Se son rose fioriranno

di lisitella
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** capitolo 1 ***


Se sono rose fioriranno



 
Otto e quaranta. Otto e quarantacinque. Fremevo di fronte alla porta dell’ascensore che continuava ad andare su e giù, senza fermarsi mai al piano.

Ero ormai decisa a fare semivolando i sei piani in discesa, quando la porta di quell’aggeggio infernale finalmente si spalancò di fronte a me. Ne uscì un ragazzo con dei fiori in mano: “E’ qui l’interno 18?”, chiese.

Indicai instintivamente la porta alla sua destra e feci per andare via. Poi mi ricordai che l’interno 18 era il mio.

Fiori? Fiori per me a quell’ora? Dissi in fretta: “Devono essere per me. Dia qui”. E più in fretta ancora riaprii la porta, afferrai i fiori, li posai sul puff dell’ingresso, richiusi, con cinque mandate. M’infilai nell’ascensore, cercai di furia la mancia per il ragazzo, uscii correndo e dopo otto isolati imbucai sempre correndo, la porta dell’ascensore dell’ufficio. Alle nove meno un minuto, dopo aver ritrovato il fiato, ero già concentrata su un  mucchio di pratiche che sembravano moltiplicarsi come zizzania e il pensiero dei fiori mi scivolò dalla mente.

Fu il pomeriggio, rientrando, che ritrovai sul puff i fiori. O meglio, ciò che rimaneva di quelle che dovevano essere state tre solendide rose bianche. Ora erano solo tre mucchietti di petali molli e sfatti, con un profumo intenso e triste. Tre rose bianche: Chi poteva mandarle?
Sotto il fiocco, c’era una bustina intestata semplicemente a “Via Toscana, 66, interno 18”. Dentro un biglietto. Ma bianco. Più bianco delle rose. Lo rigirai, riguardai la busta, esaminai la carta che avvolgeva i fiori, ma si trattava di una semplice velina senza intestazione del negozio. Allora feci una smorfia stupita e desisi che si era trattato di uno sbaglio.

Ma che sbaglio è, uno sbaglio che continuò puntualmente pre tre giorni di seguito? La quarta mattina era sabato ed era il mio giorno libero. Quando il campanello suonò, poco prima delle nove, io  ero ben decisa a saperne di più su questo improvviso interesse per i roseti e per me da parte di uno sconosciuto.

La risposta del ragazzo, quando io gli chiesi se mai sapesse chi inviava quei fiori, fu banale e stupida: “Chi li manda? E che ne so io? Se non lo sa lei…”.

Lo guardai spazientita: “Se lo avessi saputo, non te lo avrei chiesto, no? Ma chi ha fatto quest’ordine?”.

Il ragazzo alzò le spalle: “Veramente, l’ordine l’ho preso proprio io. Ha telefonato uno e ha detto di mandare tutte le mattine tre rose bianche a questo indirizzo per venti giorni, a partire dal primo del mese. E così ho fatto”.

Mi morsi un labbro: E così non l’hai visto di persona questo signore?”.

Il ragazzo scosse la testa.

“Scusa eh, ma voi vi siete fidati di una telefonata? Ma questo signore sarà poi almenio venuto a pagare, no?”.

Il fattorino scosse ancora la testa: “No, no: Lui ha telefonato circa dieci giorni fa e poi è arrivato un assegno che pagava tutto”.

Mi fissò, mi vide perplessa, sorrise: “Ah! Ha detto che era una cosa roservatissima e che perciò non voleva da re neppure il nome della destinataria... Tanto lei avrebbe capito… Di matti ce ne sono tanti al giorno d’oggi! Beh, buongiorno”. E se ne andò fischiettando. Chiusi la porta lentamente, poi sedetti al tavolo a guardare le rose. Erano bellissime, fresche e profumate. Proprio un messaggio d’amore. Cero non potevano voler dire che questo. Sospirai, dopotutto ero una romantica  e una corte del genere mi sarebbe piaciuta. Ma la corte di chi?

Mi alzai, girai per la stanza, mi fermai davanti allo specchio. Quando avevo un problema grosso, me ne andavo senpre davanti allo specchio e parlavo con me stessa, a voce alta. Da bambina  era un gioco, parlavo e mi facevo le smorfie. Diventava una necessità per non impazzire di solitudine. Vivere da sola in una grande città, discutere giorno e notte quasi sempre e soltanto con la propria ombra non era mica piacevole. Ma in famiglia c’era bisogno del mio lavoro e così avevo dovuto accettare questo impiego. Ripensai ai miei cinque fratelli, alle chiacchiere di mia madre, al brontolare di mio padre, e mi sembrò di trovarmi su un pianeta sconosciuto. La casa allegra, la sua piazza, i suoi vicoli, il mondo a portata di mano di un paese non troppo piccolo ma in cui si conoscono quasi tutti.

All’improvviso i miei diciannove anni mi si sgretolarono sulle spalle e mi risentii bambina, come quella volta che giocando a nascondino, ero finita in soffitta e poi il gioco non era più eccitante e nuovo ma stupido e inutile perché c’era qualche ragno e odor di legno vecchio e un tarlo affamato e invisibile.

Vedevo correre le lacrime sul viso e avrei pianto fino alla sera se lo  specchio non mi avesse ricordato che così diventavo brutta e il buon senso non avesse suggerito che piangere era proprio una fatica sprecata. Allora mi riavviai i capelli, mi preparai e scesi a fare la spesa.

Quando entrai nel negozio, il figlio del droghiere mi sorrise, come e più del solito: “Buongiorno. Cosa prendiamo oggi?”.

Lo guardai: e se… ci pensai un attino poi mormorai: “Dunque… vediamo…Rose!”

Il giovanotto mi guardò con il sorriso un po’ ebete: “Scusi, come? Cosa desidera?”

Una risata allegra si preparò nella mia gola, ma riuscì a frenarla: “Volevo tre panini e due etti di salame”.

Lo guardavo mentre mi serviva: Sì era un ragazzo buono e pieno di salute, ma ero stata stupida a pensare, pur se per un attimo, che quelle rose erano sue. Colui che mi mandava  quel pensiero d’amore non poteva essere alto un metro e sessanta e pesare ottanta chili. O almeno non volevo che fosse così.

Tornando a casa contavo nella mente tutti gli uomini che conoscevo: il capoufficio dottor Fanti, l’usciere del secondo piano, il farmacista.

Tutto qui. In due mesi di vita in città avevo sempre lavorato e poi ero rimasta a casa, a leggere e a occuparmi di piccole cose. La sera non uscivo mai, neppure con qualche mio collega. Continuavo a sentirmi una provinciale, con un certo timore per la vita cittadina caotica, arida e smaliziata.


Certo, come materiale umano maschile non che ne avessi molto su cui indagare! Ero così assorta nelle mie riflessioni che l’ascensore arrivò al piano terra, entrai senza guardare, finendo contro un signore che usciva. Alzai gli occhi, mormorai: “Scusi”, poi rimasi a guardare stupita  una barba colore miele e due occhi azzurri. La voce che uscì dalla barba era sorridente: “Di nulla. Felice di questo scontro!” Accennai col capo e chiusi l’ascensore. Quello si che mi sarebbe piaciuto come mittente delle mie rose bianche! Dissi stupita e in fondo al cuore, come uno spillo. Mi punse la nostalgia acuta di una storia d’amore tutta mia.

Mentre mangiavo il mio panino riflettevo: essenziale era l’elemento sorpresa. Per scoprire il mio ammiratore segreto dovevo agire d’astuzia e in modo da poter poi far finta di niente se quello si rivelava l’uomo sbagliato.

Verso le otto aprì la farmacia notturna, mi diressi con passo deciso ed entrai facendo tintinnare il campanello. Da dietro gli scaffali uscì il dottore: alto, magro, con gli occhi gentili dietro gli occhiali, aveva un aspetto rassicurante. Mi riconobbe, mi sorrise: “Prego”.

“Vorrei… dell’acqua di rose”.

Il dottore, imperturbabile, si girò e scelse una bottiglia tra i cosmetici. Lo scrutai.  Quella richiesta non lo aveva scosso affatto nè tantomeno il sentire quel nome famigerato.  Presi la bottiglia, la esaminai, fissai bene il dottore, chiesi decisa: “Ma questa è acqua di rose bianche?”.

L’uomo piegò il capo: “Come, scusi? Acqua di rose bianche? Mah, non so. Che c’entra poi?”

Era comico. E doveva di certo pensare che le donne, specie per certe cose, sono un po’ matte. Sospirai. Non poteva essere lui. Altrimenti preso così alla sprovvista, si sarebbe confuso o mi avrebbe guardata con un sorriso complice. Invece il suo sguardo sembrava solo leggermente e professionalmente preoccupato per la mia salute mentale.

“Grazie. Non importa: Buonasera”.

Uscii un po’ delusa e un po’ contenta. Il farmacista era alto, magro e gentile, ma poteva avere quarant’anni e forse era pure sposato, anche se senza anello al dito. E a me i quarantenni , forse anche sposati, non piacevano proprio.

Mentre infilavo l’atrio del portone, una voce allegra mormorò alle mie spalle: “Buonasera. Tutta sola?”

Sussultai, mi girai e me lo ritrovai davanti, biondo e forte come al mattino, anzi quasi più simpatico ancora. Mi pentii dei mie Jeans vecchi e dei capelli un po’ scomposti. Risposi solo: “Buonasera”.

Che ci stava a fare quello ancora lì? Premetti il bottone dell’ascensore, mi si fermò accanto. Quel coso di ferraglie ci metteva un secolo ad arrivare e mi sentivo sulle spine, con lui che continuava a fissarmi, non tanto villanamente da farsi mandare  a quel paese ma abbastanza insistentemente da farmi ritenere che i miei vestiti fossero invisibili. Tentennai un poco, poi mormorai: “Beh, io vado a piedi. Ciao”.

Con un sorriso contenuto, mi sentii rispondere: “Buona idea, vengo su anch’io!”.

Mi fermai di scatto: “Vieni su anche tu?”.

Lui mi fissò, poi scoppiò a ridere ci cuore: “Ma certo! Dove vuoi che vada? Abito qui!”.

Io arrissii, mi ripresi: “Cioè… volevo dire… Non mi pare di averti mai visto”.

“Ci credo bene!”, esclamò lui. “Cammini sempre a testa bassa e fili via come un rapido tra la gente!  Sai, quasi tutte le mattine ti vedo dal balcone. Abito sotto di te”.

Continuavamo a salire e a me sembravano le scale eterne del purgatorio. Trovavo difficile parlare con uno sconosciuto in una città semisconosciuta. Dov’era la mia cittadina ridente, le amiche pettegole ma in fondo affettuose, i ragazzi che erano miei compagni sin dall’asilo e con cui era facile parlare sulla piazza indossando l’eterna maglietta unisex? A questo qui, invece, camminargli a fianco dava una strana sensazione, faceva venir voglia di essere bellissima in un lungo vestito provocante.

Finalmente raggiungemmo il quinto piano. Lui si fermò: “Bene, ora che ci siamo parlati, non scapperai più così di fretta, no?”.
“Ma io non scappo mica!”, mi risentii.

“Ah no?”, chiese ironico lui, piegando la testa.

Io arrossii e infilai l’ultima rampa di scale. La voce mi raggiunse al decimo scalino: “Io mi chiamo Matteo Rovini: Se hai bisogno di me, sono qui, suor Timidezza”. E rise. Poi scosse la testa, divertito. “Carina, molto carina. Peccato che sembri un topetto sempre inseguito da dieci grossi gatti. Tutto sommato potresti davvero essere un’avventura di gusto nuovo”.

 
 

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Capitolo 2
*** capitolo 2 ***


 
Alle dieci e cinque del lunedì, il dottor Fanti chiamò me che sono la sua segretaria per dettarmi una lettera. Mentre entravo squillò il telefono.
“Attenda un attimo, prego”, si scusò il dottor Fanti e iniziò una lunga conversazione su prestiti ed esportazioni.

Io non lo ascoltavo affatto, ma lo esaminavo ai raggi X. Poteva essere lui il mittente delle rose, che continuavano a profumare il mio miniappartamento? Forse si. Sapevo che il dottor Fanti era scapolo, forse più per non aver avuto tempo di cercarsi una moglie che per vocazione. Le altre segretarie mi avevano raccontato tutto: alla morte del padre, il dottor Fanti si era trovato appena laureato, orfano di madre, con un’azienda sulle spalle che lui aveva sempre ritenuto efficiente e che invece era gravata di ipoteche.  Solo, di fronte a un avvenire apparentemente solido e invece posato su una piuma, si era rimboccato le maniche con coraggio. Ora aveva superato la quarantina e la sua azienda era una delle più serie del settore, lo fissavo attentamente, quasi con tenerezza.
Non era brutto, ma il suo viso aveva pieghe grigie e rassegnate. L’unica forza, l’unica vitalità, il suo sguardo lo trovava quando si parlava di lavoro, nient’altro che di lavoro. Era un uomo corretto,  gentile, dal sorriso raro. Possibile che nell’impaccio di un amore tardivo fosse capace di inviare candide rose anonime alla sua segretaria? O forse sì: In effetti…

Il dottor Fanti smise di parlare, dettò la lettera, si raccomandò che fosse spedita immediatamente. Prima  di aprire la porta, tirai un lungo respiro. Mi voltai, chiesi con voce appena tremante: “Scusi dottor Fanti… a lei  piacciono, le rose?”

Un fruscio, un viso alzato di scatto, un “Prego signorina?” al colmo dello stupore.

Avvampai: “Volevo sapere se a lei piacciono le rose… perché  vede…. Quest’ufficio è sempre così triste… se a lei piacciono, la mattina potrei metterne una sul suo tavolo”.

Annaspavo tra le parole, inventavo una scusa assurda e improvvisa per coprire il mio errore.

Silenzio aasoluto. Rialzai gli occhi, vidi il dottor Fanti appoggiato allo schienale della sedia con un viso estremamente più vecchio e stanco: Poi lo udii borbottare: “Vada, signorina, vada. Le rose, si figuri!” Scosse la testa. Poi aggiunse: “Se le fa piacecere, può mettere dei fiori… Io non ho tempo per queste cose, non l’ho avuto mai… Come si vede che lei è giovane! Poi la vita…”.

Tacque di colpo, chinò di nuovo il viso sui conti, ritrovò una voce più atona: “Su, vada ora.  E non si perda in sciocchezze”.

Tutto il giorno mi dicevo che dovevo essere impazzita. E poi, che  me ne importava del dottor Fanti? A che scopo sapere se era stato lui o no? Questa ricerca stava diventando stupida, ma non riuscivo a farne a meno.

Andando via, salutai l’usciere. Lui proprio lo avevo ecluso, perchè aveva sessant’anni e quattro nipoti. Non rimaneva nessuno. Proprio nessuno. A meno che…

Entrai nel portone, salii, fermai l’ascensore al quinto piano, suonai dov’era scritto Rovini. Dopo questo, sarebbe finita la mia ossessione. Uno, due, tre squilli.
L’uscio si aprì a metà e poi per intero: “Ciao, sei tu. Hai già bisogno di me?”, sorrideva.

E adesso? E adesso che ha aperto che gli dico? Mi morsi un labbro, cominciai tutto d’un fiato: “Senti, pensa quello che ti pare ma io devo chiederti una cosa. Non sarà educato perché… Insomma, tu non sai neppure il mio nome ma io ho proprio urgenza di sapere se…”.

Lui mi guardava con gli occhi sbarrati: “Ehi! Un momento! Forse è meglio che entri un attimo”.

Esitai  e lui si fece scuro in viso: “Senti, sono solo in casa perché da solo vivo, ma non è mia abitudine aggredire e violentare le coinquiline, quindi…”.

Rimbeccai: Dio, che maleducato! E… e  penso  proprio di essermi sbagliata a credere che…”.

Mi girai di scatto per andar via, ma lui mi fermò per un braccio: “E no! Un attimo. Suoni alla mia porta, mi tieni qui a sentire un discorso senza capo né coda e poi fili via così? No…”

I miei occhi si allargavano sempre più. Oddio che pasticcio. E che rabbia. Ma poi che se ne infischia. Un po’ timida, si. Ma mica fatta di burro. Deglutii, lo fissai, entrai in casa di lui. L’appartamento era identico al mio, ma zeppo alle pareti di tanti quadri firmati con una specie di sgorbio a farfalla. Li guardavo, mi piacevano.

“Ehi, ti sei incantata?”. Sorrideva, arricciandosi la barba sul mento.

“Sono tuoi?”, chiesi.

Matteo annuì, con una scrollata di spalle: “I miei scarabocchi…”, ma c’era tenerezza nella sua voce. Per un attimo con ugual tenerezza, sembrai fissare gli occhi neri, il viso minuto nascosto dai capelli lunghi e sottili. Poi fece un gesto, ci sedemmo, lui aprì una coca-cola.

“E allora che volevi sapere?”. Sorrisi, poi ridacchiai: “Senti, da quanto tempo mi osservi?”

Lui fece una smorfia: “Beh, pressappoco da quando sei arrivata”.

“E… ti piaccio?”

Matteo saltò sulla sedia: “Santo Dio, e io che ti avevo scambiata per suor  Timidezza!”.

“Oh, lascia perdere e rispondimi!”, replicai, ormai decisa a perdere la faccia pur di scoprire la provenienza degli omaggi floreali all’interno 18.
“A dir la verità, sei proprio carina, anche se…”.

“Bene a una ragazza che ti piacesse invieresti dei fiori?”.

Lui ammiccò: “Certo che mi piacciono… e le ragazze pure”.

Respirai a fondo: Allora… allora sei tu che tutte le mattine mi mandi tre rose bianche?”.

Più che per curiosità. C’era un’attesa ansiosa e infantile nella mia voce. Matteo mi guardò. Gli pareva che io aspettassi un “si” con tutte le mie mie forze.
Poteva approfittarne, in fondo… Si passò una mano nei capelli, poi mormorò sinceramente: “No. Mi dispiace, non sono io”.


Abbassai lo sguardo, diventai di fuoco: “Scusami allora. Non ci far caso… ciao”.

Raggiunsi la porta, Matteo mi seguì, mi fermò: “Scusa, ma che importa se sono stato io o no? Sarà un ammiratore segreto!”.

Annuii, cercando un sorriso meno triste e meno imbarazzato: “Già!”.

“Senti volevo chiederti… Ma perché sei venuta a chiedere proprio a me se ti avevo mandato dei fiori?”

“Qui ci vuole civetteria per non fare la figura dell’oca o peggio”, pensai in un lampo. Poi risposi  con voce tremante “E’ che… è che sei l’unico uomo al di sotto dei quarant’anni che io conosca in questa città”.  Poi spalancai la porta per nascondere lacrime vicine e stupide.

Matteo mi prese per le spalle, e mi tirò a se piano e più vicino: “Aspetta”.

Sentii il cuore salire in gola e quella stretta tenera e prepotente insieme. Rimasi lì, ferma, in attesa incerta.

Matteo mi alzò il viso con un dito: “Ti senti molto sola, vero? Anch’io, qualche volta. Se ti fa piacere, potremmo uscire insieme e…”.

Il cuore mi batteva sempre più: “No, grazie, buon samaritano. Non ti disturbare” e in un lampo di orgoglio nascosi nello sguardo la tristezza”.

Matteo mi carezzò un braccio: “Che stupida! Mica lo faccio per pietà! E che…”.

Si fermò. Si sentiva su un terreno pericoloso. Gli piacevo e intuiva che ero diversa dalle altre. Voleva la solita avventura senza impegni, ma d’un tratto gli sembrava meschino farmi del male, poco o tanto. Gli sarebbe piaciuto baciarmi subito, ma avvertiva in me una tensione infantile che mi avrebbe richiusa come un’ostrica e lui non voleva questo.

“E’ che…”.

Più tardava a trovare una delle sue solite, simpatiche risposte adatte a situazioni del genere e più gli pareva che la sua libertà gli facesse chiari segni di addio. Alzò le spalle e rise: “E’ che mi sento una mosca di fronte a una tela di ragno e non so se riuscirò ad evitarla!”.

Sorrisi tutta, salii le scale di corsa sentendo squillare il cellulare che avevo lasciato in casa: “Si?”

“Signorina scusi, sono il fioraio”.

“Ancora? No, basta!”

“Ma senta… volevo dirle che… quelle rose non erano per lei. C’è stato un errore. Era l’interno 18, ma di via Toscana 76, non 66… Ci scusi, ma siamo mortificati… Pronto? Ma pronto?”

Spensi  il cellulare. Che stupida. Un errore. Io a credere che qualcuno… Non sapevo se ridere o piangere, anche perché un poco, un poco almeno mi dispiaceva.

Poi suonarono alla porta. Anzi suonò. Lui, Matteo. Con due enormi pacchi in mano. Mi guardò, sorrise come se non mi vedesse da un mese: “Ciao, ti invito a cena a casa tua. Ci stai? Qui c’è tutto”.

Ero confusa e dentro c’era sempre quello spillo che pungeva. Lui filò in cucina e vuotò i sacchetti. Ci fissammo. Lui mise le mani in tasca: “Beh, sì, in effetti tutto questo è strano. Ma se non facciamo presto noi giovani a fare amicizia…”.

Sotto la lampada i suoi capelli erano miele caldo e gli occhi sereni. Ci si poteva fidare di lui, me lo sentivo, anche se non avevamo fatto l’asilo insieme. Mi sembrava comunque di conoscerlo da tanto e questo era bello.

“Sai Matteo… Quelle rose… si trattava di uno sbaglio. Non erano per me”.

Lui mi fissò a lungo, si avvicinò: “Sei delusa? Però… però può darsi che prima o poi cominci io a inviarti dei fiori. Ma stavolta non per sbaglio. Ti va?”

Era un gioco o una promessa? Comunque fosse, dava caldo al cuore e la città non era più nemica e l’amore, poi, forse, non così lontano o irraggiungibile. Lui tese una mano, mi sentii viva e nuova per quella carezza. Poi maliziosa e tenera, declamai: “In questi casi, mia nonna dice sempre che… se son rose fioriranno!”

Scoppiammo a ridere e, vicini, cominciammo a preparare la tavola.

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