era fatto preparare dalla mamma di Georg. Meno male che almeno lei gli annuali non li leggeva.
-E va beh, continua a dire che conosce anche me, non saprei dirti perché … sì, lo so, non venire a farmi la ramanzina che è un pazzo psicotico perché l’ho capito da solo.
-Non è quello, Tom!- Gustav lo scosse per le spalle – Il problema è che quello che ha detto, a proposito del fatto che mi piaceva Lise e che le ho rovesciato il pranzo addosso a mensa è tutto vero! E anche il fatto che per aiutarla l’ho fatta cadere!
-Stai scherzando?!- Tom spalancò i grandi occhi scuri, boccheggiando – Vuoi dire … vuoi dire che Bill …
-Sì, Tom. Voglio dire quello.- Gustav lo guardò con aria grave, la bocca contratta in una smorfia seria e compassata. – Bill è un nostro ex compagno di classe e noi non l’abbiamo riconosciuto.
-Oh cazzo … - Tom fece una smorfia sconcertata – E io che continuavo anche a dirgli che non ci siamo mai visti … che figura da cioccolataio …
-Sicuro come l’oro!- sbottò Gustav arrossendo vistosamente – Ci siamo scordati di un nostro compagno di classe. Siamo fottuti! Chiama Julia, veloce!
-Ma sei scemo?! Julia mi ammazza se le dico che non abbiamo riconosciuto uno che fino a nemmeno dieci anni fa frequentava i nostri corsi!
-Beh, a meno che magari frequentassimo solo matematica, o storia, o che ne so io. Sai, c’è gente che si ricorda anche tutti i nomi di chi faceva un corso con lui.- Gustav si grattò la pancia pensieroso – E io ho un anno più di te … lui quanti anni ha?
-E’ dell’89, come me.- mormorò Tom.
-Allora poteva darsi che fosse in classe con te, e che conoscesse me perché stavamo sempre insieme. Quindi, se non vado errato, dovrebbe conoscere anche Georg e Julia.- decise Gustav – Ora però come aggiustiamo il tiro?
-Dio, Gus, ma perché devo avere una memoria così corta?- Tom si accasciò contro l’amico, facendosi abbracciare e accarezzare la schiena.
-Su, T., non fare così, ti prego … non è che sei meno intelligente se sei affetto da amnesia retrograda. Hai anche un Q.I. molto più alto del mio, ti ricordo.
-Lo so Gus, però è avvilente. Dovrei potermi ricordarmi di un compagno di corsi, ho 26 anni, non sono passati secoli dall’ultima volta che sono stato a scuola!- Tom lo guardò, demoralizzato – Non mi ricordo nemmeno quello che è successo quattro mesi fa, è tutto così confuso di suoni e istanti … devo sempre chiedere a mamma o a voi di raccontarmi cose del mio passato che io continuo a dimenticare. Gustav, ci sono degli istanti, di notte, quando sono particolarmente stanco e nervoso che devo andare da Julia a chiederle che lavoro faccio e in che città abitiamo!
-Dai, Tom, stai tranquillo. Torna da Bill, aspettiamo Georg e Julia e ci metteremo a indagare dopo. Sono sicuro che capiremo chi è; anche lui forse deve essere un po’sconfortato all’idea che non ci ricordiamo di lui.- Gustav lo abbracciò, e Tom si limitò a tirare melodrammaticamente su col naso annuendo. Ecco perché Bill continuava a dirgli qualcosa, nel suo subconscio. Forse era tutta colpa del suo problema psicologico se non si ricordava di quello splendido angelo.
Andò in cucina, salutando la padrona del pub, riempì un bicchiere d’acqua e lo portò a Bill, raggomitolato sul divano a leggere il suo orrendo libro.
-Ecco, scusa se ci ho messo tanto, ma Gustav mi doveva dire una cosa importante.
Bill alzò lo sguardo vuoto su di lui, ringraziandolo con quella sua vocina musicale e cantilenante, ordinando sul tavolo una lunga serie di pilloline colorate.
-Devi prendere così tante pastiglie?
Bill lo guardò con un’aria vagamente di rimprovero che fece vistosamente arrossire Tom. Aveva una specialità davvero mirata nel dire le cose meno gradite alle persone che potevano potenzialmente piacergli. Un po’ come si vedeva nelle sitcom americane, dove lo sfigato di turno super nerd se la deve cavare a fare bella figura con la cheerleader di turno. In fondo, tutta la vita sentimentale di Tom era sempre andata avanti così a oltranza, ispirata e scopiazzata brutalmente da quella roba per ragazzine viste alle tre del mattino quando non riusciva a dormire, per poi venir sognate a scuola, quando stravolto da notti passate attaccato alla tv collassava a metà verifica di matematica. Sì, Tom dal punto di vista sentimentale era la Sfiga fatta persona, non era psicologicamente capace di tenersi qualcuno per più di due settimane. In realtà ci sarebbe stato uno, il primo anno di università, ma dopo sei mesi di storia aveva deciso di lasciarlo, siccome Tom si dimenticava sistematicamente il giorno del loro anniversario, si addormentava ogni volta che uscivano assieme e mangiava sempre hamburger. E dire che quando avevano rotto Tom ci era pure rimasto malissimo: gli era sempre sembrato di essere un fidanzato modello, anche quando si era addormentato con la faccia nel piatto impiastrandosi le vecchie treccine di sugo di carciofi.
-Sono dei tranquillanti.- lo gelò Bill, cominciando a ingoiare le sue pastiglie colorate.
Tom si limitò ad annuire a capo mogio, per poi concentrarsi sul foglio che era scivolato fuori dall’imbarazzante borsa di lacca rossa del suo splendido biondo. Più che altro perché il foglio suddetto rappresentava con una precisione e una perfezione quasi inquietanti una persona che lui conosceva più che bene. Ovvero, un viso con un grosso paio di occhi dall’aria persa e visionaria, una crocchia di capelli unticci e disordinati, le labbra carnose atteggiate in una smorfia interrogativa, un piercing vecchio come Noè che riluceva all’angolo del labbro, lo spiegazzato colletto di una maglietta dei Sex Pistols slabbrata, la barba corta ma ovviamente disordinata, una faccia da morto di sonno unica nel suo genere: in poche parole, era lui in tutto il suo sex appeal da maratona notturna di I-Zombie.
-Ma questo sarei io?- chiese piuttosto stupidamente il ragazzo, boccheggiando. Nemmeno allo specchio di casa riusciva a vedere così bene se stesso. Nemmeno in uno specchio d’acqua limpida.
-Sì.- rispose secco Bill, lanciandogli un’occhiata infantilmente risentita, tirando fuori dalla borsa un blocco da disegno e una scatoletta di latta con una considerevole quantità di matite di ogni possibile tipologia di mina. Tom si trovò ad arrossire senza volerlo: ok, geniale, era palese che aveva detto o fatto qualcosa che non avrebbe dovuto dire o fare, il problema è che non capiva assolutamente cosa. Cioè, non quadrava. Fino a nemmeno cinque minuti prima Bill era lì che lo fissava in adorazione con un sorriso che avrebbe bloccato un carro armato, ora lo guardava inviperito, rispondendo con monosillabica freddezza. Tom si trovò a fronteggiare il nuovo problema che si era imposto: cosa aveva combinato quella volta? E soprattutto, come fare per riconquistare l’adorazione di Bill?
-E’ semplicemente splendido, davvero … non pensavo che sapessi disegnare così bene.- lo sapeva che lui a fare complimenti era semplicemente negato, ma poteva essere una specie di inizio. Perché gli facevano paura gli occhi di Bill in quel momento, scuritisi improvvisamente tanto da far quasi affogare le iridi, sprofondati in uno zero assoluto che si espandeva a macchia d’olio verso di lui, congelandolo in maniera inquietante, diventati improvvisamente un pozzo dove ci vedeva dondolare dentro il pendolo di Allan Poe, un paio di buchi neri che avevano perso tutta la dolce follia che avevano prima, mostrando un profondo squilibrio tra gli universi che si alternavano nel profondo dei suoi occhi, che risucchiavano dentro di loro tutte le pallidi e fumose luci del bar, fagocitando la vita di ogni forma vivente nel raggio di chilometri, brillando di una luce d’ossidiana troppo bella per poter essere vera.
-Ti piace, Tom? Sul serio?
E Tom rimase leggermente spiazzato quando si rese conto che nella frazione di un secondo i grandi occhi di Bill erano tornati perfettamente normali, rilucenti della sua dolce follia, splendidi di mille stelle cadenti e diamanti celesti, che il sorriso disarmante era tornato al suo posto e che anzi, proprio per rovinargli gli ultimi stracci di sanità mentale, gli si era pericolosamente stretto addosso. Sentiva le narici invase dal suo profumo, qualcosa che mischiava inchiostro, mina e acquerelli, biscotti fatti in casa, carta da lettera, musica grunge, enormi tele da dipingere, un’essenza strana ma che dava alla testa come una nuova droga naturale appena scoperta. Bill era una nuova droga.
-Parola di boyscout.- Tom si mise la mano sul cuore. Il fatto di aver dovuto fare il boyscout da ragazzino era per un “fedelissimo del pisolo” come lui una vera onta; per quello, la sua amnesia sarebbe stata d’aiuto, avendo lui dimenticato ormai praticamente tutto quello che riguardava i suoi dodici anni e di conseguenza lo scoutismo, ma esisteva Georg in quel mondo, che puntualmente non perdeva occasione per raccontargli per filo e per segno tutta la loro carriera da lupetti di Magdeburgo per non far “mai morire la fiamma del coraggioso e impavido Boy Scout”. Tom si sentiva sempre male quando si sentiva narrare ciò che aveva fatto all’epoca, tipo fare i fuochi da campo, raccogliere legnetti asciutti e aiutare le vecchiette ad attraversare la strada. Deplorevole, a pensarci a posteriori.
-E allora questo ti ricorda per caso qualcosa?
Bill cercò dentro il suo album di carboncini, fino a mostrarne uno che raffigurava un paesaggio invernale sperduto nella Pianura Pannonica. Trasmetteva calma, in qualche modo. E Tom non avrebbe saputo dire se fosse stata la neve che appesantiva le grosse querce del parco di Magdeburgo, o lo stagno ghiacciato che rifletteva le cupe nuvole del cielo, o il piccolo scoiattolo nascosto tra le radici, o anche solo l’intero insieme innevato e silente a dargli un fastidioso brivido di ansia che gli percorse poco gentilmente la spina dorsale. No, ovviamente non se lo ricordava. Però vi collegava delle sensazioni, sensazioni che gli ricordavano tanto una sorta di incubo dorato sepolto in un’infanzia che probabilmente nessuno avrebbe mai potuto portare alla luce, attimi e momenti che solo Tom poteva conoscere ma di cui aveva sistematicamente dimenticato l’esistenza, chiudendoli in un forziere di cui non sapeva la combinazione d’apertura. Sforzandosi il più possibile, chiamava alla mente sprazzi di foto innevate di un luogo senza tempo e senza nome, con suoni attutiti che rimbombavano tristemente dentro la sua scatola cranica vuota e solitaria. Tom non avrebbe mai ricordato nulla, lo sapeva; si riconduceva a momenti lontani e solitari, sentendo continui echi e vedendo frazioni di immagini sgranate orribilmente. Però il carboncino aveva risvegliato qualcosa nel suo subconscio addormentato, smuovendo quel puzzle irrisolvibile che era la sua memoria frammentata e distrutta. C’era qualcosa che aveva vissuto direttamente sulla sua pelle, lo sentiva dentro, anche se non sapeva cosa. Ma forse, a quel punto, gli bastava sapere di poterlo ricordare con i sensi, anche se non avrebbe mai potuto visualizzare niente del suo passato. Guardò Bill, limitandosi ad annuire con aria poco convinta e a blaterare qualche complimento.
-La sai una cosa, Tom?- Bill gli fece un largo sorriso, accarezzando delicatamente con l’unghia lunga e arcuata il profilo delle due querce – Come il gelo dell’inverno più freddo, il Paradiso ti era al fianco, con dentro l’Inferno. E tu pensi di avercelo ancora, il Paradiso dentro! È tutto sbagliato, Tom, è tutto sbagliato!
Picchiettò contro l’albero, lasciando l’altro ragazzo palesemente allibito a ragionare su quello che aveva appena detto, con quel suo sorriso vagamente folle e la sua risata inquietantemente infantile. Perché, se non s’ingannava, quelle lì erano le parole di Heaven Beside You. E lui le canzoni degli Alice In Chains se le ricordava, eccome se se le ricordava, a son di sentirle. E di nuovo, in qualche modo, tornava la musica grunge senza che potesse trovarle un posto adatto in quel orribile puzzle che si andava formando sotto i suoi occhi stanchi.
-E’ un posto che hai visto?- chiese Tom, cominciando a organizzarsi il lavoro, prima che Levi lo cacciasse seriamente dalla casa editrice.
-Che abbiamo visto, vorrai dire. C’eri anche tu.- Bill si staccò un pochino da lui, facendolo mugolare di disappunto – Perché non ti ricordi nulla, Tom?
Ecco. Se l’era aspettata quella domanda, prima o poi. Sbuffò, legandosi i capelli in una crocchia disordinata, cercando di prendere tempo e di formulare la frase in modo il più innocuo possibile. Tanto per non sembrare un ritardato mentale. Che poi, e che diavolo, aveva anche ben 110 di Q.I., non era propriamente un cretino. Però chissà come mai, lo risultava sempre non appena si arrischiava a rispondere alla fatidica domanda che Bill gli aveva appena posto.
-Beh, io … ho una specie di malattia della testa.- ok, geniale, ora sì che sembrava handicappato. Cercò di recuperare al volo – Intendevo dire, soffro sin dalla nascita di amnesia retrograda. Dimentico sistematicamente qualunque cosa avvenuta nel passato, più o meno ho un margine di una settimana. Non sono capace di ricordare nulla, così mi faccio raccontare dai miei amici tutto, per sapere chi sono in realtà. E siccome raccontano sempre, mi sono ricostruito una sorta di passato.
-Allora siamo fatti l’uno per l’altro!
L’ultima affermazione di Bill lo lasciò di stucco: cioè, si era aspettato di tutto, qualsiasi insulto, ma non un’uscita del genere, corredata di sorrisone e sfarfallamento di ciglia troppo truccate. Non che non ne fosse contento. Anzi, distolse appunto lo sguardo giusto per non saltargli letteralmente addosso lì sul tavolo, anche perché non sapeva quanto Gus e la padrona del Brecheisen avrebbero gradito due che scopavano tranquillamente sul divanetto scassato del loro pub. Dio, Julia aveva proprio ragione: era un dannato marpione pervertito.
-Io ricordo tutto. Sono qui dagli inizi delle epoche, Tom, ho visto la nascita di questo universo, mi ricordo ogni singolo cambiamento di questo mondo. E se io posso ricordarmi davvero tutto, e tu nulla, ci completiamo alla perfezione. Sono quelle cose scritte nelle stelle.- Bill gli fece un largo sorriso, passandosi una mano tra i capelli, arruffandoseli.
-Ma Bill, non è possibile che tu abbia visto tutto.- gli disse gentilmente Tom.
-Sì che è possibile.- Bill sfogliò l’album sino a una pagina bianca, prendendo una matita, sfarfallando gli occhi – Sennò io come farei a ricordarmelo?
E Tom si trovò a dover combattere con l’improvviso silenzio di Bill che durò addirittura per delle ore, in cui rimase raggomitolato accanto a lui a disegnare incessantemente cose strane sul suo blocco, mentre lui continuava a seguire le non tanto epiche gesta di Lloyd e dei suoi squinternati amici. Il suo film da proporre al vecchio Allen migliorava sempre di più: misteriosi squilibri di memoria, paesaggi invernali, un pub senza ingiuria e senza lode, un vecchio editore scriteriato. Oh sì, sarebbero sbancati a Hollywood, ne era sicuro. Si vedeva già con la statuetta dell’Oscar in mano.
-Fammi capire, vecchio marpione, ti trovi una drag queen disposta a sopportarti e non mi dici niente?- il ruggito di Georg si ripercosse tra le mura fumose del Brecheisen, facendo sobbalzare Tom. Si era completamente scordato che alle cinque e mezza sarebbero arrivati Georg e Julia a portare la loro rumorosa e inopportuna presenza. In realtà, si era anche completamente dimenticato di Bill, che stava seduto lì vicino a lui da ore. Era un caso perso.
-Non è una drag queen, idiota!- abbaiò in risposta, per poi dire – Georg, ti presento Bill. Bill, lui è Georg, un mio vecchio amico. E lei è Julia, la mia migliore amica.
Tom avrebbe voluto seppellirsi immediatamente nel divano non appena Georg se ne uscì con il suo “sai, ieri sera ti abbiamo scambiato per una battona, scusaci” e Julia con “Mado’, che stile da Sunset Boulevard che hai! Sei uscito da Victoria’s Secret?”. E volle sprofondare ancora di più quando vide Bill che li ignorava bellamente, sorridendo sempre come un angelo pacifico appena precipitato dalle nuvole come se tutto ciò fosse normale.
-Uh, ma tu sì che disegni come Dio comanda!- Julia calò come una cornacchia bionda sugli infiniti ritratti che Bill aveva fatto sul pub.
-No, scherzi?- si schermì Bill, stringendosi un pochino di più a Tom – Questo non è disegnare bene.
-Figurarsi!- latrò Julia, sedendosi al tavolo con loro – Disegni benissimo, molto meglio di noi quattro messi insieme. Anzi, ci faresti un favore gigantesco?
-Cristo, Julia, smettila!- sbottò Tom – Me lo spaventi se fai così!
-Io non spavento proprio nessuno! E poi scusa, ci avete pensato?- si girò verso i G&G che aveva invaso il tavolino con birre e panini, facendo vergognare Tom di aver portato Bill proprio in quell’Inferno fatto di sfigati senza arte ne parte – Dobbiamo fare lo striscione di buon compleanno per Becca, e sono sicura che se ci mettiamo noi a farlo viene una schifezza colossale. Se ce lo facesse Bill saremmo sicuri che verrebbe una roba da premio.
-Eh, in effetti … - considerò Georg – L’ultima volta che ho provato a disegnare Gustav mi è venuto fuori un puffo da asilo nido …
-Ma ragazzi, non è giusto!- sbottò Tom – Lo conosciamo appena, non …
-E’ un modo per fare conoscenza.- lo zittì Gustav, per poi girarsi da Bill e dargli una pacca sulle spalle scheletriche, facendole scricchiolare – Eh, bamboccia, ce lo faresti il disegno per il compleanno della nostra amica? Non è difficile, dovresti solo fare un ritratto a noi quattro che facciamo qualche faccia stupida e scrivere a caratteri cubitali “Buon Compleanno Rebecca”.
-Ovviamente stanno scherzando.- intervenne tempestivamente Tom, passando un braccio attorno alle spalle di Bill prima che Gustav tornasse a dargli pacche da portuale. – Non devi fare assolutamente nulla per noi, non …
-Tom, mi fai un sorriso?- Bill lo guardò con un’espressione talmente dolce che gli sembrò di sciogliersi nell’ambrosia – Se è un disegno per un compleanno non sarebbe carino avere una faccia arrabbiata.
Mentre Tom boccheggiava, Georg esclamò
-Ma allora ce lo fai? Che persona adorabile che sei! Ti saremo debitori a vita!
-Come volete che vi ritragga?- Bill li guardò uno per uno, sfarfallando le lunghe ciglia – Posso farvi in versione manga, versione caricaturale, versione ritrattistica normale o in versione pupazzo.- e prima che Tom potesse dire “quella che ti viene più semplice”, cinguettò - Per me non cambia niente, sono tutte piuttosto facili.
I quattro ragazzi si guardarono un po’ in faccia, indecisi su cosa scegliere, per essere nuovamente interrotti dalla vocina melodiosa e vagamente malinconica di Bill
-Oppure posso farvele tutte e quattro e così scegliete quella che vi viene meglio.
-Lo faresti, sul serio? Sei splendido!- strillò Julia, stringendolo in un abbraccio mozzafiato – Anche perché non penso che Gustav sappia cosa voglia dire manga e che Tom capisca cosa sia la versione pupazzo.
Tom si grattò la guancia, incerto se dire agli altri di lasciare in pace Bill per avere una scusa per portarli in un angolo appartato e spiegare la scottante faccenda misteriosa che aleggiava attorno al suo avvenente biondo tinto, oppure se lasciar perdere e non lasciarlo solo nemmeno per un secondo. Era come se esercitasse una forza magnetica più che inquietante su di lui, come se lo avesse attratto nella sua orbita infernale e lo costringesse a orbitargli attorno senza riuscire a staccarsene, lo faceva girare come una trottola perenne che rimaneva attratta dalla sua forza magnetica abnorme. Come Morgana con re Artù, come Ginevra con Lancillotto, come Isotta con Tristano, come Giulietta con Romeo. C’era qualcosa che Tom riconosceva dentro di lui, un lontano e primordiale richiamo a cui non sapeva rispondere, una serie di immagini scoordinate e confuse che roteavano nella sua mente e che irrimediabilmente conducevano ai suoi enormi occhi scuri, delle immagini senza senso logico che sembravano sospingerlo sempre di più verso Bill, come a incoraggiarlo verso qualcosa di antico e arcano che li legava da tempi immemorabili, qualcosa che giaceva addormentato nei loro cuori e che stava cominciando a svegliarsi dopo anni di riposo costretto. Sì, forse lui sapeva chi era Bill. Doveva solo imparare a ricordarselo.
Come se gli avesse letto nel pensiero, cosa che forse era davvero successa, suggerì la Coscienza di Tom, Bill disse
-Però se devo disegnare devo rimanere da solo; potreste cambiare tavolo sinché non ho finito?
-Sì!- urlò con troppa enfasi Tom, alzandosi di scatto e inciampando di conseguenza nei lacci perennemente slacciati delle scarpe. Ok, va bene, non sapeva ancora allacciarsele a ventisei anni suonati, che problema c’era?
Si trasferirono con panini al prosciutto fritto e boccali di birra scura fino al bancone malandato e sporco di macchie sulle quali sarebbe stato meglio non indagare, lasciando l’angelo accoccolato sul divanetto rosso a disegnare per loro, i capelli biondi rilucenti alle soffuse luci del locale come i piercing e i gioielli tribali che gli ornavano polsi, dita e collo. Era davvero bello, pensò Tom. Troppo bello per un comune mortale come lui.
-Allora, vecchio mio, cos’è successo? C’entra Bill, vero?- lo precedettero in coro Georg e Julia, attaccando voracemente i panini ultra unti.
-Abbiamo scoperto che ci conosce, dannazione!- sibilò Gustav – Forse voi non gli avete dato il tempo materiale di dirvi qualcosa su di voi da giovani, ma vi assicuro che quello lì è il diavolo incarnato! Anzi, peggio, è una sporca spia russa del KGB! No, anzi, è uno del controspionaggio cambogiano! Oppure è uno sporco comunista! Pericolo rosso in vista!
-E piantala, deficiente, non è andata così!- lo rimbrottò Tom, mettendosi poi a raccontare per filo e per segno tutto quello che era successo, intervallato ogni tanto da qualche sonoro rutto di Gustav, da qualche sputazzo di Georg, da qualche commento sconcio di Julia, da qualche silente comparsata del suo meraviglioso Bill che li afferrava per il mento scrutandoli attentamente e che poi tornava a riportarli sulla carta. Una volta finito di raccontare, si stampò sul bancone gorgogliando – Vi prego, ditemi che vi ricordate qualcosa sennò mi vado a buttare in mezzo alle patatine fritte e mi lascio morire solo e reietto nell’olio da friggere …
-Ma Tom, non è possibile, cazzo!- sbottò Georg. – Un tipo come Bill è decisamente fuori dal comune, per quanto tu non te ne possa ricordare per i motivi che ben sappiamo io me ne ricorderei, Gustav se ne ricorderebbe, Julia anche. Deve esserci qualcosa che ci è sfuggito.
-Però scusa, anche se non fosse stato in classe con me e Julia, come potrebbe ricordarsi di tutti noi? Non eravamo popolari, non eravamo belli, non eravamo intelligenti, eravamo solo ragazzini come ce ne sarà a miliardi! Ok, io avevo i dread ed ero pure l’unico ad averli, ma cazzo sono passati anni, non li porto più da un secolo!- Tom si mise le mani tra i capelli sbuffando.
-A meno che non sia cambiato tanto.- fece presente Gustav – Appunto, tu eri un rasta finto, ma ora grazie a Dio non lo sei più. Magari lui poteva essere diverso al liceo, e ora è diventato così, quindi non potremmo ricollegarlo nemmeno volendolo a un ipotetico Bill della nostra infanzia. Come è quasi impossibile ricollegare il Tom ventiseienne al Tom sedicenne.
-Tom, dici che Bill parli per citazioni di canzoni grunge?- domandò Julia, il viso vagamente da faina contratto in una smorfia pensierosa.
-Sì, Juls. Citazioni continue dei Nirvana, degli Alice In Chains. Perché?
-E come fa di cognome?
-Non lo so, non glielo chiesto. Dove vuoi andare a parare?- Tom aggrottò la fronte.
-Non l’hai già visto nudo per caso?
-Julia!
-E stai calmo, non fare tanto il santarellino che tra tutti sei il più pervertito! Piuttosto, fatemi ragionare.- Julia li guardò con un’espressione vagamente folle nelle pupille – Viene da Magdeburgo, si chiama Bill, ha i capelli palesemente tinti di biondo, è truccatissimo, parla per musica grunge degli anni 90, è evidentemente squilibrato, probabilmente veniva a scuola con noi, prende dei tranquillanti … ragazzi ci sono! Penso di aver capito chi è!
Julia balzò in piedi, e con lei gli altri tre, che la guardavano con gli occhi sbarrati, misti tra lo stupefatto, l’eccitato e l’angosciato.
-E allora, chi ti ha fatto venire in mente?- la spronò Georg.
-Su, Juls, dai, chi cazzo è Bill?- insisté Tom, occhieggiando il biondo che se ne stava pacificamente seduto a disegnare, dando segno di non stare sentendo nulla.
Julia li guardò con gli occhi sbarrati dall’eccitazione mista a un filo di angoscia
-Io … io credo che lui sia Bill Schadenwalt.- e viste le espressioni interrogative dei tre ragazzi, continuò lentamente, a bassa voce – Il ragazzino che a quindici anni aveva tentato il suicidio a scuola sparandosi in bocca come Kurt Cobain.

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Capitolo 5
*** The Walking Dead non insegna queste cose! ***


CAPITOLO CINQUE: THE WALKING DEAD NON INSEGNA QUESTE COSE!

-Sono contento che almeno la tua amica abbia capito qualcosa di me.
-Cosa, scusa?
-La tua amica, Tom. Julia. Due ore fa, al Brecheisen, quando mi avete lasciato a disegnare.
-Cosa?!
Tom strabuzzò gli occhi, strozzandosi col fumo della sigaretta e attaccando a tossire, voltandosi a guardare il viso angelico e sorridente di Bill che lo scrutava gentile da dietro al cortina di fumo chiaro della sigaretta che teneva signorilmente tra le dita.
Avrebbe voluto sprofondare seduta stante nel vecchio marciapiede completamente dissestato della Amburg Strasse, trasfigurandosi nel lampione scrostato di fronte a loro e nascondendosi nell’androne di uno di quegli inquietanti palazzi del secondo dopoguerra che si ammassavano uno sull’altro nelle angoscianti strade della peggiore periferia berlinese. Allora aveva sentito tutto, dannazione. Ogni minimo commento, allusione, idea partorita dalle loro folli menti Bill l’aveva colta, analizzata, studiata. E chissà che opinione si era fatto di loro, di lui, quella di un branco di comari che spettegolavano sul primo tipo strano che gli capitava sotto tiro, di una banda di mezzi disoccupati sfaccendati che passavano il loro tempo a fare circonlocuzioni stupide sulla gente. Non osava nemmeno pensarci; era stato davvero, davvero idiota, a credere che non avesse sentito nulla. Ma come avrebbe potuto, se Julia aveva un tono di voce che rasentava i 90 decibel e tra lui e i G&G potevano fare a gara su chi urlava di più? Ok, era ufficialmente cretino. Probabilmente ora Bill avrebbe fatto sbucare dal nulla il suo amante gigantesco che lo avrebbe riempito di botte, primo perché ci stava provando col suo fidanzato, secondo perché era stato così furbo da spettegolarci sopra. Si immaginava già la scena di uno skinhead enorme che faceva capolino fuori dalla sudicia oscurità con un manganello e cominciava a dargliele di santa ragione, con Bill che sghignazzava e godeva un sacco nel vederlo distrutto che si contorceva come un  vermiciattolo sul selciato umido, per poi appendersi al braccio del suo cattivissimo uomo e lasciarlo lì per terra in pasto alle carogne che popolavano quel quartieraccio. Non voleva finire i suoi giorni in un vicolo, vomitando sangue e sputando ossa, non aveva nemmeno ventisette anni, non aveva ancora completato la traduzione del libro! La vita era già abbastanza grama così, anche senza morire picchiato e abbandonato al suo turpe destino. Si girò di colpo verso Bill, la faccia tramutata in una maschera di adorabile disperazione
-No, Bill, ti prego, non farmi uccidere, ti scongiuro! Ti prometto che non ti guarderò più, non ti parlerò più, non ti stalkererò mai, ma tienimi lontano il tuo amante skinhead col manganello e il grugno da galera, farò tutto quello che ti pare, davvero, The Walking Dead non aiuta per un cazzo a cavarsela d’impiccio in queste situazioni, evitami l’ospedale, ti prego, Bill, sii magnanimo!
-Tom, hai bevuto?- Bill sfarfallò i grandi occhi truccati, posandogli una mano sul braccio, con aria sinceramente preoccupata – Io non voglio farti uccidere, e nemmeno spedirti in ospedale, cosa stai dicendo? E poi non ho mica un amante skinhead, chi te l’ha detto? Non ho uomini in generale, comunque, e anche se ce l’avessi perché dovrebbero picchiarti?
-Aspetta, non ti sei offeso per quello che abbiamo detto prima io e i ragazzi?- chiese circospetto Tom – E non mi vuoi uccidere, come fanno nel Trono di Spade? “Famiglia, dovere, onore”, come il motto dei Tully. Niente del genere?
-Penso che tu veda troppi film, caro.- cinguettò Bill, e Tom poté solo trattenersi dal fare un laghetto di bava quando sentì la parola “caro” pronunciata da quell’angelo. Assumeva un'altra connotazione. – Sono una persona civile, e poi proprio tu! Come potrei mai voler fare del male a te, Tom? Sei così dolce e amorevole. E poi sei troppo carino per farti fuori, non trovi?
Se da una parte il ragazzo si stava mentalmente picchiando per essersi lasciato trasportare dalla sua fervida fantasia e da tutte le sitcom che non faceva che vedere alle due di notte quando non riusciva a dormire, dall’altro si sentiva praticamente tre metri sopra al cielo. Cioè, Bill gli aveva appena detto che non solo era dolce e amorevole (quello glielo dicevano più o meno tutti, perché sì, Tom era cosciente di essere davvero una pasta di ragazzo) ma pure carino! Cioè, non che non ci fossero state sfilate e sfilate di ragazze (chissà perché poi, sempre donne) che gliene avevano dette di tutti i colori, da semplici “sei bellissimo”, a “mio dio, quant’è figo Kaulitz”, a certe che avrebbe volentieri cancellato dal repertorio, però anche un semplice “sei così carino” detto da Bill suonava come un milione di campane celesti che suonavano a festa per le strade. Era una musica divina per le sue orecchie. C’era una tonalità così candida e innocente, così straordinariamente pura che lo scuoteva da dentro, quella vocina musicale che gli riempiva le orecchie come il suo sguardo penetrante gli offuscava la vista. Potevano conoscersi da anni o anche da un giorno, ma sicuramente, Bill gli era già entrato nel cuore, con prepotenza, facendosi largo a sfarfallamenti di ciglia e ancheggiamenti provocanti, insinuandosi subdolamente nel suo inconscio, facendo leva sulla sua memoria cortissima e sul suo spirito perennemente perso a inseguire chimere di vento, scavandogli un buco nel cuore nel quale infiltrarsi e nascondersi come un topolino, lottando con le unghie per diventare il primo e l’unico dei suoi pensieri e focalizzare l’attenzione ballerina solo su di lui e sulla sua bellezza ultraterrena. 
-Aehm, in realtà … stavamo dicendo … - Tom si grattò la guancia, tentando di riallacciarsi al discorso precedente ma senza riuscire a formulare una frase di senso compiuto e una bugia che reggesse decentemente.
-La tua amica ha detto che ha capito chi sono. Sono così felice!- Bill gli si appese al braccio come un peso morto, ondeggiandogli mollemente al fianco, un sorriso radioso ad illuminargli il viso – Sai, a un certo punto ero terrorizzato all’idea di starmi gloriosamente confondendo, quando ti ho visto così convinto di non avermi mai visto, ma poi, quando ho visto Gustav, e Georg, e Julia ho capito che invece vi avevo ritrovati dopo tutti questi anni! E poi vedi, se mi dici che soffri di amnesia retrograda, allora è tutto perfetto. Tutti i tasselli tornano a combaciare.
A quel punto Tom era cosciente di poter risultare davvero, davvero cretino, ma non poté fare a meno di chiedere, quasi spaventato dall’ipotetica risposta che gli poteva arrivare, cercando nel contempo di tenere in piedi Bill
-Ehm, ma per tasselli cosa intendi?
Bill si bloccò di colpo, barcollando sui tacchi vertiginosi, e si girò lentamente, posando le lunghe mani ingioiellate sulle spalle di Tom, facendosi serio all’improvviso, lo sguardo gelidamente incatenato a quello dell’altro, una buffa espressione determinata incastonata nella faccina da bambolina nascosta da quintali di trucchi e piercing.
-Vieni a casa mia, Tom. Dobbiamo assolutamente parlare di cose importanti. Io e te abbiamo una storia scritta nelle stelle, dobbiamo capire insieme come decodificarla.
Tom annuì, imbambolato da quello sguardo vuoto come quello di un pupazzo e lucido di quella follia terminale. Certo, se si parlavano di storie scritte nelle stelle e Codici Enigms che non avevano nulla da invidiare a Guerre Stellari, il ragazzo sarebbe stato il primo a catapultarvicisi dentro a capofitto eppure c’era qualcosa dentro Bill che lo inquietava, e non era tanto per l’aspetto grottesco o per i discorsi senza capo né coda che diceva, ma per quella luce che nascondeva sotto l’esaltazione e quintali di eye-liner, quella determinazione scombinata che gli scaturiva a fiotti dal cuore. Beh, ma poi in fondo che male poteva esserci a fare il cavaliere con un ragazzo così dannatamente seducente? Insomma, non si stavano mica sposando, era solamente un ipotetico “provarci” … no. Se lo diceva da solo per auto convincersi che non si stava imbarcando in un’avventura fuori dalle righe che non avrebbe fatto altro che divorarsi gli ultimi rimasugli di sanità mentale del suo cervello perennemente sovraeccitato, cosa che invece stava puntualmente per fare. Ma d’altronde, aveva qualcosa da perdere? No, non aveva nulla da dare e nulla da lasciare, a quel punto poteva fare davvero quello che gli saltava in testa senza paura di rovinare quello che non possedeva. E se consacrarsi a quell’inquietante biondo voleva dire portare una nota di colore e pazzia nella sua monotona vita da traduttore di romanzi, allora, beh era pure pronto ad accompagnarlo a casa. E chissà che non ci uscisse … no, la sua bigotta coscienza lo aveva subito messo a tacere.
-Allora vieni, abito qua sopra!- Bill lo spinse dentro l’androne di uno dei palazzi più male in arnese del circondario, impregnato di qualcosa che Tom non voleva assolutamente approfondire, lurido di siringhe abbandonate e pozze di liquidi piuttosto ambigui. Salirono praticamente di corsa cinque piani di scale strette e lerce, facendo lo slalom tra vecchiette isteriche, clochard in coma etilico e eroinomani che si litigavano per un po’ di eroina tagliata male, saltando bottiglie e vetri rotti, superando vestiti stracciati e bossoli di pistole poco rassicuranti, oltrepassando porte mezze sfondate da dove provenivano voci concitate e pianti infantili, arrampicandosi per gradini angusti e sconnessi, sorvolando su una colonia di topolini al quarto piano e sulle goccioline d’acqua che bagnavano e facevano marcire le pareti lorde, fino a trovarsi di fronte a una porta piuttosto scassata
-Ehm, ma Bill, non è pericoloso vivere qui?- mormorò Tom, guardando con aria circospetta il gigantesco skinhead dei suoi incubi passargli dietro la schiena brandendo un manganello. Gli dava fastidio il fatto che un angelo come Bill dovesse vivere in quella topaia.
-Assolutamente no, caro.- sorrise il biondo, dandogli un buffetto sulla guancia – A parte il fatto che mi scambiano tutti per una prostituta, e qui le ragazze sono letteralmente sacre, poi la gente del palazzo mi vuole bene. Sì, forse tutto l’insieme è, come dire, vagamente decadente, ma esiste un legame che in un altro ambiente non si sarebbe mai creato. Vedi, Tom, proprio perché è uno dei palazzi peggiori del peggior quartiere di tutta Berlino si è creata una sorta di fedeltà omertosa tra gli inquilini, come se fossimo un’unica grande famiglia, pronti a proteggersi con i denti per mantenere il delizioso degrado che ci ospita nel suo fecondo grembo. È una cosa molto “periferica”, non pretendo che tu la capisca.
Tom annuì comprensivo, anche se non aveva capito un’acca del discorso: tecnicamente parlando, anche lui viveva in periferia ma gli abitanti del suo palazzo erano delle bestiacce pronte ad affettarsi con una mannaia, non un clan di rifiuti umani che si aiutavano a vicenda. C’era qualcosa che gli sfuggiva in tutto ciò. Si doveva davvero essere ai limiti delle condizione sociale accettabile per avere un legame come quello che doveva coesistere nel palazzo di Bill.
Entrarono dentro l’appartamento, che si presentò troppo bollente per i gusti di Tom, piccolo e incassato tra le pareti di vecchio cemento e alluminio di quei palazzoni popolari del secondo dopo guerra, dentro a un salotto che fece rimanere a bocca aperta il ragazzo. Cioè, si era aspettato di tutto, ma non quello che gli si stava aprendo sotto gli occhi. Rimase immobile, con una faccia vagamente idiota stampata sul viso, la parola bloccata a metà strada tra la gola e le labbra, un fastidioso brivido di gelida ansia che gli correva per la spina dorsale. Davanti a lui si apriva infatti un salottino piuttosto piccolo e disordinato, con un vecchio divano verde con le nappe praticamente sfondato, una quantità assurda di vinili e libri di ogni genere sparpagliati dovunque, insieme a acquerelli e fogli scritti a mano e a computer che tappezzavano la stanza, un grosso giradischi e una macchina da scrivere occupavano parte di un’immensa libreria dove giacevano oggetti di ogni sorta gettati alla rinfusa, un lampadario Tiffany illuminava debolmente quell’ammasso di arte ma la cosa che più fece rimanere di stucco, furono i quadri. Che fossero acquerelli, acqueforti, bozzetti, tempere, oli, qualunque tecnica pittorica veniva riproposta in milioni di ritratti. O meglio, autoritratti di Bill. Bill, che era dovunque, per terra, sui muri, sul soffitto, Bill e solo Bill che roteava in mille sfaccettature diverse per quella calda stanza. E quello vero, che rideva affianco a lui, i grandi occhi scuri assottigliati in un’amorevole espressione. Tom boccheggiò, senza davvero volerlo, guardandosi attorno con aria spaesata, perso in quell’universo di caos e colori che si alternavano come un mosaico bizantino dell’epoca dell’oro. Era sprofondato in una dimensione paradigmatica dove c’erano solamente assurdi autoritratti, in ogni posa, con ogni abbigliamento, di quel ragazzo assurdo che gli stava al fianco.
-Vedi, caro, lo diceva anche Frida Kahlo “Dipingo autoritratti perché sono spesso sola, perché sono la persona che conosco meglio”.- Bill gli girò attorno, accarezzandogli delicatamente la spalla – Io faccio lo stesso. Dipingo me stesso, nelle mie mille sfaccettature diverse. Tu le conosci tutte, Tom, anche se non ne ricordi nemmeno una.
Tom deglutì rumorosamente, tentando per un leggero sorriso contemporaneamente nervoso e incantato. C’era un arcano celato dentro gli occhi vuoti di Bill, una meraviglia disinibita del mondo, un’innocenza aulica; era come l’Ippolita di Baudelaire che cedeva in un paradiso meschino sotto le cure di Delfina, era la Sonia di Dostoevskij che con la sua dolcezza persuadeva Raskol’nikov, era la Emma perduta e mai più ritrovata di Balzac. Erano inquietanti, di certo, quei mille e mille specchi della stessa persona che rimbalzavano uno sull’altro, ma mostravano come davvero forse era l’animo del loro pittore: una tempesta terribile e scatenata, una rosa che versa sangue, un bezoar perduto nell’Himalaya. Eppure lui non ricordava. Non sapeva chi fosse Bill, se non appunto il fatto che fosse un … suicida. Quella cosa lo disturbava nel profondo, ma non tanto per il fatto in sé, quanto perché lui sapeva che il suo corpo lo riconosceva anche se non sapeva ricordarlo. Non gli era nuova la sensazione di freddo alla bocca dello stomaco e il giramento di testa che lo aveva pervaso non appena Julia se ne era uscita con quella balzana e inquietante rivelazione, eppure non riusciva a ricollegarla a nessuna immagine del suo passato. Che lo avesse visto? Che avesse avuto una parte fondamentale nel tentato suicidio di Bill? Nessuno gli aveva saputo dire nulla. Non osava tirare in ballo la cosa con il diretto interessato, non si sentiva psicologicamente pronto a sentirsi snocciolare in faccia una serie di fatti dalla dubbia veridicità. Si sedette sul vecchio divano verde, insieme al fido Lloyd e ai fidi vocabolari, seguendo con lo sguardo il biondo che saltellava dal giradischi e metteva a un volume orribilmente alto “In Utero” dei Nirvana.
-Senti, Bill … mi dispiace.- mormorò Tom, grattandosi il collo – Che non mi ricordo di te nonostante i tuoi sforzi.
-Su, non dire così. Sono più che sicuro che ricorderai tutto, prima o poi.- Bill gli fece un largo sorriso, tirando giù un pesante broccato verde che copriva un grosso specchio a muro tipicamente barocco, spingendoci davanti uno sgabello alto, mentre scopriva una grande tela dove campeggiava un disegno davvero troppo perfetto per non sembrare di origine divina. Era un autoritratto, come tutti gli altri, dove Bill se ne stava sensualmente inerpicato sullo sgabello, una specie di vestitino addosso e …
-Scusa, caro, non ti dispiace se mi spoglio davanti a te, vero?
Tom non ebbe nemmeno il tempo di metabolizzare la frase che vide Bill cominciare a levarsi la camicia semi trasparente, con quelle sue mossi così provocanti da sembrare una ninfa dell’Elicona, lasciandola cadere per terra davanti ai suoi occhi comicamente spalancati, sconvolto da quello spogliarello che stava tranquillamente avvenendo sotto ai suoi occhi. Era anche troppo basito per lasciare la sua parte pervertita uscire fuori, limitandosi a sbavare leggermente a vedere il petto pallidissimo e ossuto di Bill, ricoperto di tatuaggi che avrebbe volentieri seguito col dito per addentrarsi nelle miriadi di storie che si portava dentro l’anima e sulla pelle, leggende mitologiche che decoravano un corpo che aveva ancora tanto da raccontare e da imparare, racconti taciuti, dannati, dimenticati. Delle ceree cicatrici si intravedevano tra il nero dell’inchiostro, talmente sottili come stilettate che Tom non riuscì nemmeno a decifrare come avrebbe voluto, ma che immediatamente gli rimbalzarono agli occhi come qualcosa che aveva già visitato il suo oscuro passato. Sì, decisamente lui doveva aver conosciuto tanti Bill, e ora ne era arrivato un ennesimo a mostrarsi come decima Musa. Scese con lo sguardo alla vita, dove la mani lunghe e nervose erano impegnate a slacciarsi gli skinny leopardati vagamente imbarazzanti, trattenendo istintivamente il fiato quando lo vide toglierseli con una lentezza esasperante, mostrandogli le gambe snelle e femminee e quel fondoschiena letteralmente perfetto. Doveva stare calmo, accidenti al diavolo. Doveva stare calmo, non saltargli addosso, non fargli un laghetto di bava sul divano e soprattutto non doveva sfiorarlo nemmeno con un dito. Cosa ben difficile, visto che Bill gli stava praticamente facendo un balletto da striptease davanti al naso, impegnato a saltellare in giro raccattando tempere e pennelli con addosso solo un paio di boxer. Se riusciva a uscire vivo da quella casa, Tom voleva un premio per l’integrità personale e la presenza di spirito di aver resistito a una serie di tentazioni demoniache.
-Scusa se sono un pessimo padrone di casa, ma devi capire che devo assolutamente finire questo quadro che avevo iniziato, è una necessità impellente! Intanto, se non devi lavorare, puoi guardare questi schizzi.- Bill gli tese un grosso pacco di carboncini – Sono i ritratti delle mie sfaccettature di adolescente.
Tom prese tremante in mano il pacco di disegni, continuando a fissare incantato Bill che si infilava una babydoll rosa confetto decorata col pizzo nero, cercando di zittire la sua mente perversa che gli stava suggerendo a raffica tutte le sconcezze possibili e immaginabili da fare al biondo con addosso quella dannata camicia da notte. Seguì con lo sguardo il ragazzo che si accoccolava sullo sgabello, stringendo tra le dita un ventaglio di carta di riso, lo sguardo maliziosamente sensuale e un pennellino pronto a colorare e a definire il quadro che stava prendendo vita sulla grande tela.
-Come mai ti sei vestito così?- chiese Tom, con un certo tono reverenziale nella voce, osservando rapito le delicate movenze del ragazzo.
-Questa è una delle tante parti di un’unica anima.- spiegò Bill con aria eloquente – La maliziosa innocenza dell’Essere, la Lolita che c’è in ognuno di noi. La camicia da notte è una cosa da bambine, ma con questo tipo di decorazione sicuramente sa tanto di sesso sporco, il ventaglio dà l’idea di riservatezza e pudore ma lo usavano le geishe che erano delle sorte di concubine nel Giappone Imperiale.
-Usi tanti simbolismi, Bill. Non li trovi vagamente esagerati?- commentò rapito Tom, cominciando a sfogliare delicatamente il blocco dove si alternavano moltissimi autoritratti di un ragazzino truccatissimo con i capelli corvini e un vistoso ciuffo sulla fronte. C’era qualcosa nel suo sguardo di carboncini, che urlava al ragazzo di ricordare, di spremersi le meningi. Un Coniglio Marzolino che Tom non riusciva mai ad afferrare in tempo per cominciare a scappare dalla sua Wonderland.
-I simboli sono le chiavi, Tom. E senza chiavi, nessuna porta si aprirà mai.
Bill sorrise mestamente, intingendo il pennello in una boccetta di un tenue rosa, tornando ad estraniarsi completamente dal mondo che lo circondava.
Tom sospirò rumorosamente, lasciando indugiare lo sguardo forse un po’ troppo su quel corpo perfetto che aveva a portata di mano, ma decise di aspettare che almeno finisse quel suo grosso autoritratto e che abbassasse il volume di In Utero, prima di lanciarsi in una qualche dichiarazione copiata da qualche telefilm per ragazzine che si ritrovava a guardare in compagnia di Julia mentre tentava di finire una traduzione. Non era mai stato una persona particolarmente romantica, ma sapeva che forse, in quel caso, avrebbe potuto fare un’eccezione per quella meraviglia della Natura che era Bill. Per lui era quasi sicuro che avrebbe mollato tutto pur di averlo vicino, sarebbe stato pronto a trasferirsi dovunque, a vivere su una chiatta in mezzo al Pacifico se era quello che voleva, avrebbe imparato qualsiasi lingua gli piacesse, gli avrebbe suonato miliardi di volte ogni canzone degli Alice In Chains fino a farsi sanguinare le dita, si sarebbe immolato per qualunque causa possibile, sarebbe diventato pure vegano se Bill gli l’avesse chiesto. Sapeva, lo sapeva da dentro il cuore che glielo stava urlando da dentro, che per quel biondino meraviglioso avrebbe fatto l’impossibile. Si sarebbe fatto licenziare, avrebbe fatto terra bruciata dietro di sé, avrebbe rinnegato la sua religione, il suo Paese, la sua stessa famiglia se ciò richiedeva avere la Costante Bill nella propria esistenza. C’era una nuova sensazione che non conosceva ma che gli faceva paura che aveva invaso la sua testa da quando si erano incontrati, una sensazione che gli diceva che Bill era davvero una creatura sopra a tutto, che per averlo avrebbe dovuto sacrificare più di quanto era in realtà disposto ad ammettere, che sarebbe stata la sua eterna variabile ma mai una costante, come una selkie senza la propria pelle. Bill avrebbe potuto fuggire via non appena trovata la sua pelle e nascondersi tra i flutti, avrebbe potuto essere la sua Lorelei, la sua Dafne, la sua Rozanicy, tanto bello quanto mitologico, tanto perfetto quanto etereo, pronto a involarsi con la prima tramontana o col primo soffio di grecale.
Tom sfogliò lo spesso blocco, osservando attentamente ogni disegno, lanciando ogni tanto un’occhiata al padrone di casa, quando gli cadde tra le mani un pezzo di carta che aveva poco di acquerello. Lo guardò incuriosito, sentendosi davvero trasportato in una dimensione hollywoodiana che tanto sognava.
“[…] Presenta una particolare forma di ipertimesia e un grave sdoppiamento di personalità dovuta agli abusi subiti in età infantile e adolescenziale […], una patologia dissociativa raramente verificata in altri soggetti, a dispetto del Q.I. molto al di sopra della media, aspetti sociopatici inusuali e una forte tendenza all’autolesionismo […] E per la precedente causa, il paziente Bill Schadenwalt è considerato incapace di intendere e di volere, risultando un membro pericoloso per se stesso e la comunità.“
Tom non fece in tempo a capacitarsi di quello che aveva appena letto, strabuzzando i grandi occhi scuri di fronte a quell’assurdo foglio che gli sembrava a quel punto solo il frutto della sua mente troppo eccitabile, a capire da dove sbucassero tutte quelle assurdità sul conto di Bill, del suo Bill, che sentì una voce gelida, strana, quasi sconosciuta rimproverarlo dallo sgabello dove fino a poco tempo fa stava raggomitolato il ragazzo più dolce e mieloso che avesse mai conosciuto
-Lascia stare quel foglio, Bill. Mollalo subito.
E quando il ragazzo alzò terrorizzato gli occhi su Bill, trattenne a stento un gemito atterrito a vedere i tratti da bambolotto distorti in una durezza e in una cattiveria glaciale e inumana, letteralmente sconvolgente sapendo cosa vi era prima in quel viso truccatissimo, e gli occhi assottigliati in due fessure da dove scaturiva un odio talmente forte da far perdere l’equilibrio, svuotati da ogni dolce trasognatezza e traboccanti una spietata crudeltà, cattivi come quelli di un demonio incarnato.
Tom ingoiò a vuoto, posando il foglio sul divano, sbigottito da un così repentino cambio di personalità, quelle parole che gli rintronavano la testa “un grave sdoppiamento di personalità dovuta agli abusi subiti in età infantile e preadolescenziale …”. Ma che diavolo stava a significare tutto ciò e che c’entrava con quella stella che era Bill? Ma soprattutto, in che diavolo di folle avventura di era andato a imbarcare?

***
Volevo solo scusarmi per il ritardo osceno e per questo capitolo forzato e ridicolo D: sorry a tutte le lettrici, spero che mi lasciate comunque un commentino, e buona estate visto che (finalmente) sono finite le scuole! Non ne potevo più ma ora Summer!!! :D
Un bacio a tutte
Charlie 

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Capitolo 6
*** Ho bisogno che tu mi baci, Tom ***


CAPITOLO SEI: HO BISOGNO CHE TU MI BACI, TOM.

-No, Bill, io, cioè … - balbettò Tom, deglutendo rumorosamente, rannicchiandosi nell’angolo del divano con gli occhi comicamente spalancati.
-Tu non fai mai quello che ti dico, Bill. Devi imparare a ubbidire.- mormorò sprezzante Bill, gli occhioni inquietantemente assottigliati e le mani sui fianchi, guardando Tom ma senza in realtà vederlo.
Il ragazzo spalancò di colpo gli occhi: ma perché diavolo Bill lo stava chiamando col suo, di nome? E come mai lo fissava senza nemmeno realizzare che fosse lì? Doveva fare qualcosa, immediatamente, qualcosa di tempestivo per calmarlo e riportare la pace che c’era fino a due minuti prima, anche se non sapeva assolutamente come. La sua coscienza gli stava caldamente consigliando di abbracciarlo e accarezzargli la schiena come si vedeva fare in televisione, ma il suo cervello gli ricordava che poteva anche finire accoltellato dopo un’azione simile. No, Tom non era un eroe, e non aveva mai preteso di esserlo. Era solo un bambino che a quasi ventisette anni non si decideva ancora a lasciarsi alle spalle l’Isola Che Non C’è, tergiversava con Alice e con la sua Wonderland, viveva sospeso ai suoi libri e ai suoi film, chiudendosi a guscio di fronte alla maturità, come un piccolo soldatino di stagno che cade nelle fogne e ne esce salvo per miracolo. Assolutamente, Tom non era pronto a crescere, lo sapevano tutti. Ma era pronto a fare l’eroe, a volte. A fare l’eroe per persone che nessuno avrebbe mai voluto salvare. Dunque, deglutì ancora e si alzò lentamente, cercando di assumere il tono più naturale e tranquillo che gli riusciva
-Ehi, Bill, stai tranquillo. Non succede niente, stai calmo, sì?
Gli posò con una delicatezza a lui estranea una mano sulla spalla, e tutto ciò che ottenne fu un movimento inconsulto e uno strillo
-Chi ti ha detto che puoi toccarmi?! Cos’ho fatto di male per meritarmi un fratello come te? Sei pazzo, Bill, sei completamente pazzo. Tieni giù quelle schifose mani!
Tom sfarfallò gli occhi, rimanendo basito di fronte a quella schizzata. Fratelli? Ma che diavolo … sembrava quasi che il suo meraviglioso biondo si fosse tramutato in un’altra persona, era cambiato il tono di voce, lo sguardo, la stessa impostazione vocale. Il ragazzo prese un profondo respiro, cercando di estraniarsi dalla dannata voce di Kurt Cobain che continuava a strepitare come un folle nelle casse, raccogliendo quel poco di coraggio di cui era dotato. Non capiva che diavolo stava succedendo a Bill, non capiva chi stava impersonando, non capiva che turbe mentali lo dannassero, ma era pronto a salvarlo, in qualche modo. O, perlomeno, a farlo tornare il Bill di prima, tutto Peace&Love, che parlava con un accento costruito per sembrare eccessivamente dolce, che aveva un sorriso più zuccherino del dolcificante e faceva dei discorsi che sarebbero stati bene in una comune olandese negli anni 60.
Gli afferrò di colpo entrambe le spalle, stringendolo con forza forse eccessiva
-Bill. Sono io, sono Tom. Tu sei Bill, quella persona carinissima che parla come un hippy cannato, che dice di aver visto la nascita del mondo, che si ricorda di me e mi accetta anche se io non ricordo nemmeno che ho fatto stamattina. Hai capito? Tu. Sei. Bill.
Il biondo sfarfallò nervosamente gli occhi, tornati di nuovo grandi e innocenti come prima, e si mordicchiò nervosamente il labbro inferiore.
-Io voglio mio fratello.- sussurrò, quasi più a se stesso che all’altro, una tenera smorfia corrucciata stampata sul viso di nuovo disteso – Voglio mio fratello. Dov’è Hansi? Dove l’hai nascosto?
Gli occhi dei due ragazzi si incontrarono, un paio folli e interrogativi, un paio terrorizzati e sconvolti. Si studiarono, di nuovo, e si riconobbero ancora, di quel riconoscimento antico come la Terra e come l’amore. Ma si persero ancora, quando quelli terrorizzati tagliarono ancora il sottile filo che li teneva legati.
-Non so chi sia Hansi, non lo conosco e non l’ho nascosto da nessuna parte. Devi calmarti, tesoro. Siediti qui.- Tom si passò una mano tra i capelli troppo lunghi, facendolo sedere sul divano e vi si accucciò vicino, prendendogli delicatamente una mano tra le proprie – Qui ci siamo solo io e te. Io mi chiamo Tom, tu ti chiami Bill, siamo in un appartamento del n°13 della Amburg Strasse, a Berlino, ci siamo incontrati per caso sulle rive della Sprea, siamo nati a Magdeburgo e … e ci conosciamo da tanti, tanti anni.
Bill lo guardò con aria persa, torcendosi in grembo le mani
-Hansi, ti prego, questa notte non mi sento bene. Non ho voglia di stare ancora assente da scuola. Ti prego, almeno per oggi. No, Hansi, no. No ti prego, non mi picchiare! Sono stanco, per favore, lasciami stare.
Non stava gridando, registrò Tom. Lo ripeteva come una nenia, tenendogli forte la mano, la testa incassata nelle spalle, gli occhi ermeticamente chiusi, come se intanto sapesse che per quanto lui pregasse, piangesse, strillasse, nessuno lo avrebbe potuto salvare da         questo … Hansi? Che poi, chi era? Cosa lo legava a Bill? Tom sapeva che lo avrebbe scoperto, ne andava del suo orgoglio Jedi. E dell’interesse più che spiccato che provava nei confronti di quel ragazzo assolutamente perfetto, ovvio. Si grattò la guancia, sollevandogli con delicatezza eccessiva il mento verso di lui, incontrando un paio di occhi bagnati di pianto e il labbro fremente.
-Allora, io non sono Hansi, va bene? Non c’è nessun Hansi qui, ma ci sono Tom e Bill che stavano parlando di pittura e di ritrattistica. Non ti picchierò, non ti toccherò nemmeno con un dito, ok? Non devi andare a scuola, perché hai ventisei anni e la scuola l’hai finita tanti anni fa. Su, Bill, rilassati, ci sono qua io, e se ci sono io nessuno potrà farti del male, va bene? Fidati di me.
Bill lo guardò con aria vacua, le sopracciglia aggrottate, le gambe strette al petto e un’espressione interrogativa e poi gli diede una leggera testata, alzando di scatto il viso e mostrando di nuovo il viso furibondo e malvagio
-Sei un fratello inutile! Sei stupido, non capisci niente, continui a farmi fare delle figure orribili con la gente! Perché sei dovuto nascere, orrendo sgorbio?! Mi hai rovinato la vita, ti odio, Bill, sei un mostro!
 
A quell’epoca, Bill era piccolo e non capiva assolutamente che diavolo volesse fargli suo fratello mentre gli schiacciava la testa sotto il getto d’acqua gelido del lavandino. Gli piaceva disegnare i mostri che popolavano la sua stanza e mettere a posto i conteggi di Hansi, ma ne aveva strappato uno e lui lo aveva scoperto. Non sapeva parlare, anche se aveva tre anni, e non sapeva nemmeno gridare. Si limitava a starsene lì, tra le braccia di suo fratello maggiore, in balia dell’acqua che lo stava affogando e degli strepiti isterici di quel bambino di sette anni troppo geniale che cercava di ucciderlo, anche se ovviamente a quel tempo non lo aveva capito e lo stava interpretando come uno degli strani esperimenti di Hansi. Ma Bill non aveva paura in quel momento, perché pensava solo al bambino strano che era arrivato all’asilo quel giorno.
 
-Tu non ti odi!- sbottò Tom, prendendolo con forza per le spalle, grato di essere almeno il doppio di Bill – Qui non c’è nessun Hansi che ti farà del male,ok?!
Poi, lo baciò. Non seppe il motivo, come mai si era lasciato andare in un momento così delicato, se lo aveva fatto solamente per spezzare quell’ansia palpabile e pesante che gravava nel salotto, aumentata da quella dannata Heart-Shaped Box, oppure se perché non resisteva più a quelle meravigliose labbra piene e truccate, un poco aperte come ad aspettare la sua bocca. Lo baciò così, senza un perché, trascinato da un sentimento innominato e spassionato, facendosi solamente trascinare dall’istinto cinematografico che lo aveva cresciuto e che in quel frangente pretendeva quasi un bacio come si deve. Un bacio a stampo, che non aveva nulla di sensuale, di sporco, di melenso, solo un bacio che voleva dire “stai zitto”, che voleva dire “ci sono io qui con te”, che voleva dire “non avere paura”. Lo stringeva tra le braccia come fosse una bambola di porcellana, premendo le labbra contro le sue, sentendo il sapore dolciastro del lucidalabbra, il suo profumo che mischiava biscotti fatti in casa, inchiostro, oli da pittura e dolcissimi profumi da donna, il suo respiro pesante e agitato che ansimava contro la sua bocca. Non c’era logica in quel bacio, non c’era consapevolezza e nemmeno la minima traccia di passione, c’erano solo due uomini incompresi dalla società che si aggrappavano uno all’altro per non precipitare nell’oscurità che li attendeva golosa non appena avessero mollato la presa, c’erano un eroe che nessuno amava e un dio che nessuno venerava, c’erano due pezzi degli scacchi rimasti da soli sulla scacchiera, due carte da gioco rimaste nel taschino di un baro, due sogni irrealizzati e due frutti rimasti sull’albero. Fu un bacio rapido ma profondo, un freno alla follia di uno e una spinta al terrore dell’altro, un patto suggellato tacitamente per un qualcosa di più roseo. 
Bill si staccò di colpo da Tom, rotolando quasi giù dal divano, con un mezzo strillo spaventato, così stupefatto da far sentire male il ragazzo. Cioè, l’aveva baciato senza chiederglielo, così, completamente a caso, fregandosene di regole e convinzioni, buttandosi ad occhi chiusi in un errore così grosso. Era un emerito disastro, dannazione. Tom soffocò un gemito, affrettandosi ad alzarsi e balbettare
-Io … Bill, scusami, non mi prendere per un maniaco, volevo solo calmarti, hai avuto una specie di crisi isterica, considerala una respirazione bocca a bocca …
Bill lo guardava incredulo, seduto sul pavimento, gli occhi spalancati
-Tom, non … non ti devi scusare.- sussurrò, alzandosi lentamente in mezzo ai vari disegni e articoli vari – E’ solo che non me l’aspettavo, ecco tutto. Ho avuto davvero una crisi isterica?
Tom si grattò il retro del collo, sciogliendosi la coda
-Beh, tecnicamente credo di sì. Dicevi delle cose strane e non mi riconoscevi, scambiandomi per un certo Hansi. Bill, se c’è qualcosa che posso fare per te, io sono pronto a tutto, davvero.
Il biondo annuì gravemente, scuotendo la testa
-Scusami caro, non volevo spaventarti.- sfarfallò gli occhi, guardandosi attorno come un animale braccato – E’ un periodo in cui non sto molto bene.
Quindi, Bill alzò la testa, spingendo Tom di nuovo seduto sul divano, togliendosi rapidamente la camicia da notte, rimanendo davanti agli occhi buffamente spalancati dell’altro con solamente addosso un paio di boxer e un sorriso a trentadue denti. No, Tom non ci stava capendo un esatto tubo. Perché il cervello gli consigliava di scappare a gambe levate, la coscienza di scoparlo lì sul divano rotto, e il cuore di amare alla follia quella specie di demonio scombinato e non era nemmeno tanto sicuro di chi seguire il consiglio. Beh, forse il cervello poteva starsene pure a casa, decisamente, magari il cuore era la cosa migliore a cui affidarsi in un frangente simile. Cercò di mantenere una sorta di integrità e disse, col tono più accomodante possibile
-Senti, sono serio, se avessi bisogno di qualcosa io …
-Ho bisogno che tu mi baci di nuovo.- cinguettò seraficamente Bill, senza vergogna, mandando in palla quella poca sanità mentale che era rimasta in testa a Tom, che si limitò a boccheggiare come un pesce fuor d’acqua. Il biondo lo fissò sorridendo dolcemente, sedendoglisi a cavalcioni, passandogli dolcemente le mani tra i capelli unticci – Ma voglio un bacio serio, Tom. I baci a stampo non mi sono mai piaciuti.
Tom rimase vagamente interdetto, prima di chiudere le imposte del suo antipatico e ficcanaso cervello che non lo lasciava mai quietare, stringere tra le mani i glutei di Bill e cominciare a baciarlo seriamente, sentendo il piercing che Bill aveva in bocca fare su e giù sulla sua lingua, il sapore di ciliegia del lucidalabbra attecchire alla sua pelle e le mani lunghe e nervose afferrargli i capelli come a non volerlo lasciare andare. Nemmeno in quel bacio c’era erotismo, sembrava il primo bacio di due adolescenti sfigati che avevano imparato ad amare sorbendosi Via Col Vento e Casablanca a ripetizione, incuriositi uno dell’altro, pronti a vedere cosa sarebbe successo ad andare troppo in là. Si toccavano, come se cercassero di ricordarsi dettagli dei loro corpi che erano sempre passati inosservati, cominciando a capire di cosa sapevano le loro bocche, inebriandosi uno dell’altro come fossero due diversi tipi di droghe tutte da sniffare in quantità. Tom sospirò sulla bocca di Bill, accarezzandogli dolcemente la schiena ossuta, sentendo le mani del biondo infilarsi sotto la sua vecchia maglietta bucata, accarezzargli il petto lentamente, come se stesse cercando di rimettere in ordine i pensieri; in realtà, Tom se ne accorse, non si limitava ad accarezzarlo, ma stava tracciando con le lunghe unghie smaltate una parola, mentre riprendevano un po’ di fiato e poi ricominciavano il loro complesso studio di loro stessi attraverso l’altro, una parola che a Tom sembrava “Amore”, ma che poteva anche essere “Vita” per quello che connetteva in  quel momento.
-Tom, hai la macchina?
Bill si staccò di colpo da lui come se avesse preso la scossa, alzandosi, facendo boccheggiare l’altro ragazzo. Dio, proprio ora che stavano cominciando ad andare un po’ oltre al semplice bacio.
-Eh? No, mi dispiace, vivo appiedato, perché?- grugnì in risposta, tentando di far risedere Bill sulle sue ginocchia e ricominciare da dove si erano interrotti.
-Avresti potuto accompagnarmi domani in un quartiere lontano per il nuovo articolo … pazienza, prenderò la metro.- Bill aggrottò le sopracciglia, teneramente imbronciato, tornando diligentemente a sedersi in braccio a Tom.
-Se vuoi ti accompagno lo stesso, tanto posso benissimo tradurre dappertutto.- Tom gli fece un sorriso, scompigliandogli i capelli. – Posso sapere il colore originale dei tuoi capelli?
-Neri.- il biondo lo guardò con una leggera tristezza – Perché? Non ti piaccio biondo?
-Affatto, era solo per curiosità.- in realtà, Tom avrebbe dovuto rispondere “Affatto, devo solo ricordarmi di te”, ma evitò accuratamente di dirlo.
-Li ho tinti qualche anno fa, mi ero stufato di quell’orribile nero.
-Sarai stato bellissimo lo stesso.- Tom sospirò, sentendo Bill appoggiargli la testa sulla spalla e strofinargli il naso nel collo.
-Lo sai che nessuno mi aveva mai detto che sono bellissimo? Grazie, Tom.- Bill sorrise dolcemente, un lampo di malinconia a illuminargli i grandi occhi.
-Non ci credo. Tu sei troppo bello perché qualcuno prima di me non te l’abbia detto!
-Vedi, tesoro.- Bill si alzò di nuovo, stiracchiandosi un po’ – La gente si ferma sempre a vedere come sei dentro. Un pazzo non viene mai considerato bello. Mi dicevano sempre tutti che ero un mostro, un freak, un pagliaccio, un rigetto della natura, solo perché tutti sapevano che sono matto, matto e sempre più matto.
Bill scoppiò a ridere, una risata orribilmente triste, piena di risentimento e nostalgia, distrutta come mille cocci di vetro che si infrangono al suolo. Rideva per non piangere tutti gli orrori di un’infanzia mai vissuta, un’adolescenza annientata, una maturità vissuta nella più completa solitudine. La sua infanzia era stata una costellazione di insulti, botte, denigrazioni di ogni genere, latte rancido e case piene di spifferi. La sua adolescenza un guazzabuglio di bullismo, violenza, insulti sempre più pesanti, odio, razzismo nei suoi confronti, tentativi di suicidio sempre più assurdi. La sua vita dai diciott’anni fino a quel momento un marasma di schifo da parte di tutti, pastiglie, ricoveri in ospedale, ritratti della sua perdizione, insulti su insulti, orrore, solitudine. Sì, Bill era solo, lo era sempre stato. Non c’era mai nessuno quando suo fratello tentava di ammazzarlo, quando lo picchiavano a scuola, quando piangeva, quando stava male lui era sempre solo, a dover lottare per non venir ucciso. Bill combatteva la sua guerra contro il mondo, conscio della sua diversità, dell’orrore che provavano tutti per lui, si ricordava le voci a scuola che lo emarginavano sempre “Stagli lontano, Schadenwalt è pazzo”, “Non ti avvicinare, malato di mente”, “Che schifo, ma perché non sei ancora morto?”. Era troppo appariscente e troppo effeminato per non suscitare schifo, troppo intelligente per tenere buona l’invidia, troppo squilibrato per salvarsi la pelle. Bill sopravviveva così, scrivendo di sé, disegnando sé, l’unico che almeno amava ancora, sopportando da sempre i soprusi di tutti quelli che lo circondavano. Prendeva pastiglie su pastiglie per tenersi calmo, stava seduto in corridoio al lavoro per resistere alla possibile tentazione di buttarsi giù dalla finestra a vetri del suo ufficio, prendeva sempre la metro per non vedere la natura fuori dal finestrino e saltare giù, non parlava con nessuno per proteggersi dallo scherno e dagli insulti, non beveva altro che acqua per prevenire un’eventuale voglia di andare in coma etilico, a volte fingeva di essere una prostituta di notte solo per sentirsi da quei ricchi uomini ubriachi marci che era perfetto, si disegnava in continuazione perché voleva qualcuno da amare alla follia, scriveva denunce perché voleva far sentire la sua voce sotto mentite spoglie, si faceva dei tatuaggi assurdi addosso per non vedere più le cicatrici dei tagli adolescenziali e farsi tornare la voglia di tagliarsi le vene, si era tinto i capelli di biondo perché in qualche modo sperava di assomigliare al suo bellissimo, geniale, perfetto, fratello maggiore. Tirava avanti, Bill. Tirava avanti e cercava di resistere al mondo che gli era completamente avverso.
Tom si alzò, stringendolo delicatamente tra le braccia, terrorizzato all’idea che si spezzasse per la troppa fragilità
-Ma per me tu sei davvero meraviglioso … - glielo sussurrò dirittamente nei capelli, baciandoglieli piano, con dolcezza quasi vecchia.
Bill fece un mesto sorriso e si girò verso di lui, poggiandogli il viso sul petto, prendendogli le mani tra le proprie
-Perché tu sei matto, Tom.- alzò gli occhi sul viso dell’altro e gli accarezzò la guancia – Esattamente come lo sono io.
 
-No, Juls, non puoi farmi questo!
-Sì che posso, Tom. E lo faccio.
-Io non ci vado a dormire sotto a un ponte, è chiaro?
-Chi ti ha detto che devi andare sotto a un ponte? Vai da Bill stanotte, no?
-Non posso presentarmi lì come un cretino e scroccargli il letto!
-Ma che letto a scrocco, te lo scopi tutta la notte, non dormirete nemmeno.
-Col cazzo, Julia. È da maiali cafoni.
-Perché te non lo sei, infatti.
Tom e Julia erano ai ferri corti, dopo almeno un’ora di furibonde liti e conseguenti insulti, a dividerli solamente il vecchio tavolo della cucina con un coltello infilzato in mezzo e una marea di piatti sporchi ancora da lavare, perché lei si rifiutava categoricamente di lavare anche i piatti che lui lasciava sparpagliati per casa oramai da mesi senza imparare ancora a lavarseli da sé.
-Non ti ho mai chiesto nulla di terribile.- Julia incrociò le braccia al petto, atteggiando il viso affilato in una smorfia che voleva essere tenera.
-Oh no, infatti, mi hai solamente obbligato a partecipare a un cazzo di rave infernale a Mull, a fingere di essere il tuo fidanzato al matrimonio di tua cugina, ad accompagnarti in quel dannato negozio per comprare l’anello di fidanzamento a Rebecca, a farti gli scritti di inglese all’esame di maturità. Bazzecole!- abbaiò Tom, guardandola in cagnesco. Aveva ancora degli assi nella manica, quella volta non lo avrebbe costretto a fare cose assurdamente idiote contro la sua volontà.
-Quelle non c’entrano!- Julia abbassò gli occhi, arrossendo – Al rave era solo che mi serviva una spalla da cui andare, il marito di mia cugina te lo sei pure scopato quindi stai solo che zitto, l’anello non hai dovuto far altro che sopportare i commenti del commesso, e per la maturità … dai, sono passati otto anni! Come diavolo fai a ricordarti ste cose, Tom?!
-Me le sono scritte su un quaderno prima di scordarle, quaderno che ogni tanto rileggo per poterti far pesare il fatto che mi hai obbligato a fare queste follie. Comunque, io da questa casa non mi muovo stanotte. Punto e basta.- il ragazzo si passò una mano sul viso assonnato.
-Uffa, Tommuccio, ti prego! Non abbiamo abbastanza soldi per andare in un ristorante carino, ho pure fatto da mangiare, devo darle l’anello e chiederle di diventare mia moglie! Tu ingombri.- Julia sbatté il piede per terra, arrotolandosi nervosamente una ciocca bionda attorno al dito.
-E non puoi chiederglielo il giorno del compleanno?
-Sì, con te, Georg e Gustav a mezzo. Wow, all’insegna del romanticismo. Dai, vi siete baciati, vi siete detti delle cose dolcissime, perché non vuoi andare da lui?
Tom si grattò il braccio, non sapendo più dove sbattere la testa.
-Mi sembra un affrettare troppo le cose, va bene? Juls, è uno psicopatico, non so nemmeno io come prenderlo, non posso rischiare che fraintenda tutto e butti all’aria quello che sto tentando di costruire. Metti che vada da lui così, senza preavviso, e impazzisca? Cosa farei poi?
-Per favore, Tom. Perché dovrebbe impazzire? Vai da lui, gli racconti tutto, se non si fida portagli delle Polaroid dell’anello e della torta così vede che non sei tu che sei un maiale cafone ma è la tua coinquilina che ti ha sbattuto fuori e tu eri la sua spiaggia. Dai, suona anche bene. Sei fuori di casa per la notte, e ripieghi nella tua seconda casa: Bill. È romantico, se ci pensi bene.
Il ragazzo sospirò rumorosamente. In effetti, che gli costava a quel punto? Povera Julia, ci teneva così tanto a sposare Becca che non sarebbe manco stato giusto starsene rinchiuso in camera sua stile presenza oscura che aleggia in casa. Si erano baciati, si erano abbracciati, lo aveva fino calmato, poteva presentarsi a casa sua, era quasi suo dovere, forse. Gli avrebbe comprato un mazzo di fiori, decise. Anzi, una torta era meglio, almeno si mangiava.
-Va bene, Juls. Vado da Bill.- non fece in tempo a finire di parlare che lei gli era già saltata al collo ululando – Ma guai a voi se mi rovinate la televisione e la camera. E non voglio trovare domattina lo specchio con scritto “You Are My Wonderwall” col rossetto nero, va bene? E nemmeno “I’ll Be Your Baby Tonight” sul frigo scritto con lo smalto verde, chiaro? Che poi tocca sempre a me grattarlo via.
-Grazie, Tommuccio, lo sapevo che avresti ceduto prima o poi.- gongolò Julia – Ti laverò i piatti e ti rifaccio il letto. Ora vai, che Becca dovrebbe arrivare da un momento all’altro.
Così Tom si ritrovò di nuovo per strada, con la vecchia borsa da postino appesa alla spalla e il vocabolario di inglese sotto braccio, due fette di Foresta Nera e due di Sacher sul vassoio che teneva in bilico su una mano, nel quartiere più malfamato di Berlino, i capelli che gli ricadevano sulle spalle che rilucevano quasi puliti alla luce debole e instabile del vecchio lampione scrostato, il passo strascicato, osservato stranito da alcuni ragazzini tossici nascosti in un lurido vicoletto. Camminava mollemente, cercando al buio la casa dove avrebbe passato la notte, leggendo finalmente “13” scritto con la vernice rossa sul muro cadente di un palazzo semi distrutto. Alzò lo sguardo verso la finestrella che tecnicamente sarebbe dovuta appartenere all’appartamento di Bill, o meglio, quella con la luce soffusa e da dove si sentiva rimbombare inquietantemente il primo disco degli Smashing Pumpkins, e lo vide, una figura alta e magrissima, semi nuda, in controluce, che oscillava sensualmente sulle note di quella musica assurdamente alta, quello che poteva sembrare da lontano un’enorme tela colpita da un pennello che ondeggiava su e giù.
Sorrise tra sé e sé, scuotendo la testa, ed entrò nel cupo, puzzolente, sporchissimo atrio del vecchio e decadente palazzo.
 

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Capitolo 7
*** Credo di averlo ucciso ***


CAPITOLO SETTE: CREDO DI AVERLO UCCISO

Ora, Tom non era affatto contento di non essersi lavato i capelli, non essersi vestito in maniera un po’ più decente e soprattutto di aver perso tutto il suo coraggio non appena arrivato di fronte alla porta di Bill. Si sentiva terribilmente impacciato, indecente e cretino a starsene lì piantato davanti alla porta senza avere il coraggio di suonare il campanello ma nemmeno la codardia di prendere e andare a dormire da Georg. Era in quel limbo che probabilmente solo lui al mondo era costretto a sperimentare, sempre troppo piscia sotto per buttarsi davvero in azioni completamente sconsiderate ma anche troppo fuori di melone per non starsene seduto al suo posto come un normale uomo di ventisette anni senza famiglia (a parte il fatto che già sognava come sarebbe stato mettere su famiglia con Bill, ma quello doveva aspettare. Doveva aspettare tanto tempo). Si fregò le mani, deciso oramai a suonare quel dannato campanello, già pronto a snocciolare qualunque scusa possibile e immaginabile, anche che gli era andata a fuoco la casa pur di non sembrare un perfetto maniaco, premendo il dito sopra quel vecchio sonaglio cadente che penzolava fuori dal portoncino scrostato. Tese l’orecchio, avvertendo che all’interno dell’appartamento gli Smashing Pumpkins venivano drasticamente abbassati e che qualcuno si stava inciampando nelle miriadi di oggetti e fogli sparpagliati dappertutto per raggiungere la porta. Una parte di lui avrebbe voluto mettersi a correre giù per le scale, fuggendo come una lippa da quello che temeva fosse il più grande errore della sua miserabile vita, mentre una vocina martellante nella sua testa tentava con scarsi risultati di rassicurarlo, che sarebbe andato tutto a meraviglia, sarebbe filato liscio come l’olio, avrebbero passato una di quelle serate che manco nei telefilm per sedicenni in calore …
-Oh, Tom! Ma che ci fai qui a quest’ora?
La vocina squillante che più desiderava ma che più temeva in quel momento si fece sentire, vagamente stupita ma con una nota di piacere percepibile sul fondo, accompagnata dalla scheletrica presenza del biondo appoggiato allo stipite, avvolto in una specie di pelliccia sintetica di foca, una miriade di collanine di giada avvolte attorno al collo da cigno. Tom si prese un secondo ad ammirare estasiato la bellezza eterea ma allo stesso tempo materialistica di Bill, i piedini nudi che si accartocciavano al freddo del pavimento, quella pelliccia grossa e rozza che cadeva sgraziatamente su quelle forme anoressiche ma perfette, i capelli un po’ arruffati e i piercing che rilucevano sinistramente alla luce soffusa del lampadario Tiffany. Sì, era bello, di una bellezza sporca e puttanesca, proletaria e sboccata, memore di un antico fulgore morto e sepolto in una Belle Epoque dimenticata di cui si trascinano ancora gli stralci delle meraviglie dell’epoca, bizzosa e volubile, grottesca e incantevole nella sua volgare imposizione sui canoni estetici di questo secolo.
-Ehi, Bill, ciao, io … - Tom sapeva di essere semplicemente ridicolo, con quei pezzi sciolti di torta in mano e la borsa del postino ottocentesco sulla spalla, ma non ci poteva fare niente. – Non voglio assolutamente darti dei fastidi, ma, vedi … sono stato cacciato di casa.
-Oddio, mi dispiace!.- Bill si mise una mano perfettamente curata e inanellata davanti alla boccuccia atteggiata in una smorfia desolata – Povero caro, ti hanno sfrattato?
-No! Sarò anche squattrinato ma l’affitto stracciato riesco ancora a pagarlo, eh!- sbottò Tom, spalancando comicamente gli occhi. Bene, ma che belle figure che riusciva inesorabilmente a fare, pure quella dello scalcinato senza un soldo appena buttato a calci fuori di casa dalle vecchia e arcigna padrona stanca dei suoi continui ritardi sul pagare l’affitto. Poteva essere fiero di se stesso, sicuramente Bill lo aveva già catalogato come straccione da frequentare per pietà, ma bene. – La mia coinquilina, Julia, mi ha detto di andarmene per stanotte solamente perché voleva avere la casa vuota. Deve chiedere alla sua fidanzata di sposarla. Ho le Polaroid dell’anello e della torta, se non ti fidi!
-Oh, meno male. Mi stavo già preoccupando che dovessi andare a vivere sotto un ponte.- Bill rise con quella sua risata isterica e nervosa – Ovviamente, ti avrei ospitato, sia chiaro.- qui il cuore di Tom fece due giravolte e rischiò di esplodergli nel petto per andare a stamparsi sull’altro e non staccarsi più – Però che cosa carina, Julia deve essere una ragazza così dolce- “oh, non sai quanto. Dolce come un barracuda affamato la notte di capodanno” pensò Tom, ma non lo disse, aspettando pazientemente che lo facesse entrare in casa. Finalmente Bill si rese conto che erano ancora impalati uno di fronte all’altro sull’uscio e si affrettò a farlo entrare, chiudendogli la porta alle spalle – Dio, scusa il disordine tesoro, non mi aspettavo che mi venissi a trovare.
-Figurati, piuttosto grazie di doverti sobbarcare la mia presenza.- Tom cercò di non mettersi a ballare felice sulle note del disco che subito venne spaventosamente rialzato di volume. Bill lo aveva accettato senza porsi problemi. Quello poteva anche essere il paradiso, per quello che ne sapeva. Sì, sicuramente era rimasto ucciso in un incidente mentre andava in quella casa e ora era direttamente volato in Paradiso.
Bill gli saltellò attorno, prendendogli di mano la torta, strillando estasiato
-Mi hai portato la torta?! Come sei caro, Tom, sei un pasticcino.
-Magari da mangiare dopo cena, se vuoi posso cucinare io. Cioè, l’unico piatto che so fare è il couscous, ma se ti piace sarei felice di cucinartelo, vado a compare il couscous a un 7-11. Ti va?- disse il ragazzo, ributtandosi a peso morto sul divano verde in compagnia del fido vocabolario e della fida borsa buttata a caso sul pavimento coperto di articoli e di libri. In cuor suo, sperava che Bill gli lasciasse cucinare il suo couscous, tanto per sdebitarsi dell’intrusione, ma la mancata risposta alla sua offerta lo fece vagamente insospettire e voltare verso il cavalletto dove torreggiava un’enorme tela con quelle che, non ci poteva credere, erano gli schizzi per quel dannato cartellone di buon compleanno per Becca. E dove, soprattutto, sedeva tranquillamente il suo meraviglioso biondo che mangiava tranquillamente ben una fetta di Sacher e una di Foresta Nera contemporaneamente, la punta del naso sporca di panna e le lunghe dita macchiate di cioccolato. Non doveva aver intuito che quelle avrebbero voluto essere parte della loro cena, perfetto. Addio torta; non che da un lato non fosse particolarmente soddisfatto del vedere il sorrisone infantile che ornava le labbra di Bill e la gioia segreta con cui si ingozzava spudoratamente di torta, ma una vocina antipatica gli ricordava che era così tanto tempo che anche lui non toccava un dolce simile … ma per Bill, anche quello. Avrebbe digiunato, ceduto tutte le Sacher del mondo pur di vederlo felice, o di vederlo anche solo sorridere. Gli pareva così allegro, in quel momento, impegnato a divorare letteralmente le due fette, che interromperlo gli sarebbe sembrato un delitto bello e buono. Se c’era una cosa che aveva colto da tutti i libri che leggeva, era che non bisognava mai e poi mai interrompere un fulgente momento di spensierata bellezza come quello che stava avvenendo sotto i suoi occhi, perché un istante di vera Bellezza non si sarebbe mai più potuto ripetere nei secoli a venire, sarebbe rimasto unico, prezioso e inestimabile, impossibile da ricopiare per la sua fantasmagorica purezza dell’attimo, la divinità che addirittura gli antichi Romani veneravano, per l’incarnazione del momento che non avrà e aveva eguali in tutto il mondo. Quella scena, per Tom, sarebbe stato uno degli Attimi; meraviglioso e indimenticabile, così straordinario nella sua gaia felicità da non poter essere dimenticato. O meglio, cancellato. Forse, non se ne sarebbe ricordato ma avrebbe potuto collegarvi le immagini della torta e di un nasino sporco di panna insieme a una sirena della Polizia e al volume imbarazzante del vinile. Una composizione di suoni e colori che gli avrebbero in qualche modo ricordato quella scenetta familiare avvenuta in un triste appartamento di una bollente serata berlinese.
-Però non ho una stanza degli ospiti, mi dispiace.
Bill lo guardò indispettito, togliendosi la panna dal naso, finendo di leccare via dalle dita il cioccolato e la marmellata rimasti.
-Scherzi? Dormo sul divano.- Tom, a essere sinceri, si era già parcheggiato sul vecchio divano verde, considerandolo, come tutti i divani in cui incappava, di sua esclusiva proprietà. E poi, in fondo, come gli ricordava l’antipatica coscienza, non si erano abbondantemente baciati fino a poche ore prima? Quindi, acquisiva ancora più diritti sul divano. – Anche a casa dormo in salotto, non lo tocco il letto.
Omise accuratamente di dire che non toccava il letto per il semplice fatto che vivendo letteralmente attaccato alla televisione non aveva il tempo materiale di dormire seriamente, bensì di dormicchiare alcune ore con il caffè in una mano e il computer nell’altra, con mezza traduzione fatta e le ultra ripetute battute dell’ennesima stagione di “Criminal Minds” in testa a cullarlo nei suoi confusionari sogni prodotti da una mente stanca e drogata di patatine fritte.
-Io non ti farò mai dormire sul divano, Tom.- Bill scosse fermamente la testa, scompigliandosi i capelli – Fa male alla schiena; non posso permettere che ti venga la scoliosi per colpa mia.
-Non ti preoccupare, Bill, davvero, io non ho nessun problema.
E poi senti da che pulpito, pensò il ragazzo. Uno che se ne sta abbarbicato come una scimmietta per ore su uno sgabelletto microscopico in una posizione che farebbe invidia al Kamasutra. Sicuramente a lui non sarebbe venuta una scoliosi da paura.
-Ti ho detto di no!- Bill si alzò di scatto, come colpito da un’improvvisa idea geniale, per poi scagliarsi e spalmarsi sopra Tom e stampargli un bacio piuttosto pieno di foga sulle labbra. Bacio a cui Tom, ancora troppo instupidito dalla rapidità con cui si era svolta l’azione, non rispose se non con un vago boccheggio che fece staccare il biondino e gli valse un’occhiata divertita e vivace – Scusa, tesoro, ma quando sei entrato ero così stupito di vederti che non mi sono ricordato in tempo di salutarti come si deve.
Beh, Tom considerò che se essere degli sociopatici disadattati comprendeva essere così terribilmente dolci e figli dei fiori, allora sapeva di essersi immediatamente innamorato della psicosi mondiale. Ma quale persona che non fosse quel demonio angelicato di Bill avrebbe chiesto scusa per una cosa del genere e si sarebbe prodigato a sbaciucchiarlo come fosse l’ultimo giorno delle loro vite? Nessuno, appunto. Solamente quel delicatissimo fiore di cristallo infarcito di dolcificante. Si limitò a ridere e a baciarlo di nuovo, dolcemente, accarezzandogli i capelli, beandosi per un secondo delle mani magre di lui avvolte attorno ai bordi della sua maglietta.
-Puoi dormire con me, stanotte.- disse Bill non appena si furono staccati, sedendoglisi a cavalcioni, ignorando evidentemente lo sconcerto che colse improvvisamente Tom. Oh, non che sentire una cosa simile lo imbarazzasse o altro, ma sussisteva il problema di quanto avrebbe resistito psicologicamente a letto con lui senza fare esattamente nulla di sconcio, visto che il tono fanciullesco di Bill sembrava una di quelle scenette da Jane Austen, con l’innocente fanciullina campagnola ignara della mente perversa dell’avvenente marchese. Ecco, non si sentiva pronto a fare l’eroico cavaliere. Però Bill glielo aveva chiesto, e questo era già un passo avanti. Avrebbero potuto addirittura dormire insieme. – Tanto ho un letto matrimoniale, ci stiamo io e te.
-Uh, cioè … grazie dell’offerta, Bill. Magari, se non disturbo … - disse Tom, tentando di non fare proprio la figura di quello che si sarebbe buttato anche immediatamente in quel letto matrimoniale, e al diavolo il suo lettino con le coperte di Spiderman.
-Affatto, tesoro. Sarà fantastico dormire insieme, sicuramente meglio che dormire con Hansi, sì.
Per un unico, terrificante, intensissimo attimo, Tom ebbe il terrore che ricadesse in quella strana trance bipolare in cui era precipitato qualche ora prima, mentre tentava nervosamente di leggere dentro agli occhioni piantati nei suoi la vuota dolcezza madreperlacea e non la rabbia infuocata e stralunata. Ma Bill non diede alcun segno di una nuova crisi, si limitò a dargli un buffetto sulla guancia con un sorriso entusiasta, come quello di una bambina con il suo nuovo bambolotto a cui preparare la culla, per poi afferrarlo per il polso e cinguettare
-Vieni in cucina, adesso si cena. O meglio, adesso tu ceni. A me è bastata quella torta deliziosa.
Tom si ritrovò quindi, senza quasi nemmeno accorgersene, appollaiato su una poltrona con le frange rosso carminio che emergeva gloriosamente nella cucina più incasinata che avesse mai visto in vita sua, una stanza che faceva quasi apparire asettica la disordinatissima casa che condivideva con Julia. L’odore di chiuso e di fritto che aleggiava era quasi nauseabondo, come il frigo completamente decorato con impronte di mani immerse nella pittura, un sacco di piatti giacevano dappertutto, non lavati, insieme a quelle che a Tom sembravano bamboline voodoo sparpagliate sul pavimento. Gli sportelli della piccola cucina erano tutti spalancati, le posate buttate dovunque, come le pentole, pezzi di cibo semi marciti ammucchiati negli angoli polverosi, una colata di pittura gialla che colava dal muro, il forno aperto, incrostato, dove sbucavano alcune barbie mezze bruciacchiate. Sembrava l’incubo di un folle, un luogo infernale senza la minima logica fisica e psichica, un impatto mostruoso di luridume, colori, sporcizia e infantilità. Tom boccheggiò un attimo, mentre Bill lo spingeva su quella poltrona bassa e signorile, lurida come il resto, solitaria in  mezzo a quel marasma dilagante di stoviglie varie. Uno sportello si aprì tetramente mostrando ancora un triste vuoto e qualche ragnatela. Il ragazzo seguì con lo sguardo il biondo che saltellava tranquillamente in giro e infilava le mani ingioiellate in uno scolapasta tirando fuori una manciata di patatine fritte, le guardava stralunato e le buttava in un piatto sbeccato e mai lavato, con rimasugli di quelle che potevano essere melanzane alla parmigiana, per poi prendere un paio di posate meno luride del resto e porgergli questo capolavoro nauseante con un sorriso, acciambellandosi ai suoi piedi. Solo in quel momento Tom realizzò che non c’era un tavolo e nemmeno delle sedie, esclusa la poltrona su cui stava seduto
-Scusa, tesoro, non ho nient’altro da offrirti che delle patatine fritte.
Cercò di fare buon viso a cattivo gioco, con un sorriso tirato e rimise il piatto in mano a Bill, cercando di sembrare convincente
-Grazie, ma credo che salterò la cena. Non ho molta fame.
Il biondo lo scrutò attentamente da sotto le lunghe ciglia ricoperte di un accecante mascara rosa shocking, per poi riprendersi il piatto e cominciare a mangiarsele lui
-Mi dispiace, allora le mangio io. Sei sicuro che non vuoi niente? Forse posso cercarti qualcos’altro nel frigo.
Nel terrore di scoprire cosa si nascondeva nel frigo, Tom fu rapido a scuotere la testa con un sorriso imbarazzato, cercando qualcosa di cui parlare, e il suo sguardo venne catturato da quelle bambole nel forno. Aguzzò lo sguardo e distinse meglio almeno due o tre barbie mezze rapate, con le gambe spalancate e le braccia quasi divelte, un po’ bruciacchiate, inquietanti nella loro vivida morte. Lo inquietavano oltremodo quelle figure che li osservavano dal forno, come morti pronti a saltare loro addosso con uno dei coltellacci che decoravano il pavimento della cucina. Lui vedeva troppa televisione, ok, ma quella casa non faceva che imboccare la sua già eccitabile fantasia. Deglutì rumorosamente, chiedendo con voce fioca
-Ehm, Bill, ma quelle bambole nel forno … hanno un uso pratico?
In realtà, la sua coscienza lo stava bastonando perché in fondo non voleva approfondire l’orrore che l’angelo covava dentro di lui, avrebbe volentieri preferito lasciarlo chiuso in quelle collane e in quei bracciali tribali, senza farlo scaturire come onde infernali attorno a lui, eppure voleva sapere. La sua curiosità era perennemente assetata di sapere, e in quel pozzo di incubi non poteva non essere sopraffatto da domande morbose che voleva rompere il guscio che circondava il suo buffo anfitrione. Gli sembrava quasi di vederle, quelle enormi ali da pipistrello che si aprivano, immense e bagnate di sangue, dalle scapole sporgenti di Bill, insieme alle sue unghie smaltate che si allungavano a dismisura. Un diavolo, il diavolo più bello di tutto il Paradiso, l’angelo più luminoso di tutto l’Inferno. Brillava di una luce potente e sanguigna, accecante e oscura allo stesso tempo, riversando fuori da sé l’orrore di un serpente e la meraviglia di una creatura celeste.
-Quando ero un ragazzino collezionavo Barbie.- raccontò Bill, tranquillamente, leccandosi le lunghe dita in un modo così stranamente erotico e infantile – Dai tredici ai diciotto anni, me ne facevo regalare a ogni festività, ne compravo quante più ne potevo con i miei risparmi. Io amo le bambole. Ne avevo tantissime, dieci anni fa, quelle meravigliose Barbie da collezione che riempivano tutta la soffitta.
-E’ buffo.- commentò rapito Tom, grattandosi il collo – Non avevo mai sentito di Barbie da collezione, a dire il vero.
-C’e ne sono miliardi, tesoro. Ce le avevo quasi tutte, credo. Beh, quelle che si trovavano nelle vicinanze di Magdeburgo, comunque.- Bill lo guardò con un mesto sorriso, passandosi una mano tra i capelli, spettinandoseli.
-Ti dispiacerebbe farmele vedere?- Tom gli sorrise, quel suo sorriso un po’ da bamboccio – Mi hanno piuttosto incuriosito. Me le puoi illustrare tutte.
-Oh, Tom, sei così tenero!- Bill gli saltò al collo come una molla, stampandogli un bacio sulle labbra, per poi rabbuiarsi di colpo e ricadere sul pavimento, come se si fosse sgonfiato – Però non posso farlo.
-E come mai? Giuro che non ti prendo in giro, eh.- il ragazzo si alzò, porgendogli la mano e facendolo alzare. Tornarono in salotto, sfuggendo, per la gioia di Tom, all’odore mostruoso che gravava in quella cucina da incubo, precipitando però nell’incasinato e bollente salotto con quella dannata musica grunge a tutto volume. Si sedettero tutti e due sul divano, in mezzo ai dipinti di Bill, e lo sguardo di Tom venne catturato da un grande autoritratto appeso dietro alla porta d’ingresso che raffigurava un Bill di almeno dieci anni in meno con una selva di capelli neri con le ciocche bianche sparati in tutte le direzioni possibili, con addosso un gigantesco vestito da sposa-bomboniera, seduto a cavalcioni di un tronco di un albero caduto. Piangeva trucco, in quel meraviglioso dipinto. Piangeva trucco e sembrava chiamare aiuto a chiunque vi posasse lo sguardo sopra. Qualcosa si svegliò nuovamente nell’inconscio di Tom, ma nuovamente fuggì subito non appena Bill gli si accoccolò al fianco e piagnucolò
-Non le ho più, le mie Barbie. Nemmeno una.
Tom gli sollevò il mento con due dita, e vide una buffa smorfia sconfortata
-Ehi, Bill … non piangere, stai tranquillo.- gli passò impacciato il pollice sulle guance per asciugargli le solitarie lacrime di cristallo che cominciavano a correre.
-Hansi me le ha rotte tutte.- Bill chiuse gli occhi, appoggiando il capo sulla spalla di Tom, lasciandosi stringere in un abbraccio e accarezzare la schiena nuda e gelida, ossuta e tremante. – Diceva che dovevo smetterla di giocare con loro, che si era rotto di accompagnarmi per negozi a comprarle, che i suoi amici cominciavano a prenderlo in giro per queste bambole. Così ha deciso di rompermele. Una volta erano venuti in casa, e lui e i suoi amici avevano cominciato a maltrattare le mie bambole, a rovinargli quei vestiti meravigliosi … perché, Tom? Perché volevano rompere la mia collezione?
Tom si grattò il collo, facendo vagare lo sguardo per il bollente salotto, cercando di ignorare come meglio poteva i grossi lacrimoni che cominciavano a inumidire i grandi occhi vuoti di Bill per non mettersi a piangere anche lui. Non aveva mai potuto sopportare le persone piangenti, se poi avesse visto Bill piangere sul serio allora sarebbe stata la sua vera e ultima nemesi.
-Erano giovani e sconsiderati.- decise di rispondere, anche se avrebbe voluto semplicemente dire “erano dei luridi stronzi, spara i nomi e li vado a massacrare”. – A volte la gente non realizza il dolore che arreca agli altri. Non ha più voluto delle Barbie da collezione?
Bill lo guardò insistentemente, mettendosi a sedere diritto, squadrando con una punta di sospetto il viso perennemente assonnato del ragazzo.
-Perché me lo chiedi?
-Beh, ora nessuno verrebbe più a rompertele, e tu potresti farti la tua collezione in pace. Recupereresti quello che non sei riuscito a fare da adolescente.- Tom gli fece un largo sorriso infantile, scostandogli un ciuffo platino dalla fronte pallidissima.
-Non è vero.- la voce diffidente del biondo fu un ennesimo brivido di terrore per Tom, l’ennesima prova che Bill era il terreno minato che nessuno sarebbe mai riuscito a sminare. Forse, in fondo, Tom si augurava in qualche modo di essere il soldato sognatore capace con la sua logica sconsiderata di sminare quel campo pericoloso eppure assurdamente intrigante che si estendeva ai piedi della trincea. – Lo sai benissimo che tornerebbe a rompermele tutte e mi farebbe di nuovo sanguinare il cuore! Vi siete messi d’accordo per rovinarmi ancora la vita!
Bill si ritrasse in fondo al divano, le mani ingioiellate premute sulle orecchie grondanti orecchini, gli occhi truccatissimi serrati come due saracinesche.
Tom sospirò, alzando gli occhi al cielo, strisciandogli accanto e sollevandogli il mento con due dita, sentendo il corpo troppo magro dell’altro irrigidirsi e gli occhi aprirsi quel tanto che bastava per far sgorgare qualche timida lacrimuccia solitaria.
-Bill, tesoro, stai tranquillo.- mormorò Tom, facendogli il sorriso più rassicurante del suo repertorio di sorrisi da bamboccio – Non voglio assolutamente rovinarti nulla, voglio solo farti felice. So che se ti comprassi altre bambole, saresti contento e lo sarei anche io, perché quando sorridi sei bellissimo. E poi tuo fratello adesso non sarà più interessato a farti nulla … sai dirmi dov’è, ora?
Ora, Tom si sentiva già pronto ad andare a sindacare e, perché no, a pestare il famoso fratello di Bill che da quello che aveva potuto capire era stata una sorta di nemesi per il suo angelo sbucato dagli inizi del tempo. Non poteva semplicemente concepire il fatto che avesse anche solo potuto fare del male a quella specie di perla oceanica che era Bill, con quale cuore aveva potuto volere la rovina di un gioiello simile, così dolce e cristallino che avrebbe fatto piangere anche Satana?
Bill lo guardò, stringendosi le ginocchia ossute al petto, e indicò con un lungo dito il soffitto, alzando le spalle che a Tom sembravano sempre di più due monconi di ali.
-Vive al piano di sopra?- il ragazzo si grattò la guancia, con una buffa smorfia interrogativa stampata sul volto.
-No, Tom.- Bill scosse la testa, facendo vagare lo sguardo sul soffitto. – Più su.
-Sul tetto?
L’ultima uscita cretina del ragazzo fece quasi sorridere il biondo che sfarfallò tristemente le lunghe ciglia ricurve e si limitò a esalare un debole
-E’ morto, caro. Mio fratello è morto sette anni fa.
-Oh.- Tom lo abbracciò, facendogli posare la testa sulla sua spalla. Ci mancava solo quella ed era a posto. – Mi dispiace, Bill, non intendevo …
-E’ passato tanto tempo.- il biondo lo guardò dolcemente, e fu solo allora che Tom realizzò una cosa piuttosto assurda
-Ma allora, se lui è defunto perché hai paura che torni a rovinarti le Barbie?
Bill lo guardò come se fosse ovvio, passandosi una mano tra i capelli
-Perché lui è sempre qui, Tom! Hansi non c’è più, ma può sempre ritornare da me. Mi odiava quando era vivo, mi odierà ancora di più ora che è morto.
-I morti non tornano in vita, e i fantasmi non esistono. Devi stare tranquillo.- disse con calma Tom, dandogli un bacio sulla punta del naso – Hansi appartiene al passato, non tornerà mai.
-Invece sì, Tom. Tu non lo conosci.- Bill si mordicchiò il labbro inferiore, ricoperto di rossetto viola – Lui è un diavolo, non conosce limiti né umani né celesti. Vorrà vendicarsi di me.
-I diavoli non esistono, Bill, e non esistono vendette ultraterrene.- ora, Tom era il primo che ancora a ventisette anni dormiva con la tv accesa e la torcia sul comodino pure, nel terrore che sbucasse qualcuno degli zombie di Wayward Pines che spaventavano le sue notti, ma col biondo ci teneva a farci una bella figura di uomo coraggioso e pronto a tutto. Oh, e sul comodino c’era sempre un crocefisso e una testa d’aglio, perché dopo Outcast aveva deciso di premunirsi di tutto.
Bill alzò le spalle, guardandolo con la sua dolcezza originaria, per poi alzarsi e stiracchiarsi, avvolto nella sua pelliccia di foca sintetica
-Mi dispiace, Tom, ma io non ho la televisione.
Tom si produsse in un lungo e muto gemito.
-E nemmeno la radio, si è rotta.
Un altro lungo e muto gemito rimbombò dalle corde vocali del ragazzo.
-Oh, però puoi usare il giradischi, se vuoi. I vinili sono tutti in quel baule.
Bill si chinò sul vecchio baule roso dai tarli e dal tempo, cominciando a buttare all’aria grossi vinili vecchi e bisunti, dando a Tom una perfetta visuale del suo fondoschiena da favola fasciato in un paio di skinny jeans neri e dorati apparsi non di sa bene da dove. Anche se in quel momento il cervello del traduttore vagava in un limbo meschino dove non esistevano televisioni, quindi niente sesta stagione di NCIS rivista già almeno quattro volte, non si poteva fare sesso con Bill, che in quel momento blaterava qualcosa di strano sul fatto che lui aveva detto agli archeologi di non entrare nella tomba di Tutankhamon ma quelli non gli avevano dato ascolto, e non si poteva ascoltare altro che musica grunge schiattando di caldo in un salotto opprimente. Sicuramente, non un esempio di serata memorabile, se non fosse che anche solo la presenza di quel tetro angelo illuminava anche il più piccolo punto oscuro di quella notte.
-Ma tu non resti qui con me?- riuscì a balbettare Tom, seguendo con lo sguardo Bill che ancheggiava abbondantemente verso la camera da letto, lasciandolo lì da solo con Lloyd e i suoi amici alle prese con un alligatore affamato a Baton Rouge.
Bill si bloccò sulla porta della stanza, un blocco da disegno sotto braccio e si voltò lentamente verso Tom, gli occhioni fattisi di nuovo improvvisamente spenti e profondi come due specchi infernali di un pozzo da cui non ci sarebbe stata nessuna via d’uscita, fissi su di lui ma ciechi.
-Disegno meglio da solo, tesoro. Vieni a letto quando preferisci.
C’era un che di straordinariamente sensuale in quella frase, pensò Tom, che si ritrovò ad annuire con aria vagamente trasognata di fronte all’inquietante e tetra bellezza che scaturiva dal biondo, quando la sua vocina melodiosa e malinconica si rifece sentire, accompagnata da un vago singulto e dal leggero suono dei piedi nudi sul pavimento che entravano nella camera.
-Comunque, Hansi è morto, sì. Credo di averlo ucciso io.
 
***
Ohi, ragazze! Intanto, volevo scusarmi per il solito, antipatico, ritardo pachidermico degli aggiornamenti -_- è solo che la mia fantasia è un po’ ottenebrata dal caldo … *cerca delle scuse* *viene picchiata* Comunque, dalla settimana prossima (che poi inizia la scuola e io sono già nel panico più totale perché la terza mi aspetta al varco con tanto di fauci spalancate) torno nella civiltà e sarò più veloce. Spero. Spero anche che vogliate lasciarmi un piccolo commentino anche se il capitolo forse è un po’ corto … -_- Grazie a tutte! :**
P.S. Se volete, mi farebbe immensamente piacere se voleste passare dalla mia nuova ff originale romantica che trovate sul mio account sotto al titolo “We are broken from the start”. Ovviamente è slash ;)
Charlie xx

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Capitolo 8
*** Mi abbracci? ***


CAPITOLO OTTO: MI ABBRACCI?

Erano oramai le due di notte quando Tom decise di spegnere il computer e lasciare perdere gli ultimi due capitoli della traduzione, gli occhi pesti dal sonno, la fastidiosa ansia di quello che avrebbe trovato una volta entrato nella stanza da letto che lo aspettava inquietante e buia di fronte a lui. Aveva fatto finta di non dare particolare peso all’ultima affermazione di Bill, quella che gli aveva dato un’ansiogena buonanotte. Era pazzo, doveva infilarselo in quella testa cocciuta che si ritrovava: soffriva di qualche psicosi misteriosa, quindi non poteva fidarsi ciecamente di ciò che gli diceva. Eppure qualcosa di fastidioso e pressante continuava a suggerirgli di investigare un po’ meglio su quella grottesca frase mormorata a mezza voce. Ma ora era decisamente troppo stanco per poter ragionare lucidamente su qualcosa che non fosse strisciare in un letto e non sul divano verde. Tom si alzò, stiracchiandosi e sbadigliando rumorosamente, sentendo la musica di qualche night club di periferia rimbombare qualche via più in là, insieme alle regolari sirene della polizia, delle ambulanze, e alle ancora più ovvie urla di gente senza nome e senza dimensione. C’era qualcosa di caldo e di protettivo in quel guscio di periferia; forse, non avevano tutti i torti quando dicevano che un legame simile tra i più persi dei persi porta a qualcosa di troppo elevato e assurdo per poter essere compreso da persone normali. Sospirò rumorosamente, cominciando a strascicare i piedi verso la stanza avvolta nella penombra della notte. Non appena entrò, le sue narici cominciarono a sezionare accuratamente tutto ciò che gli si riversò addosso: fumo, sicuramente. Fumo di sigarette fatte a mano, quelle che Bill teneva sempre tra le lunghe dita pallide e nervose e che fumava in continuazione. Profumi da donna, quegli stessi profumi che gli impregnavano la pelle così a fondo da sembrare che ci fosse nato col profumo di vaniglia e rosa addosso. Trucchi, che gli coprivano il viso come una maschera da Pierrot e da cui era impossibile liberarsi, appiccicosi e meravigliosi come lo stesso Bill. Tempere, che coloravano tutto, le armi che combattevano la guerra contro il mondo intrapresa dal biondo ventisette anni prima, violente e ribelli contro un nemico senza nome e senza identità. E infine, qualcosa che era solo Bill, l’insieme tossico di tutte queste cose che davano alla testa più di una sniffata di coca o di una musica meravigliosa. La lucina sul comodino era ancora accesa, una matita e un album da disegni giacevano stretti tra le braccia anoressiche di Bill, come se lui si fosse semplicemente addormentato così, senza accorgersene. Si avvicinò il più silenziosamente possibile al letto matrimoniale che troneggiava in mezzo alla stanza, cercando di non inciampare nella miriade di vestiti e libri sparpagliati un po’ dovunque sul pavimento, visualizzando la figura di Bill accoccolata scompostamente in mezzo al piumone. Sorrise suo malgrado con aria ebete, allungandosi a spegnere la luce sul comodino quando l’occhio un po’assonnato gli cadde sul disegno lasciato incompleto che Bill stava facendo sul suo album. Ora, che fosse stanco era un dato di fatto, ma la sua curiosità era patologica. Ne era un esempio la settimana in cui non aveva chiuso occhio per starsene attaccato alla tv a vedere tutte le stagioni di Downton Abbey. Sospirò, sottraendo dolcemente dalle mani del biondo l’album e scivolò con rapidità nel suo spazio di letto, accarezzando piano i capelli arruffati ma incredibilmente morbidi di Bill, scompigliandoglieli con delicatezza. Era bellissimo, notò. Bellissimo perché era tranquillo, teneva quegli occhioni vuoti chiusi e quindi scomparivano tutti i demoni che li animavano quando era sveglio, il viso era rilassato, non più contratto in una perenne smorfia terrorizzata da tutto ciò che lo circondava, una specie di sorriso infantile stampato sulle labbra, vecchissimo e giovanissimo allo stesso tempo, il sorriso di chi ha visto tutto prima di quando avrebbe dovuto vederlo. Il corpicino da modella anoressica si avviluppava su se stesso, avvolto in una sgraziata maglietta dei The Cult, soffocato dal piumone rosa shocking che fece ridere Tom tra sé e sé. Sì, Bill era sempre bellissimo, ma quando dormiva assumeva un’accezione così celestiale che avrebbe risvegliato pure Raffaello e Tiziano dalle tombe per fargli un ritratto.
Si sdraiò nella sua parte di letto, lontano dal piumone rosa che gli metteva caldo solo a vederlo, rimanendo in boxer. Sperava solo che una volta che si fosse svegliato, Bill non lo prendesse per un maniaco. Accese la lucina del suo comodino, sperando tra sé che Bill non si svegliasse a causa della debole luce e cominciò a studiare il disegno rimasto incompiuto. Come al solito, l’abilità del biondo era qualcosa di inquietante nella sua perfetta bellezza che pareva fotografare l’immagine e riportarla sulla carta esattamente uguale all’originale. Tom sorrise da solo, lanciando un’occhiata a Bill che mugolava qualcosa di indistinto nel sonno e osservò con curiosità le figure ritratte nel disegno. C’erano due ragazzi, seduti su un letto. Uno di loro teneva in braccio un neonato di cui non si distingueva il volto ma solo la forma, l’altro teneva la manina microscopica del bambino e sorrideva, il capo poggiato sulla spalla aguzza del compagno. Per un assurdo, potente, geniale momento, Tom credette che quei due ragazzi fossero lui e Bill con il loro futuro bambino e gli sembrava già di essere partito per il Valalla e ritorno, quando presto la sua antipatica coscienza gli rese presente che i suoi occhi cisposi dal sonno avevano preso lucciole per lanterne, come al solito. No, quei due non potevano essere lui e Bill, effettivamente. Primo, perché il ragazzo che teneva in braccio il bambino era di una magrezza eccessiva, e lui non era affatto anoressico. Secondo, aveva i capelli molto più lunghi dei suoi e lasciati bianchi, quindi sarebbero dovuti essere presumibilmente biondi. Terzo, aveva il viso affilato, incavato e glabro. Quindi anche lì corrispondeva come potevano corrispondere un gatto e un elefante. L’altro, invece, poteva tranquillamente essere scambiato per una ragazza, e solo l’occhio allenato di un ragazzo assolutamente omosessuale poteva comprendere la vera natura dell’immagine di un ragazzo coi capelli corvini acconciati in una crocchia scomposta e spettinata, il viso uguale a quello del Bill più giovane che piangeva in ogni autoritratto appeso alle pareti della casa. Sì, quelli potevano essere Bill e un altro uomo sconosciuto. E quel bambino, chi sarebbe mai potuto essere? Si grattò una guancia, sfogliando senza far rumore un altro foglio dell’album, incontrando nuovamente i due personaggi in bianco e nero del primo disegno. Questa volta il quadretto era completo, con quelle due figure sedute su una spiaggia, teneramente abbracciate, come se lo stessero guardando e gli volessero comunicare tutta la loro felicità e il loro amore. Era strano, pensò Tom, che Bill, un ragazzo così solo, sociopatico e ipersensibile disegnasse cose di quel genere, come il perfetto prototipo di ragazza innamorata che illustra i punti salienti della sua relazione. Acceso di curiosità, continuò a sfogliare l’album e si imbatté nel meraviglioso disegno del ragazzo biondo impegnato a suonare un pianoforte a coda disegnato magistralmente su cui stava seduto a gambe accavallate il Bill moro. Un altro rappresentava un muro ricoperto di graffiti dove sedevano i due impegnati in un bacio piuttosto appassionato. Quello ancora dopo presentava un letto sfatto con i due ragazzi seminudi che dormivano stretti uno all’altro. Tom grugnì silenziosamente di disapprovazione. Bellissimi, certo, e finti. Ma moriva dal desiderio di sapere chi fosse quella figura bionda che popolava      quei dipinti. Che ruolo aveva avuto nella vita di Bill, sempre che non fosse il parto malato di quella mente distrutta e martoriata? E come mai i disegni lo rappresentavano più giovane e non ve n’era nessuno, in quell’album di bianchi e neri, che fosse com’era in quel momento? C’erano tanti segreti in quella casa e in quel personaggio angelico rinchiuso nella sua mente che dormiva serafico al suo fianco, che Tom si sentiva già la testa pesante. Voleva risolverli, certo, ma non si sentiva molto all’altezza di un mistero simile.
-Toooom? Tom, perché sei sveglio?
La voce impastata dal sonno di Bill lo fece sobbalzare di scatto e gettare l’album per terra, nel terrore di essere colto in flagranza di reato.
-Eh? No, Bill, tranquillo, dormi.- disse impappinandosi – Io … sto bene.
-Ma Tooom, sono quasi le tre … chiudi la luce.- Bill lo guardò con gli occhi semi chiusi, tirandolo per il braccio.
-Sì, tesoro, chiudo la luce.- Tom si tuffò a spegnerla, per non incappare in qualche crisi isterica notturna. – Non ho molto sonno, ma tu dormi.
-Vuoi una tisana per conciliare il sonno? Ne dovrei avere qualcuna.- mormorò Bill, avvolgendosi nel piumone e facendo quasi sudare Tom dal caldo boia che c’era.
-No!- quasi urlò il ragazzo, nel terrore che gli rifilasse una di quelle robe imbevibili da stregoni hippy anni 60 – Davvero, non ti preoccupare per me. Buonanotte.
Si chinò su Bill, stampandogli un bacio sulla fronte. Bacio che Bill accolse con un mugolio indistinto da gatto che fa le fusa e con un’arpionata al braccio.
-Buonanotte, Tom.- lo tirò per il braccio fino a farlo sdraiare – Mi abbracci?
Tom non sapeva se essere contento della richiesta o no, siccome gli bruciava non poter continuare la sua indagine ricavata dai carboncini, ma accettò silenziosamente, facendo scivolare le braccia attorno al corpo magrissimo del biondo, facendogli posare la testa sul suo petto, sospirando rumorosamente per il caldo che Bill e il piumone gli stavano portando ma tacque, sorridendo debolmente quando sentì quel meraviglioso paio di gambe da modella avvinghiarsi con una presa resistentissima al suo bacino, e le braccia stringerlo come a non volerlo mai lasciare andare. Sembrava un cucciolo di koala. Tom rimase così, a fissare il vuoto di quella camera bollente, il cuore di Bill che batteva a contatto col suo, il suo respiro lontano ma regolare soffiargli direttamente sulla pelle nuda della scapola, tante strane immagini di ricordi dimenticati e sovrapposti a scorrergli davanti come un cinema muto disordinato, un sonno terribile a gravargli addosso e l’impossibilità fisica di addormentarsi normalmente. Erano anni che Tom non dormiva decentemente, ed erano anni che viveva assonnato, incapace di soddisfare il suo bisogno di dormire, incapace di lottare contro la sua mente perennemente eccitata e piena di immagini da riproporgli in mille salse diverse, incapace di fare qualcosa che non fosse rincorrere un sogno vissuto che nessuno avrebbe mai potuto raccontargli.
 
-Tesoro, ma che cosa stai … oh mio dio, Tom!
Lo strillo di Bill fece immobilizzare il ragazzo sul posto, i capelli sparati dappertutto, una mano mezza ustionata, gli occhi gonfi, e un paio di toast carbonizzati ai piedi.
-Ehi, Bill, buongiorno!- rise istericamente Tom, notando che quel coltello poteva essere interessante per farla finita una volta per tutte. Si era svegliato prestissimo dal suo orribile dormiveglia, in un bagno di sudore, soffocato dalle continue visioni notturne che prendevano vita davanti ai suoi occhi gonfi e arrossati senza dargli tregua e aveva pensato bene che non sarebbe stata una brutta idea quella di preparare la colazione. Era abilmente strisciato in cucina, avanzando eroico ed impavido tra la quantità industriale di roba sporca e dipinti che troneggiava dappertutto, fino a raggiungere dopo una specie di percorso minato che solamente un militare super addestrato reduce del Vietnam avrebbe potuto superare indenne (ovviamente, Tom non era un militare super addestrato reduce del Vietnam. No, Tom era solamente un ragazzo molto poco atletico, rovinato dai Cavalieri dello Zodiaco, troppo fissato con Street Fighter e convinto di poter un giorno sedere sul Trono di Spade con l’Anello del Potere al dito, la spada di Shannara al fianco e un leone gigante come animale domestico.) la poltrona piazzata strategicamente al posto di un qualunque tavolo o qualsivoglia ripiano. Giunto lì, vi era collassato miseramente, i capelli unti più che mai appiccicati al collo e un improvviso, terrificante bisogno di patatine fritte che, a quando vedeva, non ve ne erano. Julia non lo lasciava mai senza patatine, conscia di cosa si sarebbe scatenato se si fosse trovato senza la sua primaria fonte di sopravvivenza, e faceva in modo che non gliene mancassero mai, neppure la notte. Ma ora, era tutto diverso. Era in territorio nemico, dove non poteva fidarsi di nessuno e dove doveva ancora studiare il territorio per trovare fonti di approvvigionamento. Aveva cominciato a saggiare il campo, senza trovare altro che delle grandi riserve di melanzane alla parmigiana, tanto che si chiese se Bill si nutrisse solamente di quello. La sua ricerca non gli aveva fruttato altro che smangiucchiare svogliatamente una di quelle benedette melanzane, mentre tentava senza successo di aprire la finestra della cucina per arieggiarla, ma trovandola ineluttabilmente sbarrata dall’esterno. Aveva tentato di ignorare le bambole nel forno e alla fine aveva optato per tornare a farsi un giro per la casa in penombra, per evitare di fuggire a gambe levate da quella stagnante situazione da incubo. Forse stava definitivamente impazzendo. Anzi, probabilmente era già impazzito del tutto e niente gli vietava di essere in realtà sotto l’effetto allucinogeno di qualche sedativo da cavallo. Era tornato in camera, avanzando a tentoni nel buio pesto, intravedendo la sagoma di Bill soffocata dal piumone che pareva dormire ancora come un ciocco, anche se a stento gli si sentiva il respiro, per poi ritrovare dopo un po’ di tastate sul pavimento l’album che aveva risvegliato la sua attenzione quelle notte. Più alla cieca che mai, era ritornato in cucina, dove si era nuovamente appollaiato nella sua Minas Tirith elettiva, in compagnia del piatto di melanzane che in fondo erano pure decisamente buone e dell’album dei segreti. Aveva potuto studiare con più attenzione i disegni e bearsi della loro perfezione, aggravata da quell’aura malinconica e nostalgica che lo stesso Bill aveva addosso, nella voce, nel modo in cui ondeggiava, in cui fumava, in cui viveva. Sembravano tanto il rigetto di una periferia bastarda e assassina. Sembravano tanto i sogni mai morti di un ragazzo che non ha mai avuto il diritto di vivere la sua vita e che si era rifugiato nella fantasia per sfuggire a un mondo che non lo voleva. Sembravano tanto la disperazione suicida di una persona persa. Solamente con la luce smorta della cucina, Tom si rese conto che sotto quei disegni così belli c’erano delle frasi, talmente piccole e delicate da essere a fatica scorte. Mosso dalla curiosità, le avvicinò agli occhi, tentando di decifrare quella piccola, morbida calligrafia, un po’ arzigogolata e molto poco maschile. Si strofinò gli occhi, e scorse, con una certa fatica che sicuramente sotto al disegno del pianoforte c’era scritto “Sono un indovinello così oscuro, non puoi distruggermi”. Passò oltre, a quella del bacio, dove, nei graffiti che riempivano il muro, si poteva distinguere un “Le pallottole urlano a me da qualche parte”, come in quella del letto tra le coperte erano intrecciate le parole “Perso nella mia testa malata, vivo per te ma non sono vivo”, e allo stesso modo in quello con la spiaggia citava “Mi piace vedere come tutti voi sanguinate per me”. Erano pezzi di canzoni grunge, lo capiva da solo, forse gli Alice In Chains, gli parevano sul loro stile. Ma che significato misterico avevano rispetto a quei disegni oscuri animati da personaggi senza nome e senza tempo? Sembravano essere semplicemente senza dimensione, avvolti da questa sfera grunge che sapeva tanto di periferia americana anni ’90 , qualcosa di cui l’inconscio di Tom era a conoscenza e che lui si sforzava di ricordare. C’entrava il grunge e c’entrava l’America, ovvio. Ma come al solito era perso nelle nebbie impenetrabili del suo cervello addormentato. Quindi, alla fine aveva pensato che forse fare due toast e mettere su il latte avrebbe riscosso successo al risveglio di Bill, e magari come ragionamento non avrebbe fatto una piega se presto non si fosse ritrovato con un dannato tostapane diabolico con su disegnato il simbolo dei Nirvana che non la voleva sapere di tostargli il pane ma che anzi, aveva deciso di bruciarglieli e di scoppiargli praticamente in faccia. Senza contare il fatto che l’unico latte che aveva trovato era scaduto da almeno due mesi. E ora era lì, con Bill seminudo che lo fissava con aria innocente e lui era lì con due pezzi di pane bruciato in mano e l’aria sconvolta. Riusciva sempre a mettersi in buona luce con la gente, sempre.
-Oh, Tom, ma come mai hai voluto fare tu la colazione?
Bill lo guardò con quei suoi grandi occhi malinconici, un incerto e dolce sorriso stampato sulle labbra piene che avrebbe voluto far sprofondare Tom sotto dieci metri di terra. Solamente lui, su tutto il pianeta Terra, avrebbe potuto essere così cretino da trovarsi ad avere problemi con uno stupido tostapane degli anni ’90 e con un paio di fette di pane da tostare dall’aria vagamente stopposa. Sì, solamente lui era in grado di fare quelle figure letteralmente terribili davanti al suo nuovo … già, che cos’era poi in fondo Bill per lui? Un amante? Un amico molto stretto? Un angelo sceso dalle nebbie per salvarlo? Forse rappresentava semplicemente il suo tutto. Il suo tutto che aveva appena assistito a uno dei suoi più clamorosi esempi di imbranataggine più che unica.
-No, io … beh … speravo di farti una sorpresa.- Tom arrossì un po’, grattandosi il retro del collo con aria evasiva.
Bill scoppiò a ridere, quella sua risata argentina e scrosciante come una cascata anche di primo mattino, e gli si appese al collo, stampandogli un sonoro bacio sulle labbra, bacio che sorprese non poco Tom, che si aspettava già di venir cacciato di casa inseguito da un mattarello volante.
-Ti ho fatto esplodere il tostapane, e ti ho bruciato due fette di pane. Credo che … - iniziò il ragazzo, osservando Bill che, serafico come sempre, prendeva il vecchio tostapane e lo riponeva sopra al frigo cinguettando
-Su, tesoro, non ti preoccupare per così poco. Il tostapane è morto com’è morto Kurt Cobain. Non gli ho disegnato sopra il simbolo dei Nirvana per niente, no?
Tom non fece nemmeno in tempo a replicare qualcosa, che Bill lo spinse sulla poltrona, gli si sedette in braccio, e gli propinò una delle porzioni di melanzane alla parmigiana che riempivano tutta la cucina, mentre trillava
-Oggi, mi devi assolutamente accompagnare in un posto!
-Davvero? E dove?- a Tom si illuminarono gli occhi, ignorando che quella che tecnicamente avrebbe dovuto essere la sua porzione stava venendo allegramente divorata da Bill. Accompagnarlo da qualche parte voleva dire solo una cosa: che Bill si stava abbastanza innamorando di lui. E di meglio non chiedeva.
-Devo andare a fare una serie di interviste al centro sociale della zona nord.
Tom rischiò di strozzarsi con la saliva che stava cominciando a scendere a sentire Bill che si era praticamente spalmato sopra e che gli si strusciava impunemente addosso
-Cosa?! Ma stai scherzando?! Perché ci dovresti andare?
Il biondo sfarfallò gli occhi, posandogli le lunghe mani sulle spalle
-Che cosa c’è, Tom? Devo solo andare al centro sociale perché sono l’unico della Redazione abbastanza matto per metterci il naso dentro. Che problemi ci sono?
-Che problemi? Ma Bill, te lo sei detto da solo! Non è per sputtanare i centri sociali, visto che praticamente ci vivo dentro, ma quello della zona nord è un covo di avanzi di galera, di violenti, di schizzati … ti distruggeranno!
-No, stai tranquillo.- Tom non sapeva se essere terrorizzato dal sorriso tranquillo del biondo o dal fatto che si stessero per andare a infognare nel peggio del peggio – Nessuno può nulla contro un angelo nato prima del mondo. E cosa vuoi che siano!
-Saresti andato da solo a infognarti in un posto simile?- Tom fece tanto d’occhi.
Bill lo osservò attentamente, prima di stringergli le guance tra le dita e sussurrargli sulle labbra
 -Ma non sono solo, Tom. Ci sei tu con me. Dai, ora preparati che dobbiamo muoverci!
-Che cristo di casino hai fatto, razza di deficiente?
La voce di Hansi rimbombò nelle orecchie di Bill come uno sparo. Chiuse gli occhi, raggomitolandosi su se stesso come un riccio, nella speranza vana che lo ignorasse, stringendosi le mani sulle orecchie, il caldo sangue che cominciava a sporcargli la pelle pallida e malaticcia.
-Ma porca puttana, Bill! Cosa cazzo hai combinato?!
Soffocò un gemito quando sentì le lunghe dita di Hansi avvolgersi ai suoi capelli e strattonarlo fino a fargli tirare su il viso, sporco di trucco, lacrime e sangue. lo guardò negli occhi, quegli occhi di un pallido celeste assatanato, il viso affilato sconvolto da una smorfia scioccata, i capelli platino che gli ricadevano fino alla vita, la bocca malvagia distorta in una piega furibonda. Si era arrabbiato. Lo avrebbe picchiato. Lo avrebbe ucciso, forse. Ma a Bill non importava. Non disse nulla, si limitò a singhiozzare, i polsi tagliati, fradicio di sangue che gli sgorgava dalle cosce, dalle braccia, dalle caviglie. Aveva provato a morire da solo, ma nemmeno quello era in grado di fare. No, non aveva combinato altro se non insudiciare tutto la stanza da letto e scatenare la furia di suo fratello. Sei un buono a nulla, Bill. Non sai nemmeno suicidarti senza dare fastidio a qualcuno.
-Mi chiedo come è potuto venire al mondo un essere tanto abietto come te! Tanto stupido da non poter nemmeno farla finita senza rovinare la mia vita! La smetti di essere sempre a mezzo? Cosa dico adesso a Holly? Come le spiego tutto il casino che hai combinato tu, mostro schifoso? Perché non sei nato morto?
Bill guardava Hansi e piangeva piano, spezzato dal dolore dei tagli che gli ornavano tutto il corpo, dei capelli tirati e strattonati, del cuore sempre ferito e frustato. Sperava di morire prima che tornasse a casa. Sperava che così suo fratello almeno avrebbe avuto una vita felice, senza lui attorno. Lui voleva solo che fosse contento.
 
Quello fu probabilmente il viaggio in metropolitana più inquietante che Tom avesse mai sperimentato in vita sua, lui e Bill abbandonati all’alba di una triste mattina uggiosa e afosa su una delle carrozze più male in arnese di tutto il sistema metropolitano della capitale tedesca, in compagnia di un vecchio ubriaco che puzzava di birra stantia e di due ragazzine seminude che ridacchiavano istericamente canticchiando le canzoni di qualche boy band del momento. E poi c’erano loro due, un tipo mezzo addormentato coi capelli unti impegnato a leggere un brutto libro in inglese lurido di maionese e una sorta di diavolo senza ali che si ritoccava il trucco specchiandosi nel vetro sporco che non facevano altro che completare quel quadretto di infima qualità che si prospettava secondo i dettami della falsa Guerra Fredda nello specchio di una Berlino che nascondeva nel suo sterile grembo i figli imperfetti della sua opulenza. Non c’era nulla di poetico in Tom e Bill che scivolavano giù dalla metro, lasciandosi alle spalle le lacrime dell’ubriaco e le cantatine delle ragazzine, come fantasmi pallidi nell’ombra della notte che si eclissava via e lasciava spazio alla nebbiolina umida del mattino. Nulla di romantico nel vederli strisciare silenziosamente, uno appeso all’altro come a doversi sostenere in una partita a scacchi in cui continuavano a venire distrutti da una regina invisibile, verso il grosso edificio grigio fumo di stampo sovietico che si ergeva inquietante in mezzo alla polvere che si alzava e alla nebbia della Sprea. Nulla di soave nel sentire la voce melodiosa e triste di Bill canticchiare quella canzone degli Screaming Trees di cui Tom si scordava sistematicamente il nome, nel sordo rombare delle macchine che ingolfavano il traffico mattutino, nel debole risuonare di una radio lontana. Nulla di emozionante nel guardare Bill che come se nulla fosse gli si appendeva al collo, stampandogli un bacio sulle labbra dicendogli “Non credo di metterci dei secoli, là dentro” e vederlo ondeggiare sui tacchi a spillo vertiginosi, tenendosi in piedi per modo di dire, verso la porta semi distrutta del centro sociale, ancheggiando in modo tropo sensuale per quel posto, lasciandolo lì, seduto sugli scalini paciugati di graffiti a scrivere pacificamente la sua traduzione come fosse normale che un ragazzo di buona famiglia se ne stesse seduto alle sette del mattino in un posto simile a lavorare mentre aspettava una buffa creatura che superava le leggi della fisica e del tempo. Sicuro, a Tom non importava. Anzi, a modo suo si divertiva pure, a vedere la città svegliarsi mentre seguiva le gesta di Lloyd che finalmente stava arrivando in Florida, sperando in cuor suo che Bill riuscisse a fare la sua dannata intervista e che nessuno gli facesse qualcosa di sconveniente. Certo, da parte sua era comunque convinto che Bill mettesse più paura da solo, col suo sorriso innocente, gli occhi vuoti e l’abbigliamento da battona che lui con la sua faccia impregnata di sonno e i suoi pugni, che a onore del vero erano piuttosto efficaci, se si arrabbiava veramente o se gli toglievano la tv. Avrebbe benissimo potuto cavarsela da solo, a fare quelle interviste che nessuno avrebbe mai voluto fare. Sì, indubbiamente Tom sapeva che se la sarebbe cavata da solo se non che dopo un tempo indefinito sentì uno degli inconfondibili strilli terrorizzati di Bill risuonare nel silenzio uggioso di Berlino. Fece giusto in tempo ad alzarsi di scatto, senza nemmeno capacitarsi davvero di cosa fosse successo, mosso solamente dalla voce angelica del suo demonio, per precipitarsi dentro l’atrio poco illuminato e appesantito dalla puzza di marijuana che vide qualcosa che lo fece semplicemente bloccare boccheggiando, come quelle tre o quattro persone che erano lì. Perché per quale diavolo di motivo Bill se ne stava raggomitolato per terra a strillare come un’aquila verso una normalissima ragazza bionda che lo fissava terrorizzata, tenendosi le mani premute sulle orecchie e piangendo disperato qualcosa che poteva essere interpretato come un “Lascialo stare, Holly, è tutta colpa mia”?

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Capitolo 9
*** Siamo sulla pista giusta! ***


CAPITOLO NOVE: SIAMO SULLA PISTA GIUSTA!

-Tom, sei sicuro di stare bene?
Se non fosse stato troppo stanco anche solo per sbadigliare, il ragazzo avrebbe riso istericamente di fronte alla domanda posta da Rebecca, l’inarrestabile fidanzata di Julia, che lo fissava preoccupata con quei grandi occhi gialli truccatissimi, i capelli cotonati rosa chewingum raccolti in un’enorme crocchia perfetta, le curve e i seni prosperosi schiacciati nella divisa da infermiera troppo stretta per le sue forme burrose e prorompenti. Si limitò ad alzare lo sguardo con aria truce, riuscendo solo a grugnire qualcosa che poteva essere “Mi dai delle patatine?” o anche “Ho sonno”.
-Forse dovresti tornare a casa.- Rebecca si accucciò per terra accanto a lui, guardandolo con una certa compassionevole tristezza.
-Non ci torno finché non mi dite come sta Bill.- mugugnò Tom, scostandosi i capelli dal viso e sospirando rumorosamente. Erano ore che era lì seduto nel corridoio dell’ospedale, aspettando pazientemente che qualcuno si degnasse di fargli sapere le condizioni di Bill, dopo che qualcuno del centro sociale aveva chiamato un’ambulanza e se l’era visto strappare dalle braccia e portare via, costringendolo a una corsa fuori programma fino all’ospedale, dove gli avevano simpaticamente detto di aspettare. Per delle ore, infinite, lunghissime, oscene, asettiche ore. Che poi, per quello che aveva pensato subito, si era illuso di averlo potuto calmare da solo in perfetta calma. Certo, per un attimo, quando lo aveva afferrato per la vita, e gli aveva premuto il viso sul suo petto, sussurrandogli che andava tutto bene e che doveva calmarsi, era sicuro che Bill si fosse tranquillizzato. Ovviamente, si sbagliava di grosso. Perché l’unica reazione che poi aveva ottenuto era stata quella di aver detto una frase che probabilmente aveva urtato l’inconscio del biondo (forse il suo “Ci sono io, non avere paura”, oppure il “Nessuno ti farà del male”) e di scatenare un’ulteriore crisi isterica che sinceramente avrebbe fatto anche a meno di vedere, fatta di strilli inconsulti sul fatto che lui non aveva fatto nulla, che era innocente, che dovevano lasciarlo stare, correlata col fatto che il ragazzo aveva cominciato a dare testate nel muro, e ad aggredire chiunque osasse anche solo avvicinarglisi. Tom guardò il dorso della propria mano dove campeggiava ancora un bel morso e si toccò istintivamente la guancia ornata da un graffio mica da ridere risultato dei suoi tentativi di calmare Bill prima che due enormi infermieri lo trascinassero via di peso sotto i suoi occhi avviliti.
-Io sono solo un’infermiera, però ti prometto che ci starò attenta io a Bill. Ti terrò aggiornato, lo terrò d’occhio. Ora però tu faresti meglio ad andartene, Tom!- Rebecca lo guardò tristemente, posandogli le mani sulle spalle, il trucco da Cleopatra che le ingigantiva ancora di più gli occhioni.
-Ho capito, Becca, grazie mille, però io voglio sapere come sta.- il ragazzo si scostò i capelli dal viso assonnato, massaggiandosi il ponte del naso.
-Ora è sotto sedativi.- Rebecca si sedette accanto a Tom, aggiustandosi la gonna bianca – Ha schizzato un po’, prima che lo sedassero. Scalciava, urlava, piangeva. Beh, l’hai visto. Come va la mano e la guancia?
Il ragazzo alzò le spalle, sorridendo debolmente all’amica, sospirando.
-Ma prima che lo sedaste come stava? Voglio dire, ha smesso di sclerare?
-Straparlava, però almeno si era calmato. Non scalciava e non mordeva, ecco. Aveva anche smesso di tentare di rompersi la testa.
Rebecca e Tom si guardarono tristemente, prima di voltarsi verso il corridoio bianco asettico e sulle porte dove dietro una di quelle dormiva Bill coi suoi demoni.
-Senti, T., ma tu … cosa sai di Bill? Intendo dire … chi è?- chiese Rebecca, scostandosi una ciocca ribelle dal viso tondo.
-Non lo so, Becca. Non so nulla di lui, in fondo.- Tom alzò le spalle con aria evasiva, appoggiandosi alla parete – Se non che appartiene al mio passato e che ho deciso che lo salverò da se stesso. Qualunque siano i suoi demoni.
-Come discorso non fa una piega, T., ma l’ultima volta che avevi detto che avresti salvato qualcuno si trattava del gatto obeso della zia di Georg rimasto incastrato e l’unica cosa che avevi prodotto col tuo salvataggio era stato fargli rompere una zampa.- la ragazza sorrise, quel sorriso vagamente sadico, da coniglio marzolino che a Tom aveva sempre messo un po’ di soggezione.
-Ma dai, Becca, era un gatto stupido! Non è stata colpa mia se …
-Mi scusi, è lei il fratello di quel ragazzo?
La voce stentorea di un medico dall’aria assurdamente seria e tombale fece quasi arrossire Tom, che si sentiva tutto meno che presentabile al pubblico, stanco, assonnato e disordinato. Si limitò ad alzarsi con aria quasi colpevole, come fosse un bambino delle elementari messo in castigo dal maestro e mormorò, incapace di tenere lo sguardo fisso sul viso del dottore
-Aehm … no. Sono … un suo amico.
Se c’era una cosa che si era ripromesso di non dire, era proprio quella. Perché l’ultima cosa credibile che dovevi dire in situazioni simili era sempre incarnata nel casuale “amico”, che puntualmente veniva sempre interpretato male e veniva fatto oggetto di commenti sconci o di occhiate di rimprovero. Cosa che puntualmente avvenne anche quella volta.
-Lei non è il fratello di Bill Schadenwalt?- il medico lo guardò con una certa diffidenza.
-No. Il fratello di Bill è mancato qualche anno fa.- appena lo disse, se ne pentì amaramente, ma l’unica cosa che gli era venuta in mente da dire era stata quella. La verità, d’altronde. Eppure perché quando si trattava del biondo angelo tutto sembrava cadere in uno strano oblio dove le bugie sembravano il verbo giusto e la verità solo una stupida scusa per fuggire lontano?
-Capisco. Potrebbe venire un attimo con me?
Tom balzò in piedi con un’agilità che non avrebbe creduto di possedere, improvvisamente libero della sonnolenza, zampettando dietro al medico, seguito a ruota dai capelli rosa bubblegum di Rebecca. E, sinceramente, si sarebbe aspettato di tutto ma non sicuramente la trasparente figura di Bill che se ne stava raggomitolato nel letto guardandosi aprendo e chiudendo i palmi delle mani, concentrando in esse un profondo interesse. Sembrò non essersi nemmeno accorto della porta che si apriva e di Tom che diceva
-Ehi, Bill … tesoro, come stai?
Venendo bellamente ignorato, il ragazzo guardò il medico che si strinse nelle spalle con aria vagamente persa
-Non registra nulla di quello che gli si dice; dobbiamo finire le T.A.C. alla testa per controllare che dopo tutte le testate non abbia avuto dei danni ma …
-Pensate che Hansi venga a prendermi presto?- la vocina angelicamente vuota e lontana di Bill li fece quasi sobbalzare. Soprattutto fece sobbalzare Tom, a sentire quel nome che aveva cominciato a detestare con tutte le sue forze. Bill si era voltato verso di loro, sorridendo, le mani strette in grembo e gli occhioni eccitati.
-Ecco. Lei sa chi è questo … Hansi? Non fa altro che nominarlo.- il medico non attese nemmeno che Tom rispondesse, aggiustandosi gli occhiali sul naso camuso – Comunque, è sotto osservazione, ovviamente. C’entrano le botte in testa, il fatto che abbiamo notato i legamenti dei polsi spezzati e mal riassemblati, forse causa di precedenti atti di autolesionismo, e le sue reazioni. E che …
-Potrei stare due minuti da solo con lui, per piacere?
Tom non stava registrando nulla di quello che gli stava dicendo il medico, e non stava nemmeno vedendo Bill che continuava pacificamente ad aprire e chiudere i palmi delle mani come una moderna Lady Macbeth che non riusciva a togliere il sangue dalle sue mani omicide, anche lui a suo modo una regina decaduta alle bassezze e alle trivialità del losco popolo che avrebbe dovuto guidare sulla retta via. Che poi lei fosse una tragedia shakespeariana e lui fosse un angelo nato prima del mondo, che lei fosse la regina di Scozia e lui il re della periferia berlinese, che lei avesse fatto uccidere un uomo e che lui fosse tormentato da demoni di ogni sorta, che lei fosse la malvagità e lui la follia incarnate, beh, quello non c’entrava. Vi era un legame unico tra Bill e Lady Macbeth, quasi percepibile in quel modo che entrambi avevano di guardarsi i palmi delle pallide mani. Bill era un angelo, ma non veniva dal Paradiso. Era semplicemente una creatura celeste sbucata fuori quando nulla era creato, quando non si erano formati fazioni, religioni, mondi, ma c’era solo il nulla assoluto: ed era lì che era sbucato lui, così nato dalle particelle di latte stellare e di polvere di stelle, osservante tutto quello che era seguito alla sua nascita, prorompente come la formazione di una nuova supernova.
Quando poi rimasero da soli, e gli si sedette accanto, sospirando rumorosamente, prendendogli delicatamente una mano tra le proprie, si sentì decisamente strano, perché se da un lato era carico di una specie di illuminazione che gli diceva che lui e solo lui poteva tirare fuori Bill dal suo Inferno personale, dall’altro era convinto di essere arrivato troppo tardi per spegnere un incendio che oramai aveva già raso al suolo qualunque forma vitale nel giro di miglia. In realtà, Tom si era sempre sentito così: come se arrivasse sempre tardi oppure troppo presto sul campo di una guerra che lui avrebbe dovuto combattere ma alla quale puntualmente mancava. Un senso di vuoto e di inadeguatezza perenne che non lo lasciava mai quietare da quando aveva incontrato per la prima volta gli occhi vuoti e spaventati di Bill, in un tempo lontano che non gli era dato ricordare.
-Ehi, Bill. Sono Tom. Mi dici qualcosa?
Il fatto che poi Bill lo guardasse con un sorriso spento, sfarfallando gli occhioni come se non lo vedesse nemmeno, gli fece scendere l’autostima sotto le suole, mentre gli stringeva la mano senza la minima emozione, come se non fosse altro che uno dei suoi diavoli impalpabili che popolavano la sua mente malata e stressata. Il ragazzo sospirò, scostandosi i capelli unti dal viso, massaggiandosi il ponte del naso.
-Bill? Mi senti? Mi riconosci? Sono Tom. Tom, il fante di picche.
Tom non sapeva come mai il biondo avesse deciso di chiamarlo fante di picche, ma fece finta di nulla, cercando di scorgere una minima luce di riconoscimento nell’espressione vuota e persa che aveva dinnanzi. Cosa che non avvenne, visto che Bill gli stringeva la mano come se nemmeno se ne stesse accorgendo e lo fissava con un sorriso vuoto e un’espressione persa in un mondo parallelo a cui nessuno era dato di entrare, impegnato a vivere in un fronte di demoni che lo angustiavano e che popolavano la sua strana vita sul limite di ogni senso logico e sociale.
-Abbassa quella dannata musica, razza di deficiente. Ti sembra che io possa anche solo riuscire a finire quest’hackeraggio che mi hanno commissionato se tu continui a sentire questa roba da psicopatici? Abbassala, ti ho detto, sei diventato sordo? Dovresti spararti in bocca come il tuo idolo, non trovi? Avresti qualche speranza di incontrarlo all’inferno. Anzi, perché non lo fai davvero? Se morissi potrei smetterla di doverti mantenere e farmi la mia vita in pace, senza di te, aborto della natura.
Bill parlava senza dare la minima colorazione a quello che diceva, la bocca piegata in una smorfia triste, gli occhioni malinconici che fissavano il viso di Tom senza in realtà vederlo, qualche lacrima che luccicava nello specchio delle sue iridi infernali.
Tom spalancò gli occhi, improvvisamente terrorizzato: di nuovo, dannazione. Di nuovo quello … scambio di personalità? Quella strana presa di potere del fratello di Bill che si andava a insidiare dentro di lui? Quell’inquietante discesa nei suoi incubi personali che covava dentro un corpo troppo bello e una mente troppo eccitabile?
-Bill, non c’è nessuna musica.- disse Tom, prendendogli il viso tra le mani e guardandolo fisso negli occhi, cercando di mantenere la calma il più possibile – Siamo in un ospedale berlinese, c’è un silenzio tombale, Hansi non c’è, ci siamo solo io e te, va bene? Bill e Tom. Tu non devi copiare nessun cantante grunge, ok?
Bill lo osservò con una certa curiosità, incrociando il suo sguardo, stringendosi nelle spalle ossute e in quel momento più che mai, Tom non poté fare a meno di vedere le ali da pipistrello grondanti di sangue così scuro da parere nero che colava a gocce dagli artigli che ghermivano l’aria e che sovrastavano la pelle morta delle ali. Immaginò le ali ripiegarsi su loro stesse con una lentezza esasperante, avvolgendo il loro padrone come una gabbia, muovendo l’aria soffocante e impregnata di anestetici dell’ospedale come un’onda che dolcemente investe la spiaggia abbandonata.
-Ho ancora le mani sporche del suo sangue. E’ stata tutta colpa mia.- mormorò Bill a mezza voce, guardando Tom fisso negli occhi, l’ombra di una lacrime a brillargli nel fondo delle pupille – Ho ucciso Cleopatra come ho ucciso mio fratello.
Tom fu quasi sicuro che quando Bill scoppiò in un pianto disperato, le ali si aprissero di scatto, muovendo l’aria di colpo, spalancandosi dietro alle spalle del ragazzo e invadendo con la loro granguignolesca presenza tutta la stanzetta bianca, gli artigli affilati, le membrane nerastre orribilmente strappate, ali enormi ma incapaci di spiccare il volo per salvare il loro padroncino dall’inferno in cui era precipitato, ali rovinate dalle sabbie del tempo e dai venti del passato che le avevano strappate e ferite nei viaggi intertemporali compiuti.
Scivolò fuori dalla stanza, quando il medico, dall’aria piuttosto svogliata, in compagnia di due infermieri entrò, guardando con un vago malcelato disgusto sia Tom che Bill
-Ora il paziente deve riposare.- a quel punto, Tom avrebbe voluto dargli un pugno in testa ma si trattenne. Gli angeli non riposano. Gli angeli volano se qualcuno è capace di curar loro le ali. – Se vuole venire a trovarlo domani.
Il ragazzo si limitò a grugnire qualcosa, guardando per l’ultima volta nella giornata Bill in lacrime, avvolto dalle sue ali insanguinate che tentavano inutilmente di proteggerlo dalla brutta mondanità che non gli faceva che male. Sì, quella volta sarebbe stato lui a raccogliere le lacrime di stelle e a rammendare la membrana alare per permettergli di volare di nuovo nei suoi sogni e nelle sue fantasie malate.
Sospirò rumorosamente, avviandosi giù nell’atrio dell’ospedale, i capelli che gli ricadevano davanti al viso, i passi strascicati, la vecchia borsa con l’inseparabile Lloyd che gli ciondolava da una spalla, una smorfia depressa stampata sul viso. Arrivato giù, si guardò stancamente attorno, stropicciandosi gli occhi assonnati e distinse la figura di Rebecca che appena lo avvistò gli corse incontro ciondolando sui tacchi 12 delle imbarazzanti scarpe di plastica azzurro cielo.
-Allora, mi vuoi spiegare che diavolo sta succedendo?- Rebecca lo stava aspettando nell’atrio, vestita normalmente, i capelli rosa che andavano da tutte le parti e la chincaglieria punk che la faceva sembrare un fenomeno da baraccone.
-Lascia perdere, Becca, è un casino assurdo.- Tom guardò sconsolato l’amica, legandosi i capelli in una cosa scomposta – Cioè, non ho assolutamente capito un tubo di tutta la faccenda. Julia te ne ha parlato?
-Beh, certo, lo sai che non sta mai zitta, e di certo non su di te.- i due ragazzi si avviarono fuori dall’ospedale, accolti da un bollente fohn del sud che frustava i radi alberi del cortile, l’afa che rendeva l’aria irrespirabile e soffocante – Mi ha raccontato tutto quella strana storia di Bill … T., sei sicuro del casino in cui ti sei andato a infognare?
-Ma certo che ne sono sicuro!- Tom alzò gli occhi al cielo, mentre imboccavano una lunga strada in discesa semi vuota, illuminata vagamente dai lampioni che fendevano debolmente l’oscurità calata quella sera, oscurità che preannunciava di sicuro un brutto e bollente temporale estivo. – Lo so che sembra impossibile, ma io e Bill siamo … perfetti. Come una dimostrazione per assurdo, quelle geometriche. Ok, lui è incoerente, è instabile, ha un sacco di problemi, vede cose che non ci sono e dice un sacco di assurdità, ma sono certo che io devo fare qualcosa per lui. Devo aiutarlo, per quanto mi è possibile. È un po’ come fosse una vocazione, solo che invece di fondare una setta fondamentalista cristiana, io salvo Bill. Che è un angelo. E che quindi c’entra pure con la setta cristiana.
Tom si era appena reso conto di aver detto una delle più grandi stupidate di tutta la sua vita, il discorso meno poetico, sensato e razionale possibile. Ma Rebecca, la folle, squinternata, anarchica Rebecca, sembrò non prestarci attenzione
-Ho capito, tesoro mio, ma non penserai mica di farlo da solo!
I grandi occhi gialli truccatissimi si posarono su di lui, accompagnati da uno di quei sorrisi che a Tom mettevano un po’ d’ansia.
-E cosa dovrai fare, Becca? Non posso mica chiamare un’associazione Caritas!
-Beh, la Caritas forse no … ma noi sì!- la ragazza si esibì in un largo sorriso, appendendosi al braccio di Tom, cercando di non far fuoriuscire il prorompente seno dalla maglietta a rete striminzita.
-Voi?! Ma cosa stai dicendo?- Tom si rese conto, dopo aver visto l’espressione assunta da Rebecca che forse il tono era stato poco lusinghiero e si affrettò a riparare – Cioè, no, non fraintendermi! Vi voglio bene, siete i miei migliori amici ma … dai. Bill. E voi. No, non ci siamo, non ce la possiamo fare.
-Tu ti e ci sottovaluti, Tom!- il ragazzo venne scosso dalla presa ferrea dell’amica, accompagnato da una scrollata di capelli – Ok, forse dall’esterno possiamo sembrare poco professionali e molto casinisti, e non lo metto in dubbio che lo siamo, ma forse è proprio la nostra incapacità di crescere a renderci quello che siamo. E a darci dei punti nella conquista di Bill. Juls mi ha raccontato tutto, l’altra sera e non c’è nulla che ci impedisca di aiutarti in questa missione disperata. Nulla, hai capito?
A Tom, a quel punto, venne quasi da ridere. Perché sì, forse Rebecca aveva ragione. Erano cinque quasi trentenni di periferia che non avevano imparato a crescere, cinque Peter Pan che vivevano la loro vita alla giornata, senza freni e senza regole, cinque bambocci su cui avrebbero potuto fare un film di quelli che la gente vede ridendo a crepapelle ma che poi, quando va a dormire, si trova a ragionarci sopra e a fare qualche conteggio sulla propria vita. In fondo, chi erano loro? Un barista che pensava solo al cibo e a niente altro, un agente immobiliare perennemente impegnato nel corteggiamento della stessa ragazza, una commessa anarchica con strane idee politiche in testa, un’infermiera punk che si comportava come un freak e un traduttore di romanzi incapace di ricordare il suo passato. Erano così meravigliosi, nel loro lurido squallore plebeo che forse ce la potevano anche fare a salvare un giornalista suicida che si credeva un angelo. Nulla di così strano che loro non potessero affrontare con il loro coraggio da bambini avventurosi, la loro malizia da sedicenni provinciali, la loro allegria scanzonata di ragazzi che il futuro non l’avevano perché credevano ancora che Johnny Rotten avesse ragione e che Abbey Road nascondesse un segreto.
-Capito l’antifona, Becca. La smetto di fingere di essere un adulto.- Tom sorrise stancamente, guardando le nubi che si ammassavano sopra la città – E ti dico che siete i migliori amici del mondo e che mi rifiuto categoricamente di farti da testimone al matrimonio perché mi vergogno, ok?
L’urlo della ragazza scosse la strada, accompagnato da uno di quegli abbracci spezza ossa e dal
-Sono così felice che Julia mi abbia chiesto di diventare sua moglie!
che rimbombò nel sordo rombare dei motori della capitale.
-Alla fine, com’era andata la serata?- Tom la guardò fare gli occhi e mettere le mani a cuore, saltellando sui tacchi vertiginosi.
-Benissimo! Guarda che bello.- gli agitò sotto il naso il vistoso anello col teschio di brillanti terribilmente pacchiano che Tom conosceva bene, dopo che Julia lo aveva costretto ad accompagnarla dal gioielliere a comprarlo e averlo sottoposto a una delle più grandi figuracce del secolo – Ora siamo ufficialmente fidanzate e stiamo progettando di sposarci tra poco. In più, avevamo anche ballato il tango sul poggiolo in bikini. Avresti dovuto esserci.
Tom alzò gli occhi al cielo. Era sicuro che prima o poi qualcuno avrebbe chiamato la polizia per atti osceni in luogo pubblico con due tipe che ballavano semi nude con la musica a tutto volume ad orari indecenti e con un tipo che a un certo punto usciva anche lui sul poggiolo in boxer e cominciava a bestemmiare contro le due ballerine. Sì, era più che sicuro che presto le infinite volanti che passavano per il loro quartiere avrebbero fermato sotto casa loro.
-Certo, Becca, come no. Comunque, sarete una coppia divertente.
“Tu e Bill non sarete mai una coppia divertente”, gli ricordò la sua antipatica coscienza, e non poteva certo darle torto. Chi avrebbero divertito, loro due? Forse quelli della mortuaria.
-Anche tu e Bill lo sarete, T.- disse invece Rebecca, sorridendogli dolcemente – Anche perché credo fermamente che sia ora di darci da fare e smetterla di piangere. Prima ho chiamato Georg e Gustav, sono a casa tua e di Julia.
-Non mi dire che hai avuto una di quelle tue stupide trovate di festicciole mal fatte.
Tom fece tanto d’occhi, spalancandoli comicamente, figurando tristemente quello che Gustav gli raccontava praticamente ogni santo giorno, ovvero il fatto, per lui avvolto da un misterioso alone di nebbia, che a una delle famose festicciole di Rebecca aveva brillantemente dichiarato il suo amore eterno a Georg dopo aver bevuto almeno dieci bicchieri di quello che pensava fosse succo ma che si era rivelata una potentissima vodka.
-Assolutamente no, Tom!- Rebecca gli diede un colpo di fianchi, gli shorts inguinali che le fasciavano a stento le cosce lentigginose – Ho fatto di meglio, per aiutarti a salvare Bill. Ho riunito la Lega.
 
La cosiddetta “Lega degli Avventurosi Eroici Squattrinati Kebab al Formaggio Fuso Senza Glutine”  era un’associazione segreta nata circa quindici anni prima a Magdeburgo e trasferitasi a Berlino sette anni prima, avente nel proprio gruppo Tom, Georg, Gustav, Julia e Rebecca, quelli che a scuola erano talmente sfigati da essere stati meccanicamente scartati da qualsiasi gruppo e club che si era andato a formare negli anni. C’era perfino un club dei disagiati, ma loro erano così terribilmente out da essere costretti a fare la Lega dei Kebab, che si riuniva ufficialmente quando qualcuno dei membri aveva una questione da risolvere, che poteva passare dal come recuperare un’insufficienza, a come conquistare una ragazza, dal come sopravvivere al divorzio dei genitori, a come salvare un angelo nato prima del mondo. C’erano le sue buffe usanze che sapevano tanto di setta religiosa, come quella di fare le riunioni con un kebab in mezzo al circolo e una candela accesa piantata sopra, e quella di passarsi un sacchetto della friggitoria ogni volta che qualcuno voleva prendere parola. Certo, quelle idee erano nate quando avevano solo undici anni e avevano fondato la Lega, ma Gustav, l’inflessibile Presidente, aveva ritenuto conveniente non scioglierle e continuare imperterriti ad accendere la candelina sul kebab passandosi il sacchetto bucato come testimone. E in quel momento, come quando erano ancora dei bambinetti con la fissa per Indiana Jones, come quando erano adolescenti che predicavano il verbo dei Guns’n’Roses, esattamente così erano seduti in circolo sul pavimento della casa di Tom e Julia, una candelina accesa di un vecchio compleanno infilzata su un kebab ancora caldo in mezzo a loro, il sacchetto della friggitoria sotto casa sulla testa di Georg come un buffo berretto e Lady Gaga che cantava ignara nello stereo, imposta da una dittatoriale coppia di ragazze che si erano rifiutate di sentire i canti popolari magdeburghesi che puntualmente un grasso biondo rifilava all’udito.
-Dunque, Tom, facci capire con calma: Bill è perseguitato, se così posso dire, dal fantasma di un certo Hansi, che sembrerebbe essere suo fratello, talmente succube da essere addirittura convinto che potrebbe tornare dall’oltretomba a rovinargli la collezione di bambole, dotato di una memoria elefantiaca ma convinto di esistere da sempre, ossessionato da se stesso tanto da circondarsi di suoi autoritratti, intelligentissimo ma autolesionista tanto da aver tentato il suicidio, fissato con la musica grunge e con Kurt Cobain, completamente sdoppiato in due diverse identità che subentrano a seconda della situazione e ora è in ospedale perché ha avuto una crisi isterica causata da non si sa bene cosa e perché ha cominciato a mordere e graffiare chiunque gli si avvicinasse dopo aver tentato di rompersi la testa.
-Esatto.- mugolò Tom, ruminando stancamente qualche patatina – Cosa devo fare?
-Intanto, innamorarti di qualche uomo normale e non andare a cercarti psicopatici che già ci sei te che fai per dieci.- commentò pacifico Gustav, beccandosi un rapido coppino da parte di Julia che abbaiò
-Zitto, grassone! Tom, effettivamente, scusa se te lo dico, ma questo è davvero un casino enorme.- la ragazza si sistemo sul severo caschetto biondo il sacchetto di carta – Più che altro, perché dovresti tentare di scoprire cosa affligge Bill prima di buttarti nel salvataggio.
-Giusto.- le diede man forte Rebecca – Abbiamo appurato che da giovani vi siete in  qualche modo legati e …
-Ma non è che c’eri andato a letto? Sai, sedici anni, un po’ di alcol, un bel culo, forse lui vuole che … - Gustav venne interrotto da un  pugno oltraggiato
-Piantala di insinuare cose non vere!- sbottò Tom – Non ci sono andato a letto, né prima né adesso. Piuttosto … dite che dovrei cercare nel suo passato?
-Che dovremo, vorrai dire.- esclamò Georg – Ormai, ci sentiamo anche noi parte di quest’avventura e se si tratta di fare del bene a un nostro ex compagno di scuola di cui non ci ricordiamo troppo bene l’esistenza e che sembra ti si sia affezionato in maniera morbosa, allora siamo pronti.
-Madonna, Georg, se la metti così sembra che stiamo per scoprire i segreti di Daisy e Gatsby.- commentò acidamente Julia. – Forza, cosa aspetti Tommuccio? Mano al computer e vediamo di trovare qualcosa.
-Ma come facciamo a trovare qualcosa su Internet?- chiese Gustav, grattandosi la zazzera bionda e mangiando un pezzo del kebab onorario – Non penso esca nulla.
-Beh, Tom, Bill che cosa diceva sulla morte di suo fratello? Ne ha fatto menzione?- disse pacificamente Rebecca, poggiando la testa sulla spalla di Julia.
Tom si grattò il collo, sforzandosi di ricordare cosa avesse detto Bill, spremendo quanto più poteva le meningi, cercando di ricostruire i discorsi senza capo né coda.
-In realtà, lui ha solo detto che si chiamava Hansi, che è morto sette anni e che … che è convinto di averlo ucciso lui.
-Rassicurante.- borbottò Georg – Dunque, se partiamo dal presupposto che ciò non sia vero, che sia stato un incidente, un suicidio, o anche un omicidio allora dovremmo cercare casi di cronaca risalenti a sette anni fa in cui era rimasto ucciso un ragazzo molto giovane possibilmente di nome Hansi, considerando che visto che Bill non ha padronanza delle sue facoltà mentali, potrebbe anche aver falsato il nome. Non siamo sicuri si chiami davvero così, no?
-E se c’è qualcosa riguardo a Holly.
Tutti si voltarono verso Tom, che si mordicchiava un unghia e guardava il soffitto con aria persa nei suoi mondi alternativi
-E che c’entra adesso Holly? È un nome da donna!- fece presente Gustav.
-Lo so, e non so nemmeno se possa essere una pista, ma oggi Bill, prima di cadere preda di quella spaventosa crisi isterica strillava qualcosa a “Holly”. Qualcosa sul lasciare stare un terzo.
Julia sospirò rumorosamente, afferrando il portatile e cominciando a digitare furiosamente, qualcosa, borbottando a mezza voce qualcosa riguardo ai “migliori amici che si vanno a impelagare in relazioni pericolose”. Gli altri quattro le si affollarono attorno, scrutando incuriositi lo schermo luminoso e quello che sbucava
-Dì un po’, Tommolo, potrebbe centrare qualcosa con Bill questo fatto?
Tom allungò un collo e vide che Julia aveva aperto un sito di cronaca nera risalente a sette anni prima che portava l’inquietante titolo di “La casa degli orrori della Colonia Strasse”, dove c’erano alcune fotografie dell’interno di un appartamento invaso dalla Polizia.
-Praticamente,- disse la ragazza, scostandosi una ciocca di capelli dal viso – Qui dice che sette anni fa la Polizia, chiamata dai vicini, aveva fatto irruzione in un appartamento della Colonia Strasse, giù a Magdeburgo, trovandoci un gran casino. Era un circolo di eroinomani, wow, sembra di essere tornati negli anni ’80, solo che doveva essere scoppiato un casino per l’eroina, posso immaginare e qui dice che c’era scappato il morto. Il fatto accadde una notte e un ragazzo, non dice il cognome ma secondo qua avrebbe dovuto chiamarsi Hansi come il nostro uomo, volò giù dalla finestra. Nessuno dei presenti era stato in grado di dire una plausibile verità, tutti troppo fatti per rilasciare una deposizione, a parte, e qui c’è il fatto strano, uno di quelli che aveva espressamente detto di essere stato lui il colpevole e di aver spinto l’altro di sotto.
-E l’avranno arrestato e quindi non ci interessa.- interruppe Gustav – Bill è libero.
-Dio, Schafer, ma la sai tenere chiusa quella fogna di bocca?!- abbaiò Julia – Il tipo che si era costituito è stato ritenuto innocente per il fatto che poi, durante le indagini, tutti i presenti avevano più o meno sostenuto che il presunto colpevole non aveva fatto nulla e che il ragazzo morto era caduto da solo, contando che in quel momento quel tale che si voleva addossare la colpa aveva un braccio ingessato e che fisicamente era così debole che non avrebbe potuto spingere un'altra persona così forte da farla cadere.
-Perché però si era costituito se era innocente?- chiese Georg, grattandosi la testa.
-Boh, qui non dice altro, ma sembra essere stato l’unico caso di cronaca nera che possa calzare alla nostra situazione, anche se qua non fa nomi.
-D’altronde, a chi può interessare la morte di qualche eroinomane in una città di confine … e avrebbe pure senso!- esclamò Tom, battendosi il pugno sul palmo – Se Bill dice di aver ucciso suo fratello, potrebbe essere lui il ragazzo che si era costituito nonostante la sua innocenza! Ma perché avrebbe dovuto farlo?
I cinque ragazzi si guardarono incerti.
-Io credo che volesse proteggere qualcuno. Intendo dire, se fossi stata nella stessa situazione e Juls avesse spinto, che so, Georg di sotto, io mi sarei addossata la colpa pur di salvarla.- Rebecca sfarfallò gli enormi occhi truccatissimi.
-Aww, grazie amore, lo sai che io avrei fatto lo stesso!- cinguettò Julia, travolgendo la fidanzata di baci e Tom si trovò a pensare perché con lui non mostrava nemmeno un quarto della dolcezza riservata a Rebecca.
-Ehi, facciamo un po’ le corna!- sbottò Georg, toccando ferro – Ma chi avrebbe dovuto proteggere, scusate?
-Magari un ipotetico ragazzo, un amico, una persona a cui era molto legato. Credo che questo tocchi a noi scoprirlo.- disse tetro Tom
-Ragazzi, guardate un po’ qui che strano però.- Gustav si era impossessato del computer e aveva inforcato gli occhiali – Qui dice anche che una certa Holly Lachmann si era suicidata sempre a Magdeburgo poco dopo la morte di questo Hansi uccidendo di conseguenza il figlio che portava in grembo. Tom, non hai detto che Bill parlava anche di una certa Holly?
-Beh, sì, sono due nomi che ha citato.- Tom si grattò una guancia, incerto. Quando gli sovvenne una cosa. In uno dei disegni che aveva visto la mattina in casa di Bill, c’erano raffigurati Bill e quell’altro ragazzo biondo che tenevano in braccio un bambino appena nato. Che potesse c’entrare anche quello qualcosa in quel complesso puzzle che stavano cominciando a riordinare? – E … ragazzi. Credo che dovremmo indagare in questa direzione, qualcosa mi dice che siamo sulla strada giusta per scoprire qualcosa di più.

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Capitolo 10
*** Puoi andare al cimitero, Tom? ***


CAPITOLO DIECI: PUOI ANDARE AL CIMITERO, TOM?

In trent’anni di onorata carriera, la dottoressa Ziemann non aveva mai sperimentato un soggetto come quel ragazzo che aveva davanti, ricoperto di piercing e tatuaggi, con quell’inquietante sorriso vacuo e quei grandi occhi tristi che vedevano tutto e niente contemporaneamente. Parlava bene, con gentilezza, parlava tanto ma non diceva nulla di tangibile. Era fumo, quel ragazzo, fumo come quello della sigaretta che gli aveva dato. Aveva un modo elegante di stare rannicchiato sulla sedia, un modo aggraziato nel portarsi la sigaretta alle labbra, un modo signorile di eludere ogni domanda che lei gli porgeva. Era pazzo, forse, ma non era affatto stupido. Poteva sembrare trasognato e addormentato, ma era incredibilmente presente a se stesso, sveglio, furbo. Certo, quei grossi occhi neri truccati erano carichi di una malinconia incancellabile, vi si poteva leggere dentro tutta la depressione che quel ragazzo si trascinava dentro da quando era nato, impregnati di ragnatele che avrebbero potuto essere quelle che ricoprivano le vecchie bambole di case abbandonate secoli prima, ma brillavano, in fondo, una lucina lontanissima ma presente, qualcosa che segnalava la sua vera essenza. Sorrideva, quelle belle labbra piegate in un leggero sorriso perso e innocente, ma nulla vietava che nascondesse molto di più che una semplice mente instabile. C’era qualcosa, nell’intera sua essenza, a dare alla dottoressa la sensazione che fosse molto di più di quello che dava a vedere, che avesse una propria logica e che fosse ben lontano da essere uno di quelli incatenati ai loro mondi alternativi, slegati dalla realtà, perché quel ragazzo tinto di biondo platino che in quel momento stava parlando della salita al potere di Mao-Tse-Tung alla finestra era molto di più di quello che dava a vedere. Poteva sembrare completamente fuori, lontano da ogni situazione reale, ma lei vi leggeva dentro una sorta di presenza di spirito non da poco, pareva quasi che lo facesse apposta per proteggersi da qualcosa di sconosciuto, una sottile perfidia nascosta abilmente sotto l’innegabile dolcezza che lo permeava. Era diabolicamente presente, si disse la donna, guardando le belle mani del giovani gesticolare delicatamente nell’aria, aveva una follia inquietantemente calcolatrice e fredda, qualcosa impossibile da ingabbiare e da curare, era troppo intelligente per farsi incastrare da qualcuno. Era pericoloso, decise la dottoressa Ziemann. Bill Schadenwalt era un elemento pericoloso per la comunità, ingestibile, incomprensibile e troppo geniale per essere tenuto a freno. Anzi, si chiedeva ancora come potesse essere ancora in libertà. Un ragazzo simile avrebbe potuto come niente creare scompigli inenarrabili in città, era abbastanza lucido per farlo e per scappare se i suoi demoni glielo avessero ordinato.
-Capisco … - la donna annuì, scrutando attentamente il lampo diabolico saettare nelle iridi nere del ragazzo. – Allora, mi vorresti raccontare qualcosa di te, invece?
-Non ho nulla da raccontare su di me, dottoressa.- cinguettò pacificamente Bill, esalando un sospiro di sigaretta – Io sono un angelo, gli angeli non raccontano.
Un angelo, pensò la donna sorridendo tra sé. C’erano stati tanti giovani che le avevano rivelato di sentirsi creature celesti, ma nessuno l’aveva mai fatto con la sicurezza un po’ egocentrica del biondo.
-Certo, Bill, tu sei un angelo. E non vuoi dirmi cosa ti è successo nel centro sociale?
-Lo sa che mi sarebbe tanto piaciuto avere dei bambini?- Bill la guardò intensamente negli occhi, passandosi una mano tra i capelli, i piercing che brillavano alla luce asettica dei led dell’ospedale.
-Puoi sempre averli, Bill, sei molto giovane. Troverai sicuramente una ragazza con cui avere una famiglia.- la dottoressa Ziemann lo guardò con aria accondiscende, sentendosi fondamentalmente una bugiarda. Ma poi, aspetta, cosa c’entrava un figlio con il centro sociale?
-Io ce l’ho già un ragazzo.- Bill la guardò storto, stringendosi nelle spalle ossute –  E comunque non potrò mai avere i bambini che voglio, sono morti sette anni fa.- strinse le ginocchia al petto, dondolando la testa – Credo che l’avrei chiamati Lukas e Klaus. Sì, forse li avrei chiamati così. Però sono volati via …
La psichiatra guardò, con una certa inquietudine che in tanti anni di servizio non aveva mai sperimentato nemmeno coi soggetti più pericolosi,  Bill che si alzava e ciondolava dalla finestra, poggiando la lunga mano pallida sul vetro. Seguì con lo sguardo le lunghe unghie acuminate spennellate di rosso graffiare lentamente il vetro, mentre lui posava la fronte contro la finestra e cominciava a ridere. E, parola sua, la dottoressa Ziemann non aveva mai sentito una risata più orribile di quella. Avrebbe voluto scappare, in quel momento, il suo terrore era forte come quello di una gazzella circondata da leoni. Solo che qui sarebbe dovuta essere lei il leone, non quel ragazzo anoressico che sghignazzava in un modo così grottesco, orribile e perverso da fare paura anche al più accorto e coraggioso degli psichiatri. Lo guardò che continuava a ridere, rideva sempre di più, un suono spezzato come quello di una vetrata intera che cade a pezzi, scrosciante come una pioggia di cristalli spezzati, mentre scivolava lentamente sempre più giù, fino a inginocchiarsi per terra, le mani ancorate al vetro come quelle di una bestia in gabbia, grosse lacrime di trucco che gli rotolavano lungo le guance scavate e malaticce. Teneva gli occhi spalancati, vuoti come quelli di una bambola bruciata dalle fiamme, spalmato sulla finestra sporcata dalle gocce di pioggia che battevano sul vetro, scosso dagli spasimi di quella risata isterica che sembrava non avere fine tanto era disperata e stravolta. Sembrava il pianto di una madre che aveva il proprio figlio al fronte. Il pianto di una ragazza che ha lasciato il proprio fidanzato partire per un continente lontano. Il pianto di un lupo che viene strappato al suo branco. Piangeva e rideva contemporaneamente, forse piangeva dal ridere, forse rideva per non piangere, spezzato da milioni di schegge invisibili conficcategli nell’anima martoriata e torturata fino all’inverosimile. Sembrava il suono di una cascata scrosciante sulle rocche, come poteva essere anche il suono di lamine di ferro che schiacciano e triturano vite sotto di loro. Faceva paura a vederlo così, ucciso dalla sua stessa perversa risata, il viso nascosto tra le mani, quelle ali da demonio strappate come il loro padrone e grondanti sangue e inchiostro che si arpionavano al vetro con i grossi artigli, nel tentativo di buttarlo giù e di salvare il loro angelo da quell’inferno in cui era precipitato, graffiando e sbattendo come un gabbiano ferito sulla finestra, violente e terribili, il sangue che sprizzava dappertutto negli ultimi spasmi di vita delle povere ali del ragazzo.
La donna si alzò, lisciandosi la gonna del tailleur castigato e si avvicinò al ragazzo, posandogli delicatamente una mano sulla testa.
-Bill,- sussurrò delicatamente, accucciandosi accanto a lui – Bill, come ti senti?
Lui non la guardò nemmeno, raggomitolandosi ancora di più su se stesso, come un riccio, i singhiozzi placati e le ali chiuse a proteggerlo a guscio, avvolgendolo completamente come a cercare di portalo di nuovo dal paradiso infernale da dove era venuto. Davvero, si chiedeva la dottoressa mentre gli scompigliava i capelli come a un bambino, non aveva nulla di umano e di sensato quel ragazzo. Sbaragliava i bookmaker della psicologia e della psichiatria.
-Voglio andare via.- piagnucolò Bill, sollevando appena lo sguardo verso la donna, ma senza in realtà vederla – Non mi piace questo secolo. Voglio andarmene, Hansi, voglio tornare polvere di stelle.
-Non puoi andartene, Bill.- sospirò la dottoressa Ziemann, facendolo lentamente alzare. Era un caso difficile, quello. Come fare a dire a un ragazzo che te lo chiedeva in ginocchio che quello era l’Inferno e beh, quella non era l’uscita? – Devi restare ancora un po’ qua. Ma mi hai detto che hai un … ragazzo, vuoi parlarmi di lui?
Lo fece di nuovo accoccolare sulla sedia, accendendogli un’altra sigaretta, aspettando che smettesse di tremare convulsamente e di parlottare tra sé in una lingua che la donna era sicura di non aver mai sentito in vita sua, ma che aveva il suono più bello del mondo, eppure era anche sicura che non avesse nessuna forma di possessione demoniaca, ma che fosse solo una lingua che il biondo si era inventato per proteggersi da questo mondo che gli era completamente nemico. Oppure era forse così che parlavano gli angeli. Aspettò, fissandolo curiosamente, il viso perso in una nuvola di fumo biancastro, lo sguardo vuoto in un universo percepibile solo ai pochi eletti, le belle labbra piene piegate in un sorriso malinconico, mormorava una preghiera nella sua lingua angelica. Stava rivivendo una delle sue mille vite, in quel momento, uno dei diecimila Bill che coesistevano in un'unica mente martoriata e in un unico corpo anoressico e tatuato. Avrebbe anche voluto chiedergli come mai quel look così appariscente, il perché della sua omosessualità così portata agli estremi, il motivo della sua estroversione nel conciarsi ma nella sua assoluta introversione nel rapportarsi col mondo. Era come una farfalla: bellissimo fuori, ma non muore forse solamente dopo una giornata da imperatrice?
-Vuole che le racconti di Tom?
Bill la stava guardando, e sembrava così differente da quello scricciolo spaventato e perso che era stato fino a un secondo prima. La guardava fisso, gli occhi glacialmente incatenati dentro i suoi, le gambe signorilmente accavallate, un inquietante, vago sorriso. Faceva paura, indubbiamente. Tanta quanta ne può fare l’ignoto.
-Se ne hai voglia, potrebbe essere un buon argomento.- sorrise accondiscende la donna. Forzarlo, si doveva. Spingerlo a raccontare la realtà, e non le sue menzogne.
-Tom non si ricorda di me, in realtà.- iniziò Bill, soffiando una voluta di fumo nell’aria, il tono sensuale di una qualche diva cinematografica anni ’50 – Ci siamo visti tre volte, come la sacra Triplice Dea. Tre, come la Trinità. Tre, come gli album in studio dei Nirvana. Una, quando eravamo bambini, quando c’era Cloto a filare i nostri destini incrociati e quando c’erano ancora i mostri a popolare il mio letto. La seconda, quando avevamo sedici anni e c’era Lachesi che stava tessendo le nostre vite nell’arazzo più bello che sia mai stato tessuto, e lì volevo salvare mio fratello dal disastro che lo attendeva. La terza, quando avevamo diciannove anni, Atropo avrebbe dovuto lacerare il nostro arazzo e io mi stavo struggendo nella mia esistenza di amante non corrisposto. E poi, Tom è tornato da me. Quando meno me l’aspettavo, quando credevo che sarebbe rimasto il mio bellissimo Fante di Picche perso nell’obnubilante bellezza del ricordo eterno, è riapparso, dalle sabbie del tempo. Laggiù, sulla Sprea, sotto le luci della notte. Come in un sogno meraviglioso.
La dottoressa Ziemann lo guardò, annuendo incredula. Non sapeva se credergli oppure no, come trovare la vera chiave di quel discorso in un mezzo a quel tripudio di figure retoriche e abbellimenti atti a confondere l’ascoltatore nel loro giro di perlacei specchi riflettenti le mille verità che si occultavano nelle parole.
-E’ una bella storia, Bill.- rispose semplicemente, accondiscendo. – Molto romantica.
-No, oh no, forse non ha afferrato il punto.- il biondo rise, scuotendo la testa – Io e Tom non siamo romantici. Siamo legati a doppio filo con il passato e le continue coincidenze dei nostri incontri. Comunque, dottoressa, le volevo chiedere un favore.
Ci fu qualcosa nel repentino cambiamento nel ragazzo che mise all’erta la donna, quasi come se li le avesse tacitamente detto che basta, si era stufato di quella seduta, che voleva tornare a covare i suoi diavoli in santa pace. Sembrava essersi improvvisamente tranquillizzato, aveva raddrizzato la schiena, cominciava a guardarla negli occhi, anche la voce stessa sembrava aver perso la lagnosa e infantile cantilena. Cambiava, Bill, cambiava a seconda della situazione. E questo non faceva che renderlo un soggetto sempre più pericoloso.
-Sì, Bill? Dimmi pure quello che vuoi.- annuì, sistemandosi gli occhiali.
-Vorrei che mi aiutasse a raccogliere un po’ di materiale sulla storia di questo comprensorio ospedaliero. Ho sentito che ha una storia piuttosto interessante, legata soprattutto alla Seconda Guerra Mondiale … vede, sono un giornalista. Credo che durante la mia degenza possa intrattenermi scrivendo un nuovo, brillante, articolo sul Bach Hospital. Credo che a questo punto l’articolo sul centro sociale sia stato affidato a qualche altro collega.
Il Bill che le stava parlando in quel momento non era affatto pazzo, quello era poco ma sicuro. Era solamente qualcun altro che subentrava quando serviva che riprendesse il controllo della situazione, come una perfetta macchina raziocinante che comprendeva tranquillamente quale fosse il viso da mostrare al mondo: quello di un patetico e debole ragazzo con gravi scompensi psicologici che doveva suscitare solo compassionevole misericordia, oppure quella di un giornalista in carriera particolarmente acuto e affascinante che doveva imbambolare i suoi interlocutori. Il mistero allora era scoprire cosa nascondesse il suo tormentato passato e risalire dunque al tragico nocciolo della questione.
-Ma certamente, Bill. Farò in modo di procurarti del materiale adeguato.- disse la dottoressa Ziemann, occhieggiandolo da sopra gli occhiali – Ma, dimmi. Non hai accento berlinese … fammi indovinare, Hannover?
-Magdeburgo.- la corresse Bill, sorridendole maliziosamente. Voleva incantarla, forse? Era cosciente di quel suo atteggiamento provocatoriamente seducente? Qualcosa le diceva che fosse semplicemente il suo Altro Io ad aver preso il sopravvento. Come se dentro di lui convivessero due uomini completamente opposti uno all’altro, che quello forte lasciasse il debole a giochicchiare col loro corpo per poi affermarsi quando trovava un approccio prolifico. Erano inquietanti, i suoi occhi, realizzò la dottoressa. Quasi che uno chiamasse vendetta e l’altro si limitasse a piangere.
-Capisco. Non deve essere stata una città divertente.
-Oh, non molto. Ma sette anni fa sono venuto a Berlino, e devo dire che è davvero tutto un altro mondo.- sillabò Bill, calcando impercettibilmente sulla parola sette come sulla parola un altro.
-Posso immaginarlo, Bill. Sei venuto a Berlino con qualcuno o …
-Scusa Bill, scusa, lo so che sono in ritardo ma … oddio, mi scusi!
La dottoressa Ziemann si voltò verso la porta, che si era appena spalancata violentemente, da dove era sbucato un ragazzo sui ventisette anni piuttosto arruffato e col fiatone. Lo guardò, i grandi occhi scuri sgranati in un’espressione apologetica, i lunghi capelli unti sciolti sulle spalle, l’aria assonnata e allucinata come uno appena svegliato da una notte conciliata dalla marijuana, una borsa da postino anni ’50 appesa alla spalla e la classica aria da ragazzo no global con strani ideali comunisti in testa che crede ancora che Jim Morrison sia vivo da qualche parte e che Janis Joplin si sia reincarnata nel suo gatto.
-Tom, caro! Non disturbi affatto, la seduta stava giusto per finire!- Bill si alzò di scatto, appendendosi al collo del nuovo, disordinato, venuto – Dottoressa, lui è Tom, il mio fidanzato, gliene parlavo prima! Caro, lei è la dottoressa Ziemann, la mia psicologa.
Mentre si alzava per stringere la mano dell’impacciato, sorridente, un po’ confuso, giovane Tom, la donna non poté nascondere a sé stessa un brivido spaventato. Perché, ne era sicura, appena Tom si era palesato nella stanza, Bill, o meglio, l’uomo che sembrava possedere ogni tanto il suo corpicino da bambolina, aveva piegato il viso in una smorfia che dire terrificante era dire poco, come se non avrebbe mai voluto quella rumorosa e infantile visita. Eppure, nella frazione di un secondo, fu come se la maschera dell’Ospite fosse crollata come crolla una statua di argilla, e il vero Bill, quello innocente e splendidamente angelico, fosse sbucato di nuovo allo scoperto, felice di essere riuscito a riappropriarsi del proprio corpo prima di appendersi al suo fidanzato con un sorriso che sembrava voler solamente scongiurare un’altra presa di potere dell’altro Sé. Era cosciente di essere pazzo, allora?
-Così tu sei il suo fidanzato, piacere.
Tom le strinse la mano, presentandosi, con quel suo classico modo un po’ scanzonato e un po’ campato per aria che era solo suo. Era fantastico, come al solito. Non aveva finito la traduzione, si era dimenticato che Bill era in ospedale, e come se non bastasse aveva fatto la figura da cretino del mese: era miseramente caduto, forse vittima dello stress e della stanchezza, in quella fase di amnesia totale nel quale nulla gli sovveniva più alla mente che non fosse giusto il nome e la faccia di Julia, che aveva dovuto passare almeno mezz’ora seduta al Brecheisen con lui, in mezzo a un gruppo di turiste svedesi che erano passate dal guardarlo con la bava alla bocca a un’espressione spaventata, a raccontargli di nuovo chi era, cosa ci faceva lì e che cosa avrebbe dovuto fare quel giorno. E anche perché stava leggendo quel libro orribile.
Guardò Bill, che gli stava appeso al braccio con un sorriso vittorioso sulle labbra e sorrise tra sé e sé. Bene, ora era ufficialmente il suo fidanzato. Sembrava quasi un paradosso potersi dire fidanzato con un angelo caduto dal Paradiso e sgattaiolato via dall’Inferno come un topolino che si affacciava in ogni epoca fino a trovare lui, Tom, traduttore di romanzi che più sfigato non si può. Anzi, si era quasi chiesto se Bill non avesse avuto un uomo in ogni epoca in cui era vissuto, magari era stato l’amante di uomini come Marat, come Dostoevskij, come Chopin. Per quello che ne sapeva, Bill avrebbe potuto essere il compagno di giochi di Cleopatra, essere stato sulla Santa Maria come cartografo di Cristoforo Colombo, aver tramato nella Rivoluzione d’Ottobre contro i Romanov, essere stato parte attiva dell’omicidio di Robespierre, aver combattuto nella Seconda Guerra Mondiale, o essere stato in prima linea durante la Primavera Araba, come in quella di Praga. Aveva avuto il privilegio di conoscere ogni singolo angolo oscuro della Storia, e di poterla raccontare in prima persona, di essere stato a contatto con tutti i letterati e i musicisti di tutte le epoche e di aver preso qualcosa da ognuno di loro. Bill era il mondo, era tutto, era l’angelo di cui la società aveva paura. O forse era Tom che era completamente impazzito ad aver cominciato a credere che Bill fosse davvero qualcosa di ultraterreno. Berlino stava diventato dannatamente complessa da vivere dopo che gli angeli avevano deciso di usarla come scacchiera.
-Allora, vi lascio.- la dottoressa si alzò – Bill, prendi le tue medicine, mi raccomando. E ricordati che tra poco hai una visita.
I due ragazzi guardarono la donna scomparire e chiudersi la porta alle spalle, lasciandoli soli nell’asettica e inquietante intimità di una camera di ospedale. Si guardarono negli occhi, mentre Tom gli accarezzò delicatamente il viso e gli baciasse dolcemente i capelli, come si fa coi bambini, come si fa coi vecchi. Bill era un bambino troppo vecchio, in fondo.
-Allora, Bill, come stai?
-Non lo so, Tom.- il biondo sospirò rumorosamente, sedendosi sul suo letto, malinconico, dondolando i piedi. – Mi sento … strano. Mi fanno sentire strano.
-Cosa vuol dire? Ti hanno detto qualcosa di brutto?- Tom gli sedette accanto, stringendogli le spalle ossute, guardando le ali ripiegarsi tranquille e accarezzargli impercettibilmente la pelle.
-E’ proprio quello … perché non mi insultano? Perché non mi picchiano? Perché mi trattano come uno di loro?- Bill posò il capo sulla spalla dell’altro, mordendosi pensosamente il labbro inferiore, chiudendo gli occhi sporchi di trucco.
-Perché lo sei, Bill.- Tom gli baciò di nuovo i capelli ossigenati, che sapevano di shampoo, di sigarette, di colori ad olio. Sembravano una di quelle coppie che durano indefesse da anni, che hanno vissuto sulla loro pelle i segni di un secolo che cambia, di tradimenti, amori, amicizie, di vite vissute. Eppure loro non stavano insieme da nemmeno un mese, ma sembravano sconvolgere ogni legge immateriale. Erano già consolidati, loro due, la loro pelle era già segnata dalle cicatrici della fatica. – E credi che possano anche solo insultare un angelo?
Bill sorrise, strofinandogli il viso nel collo.
-Grazie, tesoro. Sei così carino con me. Però … non so, mi inquieta questo posto, e queste persone che mi trattano bene. Sono abituato alla periferia, Tom, a vivere nel degrado dei miei incubi. Qui … è tutto troppo normale.
-Ho capito, Bill, non ti preoccupare. L’ospedale è solo una transizione, sono sicuro che quando ti avranno riaggiustato potrai tornare a casa. In periferia.- Tom rise, stringendolo a sé come la bambola delicata che in fondo era. – Piuttosto, come ti senti fisicamente?
-Bene, credo. Non so nemmeno quello.- Bill gli si accoccolò contro, quella buffa espressione infantile eppure saggia – Mi sento un po’ soffocare, e poi non mi fanno fumare. Cioè, solo la psicologa me lo permette ma capisci che io ho bisogno delle mie sigarette. E nemmeno dipingere, solo disegnare. E devo scrivere l’articolo, sono in ritardo con la consegna.
-Su, coraggio. Te l’ho detto, è questione di pochi giorni prima che la vita riprenda a scorrere normalmente … vuoi che faccia qualcosa per te?- Tom lo guardò, e pensò che era bello anche così, un po’ arruffato, ancora più pallido e macilento, gli occhioni stanchi e arrossati. – Ti porto qualcosa da casa, vado dal direttore del Flugel a dirgli che non stai bene, qualunque cosa. Fammi sentire utile, ti prego.
La buffa espressione del ragazzo fece ridere il biondo, che si limitò a stringerlo e cinguettare, come se davvero non fosse successo nulla di tragico
-Come sei tenero, Tom! A volte mi ricordi un po’ Holly, sai?
Tom aggrottò le sopracciglia. Holly. Quel nome. Lo stesso nome della ragazza che si era impiccata dopo l’incidente della morte di Hansi. Dunque, il mistero tornava a fargli macabramente visita sotto forma di un sorriso smielato, un bacio un po’ più approfondito e tanti punti interrogativi che ballavano nella sua mente confusa dal sonno e dalle patatine fritte. Uh, giusto, avrebbe anche dovuto lavarsi i capelli.
Aspettò giusto un attimo dopo che si furono baciati sostanziosamente e che Bill si fosse raggomitolato sul suo letto per arrischiarsi a partire con la domanda
-Ma … dimmi, posso sapere chi è Holly?
Stranamente, Bill non ebbe la tragica reazione che si era aspettato, ma si limitò a scuotere la testa e a ridere, ridere di cuore.
-Holly? È la fidanzata di mio fratello! O meglio, lui veramente diceva che era la sua … com’è che la chiamava? La sua …
-Troia?- lo aiutò Tom, vergognandosi della sua volgarità che sembrava essere lontana anni luce dalla purezza argentina di Bill.
-Ecco! Esatto!- il biondo batté le mani, entusiasta. Bene, era in versione pacifica. Poteva raccontargli. Snodare la matassa. Svelare parte dell’oscurità perversa che adombrava il suo passato. – Ma per me era una ragazza così speciale, così diversa. Non so perché non mi volesse male, perché si sforzasse di proteggermi dalle grinfie di Hansi, perché mi comprasse i pastelli, a volte. Ma lo faceva. Era così diversa da lui, così innocente. Forse era davvero più pazza di me, non trovi, Tom? Pazza come lo siamo tu ed io.
Tom non aveva ancora capito bene i parametri che Bill dava alla sua follia, ma in fondo non era importante capire come un angelo considerasse i terreni. Non erano altro che polvere sotto le sue belle dita magre con le lunghe unghie accuratamente spennellate di nero e bianco. Lo guardò, nella profondità degli occhi neri completamente allucinati, dove continuavano a cadere specchi di Alice e scacchiere di marmo bianco, dietro a pregiati tendaggi di broccato rosso. Erano un teatro, gli occhi di Bill, uno spettacolare teatro che Ibsen avrebbe definito la sua bellissima Casa di Bambola e che Ionesco avrebbe trovato così deliziosamente assurdo. Per non parlare di Miller e della sua irrealtà surreale che dentro Bill trovava uno spazio assurdamente congeniale.
-La gente è matta, tesoro mio, eppure nessuno se ne accorge per davvero.- Bill si era alzato, per poi essersi riseduto comodamente sulle ginocchia di Tom, guardando con aria sognante fuori dalla finestra, una mano che giocherellava distrattamente con i capelli scuri del ragazzo arrotolandosi qualche ciocca attorno alle dita e l’altra impegnata a disegnare fronzoli invisibili nell’aria asettica dell’ospedale. Sembrava un capo di stato, a modo suo. Un papa. Un imperatore. – Sono tutti così schiavi del sistema, del mondo comune, che nessuno pensa a come potersi liberare una volta per tutte da questa prigionia eterna a cui ci si auto costringe. Ci si obbliga ad essere normali quando la normalità non è altro che un concetto borghese istituito dai poveri di spirito per crearsi personalità. Noi siamo liberi, Tom, te ne rendi conto? La tua memoria inesistente, la gentilezza di Holly, l’intera mia anima, non sono altro che i segnali per cui noi abbiamo superato la stupida concezione banale e abbiamo aperto le porte della vita vera. Non trovi, Tom? Non pensi che in fondo noi non siamo altro che quelli che stanno dalla parte giusta dello specchio?
Tom sospirò rumorosamente, accarezzandogli distrattamente la schiena. Certo, sarebbe stato bello se il mondo avesse funzionato come diceva Bill, eppure non riusciva a capir che quella era la realtà, non era uno dei suoi folli disegni, non era la Wonderland che sognava, non era altro che la schifosa vita a cui tutti dovevano sottostare. Il biondo era qualcosa che non c’entrava con loro, Tom lo aveva capito subito da quando lo aveva visto barcollare pericolosamente sulle rive della Sprea, vestito come una battona del Banhof Zoo, con i suoi bracciali tribali che cozzavano tra loro e i suoi occhioni speranzosi e allucinati. Lo aveva sentito fin dentro il cervello ogni volta che lo guardava, che parlava, che la sua memoria addormentata risvegliava oziosamente stralci impalpabili di canzoni grunge, e frasi scritte sulle mani, e inquietudini e carboncini di mostri neri con gli occhi verdi. Che Bill esistesse da sempre o fosse solo un ragazzo con gravi scompensi psicologici, rimaneva comunque che aveva ragione: era più normale lui, nella sua magica follia, che tutto il resto del mondo e la loro ottusa borghesia.
-Io … non lo so, B. Forse. Forse no. Credo sia questione di punti di vista.
Tom si grattò impacciato il retro del collo, stringendosi nelle spalle. Ma che domande veniva a fargli, lui, un inutile ragazzo proletario che arrivava a stento a fine mese e che doveva convivere con l’angelo più squinternato di tutto l’Inferno?
-Come vuoi, tesoro.- Bill gli sorrise dolcemente, il suo sorriso più vecchio del tempo e più giovane di un bambino appena nato, più saggio del mare e più innocente dell’acqua di sorgente, più triste della morte e più gioioso della vita. Bill era un controsenso ambulante. Era il suo Ankou, la sua Jana, la sua Lorelei. Era tutto quello che l’avrebbe perseguitato ogni notte nei suoi incubi. Si alzò dalle sue ginocchia, baciandogli le fronte, come un papa che consacra un sovrano, come un  padre che saluta il figlio, come un soldato che dà l’addio alla madre prima di partire per una guerra dalla quale non farà ritorno. – Vorrei che facessi qualcosa per me.
-Tutto quello che vuoi!- esclamò Tom, forse con troppa enfasi, sfoderando uno dei suoi larghi sorrisi un po’ malinconici e un po’ smemorati. Perché Tom non sarebbe cambiato mai, eterno bambino con lo skate sottobraccio, la rivolta in testa e una canzone dei Green Day da cantare sotto le stelle di metallo della periferia.
-Dovresti andare al cimitero.- cinguettò Bill, aggiustandosi i capelli, arrossendo un pochino – Lo so che non è una cosa molto allegra, ma vedi, ho bisogno che qualcuno vada a controllare e possibilmente a portare dei fiori a mio fratello e alla sua fidanzata. L’ho sempre fatto io ma ora … fallo tu, Tom. Per favore.
Ora, Tom si sarebbe aspettato qualunque cosa. Ma proprio qualunque cosa, dal portargli i pennelli, a mettergli a posto la casa, a fare un’intervista al suo posto, anche a scoparlo lì sul letto dell’ospedale, ma quello proprio no. E forse lo diede abbastanza a vedere quando boccheggiò
-Co … cosa?
-Oh, Tom, lo sapevo! Non avrei dovuto chiedertelo!
Il ragazzo guardò Bill assumere una perfetta espressione triste e corrucciata, mentre sfarfallava i grossi occhi inquieti, torcendosi le mani in grembo, le ali immaginarie che si stiravano nervosamente alle sue spalle, e subito si pentì amaramente di essere sempre così dannatamente impulsivo. Ecco, aveva rovinato tutto. Si affrettò a riparare, come poteva, afferrando le mani del biondo spasmodicamente
-No, Bill, no, cos’hai capito, certo che vado al cimitero, ero solo … stupito, ecco stupito. Non pensavo che portassi dei fiori a … tuo fratello, ecco. Intendo, dopo le bambole e quello che … dicevi.
-Sono quasi otto anni che gli porto i fiori, Tom.- Bill lo guardò, sorridendo docilmente, il fantasma di una lacrima a brillargli nelle pupille – Sai quando dicono che il primo amore non si scorda mai?
Tom annuì, anche se non aveva capito cosa c’entrasse il primo amore con quello psicopatico che bruciava la barbie del fratello minore e lo perseguitava. Ma d’altronde cosa c’era da capire in Bill che non fossero citazioni grunge e autoritratti inquietanti?
-Come vuoi, caro.- cedette, grattandosi il collo, anche se trovava già insopportabile il fatto di andare solo che a vedere la tomba di quel bastardo. – Devo, ehm, portare un determinato tipo di fiori, candele, oppure …?
-Dei fiori di adonide e un po’ di edera, se la trovi, ovviamente, per mio fratello, mentre per Holly … credo vada bene dei giunchi di palude e delle viole blu. Sì, decisamente!- Bill saltellò, battendo le mani – Sarebbero assolutamente perfetti! Devi andare al Cimitero di Friedenau, sono due lapidi vicine, nella zona a nord ovest. Ma credo che tu possa chiedere di Hansi Schadenwalt e Holly Lachmann e il guardiano ti dovrebbe saper indicare precisamente dove sono.
Tom annuì, segnandosi rapidamente tutto su un foglietto. Bene. Wow, all’insegna del romanticismo, spedito dal suo fidanzato in giro per cimiteri a portare fiori impossibili da trovare in tombe altrettanto sperdute per Friedenau. Un lavoro perfetto per Tom, che non si orientava nemmeno in casa sua.
-Grazie, tesoro, sei stato così carino con me!
Bill lo travolse stampandogli un sonoro bacio sulle labbra, appendendoglisi al collo, mentre un’arcigna infermiera faceva un secco cenno a Tom che l’orario delle visite era finito. Il ragazzo sospirò rumorosamente, inalando ancora il profumo di Bill e dandogli un altro bacio di arrivederci.
-Ci vediamo nel prossimo turno di visite, Bill. Ora … vedo di andare.
E Tom uscì, Bill che lo salutava con la manina e cinguettava un “Torna presto!”, la gola che chiedeva a gran voce una sigaretta, la vecchia infermiera che lo guardava acidamente borbottando qualcosa su “questi giovani d’oggi” e un nuovo, tragico, obbiettivo da raggiungere per poter aumentare ancora la sua presa sul biondo angelo infernale. Destinazione, cimitero di Friedenau.

***
Salve Aliens! Intanto, volevo scusarmi davvero per il ritardo osceno ma avevo avuto un brutto calo di ispirazione, non che ora ne abbia molto di più (leggasi, scusate se il capitolo fa schifo), ma almeno sono riuscita a produrre questo. Quindi, doppio scusate, mi sento una schifezza verso le sante ragazze che ancora seguono questa storia ... D: due cose, intanto credo che manchino pochi capitoli. Credo. Anzi, ne sono quasi certa, quindi la tortura non durerà ancora a lungo, e secondo alla fine Bill elenca dei fiori per Hansi e Holly, beh, hanno un significato, ovviamente! Intanto, l'adonide indica il ricordo doloroso, mentre l'edera è la dipendenza, mentre la viola blu è la fedeltà e il giunco di palude la docilità. Insomma, sono ragionati *-*
Boh, vi lascerei qui ringraziandovi per aver letto e scusandomi per l'attesa. Mi raccomando, recensite!
Bacio, Charlie xx

 

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Capitolo 11
*** Ho imparato a giocare, fratello mio ***


CAPITOLO UNDICI: HO IMPARATO A GIOCARE, FRATELLO MIO

Tom non sapeva quanto potesse risultare convincente con quella vecchia Polaroid appesa al collo, una sigaretta in bocca, la borsa anni ’50 appesa alla spalla, la vecchia giacca di pelle bucherellata e i lunghi capelli scuri sciolti sulle spalle. Non era nemmeno sicuro di quanto potesse spacciarsela da fotografo di cimiteri, ma, ecco, gli era sembrata la scusa più plausibile da usare con il vecchio guardiano per non sembrare un necrofilo pervertito che girellava oziosamente per Friedenau in una giornata di pioggia appiccicosa e nebbia che saliva inquietantemente su dall’erba umida e avvolgeva le lapidi come sottili mani di fumo che sembravano voler ghermire anche lui, solitario visitatore del grosso cimitero, con il suo mazzo di viole blu, e i suoi occhi assonnati e gonfi. Che poi, dalla fioraria era pure riuscito a sembrare un perfetto tossico, con la sua faccia da morto di sonno e la sua ostinazione nel farsi dare quei fiori introvabili, per poi uscire di corsa inseguito da uno spelacchiato mazzolino di viole blu.
Tom sospirò, passandosi una mano tra i capelli unti, fingendo di scattare una foto a una grossa tomba familiare dove incombeva un enorme angelo di marmo nero che pareva solamente una crudele apparizione che voleva fagocitarlo, e aumentò il passo in mezzo alla selva di morti che si estendevano sotto i suoi piedi. Più la nebbia saliva, più aveva la fastidiosa sensazione che i grossi angeli lo stessero seguendo e che i morti cominciassero a parlottare appena superava la loro tomba, che le piante facessero in modo di diventare un’intricata prigione naturale nel quale rinchiuderlo. Ok, forse stava definitivamente impazzendo. Bill gli stava dando alla testa, si stava lasciando condizionare dalla sua follia, dai fantasmi del suo passato misterioso, dalle sue paturnie mentali da schizoide, aveva lasciato che i problemi mentali del biondo attecchissero alla sua mente stanca e divorata dall’amnesia, che germinassero per farlo impazzire del tutto, per frustare quel poco di normalità che aveva ancora per farlo diventare pazzo a sua volta. Veniva tranquillamente a patti con sé stesso, oramai: aveva degli squilibri mentali. Certo, rispetto a Bill erano nulla, ma lui la normalità manco pensava di averla mai davvero vista. Sembrava ossessionato da tutto quello che vedeva in televisione, aveva paura del buio a ventisette anni suonati, soffriva di brutte amnesie e di un’insonnia così terribile da torturarlo da quando era un bambinetto, era così eccitabile che pure un cimitero in un giorno di pioggia poteva condizionarlo. E si era pacificamente fidanzato con uno schizofrenico suicida con gravi patologie dissociative e manie di persecuzione. No, così non andava per niente. Ma quando mai qualcosa era andato bene per Tom, che doveva lavarsi i capelli e mangiava solo patatine fritte?
Scivolò rapidamente tra le lapidi della zona nord-ovest, girandosi ogni tanto nel terrore che, come nel Doctor Who, apparissero a sopresa qualche angelo piangente male intenzionato o qualche morto vivente, come in Wayward Pines. Oh sì, doveva smetterla di guardare la tv alle due del mattino. Si guardò intorno, percorrendo silenziosamente le strette stradine che si dipanavano ovunque e portavano a tombe tutte uguali eppure tutto diverse, con le loro storie, i loro segreti, tradimenti, amori, amicizie, rimpianti. Non gli sarebbe dispiaciuto raccogliere in un libro le storie di tutte quelle persone che riposavano per l’eternità attorno a lui. Scavare nelle loro storie, raccontarle, tenerli vivi. Per chi non aveva nessuno, Tom avrebbe voluto esserci, a narrare al mondo la presenza di quel povero diavolo morto senza nessuno. Guardava ogni lapide, leggeva ogni nome, tremando quando leggeva di bambini, sospirando quando leggeva di giovani, chinando il capo quando leggeva di vecchi. In fondo, in morte, non diventiamo tutti esattamente uguali? Tutti polvere, non cambiava nulla. Polvere di stelle da disperdere nelle città. Cercava le due tombe gemelle da sistemare e sulle quali deporre i suoi sparuti fiori, e le trovò una vicina all’altra, sotto le grande quercia nell’angolo più a ovest, verso il sole morente. Due tombe uguali, di brutto granito, così semplici da essere rozze; vi si inginocchiò vicino, facendosi un rapido segno della croce, osservando rapito le due lapidi, grossolane, il granito scurito dalla pioggia e dall’usura del tempo inclemente di Berlino, il retro mangiato dall’edera e dal muschio. C’erano incisi due nomi, Hansi Schadenwalt e Holly Lachmann, male, di fretta, due date di nascita e morte storte e poco curate, quei ventitre anni di vita di entrambi nemmeno considerati, giusto abbozzati come se non fossero stati altro che ombre nella loro vita. Tom sospirò, sedendosi sul terreno umido, di fronte alle due foto rovinate incastrate dietro a due vetri scheggiati. Sotto quelle due lapidi, riposavano il loro eterno sonno la più grande dannazione di Bill e una ragazza forse troppo buona. Guardò tristemente quelle date e quei nomi incisi in fretta, senza la minima cura, nemmeno un semplice R.I.P. ad accompagnare i tratti duri del granito. Guardò le foto, passandoci delicatamente le dita sopra, osservandole con attenzione con un’inquietudine che non riusciva a levarsi di dosso. Stava guardando il passato di Bill, attraverso quelle due foto e quelle due tombe. Si stava pericolosamente affacciando negli incubi del suo angelo, spoergendosi pericolosamente in un intrico di rovi pungenti dove non vi era alcuna rosa, ma solo i petali ammuffiti di una bambola coi capelli tinti di biondo e le lacrime che scorrevano sulle guance incavate. Non sapeva se continuare a sporgersi e rischiare di cadere nel roveto senza più alcuna possibilità di risalita o se tirarsi indietro all’ultimo e rimanere però sempre con il desiderio folle di ferirsi con le spine. Ci pensò un secondo, immerso nella nebbia di Friedenau, tra angeli di marmo e fiori finti. Ma d’altronde non era semplicemente un ragazzo senza niente da perdere, con lo skate e la morale di periferia da insegnare a nessuno, la testa da filosofo squinternato, le patatine in mano e un ricordo che giocava a rimpiattino nel fondo della sua anima? E per i rovi … beh, Tom era sempre stato un po’ masochista, in fondo. Sospirò rumorosamente, buttandosi giù dalla torre nel roveto del passato di Bill. Passò un dito timidamente sulla vecchia foto di Hansi, un ragazzo magro, magro ai limiti dell’anoressia, i capelli quasi bianchi da quanto erano biondi lunghi fino ai fianchi, la sigaretta tra le mani lunghe, appoggiato a un muro dove dietro campeggiava a bella vista la scritta fresca “Blood&Honour”, la bomboletta ancora in mano. Era bello, decise Tom. Bello come lo era Bill, bello di quella bellezza perversa e demoniaca che aveva il fratello minore, bellissimo eppure solo da quella vecchia foto era percepibile la sottile malvagità di quel ragazzo. Lo leggeva nel leggero ghigno sul viso affilato, qualcosa che anche da una semplice foto faceva correre un brivido di ansia nella spina dorsale del ragazzo, lo sguardo perforante che anche attraverso il passato sembrava voler trasmettere tutto il suo carisma e la sua cattiveria maligna. Poteva capire Bill, ponderò, deglutendo rumorosamente. Faceva paura quel ragazzo, anche a distanza di anni dalla sua morte, quello sguardo che per quanto poteva essere distrutto dall’eroina rimaneva cattivo, maligno, perverso. Distolse nervosamente lo sguardo da quello fisso di Hansi, e passò a guardare la foto di Holly. Così diversa dal suo fidanzato, non poté fare a meno di pensare Tom, sentendo il cuore stringersi in una morsa di tristezza a vedere il sorriso aperto e felice di quella ragazza chiaramente incinta seduta su un’altalena, i capelli platino cotonati, i seni prosperosi schiacciati in una camicetta strettissima, come la gonna vertiginosa. Sembrava così dolce, così affettuosa, a vedere quel viso truccatissimo e giocondo che brillava di luce propria anche da dietro il vetro scheggiato. Forse lei era stava davvero buona con il piccolo Bill, forse era davvero lei una specie di angelo.
Abbassò lo sguardo sulle due lapidi rovinate dalle intemperie ma accuratamente sistemate, con le candele nuove e vecchi fiori che avevano bisogno di essere cambiati. Tom sospirò, prendendo il mazzolino di viole blu e le divise a metà, mettendone alcune a lei e alcune a lui, sostituendo i fiori vecchi e appassiti, che sapevano di pioggia e di muschio. Guardò curiosamente e con un misto di reverenziale timore quello che era accuratamente sistemato sulle tombe dei due ragazzi, tremando appena per la pioggia sottile che si infiltrava sotto ai vestiti. C’erano alcuni vecchi bigliettini oramai rovinati e cancellati sulla lapide di Holly, alcune frasi ancora visibili, quegli “Holly, ci mancherai”, “Sei sempre nel mio cuore”, “Non ti dimenticherò mai, sarai sempre la mia migliore amica”, “Ti voglio bene, bionda”, “Scusa se non ti ho salvato, amica mia” i vecchi ricordi di amicizie distrutte da anni, e Tom si chiese come mai nessuno le avesse più portato nulla, perché i bigliettini erano tutti vecchi e bagnati dalla pioggia, alcuni addirittura illeggibili. E c’erano alcune candele, un piccolo peluche distrutto e divorato dal tempo. E poi c’era un disegno, bello, nuovo di zecca, sicuramente nato dalla pazzesca abilità di Bill nel fare ritratti, con la ragazza sorridente e il Bill coi capelli neri abbracciati uno all’altra, una scritta in complessi caratteri gotici a coronare il piccolo ritratto a carboncini ed acquerelli così delicati da sembrare un soffio di zefiro nella cupa oscurità del cimitero “Mi manchi, sorella”, e poi, più sotto “Perché hai ucciso anche i tuoi figli? Sapevi che c’ero io, perché me li hai portati via?”. Giusto, a quello che avevano scoperto con la Lega Dei Kebab, Holly era incinta quando si era impiccata. Forse Bill voleva solo i suoi nipoti, anche se Tom non riusciva a capacitarsi di come avrebbe potuto un angelo fuori dal tempo crescere un bambino. Sospirò, accarezzando delicatamente il bel viso della ragazza, una tomba anonima e volgare per un’ombra che sembrava non avesse mai calcato quel suolo. Ma d’altronde, a chi importa il suicidio di una eroinomane di periferia? Non c’era giustizia, come non ce n’era per gli angeli, per gli smemorati e per clan di kebabbari investigatori.
Guardò la tomba di Hansi, i biglietti vecchi e rovinati come sulla tomba della fidanzata, che inneggiavano a frasi naziste, vari “Non possiamo fare a meno delle armi”, “Siamo tenuti a essere leali, corretti, fedeli, camerateschi soltanto con coloro che hanno il nostro stesso sangue: Hansi, sarai sempre il nostro camerata”, “Hansi, l’onore non tramonta e il tuo non tramonterà mai”, una svastica ritagliata su un pezzo di stoffa con delle firme sotto oramai assorbite dalla stoffa lercia, e … Tom strabuzzò gli occhi, prendendo timidamente un grosso volume posato sopra ai biglietti, da dove sbucavano fogli, foglietti, fotografie, e lo aprì, piano, nel terrore che tutti quei ricordi si sciogliessero tra le sue mani callose come polvere di stelle e si involassero nel turbinoso cielo berlinese che continuava a piangere sulla storia di un angelo senza ali. Tom stava così, inginocchiato per terra come stesse pregando, i capelli scoli che gli cadevano mollemente attorno al volto, gli occhi malinconici e persi nelle loro variabili impossibili da risolvere, in mano quel grosso scrigno di memorie che Bill aveva raccolto durante tutta la sua giovane e squinternata esistenza. Non riusciva semplicemente a capacitarsi di cosa volessero dire quei disegni, uguali a quelli che aveva visto nel blocco che Bill stava finendo la notte in cui si erano messi insieme, quei disegni che sembravano raccontare un’infinita quantità di storie d’amore tra i … due fratelli? Si grattò il retro del collo, incerto, osservando le fotografie ammonticchiate di Hansi, di Holly, dello stesso Bill, di un gruppo di ragazzi con le espressioni scavate dall’eroina. Era una storia raccontata dal silenzio, dalle immagini, dalle lacrime e dalla nostalgia che impregnavano ogni singolo carboncino, ogni singola immagine. Sfogliò con il cuore in gola quelle brevi lettere ammonticchiate una sopra all’altra, finché il suo occhio stanco non colse una frase che lo fece sobbalzare, incredulo e stupito, avvolto dalle cupe nebbie del cimitero.
Perché quel “Ti amo tanto, fratello mio” suonava vagamente perverso alle sue orecchie. Si concentrò sulle lettere oramai rovinate dalla pioggia e dall’umidità, l’inchiostro sciolto che macchiava le pagine giallognole e accartocciate, leggendo pazientemente quello che si poteva comprendere in quel tripudio di chiazze nere e parole scritte in una lingua che non esisteva né in cielo né in terra, un nuovo codice angelico che sembrava differire completamente da tutte le lingue che la testa matta di Tom riusciva a imparare alla perfezione senza, almeno quelle, dimenticarle. Bill aveva inventato una lingua, decise. E non sapeva se considerarlo un segno latente di psicosi o di inguaribile genio.
“… e lo sai che ti ho sempre ammirato, Hansi, fratello mio. Non riesco ancora a capacitarmi di come tu possa essertene andato dalla mia vita. Tu eri tutto per me, lo sai, e ora che te ne sei andato non so più dove sbattere la testa. Mi sembra che tutto mi si stia rivoltando contro, da quando la tua protezione è venuta a mancare tutti i mostri sono tornati in massa a torturarmi. Dove sei, amore mio? Perché mi hai lasciato da solo? …”
“… ho provato a suicidarmi, oggi, Hansi.” Tom non poté fare a meno di soffocare un conato di vomito “Ho tentato di tagliarmi le vene, come quel pomeriggio di tanti anni fa, ti ricordi? Ma anche questa volta non sono morto. Sono proprio stupido, fratello mio, me l’hai sempre detto. Che nullità sono se non riesco nemmeno a suicidarmi? L’ho fatto per te, sai, voglio tornare da te ma sono sicuro che hai impedito tu che in qualche modo mi salvassi. Non mi vuoi più vedere? Ti sei stufato di me? Ti prego, Hansi, non dire così. Ti amo, ti amo, ti amo con tutto me stesso. Non abbandonarmi ancora come hanno fatto tutti.”
“… avevo provato a salvare Holly e i bambini. Certo, lo so che a te non è mai importato nulla di lei e che non avresti mai nemmeno degnato i gemelli di uno sguardo, ma non importa. Ho tentato di proteggerla come ho potuto, perché lei ha sempre meritato molto di più di quanto tu fossi mai stato disposto a darle. Io sono l’unica persona adatta a te, Hansi, l’unico capace di sopportare i tuoi abusi e la tua violenza con amore, sono l’unico che ti capiva e che avrebbe potuto amarti sopra ogni cosa, non importa cosa mi avessi fatto. Però nessuno mi ha creduto, e Holly e i gemelli sono morti, esattamente come sei morto tu. Ti ha ucciso, ma lo sai che non lo avrebbe mai fatto davvero. Non arrabbiarti con la piccola Holly, fratello. Lei è solo una vittima della situazione da incubo nella quale siamo precipitati tutti quanti. Indovina chi ha trovato il suo cadavere che dondolava impiccato nella camera da letto? Io, ovviamente. Io, che ho visto mio fratello, la mia unica amica e i miei nipoti morirmi davanti nel giro di un mese. Io, che sono rimasto solo, vittima dei miei demoni senza più nessuno che mi possa salvare. Non ce la faccio più, Hansi, fratello e unico amore della mia triste esistenza. Non ce la faccio più. …”
Tom boccheggiò, incredulo. Quelle erano squinternate, assurde, lettere d’amore che avrebbe potuto scrivere a un ragazzo d’oltreoceano, non il genere di cose che scrivi a un morto come se fosse perfettamente in grado di risponderti. Certo, forse Bill era davvero convinto che Hansi vivesse, in qualche misterioso Iperuranio tutto suo. Ma quello era … inquietante, grottesco, assurdo. Si scostò una ciocca unticcia dal viso, sbattendo incredulo le ciglia. Quello era amore, grondava a chili da quelle lettere, un amore perverso, incestuoso, estremo e a senso unico. Chiuse gli occhi stanchi, segnati dalle mille notti insonni che costellavano la sua squinternata esistenza. Poteva fare qualcosa per lui. L’aveva giurato a sé stesso, e non era il tipo di ragazzo che si arrendeva di fronte a delle difficoltà, avrebbe reagito, in qualche modo tutto suo, campato in aria come la sua stessa esistenza, senza una vera logica, con  anni di sonno arretrato e una cultura televisiva che non serviva a nessuno, troppe lingue che galleggiavano nella sua testa matta, stralci di ricordi scoordinati con betulle nane che non sapeva più dove piantare. Era come se l’intera, bollente, umida Berlino fosse diventata un labirinto di reminiscenze e suoni scoordinati nella quale lui doveva districarsi, per arrivare al centro, dove lo aspettava Bill, con le sue ali a pezzi e i suoi occhi allucinati, due coppe in mano e una risata inesistente, una tacita richiesta di scelta. Scegli me, la mia devozione, il mio amore incondizionato, la mia fedeltà eterna e indistruttibile, scegli la mia dedizione cieca e appassionata e ti sacrifichi alla follia più pura, all’illogicità e all’impalpabile irrealtà di cui sono fatti i sogni, o scegli la realtà, la vita vera, le gioie e i dolori della carne e della tua pelle, perdendomi per sempre nelle sabbie del tempo e dei mondi che si susseguiranno? Era quella la domanda che gli aleggiava nella testa, e a cui non sapeva rispondere. Non era normale, e lo sapeva, ma forse era ancora abbastanza lucido da scegliere per la seconda opzione. Gustav glielo diceva sempre: ci sei già tu che sei psicotico, Tom, non ti serve qualcuno che lo sia più di te. Ma non aveva capito che Tom era fatto per complicarsi la vita, per andarsi a ficcare in casini molto più grossi e uscirne sempre per il rotto della cuffia? Però se la sarebbe sentita di sopportare il mondo reale sapendo che da qualche parte nel mondo si aggirava un angelo che gli aveva promesso l’immortalità? Come sarebbe sopravvissuto pensando a Bill che si era disciolto come il sale nel Baltico? Come poteva semplicemente concepire una vita senza ricordarsi di Bill, che si sarebbe andato a confondere nella sua mente contorta? Perché tanto lo sapeva che se lo sarebbe scordato, prima o poi. Avrebbe guardato forse delle foto e si sarebbe chiesto chi era quel ragazzo biondo che non ti guardava mai davvero negli occhi perché le sue pupille cercavano sempre qualcosa dietro di te. No, inconcepibile. Tutto da rifare, come all’esame di maturità che aveva dovuto sostenere gli esami di inglese di tutta la classe. Prese il pacco di lettere, rimettendole distrattamente in ordine, impilandole con calma, guardando con un sorriso smorto il ritratto di Kurt Cobain ad acquerelli che scivolò fuori dai fogli cancellati. A quel punto, il quadro poteva quadrare alla perfezione. Se ipoteticamente Holly avesse involontariamente spinto Hansi giù dalla finestra, Bill si sarebbe auto denunciato al suo posto per proteggere i suoi futuri nipoti, ma lei si era comunque sucidata. Perfetto, il giro di vite era completo. Ecco che il più debole della compagnia era l’unico ad essere uscito vivo da quel massacro, ferito, distrutto, folle, ma vivo. Era quello che contava. Guardò le foto dei due ragazzi, facendosi il segno della croce e aggiustando le violette malaticcie con un certo imbarazzo. Non sapeva come sarebbe risultato dall’esterno, un tizio impegnato a leggiucchiare delle lettere chino su due vecchie tombe di eroinomani e a scattare Polaroid malconce, ma non gli importava poi molto, sotto la bollente pioggia umida berlinese. Anzi, quando si alzò per tornare da Bill gli dispiacque quasi abbandonare quel tempio di misera sacralità maledetto dalla solitudine e dai licheni che si mangiavano il granito. Gli parve quasi di sentire un triste lamento femminile, il pianto di due bambini appena nati e la risata graffiante di un ragazzo mentre si allontanava, guardando ancora una volta quei due stralci di vita di Bill incastonati a Friedenau.
 
-Signor Kaulitz, io credo che lei non si renda conto della situazione.
Tom stava perdendo la sua proverbiale e inestinguibile pazienza zen, in quel momento. Guardava il medico col naso camuso che lo guardava da sopra le lenti degli occhiali, nell’asettico studio del Bach Hospital. Stavano litigando sulla situazione di Bill, ovviamente. Quando era entrato nella stanza lo aveva trovato seduto per terra impegnatissimo a disegnare un suo enorme autoritratto in cui giaceva in una vasca da bagno piena di sangue, canticchiando tranquillamente Rearmirror, quella dei Pearl Jam come se non stesse illustrando il suo suicidio. Non aveva nemmeno registrato la sua presenza, guardandolo senza vederlo, senza concepire null’altro che non fosse il perfetto autoritratto. Non aveva colto nulla, nemmeno quando gli aveva accarezzato debolmente i capelli. Ma a Tom non importava poi molto, in fondo. Era fatto così, gli piacevano anche quei suoi lati fuori dal mondo. Era perfetto, nella sua imperfezione.
-Io ho capito benissimo il punto, dottore. E non mi interessa.- oramai, lui e il medico erano arrivati ai ferri corti. – Bill … Bill non è cattivo. Non è pericoloso, non è nulla di quello che gli volete dipingere addosso. E’ solamente una persona che ha bisogno di aiuto, e non di questo tipo di aiuto.- precisò, scuotendo i lunghi capelli scuri. Perché quando si trattava di lottare, Tom non si era mai risparmiato in nulla: non era cresciuto con Joe Strummer per niente, oh no.
-Non le sto dicendo che Bill sia cattivo, che lo faccia apposta, o altro.- il medico sospirò, accavallando le gambe, e Tom si rese semplicemente conto che quello che stava facendo forse era vero follia. Non aveva senso lottare per un motivo del genere. Ma non si sarebbe arreso – Le sto solo spiegando che il suo … ehm, il suo compagno non può stare da solo, deve essere controllato, tenuto sotto osservazione. Si renda conto che non è un semplice caso di depressione, o chissà cos’altro. Questo ragazzo è problematico, per sé, come per gli altri, non possiamo sapere come possa reagire. E non lo sa nemmeno lei, signor Kaulitz.
Tom si morse la lingua, sospirando rumorosamente. Certo, poteva anche mollargli un cazzotto e proseguire nel pestaggio, a quel punto, e farsi arrestare ma poi il povero Bill cosa avrebbe fatto da solo?
-Non sto dicendo che Bill sia normale, dottore, ma … non gli serve nulla che non sia io! L’ha detto lei stesso, è imprevedibile, e sono d’accordo, nemmeno io posso prevedere le sue reazioni, ma posso calmarlo. Mi conosce, sono un suo punto fermo, io sono in grado di fare quello che voi non riuscireste nemmeno tra un milione di anni.- non sapeva quanta maturità ci fosse in quel discorso ma, ehi, Guerre Stellari serviva a qualcosa – Vuole mettersi in testa che Bill ha bisogno di una stabilità che solo io gli posso dare? Non potete darlo in pasto a degli psichiatri che non farebbero altro che drogarlo di valium e lo spaventerebbero a morte. Bill è … è come un bambino. Se fuori è buio, e il bambino da solo, ha paura. Ma se c’è qualcuno con lui che lo tiene per mano, non ne ha più. Beh, forse il paragone lucreziano lascia un po’ a desiderare, ma il concetto è quello. Se lo lasciate solo, verrà completamente sopraffatto da quel terrore che si trascina dietro da quando è nato, ma se ci sono io a tenergli la mano, non dico che la paura scompaia, ma almeno riesce ad affrontarla, ad andare avanti. Non serve sedarlo, controllarlo, o che ne so io, serve che qualcuno lo tiri fuori dal buio. Questo è il mio ruolo, non potete portarmelo via!
-Senta, io capisco che è difficile, posso immaginare che lei … ehm, ami sinceramente il suo compagno, ma questo suo amore incondizionato, se posso definirlo così, è senz’altro ammirevole ma ottenebra la sua razionalità, io …
-Ma ottenebra sto cazzo!- Tom oramai era arrabbiato. Era sempre stato un ragazzo normale, in fondo, la cui esistenza si era mollemente trascinata avanti senza nesusn colpo di scena che non fosse la sua amnesia retrograda. Mai una novità, mai un cambio di programma, mai niente di niente. E ora che era arrivata anche per lui la possibilità di riscattarsi curando le ali di un angelo, glielo volevano strappare via? Non era pronto ad accettarlo, non in quel momento dove tutto sembrava aver assunto una nuova piega – Il fatto che io lo ami, non c’entra così tanto come lei vorrebbe far credere. Mi sto semplicemente prendendo cura di un ragazzo malato, non dovrebbe essere questo il vostro compito?
Il medico lo guardò, una compassionevole misericordia che a Tom non riuscì ad andare giù, e scosse lentamente la testa
-Mi permetta, lei quanti anni ha?
Tom rimase un attimo interdetto, prima di rispondere, circospetto
-Ventisette … perché? Importa?
-Appunto; lei è ancora giovane, non si rende conto di quello che potrebbe comportare sobbarcarsi il peso di Bill.- prima che Tom potesse ricominciare a sindacare, lo psichiatra lo zittì con un gesto della mano, fissandolo con severità – Non è un semplice ragazzo disturbato o depresso. Il suo compagno è schizofrenico, cerchi di capire. Schizofrenico. Penso se ne sia già accorto da solo: non è in grado di comportarsi come un uomo normale. Soffre di allucinazioni visive e uditive, di manie ossessivo-compulsive, in primis la sua fissazione per sé stesso e per la musica grunge. Ha tentato di suicidarsi, a vedere dagli esami che gli abbiamo effettuato ha più volte tentato di tagliarsi le vene, le T.A.C. alla testa rivelano che l’episodio in  cui ha tentato di rompersi la testa contro il muro non è poi una novità. Il suo corpo non è mai stato curato accuratamente, le lesioni interne ed esterne mai sottoposte a cure mediche sono molte, fanno presupporre ad … abusi, in età adolescenziale. In più, e ciò non ha a che fare con la sua schizofrenia, soffre di un grave disturbo bordeline della personalità. In questo, la sua evidente intelligenza brillante è solo che un grosso problema, siccome sembra che lui decida, addirittura, quando cambiare personalità. È la sua protezione verso il mondo esterno. Mi dica, ha un lavoro?
-E’ un giornalista. Per il Flugel, ha presente, la rivista no global.- mormorò Tom, bianco come un cencio. Non gli importava che Bill fosse schizofrenico, che fosse bipolare, che fosse quello che volevano, lui continuava ad amarlo come lo amava prima, nulla avrebbe potuto smontare questi suoi sentimenti. Poteva anche scoprire che forse era stato davvero lui l’assassino di Hansi, che non gli sarebbe importato. Non lo dicevano anche le t.A.T.u. quando cantavano “nas ne dogonyat”? Non poteva andare bene anche per la loro squinternata situazione?
-Ne sono felice.- commentò il dottore, girando una matita tra le dita nodose – Il fatto che abbia un impiego fisso è sicuramente qualcosa di positivo.
-Ma scusi, a maggior ragione, se Bill è bipolare, non è meglio che stia con qualcuno che lo conosce bene, che sia capace di calmarlo e che non gli nuocia alla salute come farebbero tutti quei sedativi che gli verebberro somministrati?- commentò Tom, guardando malissimo il medico da sotto i ciuffi di capelli sfuggiti alla coda. Lo sapeva che si stava arrampicando sugli specchi, che si stava ampliando rapidamente il suo castello con quante più carte poteva ma non gli importava poi così tanto. La sua razionalità sapeva, capiva, che il dottore aveva tutte le ragioni del mondo per tenere Bill in un ospedale psichiatrico, forse non era nemmeno una cosa così sbagliata, ma lo spirito predominante di Tom, quello coraggioso e scanzonato, premeva eroicamente per esternarsi. Come se non l’avesse capito da solo, che uno schizofrenico con disturbi della personalità multipla e un insonne affetto da amnesia retrograda che vivevano in periferia e ascoltavano musica grunge non avrebbero fatto altro che ammonticchiarsi della pila dei rifiuti umani. Lo erano, perché rifiuto umano ci nascevi, non lo diventavi e non te lo insegnava nessuno. Lui e Bill, come i G&G e Julia e Becca erano fatti così, per vivacchiare nel loro mondo personale costruito su musica illegale e marijuana coltivata sui terrazzini di alluminio, leggendo Kerouac e scrivendo racconti che nessuno leggerà mai, e Tom sapeva che non avrebbe barattato la sua sconclusionata vita per nulla al mondo. Non gli interessa nulla che non fossero tutte le lingue che sapeva, in una distorsione mentale impossibile, il vecchio Levi e la sua libreria che sapeva tanto di Oliver Twist, la sua periferia e l’immancabile Brecheisen con i suoi succosi pettegolezzi urbani, i suoi migliori amici e la televisione alle tre del mattino, la sua insonnia perenne e gli album di fotografie da sfogliare nei ritagli di tempo per rivedere la sua esistenza, la sua lotta contro il mondo e il suo angelo a cui avevano tarpato le ali. Tom non voleva altro che quello che la vita gli aveva dato, non si pentiva e non l’avrebbe mai fatto.
-Io … signor Kaulitz, ne parleremo meglio domani. L’orario delle visite è finito, sarebbe preferibile … che se ne andasse.
Tom avrebbe quasi giurato che mentre gli stringeva la mano e se ne andava strascicando i piedi, la sigaretta spenta già in bocca, i capelli arruffati e l’espressione disperata, l’uomo avesse grugnito, tra i denti “e si porti con lei quel mostriciattolo tinto di biondo”. Oh, non sapeva quanto avrebbe voluto farlo, alla faccia di tutti.
 
Bill poteva anche essere pazzo, ed era sempre stato il primo a dirlo. Ma non era affatto stupido, e anche quello lo avrebbe sostenuto sino alla morte, perché, insomma, si era mai sentito parlare di angeli stupidi? Appunto.
Guardò la stanzetta dell’ospedale che stava per abbandonare furtivamente nella bollente notte berlinese, e sorrise, quel suo largo sorriso infantile e luccicante.
Facciamo un gioco, fratellino. Tu ti nascondi e noi ti veniamo a cercare. Se riusciremo a trovarti, dovrai fare quello che ti diremo, se invece riesci ad arrivare alla Grande Quercia senza farti trovare, ti darò un bacio. Forza, fratellino: cominciamo a contare, vatti a nascondere.
Bill batté le mani, silenziosamente, finendo di allacciarsi gli stivali e afferrò la borsa, infilandoci dentro tutti i disegni e i documenti che la dottoressa Ziemann gli aveva fornito sulla storia dell’ospedale. La luce lunare gli illuminava i capelli biondo platino, un po’ spettinati, brillando sul sorriso inquietantemente crudele ed esaltato che si era dipinto sulle sue labbra.
-Vado, Hansi. Vado a nascondermi.- sussurrò, infilando la chiave che aveva previdentemente rubato alla grassa infermiera che era venuta a dargli da mangiare (come se lui poi mangiasse qualcosa!). Il clack leggero della porta lo fece sorridere ancora di più, mentre apriva con circospezione la porta e spiava l’enorme corridoio del reparto psichiatrico, vuoto e silenzioso, interrotto solo dai pianti spezzati di un qualche paziente. Scivolò fuori, in equilibrio sui tacchi a spillo, chiudendo piano la porta a chiave, una solitaria ed eterea figura che barcollava incerta in un corridioio inondato di luce pallida che lo incoronava come se fosse l’imperatore degli incubi, il sorriso vittorioso e le lunghe gambe magrissime che scivolavano sicure e veloci verso l’imponente scalone che portava all’uscita.
Scappa, Bill, corri, corri come se avesse il diavolo alle calcagna.
-Devo nascondermi, adesso.- cinguettò a mezza voce, appiattendosi contro i muri e scrutando accuratamente i corridoi alla ricerca di qualche infermiera di passaggio – Dove può scappare un coniglio in fuga?
Barcollò pian piano fino all’atrio, seguendo i cartelli che indicavano l’uscita, schiacciandosi contro ogni muro e nascondendosi dietro alle porte ogni volta che vedeva qualcuno, trattenendo il fiato, la voce di Hansi che gli rimbombava in testa come un lamento
Non farti trovare, fratellino. Se ti troviamo, giocheremo con te fino a vederti agonizzante per terra. Forza, fratellino: tu sei l’ebreo, noi siamo i nazisti. Tu sei la feccia dell’umanità, noi siamo la ragione e la giustizia. Scappa, piccolo ebreo.
Come se nessun medico avesse notato le profonde ustioni mai assorbite che il ragazzo aveva sulla schiena, graffi di giochi infantili vissuti nel terrore più tragico e drammatico. Bill si guardò intorno, ridendo tra sé e sé. Era stato tutto estremamente facile, sia rubare le chiavi di riserva da quella stupida infermiera menefreghista come scappare dal reparto che tutti temevano più di tutti. E fate bene, pensò il biondo, sorridendo. Non potete incatenare gli angeli. Sarebbe tornato da suo fratello, da Holly, voleva tornare a giocare come quando era bambino.
-Ho imparato, Hansi, fratello mio.- miagolò tra i denti, mentre correva fuori, nell’afa di Berlino appiccicaticcia e soffocante, correndo più veloce che poteva per scappare dai demoni con gli occhi verdi che dormivano sotto il suo letto, e che scomparivano solo quando Tom dormiva con lui. – Ho imparato a giocare, adesso. Non troverai il piccolo ebreo, non questa volta. Vincerò quel bacio, Hansi, lo vincerò stanotte!
Chissà perché nessuno fece caso a un ragazzo che correva nella notte berlinese ridendo tutte le sue lacrime, in fuga dall’ospedale verso il cimitero di Friedenau.
 

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Capitolo 12
*** Torniamo a casa ***


CAPITOLO DODICI: TORNIAMO A CASA

Chi avesse guardato in quel momento nel piccolo appartamento della Brandenburg Strasse, avrebbe potuto vedere una delle tipiche riunioni serali della Lega Degli Avventurosi Kebab Al Formaggio Fuso Senza Glutine, con le luci sempre basse e Lady Gaga a tutto volume nelle vecchie casse, un gruppo di ragazzi seduti in cerchio sul tappeto con unn grosso kebab fumante con candelina in mezzo a loro. Una setta segreta un po’ sui generis e assolutamente molto poco professionale.
-Beh, io credo che se reputino Bill capace di intendere e di volere, o perlomeno, non pericoloso per sé stesso e per la comunità, potrebbero anche lasciarlo a casa.- stava dicendo Georg, stringendosi nelle spalle.
-Ma come fanno?- Tom scosse la testa, abbattuto – Ha tentato di suicidarsi non sapete quante volte. Cosa che farà anche quando lo sbatteranno in manicomio, mi ci gioco tutto. Eppure io lo so, lo so, che se stesse con me sarebbe al sicuro, ma come faccio a convincere i medici? È troppo irrazionale e debole come tesi.
-Potremmo sempre ricorrere a vie legali.- continuò Georg – Se riuscissimo a trovare un bravo avvocato che riesce a convincerli che tu non sei più matto di Bill e che potresti effettivamente fare la sua differenza, saremmo a cavallo.
-Sì, certo, poi ipotechiamo te! Ma lo sai quanto costa un buon avvocato, Listing?- ruggì Julia, dando uno schiaffo sul braccio all’amico – No, al massimo punterei più per un’azione da black block e un rapimento. Tipo, noi potremmo assaltare l’ospedale coi fumogeni da stadio e T. va a rapire Bill e scappa dalla finestra.
-Juls, ma io non sono capace a calarmi da una finestra.- si lamentò Tom, attaccando la ciotola di patatine fritte unte e grondanti olio e sale.
-E poi ci arresterebbero subito, pezzo di cretina guerrafondaia!- sbraitò Georg, beccandosi la prima piccola rivincita in tanti anni di amicizia con la bionda – No, dobbiamo trovare un metodo più valido.
-Ce l’ho Tommolo!- saltò su Gustav, battendo le mani e azzannando il panino triplo che aveva nel piatto – Appena sbattono Bill in manicomio, fai qualche cazzata delle tue tanto per far capire alla comunità che pure te sei sociopatico e così ti sbattono in cella con lui e buonanotte. Insieme per sempre e nessuno si fa male.
-A volte non so se pensare che mi odi profondamente o se sei semplicemente malato di mente. Santa Madre di Dio, Gustav, ma che cazzo di idea è?!- strepitò Tom, mettendosi le mani tra i capelli e fulminando l’amico.
-No che non ti odio, cosa dici!- tentò di giustificarsi il biondo, arrossendo – Ho solo voluto tentare per la via più semplice possibile.
-Secondo me, Bill farà tutto da solo.- intervenne pacificamente Becca, aggiustandosi la capigliatura rosa bubblegum. Appena gli occhi di tutti si focalizzarono su di lei, si limitò a cinguettare, stringendosi nelle spalle – Non ha forse un quoziente intellettivo notevole? E allora state tranquilli che saprà come fare.
Si guardarono negli occhi, tutti e cinque, prima di sbuffare in sincrono tutta la loro disperazione. Sembrava non esserci via di uscita da quel giro vizioso in cui Tom si era abilmente andato a impelagare e nel quale aveva irrimediabilmente trascinato i suoi amici, che, come salami, gli erano andati incautamente dietro. Come se poi fosse la prima volta che seguivano le sue balzane idee e finivano coinvolti in storie sempre troppo grosse per loro, anche se quella sembrava davvero la peggiore in cui potevano incastrarsi, senza andare né avanti né indietro. Lasciare Bill era fuori discussione, esattamente come pensare di portarselo via quando era un soggetto capace di sgozzarli tutti nel sonno e ballare nel loro sangue. Sembrava quasi che il cielo avesse voluto proporre alla Lega una vera prova di coraggio, come quelle stupide missioni che facevano da bambini per provare la loro presunta audacia. Eppure ora si guardavano tutti senza sapere da che parte dibattersi. A cosa era servito, pensava Tom, sapere sei lingue da madrelingua e padroneggiarne almeno altre sei se poi non era capace di salvare un angelo e fargli prendere il volo per lo spazio, come curare le ali a una rondine caduta dal nido? A cosa era servito sapere tutte quelle lingue se poi non si ricordava nulla e cancellava tutto quello che avrebbe potuto aiutarlo a rincollargli le ali?
-Come faremo a convincere i medici a lasciarcelo, però?- sospirò Julia, sbuffando – Non potremmo provare a dirgli che gli faremmo da “infermieri” e che ci prendiamo la colpa se fa qualche follia?
-Come piano non farebbe una grinza, ma ti sembra che lo lascino a me?- commentò amaramente Tom, piegando la testa da un lato, stanco come non lo era mai stato in vita sua. Quant’era che non dormiva? Da quando aveva conosciuto Bill non aveva chiuso gli occhi un solo minuto, gli sembrava di stare per morire, non ce la faceva più a reggere la pressione e la stanchezza – Dai, Juls, cerchiamo di essere seri: Gus ha ragione in questo. Non … non possono lasciare uno schizofrenico in mano a uno altrettanto fuori di testa. E poi, guardiamoci: dove vogliamo andare noi cinque?
-Ma a salvare Bill, no?- trillò Becca, alzando il volume delle casse – Tom, sei troppo negativo! Dobbiamo pensare positivo, ovvero che non tutto è ancora perduto. Aspettiamo domani, quando tornerai a parlare col suo medico curante e vediamo come si mettono le cose. Poi agiamo di conseguenza, se tentare di agire da black block o limitarci a farcelo affidare sulla fiducia.
Effettivamente, più guardava la Lega dei Kebab, più era convinto che facevano meglio ad andare tutti e sei in manicomio che era il posto migliore per tutti; ci sarebbe stata la speranza di vivere una vita pacifica tutti insieme. Su, dove volevano andare se non giusto tutti a Woodstock e arrivederci e grazie? Destinazione, Isola di Wight, gente. I suoi torvi pensieri vennero però interrotti dal suono che più odiava: il trillo fastidiosissimo del telefono di casa. Guardarono tutti il vecchio aggeggio rosso fuoco con gli adesivi dei Simpson che emanava quell’orrendo suono causa di tutte le contorte paturnie di Tom su che demone ci potesse essere dall’altra parte del filo.
-Rispondi tu, T., io ho troppo mal di gola.- gracchiò Julia, scuotendo il caschetto biondo.
-Io?! Ma sei scema?- urlò il ragazzo, guardandola con gli occhi fuori dalle orbite – E se è quel tizio del ferramenta che non abbiamo ancora pagato dopo anni? No, rispondi tu!
-Oh, scherzi?- Julia gli tirò una calza in testa – Mi fa male la gola, e se è il ferramenta gli butti il telefono in faccia. Dai, fai l’uomo ogni tanto nella tua vita!
-E se è come in The Ring e poi c’è Samara dall’altra parte?- mormorò Gustav, stringendosi a Georg – Tom, non rispondere!
-Eh?! Julia, siamo perseguitati! Lo sapevo! Te l’avevo detto io di non guardare quel film registrato!- strepitò Tom, guardando con orrore il telefono che continuava a squillare amabilmente.
-Tom, era il filmino della comunione di mia cugina.- la ragazza li fulminò con lo sguardo, incrociando le braccia al petto – Smettetela di fare i bambini e rispondete.
-Bene, allora Georg, prego.- Tom indicò la cornetta – A te l’onore.
-E perché io?- strillò l’interessato, sbattendo gli occhi – Non voglio!
-Sei il più grande.- lo rimbeccò Gustav, passando ad aggrapparsi a Tom – Rispondi.
Georg li guardò con aria truce, prima di allungarsi verso il telefono e alzare la cornetta con un gesto simile a un singulto, per poi sibilare
-Io ho alzato la cornetta, parlate voi!
-Pronto? Pronto?
Una voce decisamente non posseduta si sparse nel piccolo salotto, prima che Tom sussurrasse, con voce strozzata
-Ma … ma non è la telefonata maledetta.
-Cazzo, allora parla!- strillò Gustav, spingendolo verso la cornetta penzolante.
-E che cosa dico?!
-Ma non ce l’hai un canovaccio?!
-Madonna, quanto siete stupidi.- Becca scosse la testa, afferrando con le manine ingioiellate la cornetta e rispondendo pacificamente – Sì, pronto? Chi parla?
Fissarono per un po’ la loro amica stringere i grossi occhioni gialli truccatissimi da Cleopatra, annuendo distrattamente, finché non assunse una dolce espressione interrogativa e allungò la cornetta a Tom
-T., cercano espressamente te, dall’ospedale. Presumo sia per Bill.
Giusto per coronare bene questa giornata, pensò il ragazzo, mentre sospirando rispondeva finalmente al telefono. Certo, non sapeva che i suoi amici che lo stavano fissando ansioni di avere notizie si stavano preoccupando davvero della sua salute, a vederlo impallidire più di quanto già non fosse, perché più andava avanti la telefonata più il suo colorito diventava orribilmente malaticcio. Non pensava nemmeno di essere tale e quale a un cadavere quando finalmente mise giù la cornetta e fissò gli altri quattro con la migliore espressione da morto del suo repertorio, condito di occhiaie e un inquietante pallore.
-Ragazzi.-  biascicò, guardandoli uno per uno negli occhi e sentendosi sprofondare verso un inferno da cui non c’erano possibilità di salvezza e redenzione – Era il medico di Bill. Hanno scoperto che è fuggito dall’ospedale.
La prima a riprendersi dallo shock fu, ovviamente, Becca, che, come se nulla fosse si limitò a trillare, battendo le manine eccitata
-Visto? Ve l’avevo detto che Bill sarebbe stato perfettamente in grado di cavarsela da solo. È riuscito a fuggire come previsto!
-Sì, bello, e ora dove lo andiamo a pescare, scusa? Diramiamo un avviso “Se vedete uno psicopatico che canta la canzoni dei Nirvana, sui ventisette anni tinto di biondo e vestito come una battona, con anello al naso e tatuaggi imbarazzanti, riportatelo direttamente al 13 della Brandenburg Stasse, non morde ma consigliamo di avvicinarlo con un disco rarissimo dei Pearl Jam”?- ironizzò Georg, scuotendo la testa – Per favore, Becca! È una cosa seria questa!
-Dobbiamo trovarlo, basta, andiamo …
Tom non fece in tempo ad alzarsi e precipitarsi incespicando alla porta che Julia lo placcò, ributtandolo sul pavimento
-No, Tom. Ho capito che dobbiamo assolutamente salvare il nostro piccolo Bill, ma questo non è il modo corretto.- Julia lo fissò, stringendolo per le spalle – Berlino non è Magdeburgo, è una città enorme e lui potrebbe essere dappertutto. Perderemmo solo del tempo andando a casaccio, per questo, ci serve un piano.
Tom sospirò, prendendosi la testa tra le mani. Stava andando tutto a rotoli, tutta la sua intera noiosa, borghese, piatta esistenza stava venendo sconvolta in tutti i modi da quella notte ai limti dell’assurdo. Quando aveva deciso di sprofondare in quegli enormi occhi truccati con le loro storie e le loro tragedie incise dentro e quando si era preso l’impegno di curare le ali a un angelo caduto che si era ustionato con l’atmosfera e non riusciva più a tornare a casa, aveva definitivamente firmato la sua condanna a sostenere un’impresa che non aveva mia potuto ritenere possibile. Poteva fare l’eroe, finalmente, il ruolo che nessuno avrebbe mai affibiato a un traduttore di romanzi con la testa tra le nuvole e i capelli unti.
-Giusto. Giusto, Juls, hai ragione, ragioniamo.- guardò i suoi amici, legandosi i capelli in un muccio sfatto - Dove potrebbe essere andato, contando che è notte e che fuori fa un caldo che non si riesce a stare?
-Magari sta venendo qua da noi.- propose Georg, crucciato – Avrebbe anche senso, scappa dall’ospedale e viene da te, che sei il suo fidanzato.
-Oppure potrebbe anche essere tornato a casa sua.- soggiunse Gustav – Anzi, è abbastanza ovvio.
-Ma come fate a considerare queste due opzioni quando sappiamo che Bill è schizofrenico, pezzi di coglioni?- abbaiò Julia, scuotendo la testa – E’ troppo razionale per uno come lui.
-Non ti vengono in mente dei posti in cui potrebbe essere andato?- sussurrò Becca, abbracciando dolcemente Tom – Magari qualche posto dove siete stati insieme.
Tom si grattò una guancia, incerto, cercando di fare ordine nella sua testa oltremodo confusa e nei ricordi che già cominciavano a confondersi in un crescendo di fotogrammi sparsi e stralci di musiche e conversazioni spezzate
-Boh … ci sarebbero mille posti, a ‘sto punto. Il Flugel, il negozio di Mr. Levi, il Brecheisen, la stessa metropolitana per quello che ne so.
-Potremmo dividerci.- commentarono in coro le ragazze – Stiliamo una lista dei posti più probabili e andiamo.
-Comunque, T., me la fai dire una cosa?- Gustav guardò l’amico che annuì stancamente, cercando ci concentrarsi il più possibile sui posti più probabili per ritrovare Bill – Siete una coppia stranissima.
-Grazie, Gus, non penso che uno con disturbi borderline della personalità e uno con l’amnesia retrograda possano essere considerati esattamente “La coppia dell’anno”.
Tom lanciò un’occhiataccia a Gustav, mentre tentava di farsi ordine in testa con scarsi risultati. C’erano troppi sentimenti contrastanti e troppo poco tempo per aiutarlo a fare un quadro della situazione che potesse reggere.
-Non intedevo quello. Dico solo che … sembrate vecchi.
-Vecchi?- gli altri quattro si voltarono verso il biondo come un sol uomo, che arrossì e morse rapidamente il panino per tirarsi un po’ su.
-Voglio dire questo, amico. Sembrate quelle coppie di cui leggi nei libri di Charlotte o di Emily Bronte. Classico, no? La ragazza particolare e il lord che la va a salvare dal suo triste destino. Tormentati entrambi, galanti eppure tutti puritani in perfetto stile ‘800. Ecco, semplicemente questo. Siete la versione 2.0 di Cime Tempestose o di Jane Eyre.
Per una volta, Tom non gli tirò in testa una scarpa come faceva ogni volta che Gustav se ne usciva con qualche commento idiota sulle sue situazioni. A ben pensarci, sembrava che avesse pure ragione, perché lui e Bill non sarebbero stati normali di testa, ma anche il loro rapporto sembrava dettato da delle leggi che non avevano nulla a che fare con le leggi che regolavano ogni storia d’amore, dalle più smielate alle più violente e ciniche. Perché era fatta di occhiate, semplicemente, occhioni truccati vuoti come solo quelli di una bambola di porcellana possono essere e occhi stanchi e bruciati da sogni e ricordi mai davvero esternati. Era costruita sul silenzio, e il classico “in una coppia bisogna aprire completamente il proprio cuore all’altro” veniva sostituito da un semplice “io non ricordo e io ho troppa paura di parlare” quindi convergeva in una storia che era fatta di ore di infiniti silenzi passati a guardarsi negli occhi e nessuno dei due aveva mai davvero bisogno di spiegare all’altro chi fosse, perché a modo loro lo sapevano già. Si teneva in piedi su semplici baci a stampo sulla fronte pallida di Bill e sui suoi morbidi capelli tinti e carezze sulla guancia di Tom come se stessero sempre per partire verso un viaggio dal quale non avrebbero fatto ritorno, e andava bene così, un’eterna incertezza sostenuta da vaghi sfioramenti di labbra, che sapevano di abbandono e di promesse strette sotto la luna pannonica. Era sostenuta da un sorriso perso nelle reminescenze di storie non sue, il sorriso di una nuova Alice che combatteva con demoni che nessuno vedeva e prendeva il the senza che nessuno si sedesse mai con lei in una merenda più vecchia del tempo, e sul sorriso un po’ storto e un po’ innocente di qualche vecchio avanzo di periferia che si ricostruiva giorno per un giorno la vita che non avrebbe mai voluto avere ma che alla fine si era costruito con le proprie mani e che non poteva demolire perché aveva scordato qual’era la formula giusta per farlo. Era una storia che non conosceva dialogo, sesso o stuccosi romanticismi, semplicemente galleggiava nell’oceano come una barchetta lasciata alla deriva. Era un gabbiano che seguiva le navi. Era un soldato che tornava a casa. Era un lupo che cercava il branco. Erano semplicemente Tom e Bill, che sopravvivevano come potevano in un mondo che non aspetta nessuno. Una silenziosa coppia che avanzava a braccetto nei rimasugli di un mondo distrutto e violato dalla televisione e dalla musica commerciale, mentre tutti gli altri erano già corsi via, lasciandoli indietro, a proseguire pacifici per la loro strada, esseri impalpabili di un’epoca che non sentivano loro.
-Va bene, Gus, per questa volta ti do ragione.- commentò Tom, scostandosi i capelli unticci dal viso – Comunque, mettiamola così: Georg, tu vai a casa sua, Amburg Strasse n13, ultimo piano, la porta è quella con il poster di Kurt Cobain stampigliato sopra. Credo. O forse è l’altra. Oh mio dio, non me lo ricordo. O era il n17? Ed era il terzo piano? E sulla porta forse c’era Laine. Comunque, Amburg Strasse, questo sono sicuro. O forse era Colonia Plaze.
-Sì, sì Tommolo, stai tranquillo. Ho capito. Mi industrio.- Georg sorrise, dando una pacca sulla spalla all’amico – Vado.
-Ecco, grazie, sì. Dunque, Becca tu vai al Brecheisen e passa anche dalla libreria di Levi, che non si sa mai. Julia, tu vai dal Flugel. Gustav, già che sei l’unico ad avere la macchina, passa al setaccio la Sprea.- Tom li guardava tutti con gli occhi esaltati, sentendosi particolarmente utile per una volta nella sua esistenza.
-E tu dove andrai?- Rebecca si infilò la sua imbarazzante giacchetta di pelle bianca e strass dorati troppo stretta, guardandolo preoccupata.
-A Friedenau. Ci sono ottime probabilità di trovarlo lì.
In tanti anni di onorata carriera, la Lega degli Avventurosi Kebab Col Formaggio Fuso Senza Glutine non si era mai sentita così importante come in quel momento, alla ricerca disperata di un angelo ricercato.
 
A Bill era sempre piaciuto giocare a scacchi. In quello, nessuno era mai stato tanto abile da batterlo, nemmeno Hansi, dall’alto della sua divina genialità, e questo sarebbe segretamente piaciuto a Bill, se non che ogni volta che suo fratello perdeva contro di lui veniva puntualmente seviziato in qualche originale modo che la sanguinaria mente di Hansi inventava. Guardò il braccio magro e pallido e sospirò, ripercorrendo silenziosamente con la lunga unghia rosso fuoco la bruciatura striata che ancora si poteva intravedere, ricordando con un brivido di dolore quando gli aveva chiuso il braccio dentro la griglia per cucinare della zia Pippi.
-Allora, tocca a me.- disse, strisciando dalle pedine bianche, sistemate davanti alla tomba di granito dov’era sepolto Hansi. Guardò accuratamente la scacchiera, cominciando a studiare silenziosamente le mosse da fare. Di fronte a sé, seduto a gambe incrociate dalla parte delle pedine nere, si vedeva ragazzino, con quei capelli neri e bianchi, il trucco troppo emo e i vestiti troppo dark. Di fianco a sé, invece, vedeva Hansi, la sua faccia diabolicamente splendida e i suoi capelli biondo platino che gli arrivavano fino ai glutei. Sospirò, muovendo l’alfiere. Erano già tre ore che se ne stava lì seduto al cimitero, sull’erba bruciata dal calore e per nulla rinfrescata dalla pioggia di qualche pomeriggio prima, sotto la luna calante che mollemente illuminava a sprazzi quella porzione di cimitero dimenticata da Dio e dagli uomini. Solo le stelle pulsavano di luce propria, in quel silenzio inquietante e lugubre, in mezzo alle statue degli angeli che incombevano su di lui, le ragnatele luminose che ornavano le lapidi. Le stelle, sì. Un giorno o l’alto sapeva che finalmente sarebbe potuto tornare lassù, il vero luogo dove devono vivere gli angeli. Doveva solo aspettare che qualcuno gli riaggiustasse le ali, e poi finalmente sarebbe volato via, e questa volta sarebbe stato per sempre, per altri lidi, per altri porti.
Cambiò di nuovo posto, sbuffando. Quella partita di scacchi stava andando avanti da ore e continuava a non finire. Avrebbe potuto commettere un errore, certamente, e così avrebbe fatto vincere l’altra metà, ma chi aveva voglia di darla a vinta all’altro?
Tremò impercettibilmente di freddo e si sfregò nervosamente le braccia, sentendo qualche lacrime pungente ferirgli i grossi occhi tristi. Si sentiva così dannatamente solo, da quando erano morti i suoi aguzzini, vittima del mondo che, a modo loro, Hansi e i suoi amici avevano adattato a sua misura, crescendolo nel dolore e nella violenza. Eppure, adesso che non c’era più nessuno a fargli del male, a picchiarlo, a insultarlo, sembrava che tutti i demoni che l’orrore era riuscito a tenere a bada stessero ritornando sempre più feroci per confonderlo e portarlo alla morte definitiva una volta per tutte. Finchè di notte stava sveglio a piangere per il dolore, la delusione, la depressione, finchè suo fratello e i suoi amici lo violentavano fino a farlo svenire, andava tutto bene. Ma adesso che poteva dormire tranquillo, che non c’era la paura a proteggerlo, tutto il suo mondo crollava sotto i colpi di quei grossi mostri neri con gli occhi verdi che tentavano di sopraffarlo. Perché nessuno li vedeva, si chiedeva il biondo. Come faceva la gente a non accorgersi di quei mostri informi che si annidavano nel buio e che erano pronti a saltargli addosso?
-Ma ora ci sei tu a proteggermi, vero Hansi? Vero, Holly? Qui sono al sicuro, vero?- cinguettò, guardando con affetto le vecchie foto rovinate sulle lapidi. – Voglio tornare da voi, mi mancate così tanto. Così tanto. Così tanto.
Mosse di nuovo la pedina, guardandosi la mano, bella, sottile, completamente tatuata nel tentativo di nascondere l’orribile cicatrice che la decorava in maniera così grottesca da fare quasi ridere. E poi rovesciò tutta la scacchiera
-Devi smetterla, hai capito?! Ma cosa credi, che ti vorremmo di nuovo avere qui con noi, ora che finalmente ci siamo liberati della tua presenza?! Vivi, Bill, vivi e guai a te se provi a venire all’inferno con me!- strillò il ragazzo, sbattendo la testa sul bordo della tomba. Gli faceva male dappertutto, quel dolore orribile che nessun medico riusciva mai a identificare, qualcosa che gli bruciava dentro così forte da non riuscire nemmeno a piangere. Non sapeva cosa fosse, ma faceva male, così male da lasciarlo distrutto da spasimi violenti e inarrestabili. Lui lo diceva, sto male, sto male, eppure tutti gli dicevano che non c’era niente, che stava bene, ma Bill lo sapeva che non era vero, che il suo dolore non era psicosomatico, era vero, reale. Bill sapeva che qualcuno lo stava picchiando, però nessuno gli credeva. Nessuno provava mai a salvarlo quando tutti i mostri neri con gli occhi verdi gli saltavano addosso e lo malmenavano. Si limitavano a drogarlo e dire che era solo schizofrenico. E i mostri ridevano e lo guardavano, beffandosi di lui.
-Hansi, Hansi, ti prego, fai qualcosa, ti prego, ti prego, digli di smetterla, digli di smetterla!
Stava piangendo, così forte da non riuscire nemmeno a respirare, cercando di scacciare tutti quei mostri che lo avevano aspettato al varco, nascosti dietro le lapidi, pronti a dilaniarlo e lasciarlo sanguinante ai bordi di una strada. Teneva gli occhi chiusi ma li vedeva, i loro denti aguzzi, sentiva le loro risate amare, li sentiva chiamare il suo nome, li sentiva che lo insultavano, sentiva i loro denti strappargli lembi di carne, graffiargli la pelle, sentiva la loro bava colargli sul viso, come quei lontani giorni di terrore di quando era bambino. Chi l’avrebbe salvato, adesso?
-Bill! Bill, sono io, stai calmo, ahia, smettila, dai, stai fermo, su, Bill, non ti agitare, ahia, fai piano!
Oramai Tom aveva imparato a non farsi troppe domande, soprattutto quando si trattava del suo biondo angelo. Anche se era a Friedenau alle due di notte, inginocchiato nella zona dove giacevano le tombe dimenticate, che stringeva Bill tra le braccia che strillava qualcosa in una lingua mai sentita, e cercava di non farsi cavare un occhio, già ricoperto di graffi che Bill gli stava disseminando per tutta la faccia, il collo e le braccia con quelle unghie appuntite. Tutto nella norma, no? Niente di cui preoccuparsi, continuava a dirsi, mentre stringeva il corpicino scalciante e impotente del suo fidanzato e gli teneva la testa ferma per evitare che se la fracassasse sulla lapide. Doveva semplicemente accettarle, quelle cose, non c’era modo razionale di vederle, doveva solamente prenderne atto e venirne a patti. Aveva già firmato la sua condanna a morte quando non era stato a sentire Gustav e Georg e si era fermato a vedere cosa voleva quella drag queen con l’anello al naso e al sopracciglio, decidendo di aprire le porte al suo passato sconosciuto che sarebbe rimasto chiuso a prendere polvere se qualche divinità strana non l’avesse spinto a spiare nella vita incasinata e disperata di Bill, facendo suoi i suoi incubi e la sua follia colorata da mille acquerelli tristi.
-Bill, ti prego, stai calmo. Stai calmo!- gli urlò nell’orecchio, scuotendolo un po’ per le spalle troppo magre, guardando le enormi ali agitarsi come impazzite nell’afa berlinese, graffiando il cielo di velluto blu scuro, grondando sangue bollente che gli schizzava in faccia e lo ustionava. Però Bill si calmò. Oppure, semplicemente, si accasciò, ormai stanco di aver lottato contro i suoi demoni, tra le braccia di Tom, come una bambola moribonda, bianco come un cencio, graffiato e in lacrime.
Tom sospirò, accarezzandogli la schiena, sentendo il cuore battere all’impazzata, il respiro affannoso e le lacrime di Bill bagnargli la maglietta. Era brutto vedere il ragazzo che si amava tentare di salvarsi da qualcosa di inesistente, e vederlo controcersi in un cimitero in piena notte, ma forse era ancora peggio la sensazione di impotenza dovuta al fatto che, per quanto inesistenti, non avrebbe mai potuto salvare Bill dai suoi demoni, perché non li vedeva, forse troppo normale o forse troppo stupido per non poter salvarlo da sé stesso. No, Tom  non avrebbe mai potuto salvare Bill da sé stesso, l’aveva imparato a proprie spese, poteva solamente stargli vicino, sostenerlo quando cadeva, stringerlo a sé quando aveva paura, suonargli una ninnananna quando stava male, cullarlo quando voleva volare via. Poteva fargli da spalla, da colonna, da palo su cui si avviluppa il tralcio di vite, ma nulla di più. Non sapeva se al mondo ci fosse stato qualcuno capace davvero di salvarlo come avrebbe voluto fare lui, e sapeva anche che forse non l’avrebbe mai trovato, ma per il momento poteva pure andare bene anche lui da solo, con la sua memoria troppo corta e il suo sonno arretrato, con i suoi film e le sue lingue inutili per uno scopo così alto come rammendare le ali di un angelo che piange le lacrime di intere generazioni.
-Tom … Tom, sei tu? Se … se ne sono andati, vero?
Bill aveva alzato il viso dalla sua spalla e lo stava guardando con gli occhi gonfi, le lacrime che gli solcavano ancora le guance pallide, la vocina spezzata.
-Sì, Bill, certo. Sono io.- tentò di sorridere stancamente, baciandogli la fronte, accarezzandogli la schiena ossuta – Certo, se ne sono andati tanto tempo fa.
Non sapeva nemmeno di chi stesse parlando davvero, ma non gli importava.
Bill annuì distrattamente, appendendoglisi al collo, chiudendo gli occhi
-Cos’è successo, Bill? Perché sei scappato?- chiese, soffiandogli un bacio nei capelli. Erano la coppia più antica del mondo, effettivamente.
-Avevo paura, Tom. Loro stavano tornando, e io ero solo. Tu non c’eri, Hansi e Holly nemmeno … ero così solo, così solo. E Hansi mi chiamava, mi diceva di tornare a casa, e Holly voleva che stessi coi bambini, e loro dicevano che … che dovevo andare via, e io … sono confuso, così confuso, non capisco più niente. E poi c’eri tu, a un certo punto, che mi prendevi per mano, ma io non ti volevo seguire, e poi non lo so più, c’erano tanti suoni, e tanta musica grunge, e c’era Kurt Cobain che mi invitava sul palco e mi diceva che mi voleva sposare, ma non era lui, era uno di loro, e io tentavo di scappare, ma erano dappertutto, e poi … poi, non lo so più.
Bill lo guardava, appeso alla sua camicia, come se lui potesse fornirgli tutte le risposte di cui necessitava. Ma lui, Tom Kaulitz, con una laurea in lingue straniere, un appartamento pulcioso in periferia e un’amnesia retrograda non da poco, cosa poteva mai fare? Niente, appunto. Era solo un delirio.
-Non devi spaventarti, Bill.- disse, quasi non riconoscendosi – A volte loro lo fanno per attirarti nella loro rete, ma tu non devi cedere. Devi ignorarli, va bene? Oppure mi chiami, e io li farò smettere, ok?
-Sono i fantasmi di epoche passate, Tom.- sussurrò il biondo, scuotendo la testa – Torneranno, come la polvere del deserto. Torneranno sempre.
-E noi li manderemo via, anche per tutta la nostra vita, se necessario. Non sono invincibili, se ci pensi bene. Nulla è invincibile.
Tom gli sorrise, e Bill strinse le dita attorno al collo della sua maglia, accoccolandoglisi in braccio come un bambino, le ali che lo chiudevano lentamente nel loro guscio protettivo, piano piano, dolcemente.
C’era qualcosa di poetico in quello, pensò Tom, stringendo Bill tra le sue braccia, alzandosi con calma e tenendolo come la sposa degli incubi che in realtà era. Qualcosa di più antico del tempo e più saggio del mare, in quel ragazzo coi capelli lunghi e unti che chinava il capo di fronte alle tombe dimenticate di due eroinomani, e in quell’angelo biondo con le ali spezzate che gli riposava in braccio, gli occhi allucinati come specchio delle mille anime e delle mille esistenze che aveva vissuto e un sorriso più stanco dell’eternità sulle belle labbra. Guardavi Tom, e non potevi fare a meno di leggerci tutto quello che un eroe con lo skateboard e i The Clash nelle orecchie voleva urlare, il coraggio di periferia, l’onore mai avuto, un orgoglio tutto suo copiato dalle canzoni dei Green Day, un sorriso stanco e gli occhi ustionati da un’idea che giocava a rimpiattino nel fondo della sua eroica anima suburbana. Guardavi Bill, e ci vedevi un angelo fuori dal tempo, che sopportava da secoli i soprusi che la vita gli aveva riversato addosso, che con la sua schizofrenia e i suoi problemi si era creato una protezione contro demoni e mostri che lo assillavano e lo volevano morto, leggevi tutta la voglia di distruzione che aveva dentro, come la stessa dolcezza di un ragazzo che era già morto tanto tempo prima ma che si trascinava avanti come il fantasma generazionale di un mondo malato.
Guardavi loro due, che si avviavano sotto la luna calante di una bollente notte berlinese e semplicemente vedevi qualcosa che potevi chiamare amore, anche se forse non lo era. Forse era giustizia, forse era saggezza, forse era legame. Forse, semplicemente, erano Tom e Bill, che tornavano a casa, insieme, lasciandosi alle spalle mostri del passato che sarebbero tornati e polvere di stelle che li seguiva come una scia incantata.
-Allora, Bill, torniamo a casa?- sussurrò Tom, scivolando silenziosamente per le stradine buie del cimitero.
Bill lo guardò, nuove lacrime a rigargli il viso, un nuovo sorriso a piegargli le labbra, un delicato bacio sulle labbra triste come triste può essere il vento e un sussurro, delicato come lo può essere soltanto il passato dimenticato
-Sì, Tom. Torniamo a casa.

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OH MEIN GOTT RAGAZZE!!! Eccoci qui, la storia è finita. Non riesco a crederci ... davvero. Non so voi, ma io sono abbastanza contenta di quello che è venuto fuori, diciamo che l'ho voluta far finire qui perché andare avanti mi sarebbe parso uno strascicarsi di ripetizioni .... allora, che ne dite? Vi è piaciuta? Io spero proprio di sì. Mi sono davvero affezionata a questi Tom e Bill, così dolci, così fuori dalle righe, così malinconici e stanchi. Dei personaggi un po' diversi dal mio solito, un po' barcollanti ed incerti. E anche a questa Berlino un po' oscura, ai loro amici, a tutto. Che dire, spero davvero che vi sia piaciuta :D Volevo ovviamente ringraziare tantissimo tutte quelle ragazze carinissime che hanno recensito, commentato, messo nelle cartelle e letto, siete fantastiche davvero grazie mille <3<3<3
Domanda: CHI DI VOI E' STATA AL CONCERTO A MILANO IL 28??? Io ci sono stata, e vi giuro che è stato il giorno più bello della mia vita; ho addirittura pianto ad Automatic ahahaha, ma vi giuro che vederli dal vivo e sentirli ... la cosa più meravigliosa che mi sia mai accaduta. E quanto è bello poi il nuovo album, seriamente, è strepitoso. Basta, ok, non sclero più ahahahah
Vi saluto qui, vi ringrazio e spero che vogliate lasciare un commentino anche all'ultimo. Se volete, passate dalla mia pseudonuova twinchest (ovviamente) "I'll be waiting forever that day never came" che trovate sul mio profilo :D
Un bacione :*
Charlie xxx


 

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