Dentro i miei vuoti

di Laurie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Your heart-shaped box ***
Capitolo 2: *** Words are meaningless (and forgettable) ***
Capitolo 3: *** Effimero ***
Capitolo 4: *** all you ever wanted, all you ever needed ***
Capitolo 5: *** Let me steal this moment ***
Capitolo 6: *** A letter from the depth ***



Capitolo 1
*** Your heart-shaped box ***


Ci riproviamo? Questa è la mia corsa folle nelle relazioni intricate di questo manga denso. Nell'attesa che la Yazawa riprenda a scrivere, ci si diverte.
Titolo da una canzone dei Nirvana.
 

Your heart-shaped box
 

C’era le neve. Lei camminava accanto a lui, gli sussurrava parole in una lingua che Ren conosceva ma non riusciva ad afferrare. Ridacchiava.

Oh ti prego vieni qui, baby.
Lui l’abbracciava, accarezzava i suoi riccioli.

Baby, sei bella. Sei bellissima. Canta per me, ti prego, canta solo per me.
Lei gli si strinse, le sue parole erano piccole note d’argento solo per lui. Lui l’accarezzava con una possessione che aveva provato solo per due o tre cose nella sua vita. Sembravano appartenere ad un’altra persona, ora. Erano sulla frangiflutti, il mondo girava girava come una trottola, freneticamente. Erano a casa sua, c’era una festa e lei gli stringeva la mano.
Tutti erano contenti, tutti erano felici. Reira lo stava baciando, timidamente.
Non c’era nessuno, ed era buio.

***

Si svegliò circondato dal tepore delle coperte. La prima cosa che vide fu una bottiglia di bourbon – quando l’aveva presa? – e un bicchiere con un dito di liquore dentro e dei cubetti di ghiaccio che dolcemente si scioglievano. Una mano afferrò il bicchiere, una mano bianca e delicata, una mano di donna gentile. Ren si sentì bene. Non ricordava esattamente cosa stava sognando, ma sapeva che era stato un sogno bello.
“Scusami, ti ho svegliato,” gli disse Reira quando si accorse che non stava più dormendo. “Cosa hai da sorridere?”
“Nulla,” le rispose, vagamente stupito per il benessere che sentiva. C’erano tanti punti oscuri che gli ronzavano per la testa, ma adesso gli apparivano poco importanti.

“Ehi, non ti scolare tutta la bottiglia!”
Reira rise, e preparò un bicchiere anche per lui.
“On the rocks?”
“Certo.”
Bevvero in silenzio. Il sapore del bourbon ricordava ad entrambi qualcosa accaduto tanto, tanto tempo fa. La casa era silenziosa e vastissima, i pavimenti e le pareti bianche abbagliavano così tanto che Ren si accorse con rammarico di non essere più abituato a viverci. Stagnava nell’aria odore di polvere e di umido.
“Sai che ricordavo questa casa più piccola, Ren?”
“Forse perché una volta era piena di gente. Ci tenevo le feste dopo i concerti.”
“Ricordo,” disse Reira con un sorriso al pensiero segreto di una festa in particolare – dopo lei era fuori insieme a Yasu, e nel ricordo le sembrava di essere stata meno deliziosamente sotto i fumi dell’alcool di quando si fosse sentita allora.
“Senti, Ren, ne facciamo una? Di festa! Invitiamo tutta la band e i nostri vecchi fan.”
“E devo invitare anche Yasu?” le chiese lui con una punta di malizia.

Reira arrossì violentemente, e lui sbottò in una risata mentre si chiedeva dove fosse andato a finire il suo pacchetto di sigarette per la sua dose di nicotina mattutina.
“Yasu no.”
“Oddio, Reira, ce l’hai ancora con lui?” Ren emerse trionfante da sotto le coperte con un pacchetto sgualcito di Seven Stars. “Non mi passi il bourbon perché ti ho fatto arrabbiare?"

"Venire a prendertelo?"
 Ren si alzò con un sospiro di malavoglia, che rendeva l'idea di quanto trovasse assurdi i rancori delle ragazza.
"E' inutile litigare," gli disse, passandogli il bicchiere. "Tanto non potremo mai fare una festa come una volta. Anche i raduni dopo i concerti sono occasioni di lavoro, oppure dobbiamo chiuderci in camera per riprendere le forze."
"E poi a Takumi verrebbe una sincope al solo parlarne," concluse per lei Ren.
Reira annuì, con uno sguardo fisso nella tragica fine dei cubetti di ghiaccio nel suo bicchiere.
"Scusa, non volevo..."
"Che cosa, Ren?" si voltò verso di lui con uno sguardo tranquillo.
Il chitarrista optò per un diplomatico sorso di liquore. Se Reira non voleva parlarne, andava bene: rinvangare il passato, o per meglio dire il passato e l’attuale catastrofico presente su Takumi non era il modo migliore per iniziare la giornata.

“Scusa. Colpa mia.”
Nel silenzio che seguì, sentendo chiari i rumori del porto vicino, il richiamo lamentoso delle navi, il mormorare del mare, entrambi provarono uno struggente senso di malinconia.

“Devo ringraziarti, Ren. Volevo tornare a casa, solo che non sapevo come.”

“Figurati,” Ren si accese con piacere la sua sigaretta. “In realtà avrei voluto da tempo portarti a casa mia…”
”Davvero?” chiese Reira tutta contenta.
"Da quando avevi sedici anni... ehi, ehi, non fare quella faccia! Sono passati degli anni, siamo amici, e poi adesso c'è Nana..."
Ren si chiese come mai non potesse tenere la sua boccaccia zitta. Non riusciva più a reggere un sorso di alcool senza straparlare? Lo sguardo distante di Reira, una sorta di pena profonda e sorda dietro agli occhi immensi della ragazza, lo faceva sentire colpevole come se le avesse aperto una vecchia ferita e avesse preso a cospargerci sale.
 "Non me n'ero mai accorta..."
 Di certo, pensava Ren, perché a quel tempo avevi in testa solo Takumi, e dopo Yasu...
 "Avevi una cotta per me?"
 "Già." Ren non finse neppure di sembrare imbarazzato, e Reira si ritrovò sua malgrado a ridacchiare.
 Un pensiero improvvisò venne in mente ad entrambi: chissà come sarebbero state le cose se ce ne fossimo accorti in tempo...
 Ma nessuno dei due volle dargli voce. Persi nei loro vecchi sentimenti, si riscaldarono a poco a poco con il tepore del bourbon, mentre guardavano la neve che aveva ricominciato a cadere fuori dalla finestra.
 Ancora un poco, ancora un poco in quella vecchia casa troppo grande per loro due.
 Ancora un poco.
 Ren ricordò all’improvviso un sogno.

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Capitolo 2
*** Words are meaningless (and forgettable) ***


Words are meaningless (and forgettable)

 
Il suo primo pensiero, quando trovò un Naoki singhiozzante sulla porta d’ingresso, fu di delusione. Voleva Takumi. Voleva il suo viso imperturbabile per calmarsi. Voleva le sue braccia gentili per piangere. Invece stava tentando di frenare le emozioni incontrollabili del suo batterista, mentre lo trascinava dentro casa sua.
Click click. Oddio non erano per caso…
“Sono un idiota,” disse Naoki, quando lei chiuse con un calcio la porta. “Ho fatto un altro casino. Penso che…”
“Tranquillo. Sono solo dei cronisti che girano qui attorno da ieri.”
Reira chiuse la porta, tirò il catenaccio giusto per sentirsi più sicura e guidò un imbarazzato Naoki verso il divano.
“Ho fatto il prima possibile,” stava dicendo intanto lui. “Ma non pensavo che fossero già arrivati i fotografi. Se hanno… Cosa dirà ora Takumi?”
Reira si sentì per un attimo mancare, ma strinse i denti. Al diavolo Takumi. Era ancora a Tokyo, sicuro come la morte che in quel momento stava mettendo a posto qualche guaio alla casa discografica. Per distrarsi cercò un fazzoletto per Naoki.
“Naoki, grazie di essere arrivato. Ho passato tutta la notte da sola.”
“Figurati. Gli altri stanno arrivando qui, con il prossimo volo.” Il batterista presa il fazzoletto e si asciugò le lacrime con un sorriso mesto. “Penso di essere un po’ scosso.”
Reira annuì con un piccolo sorriso. Troppo tardi si accorse che anche Naoki doveva essere stanco.
“Vuoi qualcosa da bere? Vieni…”
“No, lascia stare, ci penso io. Posso?”
L’accompagnò con gentilezza sul divano e lei si lasciò cadere, docile, ancora frastornata dal pensiero che fuori dalla porta c’erano i paparazzi e quel pomeriggio c’era la cerimonia funebre, e non sapeva come vestirsi e come era lo stato del suo viso ma di certo non voleva, non voleva assolutamente che qualcuno la fotografasse e parlasse di lei e del suo dolore. Perché non poteva piangere?
Intanto Naoki stava trafficando in cucina, non smettendo un attimo di parlare, e quando scovò la vecchia macchina per la moka che sua madre conservava dai tempi dell’America (papà era un appassionato del caffè all’italiana), il suo entusiasmo accrebbe con espressione di ammirazione verso quell’oggetto straniero, che aveva visto solo nei film.
“Ci devo aggiungere l’acqua, devo ricordarmi che ci devo aggiungere acqua,” lo sentiva dire Reira, che dal divano non avrebbe più voluto alzarsi.
Una manciata di minuti dopo Naoki era di ritorno con due tazze fumanti. Ne porse una alla ragazza, mentre si sedeva accanto a lei.
“Incredibile! Una vera moka. Hai visto?” chiese, a dispetto della situazione, entusiasta come un bambino.
“La mamma ci teneva,” rispose Reira, attenta a non scottarsi le dita sulla ceramica bollente.
“Dio, mi dispiace. Mi dispiace tanto. Era una signora così gentile.”
Davvero? Reira non ricordava bene la madre. Era passato tanto tempo dall’ultima volta che si erano viste, e quando lei passava a casa a salutare non si parlavano molto. Da qualche parte nel suo passato sua madre aveva condotto una vita che incrociava di sfuggita la sua.
Fino a quella telefonata. Reira era corsa in ospedale, troppo tardi. Senza neppure il tempo di dire qualcosa a sua madre, di sentire le sue ultime parole. Cosa aveva pensato di lei mentre dal suo letto fissava una porta che non si apriva? Sperava che negli ultimi attimi fosse rimasta incosciente.
Aveva ascoltato il medico che le dava le condoglianze, poi era arrivato il compagno di suo madre. Non lo aveva riconosciuto. Forse era un altro rispetto all’ultima volta. Forse. Chissà come passava il tempo sua madre mentre la figlia scalava le classifiche dell’Oricon a Tokyo? Lo ascoltò con il trucco sfatto del servizio fotografico, con la stanchezza del viaggio in aereo addosso, mentre lui diceva che per il funerale era tutto a posto, aveva già dato le disposizioni, cercato un sacerdote per la cerimonia, preso accordi per la cremazione. C’era la questione della casa, ancora aperta. Lo diceva per correttezza, aggiunse ma i suoi occhi la squadravano con freddezza, con un leggero disgusto molto provinciale per una ragazza giovane e bella che aveva successo nel mondo dello spettacolo. Reira lo aveva guardato, senza capire esattamente cosa volesse da lei quell’ometto vestito da salaryman squattrinato, tutta presa da altri pensieri che non l’eredità o la cerimonia funebre o le carte che avrebbe dovuto firmare per il decesso. Si stava chiedendo dov’erano le sue lacrime. Mari-chan era intervenuta, a quel punto, dicendo che ne avrebbe parlato con l’avvocato di Reira-san. Gomen, ma Reira-san era stanca. Gomen.
A casa sua (a casa di sua madre) Reira aveva scacciato via Mari-chan, gridandole dietro qualcosa di cui non ricordava di preciso le parole esatte. Di sicuro aveva detto di chiamare Takumi.
Naoki era ora qui, con una tazza di caffè fumante in mano e gli occhi velati di lacrime.
“Mi dispiace… io… non… sai, non so che dire.”
Face un sorriso timido, chiaramente imbarazzato da quella mancanza di spirito.
Fu di fronte all’espressione perplessa di Naoki che Reira scoppiò a piangere, singhiozzi forti da bambina orfana. Naoki le diede dei colpetti incoraggianti sulla spalla, cercando delle parole che non riusciva a trovare, e si unì a lei in un pianto silenzioso, abbracciandola perché quel dolore era troppo forte per lei. Non sapeva cosa altro fare.
Quando si staccarono, il caffè nelle tazze era tiepido al punto giusto.

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Capitolo 3
*** Effimero ***


Effimero
 

“Suona ancora qualcosa.”

Ren prende in mano la chitarra. Esegue un accordo, e guarda Shin con il sorriso accattivante che molte donne hanno amato.

“Questa la conosci?” accenna all’inizio di Hallelujah. “Facciamola insieme, dai. Prendi la chitarra acustica. Ti insegno qualcosa di nuovo.”

Shin si sente felice. Mai come in quei momenti, quando Ren gli permette di condividere la musica, sente di volergli bene.

 

***

Shin taglia le verdure con attenzione per evitare di ferirsi col coltello. Controlla l’acqua sul fuoco, si assicura di non dimenticare il sale. Nessuno gli ha insegnato a cucinare, ricorda solo quando lo faceva Ryoko, quelle volte in cui si rifugiava nella sua cucina e la stava a guardare – a spiare – tranquillo e vagamente felice mentre lei preparava il pranzo.

“Che cosa abbiamo qui?”

Ren compare dietro di lui, gli sfiora la spalla mentre si china sul tavolo.

“Minestra di tofu e verdure. Fa bene alla salute, o così dice Yasu. La vuoi piccante?”

“Lo sai che mi piace salato.”

Shin sente il respiro di Ren sul collo, e un brivido lo attraversa.
”No, non lo sapevo,” sussurra in risposta.

Il bacio che sente sulla pelle lo distrae. Sente una mano cercare sotto il grembiule, arrivare alla maglietta e sollevarla. Il contatto con quelle dita che gli accarezzano l’addome non è una sorpresa per Shin, ma è sempre una sensazione strana.

Non sono mani delicate di donna.

Sente le prime avvisaglie dell’eccitazione, e tenta di non pensare che Ren – quel Ren – sia colui che lo fa sentire così.

Tenta di non chiedersi il perché Ren lo stia scopando.

Il suo sguardo cade sul poster alla parete, quello con Sid e Nancy, che nessuno ha avuto il coraggio di togliere, che nessuno ha il coraggio di guardare.

Anche con Nana faceva l’amore a quel modo, selvaggio ed esuberante? Sì, anche con Nana, Shin ne è certo.

Si sente l’acqua bollire, sempre più veloce, sempre più rumorosa, fino a quando non trabocca oltre il bordo spegnendo il fuoco, e i due si accasciano sul piano di lavoro, i respiri pesanti, gli occhi socchiusi.

“Chiudiamo il gas. Non voglio ancora morire soffocato.”

***

“Sei sicuro di non voler tornare?”

Shin rimane in silenzio con il telefono in mano. Sta facendo la chiamata settimanale a Misato. Lei gli racconta di cosa accade a Tokyo, di cosa fanno Yasu e Nobu, di come sta Hachiko mentre la gravidanza sta giungendo al termine, di quanto tutti sono preoccupati. Anche lei è preoccupata, e Shin la rassicura come può sulle condizioni di Ren.
E Misato gli fa sempre quella domanda, che per un attimo non sa neppure lui cosa vuole rispondere.

“Ancora no,” dice con coraggio.

 

***

“Nana.”

Shin è sveglio, ascolta l’uomo accanto a lui chiamare la donna che non c’è e vorrebbe essere capace di piangere o di arrabbiarsi. Vorrebbe poter scrollare Ren anche quando la sua parte razionale gli dice che crollerebbe, che l’inossidabile Ren così orgoglioso sul palco si sfalderebbe come un foglia secca al solo tocco della verità.

E’ morta, avanti, o scappata così lontano perché non ci vuole più… né noi, né te.

Vorrebbe che Ren suonasse ancora, che Ren componesse nuove canzoni e che non cantasse più, quando non rimane accucciato in un angolo del divano immobile per ore, quelle canzoni disperate.
Love, love will tear us apart again…

 “Nana, Nana.”
Continua a ripetere nel sonno. Si calma solo quando il ragazzo gli afferra la mano, la stringe e dice: “Sono qui.”

Si sente sciocco, Shin, e si sente tradito.

 

***

Shin ripensa ad una telefonata con Misato.

“Hanno trovato un lavoro per te. Pensaci.”

“Lo dici per me, o per il tuo capo?”

Si pente di aver detto quelle parole a Misato. La ragazza cerca di far del suo meglio come assistente dei Blast, non è di certo colpa sua se lui ha firmato un contratto che lo vincola alla Gaia e ora l’azienda pretende che rispetti gli impegni presi.

“Perché devi saldare il debito con la Gaia, per la cauzione che ti hanno pagato.”

“Grazie. Per la sincerità.”
”Ma lo sai che anch’io sono preoccupata!”

“Lo so.”

E’ contento che lei non abbia tirato di mezzo gli altri. Lo sa che sono tutti in ansia per lui e per Ren.
Shin passeggia sulla banchina in attesa del treno. Porta solo una chitarra sulle spalle, e magari fra poco gli verrà voglia di suonare una canzone, una di quelle nuove che gli ha insegnato Ren.

Si chiede cosa farà lui quando non lo troverà. Manderanno qualcuno dello staff dei Trapnest a prenderlo. Lo troveranno abbastanza lucido da essere ragionevole, o forse Ren avrà trovato prima i tranquillanti che Shin aveva nascosto.

Riflette, con lucido cinismo, che a Ren sarebbe piaciuta un’uscita di scena tragica.

But love is not a victory march. It’s a cold and a broken hallelujah…

Shin attende, con un biglietto di sola andata per Tokyo in tasca. Guarda la neve scendere, si sente leggero ed effimero come quei fiocchi bianchi. Spera che presto questa sensazione passerà.

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Capitolo 4
*** all you ever wanted, all you ever needed ***


All you ever wanted, all you ever needed


Quando aveva deciso di smettere di cantare, non aveva pensato cosa fare della sua carriera, almeno non subito. Era addolorata per la fine di Ren, e dall'annuncio dell'incidente, non aveva dubitato un solo istante che senza di lui avrebbe faticato a cantare nella band. Semplicemente non sarebbe stato come prima.

Incerta su cosa le sarebbe accaduto in futuro, passava le giornate ad ascoltare le preghiere di Mari-chan, di accettare questa o quella proposta, di andare a questo o quell'evento mondano. I Trapnest erano in crisi. C'era chi diceva fossero finiti. Nessuna pressione del presidente, certo che no, ma Reira-san aveva ancora la sua carriera a cui pensare.

Il futuro... Per lei era una possibilità che non voleva prendere in considerazione. Takumi non l'avrebbe amata, Ren non ci sarebbe stato, lei non avrebbe più cantato: il futuro era pieno di negazioni e di incertezze.

Quando Mari-chan si presentò alla sua porta, con il trucco disfatto dalle lacrime, supplicandola di accettare una proposta di lavoro, tornò improvvisamente alla realtà dei fatti.

Aveva un contratto. Doveva andare avanti, o la casa discografica le avrebbe reso la vita difficile.

“Ok, Mari-chan, chiamali.”
Tirò fuori un fazzoletto e mossa dal senso di colpa anche due tazze da tè.
Mari-chan la ringraziò senza sosta, mentre lei metteva il bollitore sul fuoco.
“Dimmi che cosa andrò a fare.”

***

“Una pubblicità forte, sensuale, vogliamo creare qualcosa che possa esaltare il carattere dinamico e intenso del prodotto.”
Yoshioko-san amava parlare, almeno quanto amava far scorrere i suoi anelli, giganti mostruosità di silicone profumato e gemme semi-preziose, tra le dita.

Era l’uomo più lezioso, profumato e colorato che Reira avesse mai incontrato, e mentre lei e la sua assistente lo ascoltavano con la loro migliore espressione professionale, faticavano a sopprimere l’esigenza di ridere.

“Ho creato questa pubblicità pensando proprio a te, Reira.”
Un inchino.
“Sei troppo gentile con me.”
“Il pubblico ti amerà per questo, più di quanto lo faccia ora.”
Un altro inchino.
“Non so come rispondere.”

Quando si alza dall’ultimo inchino, lo vede.
“Ecco che è arrivato!”
L’uomo ridicolo con il suo profumo ridicolo si avvicinò, mise un braccio sopra le spalle di Shin’ichi e lo accompagnò verso di lei.

“Devo fare le presentazioni?”
Reira non ricordava che fosse così alto, le sembra anche che il suo volto avesse perso le rotondità che lo facevano sembrare tanto giovane.

“Ci conosciamo già. Reira-san.”

Shin le strinse la mano, la sua bellissima – perfetta - faccia tosta che non cedette un'emozione a chi stava attorno.

A Reira non restava che scusarsi, scusarsi terribilmente, profondamente ma aveva un giramento di testa, sarebbe andata in camerino, a sedersi, solo un minuto.
Mari-chan le avrebbe portato qualcosa.

Nel camerino Reira non corse, ma volò fino a quando non si trovò con la spalla appoggiata alla porta, chiusa.
Non fu Mari-chan che arrivò, con una bevanda calda e molto zuccherata, a soccorrerla.

***

“Reira, ti prego.”

L’ultima volta che aveva visto Shin’ichi era al funerale. Aveva gli occhi rossi e si sforzava di non piangere. Avrebbe voluto avvicinarsi e gettargli le braccia al collo, avrebbe voluto stringerlo a sé e provava vergogna e dolore perché lui sembrava così giovane e così fragile.
Lei aveva evitato il suo sguardo perché, ad un certo punto, con una precisione agghiacciante capì. Avrebbe voluto da lui un conforto più intimo che non un abbraccio.

“Vai via, Shin,” disse mentre toglieva tracce di lacrime e trucco dal proprio viso di tutta fretta.
“Ti prego.”
La sua voce implorante decise per lei. Reira aprì la porta, afferrò il braccio del ragazzo e lo trascinò dentro, pregando che nessuno, tantomeno Mari-chan, li avesse visti.

La vicinanza era così intensa che si staccò, troppo in fretta, per non notare lo sguardo preoccupato di Shin.

“Mi dispiace, Reira. Non sapevo che lavoravi anche tu a questa produzione.”
“Shin… costa stai dicendo?”

Lui era cambiato, qualcosa nella forma del suo visto o nella sua espressione più seria o forse nei suoi vestiti più sobri. Forse aveva sofferto anche lui, tanto quanto lei.
Si pentì di non averlo chiamato per mesi.

“Reira, non piangere.”
Eppure era difficile trattenersi. Lei si voltò, cercò un fazzoletto tra le macerie lasciate sul bancone del trucco, senza trovare alcunché. Quando si voltò, c’era Shin con un sorriso mesto e una mano verso di lei.

“Andrò di là e dirò che non posso girare. Annullerò la registrazione.”
Reira rimase a bocca aperta, per un attimo tentata di accettare il suo aiuto.
“Che cosa hai intenzione di fare?”
“Mi inventerò qualcosa.”
“Allora di’ che non ho più voglia di recitare. Che mi sento male.”

Reira si avvicinò allo specchio. Se qualcuno avesse guardato la sua faccia in quel momento, lo avrebbe creduto possibile. La truccatrice avrebbe dovuto faticare parecchio, quel giorno, per ricreare la Reira dei Trapnest.

“Avrai problemi con la tua agenzia.”
“Perché tu no?”
Lo disse a voce troppo dura, perché nel riflesso vide che lui ebbe uno scatto. Reira si girò e gli diede la mano, una stratta calda che subito li avvolse entrambi.
“Voglio solo cantare, Shin, e non me lo permettono.”

Lui la tirò contro di sé, e Reira si trovò ad aspirare il sapore di Shin, la guancia premuta contro la stoffa della sua camicia.
Da quando era diventato così alto?
Shin le baciò con dolcezza la corona di capelli.

Sing for me, Leyla.”

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Capitolo 5
*** Let me steal this moment ***


Let me steal this moment


“Wow… è stato… wow!”

“Se pure Naoki è rimasto a corto di parole, direi che abbiamo fatto centro!”

“E’ stato un ottimo concerto, sì.”

Reira sorrise radiosa. All’uscita dalla sala, dopo la performance, erano stati letteralmente assaliti dagli ammiratori, tanto che avevano faticato non poco a ringraziare ognuno di loro.

Dopo si erano concessi un brindisi nei camerini.

“Bene, noi andiamo a bere qualcosa in centro. Venite?”

“Io vado a casa, ragazzi, sarà per la prossima volta,” si scusò Reira. Sapeva che l’avevano invitata per gentilezza, ma probabilmente si stavano dirigendo a caccia di ragazze, magari proprio delle stesse fan che li avevano acclamati quella sera stessa.

“Ti accompagno,” si offrì Takumi.

“Come? Non devi andare dalla tua ragazza… come si chiamava l’ultima?” lo stuzzicò lei.

Lui rise. “Non stasera. Domani ho un compito importante, e se non voglio essere rimandato, devo passarlo con voti più che sufficienti.”

“Allora è per questo…”

Il ragazzo non si avvide di aver sentito, e a Reira andò più che bene: non gli dispiaceva se lui l’accompagnava a casa, se per una volta trascurava una delle sue apparentemente numerose ammiratrici.

Lei non si faceva più illusioni da quando Naoki le aveva fatto notare con la sua innocente mancanza di tatto quanto Takumi fosse popolare tra le ragazze.

Salutarono i compagni della loro band, che si diressero verso il pub, cominciando a cantare le canzoni del concerto.

“Vuoi che ti aiuti?” le chiese Takumi.

Reira gli passò un paio di sacchetti, pieni dei regali dei fan. Era stato molto gentile, quella sera. Ne fu per un attimo confusa e turbata. Takumi l’aveva chiaramente rifiutata, più di una volta: allora perché aveva la sensazione, ogni volta che parlava amichevolmente e scherzava con un ragazzo sentirlo accanto a lei, fremere come se si volesse trattenere il fastidio dentro? Perché certe volte la trascurava e altre si preoccupava eccessivamente di lei?

Non ha diritto di farmi la predica o di essere geloso, pensò.

“E’ vero che non hai nessun appuntamento?”

“Ti sembra davvero così strano?” disse lui, prendendo il tutto molto alla leggera. Ma il silenzio di lei lo indusse a voltarsi per guardarla. Qualcosa nel viso della ragazza lo convinse che lei non aveva intenzione di scherzare, non quella sera e non con quell’argomento. “Non posso voler accompagnarti a casa? Da piccoli lo facevo sempre.”

Lei gli sorrise, luminosa e radiosa in risposta. E Takumi sospirò di sollievo, come se quel gesto avesse cancellato l’ombra cupa di qualcosa che incombeva su di loro, qualcosa che per un attimo lo aveva turbato e lasciato in preda a pensieri contradditori e nascosti.

“Certo che sì. Ma ora io sono cresciuta.”

Reira sembrava volerlo provocare.

“Di notte è meglio che una ragazza non giri da sola.”

“Perché temi che qualche maniaco mi faccia del male?”

“Non è possibile?” gli chiese lui, con lo stesso tono leggere e ipotetico con cui lei aveva condotto la conversazione.

“Certamente. I ragazzi corrono dietro alle gonnelle,” lei sorrise in un modo più cinico, un’espressione che Takumi aveva visto per la prima volta sul viso di lei. “E uno di questi è proprio accanto a me.”

Lui rise, improvvisamente e ironicamente: era imbarazzato e stava cominciando a chiedersi se Reira non voleva intendere qualcos’altro sotto le sue parole – un rimprovero contro di lui? Una manifestazione di gelosia? Non voleva credere a nessuna di queste possibilità.

“Non ti preoccupare, non ti farei mai del male.”

“Grazie,” rispose lei, in quel momento abbandonando l’innocente malizia. “Quando eravamo bambini, mi ricordo che mi davi la mano…”

Reira attesa una reazione a quelle parole, che non venne. Probabilmente Takumi non aveva sentito o aveva finto di non sentire. Perché si era inoltrata in quella discussione, perché si ostinasse soprattutto a stuzzicarlo non riusciva a spiegarselo del tutto: proprio quella sera, tra le tante, proprio quando ormai era chiaro che lei per lui era solo una vecchia amica d’infanzia, solo la cantante della sua band… forse l’eccitazione del concerto le aveva dato coraggio abbastanza per infuocare un argomento che apparteneva al passato.

La ragazza si avvicinò, per spiare il viso di lui, qualche emozione alla sue parole. Lui aveva soltanto accelerato il passo, come se volesse mettere la maggiore distanza tra di loro.

“Se io ti dessi la mano…”

“Ma non siamo più bambini,” tagliò corto lui, nel tono più gentile che riuscì a trovare ma che suonò terribilmente aspro e definitivo all’orecchio di Reira.

“Buon per te che ti sia accorto di questo…”

“Certo che sì…” lui si fermò un attimo e la fissò attentamente, mentre lei si incupiva. “Reira, so che non sei più… non siamo più quelli di un tempo e siamo cresciuti.”

La ragazza annuì. Ma quelle parole per lei dicevano soltanto: non possiamo tornare al passato, ma non posso vedere altro tra noi, oggi, qui, ora…

Procedettero in silenzio per il resto del tragitto fino a casa. Reira fu tentata di riprendere il discorso con qualsiasi mezzo, fu quasi sul punto di ribattere se allora non l’accompagnava a casa non per pure gesto di gentilezza, o per vecchia abitudine, ma soltanto perché casualmente abitavano a pochi passi di distanza. Ma non aveva avuto lo spirito giusto per provarci. Era probabile che temeva una risposta affermativa, era possibile che volesse illudersi ancora che lui si curasse di lei…

“Sei arrivata.”

Takumi si fermò davanti al cancello di casa sua.

“Ci vediamo domani a scuola. E’… è stato bello il concerto.”

Takumi non sapeva cosa rispondere, ma mentre Reira si voltava e apriva il cancello, troppo velocemente per non sembrare una fuga, comprese che non voleva che la serata finisse così, con quel silenzio imbarazzato e con parole non dette. Voleva… voleva soltanto…

“Reira, i tuoi sacchetti.”

Lei si voltò, un’espressione sorpresa in volto, e si avvicinò imbarazzata a lui.

“Uhm, grazie.”

Mentre prendeva i sacchetti che Takumi le porgeva, le loro mani si sfiorarono per caso. Fu abbastanza perché entrambi sobbalzassero. Lui la strinse all’improvviso la mano, e non riuscì a muoversi quando lei si avvicinò, per un guizzo di coraggio, e sfiorò le sue labbra con le proprie.

Takumi realizzò, quando accettò il bacio, che lei non era più la bambina che ingenuamente gli aveva dichiarato il proprio amore anni fa, ma una giovane donna che per qualche motivo incomprensibile a lui lo desiderava. Avrebbe voluto sottrarsi indietro, prendere fermamente Reira e allontanarla… ma il viso di lei, così vicino, era luminoso e bellissimo, trasfigurato da un sentimento di pura gioia e di caparbia audacia. Sembrava diversa dalla dolce ragazza che conosceva da anni, e tuttavia era proprio lei.

Good night,” gli sussurrò dolcemente.

Quella notte l’angelo della sua infanzia aveva donato amore soltanto a lui.

E se soltanto lui avesse potuto ricambiarlo…

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Capitolo 6
*** A letter from the depth ***


A letter from the depth


Quando la ricorda, per lui rimane Hachiko, la ragazza dai colori pastello e lo sguardo pieno di sogni che parlava con lui sulla riva del fiume.
Quando la vede ora, c’è Nana Ichinose, la donna elegante e con l’espressione assente di chi aspetta qualcosa che le infonda ancora vita.
Che cosa darebbe per avere indietro la ragazza?
Appena si incontrano, Nobu pensa solo ad abbracciarla, un gesto misurato, più appropriato per dei conoscenti che per degli amici che si conoscono da anni, e a cancellare i pensieri dalla sua testa.

***

Non hanno molto da dirsi, ogni volta che Hachiko sale al suo paese o quando lui scende a Tokyo per salutare gli amici lontani, sempre meno da quando ha cominciato a gestire il ryokan a tempo pieno per sostituire il padre ormai malato.
Così Nobu, dopo i primi convenevoli su come stai e come sta la famiglia, scivola su un terreno sicuro. Le mostra i cd preferiti di Nana, quelli da cui è cominciato tutta la storia dei Blast. La porta a vedere la scuola superiore che frequentavano. Quando aveva sistemato vecchie scatole nella soffitta, aveva trovato foto che le mostra, mentre le racconta dove sono state scattate, e assieme si stupiscono di quanto Nana era bella, nonostante l’espressione così lontana da quello che dovrebbe apparire nel viso di una quindicenne.
“Non sembra davvero lei.”
“Lo so, dava quella sensazione. Di una persona diversa da tutte le altre.”
Di una persona così sola.
“Avrei voluto conoscerla allora.”
Avrei voluto più tempo.
“Sarebbe stato… tutto diverso…”
Crescere insieme. Avere del tempo per conoscersi.
Le foto restano tra loro, fino a quando Hachiko non le raccoglie con cura e le ripone nella scatola, a riposare nel loro passato che non era mai stato.

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Quando viaggia, Nana Ichinose porta con sé la figlia. Satsuki è inseparabile dalla madre ma ha un carattere del tutto opposto, vivo e fiero e capace di opporsi a ciò che non incontra il suo gusto. Assomiglia così tanto a suo padre che nessuno potrebbe dubitare della loro parentela.
Nobu non dovrebbe sentire quello che prova, ma preferisce quando la bambina è lontano. Quando la bambina gioca per conto suo, o esplora il ryokan per finire nella cucina di sua madre, o quando non tempesta di discorsi e di domande Hachiko.
Gran parte dei suoi discorsi ruota attorno a suo padre. Ogni volta Hachiko lancia a Nobu quell’occhiata, quella che vuole dire “Takumi è un buon padre” e che serve a zittirlo.
Non sa proprio dire se un buon padre vive a Londra, lontano dalla moglie e dalla figlia, ma questo è un discorso che raggela Hachiko all’istante.
È il senso di colpa quello che non sopporta quando la bambina è vicino a lui? Non lo sa, ma quando Satsuki è presente, riaffiora la Nana Ichinose dal volto serio, la postura composta e un po’ umile che secondo la donna è appropriata per una madre.
Quando la bambina non c’è… Nana risulta meno tesa. Le piccole rughe di preoccupazione che erano nate vicino agli occhi di Hachiko spariscono. Nei momenti migliori, Nobu riesce a farla sorridere.

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Riescono a parlare di piccole sciocchezze e stuzzicarsi a vicenda, come se non fosse passato un giorno da quando parlavano in riva al fiume, un’estate infinita. Hanno avuto solo un anno assieme, un anno passato con l’impressione di avere i sogni a portata di mano, un futuro di successo e in cui Nobu non sarebbe stato solo. Quando parla con lei, mentre Hachiko sbucciacon cura i mandarini, seduti vicini sotto la coperta del kotatsu, Nobu dimentica.
Dimentica le piccole incombenze del ryokan, dimentica la donna che ha cominciato a frequentare senza dirlo a nessuno. Dimentica Ryuko che ogni tanto telefona nel cuore della notte, e gli parla mentre in sottofondo lui sente il rumore della metropoli tentacolare.
Dimentica, e ne è certo, mentre guarda Hachiko passarli il piatto con i mandarini in spicchi, anche lei dimentica di essere la moglie trofeo di Takumi dei Trapnest, così importante per l’immagine pubblica che il bassista ha creato per sé, così tanto lasciata sola con i suoi ricordi e i suoi sentimenti.
Parlano, ma dopo restano in un perfetto silenzio fino a quando il sonno non li raggiunge, e allora giacciono vicini, senza osare sfiorarsi, sotto il tepore del kotatsu.

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Ci sono così tante cose che vorrebbe dirle.
L’anno dopo, forse, al prossimo compleanno di Nana.

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