La forza del giglio

di Beatrix Bonnie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Cominciano i guai ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


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Prologo



«Innerva» sussurrò una voce strisciante e fastidiosa come il sibilo di un serpente.
Edmund aprì lentamente gli occhi, ma l'oscurità era tale che per i primi secondi non distinse nulla. Non riusciva nemmeno a ricordare cosa fosse successo prima. E se ci fosse stato un prima.
Era steso a terra, su quello che pareva essere un prezioso tappeto orientale. Come ci era arrivato? Si mise a sedere e una mano gli corse istintivamente alla gola, dove sentiva la pelle tirare e bruciare: sotto i suoi polpastrelli sentì il liscio di una cicatrice fresca. Allora si alzò a fatica, a causa del dolore che sentiva in tutte le membra, come se fosse stato picchiato. Ma da chi?
Si guardò intorno, gli occhi finalmente abituati alla penombra: era circondato da figure avvolte in mantelli neri, alcune delle quali avevano una maschera bianca sul volto.
Mangiamorte, disse una voce dentro la sua testa. Ma quel nome non gli ricordava nulla.
«Miei cari Mangiamorte, diamo il benvenuto al nostro ospite irlandese, il giovane Burke» sibilò la stessa voce fredda e leggermente sarcastica alle sue spalle. «O forse dovrei dire McPride?»
Edmund si voltò di scatto.
E lì, difronte a lui, stava ritto in piedi un uomo; no, non era un uomo, era... un essere risputato perfino dall'inferno. Affusolati occhi rossi, volto simile ad un teschio, con quella pelle diafana tesa sugli zigomi e il naso di serpente.
E Edmund ricordò tutto.
«Lord Voldemort» sussurrò con decisione, facendo tremare i presenti al solo pronunciare quel nome. Qualcuno sibilò il suo astio verso il ragazzo irlandese, come se volesse punirlo per la sua insolenza, ma il Mago Oscuro più potente di tutti i tempi non mostrò di essersi fatto impressionare da quell'atto di coraggio, o forse di stupidità, del suo giovane ospite. Semplicemente un'impercettibile ombra di sorriso attraversò le sue labbra sottili.
Poi gli puntò la bacchetta contro.
Edmund capì subito che quella non era la Maledizione non appena sentì che la mente dell'Oscuro Signore cercava di invadere la sua: quella era Occulmanzia. Non sapeva che cosa stesse cercando Lord Voldemort nella sua testa, ma era più che mai deciso a non lasciarlo penetrare. Cercò di resistergli con tutte le sue forze, erigendo barriere e muri dovunque il suo nemico cercasse di infiltrarsi. I volti dei due maghi, così dissimili, erano tuttavia accomunati dalle smorfie per la concentrazione e per lo sforzo. Voldemort puntò la bacchetta contro Edmund con maggior vigore, ma non riuscì a vincere quello scontro. Quando finalmente desistette, entrambi ansimavano per la fatica che aveva richiesto loro quella lotta.
Ma Lord Voldemort non pareva irato per la sconfitta, anzi, gli occhi gli brillavano per la bramosia. «Sei davvero potente come McFarren aveva promesso. Sarà un piacere averti al mio servizio» commentò, avvicinandosi a lui come un bambino viziato davanti al suo nuovo giocattolo. Era bramoso, avido ed eccitato all'idea di possedere quella nuova arma, quella nuova risorsa che l'avrebbe reso ancora più potente davanti a quei miseri che cercavano ancora di resistergli.
«Non sarò mai al tuo servizio!» gridò Edmund con foga, per scacciare la paura che gli attanagliava il cuore. Era terrorizzato, sì, ma doveva resistere. Aveva un'ultima cosa da fare, un ultimo passo da compiere e poi tutto sarebbe finito. Per sempre.
Lord Voldemort rise di quella sua vana speranza. «Oh, non c'è modo di resistere alla maledizione che ti è stata imposta, lo sai» gli disse in tono sarcastico.
Gli occhi di Edmund brillarono di nuova determinazione. «Tu lo dici» rispose beffardo.
Stava per compiere un gesto da cui non ci sarebbe più stato ritorno, ma era la sua unica possibilità. Il suo ultimo pensiero fu per le persone che avrebbe lasciato, per Mairead, alla quale non aveva mai avuto il coraggio di rivelare che l'amava, per Laughlin, il suo inseparabile compagno di viaggio in quella stupenda avventura che era stata la sua adolescenza al Trinity, per i ragazzi del FIE, per il professor Captatio, che era stato quasi un padre per lui, e per tutti gli altri volti e persone umane che gli avevano fatto apprezzare ogni singolo istante della sua vita.
Si mise una mano in tasca, alla ricerca dell'unica cosa che avrebbe potuto salvarlo, lui come tutti gli altri che si sarebbero schierati contro Voldemort. Perché, sì, lo sapeva che non esisteva nulla che potesse contrastare la Maledizione e sapeva anche che se fosse stato al servizio del Signore Oscuro, sarebbe stato tanto potente da far calare sul mondo un'oscurità senza fine, come gli aveva detto tanti anni fa Captatio.
Ma non tutto era perduto. Un ultimo modo esisteva. Ultimo e drastico, ma era la sua sola via d'uscita.
Eppure, per quanto frugasse nella tasca, non trovava nulla.
Era vuota.
«Forse cercavi questa?» domandò sarcastico il Signore Oscuro, sventolando una piccola capsula grigia.
Edmund si lasciò prendere dallo sconforto: quella era la sua ultima speranza e ora stava nelle mani di Lord Voldemort. Evidentemente i Mangiamorte lo avevano perquisito prima di portarlo al suo cospetto.
Voldemort aprì la capsula e annusò il suo contenuto. «Inodore, incolore e insapore. Questo è Distillato della Morte Vivente.»
Uno strano mormorio sorpreso seguì quelle parole. Nessuno capiva il motivo per cui il giovane irlandese dovesse andarsene in giro con una pozione che avrebbe potuto ucciderlo. Nessuno, tranne Lord Voldemort, ovviamente.
«Saresti pronto a morire, pur di non sottostare al mio volere? Davvero commuovente.»
La platea di Mangiamorte fu percorsa da un brusio sommesso. Pochi avevano il coraggio di ammetterlo, ma quel ragazzo aveva fegato. Edmund non abbassò lo sguardo, non chinò le spalle, non si mosse, quando Lord Voldemort si avvicinò a lui. Non avrebbe ceduto. Sì, tutto era perduto, ma non avrebbe dato la soddisfazione al suo aguzzino di vederlo supplicare ai suoi piedi. In fin dei conti, lo sapeva da sempre che quello sarebbe stato il suo destino: un'orgogliosa e silenziosa lotta davanti al suo avversario, una lotta che, sapeva, non avrebbe potuto vincere. È il destino di tutti i grandi.
I due maghi si squadrarono per diversi minuti, come se uno dei due cercasse di vedere una sfumatura diversa dalla determinazione negli occhi dell'altro. Il grande salone avvolto dalla penombra era in frenetica attesa, dilatata dall'ostinato silenzio dei due protagonisti in scena.
Il giovane e il vecchio. Immobili.
Ma nessuno aveva il coraggio di intervenire per smuovere la situazione.
Voldemor è il mio passato, il mio presente e sarà anche il mio futuro, pensò Edmund, incapace di sopportare tutta quella tensione. Non c'era più niente da fare, lo sapeva. Sarebbe stato condannato a uccidere, trucidare e torturare contro la sua volontà, senza essere in grado di scegliere liberamente la propria strada. Sarebbe stato un'arma, l'unico destino che era mai stato progettato per lui fin dall'inizio. Non era una persona, non lo era mai stato e non lo sarebbe più potuto essere. Mai più.
E infine deglutì.
Il segnale che il Signore Oscuro stava aspettando, il segnale che Edmund aveva ceduto. Il suo volto si illuminò di un sorriso sadico e bramoso allo stesso tempo. Alzò la bacchetta contro il giovane irlandese e Edmund capì che quella era la fine di tutto, la fine di Edmund Burke.

«SURGAT SERVUS, PERIAT HOMO!»
Nel momento stesso in cui Lord Voldemort pronunciò quelle parole, un dolore impossibile da sopportare investì Edmund. Sembrava che ogni singola cellula del suo corpo bruciasse sotto i carboni ardenti. Ma il peggio era quel senso di crescente incoscienza che gli invadeva la testa, come se una nebbia oscura gli calasse nella mente. No, non poteva cedere, non doveva cedere!
Cominciò a contorcersi a terra per il dolore, per combattere con tutte le sue forze la Maledizione, ma non un solo lamento uscì dalla sua bocca. Non gli avrebbe dato la soddisfazione di sentirlo urlare. Eppure il dolore era tale che era certo non sarebbe riuscito a resistere. Voleva solo abbandonarsi all'oblio.
Ma. Non. Doveva. Farlo.
E poi lentamente dimenticò il suo nome, dimenticò dove si trovava, dimenticò ogni cosa. L'ultima immagine che riempì la sua mente fu il volto sorridente di Mairead. Poi il buio più totale lo avvolse.
Edmund smise di contorcersi e si acquietò. Sembrava che dormisse. Dopo qualche secondo di silenzio, in cui i Mangiamorte si scambiarono occhiate perplesse, il ragazzo si sollevò lentamente da terra. Era ancora lui, eppure non era lui. Nei suoi occhi non c'era nessuna scintilla di vita, nessuna luce che facesse percepire la presenza di un'anima dentro quel corpo eretto con le spalle dritte. Sul volto un'espressione indecifrabile, innaturale. Non c'era emozione.
Lord Voldemort sorrise, finalmente soddisfatto. Allungò la sua mano scheletrica verso il ragazzo, porgendogli la sua bacchetta di abete. «Lancia la Maledizione Cruciatus su quell'uomo» ordinò l'Oscuro Signore con un cenno del capo, mentre una luce bramosa gli illuminava gli occhi. Voleva provare il suo nuovo giocattolo.
Prima che il Mangiamorte in questione potesse avere il tempo di reagire, il ragazzo aveva già afferrato la sua bacchetta e si era voltato verso di lui. «Crucio!» esclamò con decisione, senza tuttavia tradire nessun emozione.
Il mago si accasciò a terra e cominciò ad urlare di dolore, mentre gli altri Mangiamorte si scostarono impercettibilmente da lui, spaventati. Il ragazzo irlandese non ebbe un attimo di esitazione o ripensamento nel sentire le grida della sua vittima o nel vedere i suoi spasmi.
Lord Voldemort sembrava godere di quello spettacolo, ma dopo qualche minuto finalmente si riscosse. «Basta» ordinò e il ragazzo alzò la bacchetta interrompendo la tortura senza battere ciglio.
L'uomo colpito ansimò a terra, troppo dolorante per alzarsi.
Quel ragazzo non era umano. Non c'era nessuna gioia folle nei suoi occhi, né tanto meno il disgusto per quello che aveva appena fatto. Nessuna emozione. Era un'arma, niente di più.
Lord Voldemort parve piacevolmente soddisfatto. «Il braccio sinistro» ordinò al suo nuovo seguace. Il ragazzo tese il braccio e il Signore Oscuro vi impresse il suo Marchio Nero.











Carissimi lettori, amici di vecchia data e nuovi arrivati,
BENRITROVATI!

Mi accingo all'ultima grande fatica di questa saga: ebbene sì, siamo giunti al settimo e ultimo racconto! Mi sento un po' emozionata, lo confesso, perché si tratta del capitolo finale di un progetto che è iniziato ben sei anni fa. Speriamo bene!

Comunque, è la prima volta che inizio un racconto della saga con un prologo: ma qui, più che l'inizio del nuovo racconto, è la conclusione del vecchio. Le cose si mettono male, proprio male! E vi confesso che per tutto il racconto non ci sarà un'atmosfera propriamente felice... come forse potevate immaginare!
Intanto, QUI il link dell'immagine d'inizio un po' più grande, se qualcuno volesse vederla meglio.

Ci vediamo mercoledì 23 marzo; perdonate i lunghi tempi di aggiornamento, ma gli impegni della vita mi stanno risucchiando tutto il tempo libero (e le energie soprattutto!)
A presto!
Beatrix Bonnie

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Capitolo 2
*** Cominciano i guai ***


CAPITOLO 1
Cominciano i guai


Quattro giorni prima rispetto al prologo


Qualcuno bussò alla porta e, a giudicare dalla foga che ci metteva, doveva essere qualcuno di non molto amichevole. Reammon si alzò controvoglia dal divano in cui era sprofondato a leggere un libro per andare ad aprire alla porta. Sull'uscio si ritrovò due Tiratori Scelti che lo squadravano con astio. Non era per niente un buon segno. «Buongiorno a voi» esclamò gioviale, come se si trattasse di suoi vecchi amici.
Nessuno dei due rispose al saluto. «Stiamo cercando Mairead Josephine Boenisolius. È in casa?» domandò il più alto in grado, in tono pomposo.
«No, è... in vacanza» rispose Reammon, con un sorriso. Ma dietro quel sorriso avrebbe voluto morire: che cosa volevano dalla sua bambina?
«Qui ci risulta che la signorina Boenisolius abbia registrato una bacchetta di undici pollici e mezzo, tasso e corda di cuore di drago» continuò imperterrito il Tiratore Scelto, leggendo da una cartellina che aveva prima sottobraccio. «È esatto?»
Reammon fece un sorriso tirato. «Se vi risulta, immagino di sì.»
«E allora per quale motivo tale bacchetta, da quando è stata registrata, non ha compiuto nessuna magia?» indagò l'agente, insistendo pesantemente sull'aggettivo “nessuna”.
«Ehm...» farfugliò Reammon. «Ci sarà stato un errore nella registrazione?» tentò di dire. Era ovvio che all'ufficio addetto non fosse risultata nessuna magia, perché Mairead, con l'aiuto di Edmund, aveva fatto registrare una bacchetta falsa, copia identica della sua, che poi era stata spezzata.
«La signorina Boenisolius possiede un'altra bacchetta? Ha fatto registrare quella sbagliata? Ha cercato di eludere i controlli del Governo?» lo interrogò il Tiratore, sempre più minaccioso ad ogni domanda.
«Io... no, certo che no» borbottò Reammon, cercando di non cedere al panico.
«Dobbiamo parlare con sua figlia» gli intimò l'uomo.
Reammon si stropicciò le mani. «Ve l'ho detto, è in vacanza» provò a dire, cercando di risultare convincente. E, soprattutto, sperando che Mairead non decidesse di rientrare a casa proprio in quel momento.
«Quando torna?»
«Oh, ehm... non lo so» rispose vago. «Sapete come sono fatti i ragazzi: questa è la loro estate, hanno appena finito la scuola, ottenuto la loro D.I.M.S.S.I.O... hanno preso le tende e via, a gironzolare per l'Europa, un po' all'avventura, insomma. È normale, sono giovani. Poi dovranno cominciare a pensare al futuro, ma per questi mesi possono ancora godersela, e chi può dargli torto? Mica ci si diploma tutti i giorni, no?» Reammon sperò che lo sproloquio distraesse i due Tiratori dalla marea di bugie che stava pronunciando. «Gradite una tazza di te?» esclamò a conclusione del discorso, come se volesse far loro dimenticare il motivo per cui erano lì.
«No, grazie» rispose gelido il Tiratore anziano. Poi gli puntò contro il suo indice accusatore. «Torneremo.»
Ed era una minaccia.
Reammon restò immobile sulla soglia d'ingresso per una lunghissima manciata di secondi, dopo che i due Tiratori si furono allontanati. Il suo incubo più tremendo stava prendendo forma: dopo quello che avevano fatto alla sua amatissima Mary, ora volevano strappargli anche sua figlia. No, non glielo avrebbe permesso. Corse in casa, come in preda a una follia sovrumana, salì i gradini due alla volta e si precipitò in stanza di Mairead, dove cominciò a buttarle nel baule di scuola abiti alla rinfusa e cianfrusaglie che riteneva potessero tornarle utili.
Quando Mairead tornò a casa, dopo la lunga chiacchierata con Moira, trovò suo padre in salotto, in preda al delirio, che continuava a girare intorno al suo baule stracolmo di roba. «Che diavolo succede?» domandò allibita e spaventata.
«Te ne devi andare» rispose Reammon, correndole incontro e mettendole le mani sulle spalle.
«Andare? Dove?» gli fece eco Mairead, senza capire.
Suo padre ficcò l'ennesima cianfrusaglia dentro il baule. «Via... non lo so... dai Maleficium» farfugliò.
Mairead lo afferrò per un braccio e lo costrinse a fermarsi. «Papà, che cosa è successo?» gli chiese guardandolo dritto negli occhi.
Reammon deglutì. «Hanno scoperto il vostro trucchetto» fu l'unica cosa che riuscì a mormorare, ma fu sufficiente: Mairead capì al volo. Corse su per le scale, si fiondò in camera e recuperò uno zaino che teneva sotto il letto. L'aveva preparato tempo fa, mettendoci dentro le cose indispensabili ad una fuga rapida. Lanciò uno sguardo di sfuggita al poster di Sean Troy, il suo giocatore di Quidditch preferito, retaggio adolescenziale che le pareva appartenesse ad un'altra vita. A fianco ci aveva attaccato l'autografo che Edmund era riuscito a farsi fare per lei e la foto scattata l'ultimo giorno del quinto anno al Trinity: Faonteory, con il suo caschetto di capelli biondi, aveva la solita aria stizzita, Dedalus salutava dalle spalle di Henry, Laughlin aveva quel suo immancabile sorriso sicuro di sé. Edmund appariva sereno, nonostante tutto quello che aveva passato al quinto anno, e i suoi occhi azzurri sembravano straordinariamente luminosi anche in quella piccola foto. Ora tutto quello apparteneva al passato e davanti a lei si dischiudeva invece un sentiero che non sapeva dove l'avrebbe portata.
«Addio, cameretta» fu tutto ciò che riuscì a sussurrare. Si mise in spalla lo zaino, prese in mano la sua Nimbus e si chiuse la porta alle spalle, chiudendo dentro la sua infanzia finita.

Eoin Maleficium e suo figlio stavano eseguendo un duetto di arpa e pianoforte. Era particolarmente piacevole suonare insieme, anche perché avevano raggiunto un'intesa tale da non aver nemmeno bisogno di spartiti: semplicemente, si guardavano, si capivano e suonavano. In teoria, almeno per un'ora al giorno, avevano ottenuto di potersi dedicare alla musica senza che nessuno li disturbasse, a meno che non fosse accaduto qualcosa di molto grave. Per questo motivo Eoin si preoccupò parecchio quando Bearach fece irruzione nella sala della musica senza nemmeno bussare.
«Stavamo suonando» lo rimproverò Laughlin, facendo scivolare le dita su e giù sulle corde dell'arpa.
Bearach lo ignorò. «C'è Henry alla porta» fu il suo annuncio e dallo sguardo preoccupato doveva essere successo qualcosa di grave.
«Henry?» ripeté Laughlin, senza capire il motivo per cui il ragazzo fosse venuto a casa loro.
Eoin si voltò a guardarlo. «Chi è?» gli chiese serio, intuendo la gravità del problema.
«È un nostro amico. Ha la mia età, era nei Llapac» spiegò Laughlin, alzandosi e riponendo l'arpa al suo posto. «Ma non capisco perché dovrebbe piombare qui all'improvviso. Deve essere successo qualcosa.» Si avviò verso la porta, poi si fermò e lanciò uno sguardo eloquente al padre. «I suoi genitori sono Inglesi.»
Eoin si alzò dallo sgabello del pianoforte e seguì il figlio.
Fu subito chiaro che doveva essere successo qualcosa di grave. Henry, fatto accomodare in salotto dall'elfo Lappy, non riusciva a stare fermo, contraeva le mani, faceva passi nervosi, roteava gli occhi ansiosi in giro per la stanza.
«Henry, che succede?» domandò Laughlin, facendosi incontro all'amico.
«Io... mi dispiace... è che non sapevo...» cominciò a farfugliare il ragazzo, in preda all'agitazione.
Laughlin lo prese per le spalle e, con una leggera pressione, lo costrinse a sedersi in poltrona. «Cerca di calmarti e dimmi che è successo» lo incoraggiò, facendo cenno all'elfo Lappy di portare del tè per il loro ospite.
Henry prese un profondo respiro, poi cominciò a spiegare: «Questa mattina sono venuti due Tiratori Scelti a casa. Hanno detto che la mia bacchetta non faceva magie, che era impossibile, che sto cercando di imbrogliare il Governo. Io gli ho detto che non era vero, gli ho mostrato la bacchetta falsa registrata ma... loro non mi hanno creduto.» Herny si interruppe, mortificato come se fosse stata colpa sua. Il trucco delle bacchette finte aveva retto sul momento, ma era ovvio che non sarebbe potuto durare per sempre.
«Cosa è successo dopo?» domandò allora Laughlin, accucciandosi davanti alla poltrona per guardare l'amico negli occhi.
Henry alzò una spalla a mo' di scusa. «Mio papà. Ha confuso di nascosto i Tiratori Scelti ed è riuscito a convincerli ad andar via. Ma poi ha detto che dovevamo lasciare immediatamente la casa. Abbiamo fatto di corsa le valige e volevamo scappare in Inghilterra, dai miei nonni paterni ma...» Henry scosse la testa. «Io non voglio andarmene» asserì con voce un briciolo più sicura. «Moira è qui, voi siete qui... non voglio scappare. L'Irlanda è casa mia.»
«E lo sarà sempre» gli garantì Laughlin, con un sorriso incoraggiante.
Henry annuì grato. «Io volevo andare da Moira, ma non era a casa, quindi... mi sei venuto in mente tu. Ho pensato che qui...»
«...qui sarai al sicuro» completò per lui Laughlin.
«E ci sarà sempre posto per te» aggiunse Eoin. Non appena Lappy arrivò con il tè, gli ordinò di andare a preparare la stanza degli ospiti.
«Grazie, signor Maleficium» mormorò Henry, rincuorato, portandosi la tazza del tè alle labbra. Calò il silenzio nella sala, perché tutti riflettevano su quanto era accaduto, su quanto stava succedendo al loro amato paese.
Laughlin fece per aggiungere qualcosa, quando sentirono bussare alla porta. «Chi è ancora?» domandò il ragazzo: un'altra visita inaspettata per sconvolgere ulteriormente il pomeriggio?
Sentirono i passetti leggeri di Lappy che andava ad aprire, poi la voce concitata di Reammon e quella abbattuta di Mairead. Laughlin si precipitò in ingresso, con la chiara sensazione di sapere cosa fosse accaduto. La sua amica, in piedi a fianco del suo baule scolastico, aveva l'aria scoraggiata e spaventata insieme. «Lo so» disse semplicemente Laughlin, stringendola in un abbraccio.
Poco dopo, Eoin e Henry li raggiunsero. «Non temere, Reammon, qui sarà al sicuro» disse Eoin, anticipando qualsiasi preoccupazione. L'atmosfera era grave, pesante, come se la chiara consapevolezza di ciò che stava succedendo avesse gettato una patina di oscurità nella stanza. Ma Eoin Maleficium non aveva intenzione di farsi abbattere da quell'ennesimo colpo basso del Governo: era arrivata l'ora di reagire. «Laughlin, recupera al più presto l'elenco degli studenti che facevano parte del FIE» ordinò al figlio in un tono che esprimeva tutta l'urgenza di quella richiesta.
«Per che cosa, padre?» domandò il ragazzo: aveva intuito ciò che il padre aveva in mente, ma voleva esserne sicuro.
«Dobbiamo riunire tutti quelli che vogliono schierarsi contro questo regime e dobbiamo farlo in fretta, prima che le cose peggiorino» spiegò Eoin, le spalle dritte e il mento sollevato: aveva preso la sua decisione. «Io mi farò venire in mente altri che potrebbero essere dalla nostra parte: è giunta l'ora che il FIE esca dalle mura scolastiche del Trinity.»

«Ehi, Ed!»
«Ehi.» La voce di Edmund era funerea.
Laughlin ignorò completamente l'umoraccio dell'altro. «Hai ricevuto il gufo?» domandò assumendo un tono da diplomatico.
Edmund alzò una spalla. «Sì, l'altro ieri» rispose vago, il capo ancora chino sul libro che stava leggendo.
Laughlin sbuffò. «Be', potevi anche degnarti di rispondere.» Erano quasi tre giorni che non si sentivano, esattamente dal giorno in cui Mairead e Henry gli erano piombati in casa. Non era mica logico che il suo amico avesse ricevuto un gufo del genere e non gli fosse nemmeno venuto in mente di contattarli! Aveva dovuto chiamarlo lui con lo specchietto comunicante, saggio regalo di compleanno per la maggiore età di Edmund.
«Non l'ho nemmeno letto: l'ha fatto Melita e mi ha riferito» si giustificò Edmund, degnandosi finalmente di guardare dentro lo specchietto. «Ciao, Mairead» salutò l'amica.
Lei rispose con un cenno della mano.
«Ah, bene, grazie» replicò invece Laughlin, fingendosi offeso. «Sei proprio un vero amico. Non ti sei nemmeno degnato di apprezzare lo sforzo.»
«Quale sforzo?» intervenne divertita Mairead, tirandogli una gomitata.
Laughlin si imbronciò. «Cioè, voi non avete idea del tempo che ci ho messo per scrivere una lettera in cui i destinatari capissero che era stata indetta una riunione del FIE senza metterlo chiaramente per iscritto!» spiegò, gesticolando animatamente per sottolineare le frasi del discorso.
Mairead scoppiò a ridere. «Te ne saremo eternamente grati!»
Edmund invece si limitò ad annuire. «Ovvio.»
Laughlin sbuffò. «Va bene, ok, abbiamo capito l'antifona» fu il suo commento rassegnato. «Edmund, vuoi dirci cortesemente che ti piglia?»
Il ragazzo mugugnò. «Be', sai, non è particolarmente divertente passare l'estate chiusi in casa con le tende tirate a far finta di non esistere!»
Mairead sfoderò un'espressione di amaro sarcasmo. «No, dai, raccontami pure Edmund, perché non credo di conoscere la situazione.»
Edmund sembrò ricordare improvvisamente che anche Mairead doveva vivere da reclusa, se non voleva rischiare che gli agenti del Governo la obbligassero a registrare la sua bacchetta – e questa volta si sarebbero certo assicurati di registrare quella vera. Si addolcì. «Scusami, Mairead.»
La ragazza accennò ad un sorriso. «Non fa niente.»
«Bene, adesso basta autocommiserarsi!» sbottò Laughlin, facendo roteare gli occhi. «Pensiamo a qualcosa di positivo!»
«Tipo?» replicarono Edmund e Mairead, in coro e con lo stesso sguardo perplesso.
«Tipo al fatto che avete un amico stupendo che ha avuto la brillante idea di regalarvi questi specchietti comunicanti!» esclamò Laughlin, entusiasta. «Così possiamo sentirci ogni maledetta ora di ogni maledetto giorno!»
«Non vedevo l'ora!» esclamò divertito Edmund. In fondo gli mancava la compagnia di Laughlin: con la sua mania di auto-esaltarsi, riusciva sempre a metterlo di buon umore.
Chiacchierarono per un'altra mezz'oretta, cercando di distrarsi dai pensieri cupi. Alla fine, si salutarono con la certezza che si sarebbero visti il giorno successivo per la riunione.
«Mi raccomando, puntuale!» ammonì Laughlin.
Edmund sorrise. «Spaccherò il minuto, promesso!»
E così si salutarono, senza sapere che quella promessa non sarebbe mai stata mantenuta.











Ebbene sì, cari lettori, l'atmosfera diventa sempre più angst...
Ho voluto fare qualche passo indietro, per tornare a qualche giorno prima del rapimento di Edmund. Ecco che per i ragazzi le cose cominciano a mettersi davvero male. L'infanzia è finita, come fa notare Mairead. Ora cominciano i guai.
Nel mio estremo sadismo, ho voluto rappresentare l'ultima chiacchierata di Mairead, Laughlin e Edmund. L'ultima per tanto tempo... mi mette un po' tristezza, ma se vogliamo parlar di guerra, mica si può essere allegri!

Per l'immagine del capitolo, ho scelto di disegnare Henry. In linea di massima, mi piacerebbe disegnare il ritratto di tutti i personaggi della storia (i principali, quanto meno), anche se già li conoscete, ormai. Comunque, cominciamo da QUI con Henry.

Purtroppo, i tempi di aggiornamento almeno per il momento saranno un po' lunghi, causa impegni lavorativi. Ci si rivede sabato 23 aprile.
A presto!
Beatrix

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