La Sfida

di Joy_jest
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Clopin sapeva leggere. ***
Capitolo 2: *** Sobbalzi ***
Capitolo 3: *** Querce antiche e querce nuove ***
Capitolo 4: *** Niente da perdere ***
Capitolo 5: *** La scienza segreta ***
Capitolo 6: *** Lezioni ***



Capitolo 1
*** Clopin sapeva leggere. ***


Clopin sapeva leggere.

Non il latino, da povero analfabeta qual era: Clopin sapeva leggere la gente. Piuttosto che di empatia era questione di sopravvivenza, perché quando sei di fronte a una guardia del giudice che è il doppio di te diventa fondamentale saper riconoscere le sue intenzioni. La piega della bocca, degli occhi, l'espressione, la posa delle gambe, del corpo, tutte piccole spie di ciò che può passargli per la testa. E poi le mani, le mani parlano che è una meraviglia. Si può capire se sono avvezze alle botte o alle carezze, al bastone o a fini capelli biondi, se elargiscono volentieri una moneta o se sono tanto avare da non tenerne mai una in mano. In quelle occasioni sapeva cogliere le impercettibili, eppur presenti, vibrazioni nell'aria, come una lepre che non può vedere né udire il cacciatore che la punta, ma lo sente, in qualche modo, e torna alla tana.

Iniziò da bambino, divertendosi, indovinando quali tra le guardie che uscivano dalle taverne erano brille e quali meno, quali con il vino diventavano tristi, quali violente o quali allegre. Si burlava di loro, se per caso perdevano l'equilibrio e le guardie, che non erano famose per stare agli scherzi, soprattutto a quelli di un marmocchio zingaro, gli correvano dietro come potevano. Clopin era agile, ma le guardie erano grandi e grosse e non era raro che lo incastrassero e lo riempissero di botte. Quante ne aveva prese... ma in un certo senso gli tornarono utili, lo aiutarono più avanti a prendere le misure. Tuttavia non smise mai di osare. O di menar per il naso le guardie.


Quando, da ragazzo, iniziò la sua attività di cantastorie, ebbe contatti sempre più da vicino con i francesi e spesso in piazza assisteva a scene di vario tipo: inganni, ricongiungimenti e liti, soprattutto. Non che questi in sé gli interessassero molto, lo attraeva più che altro quello che veniva prima. Se due amici di vecchia data si ritrovavano, si scambiavano occhiate curiose e furtive da lontano prima di profondersi in esclamazioni di gioia e abbracci; se un panettiere incolpava un ragazzo di avergli rubato un pezzo di pane, spesso aveva già deciso che l'avrebbe rimproverato appena il ragazzo si era avvicinato al carretto. Clopin studiava tutto questo. Col tempo, poi, imparò a riconoscere anche i caratteri delle persone, sia gli stereotipi sia quelli più contraddittori; li identificava tutti, quale prima, quale dopo, ma tutti. Di conseguenza sapeva sempre come prendere chi gli stava davanti e, soprattutto, come burlarsene...

 

-o-0*§*0-o-

 

Tutti lo conoscevano, almeno in quel quartiere, e lui conosceva tutti.
Ormai Clopin era diventato di casa nella piazza di fronte a Notre-Dame, la gente che passava era sempre quella, ogni faccia era diventata a lui familiare.
Quel giorno stava raccontando un'antica leggenda sul perché i pesci non parlano. Pochi spettatori quella mattina, il freddo invitava a casa chi poteva restarci. C'era giusto qualche ragazzino, tuttavia piuttosto preso dalla storia.

Ma aspetta... un gruppetto di signore e signori, ben vestiti, probabilmente dell'alta borghesia, stava attraversando la piazza parlottando.

No, mai visti. Che strano.

Non era raro incontrare qualche mendicante o pellegrino di passaggio, ma che ci fossero nuovi borghesi in città era un evento!
Clopin li seguì incuriosito con lo sguardo mentre era intento a fare il verso del pesce con la bocca e con le mani per la sua piccola platea e il gruppo volse lo sguardo al suo teatrino, attirato dalle risa dei bambini. Lo guardarono sprezzanti e tirarono avanti. Lui sorrise beffardo, era divertente scandalizzare le élite con la puzza sotto il naso.

Però c'era qualcuno che lo guardava meno sprezzante degli altri. Una ragazza, in fondo al gruppo.
Era strana, indecifrabile. Per un attimo sembrava curiosa, ma... no ora volgeva lo sguardo; diede un'ultima occhiata di sottecchi e poi tirò avanti insieme agli altri. Non sembrava particolarmente attenta ai discorsi che si tenevano. Si concedeva il lusso di distrarsi, in ogni caso non sarebbe stata interpellata. Si guardava intorno, attenta anche alle piccole, trascurabili, inutili cose. Osservava e il suo sguardo catturava tutto, senza esprimere critiche su nulla. Vedeva ogni particolare con la stessa emozione, ma quale questa fosse era difficile da intendere. Metteva tutto sullo stesso piano, dal borseggiatore in azione, al modo in cui delle monete cadevano dalla mano di una signora in quella del fornaio. Stava, poco a poco... appiattendo la realtà.
Alzò gli occhi, che presero il colore grigio del cielo: Notre-Dame si ergeva maestosa sulla piazza, su Parigi. La ragazza rimase per un istante a contemplarla, ferma: stupita, vinta dall'imponenza della cattedrale.

No. Notre-Dame non poteva appiattirla, quella no.

 

Il suo atteggiamento incuriosì Clopin, come la curiosità che si prova davanti a qualcosa che si deve ancora realizzare. Era l'idea di lei che Clopin doveva ancora realizzare. Eppure scorgeva qualcosa... era piuttosto come un uccello in gabbia che ormai aveva rinunciato ad evadere. Si era ormai abituata ad accoccolarsi nella sua gabbia, a vedere il mondo da lì dentro, come rassegnata. Rassegnata, ecco, rassegnatasi a rinunciare alla vita, a lasciarla agli altri. Non era sottomessa, ma accondiscendente. La sua vita era lì, davanti a lei e non poteva prenderla.

Perché lo attirava tanto? Forse perché, in fondo, erano simili, pur essendo agli antipodi. Il suo stare dietro a tutti, lo sguardo assente, l'essere indifferente, in balìa di tutto, era qualcosa in comune coi gitani. Ciò nonostante lei aveva qualcosa in più di loro, qualcosa di grande e potente. Una difesa, più che un'arma. Le avevano insegnato una maschera, quella di tutti loro, non solo dei ricchi, quella di tutti i francesi: l'odio. L'odio per il diverso, l'odio per il sospettato, l'odio per lo sconosciuto.

Tutto questo Clopin osservò e meditò, mentre la nuova borghese si confondeva con la città.

Lo spettacolino finì.
I bambini risero.
Forse, tornando a casa, avrebbero raccontato la storia ai genitori.
Forse ai genitori sarebbe piaciuta.
Almeno finché non avessero saputo che era la storia di un gitano.













Spazio autrice:
Il mio primo progetto e mi butto su una long-fic. Devo essere matta.
Comunque, non so se ce la farò, io ci provo, avverto che non ho tempi brevi (affatto).
Questo era un capitolo via-di-mezzo tra prologo e capitolo I.
E' molto introspettivo, non ci sono dialoghi, ma ci saranno, niente paura ;)
E' pure cortino, lo so, in compenso ogni sillaba è stata misurata col contagocce, insomma, ci ho messo impegno. Poi se è uscita una cavolata ditemelo voi, però ditemelo.
Lodi, critiche e insulti sono ben accetti! ^.^

 

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Capitolo 2
*** Sobbalzi ***


La ragazza aprì gli occhi. Cosciente di essere sveglia si rigirò sotto le coperte nel tentativo di riaddormentarsi. Niente da fare, ormai la dolce dimensione del sogno, coronata di morbidi cuscini e calde coperte, era perduta, perciò con un enorme sforzo si mise a sedere sul letto, riempendo i polmoni di quanta più aria poté, come se tornasse da una lunga apnea. Era sveglia; a destra, dalle imposte chiuse filtravano nastri di luce che illuminavano la camera quanto bastava per distinguere gli oggetti, nel cupo colore ambrato che pervadeva l'ambiente.
Si alzò e andò ad aprire le imposte. La stanza in un attimo venne invasa da un'intensa luce e il vociare della strada le riempì le orecchie assonnate.
Parigi. La Città, la megalopoli. Era un sogno, o almeno avrebbe dovuto esserlo. Ci provava, ad essere felice, ma non era nemmeno un po' contenta. Le mancava casa sua. Le mancava il suo mare.

-Perché nessuno mi ha svegliata?
Doveva essere molto tardi. Decise di vestirsi subito e raccolse i lunghi capelli alla meglio: forse era ancora in tempo per avere qualcosa per colazione. Si precipitò per le scale e arrivò finalmente nelle cucine, ma erano deserte. Restò un attimo interdetta, ma subito il suo stomaco la riportò a problemi molto più concreti. Addentò una mela, appoggiandosi al muro, non c'era nessuno per dirle di doversi sedere. Già, nessuno... perché le cucine erano vuote? Tutti i servitori erano scomparsi.
-Cécile! Dove sei?
Qualcuno la chiamava, sottraendola ai suoi pensieri.
-Hé, pinson!
Era Emile! Nessun altro poteva chiamarla in quel modo, pinson, fringuello! Gliel'aveva dato lui quel buffo soprannome: da piccola cantava sempre, il nomignolo venne da sé.
-Arrivo!

Emile era figlio del compagno d'affari di suo padre, quando si conobbero l'uno era un ragazzo e l'altra una bambina. Cécile era sempre stata una personcina schiva, ma Emile la prese subito in simpatia. Diventarono presto amici, ora erano come fratelli. Con lui Cécile si permetteva di fare qualsiasi cosa. Per lei era molto più di un amico: era un confidente, era l'aiuto negli studi, era la sua voce al bancone del negozio, era la spalla che la portava quand'era stanca, era il suo scudo dagli altri bambini, era la sua guida in posti sconosciuti, era il compagno di giochi e di avventure.

-Eccoti! Dov'eri finita?
-A fare colazione.- rispose ancora masticando l'ultimo boccone. Emile la guardò stupito, era piuttosto tardi, ma Cécile tirò fuori un biscotto alle mandorle rubato da un vassoio lasciato incustodito e glielo offrì con un sorriso. E come avrebbe potuto rifiutare? Questo bastò per fargli cambiare argomento: -Ascolta, io e mio padre stiamo andando al mercato a vendere. Ti va di venire? Magari un faccino come il tuo attirerà i clienti...- ammiccò scherzando. Cécile rispose con una smorfia a quella provocazione, ma acconsentì. Dopotutto fare un giro per la città le avrebbe fatto bene. Avrebbe provato a farsela piacere almeno un po'.

-o-0*§*0-o-

Intanto Clopin era di nuovo in piazza, come la mattina prima e quella prima ancora, “da tempo immemorabile”, come dicevano i bambini copiando l'espressione che a volte il burattinaio usava nelle sue storie.
Ma la mattina ormai era finita e così anche la favola quotidiana. Sia grandi che piccini correvano a casa per il pranzo. Già... e lui? Avrebbe mangiato qualcosa? Guardò il suo piccolo guadagno: ma sì, forse un pezzo di pane. Preferiva accontentarsi di poco, quando poteva, piuttosto che rubare. Si era dato una sorta di regola: oggi non mangi? Chiedi a qualche compagno. Ieri e oggi non hai mangiato? Non puoi certo morire di fame! Certo, non che fosse sempre ligio a questa norma, ma per sua fortuna era costretto poche volte ad applicarla, riusciva facilmente ad accattivarsi i bambini, come facesse nemmeno lui lo sapeva. Era sé stesso, semplicemente. Forse era nato per quello, per essere un buffone, un acrobata, un giullare. Credeva che ci fosse un motivo a questo, come per tutto il resto; aveva elaborato una sorta di “teoria sulla sua vita”, come la chiamava lui segretamente, ma non l'aveva mai svelata a nessuno. Strano talento, il suo, e poco redditizio per giunta, ma era tra i pochi che aveva e doveva tenerselo stretto.
Si incamminò per le vie della Cité, tra gli sguardi diffidenti della gente. Ormai non ci faceva più caso, d'altronde se era condannato a essere visto così per tutta la vita non poteva fare altro che accettare e ignorare. Camminava alla sua maniera baldanzosa, a testa alta, guardando in giro e soprattutto in alto, dove si scorgevano sempre i due campanili, che come due occhi grandi vegliavano su Parigi, giudici. Giunto in piazza, Clopin li salutò con lo sguardo.
Poi si fermò. Solo per un attimo, a guardare.

La ragazza.
L'uccello in gabbia.
Non gliel'aveva data a vinta a Notre-Dame, la testarda. Era là di fronte a lei, a fissarla, la ragazza la cattedrale, la cattedrale la ragazza.

Quella cosina minuscola pensava ancora di catturare Notre-Dame, tentava nuovamente di ghermirla tutta con uno sguardo, e farla sua. Per poi probabilmente appiattirla, come d'altronde aveva già fatto con tutto il resto. Aveva dichiarato guerra alla cattedrale: chi prende per prima l'altra. Clopin sorrise divertito. Che sfida impari.
Si diresse verso di lei, curioso, deciso e stranamente ingenuo. Quando le fu abbastanza vicino e le disse pacato: -E' bellissima; non è vero?-
La ragazza non si era minimamente accorta di avere qualcuno alle spalle, si voltò di scatto e rimase qualche istante in bilico tra la sorpresa e la rabbia; poi sbottò, rispondendo più per lo spavento che per l'ira: -Sporco zingaro, vai via! Cosa vuoi da me? Vuoi derubarmi? Vattene, o... chiamerò le guardie!-
Clopin restò sbigottito da quella scena. Lui, che aveva pronunciato solo una frase innocua, venire ora trattato come un ladro! Restò immobile a guardare come se ciò a cui aveva appena assistito riguardasse un'altra persona, talmente ne era allibito, con la gente attorno che iniziava a guardarlo in malo modo e la ragazza anche peggio, se possibile. In quel mentre intervenne un uomo giovane, attirato dal trambusto: -Va tutto bene, pinson? Qualcuno ti ha dato fastidio?- aggiunse indirizzandogli uno sguardo di fuoco. -No, Emile. E' tutto a posto ora- Rispose lei, vedendo lo zingaro retrocedere.
Questo, arrivato a debita distanza, si toccò il cappello in segno di saluto, si girò lentamente e se ne andò con un sorriso amaro. Sarebbe andato a cercare il pranzo altrove.

Camminava e pensava. Non gli era mai successo. Mai, in tutta la sua vita. Certo che l'avevano trattato male, ogni giorno! Ma lo sapeva. Sapeva cosa sarebbe accaduto per un suo gesto, cosa la sua presenza avrebbe scatenato. Se agiva, prevedeva le reazioni; se parlava, conosceva le risposte. Lo sapeva, accidenti! L'aveva sempre saputo! Non era forse lui quello che conosceva gli altri? Lui, l'indovino dei caratteri? Colui che meglio canzonava la gente? E ora, cos'era appena successo? Stava forse -oh, no- invecchiando?
A un tratto, l'odore del pane appena sfornato scacciò quei pensieri.

-Una bella baguette, la più grossa che avete!
Quanto avrebbe voluto pronunciarle lui quelle parole! E invece erano del signore davanti, in fila per il panaio, che rise:- Ah! Per un occasione speciale, forse? Sei fiorini neri1!- Il cliente pagò e se ne andò. Quando Clopin apparve al panettiere, venne intimato a fare un paio di passi indietro, giusto per non rischiare che rubacchiasse qualcosa, prima che facesse la sua richiesta: -Una baguette!- Ordinò Clopin compiaciuto.
-Otto fiorini neri- si sentì rispondere
-Come? Ma il signore...-
-Otto fiorini neri ho detto! Non uno di meno.-
Clopin si indignò e protestò, ma poi sbuffando diede quanto richiesto (aggiungendo però di nascosto un pasticcino alla baguette...).

Quando finalmente Clopin si fermò per mangiare il suo sudato pranzo (e l'amato pasticcino), non poté fare a meno di tornare col pensiero a quanto era accaduto con la borghese. Come aveva potuto essere così stupido? Doveva intuire cosa sarebbe successo, doveva prevedere ciò che gli avrebbe detto. Perché le si era avvicinato? E, soprattutto, perché gli stava importando tanto, ora?
Continuava a porsi interrogativi su interrogativi, senza saper dare una risposta nemmeno a uno di loro. Clopin non lo sapeva, non lo sapeva proprio. Semplicemente, in quel momento, avvicinarsi a lei e parlarle era naturale, istintivo, facile. Non si era nemmeno chiesto perché lo stesse facendo e come.
Forse credeva di dare un senso a qualcosa. Forse voleva “salvarla” da Notre-Dame (o salvare Notre-Dame da lei?).
Oppure era semplicemente impazzito.

Pensò che la ragazza avesse pronunciato quelle parole in un modo spaventosamente automatico, come se gli stesse... sparando. Mentre il copione della scena di cui era stato occasionalmente attore veniva replicato nella sua mente, s'inceppò in una frase: era di quell'uomo giovane entrato in scena verso la fine dell'atto (primo e ultimo, scena unica), cos'aveva detto? “Va tutto bene, pinson?”. Evidentemente non era l'unico a paragonare la ragazza a un uccellino! Ma fringuello era esagerato, quello non era un fringuello, quello era un... un barbagianni, ecco, uno chat-huant!
-D'ora in poi le starò alla larga. Non è bene stare troppo vicino ai barbagianni.

-o-0*§*0-o-

-Cécile, sei sicura che va tutto bene?
-Te lo ripeto: sto bene! Smettila di preoccuparti, non mi ha nemmeno sfiorata.
-Allora va bene.
Emile fece una pausa e poi un lungo sospiro. Come poteva dirglielo? A lei, una ragazzina, dirle... non ce l'avrebbe mai fatta. “Fallo e basta” si disse “senza pensare”.
-Senti Cécile...
-Ancora! E' tutto a posto. Va. Tutto. Bene! E ora piantala!
“No, pinson, non va tutto bene...” Ormai era andata, non poteva tirarsi indietro.
-Non è questo.
-E allora?
-Devo dirti una cosa.
Si sedettero su due sgabelli. Era meglio stare seduti, non si poteva mai sapere.
Prese fiato e continuò.
-Tua madre... stamattina... la servitù non c'era.
-L'ho notato. Ma che c'entra mia madre?- lo interruppe.
-Sta male. Non la servitù. Tua madre, dico.
Cécile sbiancò. Si preoccupava sempre per i suoi, soprattutto per lei. Soprattutto ora.
-Lei... ha... il suo bambino?
-Non lo sappiamo ancora. Léa e Clothilde l'hanno assistita, ma non mi hanno detto niente. Basile è andato subito dallo speziale e Mathilde era al mercato, non sapeva nulla.

La madre di Cècile, Hélène, era incinta, ma, benché prossima al parto, aveva voluto accompagnare il marito in quel viaggio. La figlia e il consorte non erano riusciti a persuaderla.

Cécile si alzò di scatto, portandosi una mano alla fronte per il repentino sbalzo di pressione, poi si incamminò verso il palazzo, ma presto si accorse di stare correndo. In lontananza sentiva Emile richiamarla, ma era inutile. I suoi piedi correvano veloci, autonomi, sganciati da qualsiasi volontà. “Stupido Emile! Stupido, stupido Emile!” Ora capiva perché le aveva chiesto di uscire di casa, voleva tenerla lontana da lì e non le aveva detto niente, niente!
Di colpo si fermò, aveva mancato la svolta. Tornò indietro, sempre correndo, e la imboccò per arrivare infine nel cortile.
-Madre!- gridò.
Risalì le scale.
-Madre!-
Entrò nella camera col fiatone.
-Madre...-
Hélène era seduta sul letto e la guardava.
-Ma Cécile! Sei tutta rossa! E guarda i tuoi capelli... oh, ma sei così spettinata.-
Non sembrava stare tanto male. A quanto pareva la peggio messa tra le due era Cécile.
-Maman, cos'è successo? Stai bene? Emile mi ha detto...-
-Oh, quell'uomo. Esagera sempre! Gli avevo detto di non dirti niente, ma non mi dà mai retta.- Sorrise.
Cécile le si avvicinò per abbracciarla: -Ero così in pensiero... pensavo che il bambino... ecco...-
-Oh, figlia mia, il bimbo sta bene. Non preoccuparti.-

-Ma insomma Cécile! Sei tutta sudata!-











Note:
[1] Inizialmente avevo intenzione di inserire il ducato (quindi soldi e denari come sottomultipli), ma riguardando il film ho visto che nominavano il fiorino. Insomma, il fiorino nero è il fiorino di rame (che col tempo anneriva, da qui il nome) ed equivale a 1/12 del fiorino d'argento e 1/240 del fiorino d'oro (fonte: wikipedia). Ho immaginato che il pane non dovesse costare molto.


Spazio autrice:
Come avrete notato è sempre più introspettivo, forse troppo (?), spero solo di non avervi annoiato! Perché in tal caso ne soffrirei molto, per voi, s'intende.
Volevo pubblicarlo un po' prima, ma ci ho impiegato una settimana a scriverlo e quattro giorni a revisionarlo (la revisione è importante per me).
"Capitolo breve!" Lo so, lo so. Non sono capace a farne di lunghi. E ho scoperto anche che i dialoghi non sono il mio forte.
Detto questo, non avete idea di quello che sono andata a cercare sul contesto storico! Ho scandagliato mezza wikipedia e un quarto di Internet. Ho trovato cose moolto interessanti, tra queste una ricostruzione 3D della Parigi medievale. Sono rimasta a bocca aperta tre giorni, forse a voi non colpirà più di tanto, ma io l'ho adorata follemente dal primo istante. Se vi interessa, qui c'è l'indirizzo (spero):
http://www.foliamagazine.it/parigi-nel-medioevo/
Mi auguro che vi sia piaciuto almeno un po', se avete domande, dubbi o perplessità e ancor meglio critiche, positive o negative, recensite!
A presto!

P.S.:
Un'altra cosa *parla sottovoce* sto provando a fare degli schizzi su Cécile e Clopin... se volete posso metterli, o almeno tentare... non sono un mago col computer.

 

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Capitolo 3
*** Querce antiche e querce nuove ***


Era sera.
Il buio si insinuava tra le vie di Parigi come fa l' acqua nei canali dischiusi, buio dal quale la gente sembrava scappare, tanto velocemente rientrava nelle case. Le strade erano tanto più deserte quanto più erano in periferia e, in una di queste, un rumore felpato di passi. Sotto le scarpe a punta solo qualche sasso del selciato dissestato poteva tradire la presenza di un'anima a percorrerlo.
Clopin camminava solo, immerso nei suoi pensieri, che di tanto in tanto si soffermavano sulla sua casa e gli acceleravano il passo. Pensava alla giornata, pensava ai bambini, compiacendosi della loro ammirazione. Pensava anche, di tanto in tanto e con rabbia, a quella ragazzina, ma subito questo pensiero lasciava posto a quello della sua Esmeralda, della sua famiglia, e desiderava che il vento lo potesse prendere e trasportare da loro in un istante, come fa con le foglie in autunno, anziché abbattersi su di lui come è solito fare con gli alberi. Camminava e camminava, lasciando che i piedi soltanto ricordassero la strada che lo avrebbe portato a casa.

Arrivò alla corte infreddolito e un po' stanco, fra tutti trovò Esmeralda ad accoglierlo, come sempre.
-Ehilà, Clopin!- gridò, gettandogli le braccia al collo.
-Ehi! Piano...-rise Clopin.
-Allora, com'è andata?-
Clopin sospirò: -Bene...-
Lei abbandonò il riso, gli prese il viso tra le mani e, guardandolo negli occhi, chiese: -Che c'è? Qualcosa non va?-
“Non le può proprio sfuggire nulla” pensò Clopin; tentò di distogliere lo sguardo, ma non si poteva scappare da quei magnetici occhi verdi, così grandi, così belli.
-Allora?
-Esmeralda, tu... mi trovi vecchio?
La ragazza si fermò a guardarlo qualche istante, per poi scoppiare in una risata di quelle che faceva lei, gettando la testa all'indietro: -Vecchio?! Più vecchio della quercia più vecchia di tutta la Francia, ci puoi giurare!- Disse abbassandogli con un gesto la tesa del cappello.
Era così, a stare sempre col buffone di corte aveva imparato a scherzare anche lei; in realtà Esmeralda aveva capito che in fondo qualcosa non andava, ma aveva deciso di lasciar perdere e buttarla sul ridere, certi argomenti non si possono affrontare stanchi... e certo non prima di cena!
-Forza, vai a cambiarti. I bambini aspettano la favola della buonanotte.
Clopin fece come gli era stato suggerito e, dopo aver cenato, prese petit-Clopin per dirigersi verso il centro della corte, dove i bambini ancora non ne volevano saperne di andare a dormire. In poco tempo si era radunata attorno a Clopin una piccola folla di piccoli spettatori impazienti e rumorosi, che si calmarono poco a poco quando la vecchia favola de “La quercia e la canna” iniziò. Era così tanto tempo che il burattinaio non la raccontava che tanti neppure la ricordavano.
-...E infine la quercia gridò: “Preferisco allora la morte a una vita miserabile!” mentre veniva trascinata via dalla corrente...
Clopin aveva appena finito di pronunciare la conclusione che già i pargoli iniziavano a gridare, reclamando un'altra storia, ben sapendo che non l'avrebbero avuta. Difatti non l'ebbero, perciò Clopin poté finalmente dire conclusa la sua giornata.
Tornò nella propria tenda, trovandola però già occupata da Esmeralda, intenta a giocare con Djali, la fedele capretta. Erano così in sintonia che si sarebbe detto che fossero l'una parte dell'altra. Clopin interruppe quella scena di giochi: -Esmeralda! Cosa ci fai qui?-
-Volevo incontrarti. Dimmi, cos'è successo?-
-Di che parli?
Lei alzò il sopracciglio, come per dire: “davvero pensi di cavartela così?”
-Sul serio, non so...
-Clopin, insomma, sai che non riesci a mentirmi! Stasera te ne esci con domande strane, sei più triste del solito, racconti ai bimbi una favola che perfino tu avevi dimenticato e per giunta continui a evitarmi! Cosa ti sta turbando?
Clopin rimase qualche istante in silenzio, rigirando tra le mani il suo petit-Clopin, con lo sguardo fisso sui dettagli che lui stesso aveva curato. No, non era il caso di farlo intervenire con qualche simpatica uscita, non quella volta.
-Non lo so, davvero. Insomma, un attimo prima lei era lì e sembrava così... concentrata, ma allo stesso tempo aperta a qualsiasi cosa e poi... poi era una come tutti i francesi.
-Aspetta. Chi? Una francese?
-No! Voglio dire, sì, è francese. In verità non lo so, penso sia francese, sicuramente non è di Parigi, ma... non puoi capire, è strana!
-Ti ha denunciato alle guardie? Sei stato preso, ti hanno fatto qualcosa?- E così parlando cercava di vedere se per caso era ferito, o qualcosa del genere.
-No, calmati, non mi ha fatto niente. E' che...- Fece una pausa e la fissò negli occhi. -Esmeralda, tu sai che io capisco le persone. Sento quando sono tristi, allegre, preoccupate o che so io. Lo so, niente potrebbe farmi vacillare. Ricordi la prima volta che dei bambini ti presero in giro e non mi volevi dire niente? E quando tu e la tua amica rubaste per la prima volta? Vi smascherai in un momento, no? Non so per caso, ogni volta, quello che vogliono da me i bambini? Ma parlando anche di adulti: non riconosco sempre quando alla corte qualcuno ruba una volta di troppo? Non intuisco a prima vista quando un francese è disposto a darci una mano o è terribilmente gretto?
-Certo- lo interruppe lei -E' anche per questo che sei il nostro re.
-E invece no! No, non con lei. Ascoltami bene, Esmeralda, al mondo esistono tanti caratteri ed emozioni diverse e, a ogni persona corrisponde un carattere: semplice e logico. C'è l'avaro, l'iracondo, il pessimista, il solare, il vigliacco e un'infinità di altri. La maggior parte, però, è un miscuglio, spesso complesso, di qualcuna di queste caratteristiche, un po' come le pozioni.- fece una pausa -Tu, per esempio, sei una miscela scoppiettante di generosità, intraprendenza, solarità e un pizzico di impertinenza.
-Ah! Ma guarda un po'... e Djali?
-Ma Djali è una capra!
-Non permetterti sai. Descrivi subito anche lei, ora.
-Mmh... Indovina? Siete identiche.
-Lo sapevo!- La ragazza abbracciò contenta la capra e a vederle sarebbe sembrato che questa rispondesse. Continuò: -Va bene, ma non è questo il punto. Allora, lei com'è?
Clopin sospirò:- Lei è...- ci pensò un po' e poi disse: - Cattiva.
-Come, cattiva?
-Cattiva. Ma non è crudele, né sadica, né altro, forse non si può nemmeno definire “cattiva” in sé... è come se lo fosse diventata, come la pelle cicatrizzata dopo una ferita, che è più spessa e più dura.
-Beh, molte persone cambiano in questo modo, dovresti saperlo.
-Infatti lo so. E' come se fosse stata costretta ad essere così, ma non lo voglia davvero. Voglio dire, l'essere cattiva non le appartiene, ma vuole farlo credere. Io lo vedo, quando pensa che nessun altro la guardi, che lei non è così.
-E com'è, allora?
-Non ne ho la più pallida idea.
Esmeralda scoppiò a ridere.
-Vorresti dire che tu, il re dei Gitani, capace anche di scovare un gufo assonnato, una volpe stupida, un falcone cieco, non riesci a capire una borghesuccia?
-Come fai a sapere che è una borghese?
-Tutti i nobili e borghesi sono crudeli e antipatici, lo sai meglio di me. Quindi, cosa intendi fare con questa ragazzina?
-Credo che le starò alla larga il più possibile.
Esmeralda sgranò gli occhi.
-Che c'è?
-Niente, solo... non mi sarei aspettata un'arresa così in fretta, non da parte tua.
-E che dovrei fare, secondo te?- chiese Clopin leggermente irritato.
-Accetta la sfida. Combatti, sei il re dei Gitani, no?
-E come, di grazia?
-Cercala, spiala.
Clopin sbuffò. -Dimenticavo: sei anche pazza.
-Oh, non farla così lunga! Io ora vado a dormire e lo consiglio anche a te. Buonanotte Clopin.
-Buonanotte. E grazie per avermi ascoltato, se ti va racconterò tutta la faccenda in un altro momento, magari con più calma.
-Figurati. Quando vuoi, io ci sono.
E detto questo Esmeralda fece per uscire dalla tenda, ma arrivata sulla soglia si fermò e chiese da sopra la spalla:- Clopin... di che colore sono i suoi occhi?
-Grigi.
Esmeralda sorrise come chi la sa più lunga e se ne andò, lasciando Clopin spiazzato dalla sua stessa risposta.

 

-o-0*§*0-o-

 

-No! Non voglio metterlo, è troppo... tutto!
-Ma come, Cécile! E' costato una fortuna!
-Io non lo volevo.
-Non fare la bambina, non lo sei. Stasera indosserai quest'abito, volente o nolente!
-Cosa vuoi che gliene importi, a un giudice...- borbottò Cécile.
-Come, scusa?
-Niente.
-Bene, allora. Ti voglio pronta tra un'ora.
Hélène uscì dalla stanza; Cécile si lasciò cadere sul letto con in mano un vestito tutto sbuffi e merletti, faticando a decidersi a indossarlo.
Meno di un'ora dopo scendeva le scale impacchettata in un vestito eccessivo, sotto gli sguardi soddisfatti e divertiti dei genitori e dell'amico. Emile trattenne a stento una risata quando la vide, ma Cécile lo fulminò prontamente con lo sguardo e chiese stizzita:-Quando partiamo?-
-Tra breve, Cécile- rispose Gerome, suo padre.
-Mi sembra inutile dire che io non verrò- intervenne la madre.
-Come?!- sbottò la figlia, ma un secondo dopo realizzò che effettivamente era la decisione più logica e scontata: una donna in quelle condizioni e in casa di un giudice, quel giudice, per giunta. Sarebbe stato strano il contrario, ma, nonostante tutto, Cécile non ci aveva minimamente pensato. Era vero, spesso madre e figlia erano in disaccordo, ma Hélène era sempre stata il suo appoggio e il suo scudo in situazioni pubbliche, nelle quali Cécile si sentiva enormemente a disagio. L' improvviso mancamento di questa sua protezione la gettò subito nello sconforto. Come avrebbe fatto, da sola? Certo, assieme a lei c'erano Emile e i rispettivi padri, ma lei era l'unica ragazza. Da un lato forse questo era un vantaggio, non le avrebbero rivolto molte domande, e lei, d'altronde, si era riproposta di non parlare per tutta la sera per evitare momenti imbarazzanti o uscite fuori luogo.
-Il ministro Frollo è stato molto gentile a invitarci così presto dopo il nostro arrivo, perciò sii cortese e molto rispettosa- disse ancora Gérome. “Che equivale a: rimani zitta, sorridi e annuisci” pensò Cécile. Suo padre non l'aveva mai considerata più di tanto, non sapeva nemmeno se le voleva bene. Forse perché era una femmina, e non un maschio, come egli avrebbe voluto, forse semplicemente non gli piaceva dimostrare il proprio affetto, ma volte credeva che addirittura si dimenticasse di avere una figlia.
Il ministro Frollo era legato da qualche lontanissimo parente acquisito a suo padre, ancora non si era ben capito come, ma a quanto pareva per loro era piuttosto importante se il giudice li degnava di un pranzo nel suo palazzo appena arrivati in città, dove inoltre aveva procurato loro anche l'alloggio e un paio di servitori: Basile e Mathilde .
“E' solo un pranzo” - si ripeteva Cécile - “E' solo un pranzo, rimani in silenzio, assaggia, ma non mangiare troppo” ; sembrava sua madre, non lei, a parlare nella sua testa.
Finalmente partirono. Man mano che il palazzo di giustizia si avvicinava, Cécile era sempre più in ansia, ma quando gli arrivarono davanti le mancò il fiato. Era un palazzo enorme, con una scalinata infinita che avrebbe messo in soggezione il più onesto degli uomini. Si voltò verso Emile, anche lui sembrava colpito dall'imponenza del palazzo.
Scesero dalla vettura, ma... era una macchia viola quella che stava scomparendo dietro all'angolo del palazzo? Cécile accennò qualche passo in quella direzione, fosse stato per lei l'avrebbe inseguita come una bambina, ogni scusa poteva essere buona per scampare ad una situazione del genere.
-Cécile, vieni!- Suo padre la richiamava.
Cécile si morse le labbra e tornò indietro.

 

I soffitti tanto alti da non vederne la fine, i muri grigi e il silenzio che faceva riecheggiare ogni passo non mettevano certo a proprio agio. Per contrasto le venne in mente il suo mare, così diverso, così tanto più accogliente e così lontano da lei.
Dei servitori li accompagnarono nella sala da pranzo dove il tanto sospirato ministro si fece finalmente vedere. Era un uomo alto, accogliente tanto quanto il palazzo, e dimostrava certamente più anni di quanti non ne avesse in realtà, dall'aria severa e... giudice, non si poteva definire altrimenti. Dopo le prime presentazioni, li fece accomodare. Cécile pregò che le portate arrivassero in fretta, odiava i momenti che precedevano il pasto, dove si poteva solo parlare. Per sua fortuna gli uomini iniziarono presto a conversare d'affari e d'economia: campi in cui non è mai richiesto il consulto di una donna. Tuttavia, proprio quando la prima portata era arrivata e Cécile credeva ormai scampato il pericolo, sentì dire con un tono freddo: -Allora, Mademoiselle, come vi sembra Parigi?- Alzò la testa di scatto, era proprio lei che volevano? Era proprio lei che il giudice stava interrogando? Nel parlare del loro ospite c'era una sorta di perentorietà che faceva sembrare la più innocente delle domande un'accusa.

-E'... m-meravigliosa, come città.- rispose incerta.
-Ne siete proprio sicura? Non l'avrei mai detto, queste non sono delle belle giornate per visitarla, avete trovato davvero così piacevole Parigi sotto questo cielo grigio e con questo freddo?- Pareva che si divertisse a metterla in difficoltà, anche se di poco. Cécile non sapeva cosa rispondere, se ci fosse stata sua madre l'avrebbe certamente salvata con qualche battuta simpatica. Ma era sola. Le saltò in mente Notre-Dame, unico ed enorme appiglio: -Il fascino degli antichi palazzi... rimane, nonostante il brutto tempo- Forse stava dicendo qualcosa di sensato? Non avrebbe saputo dirlo in quel momento -Il cielo grigio è un ottimo sfondo per le vecchie architetture- aggiunse.
Frollo la guardò, poi forse accennò un sorriso compiaciuto: -Concordo, il cielo uggioso sa rendere un'atmosfera più interessante. Avete già visitato Notre-Dame?-
-Sì. C-cioè no, l'ho potuta ammirare solo dall'esterno-
-Dovete assolutamente entrarci, è una gioia per gli occhi e per l'anima.-
-Lo farò...-
Quella discussione era durata anche troppo a lungo, voleva troncarla in qualche modo, ma Frollo non le lasciava pace: -E i cittadini, come vi sono sembrati?-
Perché, perché doveva torturarla in quel modo?
-N-non abbiamo avuto molte occasioni per incontrarli.-
-Sappiate che i parigini sanno essere molto ospitali, tuttavia guardatevi bene dagli zingari- disse con con disprezzo -Infestano la città da troppo tempo ormai, ma stiamo cercando di rimediare. Vi hanno creato problemi, fin ora?-
-Uno di loro ieri ha importunato Cécile- si intromise Emile, forse nel tentativo di aiutarla, accollandosi la conversazione, ma Frollo non demordeva e chiese di nuovo alla ragazza: -Ne sono profondamente dispiaciuto. Sapreste per caso descriverlo?-
Ma perché glielo stava chiedendo? -Non saprei... portava una maschera...-
-Certo, il cantastorie- borbottò il ministro -Come vi ho detto, gli zingari sono davvero una gran scocciatura per questa città. Le voci dicono che abbiano persino un covo segreto.-
-Un covo segreto?- disse Emile.
-Sono solo voci, non bisogna dar loro troppo peso.-
-E come avete intenzione di procedere?-
-Al momento stiamo attivando un'azione capillare, ho disposto delle guardie in ogni punto della città, tuttavia non possiamo nulla se gli zingari chiedono asilo nelle chiese.
Emile annuì e suo padre, con grande sollievo di Cécile, sviò la discussione.

 

Il signor Frollo era un maestro nella retorica, era capace di deviare ogni discorso a suo favore, indirizzandolo su argomenti in cui era ferrato. Questi erano principalmente due: l'odio verso gli zingari e tutto ciò che riguardava la cultura, sia che questa riguardasse scritti, opere d'arte o architetture. Frollo era colto, estremamente colto, e teneva a farlo vedere non appena se ne presentava l'occasione.
Cécile l'aveva odiato dal primo istante, dalla prima domanda che le aveva posto, dal primo sguardo che le aveva indirizzato.

Ma poi...
Poi lo ascoltò.

Cécile amava leggere e amava studiare, qualsiasi cosa. Le piaceva imparare cose nuove, lo studio era diventato il suo rifugio da un mondo dove non si sentiva a suo agio.
-Dov'è Cecile?

-In camera sua, a studiare.
Ebbene questo le avevano insegnato, oltre a tutte quelle convinzioni aristocratiche: le avevano insegnato ad apprendere. Per questo quando si trovava fuori, tra la gente, catturava tutto con gli occhi, cercava di capire, di ricordarsi i dettagli, ecco, i dettagli. Proprio come lei, che nella sua famiglia era un dettaglio. Lei i dettagli li catturava per salvarli.

Quello che ora stava imparando da tutto ciò che diceva Monsieur Frollo era più di quanto Cécile potesse desiderare. Pendeva dalle sue labbra sottili, dai suoi occhi piccoli che brillavano sprazzi di lucidità, dalla sua voce grave e calma. Quell'uomo era una quercia secolare, una roccia, forte e sicura. Lo ascoltava parlare di libri, dei Vangeli, di filosofia, delle architetture della città e in ogni cosa egli dimostrava una diligente e minuziosa, dettagliata sapienza, con la quale continuava a incantare Cécile.

 

Tornando a casa, era ormai quasi sera, Cécile non fece che ripensare a Frollo. Non c'era nulla da dire: l'aveva stregata, ammaliata e portata tra i meandri vorticosi della sua sapienza. Forse era un po' presuntuoso nel suo sapere, ma Cécile non aveva mai conosciuto nessuno che gli si potesse paragonare: né la madre, troppo occupata a pensare a sé, alla casa, al bambino -figuriamoci il padre!- né Emile, decisamente più interessato alla caccia che allo studio, né il padre di Emile, la cui unica cultura erano i propri affari.
Si congedò dalla famiglia e si ritirò nella sua camera. Non aveva ancora visto sua madre da quando era tornata, forse si stava riposando, non c'era da stupirsi, d'altronde era “in dolce attesa”. Che termine improprio, quell'attesa non era dolce, era angosciosa.

Per prima cosa si tolse quell'abito assurdo, per quindi indossare una vestaglia da notte. Infine sciolse i lunghi capelli corvini e iniziò a pettinarli, seduta di fronte allo specchio. Si arrestò un attimo per guardarsi: non avrebbe saputo dire se fosse bella o brutta, aveva un viso anonimo, senza strani particolari. Forse solo i suoi occhi grigi facevano eccezione. Erano completamente grigi, senza alcuna sfumatura, chiari.
All'improvviso sentì un forte fracasso, forse era caduta una sedia? Due? O direttamente il tavolo?
Si sporse dall'uscio della sua camera e vide un frenetico viavai di servitori dalla camera di sua madre.
Come?
Dalla camera della madre!
Cécile cercò di fermare Clothilde che passava di fretta, in cerca di informazioni, ma tutto ciò che ottene fu: -Vostra madre sta molto male, ma... sulle sue condizioni non posso ancora dirvi niente con certezza. Mi lasci andare Mademoiselle ...No, non può aiutare. Ma se proprio vuole rendersi utile, preghi, con tutta sé stessa preghi.-









Spazio autrice:
Innanzitutto chiedo venia per il deplorevole ritardo, ultimamente sono molto impegnata con la scuola.
Ebbene rieccomi! Questo capitolo è stato un parto e anche molto travagliato, soprattutto per quanto riguarda la figura di Frollo. Spero che, in ogni caso, vi sia piaciuto, e allora vi invito a recensire, se invece non vi è piaciuto...  recensite lo stesso, grazie :)

Avevo promesso dei disegni... quindi eccoli! Effettivamente sono più degli schizzi qua e là (fatti durante le lezioni) che dei veri e propri disegni.


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Non so se si vedono. Come ho già detto, non sono un mago del computer eheh. Se non si vedono, non so che dirvi, provate ad andare qui: http://i62.tinypic.com/nlv0x5.jpg  e qui: http://i57.tinypic.com/2utgvhu.jpg


No, non mi sono impegnata molto con Cécile, lo ammetto, ma che volete, Clopin è molto più interessante da disegnare... ;)





 

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Capitolo 4
*** Niente da perdere ***


Silenzio.
Regnava nella camera.
Regnava nella testa.
Il silenzio, così imponente nella sua assenza, rendeva tutto vuoto, perfino i pensieri di Cécile. Erano irrotti fuori tutti assieme, come i mali scappati dall'antico vaso di Pandora, rimasto vuoto, e così era rimasta la sua mente. Vuota.
Di tanto in tanto solo le grida che avevano riempito le interminabili ore della notte passata le riecheggiavano nella testa.
Accoccolata dietro al letto tra le coperte cadute, le guance pallide, la gola dolorante per le grida, ora stava lì, con gli occhi rossi e gonfi dal pianto che guardavano il silenzio immobile davanti a sé. Tutto era immobile, tutto pareva essersi fermato, ma Cécile non voleva che tutto si fermasse, voleva che tutto tornasse indietro.
Lei lo sapeva.
Nessuno gliel'aveva detto, ma lo sapeva.
Sua madre era morta. Morta. Forse anche il bambino, chissà. Sì, bambino: era un maschio, il maschio tanto desiderato dal padre e che ora era finalmente arrivato. Arrivato e andato via.
Cécile aveva gridato, oh sì, aveva pianto e urlato come mai aveva fatto. Perché era disperata per la morte della madre, ma soprattutto perché non aveva potuto fare nulla per evitarla; non aveva potuto nemmeno stare accanto a lei, non gliel'avevano permesso. Aveva urlato il suo nome, l'aveva chiamata tutta la notte, ma in risposta aveva ricevuto solo la porta della propria camera chiusa a chiave.
Non c'erano pensieri da pensare e non pensava. E quindi non pensava nemmeno che doveva pensare per riallacciarsi alla realtà, aggrapparsi a qualcosa, concreta o meno che fosse. Chissà per quanto tempo sarebbe rimasta lì, se non fosse stato per l'urlo cacciato da Mathilde, una delle servette di Frollo, entrata per sistemare la stanza.
-S-signorina... perché siete qui?
Che domanda sciocca. E dove doveva essere? Cécile non rispose, non ne valeva la pena.
-Perché non siete con vostro padre?
Suo padre... suo padre, ecco qualcosa che la riportò alla realtà, cos'aveva fatto suo padre nel frattempo? “Nel frattempo”, quanto tempo era passato? Lui, dov'era? Emile dov'era?
Così, come i pensieri erano fuggiti dalla sua mente, ora stavano riaffiorando uno ad uno sotto forma di domande, domande a cui avrebbe tanto voluto dare una risposta. Ma per conoscerla avrebbe dovuto chiedere e la gola le faceva male. Dischiuse le labbra secche fino ad allora incollate e tentò: -Dov'è... mio padre?- la voce non era la sua, era una voce roca, quasi di vecchia, ma almeno il messaggio era passato.
-Non lo sapete?! E' partito! E' tornato a casa!-
Tornato a casa senza di lei. Forse perché aveva lasciato Emile con lei, perché continuasse gli affari? Sì, sicuramente era così.
-Emile dov'è?
-Mi meraviglia che non lo sappiate! E' partito assieme a suo padre ancor prima di Monsieur Gerome.
Ma allora suo padre chi aveva lasciato con lei? Non le veniva in mente nessun altro. Forse era rimasta con i loro servitori Basile e Clothilde? Fece i due nomi a Mathilde, ma ancora una volta le venne risposto che erano partiti.
Dedusse una spaventosa ipotesi, che aveva paura di tradurre in parole, ma doveva farlo. Doveva sapere.
-Sono... sola?

Sembrava che avesse messo in difficoltà Mathilde, la quale non sapeva cosa rispondere, ma arrischiò con un'espressione triste: -Ho paura di sì, Mademoiselle.
Cécile chinò il capo lentamente, esterrefatta. Come avevano potuto? Contava davvero così poco? Anche per Emile, il suo Emile?
-Venga con me in cucina signorina, una tazza di latte caldo le farà bene.
Mathilde non era molto sveglia, ma con le persone ci sapeva fare, infatti confortò Cécile come meglio poté, ma nemmeno lei riusciva a trovare un rimedio a quella strana situazione.
La servetta stette a parlare con la ragazza un paio d'ore, durante le quali cercò di consolarla spiegandole che “il colera è una brutta bestia del diavolo”, che lei “doveva essere forte” e di come suo padre fosse letteralmente scappato in fretta e furia per paura del contagio. Alla fine annunciò che se ne doveva andare, si era fatto tardi, ma sarebbe tornata l'indomani e forse avrebbe portato con sé una soluzione. In breve tempo le fece trovare pronto un pasto, parco, ma pur sempre un pasto. Dopodiché la salutò e la lasciò sola.
Cécile ringraziò Mathilde; le era riconoscente per come stava tentando di aiutarla, ma forse non lo dimostrava abbastanza, lo sgomento la tratteneva. Provò a mangiare quello che le aveva preparato, ma non ci riusciva proprio, perciò lasciò a metà il piatto e andò a letto, cadendo in un lungo sonno profondo.


Al risveglio, ecco che era di nuovo sola. Era buffo e crudele che per quasi tutta la sua vita avesse cercato la solitudine chiudendosi nel suo studio e ora che era davvero sola non volesse altro che i suoi cari accanto a sé. Cécile maledisse il giorno in cui erano partiti per Parigi e contrassegnò quella città come la casa del diavolo. Non potevano restarsene a casa? Perché mai erano partiti? Ah, già, affari con il lontano parente giudice sotto forma di visita di cortesia. Come se nessuno sapesse cosa volessero in realtà, anzi, cosa suo padre volesse: un ricco carico di preziose stoffe da esportare, che significava molti fiorini d'oro da intascare. Chissà se suo padre sarebbe riuscito nel suo intento, se nulla fosse successo. Cécile credeva di no, Monsieur Frollo non sembrava il genere di persona che cedeva facilmente.
Se solo Cécile fosse stata forte come lui, se solo fosse stata anche lei così salda e impassibile avrebbe lasciato ogni disgrazia scivolarle addosso. Ma forse... forse qualcosa poteva davvero fare, prima che tornasse Mathilde. Non conosceva Parigi e non conosceva i parigini, eccetto uno. Era una decisione folle, senza minima certezza di successo, ma doveva tentare. D'altronde, cos'aveva da perdere? Tutto ciò che le era rimasto era la speranza, la stessa che era rimasta sul fondo del vaso di Pandora, dopo che tutti i mali ebbero infestato il mondo. Raccolse tutto il coraggio che le restava e prese il mantello per uscire. Fuori non era ancora buio e lei era diretta al Palazzo di Giustizia.

 

-o-0*§*0-o-

 

Clopin gironzolava da un po', come al solito, ma quel giorno non aveva ancora rubato nulla, stranamente. Alla strana ragazzina viziata quasi non pensava, era preso da ben altro: le guardie di Frollo erano sempre di più e sempre più vigili... ai suoi tempi erano decisamente più licenziose: non ce n'era una che non bevesse in servizio! Eppure anche allora erano al servizio di Frollo... chissà cos'era cambiato.
Era immerso tra questi pensieri quando, passando accanto a un muro che sapeva cingere il cortile di un palazzo, vide uscire una figura dal portone principale. Probabilmente non ci avrebbe nemmeno fatto caso se non fosse andata così di fretta, ma appena ebbe focalizzato meglio la figura si accorse che era lei, quell'antipatica! Gli tornarono in mente le parole di Esmeralda: -Cercala, spiala...- “Ma sì... perché non seguirla, d'altronde non ho importanti affari improrogabili che mi aspettano” pensò ironico “chissà che non ci scappi anche la burla, a quel barbagianni!” e deciso la seguì.
Non passò molto tempo che la ragazza rallentò il passo e ci volle meno di un minuto perché il gitano capisse che non conosceva affatto Parigi, prendeva strade a caso e con tentennamenti: si era persa. Tuttavia continuava a girare, fingendo di guardarsi in giro, troppo orgogliosa per chiedere indicazioni, o solo per mostrare il suo disorientamento. Ma Clopin vedeva, oh!, chiaro come il sole che si era persa.
Se voleva un momento per divertirsi, non poteva sceglierne di più adatti. Iniziò a girarle intorno, ma lei non lo notò. Allora fece di tutto perché si accorgesse che la stava seguendo (tutta quell'ingenuità iniziava a stargli sullo stomaco), ma lei, anche dopo averlo notato, si limitò ad accelerare il passo e, probabilmente spaventata, a prendere vicoli uno dopo l'altro, sempre più freneticamente, finché non incappò in un vicolo buio e desolato.
Allora Clopin rimase stupito. Non si aspettava un affronto diretto -non così- e tuttavia se l'era improvvisamente trovata davanti, con le braccia incrociate sul petto e uno sguardo di fuoco, gli occhi scintillanti di rabbia anche nell'oscurità. L'ennesima sorpresa di quello chat-huant1.
-Cosa volete?- gli chiese acida. Clopin avanzò di un passo prima di rispondere, ma lei prontamente indietreggiò, mantenendo le distanze. Non riusciva a vederlo bene in viso, la tesa del cappello lo nascondeva.
Una smorfia divertita comparve sul volto di lui, che rispose:- Perdonatemi se vi ho spaventata, mademoiselle, ma mi pare che vi siate persa.- Cécile cercò di mascherare la sua sorpresa, ma poi si guardò attorno, facendo scorrere il suo sguardo su quei muri sporchi e grigi, e ribatté con tono duro e pieno d'orgoglio:- Sì, mi sono persa.- Poi lo scrutò meglio e aggiunse -Chi siete?- Clopin si profuse in un esagerato inchino toccandosi il cappello rispondendo:- Monsieur Clopin, per servirvi. E sembra proprio che voi necessitiate un servigio, in questo momento. Permettetemi di indicarvi la strada.-
Ella era al tempo stesso divertita e confusa, forse non più tanto spaventata:- Monsieur, addirittura... ebbene, “Monsieur” zingaro, non mi pare di avere molta scelta. E' chiaro che io mi sia persa e che non sarò in grado di trovare la strada per andare dove devo, né per tornare indietro. Perciò, a malincuore, mi vedo costretta ad accettare una cortesia zingara, sempre che sia ancora valida.
Clopin stette al gioco: -Che formalità, mademoiselle, solo per un sempliciotto zingaro come il sottoscritto...
L' espressione di lei, come il suo tono, si indurì:- Non perché parlo a una persona inferiore io debba abbassarmi al suo livello. Se mi si offre una gentilezza, risponderò a modo. Non sono un'irriconoscente.- Fece una pausa, continuando a guardarlo dall'alto in basso – Tuttavia, se proprio ci tenete, posso fare un'eccezione per voi. Quindi muoviti, zingaro, o si farà buio.- E così dicendo si incamminava verso lo sbocco del vicolo.
-Mademoiselle...
-Cosa, ancora?- chiese lei di scatto, irritata.
-Non vi suggerirei quella strada... se non volete finire nella Senna.
Effettivamente i due muri davano quasi immediatamente sul fiume e gli sbocchi laterali erano vicoli ciechi. La ragazza tornò indietro, a testa bassa.
-Forse mi sarebbe più semplice darvi indicazioni se sapessi dove state andando, non vi pare?
-Devo andare... al Palazzo di Giustizia.
Clopin sgranò gli occhi, forse doveva lasciar perdere tutto, era molto, troppo pericoloso andare fin là, le guardie erano decisamente più fitte, ma non poteva nemmeno lasciare lì la ragazza dopo averle promesso aiuto, poteva essere zingaro, ladro e assassino, ma non era un vile. Cécile notò il suo smarrimento e i pensieri che affollavano il suo sguardo e chiese: -Qualcosa non va? Non potete accompagnarmici?
-N-no...- iniziò, ma lo sconforto immediatamente dipintosi sul viso di lei lo fece continuare: -No, è tutto a posto, vi accompagnerò volentieri.
“No, no, no! Non la accompagni volentieri e non è tutto a posto! Ti prenderanno! Sei uno stupido, perché sei sempre così avventato?” si ripeteva Clopin, ma intanto si era incamminato, mantenendo fede alla sua promessa.
-Dimenticavo- iniziò lei -non posso pagarvi... non subito almeno. Non ho soldi con me.
-Non importa, mi restituirete il favore più avanti...- rispose lui enigmatico.


La ragazza non sembrava averlo riconosciuto, dopotutto si erano visti una volta sola, e restava in silenzio. Un silenzio imbarazzante, che Clopin cercava di colmare, ma ogni domanda si risolveva in un monosillabo.
-Allora... voi non siete di Parigi, vero?- iniziò a dire, guardando incuriosito la ragazza.
-No.- rispose secca.
-Di dove siete allora?- provò Clopin, sperando in una risposta più ampia.
-“Né francese, né bretone, Malouin sono”2- Clopin riconobbe nelle parole della borghese il motto della città di Saint-Malo, una città di mare a est di Parigi, città di corsari e di mercanti3.
-E' una stoffa pregiata quella che indossate, la vostra è forse una famiglia di commercianti?-insistette Clopin, sperando di aver trovato l'argomento giusto per far parlare la ragazza.
Ella annuì con lo sguardo assente.
-Avete fatto bene a rivolgervi a me.- continuò -Conosco ogni vicolo di Parigi meglio delle mie tasche!
-Non sono stata io a rivolgermi a voi.- rispose sbuffando, infastidita dalle pressioni dell'uomo.
-In ogni caso, è stata una vera fortuna che io sia passato di lì.
Silenzio. Se Clopin voleva farla parlare doveva cambiare strategia: doveva parlare di sé, per farle parlare di lei.
-Ho un teatrino, sapete, per spettacoli di marionette. Sono un burattinaio. Beh, in effetti faccio anche altro: canto, suono, faccio spettacolo, sono un saltimbanco! Vi piacciono gli spettacolini?
-No.
-Perché mai?- chiese lui, deluso come un bambino a cui sia stato tolto un dolce.
-Preferisco le opere teatrali. Sono molto più istruttive.
-Capisco... siete una studiosa eh? Sempre sui libri, da sola... suppongo che siate sempre rinchiusa “nella torre più alta del castello” e allontaniate tutti da voi, non è così?- disse lui, scherzando.
Ma quelle parole toccarono Cécile. No, anzi, la ferirono. Quello zingaro nemmeno la conosceva e già aveva capito tutto di lei. -Cosa ne sapete VOI?- Urlò quasi, fermandosi e girandosi di colpo. Era rossa in viso, e gli occhi grigi erano di nuovo accesi di rabbia, ma molto, molto più di prima e per un attimo Clopin ne ebbe paura. -Non sono affari vostri, vi ho chiesto di accompagnarmi al Palazzo di Giustizia, nient'altro!- Cécile si sentiva davvero ferita, ma da sé stessa. Anche uno zingaro aveva capito che persona fosse: una che allontana tutti finché non ne ha bisogno. Solo ora se ne rendeva conto.
Clopin rimase di sasso come al loro primo incontro. Accidenti, quella bimbetta non aveva il minimo senso dell'umorismo! -Mi dispiace, n-non intendevo infastidirla...- Capiva che c'era sotto qualcosa, ma non capiva cosa potesse esserci di tanto spaventoso da non stare allo scherzo.


Erano giunti intanto al Pont au Changes, Clopin aveva scelto quella strada perché sbucava proprio davanti al Palais de la Cité. Il ponte era gremito di gente che cercava di passare, stipata tra una sponda e l'altra dove sorgevano piccole abitazioni dai tetti spioventi. L'unico loro decoro erano le travi scure che sostenevano i muri giallini e i pochi fiori alle finestre. Da lassù proveniva un forte vociare di donne affacciate che richiamavano i passanti, o i propri figli. In poche parole, il caos pervadeva quella strada.

Dopo un po' il gitano continuò:- Come mai vi interessa il Palazzo di Giustizia? Molti uomini non avrebbero il coraggio nemmeno di avvicinarvisi.
La ragazza esitò un po' prima di rispondere:- Devo incontrare il giudice.
-Avete compiuto un reato?- Chiese egli perplesso.
-No!- rispose lei, quasi offesa.
-Ma perché allora?- Continuò, sempre più curioso
-Devo chiedergli un grosso favore.- Rispose la ragazza senza fare una piega.
Clopin invece scoppiò in una grassa risata “Al giudice! ...Un grosso favore! ... A Frollo! Ma chi si crede di essere?” pensava divertito.
-Posso sapere perché vi fa tanto ridere?
-Un favore... a Frollo! Ah! Ma lo conoscete, voi, il giudice di Parigi?
-Di persona.
-Allora dovete essere matta. Frollo non concede favori nemmeno a sé stesso, figuriamoci a una ragazzina come lei!
-Non permetto che mi si dia della matta, o della ragazzina. So bene a cosa vado incontro.
Tuttavia... si dà il caso che non abbia niente da perdere.
-Avete la vostra vita!
Lei rispose serissima: -Forse nemmeno quella.

Dopo quella risposta, Clopin rimase in silenzio. Era una cosa terribile quella che si era appena sentito dire. Non era mai stato un uomo compassionevole e aveva sempre detestato il vittimismo, ma cosa ci poteva essere di tanto spaventoso da farsi scoraggiare in quel modo? Solitamente erano loro, i gitani, coloro che “non avevano niente da perdere”: non una casa, non dei beni, solo la famiglia e i vari monili d'oro. La ragazza non sembrava il tipo che si getta di pancia nelle situazioni e nemmeno un'amante del rischio, perciò poteva solo immaginare quanto potesse essere disperata per dire di non avere niente. Bastava pensare che la sua ultima speranza era Frollo!
E mentre rifletteva tutto questo Clopin scorse con la coda dell'occhio una sottile lacrima attraversare la guancia candida della fanciulla.


Alla fine del ponte Clopin si arrestò: all'angolo c'era la prima di una lunga serie di guardie, proseguire sarebbe stato davvero troppo rischioso per lui.
-Io devo fermarmi qui, ma, vedete, il Palazzo di Giustizia è proprio lì di fronte.- disse indicando il palazzo austero ed enorme che si ergeva di fronte a loro.
La ragazza fu scossa da un brivido, che il gitano fece finta di non notare.
-Grazie- iniziò Cécile - vi devo un favore.- Poi si voltò e fece per andarsene, ma Clopin la chiamò: -Aspettate! Qual'è il vostro nome?
Lei si girò a malapena e rispose: -Cécile- guardandolo coi suoi occhi grigi, spenti e con un'espressione che ancora una volta Clopin non seppe decifrare.
-Arrivederci, chat-huant!-
La ragazza restò indispettita di fronte a quel nomignolo, ma davanti al sorriso bonario dello zingaro lasciò perdere. E se ne andò così, senza voltarsi indietro, senza niente da perdere.
Ma Clopin sapeva.
Si sarebbero rivisti.

 

-o-0*§*0-o-


Le era bastato dire chi fosse per far sì che le guardie la facessero passare e ora procedeva per i lunghi e tetri corridoi del Palazzo accompagnata da una di loro, fino a giungere nello studio del giudice. La guardia bussò e il giudice li invitò ad entrare, restando seduto alla scrivania con il capo chinato su alcune carte.
-Giudice Frollo, c'è una ragazza, dice di essere una sua parente.
Il giudice incuriosito alzò lo sguardo e la vide, in piedi dietro la guardia, seria, forse con un velo di tristezza sul viso, ma niente traspariva di più della sua determinazione, in quel momento, e del suo timore. L'ultima volta che l'aveva vista era stata alla cena d'affari organizzata dal nipote della sorella di suo nonno, ovvero il padre della ragazza in questione, e ne era rimasto, in realtà, sinceramente colpito. Non era una ragazza frivola o superficiale, come sapeva essere molte della sua età, anzi, la profondità delle sue idee lo aveva stupito.
-Falla entrare- ordinò, alzandosi. La ragazza avanzò fino a trovarsi di fronte a lui, abbassando lo sguardo. Il giudice congedò la guardia e rimasero soli: -Cosa vi porta qui, mademoiselle Cécile?- chiese -Ho saputo che vostro padre è fuggito in fretta e furia da Parigi. Nemmeno si è degnato di salutarmi... ha forse mandato voi in sua discolpa?-
Cécile era enormemente intimorita da Frollo, ma al tempo stesso consapevole che quella che stava vivendo era la sua unica possibilità e che doveva giocarsela al meglio.
-No... no, in verità. Mio padre è fuggito per paura del contagio.
-Contagio? Di cosa? Non mi pare che ci siano particolari epidemie in questo momento a Parigi- chiese Frollo, perplesso.
-Colera. Mia madre è deceduta questa notte.
A Cècile parve di vedere cambiare l'espressione del giudice, ma non seppe dire se fosse stupore, tristezza o compassione quella che gli si era dipinta sul viso. In ogni caso fu un attimo, e subito si ricompose la solita espressione severa. Si risedette alla scrivania e invitò Cécile a fare lo stesso: -Raccontatemi.- disse.
Allora Cécile iniziò a mettere in fila una parola dopo l'altra e a raccontare tutto, dal viaggio verso Parigi a quando si era svegliata quella mattina, tutto con un ordine e una precisione che stupirono entrambi. Fu un enorme sforzo per lei mettere da parte la confusione che ancora la scuoteva, tralasciò ogni emozione, ogni pensiero e fece trasparire solo i fatti, ben sapendo che solo a quelli Frollo dava credito. Quando ebbe finito, un enorme groppo le stringeva la gola, sembrava quasi che la dovesse strozzare, ma non pianse, quello no, non versò una lacrima.
Alla fine del racconto Frollo rimase in silenzio per alcuni interminabili istanti, dopodiché si alzò, si diresse verso una credenza che stava in un angolo per versare dell'acqua in un bicchiere. Bevve. Si risedette e dopo alcuni minuti finalmente parlò: -Perché siete qui, mademoiselle Cécile? Cosa ho a che fare io con tutta questa storia?-
Cécile era imbarazzata di fronte a quella domanda, ora doveva fare la sua richiesta:- Io sono sola, come ho detto, non ho niente e voi siete il mio unico parente... Io... io vi sto chiedendo di ospitarmi-
Frollo sbiancò. “Con quale coraggio questa ragazzina chiede ospitalità all'uomo più temuto di tutta Parigi?” pensava. Lui, con una bimbetta in casa? No, non se ne parlava. Come avrebbe fatto? Cosa ne avrebbe pensato la gente?
-Non sarebbe per molto- continuò timidamente Cécile -me ne andrei appena finito l'inverno.
Frollo rispose austero: -Non posso, sono desolato. Comprendo la vostra condizione, ma ho una posizione da mantenere e in un momento delicato come questo...
-Vi prego- lo interruppe -Non vi darò fastidio.
-Vi ripeto che non è possibile, non ho intenzione di cambiare la mia idea.
-Ma io posso rendermi utile!
-Ho già abbastanza guardie e servitori ad assistermi, l'unica cosa di che proprio non mi manca è un altro intruso in casa mia.
-Posso aiutare, vi dico, davvero! Posso controllare carte... e sbrigare faccende burocratiche, ne sono in grado!
-Cécile!- gridò lui, alzandosi. Si diresse poi verso l'alta finestra e indicando fuori continuò: -Cosa credi che penserebbe la gente, Cécile? Cosa direbbero di me?
-Ma...
-Vi ho già dato la mia risposta!
-Io sono vostra cugina!- gridò lei, alzandosi a sua volta - Come potete negarmi aiuto? Cosa penserebbero, piuttosto, di un ministro che nega ospitalità alla propria cugina in difficoltà? Cosa ne ricaverebbe la vostra posizione?
Frollo guardò fuori, interdetto, le cime degli alberi si chinavano sotto il vento gelido e tra i tetti delle case poteva scorgere le torri di Notre-Dame veglianti sulla città, ma in quel momento sembravano guardare proprio lui. Nel frattempo lei gli si mise davanti e gli disse, con parole ferme e guardandolo fisso con occhi che bruciavano: -Nelle nostre vene scorre lo stesso sangue.
Frollo sospirò, vinto da quegli occhi, e senza guardarla borbottava: -Solo un inverno. E dovrai prestarmi aiuto quando te lo chiederò.- Ma Cécile non lo ascoltava già più, si profuse in ringraziamenti di ogni sorta e continuava a promettere che si sarebbe resa utile in ogni modo.

Quando Frollo chiamò Mathilde perché desse una camera a Cécile, la servetta rimase di sasso, ma subito si sciolse in un enorme sorriso dando il suo più caloroso benvenuto alla nuova arrivata. Anche dopo che l'ebbe accompagnata nella sua stanza non poté trattenersi dal prenderle le mani e dirle, con tutto il più sincero affetto: -Siete davvero una donna forte, mademoiselle.


Note:

[1]: Chat-huant: barbagianni. Ripeterò più volte questo termine nella storia.
[2]: Da Wikipedia: Motto locale di Saint-Malo: "Né francese, né bretone, Malouin sono" (origine incerta, probabile riferimento alla repubblica malouine del 1590-1594); "Prima Malouin, dopo bretone, francese se ne resta" (versione attuale).
Sì, lo so, è datato 1590, ma se permettete chissenefrega, era funzionale al dialogo.

[3]:
Sempre Wikipedia dice che Saint-Malo era città di corsari, i mercanti li ho aggiunti io perché sono generosa. Ah, e perché mi serviva.


Spazio autrice:
Sono ancora viva, niente paura. Lo so, sono in un ritardo deplorevole -di nuovo- ma ho deciso che "in ritardo" è ogni quanto pubblicherò capitoli.
Bene, qualche scusa e precisazione: ho deciso che inserirò necessariamente degli elementi leggermente anacronistici perché è molto difficile reperire informazioni su quel periodo storico così come far combaciare tutti i dettagli (ad esempio: in realtà nel Medioevo era pressoché sospesa la rappresentazione di opere teatrali, ripresa solo nel Rinascimento, mentre Cécile dice di averle viste), quindi, per favore, perdonatemi, non sono una storica.
Ho ucciso la madre, avete ragione. Per favore, non uccidete me! Era funzionale al racconto! Sono stata schiavizzata dalla storia! *gesti e tentativi inutili di difesa*
Ringrazio eeenormemente la mia Calmoniglio per i provvidenziali consigli che ho seguito solo a metà. Chiedo perdono! Ma mi sei stata taanto ma tanto preziosa! <3

Piccola novità: su facebook ho aperto una pagina assieme a una mia amica dove pubblichiamo i nostri disegni, per chi fosse interessato si chiama "My world of trifles", è appena nata, quindi non c'è molto materiale, ma crescerà, spero. Dato che in quella pagina mi chiamo Lilo, pensavo -sottolineo pensavo- di cambiare nome anche qui in Lilo o qualcosa di simile, in ogni caso, se cambio nome non spaventatevi! ;)

Spero solo che la storia vi stia piacendo! :) Vi chiedo soltanto di recensire, come sempre. Non abbiate paura di criticarmi, davvero. Se pensate che debba aggiungere, togliere, migliorare qualcosa ditemelo, sono qui per migliorarmi, quindi mi può fare solo piacere! c:


Au revoir, à la prochaine fois!


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Capitolo 5
*** La scienza segreta ***



- N-non deve... prendermi...
Cécile correva per gli interminabili corridoi del Palazzo di Giustizia. O meglio, scappava. Non sapeva da cosa, forse da Frollo, ma non aveva importanza. Doveva solo correre, anche se il fiato le mancava e i piedi erano macigni.
-A-aiuto...- mormorò.

Stava per cedere, quando improvvisamente una porta le parve incredibilmente vicina; quando provò ad aprirla, però, si accorse che poteva essere aperta solo dall'altra parte. Iniziò a battere i pugni sul legno con tutta la sua forza e a gridare aiuto con tutta la sua voce, mentre capiva che stava per essere raggiunta. Non c'erano vie di fuga e Cécile si schiacciò alla porta terrorizzata. Ma fu un attimo che sentì venir meno l'appoggio da sotto di sé e cadde nel vuoto, raggiungendo terra con un tonfo. Qualcuno aveva aperto la porta! Fili d'erba le toccavano la schiena, la porta dava inaspettatamente sull'esterno (c'erano prati attorno al Palazzo?), e sopra al suo viso troneggiava il riso bonario dello zingaro in viola, che rideva ghignando: -De rien, mademoiselle!-. L'aiutò ad alzarsi e, dopo aver richiuso la porta, l'accompagnò verso una via di fuga. Cécile era talmente confusa che poteva dirsi quasi drogata. I contorni di ciò che la circondava erano sfocati, i suoni ovattati, capiva solo di trovarsi in una sorta di campo, fra alberi, prato e cespugli. Tutto ciò che poteva fare era affidarsi, suo malgrado, alla stretta che il gitano aveva attorno al suo braccio. Egli si fermò di scatto, guardando in alto, dove l'aveva portata? Cècile alzò lo sguardo a sua volta. Notre-Dame si ergeva di fronte a lei, nel mezzo di una radura, imponente e accogliente insieme. Egli la spinse ad entrare, e lei entrò da sola.
Tuttavia non fu una chiesa che trovò all'interno, fu una spiaggia; non le fiammelle delle candele a ondeggiare, ma i riflessi del sole sull'acqua; non trovò vetrate, ma il movimento imperterrito della risacca. E davanti a sé non trovò una croce, ma sua madre. Sua madre, immersa nel mare fino ai fianchi, che la chiamava a braccia aperte.
-Cécile!

-Madre...?
-Cécile, vieni!
Cécile si mise a correre, immergendosi nell'acqua, ma il vestito le rendeva difficile l'incedere.
-Madre!
-Cécile, promettimi...
-Cosa, madre?- Sentiva salirle le lacrime agli occhi, mentre cercava di procedere fra le onde.
-...Promettimi che non mi dimenticherai.- Cécile si accorse spaventata che Hélène sprofondava poco a poco nell'acqua.
-Arrivo, madre!
-...Promettimi che sarai sempre tu a scegliere la tua strada.- Aggiunse la donna, mentre l'acqua le arrivava al seno.

-No, aspettami!- Per quanto Cécile si sforzasse, l'acqua sembrava esserle sempre più d'intralcio.
-... Promettimi che sarai felice!- L'acqua le arrivava già alla gola. Ora che Cécile era più vicino notava con orrore che, man mano che la madre sprofondava, una chiazza rossa contaminava l'acqua salata.
-No, no! MADRE!
-Cécile... ti vorrò sempre bene.

-MADRE! Aspetta!- Hélène era scomparsa nell'acqua nell'istante in cui Cécile l'aveva raggiunta e ora la ragazza stringeva tra i pugni un'acqua rossastra che le colorava gli abiti e le mani. Gridò per l'orrore.
-Madre, no! Madre, torna!


-Madre!

Cècile si svegliò gridando, trovando accanto a sé Mathilde che cercava di calmarla, ma era ancora talmente scossa dall'incubo che come primo impulso cercò di allontanarla con gesti convulsi delle mani, ritraendosi verso un angolo del letto. Tuttavia la servetta sembrava capire perfettamente il suo stato d'animo e non si mosse, tentando solo di tranquillizzarla.
Quando, pochi istanti dopo, Cécile si calmò, Mathilde prese un panno imbevuto d'acqua e glielo appoggiò sulla fronte sudata. Non chiese nulla e non commentò, disse solo: -I sogni sono parte di noi, mademoiselle, sia quelli belli che quelli brutti. Sono i messaggi che ci manda il buon Dio, quando vuole aiutarci.- Si zittì, chinando la testa da un lato: -Volete parlarne?- Cécile scosse la testa, il sogno era ancora troppo vicino a lei per rievocarlo. Così Mathilde aiutò la ragazza a vestirsi e la pettinò in silenzio, per poi congedarsi e lasciarla sola.

Cécile si sedette alla finestra, guardando la strada sotto di sé: degli zingari danzavano allegramente, distinguendosi dalla restante massa uniforme dei parigini. Si chiese per quale strano motivo avesse sognato lo zingaro che l'aveva accompagnata al Palazzo. Lo zingaro e il ministro, così diversi, così agli estremi. Chi dei due era nel giusto? La spensieratezza e l'irrequieta vagabondaggine degli zingari o la monotonia e la coscienziosità francese? Frollo aveva già trovato una sua risposta, lui odiava gli zingari, erano il demonio. Cécile scese le scale e lo raggiunse al piano inferiore.
Trovò Frollo nel suo studio, chino sul tavolo ad esaminare delle carte. La stanza, quella stessa in cui la ragazza aveva convinto il giudice a tenerla con sé, era piuttosto larga con un unica grande scrivania al centro che guardava verso l'entrata, mentre le pareti erano coperte da librerie, mensole e canterani. Due alte bifore lasciavano entrare la luce spenta di quella giornata bigia e fronteggiavano un camino acceso. Quasi completamente spoglia di decorazioni, l'unico dipinto della stanza, raffigurante la Maestà in trono, era affisso alla parete a sinistra della scrivania. Cécile bussò alla porta, nonostante fosse aperta. Il giudice la invitò ad entrare senza alzare lo sguardo e le fece cenno di sedersi dall'altra parte della scrivania.
-Sai scrivere e leggere il latino, non è vero Cécile?
-Sì signore, certamente. E conosco anche il grec...
-Ottimo.- La interruppe lui, continuando a far passare lo sguardo da un foglio all'altro. -Qui ci sono alcune lettere, passami quelle sigillate con ceralacca gialla. Alle altre riscrivi se e come ti sembra opportuno. Se ci sono termini o questioni che non capisci, chiedi. E non azzardare le risposte.- concluse, incisivo.
Cécile restò interdetta, sferzata sia dal tono perentorio degli ordini, sia dall'onere di quel compito che le era stato improvvisamente assegnato, ma cercò di non far trasparire la propria titubanza per dimostrare di essere all'altezza del lavoro.
Le lettere erano di ogni tipo: c'erano querele, ringraziamenti, richieste d'aiuto che Cécile analizzava criticamente e su cui spesso chiedeva consiglio. Frollo revisionava ogni operato. Passarono su quel tavolo tutta la mattinata, fino all'ora di pranzo, quando il ministro la invitò a interrompere il lavoro.

Quella routine, nuova a Cècile, si ripeté nei giorni successivi: al mattino controllava la corrispondenza, dopo pranzo si occupava della libreria, enorme, di Frollo. A pranzo e a cena sedevano allo stesso tavolo, ma normalmente non parlavano tra loro.
A ogni modo Cécile non si trovava totalmente a disagio con Frollo, che considerava una sorta di mentore o modello, per cui aveva costantemente il timore di deluderlo, ma lui dal canto suo non le mostrava grandi attenzioni. Era come se fosse tornata al suo studio abituale, solo più isolato e più intenso.

Un pomeriggio ordinava, come al solito, la biblioteca. Cécile amava quell'occupazione, le piaceva stare a contatto con i libri e non ne aveva mai visti tanti tutti insieme, la biblioteca di suo padre non poteva sostenerne il confronto. Quella del ministro ospitava per la maggior parte trattati, giuridici e d'ogni sorta, ma i libri in cui si imbatté quel giorno avevano titoli decisamente più particolari, le copertine più misteriose e, in qualche modo, più intriganti. Cécile lesse: “Le Livre des figures hiéroglyphiques, Le sommaire philosophique1, Donum Dei2, De principiis naturae3...”. Non erano certamente manuali di giurisprudenza, ma trattenne la sua curiosità e non osò aprirli. Poco più avanti, però, sullo scaffale superiore, i titoli, loro malgrado, facevano chiaramente intendere l'argomento di cui trattavano. Cécile li scorse facendo passare la mano quasi tremante sui dorsi delle copertine su cui era inciso: Liber de compositione alchimiae4, Liber de Alchemia5, Speculum Alchimiae6 ed altri simili.
“Alchimia?” pensò Cécile “Cosa ci fanno dei libri di alchimia, qui?”. Dimenticandosi per un istante di dove si trovasse e di cosa stesse facendo ne prese uno in mano e iniziò a sfogliarlo diffidente, ma venne subito attratta da ciò che lesse: davanti ai suoi occhi si figurarono lunghe formule, illustrazioni di ampolle e bestie mitologiche, liquidi dallo strano colore ed enigmatiche figure geometriche. Senza staccare gli occhi dal prezioso libro trovò a tastoni una piccola poltroncina e si mise comoda, completamente immersa in una nuova, misteriosa lettura.

In quel momento il giudice si alzava dalla scrivania. Aveva appena terminato di rispondere a una missiva seccante ed era piuttosto stanco. Gettò un'occhiata fuori: pioveva, la pioggia batteva rumorosamente sui vetri delle bifore. Si voltò d'istinto verso il camino, ipnotizzato dal fuoco che scoppiettava e dalle fiamme che fuggivano veloci e sinuose nella cappa. Il fuoco... il fuoco era l'origine di tutto, la chiave di ogni enigma. Aveva condotto innumerevoli esperimenti su altrettanti minerali e materiali, ma nessuno sembrava resistergli, tutti cedevano, prima o poi, chi in un modo e chi in un altro, ma nessuno rimaneva inalterato dal fuoco. Tutti i libri di alchimia, biologia e filosofia che si era procurato non gli erano ancora serviti a raggiungere il suo scopo, lo stesso che, d'altronde, è perseguito da ogni rispettabile alchimista: ottenere la pietra filosofale. Frollo ne era certo, la pietra doveva essere fuoco puro. “Solo il fuoco resiste al fuoco”, ripeteva tra sé. Di fuoco come lei... come i suoi capelli, neri come la cenere, e la sua pelle, del colore di una pietra scaldata al sole, e come i suoi piedi, che piroettavano veloci come fiammelle. Lo stesso fuoco che gli bruciava dentro vedendola danzare. Scosse la testa, scacciando quei pensieri malsani.
Decise di tornare a dare un'occhiata ai suoi libri, prima di ipotizzare soluzioni inconcludenti.

Girò la maniglia, la porta della biblioteca cigolò flebilmente. Passò qualche momento prima che Frollo sgranasse gli occhi manifestando il suo più sincero stupore, qualche momento in cui cercò di capire se era proprio sua cugina che si trovava davanti, e non una ragazza del popolino ignara di ogni compostezza. Non solo Cécile stava leggendo avidamente i suoi libri senza alcun permesso, stava leggendo i suoi libri -senza alcun permesso- stravaccata su una poltroncina nel più sgraziato dei modi, le gambe scomposte e i piedi ciondoloni nel vuoto. La ragazza, pietrificata, aveva gli occhi spalancati e fissi sul ministro con la toga nera, carichi di paura, a quel punto, di imbarazzo e senso di colpa. Il tempo per entrambi di accorgersi della situazione durò pochi istanti, dopodiché, all'unisono, l'uno abbassò lo sguardo tossicchiando, mentre l'altra si riassettò in fretta alzandosi in piedi e, accorgendosi improvvisamente che forse non era stata una buona idea sfogliare i libri della biblioteca senza permesso, poggiò il volume su un tavolino accanto. Frollo avanzò di pochi passi in sua direzione senza dire una parola -anche perché in realtà non avrebbe saputo cosa dire, ma fece passare quel suo silenzio per magnanimità nel non metterla in ulteriore imbarazzo- fino a raggiungere il tavolo dove era appoggiato il libro. Lo stava per raccogliere e rimettere al suo posto quando gli cadde l'occhio sul titolo: “Liber de Alchemia”.
-
Stavi leggendo questo?- Le chiese stupito.

La ragazza annuì tenendo gli occhi bassi.
-E... ti interessava?

-S-sì...- rispose, incerta se quella fosse la risposta giusta.
Frollo non nascose il suo stupore e rimuginò qualche minuto, passeggiando su e giù per la stanza, sfogliando di tanto in tanto il libro che poco prima aveva in mano Cécile. Poi si arrestò, la guardò aggrottando le ciglia e le disse: -Vieni con me.
Ed ella lo seguì.

Dopo aver percorso scale e corridoi che sembravano interminabili, giunsero a una porticina in legno. Frollo prese una chiave dal mazzo che teneva nella toga e aprì la porta con rumorosi giri di chiavistello. L'uscio si aprì cigolando dopodiché la invitò ad entrare. Si ritrovarono in uno stanzino buio piuttosto polveroso, con un'unica, piccola finestra opaca in alto. Il piccolo spazio era occupato da scaffali pieni di ampolle e pietre dallo strano colore, un tavolo che quasi scompariva sotto grandi manuali aperti e un piccolo fornello, anch'esso sovraccarico di contenitori e prismi in vetro e vari poliedri in legno.
-Dove siamo?- chiese Cécile disorientata.
-Questo, mia cara, è il mio laboratorio.
-Laboratorio?
-Ovviamente. Come puoi notare dai libri nella biblioteca sono un appassionato e, sì, talvolta conduco anche degli esperimenti.
-Voi siete... un alchimista?
Frollo sorrise: -In un certo senso. Diciamo piuttosto che aspiro ad esserlo, ma sono ben lungi dal potermi definire tale.

La ragazza intanto aveva iniziato a gironzolare per lo stanzino, curiosando tra le mensole; -Perché mi avete portata qui?- chiese ad un tratto, prendendo in mano quello che sembrava un rompicapo ad incastro in legno e cercando delicatamente di risolverlo.
-Ebbene, mia cara, ho potuto osservarti, nel breve periodo in cui sei rimasta a Palazzo, e notare che hai un carattere sveglio e un buono spirito di osservazione. Hai voglia di imparare e lo fai in fretta. Di certo in molti aspetti sei ancora inesperta, timorosa, un po' caotica, ma credo di non sbagliarmi se dico che saresti un'ottima allieva e... assistente.
Cécile, che fino a quel momento aveva tenuto gli occhi bassi sul rompicapo per l'imbarazzo, alzò improvvisamente lo sguardo, fissando il cugino con un'espressione interrogativa negli occhi tanto eloquente che non fu necessario per lei chiedere; Frollo stava già riformulando per lei: -Ti inizierò, se lo vorrai, alla “scienza segreta”, ti farò conoscere gli arcani dei grandi predecessori, ti porterò nei luoghi che più ingannano la mente con i loro enigmi e potrai assistermi nei miei esperimenti e nei miei studi.
Cécile era frastornata da quella situazione; da un lato incerta su quello che avrebbe potuto voler dire fare pratiche segrete della scienza proibita ed essere l'assistente del ministro, dall'altro elettrizzata per l'opportunità di imparare qualcosa di nuovo e di esclusivo. Rimase interdetta per un po', fissando nuovamente il rompicapo in legno, poi, come se la risposta venisse proprio da lì, rispose: -Sì. Sì, mi piacerebbe essere la vostra allieva e assistente, ministro Frollo.
-Maestro.
-...Maestro.

Se qualcuno avesse potuto ascoltare quel bizzarro dialogo lo avrebbe sentito risuonare come un giuramento.
Iniziarono subito con le basi della scienza, il “maestro” le presentò dapprima l'utilizzo degli strumenti del mestiere e seguirono immediatamente le prime reazioni chimiche.
Il ministro Frollo aveva un nuovo sguardo nell'osservarla, mentre armeggiava concentrata due soluzioni, e pensava... pensava che quella piccola mente sagace avrebbe potuto essere molto più di una semplice assistente di un alchimista. Pensava che per lei aveva progetti ben più grandi di un laboratorio segreto.








Note:
[1]: Entrambi di Nicolas Flamel.
[2]: di Giorgio Aurach.
[3]: di Tommaso d'Aquino.
[4]: di Roberto di Chester.
[5]: di attribuzione incerta.
[6]: di Ruggero Bacone.


Spazio autrice:

Incredibile ma vero, ho aggiornato! *applausi scroscianti* ... ok, magari niente applausi. Ad un orario indecente, ma ho aggiornato.
Scusate se ci ho messo tanto. Il capitolo è leggermente più corto dei precedenti perché in realtà questo e il prossimo dovevano essere un capitolo unico, ma alla fine sarebbe stato chilometrico e mi avrebbe preso davvero troppo tempo, quindi ho deciso di spezzarlo.
Spero che la storia vi stia piacendo! ^^

Ringrazio di cuore tutti quelli che continuano a recensire, che seguono e che preferiscono! Siete una soddisfazione, gente <3

E ringrazio anche tutti voi, lettori silenziosi, che anche solo leggete.
Se devo essere sincera, non ho la più pallida idea di quando e come arriverà il prossimo capitolo, quindi abbiate pazienza, per favore.
Grazie :)
Al prossimo capitolo!

 

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Capitolo 6
*** Lezioni ***


A Charlotte, per avermi ispirata, aspettata e sopportata
A Sasha, il mio Clopin immaginario, ma in carne ed ossa

 

Erano passati pochi giorni da quando Cécile aveva scoperto il laboratorio del ministro e già tutto attorno a lei le sembrava fosse diventato più bello. Poteva leggere e studiare ciò che voleva quando voleva, senza più limiti, in un palazzo dove si sentiva rispettata, senza più nessuno a brontolare che sarebbe stato meglio per una donna rimanere senza istruzione. Frollo non era di quell'avviso, non con lei almeno, anzi stava volentieri in sua compagnia anche per delle ore, spiegandole nuove nozioni. Cécile non avrebbe potuto dirlo con certezza, ma a volte le sembrava che addirittura il ministro si divertisse a farle lezione. Col passare dei giorni egli aveva sempre più premura che lei imparasse il più possibile sull'alchimia e lei, dal canto suo, era sempre più affascinata da quella materia e dal suo nuovo mentore.
Finché una mattina, senza preavviso, Frollo le chiese di accompagnarlo a Notre-Dame.
-Devo sbrigare delle... uhm, faccende.- spiegò frettolosamente.
Cécile accettò immediatamente, era onorata di quell'invito! Da quando vi si era stabilita non aveva ancora messo piede fuori dal palazzo, un po' d'aria le avrebbe fatto solo bene.

Il ministro preferì arrivare alla cattedrale scortato sulla sua carrozza, nonostante il tragitto fosse breve e Cécile non si stupì più di tanto di fronte a quella scelta: sapeva bene che Frollo godeva di una pessima fama tra il popolo, in particolare il popolino, e più d'uno avrebbe voluto recargli danno, anche se la maggior parte avrebbe avuto terrore delle ripercussioni. Ma con gli zingari, impulsivi e orgogliosi com'erano, non si poteva mai sapere.
La carrozza si fermò proprio di fronte a Notre-Dame, solo pochi passi li separavano dalla scalinata che innalzava di qualche metro la cattedrale, rendendola ancora più maestosa di quanto non fosse già. Cécile si sporse dalla porticina e si appoggiò alla mano del valletto che la invitava a scendere. Appena ebbe posato entrambi i piedi a terra inspirò profondamente, come le mancava la fresca aria invernale! Si guardò intorno: nonostante il freddo la piazza era gremita di gente e bancarelle. Non riusciva a credere che solo pochi giorni prima lei era in quella stessa piazza, in quello stesso punto, con Emile accanto. Poco più alla sua destra vide il teatrino del burattinaio e pregò che egli non si accorgesse di lei o che almeno non dimostrasse in qualche modo di riconoscerla. Fortunatamente, lo zingaro era troppo impegnato a intrattenere il suo piccolo pubblico per prestare attenzione alla folla intorno. Lo spazio di quel carretto sembrava una piccola oasi di calma immersa nel caos cittadino. Cécile sorrise al paragone. Si accorse che Frollo si stava incamminando appena prima che lo perdesse di vista e si affrettò a seguirlo.
La folla si scansava rispettosamente al loro passaggio e mormorava domande indiscrete sull'identità della fanciulla al seguito del ministro, ma non abbastanza mormorate perché Cécile non sentisse.
-Che sia una figlia segreta?
- Non sembra che gli somigli molto...
- Ma dico, te lo vedi il ministro Frollo a sfornare bambini?
Dei risolini si levarono da un gruppo di popolani. Cécile guardò il cugino: non traspariva nulla dal suo viso, forse non sentiva, o forse aveva imparato a ignorare.
- Allora è la moglie.
- Che dici! Lo sapremmo se si fosse sposato.
- E poi non vedete come è giovane?
- Quindi... è l'amante!
Cécile avvampò, abbassando lo sguardo. Quando lo rialzò sul viso dell'uomo accanto a sé neppure allora trovò alcuna traccia di turbamento. Perché non riusciva ad essere come lui?
- Magari gli piacciono giovani...
- Sciocchi che siete! Ma come vi viene in mente?
Altre risa a malapena soffocate scapparono al popolino e gli occhi di Cécile si riempirono di lacrime, che però non versò. Solo ora capiva l'esitazione di Frollo nel prenderla con sé e gli era ancora più grata, per questo.

Finalmente i due arrivarono sul sagrato della chiesa, dove Frollo si fermò a guardare la facciata. Cécile lo imitò: da quella prospettiva la cattedrale sembrava ancora più grande, incombeva su di loro come se minacciasse di crollare da un momento all'altro. Eppure allo stesso tempo chiunque la guardasse aveva la certezza che sarebbe stata lì per sempre, a vegliare su Parigi.
Tutto svaniva su quel sagrato, ogni problema, ogni tristezza, ogni gioia. Qualsiasi sentimento era... inutile, davanti a quella maestosità. "Siamo come formiche al cospetto di Dio" pensò Cécile. Si volse alla piazza dietro di lei, riempita dalla miriade di persone e dal suo irrefrenabile viavai "Siamo come formiche e basta". L'unico punto della piazza che restava isolato, come in una bolla immune al disordine attorno, era sempre il carretto del burattinaio con i suoi bambini. "... E gli zingari sono cicale", concluse nella sua testa.
-Guarda il portale, Cécile. - Frollo interruppe i suoi pensieri -Quello centrale, guardalo bene. Sai dirmi cosa rappresenta?
Cécile fissò l'enorme portale strombato, sul quale erano scolpite decine di persone, molte in fila lungo le cornici, altre giacevano ammassate nelle fasce decorative.
- È il Giudizio Universale- rispose infine -in alto c'è Cristo Giudice, quella è la Madonna, e quello... San Giovanni Battista, credo. Ai loro piedi un angelo e un demone stanno pesando le anime: quelle a destra, in catene, sono i dannati, mentre a sinistra ci sono i beati.
- Esatto - confermò Frollo soddisfatto - Ora guarda più in alto, quella schiera di uomini. Chi rappresentano, a tuo parere?
Cécile fissò la fila di statue per qualche minuto: - Portano tutti la corona... e anche lo scettro. Sono re?
-Sì, mia cara, quella è la Galleria dei Re. Quelle statue raffigurano tutti i sovrani di Giudea.
-Ci guardano... ma non sono molto rassicuranti. Il loro sguardo è spaventoso.
-Non solo ti scrutano, ti giudicano. Come giudicano chiunque voglia entrare qui dentro. - aggiunse indicando il grande portone. -Non proprio invitanti, a dire il vero. - concordò il giudice.
Frollo alzò ancora gli occhi, indietreggiando di un passo per avere una visuale migliore: -Non è l'unica galleria della facciata. Guarda più in alto, la balconata alla base delle due torri. Vedi quelle statue appollaiate sopra le bifore? Costituiscono la Galleria delle Chimere. - tese il braccio a indicarne una in particolare -Quella è Strige. È un...
- Un uccello notturno che si nutre di sangue e carne umana, soprattutto di infanti- continuò Cécile - è un travestimento delle streghe, di notte. - aggiunse timidamente, vergognandosi di aver interrotto il giudice.
Ma Frollo non si offese: - Esattamente- commentò, fiero della sua allieva. Continuò a parlare concitatamente delle statue e dell'architettura, senza accorgersi che ormai l'interesse di Cécile era già volto a qualcos'altro. Si allontanò da lui senza farsi notare, dirigendosi verso il portale di sinistra, attratta dalla statua sulla colonna che divideva i due portoni: la Madonna col bambino. Cécile la rimirò incantata, ammaliata dalla fiera e al contempo dolce maestosità della Vergine, finché il suo sguardo non cadde sul piedistallo, poco più in alto rispetto alla sua testa. Raffigurava tre scene nel giardino dell'Eden: a sinistra la creazione di Eva, a destra la cacciata dal Paradiso e al centro la Tentazione di Adamo. Ma in quella scena c'era qualcosa di decisamente strano, che Cécile non aveva mai visto: il serpente aveva il volto di una donna.
- Cécile!
La ragazza si voltò immediatamente verso il ministro, irritato dalla sua disobbedienza: - Ti stavo parlando! Perché ti sei allontanata?
- Io... ecco... stavo guardando il portale e…
- Non ha importanza. Siamo stati abbastanza qua fuori. Entriamo.
 
Cécile esitò un istante prima di mettere piede per la prima volta nella cattedrale, intimorita da quell'atmosfera. Per certi versi, la cattedrale poteva dirsi addirittura inquietante: le colonne sembravano zampe di enormi elefanti, ogni passo rimbombava sul pavimento e il soffitto era così alto e oscuro da chiedersi se quei muri avessero effettivamente una fine. Ma appena entrò, un penetrante odore di pietra e incenso la avvolse, facendola sentire a suo agio. Cécile seguì i passi di Frollo per tutta la navata, e lo imitò quando, arrivati davanti all'altare, si fece il segno della croce. Solo allora egli parlò: - Mi assenterò per un poco. Tu intanto aspetta qui e prega per l'anima di tua madre - le disse senza alcun tatto. Cécile annuì e fece come le era stato detto, sedendosi in una fra le panche più a destra, mentre dal lato opposto della chiesa il ministro scompariva in una piccola porta quasi nascosta nella parete.
 
La ragazza era inginocchiata sulla panca, a mani giunte e con lo sguardo rivolto all'altare, ma non stava pregando. Osservava incantata le vetrate piene di colori, in netto contrasto con la pietra grigia della chiesa, e assaporava l'odore accogliente dell'incenso in profondi respiri. Con la coda dell'occhio coglieva i pigri movimenti dei frati che percorrevano le navate e ascoltava distrattamente le loro sommesse litanie.
Cécile era totalmente affascinata dalla cattedrale e cercava, anche dall’interno, di poterla racchiudere tutta nel suo sguardo, carpendo ogni singolo dettaglio. Forse fu per questo che, oltre alle maestose colonne e alle vetrate luminose, qualcos’altro si infilò nel suo sguardo, nella coda dell’occhio. Cécile non ne prese subito coscienza, dopotutto era una macchiolina indistinta in quell’ambiente che sembrava fatto di buio e pietra. Se ne accorse solo quando questa sparì. Improvvisamente ebbe la sensazione che mancasse qualcosa, rispetto al primo sguardo che aveva dato alla chiesa, qualcosa si era mosso e non erano stati i lenti frati, non le fiammelle guizzanti, né erano state le candele ad essersi consumate. Si voltò da ogni parte, cercando freneticamente il tassello mancante, ma invano, non riusciva a ritrovarlo. Fermò gli occhi sulle panche davanti a sé, rassegnata. Forse si era soltanto sbagliata. Ma proprio quando aveva abbassato la guardia l’intruso si era nuovamente insinuato nell’angolo del suo sguardo, al limite della sua consapevolezza visiva. Come un bambino che cerca di acchiappare una farfalla e si muove piano per non farla fuggire, Cécile non osò voltarsi nuovamente di scatto, ma, girando lentamente il capo, conservò quella che, più che una figura, era una sensazione nella coda dell’occhio finché non fu completamente sicura di poterla vedere. Volse lo sguardo. Presa. Una macchia viola. Mantellina viola, tunica viola, calzamaglia sporca viola scuro, cappello a tesa larga viola con una piuma… gialla, giustamente.
Non poteva essere che uno zingaro, non poteva essere che quello zingaro. Non la stava guardando. Cécile si avvicinò di soppiatto, cercando di non fare rumore. Aveva la forte impressione che la stesse seguendo -in una città come Parigi erano state fin troppe le coincidenze che li avevano fatti incontrare- ma perché? Perché lei?

 
-o-0*§*0-o-

 

-Già finita, la storiella?
Clopin riconobbe fin dalla prima sillaba di chi fosse la voce che proveniva da dietro le sue spalle.
-Beh, sapete com’è, di questi tempi, con tutte queste guardie in giro, non si fa in tempo a racimolare qualche soldo onesto che ci si ritrova a chiedere asilo nelle chiese. – rispose impassibile voltandosi verso la sua interlocutrice.
-Un povero, onesto zingaro in cerca di un rifugio da inique vessazioni, dunque?
-Proprio così, mademoiselle.
-Ve ne siete trovato uno niente male, vedo.
-Il migliore, mademoiselle.
Clopin era leggermente confuso. Perché gli stava rivolgendo la parola? E dove voleva arrivare, con quel tono? La situazione sembrava paradossale, ma la giovane fugò presto le sue domande.
-Di certo è davvero una curiosa coincidenza incontrarvi qui… di nuovo. - continuò la giovane, pesando sarcasticamente le parole.
-State forse insinuando qualcosa sul mio conto?
-Ne ho motivo?
-A mio parere sembra solo tristemente presuntuoso, da parte vostra, concepire il pensiero che qualcuno perda le proprie giornate a cercare di pedinarvi.
-Bada bene a come parli, zingaro! - la ragazza era visibilmente irritata –Non affidarti troppo alla protezione di questo luogo.
Clopin sospirò: - Se pensate che io vi stia seguendo, mademoiselle, vi sbagliate tremendamente. Ho molto di meglio da fare che andarmi a cercare insulti da una borghesucciola. Tutti i nostri incontri sono stati fortuiti e anche piuttosto spiacevoli, a giudicare dal trattamento che mi riservate. La cattedrale è abbastanza ampia per entrambi: se non avete intenzione di allontanarvi, lo farò io.
-Dovreste davvero ripulirvi di aceto quella vostra boccaccia!
-Altrimenti, mademoiselle?
-Altrimenti so chi potrebbe farla tacere.
-Oh, già, siete al seguito del Ministro, adesso, vedo che la vostra “richiesta” è stata esaudita… sono passati solo pochi minuti dalla vostra prima comparsa sulla scena parigina e già in piazza iniziano a circolare certe voci sul vostro conto… non so se mi spiego. - ghignò Clopin.
-Non sento assolutamente il bisogno di giustificare la mia conoscenza col Ministro, né mi preoccupa ciò che la gente pensa; tantomeno quel che pensa uno di voi.
-Io non penso proprio nulla. Sentite, non so in che rapporti voi siate col giudice, ma conosco bene che tipo di persona è Frollo e credetemi se vi dico che non vi conviene fidarvi troppo di lui. Non avete idea di cosa sia capace quell’uomo. Non lo dico perché sono quel che sono e noi siamo trattati come animali da cacciare, dovreste vedere cosa fa anche a certi parigini… nelle carceri la carne non ha razza. Quell’uomo è crudele, e senza scrupoli.
-No, voi non lo conoscete...
-E chi allora? Voi? Vivo a Parigi da molti anni e non ho mai visto che una sola faccia di Frollo. Onestamente, dubito ne esistano altre.

Clopin non sapeva per quale assurdo motivo autodistruttivo, ma desiderava davvero aiutare quella giovane straniera, così fredda e testarda, ma così ignara e sprovveduta. Avrebbe fatto una brutta fine vicina a Frollo: egli era il fuoco che le dava calore e sicurezza, questo l’aveva capito, ma avrebbe finito per bruciarsi. Purtroppo, Cécile sembrava non vedere affatto le cose dallo stesso punto di vista.

-Senti, brutto zingaro sputasentenze, per la prima, prima volta in vita mia vengo considerata, apprezzata per ciò che faccio! Quell’uomo mi protegge, ed è tutto ciò che ho. Per quanto dure e severe siano le sue attenzioni, esse sono tutto in confronto alla distaccata e indifferente cortesia che chiunque mi ha riservato fin ora. Egli mi vuole, ha bisogno di me, come io di lui. Non ho intenzione di rinunciare a questo perché uno sporco straccione mi vuole mettere paura.
Clopin sospirò: -Come volete, chat-huant… ma sappiate che appena ne avrà desiderio non esiterà a sbarazzarsi di voi. Frollo non ha mai avuto bisogno di nessuno, fin ora.

In quel momento Cécile vide lo sguardo del gitano pietrificarsi nel guardare qualcosa alle sue spalle. Ella si girò e vide il giudice, dalla parte opposta della chiesa, uscire dalla stessa porticina da cui era entrato, mentre discuteva animosamente con l’arcidiacono.
-State attenta- l’avvertì frettolosamente Clopin.
-Nascondetevi! - sibilò in risposta la ragazza, spingendolo dietro una colonna, fuori dalla visuale del Ministro, per poi ritornare in fretta a sedersi dove poco prima Frollo l’aveva lasciata, nel timore che potesse rimproverarla di avergli disubbidito.

Clopin rimase dietro la colonna, imbambolato nella sua assoluta perplessità, mentre i suoi pensieri si erano di colpo fermati, fissati su quell’unico istante, quell’unica parola.
Era stato sicuro, appena aveva visto ricomparire il Ministro, che la ragazza non avrebbe esitato a denunciare la sua presenza. Non avrebbe potuto comunque fare molto, la Chiesa era luogo sacro e lì dentro ogni delinquente era al sicuro, tuttavia, data la concitazione in cui si trovavano, si sarebbe aspettato accuse da parte sua, o come minimo indifferenza, ma protezione! Mai. “Nascondetevi”, aveva intimato la ragazza. Aveva la solita acidità nella voce, ma lo stava proteggendo, anche se con poco, anche se involontariamente. Anzi, proprio perché la sua reazione era stata involontaria Clopin ora sapeva per certo che quella borghese non era come voleva far credere di essere. Dietro quella ordinaria maschera d’odio si nascondeva un’altra Cécile, ma come questa fosse era ancora un mistero per lui.
“Allora non siete così cattiva, chat-huant”.

 

 -o-0*§*0-o-

 
Quella sera Frollo aveva invitato Cécile a fargli compagnia mentre entrambi si dedicavano ai loro manoscritti di scienze alchemiche e lei, come era già successo altre volte, aveva accettato volentieri. I due leggevano di fronte a un camino così grande da rischiarare comodamente l’enorme sala in cui si trovavano, sprofondati in enormi poltrone dagli schienali altissimi. Maestro e allieva erano completamente immersi nelle rispettive letture e solo il dolce crepitare del fuoco assieme al periodico sfogliare delle pagine rompevano il silenzio che regnava nella stanza.
Poi Frollo chiuse il libro, lo posò accanto a sé e si mise a contemplare il fuoco, tamburellando con le dita di una mano sul bracciolo, mentre l’altra gli sorreggeva il viso assorto. Notando l’irrequietezza del suo mentore, Cécile alzò gli occhi dalla pagina per fissarli su di lui. Osservò i suoi lineamenti duri, resi ancora più spigolosi e scavati dalla luce radente del fuoco, mentre quella che si rifletteva nei suoi occhi li faceva apparire vivi e guizzanti come fiammelle. I pensieri che celavano erano indecifrabili per Cécile. Quell’uomo suscitava in lei emozioni contrastanti: la faceva sentire sì accettata e compresa, ma al contempo la poneva in un nervoso disagio, misto di timore e devozione, la faceva sentire protetta eppure costantemente giudicata; ella non osava immaginare cosa potesse nascondersi dietro a quel suo essere altalenante e taciturno.

-Tu mi guardi perplessa Cécile- disse di punto in bianco il Ministro, senza staccare lo sguardo dal fuoco, come se l’avesse letta nel pensiero. La giovane abbassò imbarazzata il libro sulle ginocchia accarezzandolo nervosamente, stava per rispondere, ma egli la interruppe prima che potesse aprir bocca.
-Non me ne meraviglio- proseguì quasi fra sé –nessun uomo dovrebbe covare i miei stessi pensieri.
Ancora una volta la ragazza era sul punto di chiedere qualcosa, ma il giudice continuò: -Guarda il fuoco, Cécile. Lo vedi? Non è forse ciò che di più incantevole esista al mondo? Tutte quelle fiammelle che si intrecciano, si fondono l’una con l’altra in una danza senza musica, né ritmo, né fine, ma perfetta, tanto bella quanto complessa, affascinante come il pericolo e seducente come il mistero…
-Sai, Cécile, che nessuno sa ancora chiaramente cosa il fuoco sia? Eppure è fondamentale per noi. Non parlo solo di noi uomini, anche noi alchimisti. Spesso si crede che il fuoco distrugga, ma non è così semplice: il fuoco trasforma e, trasformando, crea. Esso, sì, distrugge e dissolve, ma anche muta, purifica, congela, calcina: è alterante, penetrante, sottile, aereo. È il tramite fondamentale nei più importanti processi alchemici e, ne sono sicuro, anche la risposta alle più occulte domande scientifiche.
  Il fuoco è l’elemento più curioso e affascinante tra i quattro fondamentali che compongono ogni cosa: l’acqua, l’aria, la terra e il fuoco, appunto. Ma questo te l’ho già insegnato, non è vero? Tutto è composto da questi quattro elementi primari, anche io e te. Vedi, Cécile, ognuno di noi porta dentro di sé un po’ di quegli elementi, in misure diverse. È questa peculiare combinazione che determina il carattere di ognuno.

Cécile riteneva che le parole del giudice fossero un mucchio di sciocchezze sconclusionate, ma mai avrebbe osato contraddirlo, soprattutto quando per la prima volta dall’inizio di quel monologo Frollo alzò lo sguardo per fissarlo su di lei, ordinandole: -Alzati, Cécile, vieni.
L’allieva fece come le era stato intimato, ripose il libro e percorse i pochi passi che separavano le due poltrone. Frollo la scrutava quasi divertito del suo smarrimento.

-Posso immaginare i tuoi dubbi al riguardo, mia cara- continuò – d’altronde converrai anche tu che non sei fatta d’acqua, né io di fuoco. Ma devi sapere che questi quattro elementi non sono altro che diverse espressioni di un’unica quintessenza, ossia ciò che i Greci chiamavano Etere, ma anche Anima del Mondo, Spirito o… Fuoco. Si dice che esso sia la materia prima di tutto l’universo, ciò che riempie e costituisce il cosmo, e lo tiene unito. Aristotele riteneva che l'etere fosse eterno, immutabile, senza peso e trasparente, cosicché anche il cosmo è luogo immutabile e regolato; diversamente dalla Terra, regno delle sue imperfette accezioni che generano caos e instabilità.

Frollo alzò lo sguardo verso la sua allieva, che lì in piedi di fronte a lui sembrava più confusa che mai, travolta da quel fiume di termini e nozioni. Sospirò. D’altronde, rifletté, non poteva aspettarsi che una ragazzina come lei, benché brillante, capisse da una presentazione così sommaria tali concetti, frutto di anni di studi e riflessioni. Doveva essere cauto, ma era palese anche a lui: gli occhi di Cécile brillavano di curiosità.

 -Cercherò di essere più chiaro: - si affrettò a spiegare, avvicinandosi sull’orlo della poltrona - dall’Etere-calore nasce il fuoco, la prima sostanza con cui fu plasmato il mondo. Anche per questo credo molto nel fuoco: è la sostanza più prossima all’Etere puro. Ma mentre il fuoco si espande verso l'alto, l'etere-calore ha la caratteristica opposta di discendere dal Sole, concentrandosi negli esseri viventi e favorire il loro sviluppo.
  L’ Etere-luce genera l’aria, ma mentre essa appare caotica, disordinata, capace di penetrare ovunque, il suo etere complementare si posa soltanto sulla superficie degli oggetti, ed è dotato di direzione e ordine. L'etere-luce, inoltre, illuminando gli oggetti, li rende distinguibili, creando le dimensioni spaziali.
  L'Etere-chimico crea i liquidi, sopra a tutti l’acqua. Ma differenza di questa, che è fluida, informe e compatta, l'etere-chimico è discontinuo, separatore, e perciò produttore di forme. Da esso derivano anche fenomeni come la chimica e la musica, perciò è chiamato anche Etere del suono e gli si attribuisce la capacità di riflettere l’armonia cosmica in strutture concrete.
  L’Etere-vitale, infine, dà origine alla terra, e con essa tutto ciò che è solido. Ma mentre la terra è dura e rigida, inerte e inanimata, l'etere-vitale possiede mobilità interiore, ed è capace di dare vita alla materia. Mi segui?

-Sì.
-Molto bene. Ciò che io credo, e non sono il primo, è che in quanto forza prima e generatrice l’Etere abbia molteplici facce e che una di queste si debba identificare anche con una sorta di Intelletto superiore, di conoscenza, o Memoria. A cosa dovremmo, altrimenti, la nostra ragione, l’unica che può distinguerci dagli altri esseri viventi? Anzi, proprio per questo possiamo dire che l’uomo porta dentro di sé un frammento di quell’Intelletto supremo, ogni uomo è una scintilla di quel grande Fuoco da cui si separa, per poi brillare un poco e morire. Ma la sua caducità non lo rende meno partecipe di quel tutto da cui ha origine, quel tutto che, anche se per una minima parte, vive in lui e lo anima.

Frollo si alzò, con negli occhi l’eccitazione di chi può finalmente confessare un grande segreto. Si avvicinò alla sua allieva, le prese il viso tra le mani sussurrando frettoloso, come se qualcuno avesse potuto rubargli le parole: -Ti chiedo ora una cosa, Cécile, la più importante: cosa rende un uomo potente? Qual è la sua arma più grande?

Cécile era a dir poco terrorizzata da quello sguardo, da quel contatto, da quella prova, perché di questo si trattava. Sentiva il sangue pulsarle dappertutto e impedirle di pensare.
-Il… denaro, forse?
Frollo restò interdetto per un attimo, ma poi sorrise della sua ingenuità. Era consapevole del timore che esercitava su di lei, quello che provavano tutti al suo cospetto, ma quella ragazzina gli faceva, come dire… tenerezza.
-La mia piccola, sciocca Cécile- rise abbassando lo sguardo e lasciandole il viso. – Tu sai la risposta. La sai molto bene. Perché pensi che ti abbia lasciato vivere qui con me? Guardati. Cosa credi abbia visto in te per farti diventare mia allieva? Che cosa ci rende simili? – la incitò.

Cécile rifletté, pensò a lei, al giudice, a quanto fosse eccezionale e misteriosa la propria condizione, lì al palazzo… già, perché era lì? Cosa poteva aver visto in lei che agli altri era sfuggito? Ricordò la prima volta che lo conobbe, a quel pranzo con la sua famiglia e provò a cambiare punto di vista. Perché l’aveva così rapita?

-La conoscenza! – si illuminò – E’ questo che rende un uomo potente?
-Esatto! - Frollo quasi rise, ma subito si ricompose: -E io, noi, abbiamo l’opportunità di diventare i più potenti della terra, mia cara.
Cécilé aggrottò le ciglia confusa: - Cosa intendete?
- Vedi, esiste un elemento, studiato e agognato per secoli dagli alchimisti, anzi, si può dire che gran parte dell’alchimia verta attorno alla sua ricerca. Molti lo ritengono solo una leggenda, altri giurano di averlo trovato. La maggior parte lo desidera per la sua capacità di trasformare qualsiasi metallo in oro, ma io e te sappiamo che la ricchezza non è che materia inerme. Quest’elemento promette un premio ben più alto, unione del Fuoco e della Memoria. Vedi, Cécile, io penso… penso di avere la chiave della conoscenza.
-Conoscenza di cosa, esattamente?
-Tutto. – Frollo la guardò serio, riprendendole il viso tra le mani: -quello che ti sto offrendo, Cécile, è l’onniscienza, la conoscenza assoluta del passato e del futuro, del bene e del male. Tutto ciò che è stato, che è e che mai sarà, vie e mondi che nemmeno riesci a immaginare, storie terribili e meravigliose, rivelazioni che l’umanità non sospetterà per secoli e forse mai raggiungerà, tutto ciò sarà nostro. Ma non posso ottenere nulla senza di te. Mi aiuterai?

Cécile era rapita e ammaliata dalle parole del giudice, non poteva credere che le stesse offrendo una cosa simile, che lo stesse offrendo a lei! Lei, solo una ragazza, e lui, il giudice di Parigi, insieme custodi del segreto più grande, anzi, di tutti i segreti del mondo! Esisteva un’altra risposta oltre a quell’immenso e prorompente “Sì” che sembrava dovesse farla scoppiare da un momento all’altro? Ma era senza fiato quando tentò di aprir bocca e riuscì solo ad annuire energicamente al giudice con uno sguardo luminoso di eccitazione.
Egli sorrise e le posò un bacio sulla fronte.

-Io e te, Cécile, troveremo la Pietra Filosofale.

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