Il canto della morte

di Sandra Sammito
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Ritorni ***
Capitolo 3: *** Un tuffo nel passato ***
Capitolo 4: *** Ricordi ***
Capitolo 5: *** L'inizio di una fine ***
Capitolo 6: *** Sconosciuti ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

 

“La morte è il modo che ha la vita di dirti che sei stato licenziato.”
La vita è quindi solo un treno di passaggio, su cui si fatica per raggiungere la felicità. È un lavoro che si svolge per il proprio benessere, ma che alla fine, come tutto, trova un culmine. E al momento della morte, dove andremo a finire? Che fine faranno i nostri valori, la nostra identità? Sapremo mai se la nostra presenza in vita sia valsa a qualcosa? Cosa ci aspetta?
La morte è un viaggio senza ritorno, difatti nessuno ha mai potuto riferire a cosa è andato incontro. Un biglietto sola andata con destinazione ignota. Si è parlato di gente che, data per morta, si è risvegliata e ha rivelato di essere stata in un luogo, associato al paradiso o all’inferno; un luogo di pace o di guerra; un luogo fresco o infuocato. C’è chi si affida alla chiesa e crede che la vita continui dopo la morte, raggiungendo la salvezza eterna e i propri cari. C’è chi, invece, crede nella reincarnazione. Oppure, ancora peggio, c’è chi crede che alla morte sarà solo un corpo marcio e rinsecchito, chiuso all’interno di una bara e in una fossa per l’eternità. Nella vita ci si pone un infinità di domande, a cui darà la risposta solo la morte.
O vivi o muori, queste sono le uniche scelte. Ma…
Cosa succede quando si entra in uno stato di interruzione momentanea come quando si è in coma? La mente si spegne e non risponde ai comandi, ma nel frattempo la persona in questione cosa sta provando? Vive un sogno, vaga errante in attesa di risvegliarsi o rimane, come all’apparenza, un essere inibito e assente? Chi si risveglia dal coma non ricorda nient’altro che il motivo per cui si è ridotto in quello stato. Possibile che non accada proprio nulla? Eppure anche mentre dormiamo facciamo dei sogni che il giorno dopo, in parte, ricordiamo. Quindi cosa succede quando il cervello subisce una pausa ed è costretto all’immobilità?
Vi riporterò una storia che mi è stata raccontata da un amico, che a sua volta conosceva tramite un altro amico, il quale ascoltò la storia da un conoscente, che ha affermato di esserne consapevole sotto racconto del protagonista. E tutto inizia con…
 
La musica. 



Angolo dell'autrice: è la prima volta che mi cimento nel genere drammatico/sentimentale, perciò chiedo venia se il mio romanticismo o la mia sensibilità non raggiungano i livelli richiesti dal genere in questione. Spero ugualmente che la storia sia di vostro gradimento. Bye.
XOXO

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Capitolo 2
*** Ritorni ***


PARTE PRIMA
1. Ritorni
 
Do.
Una nota.
Un accordo.
Un’eccellente armonia.
Era così che iniziava la Sonata numero 16 in do maggiore di Mozart e le melodiche note uscivano da quel pianoforte a coda, nero e luccicante, colmando ogni spazio silenzioso del Backery Street. Nella modesta casa numero 143 viveva la famiglia Ackles, benestante e altruista, e non c’era un giorno in cui la dimora non allietasse il vicinato con sonore melodie. Le mani dell’artista ondeggiavano e sfrecciavano come schegge su quei tasti bianchi e neri, a volte pareva che non li sfiorasse nemmeno per la tanta maestria. I suoi occhi si chiudevano di volta in volta e, con le labbra socchiuse, voleva quasi far credere che la musica l’avesse inglobata e che adesso uscisse direttamente dalla sua gola. Sembrava che facesse l’amore con il suo pianoforte, le sue esecuzioni erano perennemente passionali e aggraziate, prive di errori o arresti.
In questo modo, Christie Ackles, riusciva a non recare disturbo al vicinato, anzi. La gente apprezzava la sua musica, tant’è che restavano taciturni ad ascoltare al solito orario, come se assistessero ad un concerto dal vivo. E Christie si avvaleva di questa consapevolezza per esibirsi come fosse di fronte ad una platea, e suonava principalmente per loro che per se stessa. Non che fosse una maniaca del protagonismo - Christie era esageratamente timida - ma il fatto che la idolatrassero e la apprezzassero, le infondeva grinta e la rincuorava. E per una come lei, la quale gran parte delle volte riteneva il suo lavoro e le sue capacità scadenti e insoddisfacenti, era da considerarsi un punto a suo vantaggio, che la stimolasse per sopprimere la sua poca autostima.
Durante quell’umida estate del 2015, Christie applicò anima e corpo su quei tasti, i quali dovettero patire le mille reazioni della musicista, innervosita a causa degli studi difficili. Il suo lavoro era teso alla preparazione per gli esami d’ammissione alla Royal Academy of Music che, dopo la Juilliard a New York, era l’accademia più efficiente in Inghilterra. Ed era proprio lì che la giovane Christie puntava da tre anni, era ormai diventato il suo unico obiettivo. Frequentare l’accademia era il suo sogno dal primo giorno in cui iniziò a posare le sue dita su un pianoforte, ossia da nove anni, e adesso era ostinata solo a tramutare in realtà i suoi sogni nel cassetto.
La gente possedeva vari modi per sfogarsi dei propri problemi: la box, la palestra, l’alcool, rompere ogni qualsivoglia oggetto sotto mano o piangere stritolando un cuscino. Christie, però, aveva trovato un modo più costruttivo per rasserenarsi quando si rattristiva o veniva infastidita dai soliti criticoni. Il pianoforte era il suo vero amico, pronto ad accoglierla, e Christie non aveva bisogno di altro. Grazie a quello strumento i suoi problemi si prendevano una vacanza, si eclissavano per un po’ di tempo. Era il luogo in cui entrava in un mondo parallelo, in cui non esistevano periodi bui e in cui regnava la spensieratezza e la serenità spirituale.  
La signora Ackles le aveva sempre ripetuto di continuare a maturare e di non smettere di sperare, di non mollare, e di certo non poteva non raccomandarla allo stesso modo il signor Ackles. Quest’ultimo era un insegnante di chitarra in una scuola residente a Oxford, motivo per cui era sempre lontano da casa. Tornava in città, a Sunderland, una volta al mese durante il fine settimana, permaneva due giorni e poi ripartiva. Il legame che Christie aveva con suo padre era pari all’amore che provava per la musica, e la sua lontananza da casa la percepiva continuamente come una fitta allo stomaco, ma si era ormai abituata. Sunderland non poté offrire al signor Ackles un lavoro fisso, perciò si ritrovò costretto ad accettare quel posto libero a Oxford, pur di mantenere la famiglia. Stefan Ackles era un eccellente insegnante, abile e gentile con i suoi allievi, e fu proprio lui a trasmettere la passione alla figlia. Quand’era piccola la adagiava sulle sue ginocchia e le faceva ascoltare della buona musica, canticchiandole di volta in volta all’orecchio. Le spiegò in modo semplice l’utilizzo delle note e dell’armonia, fu lui a portarla ai concerti e a invogliarla a studiare uno strumento. Le disse che avrebbe potuto sceglierne uno qualsiasi, ma Christie era già consapevole della sua scelta, sin da quando andò ad un concerto di un pianista giapponese. L’affascinò enormemente, come essere stata trafitta da un colpo di fulmine e da allora scattò la scintilla che si tramutò nel suo sogno. Il suo insegnante di pianoforte rimase sbalordito dalle sue esecuzioni, svolte in maniera eccelsa a una sola distanza di due anni dall’inizio degli studi. Si inorgoglii e rese orgogliosi anche i suoi genitori.
Per tal motivo, durante quell’estate, il suo unico desiderio era fare l’esame d’ammissione e ricevere la lettera dalla Royal Academy:
 
Con le nostre sincere congratulazioni, comunichiamo alla signorina Christie Ackles che ha superato brillantemente gli esami d’ammissione richiesti dalla Royal Academy of Music.
 
Dopo aver terminato gli studi liceali, la sua concentrazione era legata interamente ed esclusivamente alla sua carriera e allo scopo di porre le basi del suo successo. Oltre ad essere ammessa, un altro piccolo sogno di Christie era quello di andare via da Sunderland. Era una bella città, pulita e accogliente, con nessuna traccia di vandalismo, dov’era nata e cresciuta e dove aveva conosciuto le persone a lei più care. Non era, però, qui che avrebbe avuto la possibilità di diventare ciò che desiderava. Tutti prima o poi si distaccano dal nido e spiccano il volo, per procedere da soli verso la propria strada. Anche sua sorella, Berta Ackles, andò a vivere  e a studiare per cinque anni a Londra, lontana dalla sua vecchia vita. Per Christie era difficile allontanarsi dalla sua casa e dalla sua città, ma nella vita si ha la possibilità di cambiare per variegarsi e dare spazio alle novità. Christie amava il cambiamento, perciò partiva avvantaggiata. Era travolta dalla curiosità di vivere in un nuovo ambiente, relazionarsi con altra gente, scoprire nuovi aspetti del mondo e respirare un’aria differente. In mezzo a tutto ciò, però, prevaleva sempre la speranza di essere ammessa e in cuor suo sapeva che, se al primo tentativo non avesse superato gli esami, ci avrebbe provato e riprovato, anche a costo di invecchiare. Christie coltivava l’idea che i sogni dovessero essere inseguiti come farfalle e non aspettarsi che accadesse l’inverso, perché essi corrono veloci come il vento ed è facile seminarli durante il percorso. Christie credeva fermamente che quando qualcuno si arrendeva di fronte a un ostacolo, era solo perché aveva già smarrito da parecchio tempo la strada corretta per abbrancare il sogno e realizzarlo. Christie non sarebbe giunta a quel punto, di fronte alle sue cadute e ai suoi fallimenti si sarebbe rialzata e avrebbe detto: «L’importante è averci provato!». I fallimenti sono inevitabili, servono alla crescita e al perfezionamento di se stessi, ma non devono apparire ai propri occhi come muri insormontabili o strade inagibili. Nessuno ha la strada spianata, bisogna solo imparare a rialzarsi, seppur con mille cicatrici.
Anche se estate, il signor Ackles continuò a lavorare fuori città, per un progetto orchestrale. Quel giorno, però, sarebbe ritornato per la felicità di Christie. Era venerdì e per un mese intero la giovane pianista fece il conto alla rovescia, attendendo il ritorno di suo padre. Al suo risveglio era l’immagine della felicità, un sorriso a trecentosessanta gradi e un’eccitazione incontenibile. Non vedeva l’ora di fargli ascoltare i suoi nuovi studi e di ascoltare la sua voce dal vivo, non tramite una cornetta.
Mentre la sonata di Mozart echeggiava ancora tra le mura in boiserie del salotto, le orecchie di Christie riuscirono a percepire un ulteriore suono, a lei molto familiare: quello della chiusura della portiera di una macchina. Distaccò le dita dai tasti e tese le orecchie, con le palpitazioni a ritmo accelerato.
«È arrivato papà» strepitò Berta, irrompendo in salotto.
Christie dimenticò le buone maniere, quelle per cui avrebbe dovuto riassestare il salotto e sistemarsi i capelli e il viso. Contrariamente scattò dallo sgabello e si recò all’ingresso, pronta ad accogliere calorosamente suo padre alla porta. Nonostante fosse trascorso un mese dall’ultima volta che lo vide, per lei apparve più un anno. È incredibile come il tempo passi in fretta quando non vorresti e a rilento quando preferiresti che acceleri. In quel momento Christie fremeva dalla voglia di abbracciarlo e di annusare il profumo dolciastro della sua giacca.
Pronte all’ingresso, la signora Ackles aprì la porta e Christie si commosse alla vista dell’uomo della sua vita. Stefan Ackles era un uomo alto, esilmente robusto, con spalle larghe e mani forti; il filo di barba gli slanciava il viso e i suoi occhi marroni erano più accesi che mai, quelli in cui Christie vedeva il riflesso dei suoi. La giovane non indugiò un secondo per corrergli incontro e abbracciarlo amorevolmente e, nonostante fosse ormai diventata una routine, Christie non smise mai di provare la stessa emozione. Il rapporto che avevano instaurato non era come quello che Stefan aveva con Berta. Quest’ultima adottò sempre un atteggiamento più distaccato, ma non perché non gli volesse bene, bensì perché la sua natura era quella di contenere le emozioni e di non sbilanciarsi con l’esternazione dei sentimenti. Si volevano bene, questo è ovvio, ma Berta assomigliò tutta a sua madre, Rosemary. A prescindere dai rapporti del signor Ackles con Berta, questa non gli negò certamente il saluto e lo abbracciò insieme a Christie.
Non trascorsero neanche cinque minuti dal suo arrivo, che il signor Ackles estrasse dalle tasche della giacca tre pacchetti regalo, rispettivamente per sua moglie e per le sue figlie. Era suo solito tornare con qualche pensierino e questa volta non fece eccezione. Christie scartò immediatamente il suo e saltò di gioia alla vista di un braccialetto, sul cui ciondolo a forma di pianoforte a coda c’era incisa la sua iniziale, C. Berta ricevette l’ennesimo romanzo sentimentale, mentre la signora Ackles una saponetta profumata a forma di cuore. La cosa principale da dire sul signor Ackles era la seguente: era un romanticone.
Dopo un mese il posto a capotavola fu nuovamente occupato dal capo famiglia e, anche se Rosemary tendeva a mascherarlo, era colei che più di tutti gioì del ritorno del marito. Anche lei ne sentiva continuamente la mancanza. L’uomo con cui avrebbe voluto condividere vividamente ogni successo, ogni tristezza, ogni evento, viveva distante. Tentò di proporre al marito il trasferimento dell’intera famiglia a Oxford, ma si presentarono un susseguirsi di problemi. In primis il disaccordo di Christie nel voler lasciare la scuola e i suoi amici, accantonato da Berta che finalmente aveva trovato un lavoro a Sunderland nel suo settore. Telma Ackles, la nonna paterna, aveva bisogno di sostegni e di compagnia, perciò Rosemary non avrebbe potuto abbandonarla o addirittura costringerla a partire. Si giunse alla conclusione che avrebbero accettato la lontananza, seppur con difficoltà.
«Allora? Vi sono mancato?» domandò Stefan, con tono sarcastico.
«No, questa volta non ci sei mancato per niente.» rispose Christie allo stesso modo. Suo padre se la rise.
«Stai studiando per gli esami d’ammissione, vero?»
«Certo. Temo sempre di non farcela, ma ce la sto mettendo tutta.»
«Francamente non vedo il motivo per cui non dovrebbero ammettere una ragazza talentuosa come te. Ormai ne esistono pochi.» la incoraggiò Stefan, imboccando l’ultimo morso di patate a forno.
Il signor Ackles era la spinta necessaria per ricaricare Christie quando si abbatteva e si paragonava a una nullità. Le bastavano i suoi complimenti per continuare a credere.
 
Dopo cena Christie si sdraiò sul letto della sua stanza, riflettendo che fosse meglio lasciare un po’ soli la mamma e il papà. Abbrancò il libro che lasciò in sospeso da una settimana e riprese la lettura. Era ancora ferma all’introduzione. A volte le introduzioni sono così lunghe e noiose che fanno svanir la voglia di proseguire, poi però la curiosità ti preme e ti ritrovi all’ultima pagina in men che non si dica.
Ancora una volta la lettura di Christie fu interrotta da una vibrazione: il suo cellulare. Sul display apparve un messaggio e quando Christie lesse il mittente, capì immediatamente che l’arrivo di suo padre non era stato il momento più euforico della giornata. Se le avessero detto che sarebbe accaduto, non ci avrebbe creduto. Theo, il suo ex fidanzato, le inviò un messaggio. Ma non di quelli con scritto: «Ehi ciao, puoi tenermi il cane stasera?». E neanche di quelli: «Ehi come butta? Rivoglio il braccialetto che ti ho regalato per i nostri due mesi.». Era un messaggio decisamente diverso, composto da tre parole con alle spalle mille interrogativi. Di quelli che appena leggi, ti confondono e ti costringono a riavvolgere il nastro.
Nel messaggio c’era scritto: «Ehi. Devo parlati.»

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Capitolo 3
*** Un tuffo nel passato ***


2. Un tuffo nel passato
 
Theo Hughes fu colui che Christie tentò di aggiungere alla succinta lista delle sue passioni. Fu il suo primo amore e il primo ragazzo che le piacque fermamente per l’intera sua adolescenza. Come la maggior parte dei ragazzi e delle ragazze, lui non fu di certo l’eccezione per quanto concerne i difetti e gli aspetti immaturi del suo comportamento. Per così dire possedeva interminabili difetti, che senz'altro superavano il numero delle dita delle mani. Ma l’amore è cieco e, sebbene Christie si accorgesse delle sue bugie e delle sue calunnie, ci mise una pietra sopra, pur di non litigare e non perderlo. E così, ogni qualvolta che Theo gliene combinava una delle sue, Christie si comportava ingenuamente. Difatti, il furbo del ragazzo, spesso ne approfittò, perché era certo che qualsiasi errore avesse commesso, l’avrebbe passata liscia.
Non è di certo questo il modo in cui una ragazza dovrebbe farsi trattare e ben presto anche Christie se ne convinse, buttandosi alle spalle l’amore ossessionato per Theo. Al diavolo le bugie, quelle di cui il ragazzo si servì per farsi credere in un luogo quando invece era nel polo opposto; al diavolo le sue scuse e le sue suppliche di perdono; al diavolo i suoi subdoli sguardi impietositi che neutralizzavano le decisioni di Christie. Così, dopo due anni e mezzo di fidanzamento, Christie decise di dargli un ultimatum: un’altra bugia e Theo sarebbe stato spazzato via dalla sua vita, sebbene ciò avrebbe comportato in lei un dolore e una malinconia incolmabili. Sperò con tutto il cuore che Theo ci avrebbe dato un taglio, ma fu inutile. Nessuno cambia, specialmente quando chi commette un errore, crede cocciutamente di non aver fatto nulla di male, e per tal motivo continua a commetterlo. Come ho detto all’inizio, Theo non era certamente un’eccezione e fece l’errore che mai Christie gli perdonò. Una sera le disse che sarebbe andato a mangiare una pizza a casa dei suoi amici e che poi avrebbero guardato un film. Christie volle fidarsi. Seppe il giorno dopo, tramite alcune conoscenze, che Theo si recò in un pub di cubiste e finì col limonare con una di loro. Lui non negò a Christie le dicerie sul suo conto. Al che giunse l’inevitabile fine che avrebbe chiuso un libro, colmo di delusioni e rabbie, e i due si lasciarono, senza che Christie si voltasse indietro.
Non si videro più, neanche per sbaglio, da un anno intero e da parte di Theo non ci fu neanche un tentativo di riappacificazione. Tramite questo risultato la giovane ragazza si convinse che Theo non vedesse l’ora di lasciarla e che per tutto quel tempo non fece altro che trovare un pretesto per litigare e troncarla. Neanche Christie, ovviamente, provò a riavvicinarsi, non solo per il suo notevole orgoglio, ma anche per difendere la sua dignità. La trattò indecentemente, si prese gioco di lei, la oggettivò come qualcosa usa e getta. Era imperdonabile.
Pertanto, aver ricevuto quel messaggio inaspettato quanto una vincita alla lotteria, fu per lei la caffeina della sera, che l’avrebbe resa insonne per l’intera notte. Rimase a fissare quel messaggio per una quindicina di minuti, confusa e incapace di prendere decisioni. Cominciò a porsi mille domande e, per la maggior parte di esse, la risposta era: «È tornato perché se n’è pentito». Più guardava il messaggio, però, più il suo orgoglio gridava a squarciagola di non rispondere e non dargli quella soddisfazione. E, con sua sorpresa, vide che la mente sovrastò il cuore, fragile e disperato, il quale aveva atteso per un anno quel messaggio e che, ora che era arrivato, ribolliva dalla voglia di dargli una risposta.
Tre tocchi alla porta la distrassero infine dalla novità della sera.
«Avanti.» rispose Christie, attivando il blocca schermo sul cellulare.
Dalla fessura della porta sbucò il viso di Stefan Ackles, con gli occhioni dolci e gli zigomi alti per il largo sorriso. Si intrufolò nella camera della figlia, richiudendosi la porta alle spalle, e la raggiunse sul letto per il consueto bacio della buona notte. Christie si infagottò nelle coperte e con fatica simulò un sorriso, per celare l’incredulità ancora persistente. Suo padre le diede un bacio in fronte e poi, distaccandosi, la guardò negli occhi. Lì per lì la sua espressione mutò, come se avesse intravisto nello sguardo della figlia un cambiamento d’umore.
«Cos’è quella faccia?» chiese, accigliato.
«Uhm. Perché mi fai questa domanda?» domandò Christie con fare indifferente.
«Hai un certo non so che… Come se ti fosse accaduto qualcosa di recente.»
«È solo una tua impressione. Sono stanca, ecco tutto.» disse Christie, con gli occhi chini. Ma Stefan la conosceva fin troppo bene per accorgersi quando mentiva. Alzò un sopracciglio e le diede un leggero pizzicotto sulla spalla.
«Non provare a mentirmi, signorina.» l’apostrofò amorevolmente. «Ci diciamo sempre tutto, ricordi?»
A quel punto Christie non poté tirarsi indietro e non fece altro che chiedersi se fosse veramente così trasparente. Sbuffò in segno d’arresa e cominciò: «Ti ricordi Theo? Il mio ex ragazzo?»
«Come potrei scordarlo. Non dimentico i ladri dei miei gioielli.» asserì suo padre, alzando il mento all’insù. Christie rise timidamente, adorava la gelosia di suo padre.
«Ecco. Mi ha appena inviato un messaggio, dopo un anno di silenzio.» annunciò Christie.
«Caspita! E gli hai risposto?»
«No. Non so come comportarmi.»
«È semplice. Ti piace ancora?»
Christie attese un po’ prima di rispondere. «No… Non lo so. Sono impreparata. Non nego che mi faccia piacere che mi abbia contattata, ma per il momento ricordo solo il motivo per cui ci siamo lasciati e sono decisa a non rispondergli.»
«È la tua mente che parla, lo so. Ed è giusto avere il controllo della situazione, senza farsi travolgere dai sentimenti. Ma è anche vero che non vedi l’ora di rispondergli per curiosità di sapere cosa voglia. Non è così?»
Christie annuì, le labbra serrate.
«Da padre ti direi: non osare rispondere a quel figlio di buona donna che si è lasciato scappare una ragazza preziosa come te. Ma da spalla destra e da amico ti direi: rispondi e metti da parte l’orgoglio. Solo parlandogli potrai capire cosa provi e verificare se sia cambiato qualcosa. Ricorda: meglio un rimorso che un rimpianto.»
«Come potrei non amarti?»
Stefan Ackles rise sotto i baffi e poi aggiunse: «Se dovessi capire di provare ancora qualcosa per questo giovanotto, l’unica cosa che ti raccomando è la seguente: non sempre ciò che desideriamo è esattamente quello che ci renderà felici.»
Il signor Ackles colpì dolcemente il nasino alla francesina di Christie. «Grazie papà. Ti voglio bene.» disse.
Quando Christie fu ormai sola nella sua stanza, supina sul letto, a guardare il tetto foderato di stelle e pianeti, poté riflettere a fondo sulle parole di suo padre. Come sempre i suoi consigli erano azzeccati e utili, Stefan era pur sempre più maturo e coscienzioso di lei. Quindi avrebbe dovuto mettere da parte, per un momento, il passato polveroso e aprire le braccia al presente così facilmente? Non riuscì a dare torto a suo padre, la curiosità le premeva in petto ed era impossibile sopprimerla.
In mezzo a quel bendidio di confusioni mentali e brodi bollenti in pentola, le apparve davanti agli occhi, come un fotogramma, il primo giorno che vide Theo. Un ribelle dai capelli corvini e stravaganti. Un duro dal cuore di pietra, ma dallo sguardo più sensuale di tutti.
Il suo Theo. 

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Capitolo 4
*** Ricordi ***


3. Ricordi
 
Secondo anno liceale. La Locke High School era la scuola più rinomata di Sunderland, nonché la più frequentata dai giovani di famiglia facoltosa, aspiranti universitari. Christie, dopo aver superato il primo anno con il mezz’esonero, si impuntò affinché iniziasse diversamente il secondo anno, per poter arrivare all’esonero finale. È tipico di ogni studente nel primo giorno di scuola, darsi degli ordini e degli obblighi, prefissarsi pomeriggi dedicati allo studio e, a questi, conciliare i momenti di svago e divertimento. Bensì fanno tutto tranne che mantenere la loro parola.
Insomma, quell’anno Christie, benché fosse cosciente del fatto che non avrebbe rispettato le sue stesse raccomandazioni, iniziò le lezioni a testa alta e con le orecchie e la mente aperte. La sua compagna di banco e sua migliore amica, Allison Morris, si tramutò in una macchinetta senza freni, ingranando la marcia di episodi avvenuti durante la sua vacanza estiva a New York. E Christie dovette assorbirsi quei racconti, ripensando alla sua di estate, all’insegna dello studio pianistico e dei sogni ad occhi aperti.
«A proposito di ragazzi» aggiunse infine Allison. «Ho sentito, in giro per i corridoi, che avremo un nuovo compagno di classe. Sarà vero?»
Christie fece spallucce. «Non saprei. È già trascorsa mezz’ora dal suono della campanella e finora non ho visto facce nuove.»
«Sarà stata una bufala, come al solito. Uffa! Di solito i nuovi arrivati sono…» Allison si morse il labbro e alzò gli occhi luccicanti. Christie fece una smorfia di sdegno e commentò: «Io, invece, penso che siano topi di biblioteca, con la puzza sotto il naso, un estenuante senso dell’umorismo pari a zero e un aspetto orribilmente rivoltante.»
«Sei sempre la solita.» bofonchiò Allison. «Siccome i ragazzi non rientrano nei tuoi sogni e nei tuoi programmi, non vuol dire che devi rovinare i miei.»
«Ho solo espresso il mio parere.» si difese Christie.
Nell’aula c’era il brusio creato dagli alunni della 2°C, ai quali l’insegnante di lettere diede il permesso di svagarsi, solo per quel giorno. Questo brusio, però, fu interrotto dall’irruzione in classe di qualcuno che non ebbe neanche la decenza di bussare alla porta. Un ragazzo con una camicia rossa quadrettata che fuoriusciva dalla giacca in pelle nera; jeans scuri e di una taglia più grande della sua e una serie di bracciali borchiati. Ma ciò che più di tutti diede nell’occhio fu il suo fascino meridionale, a partire dai capelli corvini lucenti dal ciuffo lungo retto all’insù grazie a un’abbondante lacca, fino a uno sguardo seducente, ombrato dalle sopracciglia folte e rifinite.
«È questa la seconda C?» domandò, assumendo subito l’immagine di un presuntuoso.
«Sì, giovanotto. E tu sei…?» chiese nuovamente l’insegnante.
«Theo Hughes, quello nuovo.» rispose il ragazzo, lanciando una rapida occhiata alla classe per una panoramica. L’insegnante controllò sul registro e annuì quando vide la presenza di quel nome.
«Bene, Hughes. Trovati un posto a sedere e ricordati che in questa scuola l’educazione e la civiltà sono i pilastri essenziali se non vuoi essere espulso.» lo apostrofò la professoressa, mentre Theo le diede le spalle, infiltrandosi tra i banchi alla ricerca del suo. «Per oggi la passi liscia, visto che il primo giorno esenta di ogni tipo di punizione. Ma da domani…»
«Sì, verrò puntuale. Le do la mia parola.» la interruppe il ragazzo, palesemente sarcastico.
«Lo spero.»
Theo si accomodò nel posto libero all’ultima fila, esattamente dietro a Christie ed Allison. Non portò con sé né zaino né libri e, le uniche cose che poggiò sul banco furono il suo cellulare e un foglio vuoto e spiegazzato. Christie si stupì del portamento di quel ragazzo e, il solo fatto che giunse a scuola senza libri, dimostrò il suo essere menefreghista e disinteressato. Come riuscì ad accalappiarsi la preside, affinché gli permettesse di frequentare la scuola? Chissà quali corbellerie le raccontò e quante lusinghe le rivolse per guadagnarsi la sua ammirazione. Per la preside la cultura e lo studio sfrenato erano due leggi che andavano rispettate, ma Theo non sembrava il tipo da studio sfegatato ventiquattro ore su ventiquattro. Magari è solo un’impressione, pensò Christie. Fatto sta che il primo giorno, per l’ambiente scolastico, era praticamente nudo e impreparato. Ad Allison sembrò non importare l’essere ribelle di Theo, per lei contava la sensualità e il carattere. Ragion per cui, dal momento in cui Theo si sedette dietro di lei, non smise di voltarsi ogni cinque minuti per dargli un’occhiata furtiva e poi rigirarsi con i cuori al posto degli occhi.
«Cosa dicevi? Topo da biblioteca e un aspetto rivoltante?» Allison schernì Christie, puntualizzandole che ebbe torto. Christie, per difendere la sua precedente idea, affermò: «Sul topo di biblioteca avrò anche torto, ma sull’aspetto ci ho azzeccato. Non è niente di che.». Allison s’infuriò con il giudizio dell’amica, quasi come se l’avessero offesa nel profondo dell’animo. Ma in effetti Christie cambiò improvvisamente idea quando Theo la chiamò da dietro, punzecchiandole la spalla.
«Scusa, mi potresti prestare una penna per favore?» chiese il ragazzo.
Forse il modo in cui la guardò, o forse l’apparente gentilezza con cui le porse la domanda, o semplicemente il suo fascino irradiante, fecero scattare in lei una scintilla e ne rimase folgorata come una sciocca. Gli prestò la penna, muta come un pesce e inespressiva, e lui la prese, sfiorandole le dita.
«Ti ringrazio.» disse Theo, non distogliendo i suoi occhi neri come l’inchiostro da quelli marroni di Christie.
Frequentavano gli stessi corsi, a parte quello di musica, perciò si vedevano ogni giorno e ogni ora. Per tutto il periodo da Settembre a Novembre, Christie si limitò solo a osservarlo da lontano o a spiarlo quando lui era occupato in altre faccende, ma erano rare le volte in cui si scambiavano qualche parola. Quando si parlavano era solo grazie a lui, il quale le chiedeva qualche chiarimento riguardante la lezione seguita, e lei si sforzava di non balbettare e non apparire come una sciocca infatuata. Quante volte ripeté a se stessa di abbandonare quella stupida ossessione perché loro due erano il buio e la luce, totalmente diversi. Ma Christie era ancora molto giovane e il cuore prevaleva ancora sulla mente. Così non riuscì ad annullare la sua cotta e continuò a fantasticare sul giovane ragazzo ribelle. Anzi, alla fine si rivelò essere piuttosto abile in alcune materie e, al contrario dell’impressione che diede il primo giorno, diventò quasi il più studioso. A volte l’apparenza inganna e, quando vedi tutto nero, basta voltarsi dall’altro lato e scoprire che si tratta del contrario.
Durante una giornata uggiosa di inizio Dicembre, Christie uscì da scuola in fretta e furia per arrivare a casa in tempo prima del temporale. C’era una massa inferocita di ragazzi che ostruivano l’uscita come ogni giorno e lei tentò in svariati modi di farsi spazio tra la folla e uscire dal labirinto. Quando ne fu fuori, però, dopo cinque minuti cominciarono a cadere piccole gocce di pioggia che, immediatamente, si trasformarono in un acquazzone violento. Christie non aveva modo di coprirsi e ripararsi. Così, già inzuppata dalla testa ai piedi, si fermò sotto alla tettoia di un palazzo e attese la fine del temporale. Tremava per il freddo, le braccia attorno alla vita per riuscire a sopportarlo. Finché apparve Theo come un miraggio e Christie parve risollevarsi dagli spasmi del freddo. Theo arrestò la sua camminata veloce e si avvicinò a lei, riparandosi anche lui sotto la tettoia, sorpreso nel vederla tutta sola.
«Ciao. Che temporale del cavolo!» esclamò Theo. Christie, colta alla sprovvista e profondamente imbarazzata, rispose con un cenno di consenso.
«Abiti lontano da qui?» chiese il ragazzo.
«Non molto. Altri dieci minuti di strada all’incirca.»
Il cuore di Christie si fermò quando le dita di Theo, inaspettatamente, toccarono i suoi capelli sudici.
«C-che cosa fai?» biascicò Christie.
«Sei tutta bagnata. Ti raffredderai se non ti copri la testa.» asserì Theo, che aprì la zip della solita giacca in pelle e si tolse la felpa rossa che indossava di sotto per ripararsi con il cappuccio. «Tieni. Mettiti questa.»
«No, dai. Sta’ tranquillo. Non c’è bisogno.» si giustificò Christie.
«Insisto. Indossala e me la riporti a scuola un’altra volta.»
Christie la prese con titubanza e la infilò, sopra la maglietta leggera. «E tu? Non senti freddo così?»
«No, sono praticamente arrivato a casa.» rispose, indicando con lo sguardo il palazzo, sotto la cui tettoia Christie si riparò. Si allibì della coincidenza, se avesse saputo che quella era la casa del ragazzo per cui aveva una cotta, avrebbe continuato a camminare alla ricerca di un altro riparo.
«Ah, non sapevo che abitassi qui.»
Christie alzò il cappuccio della felpa e avvertì istantaneamente il profumo di Theo, avvampando. Quell’odore era piacevole come il sole che si fa spazio tra le nuvole in una giornata plumbea. Theo la fissava senza tregua, Christie si sentiva gli occhi addosso, ma la cosa non la infastidì. Perché era Theo Hughes a dedicarle quelle seppur piccole attenzioni. Ed era Theo Hughes ad aver dimostrato di essere premuroso nei suoi confronti prestandole la felpa.
Christie, imbarazzata, si portò le dita sulle labbra, solita azione spontanea che faceva quando pensava troppo.
«O mio dio.» mormorò Theo, facendo allarmare Christie.
«Che c’è?»
«Se te lo dicessi, mi riterresti un cretino.»
«No, dimmi. Ti prometto che non ti giudicherò.»
Theo si tirò il ciuffo inzuppato all’indietro e poi rispose: «Quando una ragazza si tocca le labbra mi fa impazzire. Mi piace.»
A Christie scappò una risatina per soverchiare l’emozione.
«Lo sapevo. Stai ridendo di me.» gracchiò Theo, facendo un leggero sorriso.
«No, ma che dici? È solo che è strano come una cosa talmente stupida possa piacerti, soprattutto quando a farlo ci sta una come me.»
«Perché? Cos’ha una come te che non va?»
«Non sono per niente bella o sexy. Neanche quando sfilo una maglietta sono bella.»
«Ti sottovaluti. Per me sei molto carina.»
Christie si mise una ciocca di capelli dietro le orecchie con un sorriso largo e sincero. Stupida, si disse, riflettendo sul modo rincitrullito con cui stava affrontando la situazione.
«E quando una ragazza si tocca le labbra provo invidia perché vorrei poterle toccare anch’io. E quindi finisce con il desiderio di baciarla.» dichiarò Theo.
Fu inutile, Christie aveva la guerra nello stomaco e, di lì a poco, il suo cuore sarebbe scoppiato per quanto andasse veloce. Un nodo alla gola era tutto ciò che non le permise di aggiungere una sola parola e, il bello di quel momento, fu che il temporale aveva smesso da un bel po’. Christie non riuscì più a smettere di guardarlo, come se fosse entrata in ipnosi. Gli occhi di Theo erano incredibilmente magnetici e sembravano capaci di guardare anche oltre gli occhi di Christie.
Le lancette dell’orologio si fermarono quando Theo accarezzò la guancia sinistra di Christie e, sorridendole timidamente, si avvicinò a lei e poggiò le sue umide labbra sottili su quelle fragili di Christie. Un bacio intenso quanto il minuto in cui rimasero avvinghiati, inglobati in una sfera amorosa di cui Christie desiderava tanto farne parte. Perse la razionalità, il freddo era sparito totalmente e la sola cosa che percepiva erano le labbra e il pizzetto di Theo, ormai abbastanza vicini a lei da farla impazzire. Anche mentre baciava Theo, ripeté che fu la scelta sbagliata a causa della loro diversità. Sebbene fosse cosciente dell’errore a cui stava dando inizio, ormai era troppo tardi. Non avrebbe più lasciato andare Theo per nulla al mondo.
Quant’è vero, però, che ci s’innamora quando meno te l’aspetti e nel modo più sciocco possibile, è anche vero che ogni cosa è destinata a finire prima o poi. Tuttavia Christie restò fedele all’amore nei confronti di Theo e credette fermamente che mai sarebbe finita. 

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Capitolo 5
*** L'inizio di una fine ***


 
4. L’inizio di una fine
 
Christie Ackles era tutto fuorché avversa all’ansia. Si potrebbe dire addirittura che fosse la ragazza più ansiosa tra tutti i suoi coetanei, perché di un piccolo problema ne faceva un dramma prorompente. Non era sicuramente il tipo indifferente che non dava peso ai problemi – a parte quando suonava il pianoforte – e questa volta sentì che la sua vita stava cambiando ulteriormente.
Per tutta la notte chiuse e aprì gli occhi, senza prendere sonno. Il volto di Theo le appariva nella mente, sebbene non fosse nitido e stagliato. Per giunta le apparve difficile pensare a qualcos’altro, perché Theo si era introdotto nei suoi pensieri, incollandosi come una sanguisuga e senza la minima intenzione di mollare la presa.
Sdraiata sul suo ampio letto, con le lenzuola in seta che la avvolgevano fino alla testa, Christie aggrottò la fronte non appena vide i raggi solari dell’alba filtrare dalle persiane. Era giunto un altro giorno e con esso un’altra dose mattiniera di ansia.
Nonostante fossero ancora le sei e un quarto, Christie non ce la fece più a starsene stravaccata sul letto, nel vano tentativo di addormentarsi. Così si alzò, infilò le ciabattine e aprì l’armadio per prendere qualcosa da poggiare sulle spalle. A Sunderland il caldo estivo era quasi un tabù, perché c’era sempre una brezza fresca pronta a infiltrarsi nelle vene e a provocare la pelle d’oca. Christie afferrò una vestaglia sgualcita e, prima di richiudere le ante dell’armadio, proiettò gli occhi su una scatola all’interno: la “Scatola dei ricordi di Thestie”, ossia di Theo e Christie. Si sorprese di averla ignorata per un anno intero, anche se si era ripromessa di buttarla nel fondo di una pattumiera.
Spinta dalla voglia di rivangare i ricordi ancora una volta, si sedette sulle ginocchia e tirò fuori la vecchia scatola. Aprendola vi trovò una serie di cianfrusaglie e regali: collane e bracciali, un cuscino su cui Theo aveva fatto stampare le loro foto, un album con altrettante loro foto, peluche vinti insieme a lui ai lunapark; alcune lettere che Theo, nei rari momenti di dolcezza, le scrisse; un capello da cowboy che le regalò durante un ranch, e alcuni souvenir. Una scatola strapiena della loro storia. Ma Christie serrò le labbra e ostentò un triste sorriso quando notò, in fondo alla scatola, la felpa rossa di Theo. Ebbene sì, non gliela ridiede più indietro, poiché fu per lei il primo vero e sincero ricordo di Theo, la felpa che sniffò per un’intera settimana perché impregnata del profumo del ragazzo.
Ad un tratto, invasa dalle forti emozioni, agguantò il cellulare e rispose al messaggio a cui ancora non aveva dato risposta. Gli scrisse: “Ciao. Di cosa vorresti parlarmi?”
Be’, si pentì un minuto dopo averlo inviato, ma ormai era fatta. Pensò che, essendo ancora mattina presto, le avrebbe risposto delle ore dopo. E invece rimase stupita quando, a distanza di dieci minuti, vide un altro messaggio da Theo. Le sembrava così strano, il suo nome non appariva sullo schermo del suo cellulare da un anno e adesso era come rivivere dei flashback.
“Te lo spiegherò. Possiamo vederci oggi alle 09:30 davanti al Coffee Break?”
Rispose che per lei andava bene e improvvisamente credette anche che non dovesse parlarle di niente di eccezionale. Magari sarebbe stato uno di quegli incontri con gli ex, in cui uno propone all’altro di tornare ad essere amici e dimenticare il passato. Christie non avrebbe mai accettato una simile proposta. Con quale coraggio avrebbe mai potuto ritenere amico colui che prima chiamava “amore”?
 
Alle nove di quella mattina, Christie era già pronta fisicamente e psicologicamente – ma su quest’ultima c’era ancora qualche dubbio. Aveva la stomaco in subbuglio e non uscì dalla sua camera per tutto quel tempo. Ormai aveva compreso di essere troppo trasparente e, se i suoi genitori l’avessero vista lavata e vestita già alle nove del mattino e con un’aura decisamente di un colore rosso fuoco, avrebbe dovuto patire i loro interrogativi e il loro terzo grado, soprattutto da parte della signora Ackles. Aveva ancora del tempo a disposizione, prima di uscire da lì e farsi venire il mal di testa per la troppa agitazione in grembo. E poi non voleva essere né in anticipo né puntuale, per non apparire impaziente e non dare l’idea di una che non vedeva l’ora che arrivasse quel momento.
Dopo una ventina di minuti si mise in marcia, sgattaiolando fuori dalla camera in fretta e salutando i suoi genitori con l’agilità di un ghepardo, in modo da scansare le loro domande. Nella borsa, poco prima di andare via, infilò la felpa rossa di Theo, senza se e senza ma. Almeno quella voleva restituirgliela, come se fosse un conto in sospeso. E poi perché l’ultima volta le aveva portato fortuna.
Mentre si dirigeva a passi brevi verso il bar dove sarebbe avvenuto l’incontro, da lontano intravide all’istante la sagoma di Theo e il tremore aumentò a dismisura. Fece un respiro profondo per darsi una calmata e avanzò. Theo era tremendamente solare quella mattina, ma non perché fosse l’immagine della felicità, bensì per il suo aspetto che a Christie faceva girare la testa: abiti casual, capelli e barbetta lunghi al punto giusto e uno sguardo radioso.
Quando Christie entrò nel suo raggio visivo, Theo parve irrigidirsi, ma addolcì il tutto con un sorriso.
«Ciao.» salutò lui per prima, il suo tono era moderato.
«Ciao.». La voce di Christie era flebile e instabile. E poi mi chiedo in che modo possa essere così trasparente, pensò Christie tra sé.
«Entriamo dentro?» domandò lui e Christie annuì.
Seduti ad un tavolo, tra i due tramontò il silenzio e vi era solo un netto scambio di sguardi. Ordinarono due caffè, ma Christie avrebbe preferito di gran lunga una camomilla.
«Allora, come stai?» ruppe il ghiaccio Theo.
«Sto bene. Tu?»
«Non c’è male.»
Theo si grattò il naso e Christie tamburellava le dita sul tavolo.
«Suoni ancora?»
«Certo.» rispose Christie con una nota di ovvietà. «E tu? Sei entrato al college?»
«Sì, a Oxford. Inizierò a Settembre le lezioni.»
«Buono. Sono felice per te.»
Il cameriere portò le loro ordinazioni più il conto, ma non appena le delicate narici di Christie inalarono il vapore aromatico del caffè, nello stomaco sorse un sintomo di nausea, per cui non ne bevve neanche un goccio. Senza farci caso si ritrovò a scrutare Theo mentre sorseggiava il suo.
«Non che frema dalla voglia di sapere cos’hai da dirmi, ma devo ammettere che il tuo messaggio mi ha turbata. Quindi siamo qui, puoi anche iniziare se vuoi.» asserì Christie, facendosi seria.
Theo terminò il suo caffè e fece un lungo respiro. Poi disse: «È un po’ difficile sai? Avevo pure preparato un discorso sensato, ma mi accorgo solo ora che ho dimenticato tutto. Non pensavo che potesse risultare così arduo.»
«Okay, tranquillo. Esprimiti a parole tue.» disse Christie, tentando di rasserenarlo.
«È da un paio di settimane che mi capitano delle coincidenze che ricollego immediatamente a te. Ho ripensato a te, a noi, ogni ricordo mi spingeva a pensarti e a sognarti senza tregua. E naturalmente ho ricordato anche il motivo per cui tra noi è finita e ti giuro che mi sono schiaffeggiato da solo per quanto sono stato coglione. Mi sono comportato da immaturo ed egoista e non ti ho neanche chiesto scusa, né mi sono fatto più sentire.»
«L’importante è rendersene conto.» specificò Christie, sarcastica.
«Ti ho chiesto di vederci per chiederti scusa innanzitutto. Perdonami. Ho rovinato tutto e non ho apprezzato il modo in cui mi amavi. Io ti amavo, sul serio e…»
«Non mi pare che tu me ne abbia dato prova. Mi amavi anche mentre te la facevi con quella cubista tutta culo niente cervello?»
«Ero ubriaco.» si giustificò Theo.
«Hai detto bene. Eri ubriaco e quando uno è ubriaco, fa uscire il lato effettivo di sé, la vera natura. E tu sei fatto così.»
«Sono cambiato.»
«Ah, non venirmi a dire baggianate. Come se in un anno tu non abbia ripetuto le stesse zozzerie.»
Theo chinò lo sguardo e, con aria supplichevole e pentita, disse: «Hai tutto il diritto di essere arrabbiata con me e chissà quante cose vorresti dirmi in questo momento, ma ti limiti. Dimmi pure che sono uno stronzo, un bastardo, un bambino che non cambierà mai, ma io sono sincero quando ti dico che mi manchi e che voglio ritornare a parlare con te come una volta.»
Christie scosse la testa, titubante. «Posso perdonarti, ma non dimentico i momenti in cui mi facevi sentire una pezza e in cui mi trattavi come se non provassi sentimenti. Tornare a parlare come una volta significa tornare ad essere com’eravamo una volta e mi sembra una presa in giro.»
«Non lo è. A te sembra, ma ti assicuro che non c’è niente di male.»
Christie rise per disperazione, non poteva credere alle sue orecchie. Ancora una volta Theo dimostrò di sbattersene di ciò che passò lei, pretendendo l’affetto delle persone come un bambino viziato vuole a tutti i costi un giocattolo nuovo.
«Non abbiamo più niente in comune, a partire dal fatto che ora tu andrai a vivere a Oxford e io a Londra. Non so più niente di te, come tu di me. Viviamo due vite distinte e separate e credo che esista un motivo per tutto, perfino per la rottura della nostra storia.»
«Appunto. Io non voglio ricominciare da dove abbiamo terminato. Io voglio ricominciare tutto da capo…»
Se avesse usato il termine “vorrei” invece di “voglio”, Christie avrebbe anche potuto farsi convinta. Ma Theo, con la sua esigenza, la stava allontanando con le sue stesse parole.
«Ma perché ci tieni ancora alla nostra storia?»
«Perché sono ancora innamorato di te.»
I due si guardarono e tutto intorno a loro si oscurò. Theo guardava Christie con speranza, Christie guardava Theo con riluttanza. Sta scherzando con il fuoco, disse Christie tra sé e sé. Senza rifletterci, Christie si portò le dita sulle labbra, distogliendo gli occhi da quelli di Theo.
«Me lo stai facendo apposta?» chiese Theo, sorridendo sotto i baffi.
A Christie bastò un solo secondo per capire in pieno il motivo della sua domanda e staccò immediatamente le dita dalle sue labbra. Ricordò che a Theo faceva impazzire e gli faceva venir voglia di baciarla.
«Andiamo. Lo so che anche tu vuoi ricominciare e la cosa ti intriga, ma sei troppo orgogliosa per ammetterlo.»
«E tu sei troppo convinto. Caro mio, non è così. Di certo non sono una masochista, perché so che con te tornerei a soffrire un’altra volta e mi rifiuto.» sentenziò Christie, alzandosi dalla sedia. «Questa è la mia decisione e pretendo che tu la rispetti. Non puoi apparire di punto in bianco, chiedermi di tornare con te e lasciarti via libera, senza solchi e ostacoli. Sbagli a pensare che la gente sia sempre a tua disposizione, pronta ad accontentarti. Perciò vivi la tua vita, come io continuerò a vivere la mia, che fino a ieri era tranquilla e spensierata.». Christie era riuscita a zittire Theo, probabilmente perché persino lui si rese conto che tutto ciò che Christie disse e con cui si sfogò, era vero e sensato. Dalla borsa, Christie uscì la felpa rossa e la poggiò delicatamente sul tavolo. Theo la guardò e socchiuse le labbra in un’espressione di stupore.
«Questa è tua. Ci tenevo a ridartela, anche se non ti entrerà più. Ciao.» terminò Christie, uscendo diretta dal locale.
Theo scattò in piedi dalla sedia, con uno slalom superò i tavoli e raggiunse Christie prima che fosse troppo lontana. La abbrancò per il polso e la tirò verso di sé.  
«Sono disposto a trasferirmi a Londra, se questo significa poter stare con te.» supplicò ancora il ragazzo, questa volta con gli occhi lucidi.
«Non è questo il punto. Per quanto tu tenterai di supplicarmi, io sono ancora ferita, mi sento ancora tradita e per questo non mi fido di te.». Christie si dimenò per liberarsi della presa di Theo, invano.
«Dammi solo una possibilità.»
«È troppo tardi.»
Theo prese il viso di Christie tra le sue mani e si trascinò interamente sulle sue labbra. Perfino attraverso quel bacio supplicava disperatamente di essere accettato. Ma Christie, amareggiata, lo distanziò da sé con uno strattone e lo fulminò con un solo repentino sguardo. Dai suoi occhi traspariva la rabbia, l’appagamento, la paura e il rifiuto. Poi si voltò e scese dal marciapiede per attraversare la strada.
«Non smetterò di implorarti!» urlò Theo per farsi sentire.
Christie ebbe un tuffo al cuore all’udire quelle parole piene di speranza. Theo non avrebbe mollato e lei non avrebbe più trascorso giornate serene. Ma tra tutti i pensieri che ondeggiavano attorno a lei in quel momento, Christie non si accorse che una macchina sfrecciava a tutta velocità sull’asfalto. E, proprio quando si voltò indietro per guardare Theo rientrare nel bar, la macchina la urtò in pieno, facendola balzare sei metri più avanti.
I suoi occhi si chiusero, guardando un’ultima volta il cielo cristallino e udendo, come per immaginazione, il suono delle note del suo pianoforte.

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Capitolo 6
*** Sconosciuti ***


PARTE SECONDA
 
5. Sconosciuti
 
Morire è come assopirsi e accedere al mondo dei sogni, e non si ha la certezza di far parte di un sogno fino a quando non ci si sveglia.
Christie era solo un corpo inerte, riverso sull’asfalto mite di quella maledetta strada, e i suoi occhi, delineati da un filo di trucco, davano l’impressione che mai si sarebbero riaperti. La gente accorreva e si accalcava, circondando il luogo dell’incidente e, allarmata, si faceva spazio tra le teste incuriosite della cerchia. In mezzo a tutto quel trambusto, la luce irradiante del sole illuminava la città, ma ce n’era un’altra che nessuno ebbe la capacità di rilevare. Una radiazione luminosa, ancor più accecante di quella emessa dal sole, illuminò il povero corpo della ragazza, come se fosse sotto i riflettori di un losco teatro gremito di spettatori, avvelenati dal tedio. Era una luce a tutti invisibile, un bagliore divino, un’emissione calorosa e salvifica…
 
Gli occhi di Christie, spossati e consumati dal rossore, si riaprirono lievemente. Era ancora all'oscuro del luogo in cui si trovava, ma in una situazione di confusione, l’unica cosa che avvertì fu la temperatura ghiacciata e paralizzante che si estendeva radicalmente in tutto il suo corpo. Gemette poiché, aprendo gli occhi, l’ambiente le apparve sfocato, come intravisto attraverso l’acqua increspata. I brusii attorno a lei le apparivano vicini come musica alle auricolari, ma sorde e attutite. Il suo respiro era affannato e serrato da qualcosa simile a un masso ponderoso, gravante sull’addome. La sua schiena era adagiata su un marmo duro e gelato e, quando la sua vista riprese a funzionare, si accorse di un tetto a volute lignee, che ricopriva interamente l’edificio in cui si trovava. L’aria era impregnata di incenso, unito al profumo delle rose sbocciate. Pian piano il suo udito, come la vista, le permise di tendere l’orecchio ai suoni attorno, ma tutto ciò che udì fu il silenzio. Non c’era più alcun brusio, né vicino né lontano. Mosse le dita, tastando la piattaforma su cui era sdraiata, liscia e levigata.
Capacitandosi del fatto che il luogo in cui si risvegliò era a lei sconosciuto, si alzò di colpo a sedere. L’edificio era costruito in legno, insieme a tutti gli utensili e agli immobili. Alla destra di Christie c’era uno spazio semicircolare, al centro della cui parete un tabernacolo dorato luccicava alla luce delle candele. Queste ultime soprattutto risultavano essere le uniche fonti di luce, incastrate nei candelabri, ora posti sul pavimento, ora fissati alle pareti. Alla sinistra si estendeva una lunga fila di panche, fornite di inginocchiatoio e, su ognuna di esse, erano poggiati due coroncine del rosario. Era una chiesa e Christie era seduta sull’altare.
Scese dal marmo, credendo che avesse compiuto un atto sacrilego, e rivolse l’attenzione al portone in legno massiccio, in fondo al corridoio. Voleva uscire da lì. Voleva capire come vi era arrivata. Ricordava poco dell’incidente, anche se aveva compreso di essere stata investita. Soltanto non era nelle sue facoltà riuscire a fare la differenza tra sogno e realtà. Era incapace di comprendere se si trattava della sua immaginazione o di una perdita della concezione temporale, che le rimosse tutto l’accaduto dall’incidente al suo risveglio. Le sue vaghe riflessioni, però, furono interrotte quando vide, su una delle navate laterali, un fascio di uomini in tunica nera. Il cappuccio appuntito era rialzato, il che non permetteva di analizzare i loro volti e, tenendo dei libricini sulle mani, si trascinavano sinuosamente per la navata, bisbigliando quelle che presumibilmente dovevano essere delle preghiere. Parve che la presenza di Christie in chiesa non li turbò, perché non arrestarono la loro sorta di danza neanche quando uno di loro guardò in direzione di Christie e, dopo aver chinato la testa in segno di saluto, riprese a seguire quella specie di processione.
Intimorita da quella situazione, Christie velocizzò il passo verso il grande portone, con lo scopo di uscire e darsi delle risposte. Più si avvicinava all’uscita, più l’odore di incenso si faceva più forte. Questo perché, agli stipiti del portone, ci stavano due turiboli dentro cui bruciavano le piante. Giunta di fronte all’uscita, Christie si sentì all’improvviso piccola come uno scarafaggio in confronto a quell’impotente arcata. Il pomello, dorato e sferico, era poco più grande del suo palmo. Stava per agguantarlo quando vide riflessa la sua immagine. Ma non fu lei stessa a mettersi paura, quanto un volto in più che appariva sul pomello, un volto dietro di lei. Si volse repentinamente e, davanti a sé, vide un’anziana signora, dall’aspetto grottesco, con rughe sparse su tutto il volto e perfino calva. Il suo corpo esile era piegato in due, a causa della schiena ricurva, su cui poteva notarsi una gobba delineata. Era terrificante e, a rendere il suo viso ancora più orribile, ci stavano un paio d’occhi spenti e angoscianti, anneriti dalle occhiaie.
«Non superare quella porta.» le ordinò, la sua voce era stridula e graffiata.
Christie si fece guardinga e, in assenza di parole, si limitò a scrutare l’anziana con circospezione.
«Non andare. Vieni con me.» disse ancora, con lo stesso tono autoritario e tendendole la sua mano striata. «Se vieni con me puoi star certa che sarai in un luogo sicuro, dove la luce rischiarerà il tuo cammino e terrà lontane le tenebre.»
«Cosa c’è oltre questa porta?» chiese Christie.
«L’abisso, profondo e senza fine. Se la oltrepasserai, non potrai più tornare indietro.»
«Dove mi trovo? Cos’è successo?»
«Se vieni con me, lo capirai.»
Christie, con una mano teneva il pomello del portone, e con gli occhi guardava titubante la mano tesa della donna. Se era un sogno oppure no, non ne era ancora sicura, ma quel che capì fu di non trovarsi in una normale circostanza.
Gli uomini in tunica nera arrestarono la loro danza e le loro preghiere, e adesso erano solo intenti a fissare scrupolosi Christie e l’anziana. I loro volti erano invisibili, risucchiati dal buio pesto. E Christie si sentì confusa, si sentì soffocare, perché era incapace di prendere una decisione, sebbene quell’anziana stesse riuscendo a persuaderla.
«Dai! Cos’aspetti? Afferra la mia mano e ti accompagnerò per la giusta strada.» continuò l’anziana, con un sorriso malizioso sulle labbra sottili, quasi impercettibili.
«Non lo fare!» esclamò un’altra voce, accanto a Christie. Lei stessa sussultò nel notare alla sua sinistra un giovane ragazzo, alto e mingherlino, che con il solo sguardo riuscì a inviarle un messaggio chiaro e forte: la donna era il male. L’anziana, con tutta risposta, gettò sul ragazzo un’occhiata furibonda e di disprezzo, e sul suo viso parvero apparire più rughe e più macchie.
Il ragazzo girò il pomello del portone e, con un leggero spintone, costrinse Christie a passare attraverso la fessura ed essere inghiottita dal fascio di luce. Un urlo straziante e desolante penetrò le orecchie di Christie. Un urlo di chi ha appena assistito a una sconfitta. L’urlo dell’anziana signora.
 
Quando Christie riaprì gli occhi – dopo che era stata costretta a chiuderli per il bagliore accecante – si vide immersa in un’inaspettata dimensione, uno scenario che le strozzò le emozioni in gola. Dietro di lei la chiesa e il portone erano spariti, così come l’anziana malefica e il ragazzo che l’aveva spinta fuori.
Una sconfinata ed estesa prateria ombrata, con colline scoscese e popolate da un mucchio di persone. Il cielo era dipinto di bronzo e, sebbene desse l’idea del giorno, era puntellato di grandi e sfavillanti stelle. Il sole e la luna erano assenti, così come gli uccelli. Era come stare all’interno di un fermo immagine, in cui a muoversi ci stavano solo le persone. Queste erravano da sole o in compagnia: uomini, donne, bambini e anziani. C’erano un quartetto che, in coppia, camminava di pari passo, compiendo percorsi sinusoidali, e una signora che, sdraiata sull’erba, con le braccia strette all’addome e il viso snervato, piangeva e si disperava. Alcuni uomini parlavano tra di loro e altri che, pur stando insieme, si guardavano taciturni. Dei bambini si rincorrevano, sorridenti e spensierati, mentre un ragazzo volteggiava sulle punte, in piroette sensazionali ed eleganti arabesque. Pareva così sciolto in quella danza, che per poco avrebbe potuto librarsi in aria come una libellula. Un coro composto da circa dieci uomini cantava inni lirici, malinconici e deprimenti. Regnava la pace, ma su tutti i loro visi la tristezza aveva messo la firma.
Alcune di quelle persone avevano un aspetto vitreo e trasparente, come se si potesse guardare o addirittura passare attraverso il loro corpo. E questo fu ciò che traumatizzò Christie. Avvertì una brutta sensazione e non si sentì in un luogo adatto a lei. Si palpeggiò le braccia e le gambe, ma ciononostante sentiva di essere normale e concreta, non uno spettro come gli altri. Avanzò comunque su quel prato opaco e si addentrò in mezzo a quella gente sconosciuta. Alcuni la guardarono, seguendola con lo sguardo e senza sbattere ciglio, altri le sorrisero al suo passaggio, ma lei era troppo paralizzata per poter ricambiare. Il ballerino di prima le passò accanto e le sfiorò leggermente il braccio nudo. Da ciò Christie ne trasse la materia inconsistente e limpida come l’acqua di cui il ballerino era composto e comprese che non fosse del tutto umano. Non percepì il calore umano della pelle, fu come essere toccata dal battito d’ali di un colibrì.
Non le rimase altro che pensare ad un’unica cosa e più lo ripeteva nella sua testa, più si maledisse di non aver dato ascolto a quell’anziana.
Sono morta, pensò. Non esisteva altra risposta, altra spiegazione. Era impreparata e per questo non sapeva come tornare indietro. Era troppo tardi. Non salutò neanche suo padre, sua madre, sua sorella; non finì di leggere il libro lasciato in sospeso. Non arrivò a poggiare le sue dita sui tasti freddi del suo pianoforte per un’ultima volta.
È questa la morte, si chiese. Ti porta via tutto ciò che hai di più caro, senza preavviso e senza chiederti il permesso?
Sfinita, si buttò su quel prato secco e spento, e pianse a dirotto. 

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