Gli Occhi Della Madre

di Francine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


Non sono impazzita, tranquilli. O forse sì, lo sono, vista la marea di roba che ho per le mani e che se continua così non finirò mai – ma i miei lettori abituali lo sanno come sono fatta e chiuderanno un occhio, vero? Vero?!
Comunque sia. Avevo voglia di riprendere il fiato e  avevo questa cosetta in ballo da un saaaaacco di tempo, per cui, complice questo Marzo un po’ ballerino, mi sono lasciata trascinare dal Ponentino ed ho sfornato questo raccontino senza pretese. Una storia leggera non ha mai ucciso nessuno. E poi, tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo incontrato quell’essere mitologico chiamato Suocera, giusto?


E ora, i disclaimer:
Saint Seiya © Masami Kurumada, Shueisha, Toei Animation, 1986

Tutto il resto è farina del mio sacco e no, non è possibile ispirarsi né citare questa storia se non previo permesso scritto (parodie comprese), visto che la telepatia ancora non l’ho sviluppata.
Questa è un’opera di finzione, e, come tale, mi sono presa alcune libertà. Spero non me ne vorrete!
Buona lettura!

 



1.
 
Ha deciso. Oggi si chiamerà Athanasios. Colui che non muore. Gli è sembrato un nome appropriato, anche se il soggetto che ha scelto non è l’uomo più puro al mondo. Anzi.
Suo fratello avrà qualcosa da ridire, su quella e su molte altre delle sue scelte, ma pazienza. I fratelli maggiori brontolano per contratto. E quel corpo deve piacere a lui, deve calzargli come un exomis di buona fattura che non costringa i movimenti, ma li esalti.
E deve piacere a lei; quel tanto che basta per farsi ascoltare, si capisce. E decidere che, forse, il gioco vale la candela.

E questo Athanasios possiede tutto ciò che lo aggrada. Occhi scurissimi, capelli ricci, fisico possente ed una folta barba nera che gli incornicia il viso. Ha anche un curioso disegno sull’avambraccio destro. Una cosa che lui conosceva, tanti anni addietro, prima che il suo culto arrivasse in questi lidi sulle groppe dei cavalli dei cacciatori. Su Asti, la chiamava lui, ma era orientata in maniera diversa, allora.

I tempi cambiano. E l’ignoranza aumenta, si dice, infilando in un cassonetto quello stranissimo pileo piatto di lana blu corrosa dalla salsedine, e lasciandosi il Pireo alle spalle.

«Dove vai? Abbiamo un carico da sistemare», gli urla dietro qualcuno. Ma lui – ma Athanasios – non gli bada. Ha un appuntamento da organizzare, e non può certo baloccarsi con le questioni dei mortali.
«Ehi, sei sordo? Oh, ma va’ all’Inferno!», gli urlano dietro.

Lui agita una mano – la mano di Athanasios, quella che appartiene al braccio col Su Asti male orientato – in segno di saluto e prosegue per la sua strada. Ci rivedremo. Presto, molto presto, pensa, camminando per quelle viuzze strette e tortuose come fossero parte del suo regno. A testa alta. Le mani callose sprofondate nelle tasche dei pantaloni sdruciti ed un sorriso pericoloso ad incurvargli le labbra. 
 

 


Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:
Questa storia nasce come un unico, lunghissimo racconto. Non si direbbe, da questo primo paragrafo, ma i successivi sono ben più corposi; troppo, per una one-shot. Ho così deciso di dividere la pubblicazione in capitoli, e ho anche deciso di rimandare in coda alla storia tutte le note. Purtroppo, ho fatto i conti senza l'oste, ché se in una storia autoconclusiva i nodi vengono al pettine quasi subito (a patto di sopravvivere ad una ventina di pagine, s'intende...), non così accade nei racconti di più ampio respiro.
Sicché, sui ceci e sui cocci, vi porgo adesso le note di questo primo capitolo. Ché mi rendo conto sono assolutamente necessarie. Come le pinne per il pescecane.

Su Asti in sanscrito significa è bene o il bene ed è alla radice dalla parola svastica. Contrariamente a quanto si pensi, la svastica è un simbolo positivo legato alle culture del Neolitico che ritroviamo sparso un po' per mezzo mondo (in Asia, Europa, ma anche presso gli indiani Navajo!) che rappresentava il Sole, se orientato verso destra (il Sole, L'Axis Mundi, ecc ecc), la piena consapevolezza del Boddha (se non rammento male) se orientato verso sinistra. Poi i nazisti se ne appropiarono stravolgendone il significato; ma questa è storia. Athanasios porta un tatuaggio sull'avambrtaccio destro che ricorda al nostro protagonista quando quel simbolo era usato nei templi come augurio di pace e prosperità. E gli fa strano ritrovarlo sulla pelle di un marinaio portuale.

I cacciatori sono gli Indoeuropei, che dalle pianure dell'Asia Centrale sciamarono in India e in Europa. Il concetto che le popolazioni portino con sé il ricordo degli dei che venerano è ripreso e ben spiegato da Neil Gaiman in American Gods. L'avete letto, vero?

Il pileo era un copricapo a forma conica che si usava in Grecia. Poteva essere anche più appiattito, come gli zuccotti dei marinai. Il Pireo è il porto di Atene.

L'exomis era una tunica corta al ginocchio, che lasciava scoperta una spalla, e stretta in vita da una cintura. Era l'abito utilizzato dagli opliti.

Secondo la stragrande maggioranza dei mitografi, Ade è il fratello maggiore, poi c'è Poseidone e poi Zeus, il minore. Non così in Omero, dove Zeus è il maggiore e Ade il minore. Ho ripreso questa successione, perché l'uomo conosce prima la luce e poi la morte (anche se è vero che Ade è il dio dell'Oltretomba, non la morte in quanto tale, ed è dal buio che veniamo...). Quindi, tolto Zeus dai piedi, il fretallo maggiore con cui deve andare a parlare Athanasios è Poseidone, e la divinità all'interno di Athanasios è... Ade! Il quale non ha certo tempo di aspettare che nasca l'essere più puro al mondo. Anche gli dei hanno fretta...

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Capitolo 2
*** 2. ***





2.
 
 

Negli occhi della Terra rifulgeva il trionfo.
Si è avvicinata al suo capezzale con passo mellifluo, agitando un ventaglio di piume rosso papavero. Si è seduta – è crollata a sedere – ignorando lo SBOFF di protesta del materasso e il cigolio preoccupato delle molle, e ha esclamato un odioso «Lo sapevo!», sospirandolo assieme al respiro compiaciuto di chi gode dell’ennesima sconfitta altrui.
«La mia bambina sta piangendoE a chi dobbiamo questa cortesia?», negli occhi la stessa luce che anima le aquile prima che piombino sui teneri agnellini al pascolo. «Spero sarai soddisfatto...»
L’ha ignorata. Come se lei non fosse lì, come se la sua pelle non puzzasse di grano e papaveri, come se le sue terga grasse e flaccide non stessero incurvando un lato del letto. L’ha ignorata, nella speranza che se ne andasse, che la smettesse di rigirare il coltello nella piaga, che lo lasciasse solo.
Invece, no.
«Eppure, era un compito facile, no? Tu sei un dio. Un maschio. La tua arma è la spada. Eppure, ti sei fatto battere, ti sei fatto ferire da una ragazzina che puzza ancora di latte! Sai come li chiamo, io, quelli come te?»
Silenzio.
«Mezze. Cartucce! »
Pausa.
«Ah! Io gliel’ho detto tante di quelle volte alla mia bambina di lasciarti perdere. Ci sono carrettate di partiti migliori di te. Il Citaredo, ad esempio. Bello, gagliardo, con quei suoi folti riccioli neri. Sarebbe anche una buona accoppiata, la figlia della Terra ed il Sole. Guarda, mi andrebbe bene anche quello scapestrato del Pensiero. O quel pidocchio ravvivato dello Straniero. Peccato che quella ragazzina sia così testarda. Non so proprio da chi abbia preso…»
Silenzio.
«Ma stavolta!», e la divina Terra si è alzata dal letto con uno scatto quasi prodigioso – per una donna della sua stazza, s’intende – e ha chiuso il suo ventaglio con un secco clac. «Stavolta riuscirò a far vedere alla mia bambina che razza di nullità ha sposato! Stavolta, non potrà proprio darmi torto, cara la mia Mezza Calzetta…»
Si è puntellato su un gomito, i begli occhi azzurri che dardeggiavano furore ed impeto.
«Non oserai…», ha sibilato. «Tu non oserai…»
«Cosa, mio amatissimo genero?»

Ma non ha potuto risponderle per le rime, ché le porte delle sue stanze si sono spalancate e sua moglie gli è corsa incontro, le braccia tornite a stringergli il collo, le lacrime ad allagarle gli occhi belli. Non gli ha chiesto chi fosse stato a ridurlo così, a ferire il suo corpo che mai aveva conosciuto cicatrice alcuna – se si escludono i colpi della clava di quel tracotante di Eracle.
Chi altri poteva essere se non la Fanciulla, la sua eterna avversaria?
«Maledetta», ha mormorato, accarezzandogli i capelli scarmigliati. «Come ha osato?!», ha tuonato poi, gli occhi pervasi da una furia omicida.
Lui ha taciuto. Non ha potuto dirle: «La prossima volta sconterà tutto. Anche quest’ulteriore affronto», perché entrambi sapevano che non ci sarebbe stata una prossima volta. Che la questione sarebbe finita lì. Per sempre. Perché il patto con la Fanciulla era quello di proseguire nella loro scaramuccia sino a quando il suo corpo – il corpo dello Sconosciuto – non avesse riportato delle ferite. Perché non puoi uccidere la morte. Non puoi metterla a tacere. Sarebbe come uccidere anche la vita, assieme a lei. Ma puoi darti un limite, un non plus ultra – sempre a voler citare quell’arrogante di Eracle – per far sì che il gioco resti tale. E duri poco. Da un punto di vista divino, s’intende.

Lei ha stretto le labbra ed il suo viso paffuto è diventato rosso. Di ira e frustrazione e qualcos’altro su cui lui non ha voluto indagare.
«Madre!», ha urlato. Come una bambina isterica cui sia sfuggito il cerchio dalle manine grassocce. «C’è nulla che possiamo fare?!», ha chiesto. Fissandolo dritto negli occhi. Sottintendendo un noi che lo tagliava fuori dalla questione. Un noi al femminile. La potente chiamata a raccolta della Sorellanza. La coalizione che ogni maschio teme di affrontare, umano o divino che sia.
Ed è stato allora che lo sguardo della Terra s’è fatto sfavillante, come la distesa di rossi papaveri sui prati di Vibo quando lei e sua Figlia tornano in superficie e lasciano il suo palazzo. Si è avvicinata alla sua bambina, il polos dorato sulla parrucca bionda, ed ha sorriso, le labbra gonfie e spellate coperte da uno spesso strato di bistro rosso scuro. Come il succo di una melagrana.
«Bambina mia…», le ha detto la Terra cingendole le spalle ed allontanandola con ferma dolcezza dal suo sposo. «E cosa vuoi fare ancora?»
«Madre!»
La Terra ha scosso il capo, un movimento lento di capelli finti svolazzanti attorno al viso enfio.
«No, bambina mia. Non possiamo fare nulla. L’orgoglio del tuo sposo è già abbastanza provato di suo. La Fanciulla ha avuto la mano pesante, stavolta. Non vorrai ferirlo anche tu, non è vero, piccina mia?», e mentre gli occhi della sua regina si allargavano per il pianto e la frustrazione e la stizza, la Terra abbracciava la sua bambina e se la stringeva al seno, confortandola. E regalando a lui un’occhiataccia severa.

«Ma, Madre…», piagnucolava la Figlia.
«Tesoro, sapevamo entrambe come sarebbe andata a finire, questa storia. Dopo tutto, la Fanciulla è la figlia prediletta del Padre…», e tu sei una mezza cartuccia, dardeggiava il suo sguardo trionfante. «Dai, adesso asciugati gli occhi. Non vorrai rovinarteli, vero? Tuo marito ha bisogno di riposare e s’è fatta Primavera.»
«Io resto con lui!»
«Nossignore! In superficie c’è bisogno di noi», hanno sussurrato le sue labbra, illuminandole la spessa linea azzurro lapislazzuli che le sottolineava lo sguardo bovino. «Non vorrai che i mortali smettano di credere in noi, vero? Qualcuno dovrà pur portare un po’ di potere in questa casa, no?», e l’ha trascinata via, con sé, lasciandolo da solo, a leccarsi le ferite come un cane bastonato. E a meditare vendetta.
 

 


Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:
Cosa c'è di più terribile di una suocera in casa? Se le suocere sono tutte come la divina Demetra, poveri noi!
Demetra, la Terra, è una divinità che giunge in Grecia dall'Asia, assieme al suo compagno, Poseidone. Sua figlia è la celeberrima Kore, divenuta poi Persefone. Nel mio headcanon è la Figlia.
Alcuni mitografi sostengono che Kore/Persefone fosse la figlia di Demetra e Zeus, altri che Zeus si sia avvicendato a Poseidone (padre di Despoina) in età moderna. Fatto sta che dopo che Ade le rapì la figlia, Demetra cadde in una profonda depressione e le messi ne risentirono. Zeus, allora, mandò Hermes (il Pensiero) a riprendere la ragazza dall'Oltretomba; ma siccome la fanciulla aveva mangiato del cibo dell'Ade, fu costretta a restare con la madre per sei mesi e col marito Ade i restanti sei.
Alcuni mitografi più recenti, raccontano che Demetra non lasciò mai la figlia, e che durante i mesi in cui Persefone risiedeva nell'Ade, la madre andasse con lei. Con somma gioia di Ade, aggiungo io.

Le spighe di grano ed i papaveri sono gli attributi della dea Demetra. Ho avuto l'ardire di darle le sembianze e la stazza dell'attrice Luciana Turina (era la suocera di Aldo nell'episodio Milano Beach all'interno del film Il Cosmo sul Comò). Spero che nessuna delle due se la prenda.

Il polos è un copricapo di forma cilindrica proveniente dall'Asia Minore. Sormontava la testa delle divinità legate al culto della fertilità (le Grandi Madri come Rea, Cibele, Era, Demetra, ecc ecc) e i Greci lo introdussero nell'arte figurativa per indicare una divinità, oppure una sacerdotessa legata al culto.

L'espressione mezza calzetta è un modo di dire spiccatamente partenopeo. È nato in un momento storico in cui le calze erano di pura seta e costavano un occhio della testa. Per ovviare al problema, l'ingegnosità partenopea creò delle calze per metà di seta e per il resto di cotone (saldamente nascosto sotto le gonne). Essere una mezza calzetta significa essere una persona di scarso valore, qualcuno che a prima vista sembra essere importante e prezioso, ma che poi si rivela falso.
Origine simile ha l'espressione essere una mezza cartuccia: le cartucce riempite a metà servivano per esercitarsi nel tiro, risparmiando polvere da sparo.
Poiché il culto di Demetra e Persefone era molto radicato nella Magna Grecia (e perché le loro vicende si svolgono tra la Sicilia e la Calabria), ho pensato fosse carino dare a questa dea un'inflessione il più possibile meridionale.

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Capitolo 3
*** 3. ***





3.
 
 

«Bel posto», commenta Athanasios, mentre i chicchi di caffè si tostano nella caffettiera di rame. «Lo hai scovato tu?»
Julian, così si fa chiamare adesso, replica: «No. Me l’hanno fatto conoscere».
«Lei?»
Julian annuisce.
«Immaginavo…»
 
Trovare suo fratello non è stato difficile. Poseidone dorme della grossa nell’anfora sacra, ma una parte del dio – una scaglia minuscola– riposa sul fondo dell’anima di Julian Solo. Julian Solo che ha fatto un lungo viaggio, oltre il Mediterraneo, in cerca di persone da aiutare. Le stesse che ha messo in mezzo ad una strada qualche anno fa, dopo aver scatenato il diluvio universale parte seconda, ma questi sono dettagli.
Conoscono Poseidone, laggiù. Usano il suo nome per chiamarci i cavalli, le scatolette di tonno, i circoli nautici e le barchette che filano veloci sulle acque azzurre trasportando ricchissime signore ingioiellate e marinai della domenica; ma chi lo venera?
Chi sussurra il suo nome durante le tempeste ed i terremoti?
Chi porta nel sangue la contezza di quello che lui potrebbe fare, se solo decidesse di destarsi dal suo sonno e scuotere il suo tridente per liberarlo dalle ragnatele?

Così Julian è tornato in Grecia, al termine di un personalissimo nostos di circa dieci anni. La Sorte sa essere beffarda, e il Mare è sempre stato molto suscettibile riguardo a certe faccende. Perché gli brucia ancora che la Fanciulla si sia schierata contro di lui, per far tornare il suo prediletto a quell’isola dallo spirito aspro. Brucia, sì. Come sale su una ferita aperta.
Julian gli scocca un’occhiata indecifrabile, all’ombra del pergolato di limoni ai piedi dell’Acropoli.
Era proprio necessario?, gli sta gridando il suo sguardo. Non ha gradito trovarsi di fronte alla copia dello scellerato basileus che ha suscitato l’interesse della Fanciulla colla sua astuzia troppo sviluppata, ma poco importa. È a Lei che deve piacere, no?

«Lo so», gli dice. «Ma il mio corpo è ancora convalescente. Il Citaredo ha fatto un lavoro magistrale, con ago e filo, ma i suoi punti necessitano di molto, molto tempo perché la ferita sia suturata», e la smetta di farmi un male infernale.  
«Che vuoi?»
Athanasios sorride, una smorfia stanca sulle labbra provate dalla salsedine.
«Ho un favore da chiederti, fratellone…»

Julian inarca un sopracciglio.
«Attento. Questo è un posto sicuro, ma sai come si dice, no?»
«No. Come si dice?»
«Anche i muri hanno orecchie», dice, facendo un gesto con l’indice.
«Hai paura che il ricco Julian Solo si ritrovi un fratello illegittimo?» Julian annuisce. «In effetti, quest’uomo dovrebbe aver diritto ad una ricompensa per i servigi che ci sta offrendo…»
«Che ti sta offrendo», lo rimbecca il Mare, gli occhi che scintillano come quando il sole accarezza le onde. «Veniamo al sodo, vuoi?»
«Ho bisogno di parlare con lei.»
«Con lei, chi
«Alle volte sei ottuso come dicono, sai?»
«Come dice, chi
«La Fanciulla.»
«È lei che va a dire in giro che io sarei ottuso?»
Athanasios sbuffa. «No! Quella linguaccia di Discordia. Chi altri?»
«Solo lei? Sicuro?»
«Sicurissimo», ribatte. «Adesso, vuoi starmi ad ascoltare, oppure no?»
«No.»
«Come sarebbe a dire, no
«Sarebbe a dire», ribatte la voce di Julian Solo, più bassa di un paio di ottave e profonda come l’eco delle onde, «che non mi sembra saggio farvi incontrare.».
«Ok. Ammetto che tra noi non corre buon sangue…»
«A voler usare un eufemismo…»
«… ma io ho bisogno di parlare con lei!»
Julian Solo incrocia le braccia. «E io cosa c’entro?»
«Organizza un incontro.»
«Per chi mi hai preso? Un’Agenzia d’appuntamenti?»

Lo Sconosciuto non ha la più pallida idea di cosa stia parlando il Mare. Un campanellino tintinna nella sua mente – la mente di Athanasios – a quella combriccola di parole. Indagherò, si ripromette.
«Oh, suvvia. E fammelo, questo piacere! Mi basta poco. Cinque minuti appena.»
«Senti, frat… Senti.» Le dita del mare tamburellano lente sul legno sbeccato del tavolino. «Le regole erano semplici. Al primo sangue avreste smesso. Il Padre è stato chiaro.»

Un sospiro, Athanasios versa il caffè per avere le mani occupate e non stringerle attorno al collo di Julian.
«La Terra mi sta facendo vedere i sorci verdi…»
Un’alzata di spalle. Come a dire, problemi tuoi. «Hai voluto la bicicletta? Adesso pedala!»
Athanasios aggrotta la fronte, e un ricordo di prati in fiore e ginocchia sbucciate si affaccia nella sua mente.
«Prego?»

Julian afferra la propria tazzina.
«È un modo di dire. Io ti avevo avvisato. Sposare mia figlia significava metterti in casa anche sua madre.»
«Ah. Adesso è tua figlia! E come mai mi hai rifilato a nostro fratello quando ti ho chiesto la sua mano?!»
«Non sapevo a quale figlia ti stessi riferendo...»
«Di sicuro, non a Desp…»
«Taci!», e Julian sputa a terra. «Siamo maschi. Non possiamo pronunciare quel nome, ricordi?»
«E tu ricordi di essertene lavato le mani?»
Il Mare si stringe nelle spalle.
«Abbiamo avuto una giovinezza… irrequieta. Vall’a capire di chi fosse figlia, quella benedetta ragazza…»
«E intanto io mi ritrovo quel mostro di suocera!»
«Io ti ho avvisato. Mi hai dato retta? Nossignore. Hai fatto di testa tua e le avete forzato la mano…»
«Era l’unico modo», protesta la voce di Athanasios. «E poi Persefone era consenziente!»
Un lampo malvagio attraversa lo sguardo azzurro del Mare.
«Ma sua madre, no. Mai e poi mai. Privarla della sua bambina? Ma tu vuoi ucciderla!»

Magari, pensa lo Sconosciuto.
Mamma non la prenderà bene.
Lo diceva sgusciando via dalle lenzuola e rivestendosi in fretta, i capelli sciolti e le guance ancora rosse d’amore. E no, mamma non l’ha presa bene, neppure dopo due millenni – quasi tre. Lei è e sempre sarà la sua bambina, con buona pace di sua sorella. La vera Kore.

«Sai perché me ne sono andato di casa?», si sente chiedere lo Sconosciuto.
«Per colpa della Fanciulla, così dice lei…»
«Che idiozie!», replica Julian – il Mare – in un tintinnio di tazzine. «E i miei quattro figli, allora?»
«Dice che Anfitrite è un ripiego.»
«Fesserie! No, dai retta a me, ché la Terra ha ancora il dente avvelenato. Io me ne sono andato di casa per colpa sua. Dopo il parto, la ragazza spensierata è sparita e mi sono ritrovato una madre isterica ed iperprotettiva nel letto!»

Athanasios non fatica a crederlo. Lo Sconosciuto lo sente annuire, dentro di sé.
«Le donne cambiano. Da compagne stuzzicanti si tramutano in arpie dopo le nozze e in madri oppressive dopo il parto. Le donne esistono davvero, o sono solo una fantasia, il frutto di una qualche chimera dispettosa?»
«D’accordo. Ma adesso me la ritrovo in casa io. Sei mesi all’anno. Sei mesi in cui tenta di trasformare l’Ade nel giardino delle Esperidi, facendo ammattire Ascalafo. E nei restanti sei, mia moglie se ne sta quassù, con sua madre che la ingozza come un tacchino…»
«Qualche chiletto su una donna non guasta mai. Vuoi stringere qualcosa
«… e le sussurra chissà quante cose sgradevoli sul mio conto. Vuole farci divorziare! Capisci? Mi sto giocando il matrimonio, io.»
«Noi non divorziamo.»
«No. Ma i tempi cambiano. E la Terra è sempre stata molto persuasiva...»
«Che sciocchezze!»
«Dici così perché non è il tuo matrimonio ad essere in pericolo.»
«Io non capisco perché ti sei fissato che…»
«Perché io amo tua figlia, ecco perché!»
«Davvero? E quella Menta, allora?»
«Una scappatella. Una sola. In quanti secoli di matrimonio?», domanda Athanasios. «E poi lei s’è presa Adone. Siamo pari, mi sembra.»
«Pari? E dimmi, Macaria? È uscita fuori da una melagrana?»

«Macaria è tua nipote», e gli occhi di Julian si allargano tanto che lo Sconosciuto pensa che cadranno giù e rotoleranno a valle come delle biglie extra-large.
«Stai… scherzando?» La testa di Athanasios va da destra e sinistra un paio di volte. «Lei… lo sa
«Figuriamoci! Sarebbe capace di evirarmi a morsi!»
«Ma allora?…»
«Ci ha pensato il Sonno. L’ha fatta addormentare», e noi abbiamo avuto un po’ di pace.
«Questa è bella!», e lo sguardo di Julian scintilla. Sorride, reclina all’indietro la testa e libera una risata di pancia, cuore e anima, fin quasi alle lacrime. «Ragazzi… Avrei voluto esserci, per gustarmi la sua faccia!»
«È stato un inverno molto, molto lungo…», e un ghigno si dipinge sul viso di Athanasios. «Non come quelli di adesso. Lo sta facendo apposta!»

Julian scuote la testa. «Stai esagerando, ok?»
«Senti, paparino…», e se gli sguardi potessero uccidere, Athanasios sarebbe affogato almeno una mezza dozzina di volte, «posso essere sincero fino in fondo?».
Julian annuisce.
«Se ho iniziato tutta questa farsa con la Fanciulla, è colpa di tua moglie
«Non è mia moglie…»
«È stata lei a fare una testa così a tua figlia. E tu sai quanto sappiano essere stressanti e logoranti le mogli, quando ci si mettono…»
«Piano. Stai parlando di mia figlia.»
«Che è mia moglie. E io sono tuo fratello.» Pausa. «Che famiglia complicata…»
«Tutte le famiglie sono complicate», chiosa il Mare.
«Ma la nostra è fuori scala.» Athanasios sorseggia il suo caffè. Un po’ forte ed un po’ troppo bruciato. Però, non è poi così male…
 
«Vuoi un consiglio? Lascia che ci pensi la Terra. Falle recitare la parte della cattiva, una volta tanto.»
«Oh. Ma lei non è mai la cattiva. Lei nutre. Dona. Porta la primavera, le messi, i raccolti... No, come cattiva non reggerebbe.»
«Ma ti sei guardato attorno?», gli domanda il Mare. «I mortali trattano questo pianeta come se fosse una discarica. Non sai la roba che giace sul fondo dell’Oceano. Hanno bucato il cielo. Non si fermeranno neppure quando l’inquinamento avrà reso l’acqua imbevibile e l’aria irrespirabile. E secondo me, non manca poi molto …»
«Una svolta ecologista?»
Il Mare annuisce.
«I ghiacci si stanno sciogliendo, ma gli umani se ne fregano. Forse, se iniziasse a morire il bestiame e i raccolti andassero alle ortiche…»
«In effetti, lei borbottava qualcosa circa le sue Api. Ma siamo seri. Ammesso e non concesso. Tu credi davvero che una manciata di ninfette ecologiste riuscirebbe a tenere testa a quella manica di indemoniati?»
Il Mare tace. Gli occhi di Julian assumono una sfumatura cupa – cupissima – poi gli sente pronunciare un: «No.», senza appello alcuno. La lama che cade sul collo del condannato.

«Ma in tutto ciò, ancora non mi hai spiegato perché dovrei farti incontrare la Fanciulla», commenta Julian, giocherellando col proprio cucchiaino.
«Devo farle una proposta che metterà tutti d’accordo. Io, te e lei.» E salverà il mio matrimonio.
«Te l’ho detto. Nostro fratello non gradirà…»
«A lui, penso io. E fidati, dopo che gli avrò spiegato che razza di», Athanasios gli suggerisce l’espressione dito nel culo. Lui concorda, ma preferisce glissare. Quando Ennosigeo perde le staffe, e le perde con sin troppa facilità, è complicato farlo calmare, «spina nel fianco sa essere la nostra sorellina, vedrai che mi darà ragione…».
«Credimi. Lo sa molto, molto bene…», ribatte Julian, fissando il suo interlocutore come a sondargli l’anima.
 
Sa immergersi, il Mare, nelle profondità più impensabili – le stesse che l’uomo vuole conoscere, ma il cui pensiero gli fa tremare le vene dei polsi – e adesso sta scandagliando il cuore della morte stessa. Che batte, come il suo, come quello di tutti gli innamorati. E questo lo sorprende un po’.
«Tu sei sicuro che la Fanciulla non ci spaccherà questo tavolo sulla testa, fratellino?», chiede, picchiettando con un dito sul legno azzurro carico.
«Sicuro…»
«Non è che la faccenda mi si rivolgerà contro?»
«Stai tranquillo…»
«Tranquillo è morto inculato», ribatte il Mare. Eppure i suoi occhi profondi scintillano dalla voglia che ha di prendere in mano il telefono e chiamare la Fanciulla anche solo per sentire il suono della sua voce.
Athanasios si stringe nelle spalle.
«Allora. Vuoi aiutarmi, sì o no?»

Julian non batte ciglio. Sorseggia il proprio caffè, con studiata lentezza, gli occhi socchiusi. Athanasios gli lascia tutto il tempo di questo mondo e dell’altro. Le sente, le rotelle del suo cervellino fatto di alghe e coralli, girare piano piano. La sente, la curiosità solleticargli lingua e palato, assieme al caffè. Perché l’esca è ghiotta, anche per lui. E la Fanciulla potrebbe essere riconoscente al Mare, per aver fatto da mediatore col suo più acerrimo nemico. E forse, la Fanciulla potrebbe cedere, una volta tanto, e…

«Ti ascolto», dice Julian.
Sogna, fratellone, sogna, pensa lo Sconosciuto, mentre un venticello leggero leggero scosta con dolcezza le foglie dei limoni.
 

 


Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:
Note, note note, ché stavolta sono un sacco!
Innanzitutto, Buona Pasquetta. Considerate questo aggiornamento come la sorpresa all’interno dell’uovo di Pasqua.
 
Sono sicura che alcuni tra di voi avranno riconosciuto il pergolato di limoni ai piedi dell’Acropoli. Per chi fosse digiuno (in tutti i sensi) potete fare un salto al Kallistê. Lo gestiscono la nonna e lo zio di Milo. Lo trovate qui, qui, qui e qui. Dite che vi mando io.
 
Non ha bisogno di presentazioni il basileus che se n’è andato a zonzo per il Mediterraneo (quando non c’era il TomTom, signò...). Ai tempi di Omero, però, il greco antico conosceva due termini per re; uno è basileus, l’altro è anax. Mentre anax indica il sovrano assoluto (o un dio), un basileus era poco più che il membro di un’oligarchia. Alcinoo, infatti, deve riunire gli altri basileoi di Schera per decidere se fornire le navi ad Odisseo per tornare a casa.
 
Poseidone/Ennosigeo (=colui che scuote la terra) è inizialmente il compagno della dea Demetra. Soltanto con le invasioni doriche Poseidone acquista il suo ruolo di divinità marina (gli indoeuropei non avevano il concetto di mare), ma mantiene la prerogativa di scatenare i terremoti solo toccando la terra col suo tridente.
Quando Demetra e Poseidone entrano nel novero degli Olimpi, Zeus, padre di tutti gli dei, si sovrappone al fratello. Così, da figlia di Demetra e Poseidone, Persefone diventa figlia di Zeus e Demetra. A Poseidone viene assegnata un’altra figlia, Despoina, concepita con Demetra mentre questa vagava per la terra alla ricerca della scomparsa Persefone.
Il rapporto che lega Demetra, Persefone e Despoina – il cui nome lo potevano pronunciare solo gli iniziati ai Misteri Eleusini – è ben più complesso e strutturato, e si presume sottintendesse ad un precedente rito di passaggio della donna, che da fanciulla (Kore/Despoina) diventa Sposa (Persefone) e quindi Madre (Demetra).
Despoina era ritratta sempre col viso coperto da un velo, e accanto a lei e alla madre Demetra era onorata anche Artemide, dea delle partorienti.

Sputare è un gesto apotropaico che i greci ritengono capace di allontanare il malocchio. Non è inusuale che qualcuno sputi a terra (per tre volte) dopo aver ricevuto un complimento, dopo aver incontrato una persona con gli occhi azzurri e dopo aver incrociato un pope.
 
Macaria è la dea della morte misericordiosa (quella che coglie nel sonno). Il mito la vede come sola figlia di Ade; resta la domanda chi l’abbia tenuta in grembo, e io mi sono permessa di giocherellare un pochino ai danni di Demetra. D’altro canto, avere la divinità del sonno nelle proprie schiere dovrà rivelarsi utile, no?
 
Menta, invece, era una ninfa con cui Ade ebbe una relazione extraconiugale. La cosa sarebbe finita lì se questa sciamannata non si fosse vantata della cosa con Persefone; la quale, non gradendo gli insulti, la trasformò in una pianta. E Demetra, tanto per stare sicura, la rese incapace di avere dei frutti.
Adone se lo litigarono Afrodite e Persefone, ma la faccenda finì male. Per Adone, s’intende, che un bel giorno incontrò il giavellotto di Ares su soffiata di Persefone...
 
Mi sono permessa di assegnare ad Ade un lessico infarcito di sfumature partenopee (o almeno, ci ho provato) perché il lago d’Averno, nel comune di Napoli, era una delle entrate per il regno dei morti.
Poseidone, invece, ha delle inflessioni più romanesche a causa della graziosissima città di Nettuno, l’ultima sul litorale laziale all’interno della provincia di Roma.
 
E se siete arrivati sin qui, complimenti vivissimi. Vi siete meritati un caffè con tutti i crismi!

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Capitolo 4
*** 4. ***





4.
 
 


Alla Fanciulla è bastato poco per accettare. Una telefonata.
«Sarò presente anch’io», le ha detto – le ha assicurato – il Mare. E tanto è bastato perché lei si fidasse della sua voce, profonda come gli abissi.
Così, eccola qui la Fanciulla. Vestitino bianco, borsa di cuoio a tracolla e sandali ai piedi. Come una banale turista, pensa Athanasios, le braccia incrociate sul legno vissuto del tavolo.
Il luogo dell’incontro è lo stesso ristorante alle pendici dell’acropoli ateniese, sotto un pergolato di limoni; e a lui è andato bene. La Fanciulla deve sentirsi a proprio agio. Ed essere propensa ad ascoltarlo. E che gli dica di sì. E se giocherà bene le sue carte, la Fanciulla capitolerà. E di corsa, pure.

«Buongiorno», le dice, un sorriso freddo a stirare le labbra screpolate.
Lei gli posa la mano delicata tra le dita callose. E intanto, lo osserva. Il viso segnato dal mare e bruciato dal sole, gli occhi come la notte senza stelle ed il naso dritto, drittissimo. E le sopracciglia folte e la barba e...
Gli assomiglio? Quanto?, vorrebbe chiederle. Ma tace. Sarebbe scortese. Inopportuno.
«Buongiorno a te», replica lei, con squisita cortesia.
Il Mare fa cenno loro di sedersi. Nessuno li disturberà. È una riunione di famiglia, quella, dopotutto…
«Grazie per aver accettato il mio invito», esordisce lo Sconosciuto, le sopracciglia ben distese.
Lei lo osserva, come si fa con le fiere o un oggetto curioso. Vai avanti, gli dicono i suoi occhi, ché han perso il lucore scintillante dell’acciaio. Sono stanchi. Provati. Non può essere solo per la fatica della battaglia, per il suo logorio. Forse neppure lei sa dove dirigere i suoi passi, adesso che la polvere s’è posata? È questa, dunque, l’incertezza che le grava sul cuore?

Lo Sconosciuto sorride, garbato. Si chiama abitudine. E ha il brutto vizio di cucirsi addosso all’anima delle persone fino a non riuscire a distinguere più dove inizi la pelle e dove i punti di sutura. E gli dei, purtroppo, non fanno eccezione.
«Di cosa volevi parlarmi?»
«Ho una proposta da farti, Fanciulla», ed è la voce profonda dello Sconosciuto che adesso vibra nella gola di Athanasios.
«Una… proposta?», domanda lei. Guardinga.
«Ci siamo dati battaglia per troppo tempo», ammette lui. «Confesso che mi manca.»
«Il Padre…»
«Tutto a tempo debito, mia cara. Tutto a tempo debito.»
Lei non gradisce essere interrotta, il suo sguardo si fa cupo.
Il Mare le posa una mano sul polso e le sussurra: «Lascialo parlare», piano, pianissimo. Come il suono della risacca al mattino. Lei serra le labbra. Poi annuisce.
«Ti ascolto», dice. Ma a lui sembra più una concessione.
Lo Sconosciuto scrolla le spalle. Non ha senso perdersi con queste quisquilie, adesso.

«Un’ultima battaglia. Questo solo ti chiedo, Fanciulla.»
Lei aggrotta le sopracciglia, come a chiedergli se è tutto qui quello che doveva dirle.
«Non lo faccio per me», aggiunge lui. Ben deciso a raccontarle la verità. I panni sporchi si lavano in famiglia, giusto? «Che i mortali muoiano adesso o in blocco, per me non fa differenza. Pensaci. Sarebbe stupido, da parte mia. Se non si nasce, non si muore. E se non si muore, a cosa servo, io? Il Padre mi ha donato un regno sconfinato, a ben guardarlo. Un mondo che non avrà mai fine. Perché dovrei volere la Terra, Fanciulla?»
Silenzio. Si guardano negli occhi, poi la Fanciulla capisce che lui sta aspettando una sua replica e dice: «Per farne dono alla tua sposa, suppongo.».
«No. Non alla mia sposa. Ma a sua madre. Mia sorella.»
Lei piega la testa di lato, confusa.
«È una faccenda tra me e lei, Fanciulla.» Non le dice di non sposarsi mai, perché sarebbe indelicato. Ma lo pensa. Eccome, se lo pensa. «Ecco perché ho accettato di interpretare il ruolo del cattivo, nel corso dei secoli.»
«Per un capriccio?»

Eccola, la divina Athena. Bellissima e terribile come un esercito a bandiere spiegate. Lo fissa pronta ad incenerirlo sul posto. Pronta a richiamare a sé l’egida, lo scettro di Nike e lo scudo con l’effige di Medusa.
«Chi si è sottoposta al giudizio di quel Paride, per molto, molto meno, Fanciulla?», le domanda, le dita intrecciate ed i pollici che si rincorrono, pigri, in cerchi sempre più lenti.
Lei non ribatte. Lei non ribatte perché l’ha colta in castagna. Oh, potrebbe ricordarle molte altre volte in cui lei è intervenuta per puro capriccio. La faccenda di Medusa, ad esempio. E che dire di quell’Odisseo per cui ha parteggiato in modo spudorato, finendo per andare a bussare alle porte di Zeus affinché Calypso lo lasciasse tornare a casa?
«Mi sarebbe piaciuto donare questo pianetucolo alla Madre Terra. Perché lei mi dimostrasse come sarebbero andate le cose se fosse stata lei, ad occuparsi dei mortali. E non tu.»

Lo sguardo del Mare si incupisce. Quello della Fanciulla resta indifferente.
«La Terra sa di questo tuo desiderio?»
«No. Le avrei fatto una sorpresa.»
«Ma?», domanda la Fanciulla. Perché c’è sempre un «Ma?» a galleggiare nel grande mare dei sottintesi. E lo Sconosciuto lo sa. E lo Sconosciuto annuisce. E lo Sconosciuto ribatte: «Ma adesso voglio dimostrarle cosa accadrebbe davvero, se a vincere fossi io. Per una volta sola, almeno.».
La Fanciulla sbatte le palpebre. Non è certa di aver sentito bene. «Mi stai chiedendo… mi stai chiedendo di batterci e che io perda? Di proposito
È troppo per lo spirito guerriero che le ruggisce nel cuore, adesso. Lo Sconosciuto vede il suo petto sollevarsi ed abbassarsi con sempre maggiore velocità. La ferma, prima che succeda l’irreparabile.

«No, Fanciulla. Non sarebbe correttoE allora, cosa diamine vuoi da me?, dardeggiano i suoi occhi. «Ti sto chiedendo di darmi un’altra chance. Fra altri duecentocinquant’anni, s’intende. Hai vinto tu, in questo tempo. E non ho voglia di richiamare i miei Spettri prima del tempo. Sono un dio magnanimo, dopotutto.»
«Non capisco.»
«Voglio instillare nel cuore della Terra la possibilità che sì, io possa batterti. Almeno una volta. Non succederà, lo so io e lo sai tu, ché tutta questa sciarada serve a far rigare dritto i mortali. Ma per farlo, devo averla, questa possibilità. Non credi?»
«Io cosa ci guadagno?», domanda la divina Athena. Ché a vivere in mezzo ai mortali si assimilano modi di fare poco ortodossi e appropriati.
«I tuoi guerrieri. Perché sin quando tu sarai viva e vegeta e calpesterai questa terra, in molti si rivolteranno contro di te. Lo sappiamo, tutti e tre.»
«E?»
«Le tue schiere sono decimate. Potrai sempre addestrare nuovi Santi, è vero. Nuova carne da cannone. Ma sappiamo tutti e tre che non sarebbe la stessa cosa. Sarebbero palliativi. Non impensierirebbero nessuno. Sono solo dei mortali, penserebbero gli dei. Ma se, invece, avessi al tuo fianco i guerrieri che hanno…»
Pausa.
«… che hanno sconfitto il dio della Morte, allora la situazione sarebbe diversa. Tu non credi?»

La Fanciulla tace.
Non le è stato possibile salvare i Santi d’Oro dalla Morte. Non glielo hanno concesso. E per far sì che non ci provasse lo stesso, li hanno rinchiusi dentro una bizzarra statua di bronzo, scangliandola nelle profonde viscere del Tartaro. Lì dove nessuno sarebbe mai giunto a cercarli. Ma gli dei non hanno tenuto conto di due variabili: la tenacia della Fanciulla e la freddezza dello Sconosciuto. E a volte, le unioni più feconde sono proprie quelle che nascono tra due nemici giurati.
«Tu potresti?», gli domanda la Fanciulla, mentre lo sguardo del Mare vira verso la tempesta. Lo Sconosciuto sente il cuore di Julian Solo pulsare minaccioso, quasi a volerselo portare dietro per nasconderlo in chissà quale anfratto inaccessibile, assieme alle conchiglie e alle sirene.
«Io no. Ho le mani legate, così come le hai tu. Ma posso darti un prezioso consiglio, Fanciulla.»
«Ti ascolto.»
«Ci sono vari modi per approcciare la Morte. La Morte ha molti visi e molte facce. Varia, da popolo a popolo. Ma il bello della Morte è che resta sempre se stessa.»
«Dovrebbe rivolgersi ad un altro pantheon? Non è possibile, lo sai», interviene il Mare.
«Certo che è possibile. Basta avere dei legami… di sangue…» e il bel viso di Julian perde colore.
«I panni sporchi si lavano in famiglia», ringhia a voce bassa il Mare.
«Ma un marito fa parte della famiglia, mi pare…», gli rammenta lo Sconosciuto. «Anche se il matrimonio non è stato consumato e anche se porta in dote una figliolanza... particolare…».
«Tu…», ed il Mare minaccia di alzarsi, laggiù, dalla linea di costa ed arrivare fino ai piedi dell’Acropoli, incuneandosi nei vicoli di Plaka pronto a portarsi appresso tutto e tutti. A cominciare da quel marinaio troppo simile ad Odisseo che ha avuto la sventura di prestare il proprio corpo allo Sconosciuto.

«Accetto», dice la Fanciulla. E se avesse trafitto con un pugnale il cuore del Mare gli avrebbe causato meno dolore.
C’è voluto meno del previsto, pensa lo Sconosciuto. Parla ad un guerriero di soldati, battaglie e sangue, e lui ti seguirà più docile di un agnellino. E poco importa se ami spargere il sangue fino ad inebriarvisi, come fa il Guerriero, o se la sua sia più una partita a scacchi, come ama invece la Fanciulla. La guerra è pur sempre la guerra. Ed il suo è un richiamo che scorre nel sangue, rombando e muggendo come fa il mare nelle notti di tempesta, quando schiaffeggia gli scogli che frenano la sua corsa distruttrice.
«Accetti, hai detto?», le chiede lo Sconosciuto. Chiamando il Mare a testimone.
«Accetto», ripete la Fanciulla. «Ma ho anche io una richiesta da farti, Sconosciuto.»
«Parla pure, mia cara. Sono tutto orecchi.»
La Fanciulla scambia uno sguardo lungo, lunghissimo con il Mare. Lo Sconosciuto vede le labbra del Mare arricciarsi in un sorriso pericoloso. C’è aria di tempesta, pensa lo Sconosciuto, mentre l’aria si riempie di salsedine.
 

 


Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:
Rieccomi qui!
C'è aria di tempesta, al Kallistê, vero?

L'egida non è lo scudo di Athena, quanto la sua corazza. Gli attributi di Athena sono l'egida (la corazza), lo scudo con la testa di medusa e la lancia, almeno come appare raffigurata nella statua davanti all'Aula magna dell'Università La Sapienza. Occhio: se passate davanti alla statua ed avete un esame mai, mai, MAI guardarla in faccia, ma di spalle. E in bocca al lupo.

I panni sporchi si lavano in famiglia, ed un marito fa parte della famiglia anche quando il matrimonio è in bianco ed è il padre della Morte. Come cantava qualcuno, It's a nice day for a White Wedding...
Come avrete immaginato, la statua di bronzo in cui gli dei rinchiudono i Gold Saint all'inizio del Tenkai Hen non mi è andata giù. Ma nemmeno sotto tortura. Quindi, ce li tiro fuori. Sissignore. Avevo abbozzato la storia qui. Spero di trovare la forza per occuparmi anche di questo.

Noi ci vediamo la settimana prossima. Nel frattempo, fate i bravi! E se non vi torna qualcosa, fate un fischio!!

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Capitolo 5
*** 5. ***





5.
 
 




Gli occhi della Terra si velano di pudore dietro le ciglia nere e folte.
Non pensava che potesse farle ancora quest’effetto. Non dopo tutti questi anni, non dopo tutto il livore, le parole grosse, il silenzio. Eppure, il suo animo freme. Come uno svolazzare di innumerevoli farfalle sull’anima. Se continua così, il cuore di questa ragazza cederà, pensa. Un’idea distratta, un volo appena di rondini nel cielo vespertino. Si chiama come lei. Dêmêtra. Un piccolo vezzo, dopotutto, non si nega a nessuno. E la Terra ha scoperto quanta civetteria potesse annidarsi nel cuore di un’amante abbandonata che incrocia una vecchia fiamma. Così, la Terra ha scelto un corpo che potesse ricordare ad un maschio distratto cosa s'è lasciato alle spalle. Lunghi capelli biondi, sciolti oltre le spalle da uccellino. Pelle chiara, baciata dal sole di maggio, occhi azzurri come il cielo in primavera. E caviglie sottili immerse nell’acqua fresca della sera.

Il Mare l’ha cercata nelle fattezze di Julian Solo.
«Riconoscerei la tua ombra tra mille», le ha detto il suo cosmo, la voce bassa e suadente della risacca al mattino. E la Terra è scesa da lui, sulla spiaggia di Glyfada, tra ombrelloni chiusi per la notte e lo stridio dei gabbiani nel sole morente. Che fosse bello, la Terra lo sapeva. Forte. Audace. Impetuoso. Ennosigeo è sempre stato tutto questo. E le sue viscere si sono sempre sciolte, in sua presenza. Fuse, come a voler diventare sabbia bagnata tra le sue onde spumose. E anche stavolta, ha scelto un involucro che ben si confà alla sua reale natura. La giacca appoggiata con disinvoltura sulle spalle è di ottima fattura. Lui le cammina allato, l’orlo dei pantaloni arrotolato sopra alle caviglie. Il vento gioca con i suoi capelli, intrecciando le sue dita invisibili in quella chioma selvaggia che gli ammanta le spalle come una criniera.

Una criniera di acqua e vento e spuma di mare.

La salsedine pizzica allegra la pelle, le gambe rinfrescate dalla brezza della sera. Ha fatto caldo, oggi. E ne farà ancora domani. E domani l’altro pure. È tempo suo, dice la saggezza popolare, ché se non c’è abbastanza calore d'estate, il raccolto non maturerà. E non ci saranno provviste, per l’inverno. Ammesso che importi ancora a qualcuno, si dice lei, prima che un pesciolino argento guizzi a pelo dell’acqua.
«L’hai visto?», gli dice. Indicandogli il punto in cui il pesce è scomparso, come una bambina piccola. E questo è sempre stata lei, tra le sue braccia. Una creaturina piccola e indifesa, che si lascia andare all’abbraccio avvolgente delle acque.
Julian – il Mare – sbatte le palpebre. Abbandona la giacca sulla sabbia con un gesto fluido. E si avvicina, chinando lo sguardo nella direzione indicata dal suo dito.
«No, perdonami», le dice. Ad un soffio dal cuore, la voce profonda e avvolgente di sempre. «Guardavo te

Un rossore furioso ed improvviso sconquassa le gote di Dêmêtra.
«Bugiardo», dice. Stornando lo sguardo ed il cuore verso quella massa d’acqua che batte e leva sulla terraferma. Come se non potesse fare diversamente.
«Sei ingiusta», la rimprovera la sua voce. Così vicina alla pelle che lei si aspetta che vi posi le labbra da un istante all’altro.
«Sono realista», ribatte lei, dopo aver trattenuto il fiato per qualche secondo di troppo. Niente carezze a fior di labbra. Non ancora.
«Sei severa», e lui le sfiora appena la mascella. Due dita, due soltanto, e il viso di lei si volta ad incontrare i suoi occhi ardenti.

Può una fiamma essere azzurra? Liquida?
Quando il mondo era ancora giovane, se lo chiedevano spesso, loro due, seduti a conversare sulla battigia, gli scogli come trono e i granchi per compagnia. Si fissavano, annegando l’uno nelle iridi dell’altro – chiari e fresche, quelle di lei, profonde e scure, quelle di lui – cercandosi con la pelle, l’anima e il cuore, per riemergere affamati di aria e nuovi baci. Ed una fiamma azzurra sono gli occhi del Mare, adesso che le incatena lo sguardo nel suo. La Terra conosce quel guizzo, tanto affascinante quanto pericoloso. La Terra sa che deve dire qualcosa, spezzare il suo incantesimo, prima che sia troppo tardi. Ma la Terra ha un cuore di donna che batte sotto il chitone rosso papavero. E cosa c’è di più dolce di un amante che torna a chiedere di te, per il cuore di una donna?

Nulla.

«È una serata stupenda, Dêmê…», e questo è davvero un colpo basso.
«Non dovresti usare quel nomignolo…»
«Non dovrei?», le domanda lui, con finta ingenuità. «Perché?»
«Lo sai», protesta lei, incapace di disingaggiare lo sguardo dalle polle blu del Mare.
«No, non lo so», ripete lui, osservando il suo bel viso come si fa con una pietra preziosa, o una conchiglia dai riflessi madreperlacei.
«Non sta bene», e la Terra abbassa gli occhi, le guance più rosse dei suoi amati papaveri.
«E questo è mai stato un problema, per me? Per noi?», le chiede. Facendo fremere ogni fibra del suo essere.
«No», mormora lei. «No, non lo è mai stato»

Gli dei non sottostanno alle leggi dei mortali. Gli dei si mischiano tra loro, ché solo un ventre divino può sopportare il seme di un dio. E lasciarlo crescere dentro di sé. Germogliare. E portare frutto. Ed Ennosigeo è sempre stato pronto a cingerle i fianchi e ad annegare in lei, trascinandola con sé sotto le sue onde iridescenti. Se solo non avesse incontrato gli occhi della Fanciulla, si dice la Terra, e a quel pensiero una boccata di fiele le invade l’animo.
Si scioglie dal suo abbraccio e mette qualche passo di distanza tra di loro.
Così è troppo facile. Ennosigeo non può tornare da lei e fare i propri comodi, come se tra loro non fosse mai successo niente. Non dopo aver calpestato ed irriso la sua dignità di donna e madre. Per chi mi hai preso, Ennosigeo?
Non si accorge di aver pronunciato ad alta voce quelle parole fino a quando non sente il Mare risponderle.
«Tu sei la Terra. Mia sorella. La mia prima amante. La madre di mia figlia.»
Pausa. Lei si volta, tremante. Quelle parole sono come la lama di un pugnale che struscia contro ossa levigate dal tempo.
«Tu sei la mia Dêmê», e le braccia giovani e forti di Julian Solo si aprono verso di lei. Che cede. Ed i suoi passi si muovono verso di lui, ed il cuore di Dêmêtra sfarfalla come un cardellino che frulla le alucce, ed il suo petto è forte e sicuro, come uno scoglio che emerge dalle acque agitate.
Odora di salsedine. Come sempre, pensa la Terra, mentre le sue dita – le dita di Dêmêtra – si stringono sulla camicia tesa sopra ai muscoli di Julian.
«Oh, Dêmê…», le sussurra all’orecchio. Piano, un sospiro appena che le increspa la pelle di velluto. «Quanto mi sei mancata, agapê mou…»
«Enosictono…», lo chiama lei. Sollevando il viso imporporato, il ventre che si contrae all’indugiare di quello sguardo liquido sulla sua pelle e sulle sue labbra. Un sospiro, un ansimare dell’anima, e la Terra chiude gli occhi, pronta a ricevere il ramoscello d’ulivo. Un bacio – agognato – che ricucirà il loro rapporto. Che lo legherà di nuovo a sé. E gli farà dimenticare la Fanciulla, Anfitrite e quei quattro scherzi della natura che lui ha il coraggio di chiamare figli.
Le labbra di Ennosigeo sfiorano appena le sue. E il cuore della Terra s’incammina per sentieri dimenticati, ma non perduti, sciogliendosi nell’abbraccio del Mare, affidandoglisi anima, corpo e cosmo.

La ragazza sviene tra le sue braccia, e sarebbe anche una scena romantica – di quelle da filmetto strappalacrime ad un tanto al chilo – se lei non avesse strabuzzato gli occhi mostrando la sclera e non avesse buttato indietro la testa di scatto ed i suoi capelli non stessero strusciando sulla sabbia umida come i tentacoli di una medusa sfilacciata.
«Pesa…», mormora la voce di Julian, mentre la adagia sulla battigia.
«Complimenti!», si sente dire. Alle sue spalle, Athanasios sta battendo le mani, lo sguardo più che soddisfatto. «Adesso capisco perché ti cadevano tutte ai piedi…»
«È una dote di natura», ribatte il Mare, sgranchendosi la schiena.
«Non ti secca se uso un paio di quelle frasi, vero?»
Julian china la testa di lato, come un cane che non ha compreso cosa voglia da lui il suo padrone. O come un lupo che si appresta ad azzannare la preda sulla giugulare.
«E che te ne faresti, di grazia?»
Athanasios si stringe nelle spalle. Come a dirgli, e me lo chiedi?
E poi lo dice: «E me lo chiedi?».
«Sì», ribatte la voce di Julian, le mani sui fianchi. «Queste sono frasi da dire all’amante, non alla moglie.»
«I tempi sono cambiati», ribatte lo Sconosciuto, avvicinandosi, le mani sprofondate nelle tasche dei calzoni logori. «Oggi puoi chiedere alle mogli quello che ti aspetti da un’amante…»
«Basta così. Discorso chiuso», lo interrompe il Mare.
Lo Sconosciuto sogghigna.
«Scusa tanto, paparino…»
«Non chiamarmi paparino…»
«E come dovrei chiamarti?»
«Diamoci un taglio», e la voce del Mare è densa come acciaio fuso. «Dov’è il Sonno?»
Le labbra dello Sconosciuto si arricciano all’insù.
«Arriva, arriva», dice. «Volevo solo chiacchierare un po’ con te, prima…»
«Lei potrebbe svegliarsi», ribatte il Mare, guardando un punto indefinito all’orizzonte. «Che le raccontiamo, a quel punto? Abbiamo scherzato
«Nossignore. Non ha mai avuto il senso dell’umorismo, lei», conviene lo Sconosciuto. Schioccando le dita nell’aria frizzante che sale dal mare.

Alle sue spalle l’aria si trasforma a poco a poco. Un vortice violaceo che collassa su se stesso, da cui emerge la figura aggraziata del Sonno.
«Avete chiamato, Mio Signore?», domanda, i capelli color dell’oro che sfiorano appena la sabbia ancora calda.
«La Terra s’è addormentata», gli dice, indicando la ragazza sdraiata sul bagnasciuga con un gesto distratto della spalla. «Vorresti occuparti tu, dei suoi sogni?»
«Sarà un piacere», risponde il Sonno, e alla vista del lampo ferino che gli illumina lo sguardo, il Mare non può che provare una fitta di pietà per la Terra.
Il Sonno allunga una mano sul corpo della ragazza. Ne esce una luce del colore del grano maturo, screziata di rosso. Rosso papavero, pensa il Mare, mentre le dita sottili del Sonno si chiudono a coppa attorno a quel cosmo addormentato. Un piccolo inchino, e le mani del Sonno spariscono sotto al suo mantello prima di varcare il vortice violaceo da cui è apparso. L’aria torna immobile e sulla spiaggia restano solo loro due, Julian Solo e il marinaio Athanasios.

«E anche questa è fatta…», dice lo Sconosciuto, sgranchendosi le spalle. Si stiracchia le braccia, si allunga verso l’alto ed emette un mugolio di soddisfazione. «Però... bel bocconcino, s'è scelto, la cara Terra...»
«Non calcherà troppo la mano, spero…», domanda la voce di Julian.
«Naaa, non preoccuparti», lo rassicura lo Sconosciuto. «Il Sonno sa il fatto suo.»
Sarà, pensa il Mare, con una punta d’inquietudine.
«Senti», gli dice poi la voce di Athanasios. «Quello che ho detto alla Fanciulla vale anche per te.»
«Sarebbe?», gli chiede il Mare, sondandolo col suo sguardo azzurro.
«I tuoi guerrieri», dice Athanasios, raccogliendo una conchiglia vuota dal bagnasciuga. La valva di una vongola. Un granchio avrà pasteggiato per bene, si dice, prima di lanciarla contro il sole, a pelo dell’acqua. «Se vuoi riaverli indietro, puoi…»
«No», dice il Mare. Raccogliendo la valva lucida di una cozza, ed imitando il fratello. Il suo lancio increspa l’acqua per tre volte, poi più nulla.
«Bel tiro», commenta Athanasios, raccogliendo un po’ di munizioni. «Perché, no?»
«Perché», dice il Mare, pescando dalla mano del fratello, «l’ho promesso alla Fanciulla.»

E quando?, gli chiedono gli occhi di notte senza stelle dello Sconosciuto, mentre il Mare colpisce l’acqua per cinque volte. E poi capisce. Sotto il pergolato di limoni. Lo sguardo lunghissimo che si sono scambiati quei due. Un dialogo muto. Silenzioso. Una conversazione da amanti, quasi, e se lo Sconosciuto non sapesse che è impossibile che la Fanciulla si sia decisa a cedere le armi, sarebbe quasi pronto a fischiare d’approvazione, e a riempire la schiena del fratello di pacche virili.

«L’hai promesso, eh?»
«Ho dovuto», ribatte il Mare. «Ho dovuto, perché le ho già promesso che sarei rimasto a sonnecchiare nell’anima di questo ragazzo…»
«E richiamare indietro i tuoi guerrieri avrebbe significato che non sei poi così disposto a rispettare quella promessa.»
«Bravo», commenta il Mare, restando ad osservare le onde, le mani sui fianchi.
«Però! Sa il fatto suo, la Fanciulla…»
«Puoi dirlo forte», sospira la voce di Julian.
«Perché non molli?», gli chiede lo Sconosciuto, prendendo a prestito il lessico di Athanasios. «Perché non la lasci perdere?»
«Perché sono fatto così», risponde il Mare raccogliendo un tortiglione bianchissimo. Lo porta all’orecchio, poi dice: «Non si sente niente».
Lo Sconosciuto si stringe nelle spalle. Il Mare lancia la conchiglia a pelo dell’acqua.
«Sei cerchi!», esclama, divertito. Si volta verso il fratello con un sorriso trionfante.
«Sei cerchi», ammetto lo Sconosciuto. Poi prende un sassolino. Grigio. Liscio. Dagli angoli levigati dall’incessante lavorio della marea. «Sette cerchi», afferma. Poi prende la mira. E tira.  

 


Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:
La tradizione attribuisce ad Ennosigeo il potere di provocare alcune forme di disturbo mentale, un po' come Dioniso e le Menadi. Qui, ho lasciato che la voce di Julian ipnotizzasse le orecchie della Terra. In fondo, il suono della risacca non è di per sé ipnotico?

Enosictono (=scuotitore della terra) è una versione arcaica di Ennosigeo. Il mito ci ricorda che Poseidone, che all'inizio era il compagno di Demetra, avesse il potere di scatenare i terremoti. ho scelto questo nome come se fosse un nomignolo da innamorati.

Dêmêtra (Dimitra) è la versione moderna del nome della dea, ed è un nome frequentemente usato in Grecia. Insomma, anche alla Terra piace la solfa del nomen, omen, al punto da scegliere il proprio involucro coi capelli di grano e gli occhi di cielo. Ovviamente, una fotomodella. Mica scema, la ragazza...

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Capitolo 6
*** 6. ***





6.
 
 




Svegliarsi è come riemergere dalle profondità del mare.
Puoi farlo di colpo, come un delfino che salta a pelo dell’acqua e si rituffa e risalta e si rituffa, a cercare l’abbraccio del sole sulla pelle. Oppure puoi riemergere per gradi, come fa la medusa attratta dalla luce della luna, i lunghi tentacoli che danzano nell’acqua con movimenti ritmici, come se stesse ascoltando una musica che sente nella sua testa.
Oppure puoi ricevere un bacio dal tuo principe azzurro, una carezza a fior di pelle, che te l’increspi come fosse velluto pettinato con le dita, e trovare l’aroma caldo del caffè appena fatto che ti abbraccia e ti avvolge come una nuvola di dolci promesse. Sarà una giornata bellissima, dice – garantisce – di solito. Ed è questo il modo che lei preferisce, con l’odore pungente della salsedine che le risveglia i sensi intorpiditi dal sonno.
Spesso non ci si vuole svegliare perché si deve di necessità alzarsi e lasciare il letto. Ma chi l’ha detto? I risvegli migliori sono quelli che si protraggono per qualche minuto in più e ti obbligano a restare ancora un po’ tra le lenzuola – una mezz’ora, un’ora, tutta la mattinata. Questo lo decidi tu. E gli occhi blu profondo di lui, due polle d’acqua in cui annegare d’amore, non chiedevano di meglio, quando il mondo era giovane e loro due ancora inesperti e fragili, con il fuoco della passione a divorare i lombi ed il cuore in una vampa che arrivava fino alle stelle ed oltre.
Ed è così che le sarebbe piaciuto svegliarsi, stamane. Riemergere dal sonno – magari col fischiettare allegro dei merli – allungare una mano e trovare la sua schiena possente accanto a sé. Lasciargli scivolare le dita sulla pelle, accarezzargli un fianco e accompagnarlo nel più dolce dei risvegli. È sempre stato un leone, al mattino. E a lei è sempre venuta bene la parte della timida cerbiatta.
Invece, no.
Se solleva le palpebre, la testa ancora intontita, è perché il sole che filtra dalle persiane accostate ha deciso di stazionare sul suo viso. Chiamandola, come farebbe un bambino petulante con la sua adorata mammina. Così, lei dischiude appena un occhio, il destro, e sbircia il mondo da sotto le ciglia.
Non riconosce la stanza in cui si trova. Si scherma il viso con una mano, sbatte la palpebra e cerca di mettere a fuoco i contorni. Le persiane accostate sono righe di luce sulla parete di fronte a lei. Luce calda e dorata come solo il tramonto sa essere, quando il sole decide di ardere a piena potenza, minacciando di portarsi il mondo appresso, in una fiammata gloriosa.
Quanto ho dormito?, si chiede. Sbadigliando e stiracchiandosi per bene, con lentezza, come fanno i gatti dopo un pomeriggio d’estate speso a sonnecchiare all’ombra di un muricciolo. Non trova risposte. Strofina il viso contro il cuscino, ché la voglia di ignorare il sole e girarsi dall’altra parte è una tentazione fortissima; ma funzionerebbe? No, si risponde, ché oramai è sveglia e il dolce abbraccio del sonno è svanito come un ricordo portato via dal vento. Come se non fosse mai esistito.
Sbuffa. Scalcia i piedi, tra le lenzuola sfatte, e poi si arrende. Un sospiro, un’ultima stiracchiata e si mette a sedere.
Non riconosce la stanza in cui si trova. C’è un letto – ampio, sfatto, coi cuscini alla deriva sulle lenzuola – dei comodini, un ventaglio rosso sopra la testiera di vimini, una sedia accanto alla porta d’ingresso, un armadio a muro. E uno specchio, di quelli a figura intera, coperto da una camicia da notte in seta nera, di quelle che non lasciano nulla all’immaginazione.
Aggrotta le sopracciglia, in cerca di un indizio qualsiasi. Dove si trova? Un albergo, con tutta probabilità uno di quelli che si affaccia sul lungomare di Glyfada. Si trovavano lì, ieri sera, giusto? Glyfada. Il mare, la luna e loro due, le stelle testimoni della loro ritrovata unione. Alla faccia tua, Anfitrite.
Però, pensandoci bene, le suona strano che Ennosigeo l’abbia portata in un alberghetto sul mare. Lei li legge, i giornali. Per tenersi informata, s’intende. E, sempre per tenersi informata, lei sa del patrimonio immobiliare dei Solo. Delle loro ville. Della tenuta a Markopoulo. Dell’attico in centro di Julian. Possibile che fossero talmente bisognosi di ritrovarsi da non badare al dove? Sì e no, si dice, ché Ennosigeo è sempre stato molto attento, a certi dettagli. E anche quando la portava in certe grotte ed in certi anfratti, come quello scoglio troppo cresciuto ad ovest della Sicilia, era sempre attento a farle trovare qualcosa di magico. Unico. Inimitabile.
Si stringe nelle spalle.
Lui non c’è. Per un istante, uno soltanto, la sfiora la paura che abbia tagliato la corda. Una toccata e fuga impetuosa e nulla più. Si morde le labbra. No, si dice. La stanza profuma ancora dell’odore penetrante di Eros. Le lenzuola sfatte, la camicia da notte alla deriva, i cuscini sprimacciati, le persiane accostate, tutto questo grida della loro passione. No, Ennosigeo è semplicemente sceso a farsi una nuotata, come suo solito, ché uno come lui non lo tieni lontano dall’acqua troppo a lungo. Nossignore.
Quindi, le si aprono due strade. Aspettarlo in camera, fingendo di essere addormentata, e lasciare che lui la svegli con un bacio che sa di sale e vento e sole al tramonto. Oppure vestirsi e raggiungerlo in spiaggia. E magari riprendere il discorso da dove si erano interrotti la sera prima. Opta per la seconda ipotesi, ché se Ennosigeo è sempre stato uno spettacolo appena emerso dall’acqua – con i rivoli che gli accarezzano i muscoli torniti e i riccioli scuri e grondanti – la curiosità di sapere dove si trovino, e quanto possano spingersi oltre, è più forte di tutto.
Così, posa i piedi a terra, sul pavimento impolverato. È caldo. Caldo e secco, cosa che lo rende più sopportabile. L’armadio è vuoto. Lei è nuda. E non può certo scendere in spiaggia con indosso solo la camicia da notte. Ennosigeo gradirebbe, ma i mortali? Come la mettiamo con loro?
Così si aggira per la stanza, raccogliendo le lenzuola ed ammucchiandole alla rinfusa sul letto, e avvicinandosi alla sedia accanto alla porta d’ingresso. C’è della sabbia rossa che s’insinua sotto il legno azzurro carico. Siamo in spiaggia, si dice. Ma dove?
Poi ricorda che i Solo posseggono un’isola, nello Ionio, proprio accanto a quella degli Onassis. Avrebbe senso, si dice. Notando il suo vestito rosso ripiegato sulla sedia. Lo indossa, si sistema i capelli ravviandoli con le dita, elimina una piega inesistente sullo sprone, ed apre la porta.
Fuori non c’è il mare. Nemmeno quello dei palazzi che ammantano Atene, vista dall’Acropoli. C’è una distesa di terra rossa a perdita d’occhio. Né un albero, né una nuvola, né dell’erbetta fresca su cui posare i piedi. Ci penso io, si dice, mentre il suo divino cervello le ricorda che non ha sentito il suono della risacca, alzandosi. Ma allora dove diamine siamo?, si chiede, stendendo la mano davanti a sé.
La terra resta immota. Non si scuote, non si ricopre di erba, le timide piantine non spuntano a vedere il sole. Non succede nulla. Il suolo se ne resta lì, sotto di lei, come una cosa morta.
Com’è possibile?, si chiede. Aggrottando le sopracciglia.
Riprova.
Niente.
Ancora.
Sempre lo stesso risultato.
Cosa sta succedendo, qui? Si solleva e si guarda intorno allarmata. Fa per chiamarlo, «Ennosigeo!», ma scopre che l’aria è irrespirabile. È morta anch’essa. E il suono non si propaga, se non c’è l’ossigeno a fargli da cassa di risonanza. Si porta una mano al collo. Fa male anche stare a bocca aperta. E non c’è niente per chilometri e chilometri, solo questa terra dal grembo sterile, spaccata fin nelle viscere, ed un cielo del colore del bronzo. Quello brunito degli scudi, reso più scuro dal sangue e dalla polvere che si porta dietro una battaglia. Una di quelle lunghe, aspre e sanguinarie. Una in cui il Guerriero amerebbe sguazzare come una papera nello stagno.
Non capisco, si dice. Facendo il giro della casa, un cubo bianchissimo dal tetto pericolante e dall’intonaco sbeccato; come se, alle sue spalle, potesse esserci chissà quale salvezza. Ma il panorama non cambia. Anzi, se possibile, è ancora peggiore, con dei nuvoloni color viola melanzana che si avvicinano a grande velocità, carichi di livore e pronti ad oscurare il cielo stesso.
Quando torna alla porta d’ingresso, nota che il legno è marcito. All’istante. La vernice azzurro carico è a terra in piccole scaglie. Butta uno sguardo all’interno. C’è solo polvere. Polvere, ragnatele e le lenzuola sono chiazzate dalla muffa.
Che diamine sta succedendo, qui?!
Si volta, in cerca di una spiegazione, quando nota qualcosa. Una bizzarria, in quel panorama di per sé bizzarro oltre ogni logica. Un albero di limoni. Prima non c’era, si dice, schermandosi la vista con una mano. Ne sono sicurissima. Poi pensa che forse il suo potere funziona male. Che, forse, quell’albero lo ha fatto crescere lei, insistendo così tanto sul terreno morto. Forse è morto solo davanti alla casa. Forse, laggiù, a pochi metri da lei, c’è ancora speranza, e la terra ha risposto al suo richiamo. Eppure volevo solo del prato all’inglese, si dice, notando qualcosa tra i rami dell’albero. Qualcuno. Sta facendo dei gesti con la mano, come a volerla salutare, o richiamare la sua attenzione. Ennosigeo?, si chiede. Raccogliendo l’orlo del vestito in grembi ed avvicinandosi all’albero.
Non è Ennosigeo, no. C’è un uomo, tra i rami del limone, ma non è il suo amante. Indossa una palandrana nera, con dei dettagli d’argento. Ma non ha caldo?, si chiede lei, il sudore che le scorre sulla fronte, tra i capelli e giù per la schiena. Fa caldo anche solo a pensarci. Non spira un alito di vento, e, anche se succedesse, sarebbe una boccata d’aria calda che esce da un forno aperto. Le fronde dell’albero, però, sono di un verde intensissimo, come se se ne fregassero di quello che gli accade attorno. Sembra quasi di sentire l’albero dire: L’apocalisse termonucleare? E allora? Che problema c’è? Mi sposto un po’ più in là. E a lei sembra quasi possibile.
Raggiunge la base dell’albero e si appoggia con una mano al tronco. Fresco. Giovane. In salute. Lei stessa non avrebbe saputo fare di meglio. Prende fiato, ché l’ombra delle fronde è piacevole dopo quella breve camminata sotto al sole inclemente. E poi alza lo sguardo alla figura che la stava chiamando. Prima non poteva distinguerlo, per via del miraggio di Morgana, ma non c’è aria calda che sale lungo il fusto dell’albero, nossignore. E lei può vedere.
«Buongiorno!»
È quella mezza cartuccia di suo genero. Che poi è anche quello smidollato di suo fratello. Apre la bocca per parlare. Poi si ricorda che no, non si può parlare perché non c’è ossigeno, e la richiude. Poi si dice che lui ha parlato, invece. E allora la riapre e chiede: «Che significa, tutto questo?».
Lui sorride, quella smorfia che l’ha sempre irritata peggio delle unghie sull’ardesia di una lavagna, e le getta un limone. «Avrai sete», le dice.
Lei afferra quel frutto, grosso come un cedro, dalla buccia rugosa e profumata.
«Appena colto», le dice lui. Poi ne stacca un altro dall’albero – albero che ha ancora fiori e frutti – lo passa sulla veste per togliergli la polvere e lo addenta.
Lei resta a guardarlo, come fosse una qualche creatura bizzarra uscita da un sogno del Padre.
«Non mangi?», le chiede. «È buono, sai?»
«Che. Significa. Tutto. Questo?» Dov’è Ennosigeo? Dove l’hai portato? Che gli hai fatto, razza di disgraziato?!
Lui la guarda come se le fosse spuntata una seconda testa. Sbatte le palpebre, l’espressione stupita che sembra sincera. Non m’incanti, cocco.
«Allora?», l’incalza, gettando via il limone e per un soffio non batte il piede a terra, tra le radici dell’albero.
Lui sorride. «Allora», dice, prendendosi una pausa enfatica, «stavolta ho vinto io, mamma.».
Lei sgrana gli occhi. Si guarda attorno, perplessa, come se da un momento all’altro qualcuno possa saltare fuori e gridare «Ci hai creduto!». Quel cretino del Pensiero, ad esempio. O quell’altro perdigiorno dello Straniero. Invece non salta fuori nessuno. E lei riporta il suo sguardo di cielo smarrito sullo Sconosciuto.
«Hai… vinto
«Sissignore!», esclama lui, gonfiando il petto come un tacchino. «Non mi credi? Ascolta!», e le lancia qualcosa. Qualcosa che assomiglia ad una medusa appena pescata, i lunghi tentacoli che danzano nell’aria morta. Strani, quei tentacoli, commenta il suo cervello, mentre la cosa le ricade tra le mani, con un fiotto caldo e viscido. Sangue. Denso e corposo, nemmeno fosse vino liquoroso. È una testa umana. E quelli che lei chiamava tentacoli sono dei lunghi, lunghissimi, e setosi capelli femminili. Sottili. Liscissimi. Per le Erinni, che hai fatto, scellerato?! Ma il suo resta solo un pensiero, ché l’orrore è troppo grande per poter anche solo dire «ah».
«Non la riconosci?», lo sente chiederle. «Voltala!», le dice, come se fosse una stola da ammirare. Un arazzo. Un peplum ricamato. E le sue dita eseguono, portandola a trovarsi faccia a faccia col bel viso della Fanciulla. Mai bello quanto quello della mia bambina. È lei, la vera Fanciulla, non questo maschiaccio, pensa. Ma poi la testa mozzata – mozzata non di netto, ma con il lavorio del seghetto di un coltello da cucina – spalanca gli occhi. E la fissa. Lei l’allontana da sé.
La testa cade a terra. Rotola per un paio di passi, fermandosi con lo sguardo all’insù. Fisso su di lei.
«Ahi», protesta la voce della Fanciulla. Lo Sconosciuto continua a mangiare il suo limone, con un risucchio liquido. Sciupp, sciupp, sciupp.
«Scu… scusami», dice, la voce di un’ottava più alta. «Non… no volevo», aggiunge, rimettendo la testa al dritto. Pettinandole i capelli. E togliendole qualche foglia dal viso.
Il volto della Fanciulla la guarda. Sbatte le palpebre. E poi: «Ha vinto lui», le dice, con quell’inflessione ateniese da signorina con la puzza sotto al naso. «Sei contenta, Terra?»
«No… no…»
«O sì. Certo che sì.», e il viso della Fanciulla sorride, gli occhi che scintillano – pericolosi – nella penombra delle fronde dei limoni. «Adesso la terra appartiene a lui. Soddisfatta, sorella

   

 


Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:
Eccoci qui, con il penultimo capitolo di questa storiella.
Mi sono presa un po' di libertà con il patrimonio della famiglia Solo. La villa a Glyfada - località très chic sulla costa dell'Attica, a sud-ovest di Atene - è quella dove Julian ha festeggiato i suoi sedici anni. No, niente villa a Capo Sounio. Per favore, no.
Markopoulo è una località a sud-est di Atene, dove si produce il Retsina.
L'isoletta dello Ionio è un chiaro riferimento all'isola Skorpios, di proprietà di Aristotele Onassis, ora passata nelle mani di un qualche oligarca russo.
Lo scoglio ad ovest della Sicilia è l'isola Maraone, uno scoglio disabitato dove vanno a nidificare gli Uccelli delle Tempeste.

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Capitolo 7
*** 7. ***





7.
 
 




Il pavimento è freddo e duro sotto al sedere. Il suo coccige protesta con fitte di dolore che le percorrono la colonna vertebrale ed i muscoli della schiena, ma non si muove. Se ne resta come una tartaruga rivoltata sul dorso, i pugni stretti, le palpebre serrate e la bocca spalancata in un urlo muto. Se potesse, si rannicchierebbe ancora di più su se stessa, fino a rientrare nel terreno come un piccolo seme di mela per nascondersi ed aspettare che passi la burrasca. Ma c’è una superficie rigida, sotto di lei. E non ci sono molte possibilità che si apra e la accolga in sé. Ma lei ci spera. Ci spera perché ne ha viste troppe. Scalinate di marmo bianco chiazzate di sangue. Stivali di soldati in marcia. Carrozzine rovesciate con le ruote ancora in movimento. Fiumi in secca. La terra spaccata in una ragnatela di fessure. Nuvole rosse di sangue. Il cielo gonfio di urla, bestemmie e…

«Madre?»
La Terra dischiude appena gli occhi, sbirciando il mondo da dietro le ciglia scure. C’è il bel visetto di sua figlia che la guarda con espressione preoccupata, le mani paffute attorno alla colonna del baldacchino.
«Sì… sì, tesoro?», le dice, la voce simile ad un raschio. Le fa male la gola. Forse ho davvero gridato, pensa la Terra mettendosi a sedere e guardandosi attorno. È di nuovo nel suo palazzo. E quello su cui è seduta è il freddo e rigido e solido pavimento di piastrelle esagonali, che disegnano dei fiori dai petali rosso scuro e dal centro nerissimo. Dei papaveri stilizzati. Una delle ragioni per cui ha scelto quell’abitazione, assieme all’esposizione ad est, all’ampia terrazza con vista mare e al mobilio dalla squisita fattura. Bianco. Bianchissimo. Come il chitone per le sue nozze con Ennosigeo che non aveva mai lasciato il telaio, e come le corone di fiori che…
«Tutto bene?», le chiede sua figlia, piegando appena la testolina boccoluta di lato.
«Certo, amore. Mamma ha fatto solo un brutto sogno…» Un sogno orribile. C’era quello scellerato di tuo marito che aveva mozzato la testa della Fanciulla e… «Ma adesso va tutto bene, cara. Davvero. Che ore sono?»
«Le undici del mattino, Madre.»

La Terra sbatte le palpebre, perplessa. Perché la voce non è quella melodiosa di sua figlia, ma quella bassa e baritonale di un uomo. Sgrana gli occhi e, timidamente, sbircia oltre il bordo del materasso. E lo vede osservarla dalla porta, oltre le montagnole di lenzuola ammonticchiate, appoggiato ad uno stipite, le braccia incrociate e un’espressione di trionfo a colorargli il viso pallido.
«Cosa fai tu qui?!», ruggisce la Terra, mentre la sua mano destra corre ad acciuffare la parrucca che l’aspetta, paziente, sul comodino. Si sistema i capelli calcandoseli sulla testa come se fossero un cappellaccio in una giornata di pioggia e gli regala un’occhiata di fuoco.
«Sono venuto a prendervi, Madre», risponde lui, sincero.
«Hmpf!», ribatte lei, sputando fuori il fiato come fosse veleno con cui accecarlo. «Ti sei confuso, mio caro. Siamo in luglio. È ancora presto…»
«Oh, questo lo so anche io», replica lui, la veste nera con dettagli d’argento che fruscia al suo passaggio. «Ma sembra più novembre, che luglio. Piove ogni giorno. Due ore di follia, tra le quattro e le sei. Così ho pensato che voleste tornare e sono venuto a prendervi…»
«Certo! Tornare!» La Terra assesta un pugno sul materasso, che si piega con un sordo SBOFF. «Ma cosa credi, che siamo qui in villeggiatura? Noi stiamo lavorando, capito? La. Vo. Ran. Do!»
Gli regala uno sguardo in cagnesco carico di odio e livore. Perché lei sa che c’è lui, dietro al suo incubo. Sicuro come il sole sorge ad est. Chi altri può sfruttare a proprio piacimento il mondo dei sogni?
«Lo so», replica lui. Pacato.
«Madre, abbiamo una notizia da darti», le dice sua figlia. Abbracciando il marito. «Una notizia meravigliosa

È come se sua figlia l’avesse pugnalata al cuore col sorriso. La Terra trema. Le sue mani stringono il lenzuolo, per avere un appiglio cui aggrapparsi e non scivolare giù, nel baratro che si è aperto sotto ai suoi piedi. Una notizia meravigliosa, ha detto sua figlia. E quale notizia può essere più meravigliosa di… una… grav…
No. Non la mia bambina. Non con quella mezza calzetta!, pensa la Terra, la parrucca che scivola in avanti e le copre gli occhi.
«Vuoi dirgliela tu?»
«No, amore. Digliela tu.»
Stanno tubando. Come due colombi. Davanti al suo naso. Manca poco che lei si senta di troppo.
«Sicura?»
«Sì.»
«Sicura sicura?»
«Sicurissima», e sua figlia arrossisce.
La Terra decide che la misura è colma. Si alza. Li fronteggia. Sposta il suo sguardo di fuoco da lei a lui un paio di volte, poi resta a fissarlo. E se gli occhi potessero uccidere, lo Sconosciuto sarebbe morto e risorto almeno una dozzina di volte. Trafitto al busto da nodosi e possenti radici di sequoia.
«Che sta succedendo qui?», domanda la Terra, pronta a cavare gli occhi a quello scellerato di suo fratello.
«Mio marito ha parlato col Padre!», trilla la Figlia. E la Terra suda freddo. Certo. Il Padre. Quell’irresponsabile. Prima gliel’ha data in sposa, e poi gli avrà anche concesso di ingravidarla! Nossignore. Non fino a quando io sarò in vita!, pensa la Terra. Fissando lo Sconosciuto come se volesse scorticarlo vivo con lo sguardo. «Oh, scusa amore», e la Figlia sorride, leziosa.
«Nulla, nulla…», replica lui, come se fossero ancora in luna di miele.
«Quindi?», domanda la Terra, il suono secco dei rami spogli che sbattono contro i vetri di una finestra nel vento freddo di novembre.
Lo Sconosciuto storna lo sguardo da sua moglie e lo piazza su di lei. Occhi chiari e purissimi, come una stella appena nata. Sorride.

«C’è stato un malinteso, mamma», dice, e quando lui la chiama così sono grane in arrivo.
«Un malinteso? Che genere di malinteso?» Forse ha scoperto che non è obbligato ad ospitarla durante i sei mesi in cui la Figlia scende nell’Oltretomba?
«Quello con la Fanciulla», e le mani della Terra ricordano con dolorosa precisione la setosa consistenza dei suoi capelli tra le dita.
«Spiegati… meglio», gli intima, i boccoli scomposti sul viso e un alone di belletto sulle guance paffute.
«La questione del primo sangue. La Fanciulla ed io credevamo che si trattasse del primo sangue in assoluto. E invece…»
«E invece?»
Lo Sconosciuto si stringe nelle spalle. «È una questione relativa.»
«Relativa, in che senso?»
«Nel senso che la Fanciulla ed io possiamo continuare a combattere, ma dobbiamo interromperci quando uno dei due resta ferito. Capisci, mamma? Possiamo continuare all’infinito! Che sciocchi, siamo stati!»
«Non è una notizia meravigliosa?», trilla la Figlia, stringendosi – aggrappandosi – al braccio di suo marito.
«Oh, sì. Meravigliosa invero, amor mio.» Le prende la testa tra le mani, le dita che s’insinuano nei suoi capelli. «Ho tutto il tempo perché il lavoro del Citaredo si cicatrizzi. E vedrai, la prossima volta ti porterò la testa della Fanciulla, su di un piatto d’argento…»
«Non è possibile!», e gli occhi della Terra sono laghi smarginati ricolmi di inquietudine e paura e qualcos’altro su cui è meglio non indagare.

«Certo che sì», replica lui, sfiorando la fronte di sua moglie con le labbra. «Chi altri può prendere il mio posto? Tu? Il Mare? Il Citaredo? La Cacciatrice? Sono l’unico che i mortali odiano, che i mortali temono a sufficienza. Sono un appuntamento improcrastinabile, mammina...»
«Tu non puoi farcela contro di lei!»
Lo Sconosciuto sorride, e la Terra assapora il terrore – quello puro – serpeggiarle per le ossa quando lui ribatte: «Scommettiamo?».



 Glyfada.
Dêmêtra si guarda attorno, confusa. Dove sono finiti tutti?, si chiede. L'ultimo ricordo coerente che ha è di lei nel camerino, assieme a Aphroditê, la truccatrice. Stavano... discutendo. Sul fatto che Iannis, il fotografo, fosse gay oppure metrosexual. Che non signifca essere effemminati, no. Significa prendersi cura di se stessi, tutto qui.
Ma Aphroditê non era d'accordo, perché, a detta sua, Iannis è dell'altra sponda. Senza se e senza ma. «Fidati, tesoro. Sto in quest'ambiente da almeno vent'anni e qui i maschi etero sono più rari di un quadrifoglio», le ha detto, sfumandole il correttore ai lati del naso. E Dêmêtra teme che la ragazza abbia ragione.
D'accordo, ma cosa ci faccio qui?, si chiede, guardandosi attorno. Ha i capelli spettinati, i vestiti stazzonati dopo una notte brava e il freddo che solo una nottata sulla rena ti sa regalare. Il sole è appena sorto e la sabbia le è arrivata ovunque,rammentandole delle pieghe del suo corpo che non era certa di conoscere.
C'è un uomo accanto a sé. Un uomo dall'aspetto vissuto. Mani grandi, forti, screpolate dal lavoro. Ha le unghie a pelle e la barba folta. Non è un hipster, ché il suo aspetto le sembra poco curato e quella canotta nera e slabbrata fa tanto anni '90, ma c'è qualcosa che le piace, in lui. Che socchiude gli occhi, scuri come la notte senza stelle, e la fissa. Sbatte le palpebre un paio di volte, poi si tira su. Si mette a sedere, si guarda attorno e poi le dice: «Buongiorno.».
Come se fosse la cosa più normale del mondo da dire svegliandosi in riva al mare accanto ad una sconosciuta.
«Buongiorno», replica lei, ché sì, è la cosa più normale da fare, in una situazione bizzarra ed imbarazzante di suo. «Sai come ci siamo finiti, qui?»
Lui la guarda, sporge in avanti il labbro inferiore, poi le dice: «Un'idea ce l'ho, anche se mi sembra impossibile e anche se detesto dover ammettere che non mi ricordo i particolari.».
«E quale sarebbe, quest'idea?», domanda lei, prima di aggiungere: «E perché sarebbe impossibile?».
«Non saprei. Ho le idee confuse. Magari, facendo colazione...»
«Buona idea. Ho bisogno di un caffè.»
«C'è un bar nello stabilimento accanto. Possiamo mettere qualcosa sotto i denti lì», le propone lui, alzandosi e porgendole la mano. «Athanasios.»
«Dêmêtra», risponde lei, afferrando quelle cinque dita ed alzandosi dalla sabbia. Si spolvera il vestito ed i capelli. «Pensi che potremo fare una doccia?»
Lui si stringe nelle spalle. «In effetti, ne avrei bisogno anch'io. Ma prima, pensiamo alle cose serie», le dice, porgendole il braccio. Lei accetta, lo smalto rosso che spicca contro la pelle abbronzata di lui.
«Dì, secondo te ce l'avranno il latte di soia?», gli chiede, incamminandosi verso lo stabilimento, mentre il sole illumina la spiaggia ed il mare batte e leva contro la battigia.
   

 


Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:
Per la serie Don Rodrigo nun te temo!, Hades si è preso la sua rivincita. Spero che la Terra la smetta di rompergli le uova nel paniere, anche se non ci spererei troppo, se fossi in lui. Certe donne sono delle vere e proprie palle al piede, ed è difficile disinnescarle. Ma puoi metterle a tacere. Per cinque minuti almeno. Fino alla prossima Guerra Sacra. Sì perché io voglio credere che Rhadamanthys darà di nuovo del filo da torcere ai Santi di Athena, tra duecentocinquant'anni!

In tutto ciò, grazie per essere passati, grazie per avermi fatto compagnia e grazie per aver recensito questa storia! Grazie a chi si è perso per strada e grazie anche quei fedeli lettori silenziosi, che l'hanno inserita tra le preferite/seguite/da ricordare. Vi ho visto, cosa credete! Grazie di cuore. E adesso, un bel caffè!

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