The Ghost

di MaxB
(/viewuser.php?uid=141946)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 - Epilogo ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 - Epilogo del Prologo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
Alla fine di tutto...

 
Un vento primaverile soffiava leggero nel bosco, portando a cavallo il profumo dei fiori appena sbocciati. Il sole che penetrava nel sottobosco scaldava tronchi, foglie e aria, ma la bella stagione tardava ad arrivare e l’atmosfera frizzante dell’inverno permeava tutto.
Un uomo stava vicino ad un albero di ciliegio, appena fiorito e già pronto a perdere i candidi boccioli. Tutt’intorno a lui, petali bianchi e rosa vorticavano e danzavano in onore della primavera. I lunghi capelli neri dell’uomo sventolavano piano, come se la tenacia e la forza del loro proprietario li avesse contagiati, e loro avessero saputo resistere alle spinte del vento.
Qualche petalo dispettoso sfiorò la sua chioma corvina e vi rimase incastrato, visibile come la luna piena in una notte buia e senza stelle.
L’uomo sospirò e staccò la mano dal tronco nodoso dell’albero, allontanandosi senza più voltarsi indietro. Poi si fermò, si guardò intorno, e fissò lo sguardo su una vecchia roccia erosa dalla pioggia, levigata e pronta ad ospitare sulla sommità almeno due persone.
Aspettò con pazienza che comparisse una bambina a salutarlo, eterea come il riflesso del sole sulle foglie degli alberi, con i lunghi capelli biondi che si arricciavano e giocavano con la brezza. Aspettò un suo sorriso e un suo pollice alzato come ringraziamento. Aspettò per assicurarsi che fosse tutto reale, che fosse tutto finito anche se erano passati anni da quella strana vicenda.
Aspettò invano.
E se ne andò sorridendo, perché quello che aveva fatto non era stato affatto invano.

Quando l’uomo si avvicinò al vecchio castello che si ergeva al centro del bosco, iniziò subito a sentire le voci squillanti dei bambini che giocavano spensierati. Passò per il retro della villa e si rese conto che se l’edificio non fosse stato ristrutturato e ammodernato, le guglie tipiche dei castelli sarebbero svettate come pilastri di roccia in mezzo agli alberi.
Per sua fortuna, l’uomo vide che nessuno era in piscina e quindi, per una volta, tutti i bambini gli avevano obbedito. Era ancora troppo freddo per immergersi in acqua, e ci sarebbe voluta qualche ora di manutenzione e pulizia prima di rendere la piscina agibile e sicura.
- Papà! Papà! – urlarono in coro delle vocine piccole e agitate.
L’uomo udì una porta aprirsi e richiudersi, per poi aprirsi ancora e chiudersi nuovamente, mentre più di un bambino correva verso di lui.
- Emma! – esclamò con voce profonda e cavernosa, chinandosi all’altezza della bambina di quasi dieci anni che lo fissava con gli occhi luccicanti. I capelli neri, quasi violetti, erano tutti arruffati e la brezza che aveva cominciato ad essere un po’ troppo forte glieli spinse dentro la bocca.
La bambina li sputò fuori lamentandosi mentre due piccoli pargoli correvano, ciondolando con la loro tipica goffaggine infantile. Erano due gemelli di cinque anni, un maschio e una femmina dai capelli turchini e dagli occhi marroni-rossicci.
Occhi identici a quelli della bambina più grande, Emma.
Il maschietto sembrava prossimo alle lacrime.
- Ehi, Yaje, che succede? – lo interrogò l’uomo, brusco nonostante la preoccupazione genitoriale.
- Papà, Emma ci spaventa – piagnucolò il bimbo, allungando le braccia per farsi abbracciare.
L’uomo sospirò e accolse il figlio contro il petto, facendolo sparire a causa della sua mole imponente.
Dei tre figli, il maschietto era il più pauroso e sensibile, mentre le figlie sembravano pronte a lottare contro i draghi. Lui gonfiava il petto e diceva che avevano preso tutto da lui, ma sapeva bene che quel carattere combattivo, occultato dalla dolcezza dei loro modi, era tutto della madre.
- Emma, lo sai che non devi spaventarli con le storie che ti inventi. Sei peggio di tua mamma! – la riprese l’uomo.
- Ma papà, non sono inventate! E non ho raccontato storie! Stavamo giocando a fare i fantasmi con gli altri e io ho detto a Yaje e Shutora che i fantasmi esistono veramente e che sono cattivi. Che fanno cose brutte e se non ci comportiamo bene possono tormentarci. Adesso lui è convinto che i fantasmi gli faranno del male.
L’uomo, concentrandosi, riuscì ad udire le urla divertite dei bambini dall’altra parte della villa, che imitavano i fantasmi con i loro lunghi e bassi “uuh”. Lanciò un’occhiataccia alla figlia e poi chiese alla più piccola: - Anche tu hai paura, Shutora?
La bimba scosse la testa e lo fissò sorridendo. – No, non mi fanno paura. Ma esistono veramente i fantasmi, papà? Emma mi dice sempre le bugie.
- Non è vero! – replicò la maggiore. – Sei tu che credi a tutto! Come puoi essere convinta che di notte arrivino i topolini del formaggio a mangiarti i biscotti? È il papà che te li mangia, ma la mamma ti ha detto che sono i topolini per coprire papà!
Shutora, la più piccola, fisso con orrore il papà. – Ma io mettevo i biscotti su un piatto per i topolini. Davvero me li mangi tu?
Se l’uomo avesse avuto le mani libere, se le sarebbe schiaffate sulle guance, esasperato.
Fortunatamente arrivò suo figlio a salvarlo da una risposta scomoda.
- Papà, ma davvero esistono i fantasmi? E davvero sono cattivi? – domandò, mentre con la testa faceva capolino dalle braccia forti del papà.
- Sì, Yaje, esistono. Ma non tutti sono cattivi.
- E come fai a saperlo? Io ho paura! – esclamò il bambino tornando a nascondersi nel suo ampio petto.
L’uomo sospirò. – Che ne dite se questa sera vi racconto una storia attorno al fuoco, in mansarda? Sembra che la temperatura precipiterà a partire da oggi, e farà di nuovo freddo.
I tre bambini iniziarono a saltare e gridare di gioia. Adoravano le storie che la mamma raccontava, ma quando lo faceva papà era davvero una cosa grossa, perché non lo faceva mai.
- Shutora, andiamo a dirlo agli altri! – propose Emma, che era già corsa verso l’entrata del castello, con la sorellina che le trotterellava al seguito.
- Vestitevi altrimenti prendete freddo! E fate mettere i giubbotti anche agli altri! – gridò l’uomo.
Sapeva già, però, che non sarebbe stato ascoltato da nessuno dei venti bambini che vivevano con lui.
- Papà? – chiese poco dopo la vocina sottile di Yaje.
- Sì?
- Davvero esistono i fantasmi?
- Certo figliolo.
- E mi faranno male? Prometto che da ora in poi mi laverò i denti tuuutte le sere, e tu e la mamma non vi dovrete più arrabbiare. Ma non voglio che un fantasma mi rubi.
L’uomo sogghignò divertito di fronte alla paura infantile del proprio figlio, e si alzò prendendolo in braccio. – Non devi avere paura, perché ci sono io a proteggerti.
- Ma papà! – si ribellò il bambino, agitandosi tra le braccia paterne. – Tu non puoi combattere contro un fantasma! Loro sono imbattibili, e tu sei solo un papà!
L’uomo grugnì, offeso dalla poca fiducia che il figlio riponeva in lui. Varcò le porte della casa e attraversò in silenzio le piscine interne riscaldate, stranamente vuote. Sbucò nell’atrio e si ritrovò vicino all’ingresso del castello, in mezzo al soggiorno.
- Chiedilo alla mamma se posso battere i fantasmi. Deve ancora nascere chi può sconfiggere il tuo papà – rivelò l’uomo posando il figlio a terra e accarezzandogli i capelli turchesi.
Il bambino annuì, rincuorato, e scappò via chiamando la mamma.
L’uomo si rialzò con calma e si diresse in cucina, lanciando un’occhiata fuori dalle finestre: numerosi bambini stavano giocando con dei lenzuoli in testa, come dei fantasmi. Se erano le lenzuola che sua moglie aveva appena lavato, era sicuro che presto quelle urla divertite sarebbero state sostituite da quelle irritate della donna che amava.
- Chiedilo alla mamma se non sono in grado di salvarla anche quando è impossibile farlo – mormorò prima di varcare la soglia della sala da pranzo.

Quella sera, davanti al fuoco che crepitava nel caminetto, più di una ventina di bambini si era riunita in mansarda, mentre la pioggia batteva con insistenza sui fianchi del castello.
- Anche la pioggia vuole sentire la storia, Master! – esclamò una bambina con i capelli blu, che all’uomo seduto su una poltrona ricordava tremendamente una vecchia amica che portava il maltempo ovunque andava.
- Papà posso sedermi in braccio tuo? – chiese Shutora alzandosi per avvicinarsi al padre.
- No piccola, siediti vicino agli altri.
- Ma perché? – protestò la bambina, tornando suo malgrado verso il posto che le amiche le stavano tenendo.
- Perché in braccio mio ci sta la mamma.
- Sporcaccioni – gridò un bambino, facendo ridere tutti gli altri.
- Non è per fare gli sporcaccioni! – ribatté l’uomo, irritato. – Se becco chi è stato a commentare gli faccio passare la voglia di fare battute. Devo tenere la mamma in braccio perché quella che vi racconterò questa sera è una storia vera e lei potrebbe spaventarsi di nuovo.
Il silenzio era calato come un sudario sulle testoline dei bambini, che si guardavano l’un l’altro con una curiosità estrema. Le lingue di fuoco che illuminavano l’ambiente dal camino sembravano agitate ed irrequiete.
Chissà, forse anche loro ricordavano cos’era successo lì diversi anni prima.
E forse anche loro avevano paura di ricordare.
- Ma la mamma è forte! – ebbe il coraggio di esclamare Emma, femminista già da piccola.
Con quell’atteggiamento e la passione per le spade, anche lei ricordava all’uomo una vecchia amica.
- Non ho mai detto che la mamma è debole. Anche perché altrimenti me le dà – aggiunse bofonchiando, facendo ridere i bambini. – Ma anche la mamma ha bisogno di essere salvata da un principe come me, e anche la mamma a volte non può fare altro che inchinarsi alla mia superiorità e…
Un coppino interruppe il flusso di parole che l’uomo stava sparando fuori con vanità.
I bambini scoppiarono a ridere mentre un paio di occhi nocciola fissavano con disappunto l’oratore superbo. – A chi mi dovrei inchinare, Amore? – domandò una donna dai capelli azzurri, in piedi accanto al marito.
L’uomo deglutì a vuoto e si trascinò la moglie in braccio, facendole dimenticare il motivo per il quale lo aveva colpito.
- Non davanti ai bambini! – sibilò lei, muovendosi per mettersi più comoda e non sembrare un sacco di patate.
I pargoli fissavano la scena a bocca aperta, con la curiosità che tutti hanno di fronte ad una scena romantica data alla televisione.
Bastava che poi non la imitassero.
- Papà ci racconti la storia? – urlò Emma, che iniziava a spazientirsi.
- Che storia? – chiese la donna, all’oscuro di tutto.
- Pensavo di raccontare ai ragazzi una storia di fantasmi. La storia che abbiamo vissuto. In modo che sappiano che i fantasmi esistono, che sono pericolosi, ma che c’è sempre un modo per vincere e salvare chi amiamo. E che per evitare i guai bisogna semplicemente comportarsi bene e non fare del male a nessuno.
La donna era impallidita e fissava il marito con gli occhi sgranati. I bambini se ne accorsero e iniziarono a preoccuparsi.
- Hai paura, Levy? – domandò l’uomo a bassa voce, scrutando gli occhi della moglie alla ricerca di quella fragilità che la loro tragica storia aveva impresso nei loro cuori.
- No. Ci sei tu con me, Gajeel – rispose lei, raggomitolandosi come quel pomeriggio aveva fatto Yaje, uno dei loro tre figli.
Gajeel sospirò, fissò il fuoco per un po’ e iniziò ad accarezzare la schiena della moglie, cercando la concentrazione. I bambini stavano zitti, e il crepitare del fuoco lo riportò immediatamente indietro negli anni.
Indietro, quando aveva vissuto una storia surreale, e ancora più indietro, quando la sua vita era stata stravolta nel peggiore dei modi.
Così, con gli occhi chiusi, iniziò a raccontare.




MaxB e le sue chiacchiere stupide^^
Buonasera! Eccomi qui, come aveva accennato nell'ultimo capitolo di Fairy Tales, con una nuova long. O mini-long. Non so ancora quanti capitolo sono perché la storia è un unico grande capitolo e la dividerò una volta conclusa.
Eh sì... eheheh non l'ho ancora finita^^" Ma non manca molto. Spero di iniziare a postare regolarmente tra due, massimo tre settimane. Io mi imegnerò.
Piccole note:
- Questo prologo si svolge alla fine della storia vera, quella che racconterò dal prossimo capitolo, ma l'idea di fare un prologo che avesse poco a che fare con la storia vera mi ha intrigata e oggi l'ho scritta di getto. Doveva essere meno di una pagina Word, infatti mi sono preoccupata perché era poco, ma ne sono venute fuori tre (troppe, come sempre)-.- Quindi la vera storia comincia dal capitolo uno, ma il prologo è importante e se lo rileggerete a storia finita capirete diverse cose che ora vi sfuggono.
- Inizierò a postare regolarmente ogni lunedì solo quando finirò la storia. Quindi, quando vedrete il prossimo aggiornamento, state sicuri che questa storia si concluderà con puntualità. Oh là.
- Non ho messo violenza nell'avvertimento perché le scene violente non sono troppo violente. Spero però di spaventarvi, anche se i capitolo "brutti" sono solo quelli iniziali. Poi ovrebbe andare meglio.
- Ringrazio la mia meravigliosa EbiBeatrizP per avermi inviato delle foto di un bosco nebbioso, ordinandomi di scriverci un capitolo per Fairy Tales. La cosa è andata un pochino oltre...
- Emma, Shutora e Yaje. Penso che la maggior parte di voi sappiano chi sono. Ma lo anticipo io. Emma è la figlia inventata da RuskyBoz, l'artista che ADORO. Ma potete considerarla come la Kinana della mia storia, La nostra vita insieme. Invece i gemellini Yaje e Shutora... non lo dico o faccio spoiler. Non sono comunque importanti per la storia.

Spero di sbrigarmi a concludere la long, anzi, me ne vado a scrivere.
A presto!
MaxB

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Grazie ad EbiBeatrizP, la mia Pannocchia del cuore, che ha permesso tutto questo inviandomi una foto. E mi ha fatto scoprire che, se voglio, posso arrivare ad una conclusione.

 

Non disponibileCapitolo 1
Il castello infestato dai ricordi



- Gajeel…
Ancora quella voce. Io la conosco, lo so. Mi fa uno strano effetto, dentro, quando la sento. Ma non capisco perché. O come.
- Gajeel salvami. Salvaci tutti. Ti prego.
Un lampo azzurrognolo illumina questo spazio di denso nero, come una nuvola che appare e scompare in preda al vento. So cos’è. Ma non lo ricordo.
- Ricordati chi sono.
Lo stesso avvertimento. Riesco quasi ad anticipare la voce mentre il classico dolore al fianco mi assale.
- Ricordati chi sei…
 
~~~~~~~~~~○~~~~~~~~~~

Gajeel si svegliò in un bagno di sudore, le coperte umide e appiccicose in quella notte autunnale. Ma nel suo cuore era inverno.
Ancora quel sogno. Come ogni notte, da un po’ di tempo a quella parte.
Nel giro di un anno i suoi simpatici e macabri sogni avevano cominciato a diventare sempre più frequenti. Una volta ogni due mesi, una volta al mese, due volte al mese, quattro, uno alla settimana. Uno al giorno.
Tutti riportavano lo stesso invito finale, fatto da quella voce calda che a Gajeel ricordava tanto il suo passato, una questione chiusa a chiave in una porta del suo cervello. E non perché non voleva ricordarlo. Semplicemente perché lui non poteva ricordarlo. Non riusciva.
A volte erano sogni abbastanza tranquilli, in cui la cosa peggiore che potesse succedere era quel dolore al fianco. Lancinante, bruciante, come se un coltello gli avesse trafitto una cellula alla volta, straziandolo in una lenta tortura.
Dolore fantasma, lo chiamavano i medici. Come quando chi ha perso una gamba o un dente continua a sentire dolore a quella parte del corpo. Che non c’è più.
Lui aveva ancora tutto quanto però, a parte la memoria e una bella quantità di sangue. Non aveva perso nulla: ci aveva guadagnato. Un’elegante cicatrice frastagliata sul fianco. E quattro sulle braccia. Ma quelle alle braccia erano superficiali, nonostante fossero brutte da vedere. Quella sul fianco, invece… dopo gli incubi il solo sfiorarla con la maglia gli faceva vedere le stelle.
Nei sogni peggiori, invece, c’era sangue. E non il suo. Gajeel lo avrebbe quasi preferito. Sangue di altri. Persone uccise brutalmente. Lui vedeva solo i cadaveri straziati, alla fine dell’opera macabra, e aveva voglia di vomitare, ma a quel punto la voce gli rammentava che doveva ricordare e lui si svegliava con il mal di testa. Uno schifo di situazione che andava avanti da troppe settimane.
La voce. Quella voce. Gli diceva sempre qualcosa prima di svanire e svegliarlo. Ma ciò che riferiva non lo aveva mai sentito. Però, a lui sembrava che fosse una cosa fondamentale.
Erano solo le sei della mattina e dalle persiane chiuse filtrava una luce tenue e decisamente fiacca, come se anche lei stesse dormendo e non volesse impegnarsi nell’alzarsi. Sudato per sudato, si sarebbe fatto una corsetta per sfiancare il corpo: dopo sarebbe tornato a letto per recuperare il sonno perso. Gli incubi gli rubavano la vita, oltre alla forza fisica per affrontare la giornata.
Così si infilò al volo le scarpe, dei pantaloni larghi lunghi, una maglietta smanicata e una più calda che si sarebbe tolto quasi subito.
Cominciò a correre come se gli incubi lo inseguissero, come se fosse l’ultima corsa che faceva. Come se, fermandosi, avesse rischiato di rivedere tutto. Correva per non pensare, perché aveva la mente così vuota da non poter pensare a niente.
E la mancanza di ricordi lo faceva impazzire lentamente.
Gajeel Redfox. Di sé, sapeva solo quello.
 
La foschia mattutina si diradava lentamente, anche se la nebbia non accennava a dissiparsi. Gajeel correva in un quartiere abbandonato che non aveva mai visto. Era uscito dal centro residenziale in cui viveva e aveva costeggiato il bosco. Non aveva più guardato la strada fino a quel momento, concentrandosi solo sulla sua stanchezza e sulla fatica, sul fuoco nelle cosce e sul ritmo del suo respiro, che lentamente aumentava come i battiti del suo cuore forte.
Poi, però, era passato di fianco ad una serie di cancelli divelti. Sbarramenti alti, come quelli che si mettono quando si fanno i lavori agli edifici, inferriate che circondano i siti di costruzione. Gajeel non ci aveva fatto caso e, trovato un passaggio, vi si era infilato senza pensarci. Perché non stava pensando.
E infatti solo un cretino che spegne il cervello può sorpassare delle barriere tappezzate di manifesti con il triangolo del pericolo e ordini di non oltrepassare.
Zona vietata.
Pericolo.
Area soggetta ad indagini.
Indagini.
Ma tanto lui non l’aveva letto!
Per questo quando iniziò a distinguere i contorni di edifici disabitati e diroccati cominciò a chiedersi dov’era finito. Dai buchi dell’asfalto in pessimo stato fuoriuscivano erbacce alte e infestanti. La carcassa di qualche macchina con i vetri rotti e le ruote mancanti occupava quella strada che sembrava inutilizzata da anni.
Gajeel rallentò quando riuscì a scorgere una porta divelta e un portico di legno marcio, con le assi vecchie e muschiose crollate sotto al peso degli anni. Diminuì la velocità fino a fermarsi. Né il canto di un uccello, né un gatto appollaiato da qualche parte a sonnecchiare, né degli stramaledetti corvi, o dei topi, o un dannato fiore che desse un po’ di colore! No. Solo nebbia grigia, muri grigi, pietre grigie, erba morta grigia. Tutto grigio.
- Ma dove sono finito? – mormorò Gajeel, che finalmente si accorse della sua stupidità.
Già, soprattutto perché era davvero riuscito a non pensare a niente, come desiderava, per cui non aveva nemmeno guardato dove stava andando. Quindi dov’era l’uscita da lì? Non conosceva neppure il quartiere dove viveva, figuriamoci quello!
Un uomo facoltoso, mosso a pietà dal suo stato di amnesia, gli aveva offerto lavoro come cuoco in un ristorante della sua catena. Lo aveva trovato all’ospedale, solo e abbandonato, senza nessuno che gli tenesse compagnia e senza ricordi. Senza identità. Così lo aveva accolto dandogli un lavoro con vitto e alloggio compresi in un appartamentino modesto a due passi dal ristorante.
Quella era la sua vita: appartamento, ristorante, supermercato.
Non aveva nemmeno un cellulare. Nessuno lo aveva mai, mai, cercato.
- E ora dove accidenti vado?
Leggermente a disagio, con il sudore che gli si appiccicava alla pelle come una presenza scomoda, mosse qualche passo guardandosi attentamente intorno. E poi sussultò.
Due occhi giallognoli brillavano nel buio. Dal sottobosco che circondava la strada (o meglio, il cadavere della strada) sbucò un gatto. Pelo marrone scuro e orecchie insolitamente tonde, cicatrice sull’occhio. Si avvicinò a Gajeel senza timore, segno che non era un gatto selvatico. Inclinò il musetto e si sedette proprio ai suoi piedi, guardandolo con attenzione. Sembrava quasi che lo conoscesse.
Il gatto gli diede un colpetto sul polpaccio, come per spronarlo. Il ragazzo si chinò appoggiando i gomiti sulle cosce e diede una pacchetta in testa al gatto.
- Anche tu in attesa che io mi ricordi?
L’animale lo fissò senza fiatare, restituendo la pacca alla sua mano.
- Io e te ci conosciamo?
In risposta, il gatto miagolò, un miagolio insolitamente profondo e roco per essere quello di un micio, e si allontanò verso il punto da cui era comparso: un groviglio di rami e cespugli alti.
- Be’, è stato un piacere – scherzò Gajeel alzandosi.
Fece per proseguire in avanti, ma un miagolio decisamente irritato del gatto lo distrasse.
- Che c’è?
Il gatto rimase fermo, toccando davanti a sé con una zampina.
- Devo venire? – domandò allora il ragazzo, avvicinandosi con precauzione.
Il suo nuovo amichetto sparì nel verde (grigio ovviamente), e Gajeel spostò alcuni per arbusti solo per scoprire che dall’altra parte c’era… un sentiero.
Il felino lo aspettava seduto su un mucchio di foglie morte e umidicce. Appena il ragazzo si liberò dai rami, si incamminò a passo svelto.
- Va bene… ti seguo. Basta che poi mi riaccompagni a casa perché io non so come tornarci.
Gajeel seguì un gatto randagio per un tempo che gli sembrò interminabile. Alberi dal tronco rosicchiato e dalla corteccia cascante lo accompagnavano in quella piccola avventura mentre la foschia lo avvolgeva come una coperta sudicia e vecchia.
Poi, all’improvviso, in quello che aveva tutta l’aria di essere il nulla più assoluto, il gatto si fermò e alzò la testolina, miagolando. Poi mosse una zampa, toccando l’aria, conversando con lei.
- No, scusami tanto. Gatto. Tu, maledetto, mi hai portato qui per…cosa? Mi hai fatto venire in questo buco dimenticato da Dio per quale stramaledetto motivo?! Gattaccio, sto parlando con te. Tu ora…
Ma la sfuriata di Gajeel gli morì in gola nel momento in cui una ragazza dai lunghi capelli bianchi si materializzò davanti al gatto, la mano protesa verso la sua nuca e il viso voltato verso il ragazzo.
- Gajeel… sei proprio tu?
Una delle poche cose che sapeva della sua vita era che l’inespressività era il suo forte. A volte passavano intere giornate senza che Gajeel mutasse espressione, e lui ne era consapevole. Ma quella che aveva dipinta in volto era la definizione, l’essenza, la personificazione dello stupore. O dello shock. Quella tipa era apparsa dal nulla. Letteralmente.
- Gajeel, non posso crederci! Ragazzi, venite fuori! È tornato Gajeel!
E così, ad uno ad uno, attorno al ragazzo apparvero altri ragazzi e ragazze, tutti giovani e pallidi, che lo fissavano con sgomento. La bocca gli tremava mentre cercava di formulare una frase di senso compiuto. Senso compiuto. Una cosa che al momento sembrava non avere.
- Gajeel… figliolo – disse una voce ai suoi piedi.
Il ragazzo abbassò la testa e vide un vecchio con un buffo cappello e abiti sgargianti che lo fissava con il collo allungato, le lacrime che uscivano dagli occhi chiusi.
La situazione non poteva essere più assurda di così. Da dove era spuntato quel nonnetto?
- Vieni, fatti abbracciare – disse allargando le braccia e circondandogli la gamba.
E se la cosa era stata incredibilmente irreale fino a quel momento, quando il vecchio gli passò attraverso la gamba sbucando alle sue spalle, tutto divenne surreale. Impossibile. Intollerabile.
E Gajeel svenne.
 
- Svegliati. Gajeel? Hai dormito abbastanza, su. Sei stato lontano da noi troppo a lungo, torna tra i vivi.
Quella voce dolce trafisse la mente del ragazzo, insinuandosi come un fastidioso serpente tra i fumi narcotizzanti che proteggevano il suo cervello da un danno permanente causato dallo shock.
Gajeel farfugliò qualcosa e si mosse, ancora obnubilato dal sonno. Solo quando la luce del giorno, seppur fioca, gli accarezzò le palpebre abbassate, iniziò a riscuotersi.
Luce che stava attraversando la ragazza che aveva davanti, quella con i capelli bianchi che lo aveva chiamato per nome, prima.
Aveva gli occhi chiari.
- Dai dormiglione. Non sei cambiato affatto. Devo chiamare Natsu?
- Chi… sei? – farfugliò lui, deglutendo a vuoto.
- Non ti ricordi di me? – domandò lei, un’espressione di doloroso sconcerto dipinta in volto. – Siamo compagni, Gajeel.
Allungò una mano per sentirgli la fronte, ma questa vi passò in mezzo e Gajeel schizzò giù dal letto. Per la prima volta fece caso a dov’era: una stanzetta dalle pareti di un pallido giallo con mobili laccati bianchi. Una specie di infermeria. Anche se i muri e la pulizia di quel posto avevano visto giorno migliori.
- Scusami – disse allegramente la ragazza, per niente sorpresa dalla sua reazione. – E’ facile dimenticarsi di essere morti quando tutti quelli con cui interagisci sono… be’, morti anche loro.
- Che?! Io non sono morto! – sbottò Gajeel. Il non capire lo rendeva alquanto indisponente.
- Non tu, sciocco. Non sei cambiato per niente.
- Frena, frena, frena. Chi diavolo sei tu e come mi conosci?
La ragazza sospirò, affranta, ma quando parlò di nuovo il sorriso era tornato a brillare sul suo volto liscio. – Sono Mirajane, Gajeel. Sono una tua compagna. Siamo cresciuti insieme, qui a Fairy Tail.
- E… okay, sì, certo.
- Adesso ti ricordi?
- No per niente.
- Chiamo Natsu?
- Chi cavolo è Natsu?! – esclamò, esasperato.
Ma Mirajane, così aveva detto di chiamarsi, non lo ascoltò minimamente. Si affacciò oltre la porta e, sporgendosi, urlò: - Natsu! Gajeel vuole vederti!
Nella stanza apparve un ragazzo con i capelli rosa e l’aria alquanto… irritante. A Gajeel stava antipatico a pelle. Specialmente perché era ad un palmo dal suo naso.
Gli tirò un pugnò che beccò… il centro della sua testa vuota.
- Leva quel pugno arrugginito dalla mia faccia – sibilò il ragazzo offeso.
Gajeel non era il tipo che prendeva ordini dal primo che passava, e nemmeno da chi conosceva, ma la situazione era troppo bizzarra per farsi scrupoli e così levò la mano dal posto in cui c’era la testa immateriale di Natsu.
La scosse con disgusto.
- Guarda che è aria, mica melma.
- Ragazzi non ricominciate. Insomma, non vi vedete da due anni e vi salutate così? – li rimproverò Mirajane.
- Due anni? Io non l’ho mai visto! – gridò Gajeel.
- Anche io vorrei non averti mai visto! E me ne vado!
Detto ciò, Natsu scomparve.
- Dai, Natsu! Almeno chiamami il Master!
In quel preciso momento, nella stanza riapparve Natsu, mentre il vecchio che aveva tentato di abbracciare la gamba di Gajeel nel bosco entrò dalla porta aperta.
- No! – disse Natsu prima di sparire di nuovo.
Il nonnetto sospirò, aggrottando le grosse sopracciglia cespugliose. – Non so se essere felice o demoralizzato all’idea che niente sia cambiato. Ma ora passiamo a te, Gajeel. Di sicuro hai molte domande a cui…
- Perché se quel tipo può apparire e scomparire a comando non l’hai semplicemente chiamato, donna? Potevi evitare di sporgerti dalla porta ed urlare! – disse lui interrompendo il nonnetto.
- …vorrei darei risposte un po’ più serie di queste, razza di cretino! Lasciaci illudere di essere ancora vivi!
Appena il silenzio piombò sulla stanza come una pioggia improvvisa, Gajeel diede un calcio al vecchio. Calcio che, ovviamente, lo oltrepassò. – Davvero riesci ad illuderti?
- Bè, fra di noi sì. Ora che sei tornato sarà molto più difficile.
- Frena, nonno. Tornato dove, esattamente?
- A casa.
- Uh-uh. Va bene. Questa specie di magione ottocentesca è roba mia? – domandò il ragazzo, la fronte solcata da rughe ciniche.
- Tecnicamente, è casa mia. Ma è, o meglio, era, un orfanotrofio, ed essendo tu uno dei miei ragazzi adottati sì, è anche casa tua.
- Mh – assentì lui, braccia incrociate e sguardo vacuo.
Mirajane continuava a sorridere, come se non fosse stata un fantasma e la vita fosse stata meravigliosa.
- Master, forse dobbiamo raccontargli la storia per bene – esordì pacatamente.
- Ma no, tu dici? Non mi pare ce ne sia bisogno. Insomma, io sono un orfano e vivevo qui, in questo orfanotrofio, ma voi siete morti mentre io sono vivo. Chiarissimo.
Il sarcasmo di Gajeel era tagliente come le lame di un rasoio, ma nessuno sembrava farci caso.
- Come puoi non ricordare? – mormorò il vecchietto, un velo di tristezza negli occhi.
- Sai, è quello che mi chiedo ogni santo giorno quando mi sveglio nel mio letto e mi alzo per andare a lavorare domandandomi se avrò mai un futuro dal momento che non ho più un passato – sputò con acredine, ogni parola intrisa di dolore.
- Tu non…
- Non ricordo nulla. Nessun’infanzia, nessuna famiglia, niente, vuoto. Mi sono svegliato all’ospedale due anni fa e da allora faccio il cuoco in un ristorantino che ha visto giorni migliori, in una cittadina minuscola popolata da vecchi. Potrebbe andarmi peggio. Ringrazio il mio fascino per avermi parato le chiappe quando il magnate per cui lavoro mi ha trovato e si è impietosito di fronte alla mia storia.
Il nonnetto e Mirajane si fissarono con tanto d’occhi.
- E tu chi sei? – chiese in malomodo Gajeel, per rompere quel silenzio teso.
- Makarov. Benveuto a Fairy Tail.
 
Gajeel e i suoi due… fantasmi… magari nemmeno suoi…
Insomma, Gajeel stava passeggiando da qualche minuto nel bosco, in attesa che Makarov, noto come Master, iniziasse a parlare.
Una volta individuato il tronco di un albero divelto da una recente tempesta, vi si accomodarono, mentre il ragazzo continuava a fissare colui che avrebbe benissimo potuto scambiare per un nano da giardino.
- Cosa vuoi sapere? – chiese Makarov.
- Non lo so. Tutto. Ero orfano, giusto?
- Tecnicamente lo sei anche ora – sospirò il vecchietto, facendo grugnire Gajeel. – I miei genitori, e i miei nonni prima di loro, fondarono questo orfanotrofio per i bambini…
- Wow, non l’avrei mai detto… - lo interruppe, acido.
- Guarda che anche se sono vecchio e basso posso batterti ad occhi chiusi.
Gajeel inarcò un sopracciglio metallico.
- Cioè… - mugugnò Makarov. – Se non fossi un fantasma. Comunque stavo dicendo, che è un orfanotrofio speciale perché non ci sono adozioni e una volta che i bambini crescono non devono andarsene. Possono stare qui con me. È un palazzone grande il mio. Ci stavamo benissimo tutti quanti. Era proprio bello.
Gajeel alzò la testa per osservare le mura di mattoni grigi e il porticato di legno chiaro. Le guglie facevano sembrare quella villetta un castello. Mancava solo il fossato e il drago pronto a proteggere i suoi abitanti. La luce del solo che riusciva a filtrare tra le fronde dei rigogliosi alberi faceva brillare le pietre che Gajeel indovinò quindi essere di marmo.
Doveva essere costata una fortuna, dal momento che da quella distanza non la si riusciva ad abbracciare con lo sguardo.
Ad una seconda occhiata, però, l’unica cosa che si notava erano i rampicanti infestanti che i erano fatti largo tra le finestre aperte e la porta divelta. La targhetta che riportava il nome della costruzione, Fairy Tail, era in parte coperta dal muschio e in parte rosicchiata dalle tarme. E i cocci di vetro per terra davano a quel luogo magico un aspetto quasi spettrale.
- Io… come mi hai trovato? – chiese il giovane, senza ombra del consueto astio.
Era malinconico quel posto. Era l’ombra, il ricordo sbiadito di un passato felice ormai seppellito dal corso degli eventi.
- Tu eri un bambinetto del quartiere qui vicino. Combattevi sempre con Natsu. Non so cosa sia successo alle vostre famiglie, gli abitanti della città vi davano sempre un po’ di vestiti e qualcosa da mangiare, ma quello non era vivere. Così vi ho presi con me. C’era stata un’epidemia che aveva indebolito tutti gli adulti, per questo abbiamo avuto un boom di orfani. Chissà se ora il quartiere è tornato a stare bene…
- Se parli di quello che ho attraversato per venire qui, ne dubito – bofonchiò Gajeel ripensando alla desolazione a cui aveva assistito. Per lo meno nel bosco c’erano i fantasmi. In quella piccola cittadina, invece, solo il vuoto. L’assenza.
Makarov, troppo immerso nei ricordi, non lo sentì nemmeno. – All’inizio fu dura. Eravate dei bambini pieni di energia violenta e poi degli adolescenti strabordanti di testosterone. Ma era bello vedervi. Davate vita alla casa. E anche morte, visto la quantità di mobili che rompevate. Vi lamentavate sempre, tu, Natsu, Gray, e minacciavate sempre di andarvene. Ma non ho mai dubitato del fatto che non sarebbe mai successo. Questa era casa vostra. Non un orfanotrofio. La vostro famiglia.
Gajeel fissò il vecchio in silenzio, sentendo una punta di affetto per quel nonnetto con le sopracciglia così folte da potergli fare un parrucchino. Sentiva di appartenere a quel luogo. Era un richiamo incredibile, assurdo. E gli sembrava che però mancasse qualcosa.
Deglutì. – Quanti eravamo? E cos’è successo?
- Eravamo tanti. Tanti. E lo siamo ancora. Laxus, mio nipote, e i suoi amici Freed, Bixlow ed Evergreen, i fratelli Strauss, Elfman con Mirajane e Lisana, Erza, Gerard, Natsu e Gray, Juvia, Lucy, Kana, la piccola Wendy con la sua gatta, Makao e Wakaba che, anche se avevano moglie e figli, erano sempre qui, Reedus, Max, Warren, Nabu, Kinana, Jet, Droy e… Levy.
L’ultimo nome lo bisbigliò, la voce così carica di dolore da sembrare sul punto di spezzarsi.
Gajeel rabbrividì. Fece per parlare, ma Makarov ricominciò a raccontare.
- Era tardo pomeriggio quando accadde. Un bel pomeriggio invernale. Fuori nevicava e le ragazze stavano preparando la cioccolata calda nella cucina mentre voi ragazzi attizzavate il fuoco che scaldava tutta la casa. La neve aveva sempre un potere calmante su di voi, e per un giorno, un giorno perfetto, nessuno litigava. Io avevo un presentimento, non so come mai. Mi sentivo soffocare, era una cosa opprimente, ma davo la colpa alla mia vecchiaia. Invece, poi, udimmo un urlo, e il panico si scatenò...
 
~~~~~~~~~~○~~~~~~~~~~

- Inutile Testa di Ferro, dammi una mano qui! – grida un ragazzo con i capelli neri e gli occhi ancora più neri.
È a petto nudo nonostante la temperatura sia evidentemente bassa. La sua voce mi irrita.
Gray. Si chiama Gray.
- Pervertito, cosa pensi di fare? Non sei capace nemmeno di accendere il gas in cucina! Scansati! – mi sento dire mentre lo spingo via.
Il mio corpo si muove da solo, meccanicamente, come se sapessi esattamente come fare.
Come se questo percorso fosse già stato tracciato e io dovessi solo seguirlo.
Come se l’avessi già vissuto.
La mia mente, però, è vigile.
Spingo via Gray e mi metto ad armeggiare con carta, legna e fiammiferi, finché una mano rude mi spinge via.
- Cretini, solo io so fare. Voi siete incapaci! – grida un ragazzo con i capelli rosa saltellando sul posto, fregandomi carta e legna e accendendo un fuoco in un battito di ciglia.
Natsu.
Vorrei chiedergli come ha fatto, visto che sembra abbia compiuto una magia, ma la mia mano gli sferra un pugno dritto alla mascella e dalle nocche parte un rumore sordo che mi riverbera fin nella viscere.
Mi ritrovo coinvolto in una zuffa in un secondo, pienamente consapevole dei calci e dei pugni che mi arrivano da ogni dove. Invece che fermarci, gli altri ragazzi che arrivano si aggiungono a noi ridendo e gridando.
Ma sono idioti?
Mano a mano che li vedo, i loro volti sembrano assumere un significato, pare che escano direttamente dalla mia memoria, dal mio cervello. Io li conosco.
Elfman che grida qualcosa sugli uomini prima che un pugno lo zittisca.
Makao e Wakaba che alla fine si ritrovano a litigare tra di loro.
Jet e Droy che arrivano per difendere l’onore di Levy.
Levy…
- Basta, ragazzi! – urla un coro di voci femminili.
Nell’immenso soggiorno dalle pareti di legno con il pavimento di marmo coperto da pesanti tappeti si sono riversate tantissime giovani donne che si dirigono verso di noi. Io sto ancora lottando e non ci faccio nemmeno caso. Il mio istinto cerca qualcosa, qualcuno, mentre il mio cervello registra che ogni ragazza sta trascinando via un lottatore.
Una ragazza bionda porta via Natsu mentre una con i capelli azzurri si appiccica a Gray.
Lucy e Juvia.
Juvia ha i capelli azzurri, ma non è il suo il colore che cerco.
Il contatto è così leggero che quasi non me ne accorgo, ma sono così in tensione che potrei percepire persino lo spostamento di una piuma. Una mano calda e delicata si appoggia sul mio braccio ed esercita una piccola pressione per allontanarmi dalla rissa.
- Possibile che devi sempre cacciarti nei guai? – mi chiede una voce acuta ma pacata, come quella di una bambina.
È una voce che conosco molto bene, ma che negli ultimi tempi ho potuto sentire solamente tinta del terrore e delle suppliche di chi è disperato.
Con la coda dell’occhio vedo il blu che cerco, un azzurro con più riflessi di quello di Juvia, un azzurro più puro e cristallino seppur profondo. È inimitabile.
È lei. È Levy.
La ragazza dei miei sogni.
Letteralmente. Quella che mi tortura ogni notte con le sue richieste.
Ora mi ricordo di lei. A sprazzi, ma è già qualcosa. È questo che voleva che rammentassi?
La mia bocca grugnisce una risposta che probabilmente è già stata data, in quell’occasione.
Io sono solo un ospite, un intruso.
Un fantasma.
- Non borbottare, lo sai che sembri un orso! – mi rimbrotta lei, girandosi a guardarmi mentre mi porta in un’altra stanza, quella da pranzo.
Ha gli occhi scuri quando si arrabbia e chiari quando è serena, di un colore nocciola misto al miele scuro. Sento il mio corpo scaldarsi involontariamente nel momento in cui la vedo.
Poi lei mette il broncio e gonfia le guance, assomigliando ancora di più ad una bambina, le piccole labbra arricciate.
- Per caso in giro c’è qualche assurda festa in costume? – mi sento chiedere sgarbatamente.
E non ho tutti i torti. Cioè, non ne ha il mio me stesso di anni fa.
Che casino.
- Perché? – replica lei.
- Non è carnevale, è natale. Non vedo per quale motivo vi siete vestite come se foste delle dame dell’Ottocento a caccia di marito!
In effetti è vero. Le ragazze qui dentro, da quello che ho visto, portano sfarzosi abiti che andavano di moda come minimo due secoli fa, tutto corpetti e gonne ampie. Manca solo la parrucca alta e pidocchiosa.
- Non lamentarti tanto, dopo te lo devi mettere pure tu – mi avvisa lei, forse leggermente offesa.
- La gonna?!
- Non la gonna, scemo! Il vestito antico. È una cosa bella! Quest’anno l’orf… casa nostra, compie duecento anni. È il caso di festeggiare!
L’entusiasmo soppianta immediatamente la sua irritazione e gli occhi le si schiariscono, sciogliendosi.
- Conciati come dei pagliacci?
- E smettila! Entra anche tu in tema!
- Se vuoi entro in tema natalizio… e ti faccio indossare quel bel vestitino corto rosso e bianco che ti ho comprato la settimana scorsa. Puoi stare certa che festeggerò di sicuro.
Mi vedo, e mi sento, mentre le poso le mani sui fianchi, avvicinando il suo corpo al mio e il mio viso al suo, fino a che i nostri nasi si sfiorano.
Ora capisco perché il mio corpo era in tensione: era pronto a stuzzicarla.
Levy avvampa, ma non si ritrae, e alza timidamente gli occhi incatenandoli ai miei.
Per fortuna ho solo il controllo della mia mente, perché già quella è paralizzata. Figuriamoci il corpo.
- Qualcuno potrebbe sentirti… - mormora lei, ma non sono sicuro di cogliere un allarme nel suo tono. Non c’è nemmeno convinzione.
- E allora? Tanto lo sanno tutti che sei mia.
Oh. Quindi io e lei… noi… sì, insomma. Sì.
Penso che non mi dispiaccia. No. Decisamente no.
Devo assolutamente ricordare. Ora più che mai.
Sento la mia nuca avvicinarsi ancora di più alla sua, lentamente, ma alla fine è lei a colmare la piccola distanza residua e a premere le sue labbra morbide sulle mie, con decisione.
Non c’è l’imbarazzo tipico delle prime volte, sembra che sia, che siamo, abituati a tutto questo.
Sento le sue mani scivolarmi sulle spalle e accarezzarmi il collo mentre le mie braccia la stringono in vita e la sollevano.
Sì, va bene, non era solo una mia impressione. Mi sa che non è la prima volta. E nemmeno una delle prime.
Tutte le cose romantiche mi fanno venire la nausea e sarei più propenso a mangiarmi delle ranocchie che a pensare a qualcosa di dolce, ma per una volta vorrei conoscere questa storia d’amore che mi riguarda. Vorrei vedere Levy ridere e arrossire come so che fa sempre. Mi ricordo di lei, nebulosamente, in maniera confusa, ma ci sono verità che non posso cancellare: il modo in cui si illumina quando le porto un fiore, come ride quando le faccio il solletico e si imbroncia se la prendo in giro, come si raggomitola contro di me sotto le coperte, e quanto si irrita quando a tarda notte le chiudo il libro del momento e spengo la luce.
Ma lei dov’è, ora? Non l’ho vista gironzolare insieme ai fantasmi della casa.
I fantasmi! Lei… non può. No. Non può, anche lei, essere…
Il mio filone di pensieri, sempre più ingarbugliato, si blocca repentinamente quando sento un urlo agghiacciante.
Le mie braccia si allentano, liberando Levy dalla mia morsa, ed entrambi guardiamo oltre le mie spalle, verso il punto della casa da cui è provenuto il grido.
- Cos…? – farfuglia lei, raccogliendo l’ampia gonna e dirigendosi verso la porta da cui noi siamo entrati. – Sembrava Kana.
Inizia a correre e io la seguo. Lo farei sempre, in ogni situazione, anche se in questo momento fossi io a controllare questo corpo. Anche se non avessi inserito il pilota automatico.
Attraversiamo l’ampio salone dove il fuoco, acceso da Natsu, scoppietta. Ora, però, mi sembra che abbia un aspetto inquietante. Ho un brutto presentimento.
Oppure mi sto solo facendo suggestionare da… tutto questo.
Con la coda dell’occhio vedo altre persone affrettarsi verso la nostra stessa direzione, scambiandosi occhiate confuse: Lisanna, Jet e Droy, Gray e Juvia.
Iniziamo a correre tutti insieme, come membra di un unico corpo, quando iniziamo a salire al piano superiore e sentiamo delle grida diverse, frammentate e sconvolte. Riesco a percepire il brivido che scuote il corpo di Levy quando raggiunge il piano dei dormitori, il primo piano, e imbocca le scale per la mansarda.
- Lucy! – grida, incespicando.
Con una falcata supero quattro scalini e le poso una mano sul fianco per darle equilibrio.
Quando raggiungiamo il parquet dell’ultimo piano della villa, forse so già cosa aspettarmi. Ma vederlo è comunque destabilizzante e inaspettato.
Kana, con indosso una gonna ottocentesca e la parte superiore di un bikini, giace prona sopra un tappeto che io e Natsu abbiamo comprato insieme a Makarov. I capelli scuri e ondulati impediscono al volto, schiacciato contro il ruvido tessuto, di essere visto. Invece, il coltello che le sbuca dalla schiena insanguinata è più che visibile.
Mano a mano che arrivano, tutti si bloccano e smettono all’unisono di respirare.
Kana non respira più, questo è evidente. Ma noi non fissiamo l’assenza della sua attività polmonare.
No.
Fissiamo Natsu, che ha bloccato Lucy e le ha puntato un altro coltello alla gola.




MaxB
So che avevo detto che avrei postato solo una volta finita la storia, ma non ho resistito. Tanto, finita è praticamente finita. Da ora gli aggiornamenti saranno regolari, ogni lunedì.
Se non ricordate più il prologo non fa nulla. Anzi, meglio così. La storia ha poco a che fare con quello.
Spero che i flashback non creino confusione, all'inizio che ne sono tantissimi.
E spero di cuore che la storia vi piaccia, perché io ci ho messo dentro tutta me stessa, spremuta come un limone.
Pensavo che sarebbe stato un capitolo di Fairy Tales di 10 pagine a farla grande, ma poi è diventata una storiella che credevo avrebbe avuto massimo quattro capitoli, ma quando al quarto capitolo continuavano a venirmi in mente idee e la conlusione finale era lontana anni luce, ho smesso di programmare e ho preso quello che veniva. Per ora sono 103 pagine di Word, ma devo ancora aggiungere delle cose. Inutile dire che diventeranno come minimo 115.
Grazie di cuore a chi mi seguirà in quest'avventura sovrannaturale.
Grazie di cuore.

MaxB
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***



Capitolo 2
Una serata uscita dall'inferno


 
- Gajeel? Gajeel? Ci sei?
Mirajane sventolò una mano sopra al viso del ragazzo, cercando di svegliarlo.
Lui aprì lentamente gli occhi, notando prima di tutto la gonna di Mirajane: anche lei, come le altre quel giorno, portava un vestito antico.
Doveva essere stata uccisa con quello, anche se non si intravedevano tracce di sangue. Chissà come funzionava quella cosa dei vestiti dei fantasmi…
- Si è svegliato – fece notare la voce ruvida di Makarov. – Figliolo, tutto bene?
- Che è successo? – mormorò Gajeel passandosi una mano sul volto, come se così facendo avesse potuto trascinare via l’offuscamento e la confusione.
- Non lo so. Ti stavo raccontando del panico che si è scatenato quel giorno, quando all’improvviso hai rovesciato gli occhi e sei svenuto. Ho pensato di vederti apparire qui di fianco a me per abbracciarti come si deve, ma non sei morto.
- Quanto tempo sono… quanto… - biascicò, cercando di dare un ordine ai suoi ingarbugliati pensieri.
- Quanto tempo sei stato privo di sensi? Mah, direi…
- Un minuto o due – intervenne Mirajane. – Sono arrivata appena il Master mi ha chiamata. Forse è un po’ presto per raccontarti tutto, non sarà una cosa facile. Vieni, ti mostro dove puoi prendere un bicchiere d’acqua.
Mirajane si allontanò, fermandosi vicino ad un albero per aspettarlo.
- Meglio se la raggiungi – lo incoraggiò Makarov. – Questo bosco a volte può essere un vero e proprio labirinto.
Silenziosamente, il recalcitrante Gajeel ubbidì, com’era successo poche volte nella sua vita.
Pochi passi dopo, rinunciò a cercare di memorizzare il percorso, e seguì semplicemente il vaporoso vestito rosso stinto e bianco di Mirajane, i cui lunghi capelli bianchi rimanevano immobili al loro posto, come cristallizzati, nonostante i refoli di vento. Un ulteriore prova del fatto che era un fantasma.
- Questa è l’entrata per la cucina – lo informò Mirajane, passando attraverso la porta a vetri.
Gajeel si bloccò sui suoi passi e fissò il punto in cui un secondo prima c’era la ragazza.
Doveva ancora farci l’abitudine.
Con le mani salde nonostante l’assurdità della situazione, afferrò la maniglia della porta e raggiunse Mirajane all’interno.
- Chiudila, altrimenti entra il freddo – si raccomandò lei.
Lui la fissò con uno sguardo che chiunque avrebbe potuto interpretare: “Ma sei scema?”
- Scusa, come funziona questa cosa? – domandò laconicamente, quasi con rudezza.
- Questa cosa, cosa?
- La faccenda dell’essere fantasmi – specificò Gajeel.
- Funziona che siamo morti – rispose dolcemente Mirajane, sorridendo.
- Oddio – mormorò rassegnato, le mani che si sfregavano il viso come per rimuovere la patina invisibile che gli stava facendo vivere quell’assurda situazione. – Intendevo dire, come funziona funziona. Potete tormentare i vivi, potete mostrarvi a comando, muovere oggetti, porte?
- Oh, ora ho capito! La nostra è una situazione… particolare, diciamo – rispose, indugiando sulla parola “particolare”. – Capirai il perché a tempo debito, ora non è il caso di spiegartelo visti i tuoi svenimenti. Diciamo che quando muori non diventi fantasma. Semplicemente, muori. Sei polvere. Non c’è niente dopo.
- E allora voi…
- Ci sto arrivando, abbi pazienza. Intanto prendi un bicchiere d’acqua – disse indicandogli una credenza.
Lui l’aprì, trovando al suo interno bicchieri impolverati e piccole ragnatele negli angoli.
- Mi dispiace – mormorò Mirajane. – Non siamo stati molto attenti alle pulizie, negli ultimi due anni. Puoi lavarlo nel lavandino, l’acqua è buonissima qui.
Gajeel, senza fare domande, fece come la ragazza gli aveva detto. Non aveva sete, ma il solo vedere che dal lavabo sgorgava acqua, una cosa naturale, lo avrebbe aiutato a restare lucido, a capire che era tutto reale.
Dal rubinetto, però, dopo alcuni rumori sinistri, uscì solo un getto di liquido scuro e viscoso.
Il ragazzo si allontanò di scatto: sembrava sangue.
- Che cos’è quella roba?
Mirajane ispezionò il fluido che stava sporcando il lavandino prima di sparire nello scarico. – Fango. Cioè, non fango. Non usiamo le tubature da due anni, devi lasciarla scorrere perché si depuri.
Infatti, pochi istanti dopo, l’acqua iniziò a schiarirsi fino a diventare limpida come al solito.
Gajeel, però, non si fidava di berla.
- Ti assicuro che è buona. Comunque fai come vuoi. Ti stavo dicendo – continuò Mirajane – che dopo la morte non c’è niente. Però noi fantasmi esistiamo, e ci… manifestiamo… uf. È davvero difficile spiegarlo.
Il ragazzo la fissò in silenzio, in attesa.
- Abbiamo una sola vita, Gajeel. Dopo essa, ci attende il nulla. Il non-essere. Quando una malattia ci porta via, abbiamo finito, e moriamo. Anche quando veniamo investiti. O ci suicidiamo. Ma in alcuni casi, semplicemente, non possiamo cessare di esistere. Questo è il caso degli omicidi. Non tutti, perché anche essere investiti significa essere vittime di omicidi. Noi diventiamo fantasmi quando non saremmo dovuti morire. Quando chi ci ha uccisi l’ha fatto intenzionalmente e non è stato catturato e assicurato alla giustizia.
- Tutti voi… uccisi? – farfugliò Gajeel, con il bicchiere che alla fine aveva lavato e riempito stretto nella sua mano bianca.
- Sì. Abbiamo un conto in sospeso, e finché non sarà saldato noi resteremo qui. Alla fine non è male, perché in una certa maniera possiamo ancora vivere. Anche le ragazze che vengono stuprate e uccise sono fantasmi, che potranno riposare solo quando il loro violentatore morirà o, meglio, sarà assicurato alla giustizia. Noi, qui, siamo un caso eccezionale, perché i fantasmi non possono manifestarsi. Nessuno li vede o li sente, nessuno sa che ci sono. Non possono indicare chi è il colpevole della loro morte.
- E voi…?
- Noi apparteniamo a questo luogo, un luogo dove non ci sono esseri viventi diversi dagli scoiattoli o dai lombrichi o dai gatti. E tu appartieni a noi e a questo posto, per cui puoi vederci. Ma penso sia l’unico caso al mondo, Gajeel. Noi, ora, siamo questo ambiente.
Il ragazzo restò zitto, cercando di assimilare quelle informazioni strane.
Mirajane ne approfittò per continuare: - Per quanto riguarda il nostro essere immateriali, a volte possiamo spostare e prendere gli oggetti o aprire le porte. Ma è tanto difficile e serve pratica, perché è necessario uno sforzo immane per fare qualcosa. E dopo averlo fatto, ci sentiamo spossati. Il mondo immateriale e quello fisico non sono fatti per entrare in contatto. È una violazione delle leggi che regolano l’universo.
Gajeel annuì: aveva colto il concetto.
- Aspetta – esordì poco dopo posando il bicchiere vuoto nel lavandino. – Ma chi farà giustizia a voi? Sapete chi è il vostro assassino, e potete parlare con me. Se me lo dite, io posso… ehm… far finire tutto questo. Se non vi piace. Se volete vivere così io…
- Non è vivere, Gajeel – lo interruppe Mirajane, un sorriso triste e sfiorito come una rosa appassita. – Non è vivere. L’attesa è una maledizione. Un tormento, specialmente quando non sai cosa stai aspettando.
- Ma tu sai chi vi ha fatto questo! – insisté lui.
- Non è così semplice.
 A Gajeel tornò in mente l’immagine di Kana morta, per terra, e Natsu con il coltello e gli occhi spiritati.
- Natsu – mormorò. – Vi ha uccisi Natsu.
- No. O meglio, sì. Ma, vedi, anche Natsu è morto. Quindi ora dovremmo essere tutti… dispersi. I nostri corpi cibo per i vermi e le nostre anime ridotte al nulla. Invece non è così.
- E allora chi…
- Vuoi sapere il resto, Gajeel? Sicuro?
Lui annuì, serio, e seguì Mirajane quando uscì dalla cucina. Attraversarono una sala da pranzo enorme, con lunghi tavoli di quelli che si vedono solo nei castelli dei film, con candelabri ed enormi lampadari che pendevano dal soffitto. Tutto pulito, ma ricoperto da uno strato di polvere su cui Gajeel lasciava le impronte delle scarpe. Uscendo dalla stanza si ritrovarono in un soggiorno spaziosissimo con svariate poltrone e lunghi divani, tavolini bassi e lampade a muro fatte come candelabri antichi poste vicino ai tappeti che decoravano la stanza. Le pareti erano di un caldo legno che, nonostante gli anni passati e il sudiciume, ancora rilucevano. Ai lati del soggiorno si diramavano due ampie scale che portavano ad un piano superiore visibile dal piano terra, con una ringhiera di legno a proteggere gli abitanti da accidentali cadute al piano inferiore. Un camino spento da tempo era posizionato sotto la balconata del primo piano, di fronte alla distante porta d’ingresso. Mastodontica. Un piccolo atrio con panche e appendini pieni di cappotti ormai rosi dalle tarme si frapponeva tra il soggiorno e la porta.
Gajeel seguì Mirajane fino al divano, su cui si accomodò, ignaro degli altri ospiti che li stavano occupando: Gray e Juvia, Kana con Makao e Wakaba, e poi Lucy. Tutti fermi a guardare Gajeel.
Lui sembrava quasi non farci caso, tanto era lo shock: quel soggiorno, quel camino.
Erano quelli che aveva visto nei suoi ricordi poco prima. Riuscì quasi a vedere le ombre del passato prendere la forma di Gray e Natsu e litigare per accendere il camino. E la presenza di Levy che lo trascinava via dalla rissa, via dal soggiorno, nella sala da pranzo in cui si erano baciati.
Quelle scale, invece…
Quasi senza pensare, Gajeel scattò e imboccò le scale salendo i gradini a tre a tre, il fiato corto per l’agitazione.
- Gajeel – lo chiamarono i ragazzi di sotto. Ma lui registrò appena le loro voci e i loro passi, silenziosi come le loro presenze, mentre saliva la seconda rampa di scale, quella che portava in mansarda.
Sapeva già cosa ci avrebbe trovato, ma doveva vederlo con i suoi occhi, era più forte di sé. Così corse, incespicò e si rialzò, fino a buttarsi contro la porta dell’ultimo piano con tutta la forza di cui disponeva. La maniglia si abbassò e lui cadde a quattro zampe, riprendendo fiato.
Un angolo della sua mente percepì le presenze che lo circondavano, silenziose ed evanescenti, effimere.
E poi alzò lo sguardo e lo vide: il coltello insanguinato che Natsu aveva impugnato. E la pozza di sangue secco che ormai sembrava solo una macchia sul legno, lì dove il corpo di Kana aveva perso la forza.
Il mondo iniziò a vorticare come una tazza dei luna park, ruotò su se stesso e ruotò attorno alla stanza, e prima di svenire Gajeel si girò e la vide, perché sapeva che c’era: l’impronta di una mano lasciata con il sangue sul retro della porta contro cui si era gettato.
E poi il nulla.
~~~~~~~~~~○~~~~~~~~~~
 
- Lasciala Natsu – sta gridando Levy, la voce che mi arriva ovattata.
C’è come un rimbombo, sembra che più persone stiano dicendo le stesse cose.
Quando metto a fuoco, mi rendo conto che è proprio così: a parlare sopra Levy siamo io e tutti gli altri, come Gray, Jet e Droy.
Qualcosa mi sfiora la gamba e il nonnetto sgomita per vedere cosa sta succedendo.
Poi si blocca e impallidisce.
- Fermo Natsu! Cosa ti prende!? – singhiozza Levy.
Sento il cuore, non quello che è nel me del passato, bensì quello metaforico che scandisce con i suoi battiti i rintocchi dei tamburi nella mia testa angosciata, stringersi in una morsa alla vista di Levy così distrutta: ha gli occhi spalancati e rossi e la voce le si spezza ad ogni urlo. Sembra spiritata.
Le mie braccia la stringono e le nascondono il viso nel mio petto, e io sento ogni punto in cui i nostri corpi si toccano, ma quasi non riesco a farci caso: lei si dimena come un pesce fuor d’acqua, allontanandomi da sé.
Io allento la presa e sento le sue mani piccole ma forti aggrapparsi alla mia camicia per trovare un sostegno mentre le lacrime le scorrono sulla guance. Sta andando sotto shock.
- Testa calda, ma che accidenti succede?! – mi sento urlare. – Lascia la bionda subito!
- Ha ucciso Kana – sibila lui, il fiato corto e il sudore che gli imperla la fronte. Sembra che stia lottando contro qualcosa. Contro se stesso.
Il silenzio cala sulla sala come un sudario, o un tramonto senza luce che porta solo un’oscurità poco rassicurante. Il camino scoppietta dietro di lui.
- Cosa stai dicendo, Natsu? – chiede pacatamente Gray, avvicinandosi piano.
Cerca di calmarlo per prendergli il coltello.
- Lei ha ucciso Kana. Lei – annaspa, stringendo i denti e gli occhi. – Eravamo qui, stavamo ridendo. Poi Lucy ha fatto un verso strano, come se stesse soffocando, e ci ha guardati come se non ci conoscesse… argh… - deglutisce a vuoto, la mano che impugna il coltello trema visibilmente. – Ha sorriso, era orribile. Era una smorfia, non era Lucy, si vedeva. Ha afferrato il coltello che aveva preso per tagliare la torta, doveva essere una sorpresa per tutti, ma ha tirato un… anf… un calcio a Kana e l’ha fatta cadere. Poi le ha… le ha… infilato il coltello nella schiena. E io…
Un suono gutturale gli esce dalla gola mentre lui preme il coltello contro la gola di Lucy tanto da farle uscire un rivolo di sangue. Lei è terrorizzata, le lacrime le inondano le guance come un torrente, colandole fino al mento per poi gocciare sulla scollatura del vestito, mischiandosi al sangue. Una mano è sul braccio di Natsu, quello che impugna l’arma con così tanta forza da avere le nocche bianche, come per rassicurarlo del fatto che andrà tutto bene.
Solo ora mi rendo conto che Lucy ha le mani insanguinate. Eppure, non ha nessuna ferita lì.
Natsu continua a mormorare frasi senza senso apparente, come posseduto, mentre ora anche Elfman avanza con cautela. Poi arrivano i nostri gatti, il mio Pantherlily, nero, e il gatto di Natsu, un combina guai come il padrone che adora gettarsi a capofitto nella vernice blu che stiamo usando per ritinteggiare le camere.
Pantherlily! Il mio gatto, quello che mi ha condotto fino a questa casa. Come ho potuto scordarmi di lui?
Ciò che stanno facendo i felini attira la mia attenzione e distolgo lo sguardo dalla paradossale scena che ho davanti: i gatti stanno soffiando verso Natsu, persino Happy, il suo gatto, che non farebbe mai una cosa simile. Pantherlily lo graffia ed Happy gli addenta il polpaccio, ma Natsu non reagisce al dolore.
E allora mi ricordo che Pantherlily fissava Mirajane prima che io potessi vederla.
Mirajane, che è un fantasma. Uno spirito. Perché si dice che i gatti possano percepirli.
Un forte dolore alla testa mi colpisce mentre poco a poco inizio a capire cosa sta succedendo. Rabbrividisco mentalmente, e anche il mio corpo del passato rabbrividisce e stringe Levy, inducendola a guardarmi.
Lucy ha le mani sporche di sangue, non suo, ma di Kana, che lei ha ucciso. O meglio, che lo spirito che l’ha posseduta ha ucciso. Spirito che ora, ne sono certo, sta controllando Natsu.
- Fatelo uscire dalla mia testa! – grida Natsu, disperato, prima di ghignare e accoltellare Lucy allo stomaco e non alla gola: lei ha deviato la lama nel momento in cui il braccio è scattato, ma questo non ha impedito all’arma di farsi largo dentro di lei.
Lei barcolla e fa qualche passo verso di noi, prima di accasciarsi contro la porta e lasciare l’impronta di sangue che avevo visto prima.
Natsu ridacchia, la bocca lucida, finché non inizia a tossire e i gatti arretrano, fuggendo giù per le scale: non ho mai visto Happy e Lily così terrorizzati.
Natsu chiude gli occhi e, come una bambola privata della sua imbottitura, si accascia su se stesso, sbattendo sulle ginocchia per poi finire disteso a terra in una posizione scomposta. Il respiro è affannoso e Gray si accuccia di fronte a lui: sta tremando. Come le mie mani, che stringono le braccia di Levy con così tanta forza da impedirle la circolazione sanguigna. Le sto facendo male, lo so, probabilmente le resteranno anche i lividi, ma in questo momento è l’unica cosa che posso fare per evitare di andare in pezzi. E se mi sento così io, non oso immaginare lei, che ha appena visto morire la sua migliore amica sotto ai suoi occhi.
Questa situazione è pazzesca.
Levy ha le nocche della mano bianche a causa della forza con cui sta impugnando la mia camicia. Muovo lentamente un braccio per allentare la sua presa prima che si ferisca i palmi con le unghie, ma qualcosa mi distrae.
L’aria sopra Natsu, davanti a Gray, tremola, come quando in autunno si cucinano le castagne all’aperto, e come quando il fuoco di una grigliata manifesta il suo calore facendo vibrare le particelle dell’aria.
Gray respira in fretta, bloccando un singulto come quando le persone si prendono paura ed emettono un suono strozzato che è uguale in tutto il mondo, per poi ricadere sul sedere e gridare.
Noi siamo tutti immobili, come se questo fosse solo un film horror talmente ipnotico da impedirci di reagire e distogliere lo sguardo. Talmente macabro e ributtante da sapere che, quando l’incantamento finirà, la realtà apparirà peggiore di quello che sembra.
Mi chiedo come mai nessuno abbia ancora vomitato.
Poi Gray si alza, seguito da decine di occhi sbarrati e confusi. Prende Natsu per la collottola e lo mette in piedi a forza, senza gentilezza o attenzione. Ha appena ucciso una nostra compagna, eppure non merita quel trattamento.
Non lo merita, perché lui e Lucy erano finalmente felici insieme dopo tanto tempo, e perché Natsu non farebbe mai male a qualcuno di Fairy Tail, la sua famiglia, così come non lo farebbe Lucy.
- Gray fermati, lui non… - mormora la mia voce, che sembra non appartenermi con questo tono pacato che ho usato due secondi fa.
Ma ormai è troppo tardi. Perché la vita non è altro che una folle corsa contro il tempo, e nel momento in cui realizziamo le cose, queste sono già passate, così com’è passata la nostra possibilità di agire.
- Anche tu… - mi interrompe Natsu fissando Gray, la voce flebile e spaventata, prima di spalancare gli occhi pieni di orrore. – No…
Prima che finisca quella semplice sillaba, giace a terra, morto, il collo piegato innaturalmente là dove Gray lo ha spezzato, mentre il suono dello schiocco delle ossa echeggia nella mansarda, un tempo calda e accogliente, come il rintocco di un orologio a cucù.
Come i passi della marcia funebre.
Il nuovo assassino si gira verso di noi, ghigna con gli occhi spenti, e poi barcolla mentre l’aria si fa nuovamente dinamica, come se qualcosa di invisibile si stesse sovrapponendo ad essa, inducendo le particelle a spostarsi per non entrare in contatto con l’entità.
In un battito di ciglia Gray torna quello di sempre, confuso eppure presente a se stesso.
- Io non… non sono… - mormora, la voce spezzata e agonizzante.
Si porta le mani a copertura del viso e singhiozza, ma sono certo che non piange, perché il dolore che prova è così tanto da non potersi solidificare in lacrime.
- Gray-sama! – urla Juvia, sul cui volto invece continuano a scorrere le perle di dolore che sono così ammalianti e struggenti insieme.
- Aspetta! – grida Levy, che è troppo intelligente per non aver capito cosa sta succedendo.
Juvia, però, vede solo Gray, e si getta senza rendersene conto contro l’aria infetta, rimanendo paralizzata con la testa reclinata.
Gray si riprende e spalanca la bocca, mentre il suo volto sbianca. – Correte! Fuori di qui, chiudete la porta!
Nonostante la paralisi, i corpi delle persone che mi circondando sembrano non aspettare altro che quel comando, e sono in movimento già prima che Gray finisca di dare l’ordine. Io spingo Levy davanti a me, affinché ci sia più distanza possibile tra lei e il mostro, e la marea di corpi la porta via. Sono l’ultimo ad uscire, insieme ad Elfman e Gray, del quale non riesco a decifrare l’espressione: non sembra nemmeno più lui.
Ma Juvia è più veloce, il corpo scatta e i muscoli guizzano in modo disumano mentre si getta contro di noi, impedendo alle porte di chiudersi.
- Correte! – grida ancora Gray, incespicando e cadendo nel tentativo di fuggire.
Sono momenti così frenetici che nemmeno la mia mente capisce chi sta facendo cosa e chi non facendo cosa, e mi chiedo come sia possibile che il mio corpo si muova senza problemi. Forse, due anni fa, quando è accaduto tutto, l’adrenalina mi impediva di pensare e mi spingeva ad agire. Ora è tutto il contrario.
Sarebbe stato meglio, però, se il mio cervello fosse stato più presente. Perché si sarebbe reso conto che Gray è rimasto indietro, e che Juvia è ora ad un soffio da lui. Si sarebbe accorto che un suo amico era in pericolo, e lo avrebbe aiutato.
E non sarebbe cambiato nulla.
Se fossi stato più cosciente, due anni fa, non avrei potuto impedire niente.
Semplicemente, avrei visto Gray che, nel tentativo di rialzarsi, veniva spinto verso le scale con rudezza, incontro alle schiene mie e di Elfman. Lo avrei anche visto, non avrei solo sentito una serie di tonfi e una botta contro la gamba. Avrei anche visto, oltre a sentire il rumore sordo di qualcosa di duro contro il muro. Qualcosa di inequivocabilmente fragile come il cranio umano.
E, mentre mi rendo conto di come sarebbero andate le cose se io mi fossi girato a guardare, ringrazio di non averlo fatto. Perché possiamo fingere di non aver sentito, ingannarci riguardo a ciò che pensiamo di aver udito.
Ma quando vediamo, la realtà è innegabile.
Io ed Elfman raggiungiamo l’ultimo scalino e ci ritroviamo nel corridoio che si affaccia sulle nostre stanze, al primo piano. Ci scambiamo un’occhiata, ma senza guardarci veramente.
Con la coda dell’occhio vedo le schiene degli ultimi ritardatari che svoltano l’angolo e scendono la rampa che porta al piano terra, e quando mi avvicino li scorgo tutti dal parapetto: mugolii preoccupati inondano il soggiorno mentre loro guardano su, in attesa.
- Andate fuori, nascondetevi! – urla Elfman, scendendo le scale a rotta di collo.
Io faccio per seguirlo, ma un movimento cattura la mia attenzione: la testa di Levy sporge da una camera dall’altra parte della seconda rampa di scale. La sua mano sbuca fuori e mi fa dei rapidi segni, invitandomi a raggiungerla.
Io sento i piedi di Juvia alle mie spalle, mentre la sua voce distorta ride in modo sadico e sinistro. Se mi vede è la fine.
Però non mi importa. Perché posso fare solo una cosa: andare da Levy. Mente e corpo sono d’accordo, come lo sarebbe sempre in questi casi, nonostante queste azioni siano avvenute due anni fa. Tendo i muscoli al massimo e in poche falcate attraverso il corridoio di fronte al parapetto, mentre il mio nome viene mormorato da chi non è così tanto vittima della paura da stare zitto e aspettare. Oppure a chiamarlo sono le persone che non erano di sopra e non hanno visto nulla.
Mi infilo nella camera nel momento stesso in cui Juvia sbuca dalle scale dall’altra parte del piano. Con calma cammina fino al centro del corridoio, e io tengo Levy ben nascosta dietro di me, mentre il suo viso sprofonda nella mia schiena e le sue lacrime silenziose me la inzuppano. Io mi sporgo quel tanto che basta per non essere visto, mentre una mano di Levy mi tira indietro i ciuffi ribelli dei capelli in modo che non si muovano, tradendomi.
Juvia posa le mani sul legno del parapetto protettivo e guarda di sotto, sorridendo. Sogghignando.
- Ho deciso che questo posto è mio. Quindi me lo prendo. Potrei essere un vicino piacevole e innocuo, ma, ahimé – mormora, con la voce dolce e cantilenante di Juvia, che ho sempre trovato rilassante – a me piace la devastazione. Mi piacciono sangue e desolazione e se questo vecchio castello fosse più una maceria che un palazzo, sarei proprio felice.
Poi, tranquillamente, si getta di testa dal parapetto e le urla dei miei compagni si levano come quelle di un sol uomo.
L’aria tremola nel punto in cui Juvia si è lasciata cadere. Adesso mi sembra quasi di distinguervi una forma allungata e corposa, più consistente dell’aria calda. Io attendo, smetto di respirare mentalmente e il mio corpo di due anni fa trattiene il respiro. Poi, mentre nel soggiorno imperversa il caos, l’ombra impalpabile scende di sotto, pronta, ne sono certo, a mietere qualche altra vittima.
Io strappo il piumone dal letto e registro a malapena il fatto che fuori ha iniziato a nevicare piano. Apro le ante del grosso armadio di legno che c’è in fondo alla camera e faccio cenno a Levy di entrarvi.
Potrò non essere stato lucido al tempo, ma lo sono ora, e vedo ogni dettaglio della sua persona: le mani strette a pugno contro il collo caldo, le scie tracciate dalle lacrime ormai secche che cercavano un via di fuga dall’orrore, i denti che dilaniano il labbro inferiore e gli occhi aperti e impauriti. Indossa un vestito giallo pallido con ricami floreali di un bianco sgargiante. Il corpetto elegante le mette in risalto il seno che, mi ricordo, non è assurdamente grande come quello delle sue amiche, ma della misura perfetta per lei. E per le mie mani. Una cintura sui toni dell’arancione le circonda la vita sottile e sotto di essa una gonna morbida e lunga fino ai piedi le abbraccia le gambe snelle. Non è particolarmente vaporosa o rigida come quelle dell’Ottocento che ho visto in certi film da brivido. Sembra avere ampia libertà di movimento con questa.
Il colore chiaro del vestito le mette in risalto gli occhi naturalmente luminosi, che ora mi sembrano solo lucidi e slavati. Ha le guance rosse, ma non perché l’ho fatta arrabbiare o arrossire.
E questo mi fa paura.
Con un cenno della testa il mio me del passato la incita ad entrare nell’armadio. È profondo, più di quanto sembri, e spazioso, perché non è molto pieno. Forse perché, mi viene in mente, a lei piacciono di più i libri dei vestiti. Titubante, si inginocchia sopra una serie di cassetti che ci arrivano alle ginocchia, e mi guarda. Io le lancio il piumone, entro e mi siedo, aprendo le gambe in modo che lei possa prendervi comodamente posto. E infatti, senza bisogno che dica alcunché, Levy emerge dalla calda coperta e gattona fino a me, girandosi per appoggiarmi la schiena al petto.
Lei non lo sa, ma è la mia posizione preferita, perché la intrappolo sia con le gambe che con le braccia, e il mento è libero di posarsi sulla sua nuca. Stiamo sempre così… stavamo sempre così quando mi trascinava in qualche spiazzo erboso appartato per riposare o far qualcosa di zuccherosamente romantico, che alla fine consisteva nell’osservarla leggere. O meglio, osservarla cercare di leggere mentre la stuzzicavo in tutti i modi possibili.
Lei ci avvolge con la coperta e io chiudo le ante proprio mentre un altro urlo, di un uomo, ci raggiunge, infiltrandosi tra i muri e i pavimenti come se non avessero consistenza. Levy incassa la testa nelle spalle e si stringe le braccia al petto. Io la circondo con le mie, sperando di calmarla, ma la sento tremare ancora di più mentre il pianto la travolge.
Poso la guancia sulla sua testa, respirando il suo profumo per restare lucido.
- Cosa sta succedendo? – bisbiglia lei, la voce tremante ridotta ad un flebile mormorio, come se fosse una candela in procinto di esaurire la cera.
- Non lo so – rispondo, mentre il sussurro attenua la durezza della mia voce.
- Resta con me – mi implora, cercando la mia mano con la sua.
Le mie dita si muovono e le vanno incontro, stringendole forte per darle sicurezza quando tutto quello che conosciamo sta perdendo significato.
Degli schianti al piano di sotto e dei lamenti in giardino mi bloccano, ma poi rispondo: - Sempre.
Ero sincero, lo percepisco dal tono della mia voce.
E lo sarei anche ora, se sapessi dov’è lei.
Già. Dov’è.
Alla fine ci stanchiamo di crogiolarci nella paura, stringendo i denti tanto forte da farli formicolare, e io scivolo più in basso per provare a sdraiarmi. Levy si corica sopra di me e mi pare di scorgere i suoi occhi luminosi nel buio, o forse è solo la mia mente che cerca conforto nelle cose semplici che conosco.
Le poso un bacio in fronte, centrando miracolosamente il bersaglio, e per la prima volta la sento rilassarsi.
Sono certo che, se anche avessi il possesso del mio corpo, in questo momento, non uscirei per aiutare gli altri. Perché so che sarebbe un bagno di sangue anche per me… e Levy. E lo sa anche lei, che non ci penserebbe un momento e si getterebbe senza esitazione in aiuto dei nostri compagni.
Ma non è questa la situazione. Non possiamo fare nulla.
Sordi agli strepiti e allo sfacelo più totale, ci abbandoniamo al sonno, cullati dai nostri respiri e dal calore dei nostri corpi.



MaxB:
Buonasera. Finalmente sono puntuale.
Non mi dilungo, non ho nulla da dire, spero solo che si capisca qualcosa perché ho corretto il capitolo a spezzoni e non mi capivo più ahahah. Se non è comprensibile posso buttarmi.
Mi butto.
Sul letto a cercare di scrivere in maniera più decente e comprensibile.
Au revoir,
MaxB

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***



Capitolo 3
Morti non morti, vivi morti o morti vivi?


 
- Gajeel -  chiamò la voce lieve di una ragazza.
Il cuore di Gajeel sussultò, ma quando si riscosse del tutto e gli occhi riuscirono a mettere a fuoco l’ambiente che lo circondava, la camera da letto dei suoi ricordi, si accorse che era solo Mirajane.
I suoi occhi lo fissavano, apprensivi, e lui quasi non riuscì a sostenere il suo sguardo: erano tutti morti mentre lui e Levy dormivamo, fingendo che stesse andando tutto bene.
Si sentiva un vero schifo, ma grugnì qualcosa per camuffare il disgusto.
Poi si rese conto che non era più nella mansarda in cui era fuggito, seguito da alcuni dei suoi compagni… fantasmi.
- Come… come… - farfugliò, confuso, grattandosi la nuca.
- Come sei arrivato qui? – chiese Gray per lui.
Gajeel non lo fissò: aveva paura di sentire il rumore sordo della sua testa che sbatteva contro il muro. Così annuì seccamente, come se fosse irritato.
- Hai camminato su quelle gambe di ferro da pirata che ti ritrovi! – esclamò Natsu, appoggiato (si fa per dire) alla porta, pensando di insultarlo. – Pensi che ti abbiamo portato come una principessina?
- Le gambe dei pirati sono di legno, idiota – sibilò Gray, mentre Juvia commentava il suo acume.
Natsu si era unito al gruppo in qualche modo, ma Gajeel non ricordava come. Non era andato in mansarda con lui. Makao, Wakaba, Jet e gli altri che lo avevano seguito, invece, non c’erano più.
- Qualcuno mi dice come ca… - sbottò poi, infuriato.
Mirajane lo rabbonì, interrompendolo prima che buttasse giù la casa silenziosa: - Ci sei venuto da solo. Sei svenuto, in mansarda, per alcuni minuti. Jet e Droy hanno preso dell’acqua, ma per loro era uno sforzo eccessivo e si sono dovuti fermare. Comunque, tu hai ripreso i sensi prima.
- Be’, non proprio ripreso i sensi – rettificò Gray.
- Come sarebbe a dire?
- Sarebbe a dire, cervello da chiodo, - continuò Gray – che ti sei mosso come un automa fino a qui, ripercorrendo…
La voce gli si affievolì alla fine, come se avesse avuto paura di pronunciare le parole che rendevano vera la sua morte, avvenuta due anni prima.
- Ripercorrendo la strada di quella volta – concluse per lui Gajeel, che aveva capito.
- Già. Però sei venuto qui, non sei andato di sotto. Due anni fa non ci eravamo nemmeno accorti del fatto che tu e Levy non c’eravate – disse Mirajane, senza traccia di risentimento nella voce limpida.
Ma Gajeel si sentiva un mostro lo stesso. – Mi… sì, insomma. Dovevo proteggere… lei. Sai, no? – borbottò, cercando di scusarsi in maniera che non si capisse che comunque si stava scusando.
Questione di orgoglio.
- Lo sappiamo, Gajeel – rispose dolcemente Mirajane. – Non ti incolpiamo per non essere morto, o per non aver incontrato il nostro stesso destino. Sono felice che tu ti sia salvato. Del resto, non avresti potuto fare nient’altro. Eravamo condannati.
Il silenzio calò come un’ombra su di loro, ognuno intento a rivivere un particolare momento dei loro ultimi istanti da vivi.
- Ora ricordi tutto? – indagò Natsu.
- Cosa? – si riscosse Gajeel, scuotendo la testa.
- Voglio dire, quello che è successo.
- Non tutto a dire il vero – rispose laconicamente Gajeel. – Mi ricordo delle morti, da Kana fino al suicidio di Juvia – rivelò mentre la ragazza sobbalzava – ma non ricordo il resto, o la causa, o come io e Levy abbiamo fatto ad uscire dall’arma…dio.
Titubante, si girò verso il mobile che giganteggiava su di lui, dal fondo della stanza, con le ante aperte. Il piumone era parzialmente accasciato sul pavimento sudicio, come una lingua sputata fuori dalla bocca, inerte. Tutto era rimasto come allora, quando avevano abbandonato quella stanza.
Dov’era Levy?
Ma invece di chiedere quello, fissò l’ambiente.
Era una camera modesta, abbastanza grande per contenere il gigantesco armadio, un letto matrimoniale che a Gajeel sembrava enorme, due comodini e mensole di libri su ogni superficie disponibile. Nonostante questo, non era opprimente, bensì spaziosa, accogliente e calda, grazie al legno del pavimento e dell’arredamento. Le pareti erano di un sobrio color crema che aveva visto giorno migliori. In alcuni punti, infatti, era macchiato e scrostato, dando un’aria di malinconica desolazione.
La testa iniziò a girargli mentre i ricordi si agitavano dentro di lui come tanti pesci in fuga da uno squalo affamato. Riusciva ad afferrare sprazzi di immagini e sentì le presenze eteree accanto a lui avvicinarglisi, mentre coglieva il quadro generale della situazione: quella era la camera da letto sua e di Levy.
- Mi sono stabilito qui, nella camera di Levy, perché lei non voleva abbandonare i suoi libri – farfugliò ad alta voce, cercando di dare un corpo alla sua storia passata, quella che aveva dimenticato per troppo tempo. – L’armadio l’abbiamo comprato insieme, ma era troppo grande e così la parte destra è adibita a libreria, anche se nessuno lo sa.
Mentre delirava, schiavo dei ricordi, Mirajane sporse la testa e la infilò dentro le ante chiuse, dove lui aveva indicato esserci i libri, e ne uscì poco dopo annuendo: quelle cose poteva saperle solo chi aveva vissuto in quella stanza.
Gajeel non la vedeva nemmeno; anche se aveva gli occhi spalancati, era come se fosse cieco.
- Nell’anta a sinistra, sotto ai miei maglioni, c’era il suo regalo di Natale – mormorò, una mano posata sulla fronte come per asciugarsi il sudore. – Era… un anello.
La sua voce si spense, e Gajeel si sentì più solo che mai. Un dolore straziante gli trafisse il petto e lui si accasciò sul letto, inginocchiandosi per terra.
Due anni prima si era svegliato senza ricordi, senza un’identità, e aveva dovuto iniziare una nuova vita da capo. Aveva desiderato disperatamente rammentare, scoprire chi era, ritrovare se stesso. Ora che l’aveva fatto, desiderava tornare indietro.
Non avere memorie fa male.
Avere memorie di una vita felice che ci è stata strappata senza motivo fa ancora più male.
Gajeel seppellì il viso nelle braccia incrociate, la mente inondata da lei, dal suo viso, dalla sua perfezione.
Da Levy.
Voleva chiederle di sposarlo. Avrebbe dovuto chiederglielo la notte di quel giorno infernale. Quella notte che non avevano mai visto.
Stringendo i denti per evitare di finire in pezzi, afferrò con una mano le lenzuola sfatte che erano rimaste sul letto. Quelle lenzuola su cui lui e Levy si erano coccolati la sera prima che accadesse tutto. E tutte le notti precedenti nel corso di un anno, quando lui le aveva fatto capire che l’amava più della sua vita.
Ringhiò, cercando di bloccare quell’ondata di pensieri che sembrava aver inesorabilmente rotto una diga. Faceva così male ricordare. Faceva così male non aver Levy vicina per stringerla e sentire il suo calore. Il suo era un amore struggente, così intenso straziarlo, perché lei era la sua ragione di vita… era stata la sua ragione di vita.
E lo era ancora.
Annusò le lenzuola, sperando di sentire ancora il suo profumo, che era vivido nella sua mente come se l’avesse avuto sotto il naso. Ma l’unica cosa che sentì fu la polvere che gli irritava le narici e l’odore di stantio che aveva preso possesso di ogni angolo di quel bel palazzo. Il fantasma di se stesso.
Poco a poco Gajeel si calmò; per lo meno, quel tanto che bastava per ragionare lucidamente e alzare la testa. Se n’erano andati tutti.
Tutti tranne Mirajane, che era seduta fuori dalla finestra chiusa e gli dava le spalle.
Un cupo e basso miagolio attirò l’attenzione del ragazzo, che sapeva chi era ancora prima di girarsi: Pantherlily, il suo gatto.
Il micio dal pelo scuro gli picchiettò l’avambraccio con la zampetta e lo guardò negli occhi, mentre Gajeel riviveva il momento in cui l’aveva trovato, curato e portato a casa. Il veterinario gli aveva salvato l’occhio, ma una cicatrice a forma di mezza luna era rimasta ben visibile, testimone al mondo dell’animo battagliero del gatto.
- Ehi, Lily – bisbigliò lui, dandogli una pacca affettuosa sulla testa.
Lui e il suo animale avevano un feeling particolare e tutto loro, precluso agli altri. Pantherlily non voleva coccole, e Gajeel era restio a darle, per cui erano perfetti. Solo da Levy le accettava.
Stranamente, il gatto si strusciò sul suo braccio, in cerca di attenzioni: sentiva la sua mancanza da due anni.
Il ragazzo increspò le labbra in un minuscolo, affranto sorriso. – Lo sai che era lei a coccolarti – mormorò accarezzandolo. – Era così brava a farlo.
Un brivido lo scosse e solo allora Gajeel realizzò che erano passate diverse ore da quando era partito. Non aveva il cellulare, solo i pantaloni e le scarpe da corsa, la canottiera sudata e la felpa da riscaldamento, che indossò immediatamente. Aveva perso la cognizione del tempo.
- Mira! – chiamò, burbero.
La ragazza fuori dalla finestra girò il collo e gli sorrise, gli occhi chiusi.
- Che ore sono? – chiese, inquieto. Mirajane gli dava i brividi. E non perché era un fantasma.
- Tardo pomeriggio. Non so l’ora precisa – rispose lei entrando dalla finestra chiusa.
Gajeel rabbrividì di nuovo e lei lo notò: - Scusa – disse. – Siamo troppo abituati a comportarci da fantasmi per ricordarci che… be’, non è normale poter passare attraverso le cose.
Lui scosse il capo, come per scacciare quel pensiero. – Dove sono gli altri?
- In giro. Hanno deciso di lasciarti un po’ di privacy perché, sì, sai… è una bella batosta. Non pensavamo che tu fossi vivo e non ti ricordassi nulla. Non ci siamo mai interrogati troppo sulla tua sorte, perché è stato tutto alquanto bizzarro. Ad oggi non capiamo ancora cosa sia successo a Levy, come possa essere viva e….
- Levy è viva?! – sbottò lui, mettendole sulla spalla una mano che semplicemente gli ricadde lungo il fianco dopo aver incontrato l’aria.
- Non ricordi questo?
- Cosa devo ricordare? – domandò lui, impaziente.
- Come si è concluso tutto. Noi non l’abbiamo visto. Non sappiamo come mai tu sia vivo e Levy sia ancora qui, in quelle condizioni…
- Quali condizioni? – chiese lui, la voce alterata dal nervoso. Levy era lì. Era viva!
Eppure, qualcosa non tornava.
Un cattivo presentimento gli strisciò lungo la spina dorsale.
- Calmati, Gajeel – lo ammonì Mirajane, il sorriso ormai scomparso, mentre osservava i pugni del ragazzo aprirsi e chiudersi spasmodicamente. – Pensavo ti fossi ricordato di ciò che è successo dopo. Sarebbe una cosa bella avere finalmente delle risposte.
- Ho detto a Natsu che ricordo fino alla morte di Juvia, praticamene.
- Magari ti era venuto in mente adesso… - bisbigliò lei. Poi parve rianimarsi e lo fissò come se avesse appena capito una cosa fondamentale. – Magari se ti mostro Levy ti ricorderai. Pare che i luoghi ti inneschino i ricordi e…
- Perché. Non. Mi. Hai. Ancora. Portato. Da. LEVY?! – ringhiò, scandendo bene ogni parola fino ad urlare l’ultima, in preda alla rabbia.
Levy era sua, lui doveva vederla. Perché ancora non l’avevano condotto da lei?
Mirajane deglutì. – Potrebbe non essere… facile, per te. Potresti vederla domani, oggi hai avuto abbastanza…
Ma Gajeel non l’ascoltava. – Si muove, è viva? È nel bosco, adesso? Perché non mi è venuta incontro? Non è morta, vero?
- Gajeel… - lo richiamò Mira, inutilmente.
- Però sarebbe già venuta da me se avesse potuto. Cosa sta facendo? Cosa le è successo?
- Gajeel! – urlò Mirajane, sperando di bloccarlo.
E, finalmente, lui si fermò e la fissò.
- Non so se è il caso di fartela vedere ora. Ne hai avute abbastanza di emozioni, per oggi…
- Devo vederla, Mira. Non importa come… com’è ridotta, o dove sia, o… - farneticò, agitato al punto di non riuscire a riordinare i pensieri in parole tangibili.
- Va bene, va bene. Ti ci porto. Respira.
Lily, come se avesse ricevuto un segnale, saltò giù dal letto e uscì dalla porta, per poi sedersi in corridoio, in attesa di una loro mossa.
Scuotendo la testa in apprensione, Mirajane imboccò la porta e Gajeel la seguì in automatico, dopo aver lanciato un’ultima occhiata al letto.
Gli sembrò di intravedere per un momento il suo fantasma notturno che, assonnato e irritato, rubava a Levy il libro che stava leggendo e lo metteva sotto al letto prima di abbracciarla e intrappolarla tra le sue braccia, per impedirle di alzarsi e recuperare il romanzo. Gli sembrò di sentire i borbottii irritati di Levy quando gli tirava degli innocui pugni, mentre lui le intimava di fare silenzio perché erano le due di notte e gli altri dormivano.
Ma fu un solo un momento, e quando batté le palpebre, Gajeel sentì solo il silenzio che gli succhiava via la vita secondo dopo secondo.
Si allontanò con l’immagine di Levy che cedeva alla sua richiesta e si addormentava abbracciata a lui. Al sicuro.
 
Gajeel seguì Mirajane giù per le scale del primo piano, sbucando di nuovo nel soggiorno che al ragazzo appariva solo inquietante. Specialmente ora che si immaginava Juvia precipitare di testa dal parapetto del piano superiore.
- Dove sono tutti? – chiese mentre svoltava a destra, a sinistra rispetto all’entrata, dalla parte opposta di cucina e sala da pranzo, nella parte di casa che ancora non aveva visto.
- In giro, come sempre, a passare il tempo – rispose Mirajane, atona.
- Come passano il tempo, i fantasmi?
Il tatto di Gajeel era paragonabile alla sua gentilezza.
Inesistente.
- Sai, abbiamo la stessa consistenza tra di noi, quindi possiamo toccarci. La maggior parte di noi è fidanzata, per cui immagino che saranno in giro insieme. Oppure stanno facendo qualcosa in gruppo.
Gajeel ricordava vagamente le relazioni amorose all’interno della casa, ma era consapevole del fatto che, come lui, prima dell’incidente si erano più o meno dichiarati tutti. Lui e Levy, però, erano stati tra i primi, subito dopo Erza e Gerard, l’unico esterno all’orfanotrofio.
- A proposito di Erza, dov’è? – chiese di punto in bianco, dando voce ai suoi pensieri come se Mirajane li avesse seguiti fino a quel momento.
- Come? - ribatté Mirajane passando attraverso una porta di legno a due battenti speculare a quella della sala da pranzo, dal lato opposto.
Gajeel si accorse all’ultimo istante che lui non poteva farlo, e si risparmiò per un pelo di sbattere il naso.
Lily, silenzioso come un’ombra, grattò sulla porta.
- Erza… che fine ha fatto? – ripeté il ragazzo dopo aver aperto la porta.
Si ritrovò in un ambiente completamente diverso da tutte le altre stanze della casa. Il pavimento non era di legno o lucido marmo come nel soggiorno e nel piano delle camere, o tappezzato di tappeti come nella mansarda. Era di soffice e polverosa moquette, con pareti tinte di giallo e arancione che un tempo dovevano essere brillanti. Sedie e poltrone sparse occupavano lo spazio in un’ordinata confusione, mentre lungo le pareti c’erano tavoli da biliardo o stazioni di calcio balilla. Due o tre televisioni erano attaccate al muro e, di fianco ad esse, c’era una postazione che Gajeel suppose essere quella di un dj.
La sala giochi. Quando erano bambini era la palestrina della ricreazione, ma si era trasformata con il passare del tempo. Gajeel ricordò i tornei che facevano ogni domenica i maschi, riuniti in squadre, di fronte alle tre televisioni dotate di console. Oppure a vedere le partite di un qualsiasi sport che finivano in rissa. O, ancora, le Olimpiadi, quando ogni quattro anni accendevano le televisioni su canali diversi per seguire più discipline possibili, tutti ammassati per terra o uno sopra l’altro su poltrone, sedie e divanetti. Anche in quelle occasioni finiva tutto in una rissa.
- Erza è andata con Gerard e riparare la caldaia per l’acqua calda e il riscaldamento. Per te, ovviamente – disse Mirajane, rispondendo alla domanda.
- Ma non era troppo spossante per voi toccare le cose?
- Lo è. Però lo stanno facendo per te, e sai quanto sia ostinata Erza.
Ostinata…
Cocciuta e testarda, semmai!
- E come… com’è morta, lei?
- Non lo so, non l’ho vista. Sono stata uccisa quasi subito, perché nella calca e nella follia del momento ho perso l’orientamento. Mentale, intendo. Comunque mi ha uccisa Laxus.
Laxus. Si erano appena messi insieme, lui e Mira.
- Sembra che il nostro assassino abbia goduto nell’ucciderci per mano dei nostri amati – rivelò Mirajane, abbattuta. Makarov aveva organizzato una festa quando lei e Laxus erano stati scoperti mentre si baciavano nel bosco. Stavano insieme segretamente da più tempo di Erza e Gerard.
- Ed Erza? – chiese per la terza volta Gajeel, spazientito.
- Ah sì. Come ti dicevo, non l’ho vista, ma ci ha raccontato lei di essere stata praticamente l’ultima a morire. Solo che ha ucciso Gerard e questo l’ha mandata in depressione per un po’, da fantasma.
- Oh… - mormorò, a disagio. Erza la poliziotta dell’orfanotrofio, la paladina che metteva tutti in riga anche se aveva praticamente la loro stessa età. - Chi l’ha uccisa?
- Non lo sa. L’ultima cosa che ricorda è di aver ripreso possesso del suo corpo e di aver trovato quello di Gerard per terra, in una pozza di sangue. Qui – disse, indicando un punto dietro ad una poltrona.
La moquette grigia era più scura in quel punto, e Gajeel sentì montare la nausea.
- Ha urlato dalla disperazione ed è scappata qua – continuò Mirajane fermandosi in fondo allo stanzone, di fronte ad un’altra porta di legno a due battenti, chiusa anch’essa. – L’armeria. Appena è entrata ha detto di aver trovato te e Levy, armati, ed è corsa ad abbracciare Levy. Eravate gli unici tre rimasti.
Gajeel deglutì, temendo di scoprire il resto. Cercò di nascondere il tremore stringendo i muscoli, contraendoli per tenerli sotto controllo, ma sembrava solo aggravare la situazione.
- E poi? – chiese stentoreo nonostante il terrore.
- Poi si è allontanata da Levy per guardarla in viso, e ha visto i suoi occhi spalancarsi, indifesi, fissi su un punto alle sua spalle. A quel punto ha visto una lama sbucarle dallo stomaco e fermarsi ad un soffio dal petto di Levy, prima di morire.
C’erano solo lui e Levy in quella stanza. E Levy era di fronte a lei.
Quindi… - Io ho ucciso Erza, vero?
Mirajane annuì sospirando. Sembrava più vecchia, più trasparente e fragile, come se il peso degli orrori cui aveva assistito le avessero tolto la giovinezza eterna alla quale la morte l’aveva costretta.
Un verso strozzato uscì dalla gola serrata di Gajeel, come l’urlo di un animale agonizzante.
- Gajeel, calmati! – urlò Mirajane, posandogli una mano sulla spalla.
Anche se aveva le orecchie tappate come se fosse appena scoppiata una bomba, Gajeel registrò l’urlo e sentì la mano della sua compagna, che stava concentrando tutta la sua forza in quel tocco.
La vide annaspare e stringere gli occhi per la concentrazione, ma almeno quel contatto gli permise di tornare a respirare, rilassando i polmoni.
Anche le orecchie tornarono a sentire.
- Non è stata colpa tua, Gajeel – bisbigliò dolcemente Mirajane, guardandolo con gli occhi chiari che avevano sempre avuto il potere di confortare chiunque. Che non mentivano mai. – Sei stato posseduto dal carnefice di tutti noi. Anche io ho ucciso… ho ucciso Lisanna, prima di morire per mano di Laxus. Tutti noi qui siamo vittime e, sebbene abbiamo impugnato le armi che hanno ucciso i nostri più amati compagni, non siamo carnefici. Mi credi? Non hai colpe. Non ne ha nessuno di noi.
- Io ho… ho ucciso… anche Levy? – mormorò, la voce che dava forma al terrore che aveva dipinto negli occhi.
Mirajane era abituata all’impassibile combattente che dimostrava le sue emozioni solo a Levy, in privato. La paura che trapelava da occhi e voce le strinse il cuore.
- Non lo so, Gajeel. Tu sei vivo. Lei… lo vedrai tra poco. Se sei stato tu, non fartene una colpa. Ma solo tu, ormai, puoi raccontarci la fine di questa storia. Perché lei non l’ha mai fatto…
- Perché non… - tentò di chiedere lui, ma fu bloccato da Mirajane che, attingendo ancora una volta alla sua forza, costrinse la porta ad aprirsi sulla stanza che aveva detto essere l’armeria.
Pantherlily entrò zompettando, prima di rallentare e miagolare con disappunto.
Gajeel spinse la porta senza nemmeno rendersene conto, scansando Mira, che gli passò attraverso.
La stanza era ampia, meno di quella da pranzo o della sala giochi, ma più della camera da letto. La luce del tardo pomeriggio colpiva le finestre chiuse schivando gli alberi, per provare ad illuminare un po’ l’ambiente. E in quella penombra, gli occhi di Gajeel ci misero un po’ a mettere a fuoco le pareti ricoperte di armi: spade, lance, nunchaku, frecce, coltelli, katane e sciabole. Armi di ogni genere e tipo, da quelle per scontri ravvicinati a quelle a lunga gittata, scudi di difesa e munizioni. Sul fondo della stanza c’era una teca di vetro, aperta e opacizzata dalla polvere. Prima di essa, al centro della stanza, un tavolo di cemento ospitava un corpo che alzava e abbassava lentamente il petto, senza muovere alcun’altra parte del corpo.
Gajeel sbatté le palpebre per cercare di capire se era solo una sua impressione che il corpo respirasse, o se veramente era vivo. Alle sue spalle, Mirajane si muoveva inquieta, registrando ogni dettaglio, attendendo… qualcosa. Che fosse un urlo, una fuga o uno svenimento.
Perché il corpo disteso su quel tavolo era quello di Levy, che indossava lo stesso vestito giallo di due anni prima.
L’unica cosa che lo rendeva diverso era la macchia rossa che si apriva come un fiore scuro al centro del suo petto, in corrispondenza del cuore.
Il suo sangue.
 
Gajeel si avvicinò circospetto, senza fiatare, come se il suo respiro avesse potuto spazzare via quel corpo, ancora vivo, che aveva davanti. Non sapeva se considerarlo un miracolo o una delle tante assurdità. Levy era viva, lo percepiva nelle viscere, anche se il colorito era pallido e traslucido che se la pelle fosse stata di carta velina.
I capelli erano sporchissimi e aggrovigliati, e l'odore che emanava era lontano anni luce dal profumo leggero e dolce che anni prima era tutta la sua essenza. Gajeel la trovò bella, bellissima dal momento che l'aveva creduta ridotta in condizioni decisamente peggiori. Ma era certo che, vista dall'esterno, vista da qualcuno che non era influenzato dallo sconfinato amore di Gajeel per lei, Levy sarebbe apparsa smunta, fragile, sporca e forse anche brutta.
Lentamente, avvicinò le dita di una mano al suo petto, lì dove la rosa di sangue reclamava l'attenzione: il sangue era secco, e la pelle si era rimarginata da sola dando vita ad una cicatrice ritta, netta e ruvida, anche se sottile. Su di lei sembrava quasi aggraziata, non come le cicatrici che gli deturpavano il braccio destro.
La pelle sotto le sue dita era tiepida e combatteva contro lo spettrale pallore della morte, che portava con sé i colori insieme alla vita. Rimase a fissarla a lungo, sperando di vederla aprire gli occhi e sorridergli, dicendogli che era uno scherzo.
Ma le palpebre rimanevano immobili e le labbra schiuse erano screpolate e secche.
Sembrava che la sua anima avesse abbandonato il suo corpo, la sua gabbia, in cerca di qualcos'altro.
- Cosa... - farneticò Gajeel prima di schiarirsi la voce. - Cosa le è successo?
Non ottenendo risposta, si girò in cerca di Mirajane: la ragazza lo fissava con una certa aspettativa, mordendosi le labbra.
- Che c'è? - la rimbrottò, burbero, temendo il peggio.
- Oh – si riscosse lei, imbarazzata. – Be’, speravo che vederla ti aiutasse a ricordare.
Gajeel si concentrò sul suo viso, cercando di non guardare il modo in cui la pelle morta si stava sfogliando, sovrapponendo alla realtà l’immagine della sua meravigliosa ragazza, luminosa e piena di vita.
- No, mi dispiace – mormorò, più a se stesso che a Mirajane.
Voleva ricordare, doveva farlo. Anche la Levy nella sua visione gliel’aveva detto, glielo intimava quasi ogni notte.
I suoi sogni!
- Mira! – esclamò improvvisamente, cercando di prendere la ragazza per le spalle e fallendo miseramente. – Levy mi tormenta in sogno. Voi non sapete cos’è successo, ma lei mi dice che è fondamentale che io ricordi chi è lei.
La ragazza aggrottò la fronte, meditando. – Ogni notte?
- Quasi. Ultimamente sempre più spesso, però.
- Che strano. Può essere lei. Io non so cosa sia successo Gajeel, è quello che tutti noi ci chiediamo da due anni ormai. Lei respira, è pressoché in forma, non dimagrisce anche se non mangia, non sembra nemmeno invecchiare. Sembra la bella addormentata. Ma, come immagino tu sappia, non è una cosa normale. Sembra sospesa in un limbo, come se fosse in realtà morta e il suo cuore non ne volesse sapere di fermarsi. È la cosa più strana in questa situazione, il che è tutto dire…
Effettivamente… tra fantasmi e morti che respirano, c’era abbastanza roba da far accapponare la pelle.
- Ma è come voi?
- Non lo sappiamo – disse Mirajane, lo sguardo fisso in un punto, incantato. – Non riusciamo a capirlo, lei respira ed è viva ma dev’essere successo qualcosa alla sua anima, e noi non sappiamo…
Lily soffiò minacciosamente, dal nulla, e Gajeel si girò di scatto, sentendo una presenza alle sue spalle.
Era solo un presentimento, ma a quanto pare era giusto.
Lui strizzò gli occhi diverse volte, cercando di mettere a fuoco. O provando a convincersi del fatto che ciò che vedeva era vero.
Reale.
Sulla porta, alle sue spalle, c’era Levy, il vestito giallo di due anni prima ancora intatto e immacolato, l’aspetto raggiante di sempre.
Era leggermente opaca, ma meno di Mira e gli altri, e gli stava sorridendo timidamente, le guance rosse.
Fu allora che Gajeel svenne.


MaxB:
Buonasera. Eccomi qui.
Mi scuso se il cap non è granché ma ho dovuto taglialo qui altrimenti sarebbe diventato troppo lungo.
La settimana prossima comincerà con il flashback clue, tatatataaaaaan.
Ditemi se magari volete che all'inizio di ogni capitolo riprenda un pezzo di quello precedente, così vi ricordate meglio la storia. Come volete, basta che mi diciate se volete un refresh.
Ripeto, il capitolo non è particolarmente movimentato, ma ci sono alcuni indizi fondamentali per svelare l'arcano finale. Probabilmente però non capirete quali sono ahahaha.
Spero che sia tutto chiaro. A volte ho in testa tutta la storia e i passaggi per me sono chiarissimi, ma non so come potrebbero recepire i dettagli quelli che non sanno nulla della storia, cioè voi lettori.
Va be' se avete bisogno sono sempre qui.
Pronti a scoprire cos'è successo a Levy?
Allora al prossimo lunedì!

MaxB

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***



Capitolo 4
Basta con gli svenimenti... e con i sogni!


 
La mia mente si sveglia prima del mio corpo, e il ricordo dell’orrore a cui ho assistito mi assale. O almeno penso che sia così, dal momento che sento il mio vecchio corpo contrarsi e irrigidirsi, teso.
Credo di essere ancora sdraiato nell’armadio, dopo aver schiacciato un bel pisolino.
Proprio bello, dormire mentre i miei amici vengono uccisi a sangue freddo.
Levy si agita sopra di me, ma sta ancora dormendo, come testimoniano il suo respiro profondo e i mugolii che le escono dalla bocca. Vorrei tanto che ci fosse più luce, anche un piccolo spiraglio, per osservarla dormire. Nella mia mente si susseguono immagini di lei quando si sveglia, intontita, con i capelli arruffati e gli occhi socchiusi, annebbiati. Ho sempre pensato che fosse un pulcino, piccolo, indifeso e tenero, ma al tempo stesso coraggioso e forte, dotato di una forza di volontà eccezionale.
Il mio pulcino blu.
Questi pensieri schifosamente dolci dovrebbero farmi rabbrividire di disgusto, eppure capisco che l’amore ha operato in me una magia, e quando si tratta di Levy, niente è strano o “poco alla Gajeel”. È solo giusto, perché ha per scopo la sua felicità.
Sento la mia mano allungarsi e scuoterle leggermente la spalla, e percepisco che non vorrei farlo. Però devo.
Devo riportarla alla realtà, trascinarla via dal rifugio dei suoi sogni. Perché non posso andare a vedere cos’è successo e lasciarla qui. Non potrei farlo. Non posso farlo.
Così la sveglio e lei pigola come un uccellino, o un cucciolo di gatto, e io mi lascio scappare un mezzo sorriso.
- ‘Giorno – biascico, abbastanza rudemente nonostante i pensieri carini che mi assillano.
Che schifo di roba è? Li voglio fuori dal mio cervello. Bleah.
- Sciao – farfuglia lei, stropicciandosi il viso.
Ma la lentezza mentale causata dal sonno dura poco, troppo poco, e lei sobbalza di consapevolezza.
- Che ore sono? Che è successo? – chiede, agitata.
- Sh… - mormoro io, pacatamente, abbracciandola per farla calmare. – Ora usciamo dall’armadio e andiamo a vedere, ve bene?
Percepisco il fruscio dei suoi capelli quando lei annuisce, e intuisco che i suoi occhioni sono spalancati; intuizione che trova conferma quando spingo leggermente l’anta dell’armadio e i suoi occhi spaventati si incatenano ai miei.
Mi muovo lentamente per evitare che lei si faccia male, o che faccia male a qualcosa di sensibile e prezioso che si trova in mezzo alle mie gambe e che lei potrebbe erroneamente schiacciare scendendo dal mio petto.
Il solo pensiero mi fa rabbrividire e stringo gli occhi, cercando di scacciare il senso di disagio.
Fortunatamente lei è cauta e aggraziata, e certi gioielli rimangono intatti.
Ora sono seduto e attraverso gli occhi del me del passato sbircio dalla fessura che ho aperto: tutto è come prima, anche se dalla finestra entra una luce soffusa leggermente più chiara di ieri.
Calcolando che ho una fame da lupi e la vescica che scoppia, direi che è mattina.
Abbiamo dormito tantissimo, nonostante il terrore e l’agitazione. O, forse, proprio grazie ad essi, che hanno permesso alle nostre menti di ritrarsi in un rifugio sicuro creato dal nostro subconscio. Per proteggerci.
La luce che illumina intimamente la stanza è filtrata dalla fitta nebbia che ammanta il bosco come neve, o come una coperta appiccicosa e opprimente.
Appena usciamo, con cautela, sorreggo Levy che inciampa nella coperta: è elegante come una fata, ma spesso impacciata.
Lei mi guarda regalandomi un nervoso sorriso di riconoscenza, prima di spalancare gli occhi e irrigidirsi.
Io sogghigno e la prendo per mano, trascinandola verso il piccolo bagno alle nostre spalle: allarme pipì.
 
Pochi minuti dopo ci siamo anche lavati il viso, non tanto per un impellente bisogno di sentirci puliti, quanto per schiarirci le idee, e ci stiamo avviando silenziosamente per il corridoio coperto da un lunghissimo tappeto soffice. È stata un’idea delle ragazze farlo mettere, e al nonnetto è costato un occhio della testa a causa della sua lunghezza e raffinatezza. Le donne dicevano di averlo messo per necessità, per evitare che di notte il legno scricchiolasse quando qualcuno andava in bagno, rischiando di svegliare gli altri. Ma ogni camera ha un piccolo bagno annesso, dotato di lavandino, bidet, water e doccia oppure vasca, per cui noi maschi ci siamo sempre chiesti che senso avesse avuto metterlo.
Capii il perché solo alcuni mesi dopo, quando Levy iniziò a sgattaiolare nella mia stanza con regolarità e tranquillità.
Le ragazze furbette non volevano evitare che qualcuno si svegliasse nelle notturne corse al bagno. No. Volevano evitare che qualcuno si svegliasse nelle notturne traversate verso le camere dei loro ragazzi.
Sorrido mentalmente a quel pensiero, ricordando come la guardavo imbambolato, l’aria impassibile e forse leggermente perplessa, quando lei apriva la porta che mi aveva casualmente costretto ad oliare perché non cigolasse. La richiudeva piano alle spalle, il corpo minuto avvolto da una leggera camicia da notte che la faceva sembrare ancora più bambina, dolce eppure sensuale con la sua aria intelligente e matura. Solo dopo aver tolto le mani dalla maniglia ed essersi aggrappata all’orlo della camicia da notte si arrischiava a guardarmi, mordendosi le labbra, in attesa di una risposta.
Le prime volte era arrivata mentre dormivo, svegliandomi a causa del mio sonno leggero. Io le grugnivo un permesso e lei si raggomitolava sulla parte opposta del letto rispetto a me, accarezzando Lily.
Poi avevo iniziato ad aspettarla sveglio, giornalino di meccanica in mano e gatto acciambellato in grembo. Sapevo quando stava per arrivare grazie alle orecchie di Lily, che si rizzavano. Lei entrava, arrossiva d’imbarazzo, e poi mi fissava mentre saliva lentamente sul letto, cercando di capire se c’era un rifiuto nei miei occhi.
Ancora adesso mi chiedo se fosse intenzionale la lentezza con cui saliva sul letto, quella velata innocenza che la faceva sembrare solo provocante, o se realmente avesse paura di un rifiuto.
Mentre questi piccoli ricordi mi tornano in mente e mi scaldano il cuore, noi abbiamo già sceso le scale, in silenzio, le mani intrecciate più per un bisogno di conforto che per un timore di essere separati.
Provo a concentrarmi sul presente, anzi, sul passato, per capire cos’è successo e cosa sta per accadere.
Ma non c’è bisogno che mi sforzi, perché fuori dalla porta d’entrata, spalancata sul mondo ombroso e nascosto dalla nebbia, sentiamo un certo trambusto.
Levy si tappa la bocca e io mi porto un dito alle labbra, chiedendole il silenzio. Lei annuisce e, lentamente, corriamo a destra, verso il portone di legno che conduce alla sala giochi. Io sarei andato a sinistra, verso la sala da pranzo e la cucina, ma quando mi giro e vedo la scia di sangue che passa sotto allo spiraglio della porta capisco perché non l’ho fatto. Nel presente non l’ho notata, quella macchia.
E, fortunatamente, nemmeno Levy l’ha vista, nel passato, quello di ora.
La spingo dentro alla porta con forse troppa rudezza, ma il sangue mi scorre nelle vene ad un ritmo forsennato e l’urgenza di metterla in salvo brucia come lava dentro di me.
La seguo e mi chiudo la porta alle spalle, poi le afferro il braccio e inizio a correre verso l’armeria.
Makarov ha voluto che ognuno di noi imparasse a combattere, da piccoli. C’è chi ha voluto farlo per passione e chi si è rifiutato, come Levy. Io e gli altri ragazzi ci siamo specializzati nel combattimento corpo a corpo, mentre alcuni, come Erza, sono diventati esperti nel maneggiamento delle armi.
Erza va sempre in giro con una spada al fianco, tanta è la sua dedizione.
- Mi fai male… - si lamenta debolmente Levy, e la mia mano lascia il suo braccio, accarezzandolo per chiedere scusa.
- Ora cosa…? – prova a chiedere lei, ma non riesce a concludere a frase che già le ho messo in mano una spada corta e leggera, adatta alle sue misure.
Lei rabbrividisce, ma stringe la presa sull’elsa e indurisce lo sguardo, annuendo. Io afferro una sciabola pesante e potente, adatta ai corpi di forza piuttosto che alla velocità, ma non riesco a prendere niente per la mano sinistra perché sento la porta della sala giochi aprirsi.
- C’è nessuno?! – grida una voce, che ci arriva ovattata dal fondo del lungo salone. A separarci c’è anche la porta dell’armeria, che abbiamo preventivamente chiuso.
- Erza… - mormora Levy, guardandomi speranzosa.
Io mi sento corrugare la fronte e annuire, secco. Lei si avvicina alla maniglia, per andare dalla sua amica, ma il mio braccio scatta a fermarla: qualcosa non va.
Erza e Gerard erano andati via due giorni, per dei campionati di scherma di Erza. Ecco perché ieri non c’erano. Ed ecco perché sono ancora vivi.
Mi torna in mente quello che Mirajane ha detto riguardo alla morte di Erza, e so che mi paralizzerei se fossi nel possesso del mio corpo: Gerard sta per…
- Attenta, Erza! – grida proprio Gerard, lontano da noi, lontano da tutti.
Erza urla e si sente il metallo di una spada tintinnare cristallinamente per terra, nonostante ci sia la moquette: deve aver urtato qualcosa.
Poi una risata che non ha nulla di umano, una risata malefica che ti penetra nelle ossa e nel cervello, supera muri, pavimenti, porte e carne, e ci arriva dritto al cuore. La voce distorta di Erza continua a ridere sinistramente mentre io e Levy sentiamo Gerard dire qualcosa che però non udiamo.
Poi Erza urla di trionfo, mentre Gerard la imita, ma urlando di dolore.
Questa volta, un tonfo che è indubbiamente quello che solo un corpo può produrre ci raggiunge e io mi rendo conto di cosa sta per succedere: ora è il mio turno di essere preso.
Levy sta tremando, la spada nelle sue mani ondeggia come se fosse fatta di gomma, e i suoi denti battono in modo incontrollabile. Vorrei urlare al mio me stesso del passato di guardarsi le spalle, di voltarsi e proteggere Erza e Levy, ma io sono solo uno spettatore, un cliente in un cinema scadente che è costretto a sorbirsi un film horror fino alla fine, conscio del male che si sta autoinfliggendo, consapevole del fatto che non può fare altrimenti.
Ora che so cosa aspettarmi, mi sembra di sentire la presenza dello spirito alle mie spalle, mentre allunga le mani sudicie e lorde di sangue verso di me…
Erza urla e io mi distraggo. È la sua voce, una voce così carica di dolore da appesantirti le membra, così disperata da costringerti a chinarti sotto al suo peso. Ma le mie gambe rimangono salde grazie all’adrenalina, i muscoli pronti a scattare.
Uno scalpiccio convulso si avvicina all’armeria, ed Erza sbatte con tutto il corpo contro il solido legno, prima di aprire la porta.
Ha il volto stravolto, anche se ancora non piange, e gli occhi sembrano scoppiarle, urlandole di lasciarli liberi di lacrimare, di svuotarsi di tutta quella desolazione.
Levy la fissa come se stesse guardando un fantasma, prima di aprire le braccia e sorreggerla, quando lei le cade praticamente addosso. La regge mentre singhiozza, ancora senza piangere, e io mi ritrovo a desiderare che svenga, che perda i sensi per un attimo per non rivivere l’irrealtà della morte di Gerard. Dal fianco le pende il fodero di una spada che sembra brillare di luce propria. Ha l’elsa blu con degli intarsi d’argento, che smorzano la sua aria letale dandole un tocco di eleganza.
Vengo distratto quando il mio corpo si irrigidisce e alla mia bocca sfugge un gemito, soffocato dai singulti di Erza, come se qualcuno mi avesse tirato un pugno tra le scapole. La schiena mi si inarca e sento i muscoli ribollire, lottare contro una volontà che non è la mia, prima di tendersi tanto da far male. Mi sembra di avere crampi in tutto il corpo, il sangue è viscoso come un frullato poco setacciato, mentre le mie gambe si muovo rigidamente e posizionano il mio corpo dietro Erza. Io chiudo gli occhi quando sento il braccio destro, quello che impugna la sciabola, alzarsi solennemente.
Ma io tutto questo, anche se privato della volontà e della coscienza, l’ho visto, l’ho vissuto, e rifiutarmi di vedere non serve, perché so lo stesso cosa succederà.
Sento la lama affondare nello stomaco di Erza e vedo gli occhi i Levy che mi guardano, spalancati e pieni di terrore.
Come Erza aveva riferito a Mirajane.
La miglior combattente di Fairy Tail, una della migliori persone che io abbia mai conosciuto, viene privata della sua vita dalla spada che sto impugnando, emettendo un verso strozzato. Sembra che stia soffocando. La mia mano le sfila la spada dal corpo appena prima che lei si accasci al suolo, mentre una spada lucente dall’impugnatura blu esce parzialmente dal fodero.
È davvero un miracolo se non ho sfiorato Levy.
Ma miracoli non ce ne sono stati due anni fa, solo maledizioni.
- Ga-Gajeel… - balbetta lei, ormai sotto shock, mentre arretra fino a sbattere contro il tavolo di cemento alle sue spalle. – Ti prego… - mi supplica, mentre le lacrime le rigano le gote e le entrano in bocca, bagnandole le labbra come fa la pioggia con i campi. – Torna in te. So che ci sei…
Io ci sono, sento gli arti ribellarsi quando la spada si alza di nuovo, ma il corpo non mi appartiene più e la mia debole resistenze è paragonabile a quella che oppone una foglia al vento: combattiamo contro nemici che non potremo mai battere.
Qualcosa però rallenta il fluido movimento della spada, e Levy riesce a scansarsi.
La spada si abbatte con forza contro il freddo cemento, e il colpo riverbera nel mio corpo come se fosse un gong.
Il rumore sordo e il cozzare dei materiali risveglia Levy dallo choc, che stringe i pungi e, respirando affannosamente, indurisce lo sguardo.
- So chi sei, anche se non so cosa vuoi – dice glacialmente, fissandomi.
Dalla bocca mi esce un suono rantolante, una risata macabra e del tutto priva di umorismo. Una risata vuota che risuona come l’eco di un pozzo.
- Puoi immaginarlo… - dico gracchiando. Probabilmente lo spirito è così abituato a non parlare da non poter controllare bene le voci di chi lo ospita.
La mia Levy coraggiosa lo fronteggia, e solo un lieve tremolio delle labbra rivela il suo terrore.
- Vendetta. Quello che acceca tutti gli uomini e non dà pace agli spiriti – risponde, fiera.
- Che ragazza intelligente. E carina. Potrei divertirmi con te, è da tanto che non tocco una donna, ma devo concludere questa cosa in fretta. Sarà una vera goduria ucciderti.
Lei sobbalza, ma lo noto solo io che la conosco meglio di me. - C’è un modo per ucciderti… - inizia a spiegare, prendendo tempo.
Non mi aspetto niente di meno da Levy, sempre sveglia e logica.
- E come? – ridacchio io, come il rumore delle unghie affilate contro una lavagna. – Non c’è riuscito nessuno dei tuoi amici, sicuramente più abili di te nel combattimento.
- Loro non sanno come si fa. Io sì. È da anni che studio qualsiasi cosa mi capiti sotto tiro, compresa la storia di questa cittadina e di questo bosco.
- Ah sì? Illuminami, allora.
- Devo uccidere il corpo che ti ospita – rivela lei, stentorea.
- Uh, ma brava – la schernisce la mia voce, così odiosa da sentire in questo momento. – Se sai così tante cose, puoi dirmi anche come mai è quasi impossibile riuscirci?
Lei alza il mento e gonfia il petto, le mani ben strette sulla spada che le ho dato prima. Io non sono morto nel presente, quindi lei non mi ha ucciso…
- Perché tu fai presto ad abbandonare il corpo all’ultimo momento. In questo modo il colpo raggiunge il corpo della persona a cui appartiene, uccidendola, mentre tu sei sempre libero.
Io applaudo. È strano sentire il mio essere mentre risponde al volere di qualcun altro. È rigido e fluido al tempo stesso, e mi viene la nausea nel constatare che siamo praticamente in tre in uno stesso corpo: il me del passato, il me di adesso, e questo psicopatico di cui non so nulla. – Brava la mia ragazza – dico sogghignando con cattiveria. – Allora ucciderai il tuo amato, solo per provare a levare di mezzo me?
- No – mormorò lei. – Ma posso ridurlo in fin di vita, costringendoti ad abbandonare il suo corpo, e poi medicarlo.
Il mostro non fa in tempo a ribattere che Levy si è già scagliata contro di me, con velocità impressionante. La spada mi colpisce al fianco, ledendo pelle, muscoli e carne, e il ricordo del dolore si fa largo dentro me bruciando come un marchio di fuoco.
- Perdonami, Gajeel… - bisbiglia prima di colpirmi il braccio.
Io urlo, urla lo spirito dentro di me, il clandestino colpevole di tutto questo. Le mosse di Levy sono precise e calcolate e, sebbene abbia la vista offuscata dalle lacrime, sa esattamente dove, come e quanto colpire per rendere le ferite pericolose, ma non mortali. In breve i miei abiti si inzuppano del mio sangue e sento che il mio corpo inizia a formicolare.
Ma non è colpa del sangue o del dolore, no. Sto rientrando in possesso di ciò che mi appartiene.
E questo significa che lui se ne sta andando.
- No! – urlo, io, mentre mi sento cadere all’indietro.
No! Resta dentro di me, bastardo, muori con me e lascia che ti porti nell’inferno in cui meriti di andare per avere ucciso tutti coloro a cui tenevo. Apprezzo Levy, perché io non sarei mai riuscito a colpirla, e avrei condannato altre persone ad altre morti. Lei invece ha preferito privarsi di me, vivere senza di me, piuttosto che permettere al mostro di andare in giro libero.
Non gliene faccio una colpa.
La amo ancora di più per la sua forza.
Però io sono vivo mentre lei è in un limbo, con il corpo vivo e la mente morta, o la mente viva e il corpo morto, e non so cosa sia successo.
Sto per scoprirlo, perché ora sono libero e l’aria davanti a me vibra della presenza dello spirito, che mi ha lasciato.
Ma non saprò mai la fine della mia storia, perché nel momento in cui Levy urla il mio nome e si sporge per afferrarmi io cado per terra e sbatto la testa, perdendo conoscenza.
Perdendo i ricordi.

 
~~~~~~~~~~○~~~~~~~~~~
 
Quando Gajeel riaprì gli occhi, lentamente, la prima cosa che mise a fuoco furono delle candide sopracciglia aggrottate.
Poi sentì il fantasma di una gelida mano accarezzargli la fronte, così si ritrasse.
- Scusami – mormorò Mirajane, scostandosi. Aveva di nuovo fatto uno sforzo per rendersi più tangibile, più fisica. Ma il contatto con i fantasmi, così innaturale, ripugnava sempre i vivi.
- Dov’è lei? – chiese Gajeel, una pressante urgenza nella voce.
- Levy? – domandò la ragazza, leggermente confusa.
- Sì – rispose lui, affannandosi per mettersi in piedi.
Era sdraiato per terra, così si puntellò sui gomiti per poi girarsi su un fianco. Faceva fatica a muoversi, come se la presenza che lo aveva posseduto due anni prima fosse tornata a fargli visita.
- Sempre qui… - rispose Mirajane flebilmente, alzandosi in piedi in un fruscio di gonna bordeaux, per osservare il corpo della sua amica, steso sul tavolo di pietra.
- No, io intendevo dire… io… dicevo… - farfugliò Gajeel, la lingua pesante e la testa che girava.
- Gajeel, per oggi è abbastanza. Dobbiamo portarti a letto.
- No, Levy… Levy…!
- Calmati! – esclamò Mirajane, preoccupata.
Ma il ragazzo continuava ad agitarsi farfugliando il nome di Levy, in preda ad una follia disperata.
L’ultima cosa che Gajeel udì prima di perdersi i sensi di nuovo fu la voce di Mirajane che si spegneva mentre chiamava gli altri, e la presenza eterea dei suoi amici accalcarsi vicino al suo corpo.
 
Quando si svegliò, di nuovo, Gajeel aveva un pulsante mal di testa e si sentiva gli occhi gonfi e asciutti.
Mirajane e Lucy erano sedute sulla sponda del letto, parlottando fra loro con aria preoccupata. Voltarono subito lo sguardo quando sentirono Gajeel grugnire.
- Cosa… - borbottò lui.
- Fermo! – gli intimò Lucy, tutto sommato dolcemente.
Lui non obbedì e Mirajane scattò in piedi, un lampo d’ira negli occhi. – Ti conviene stare fermo, Gajeel, non sto scherzando. Ti ricordi come sono quando mi arrabbio vero?
Quell’ammonimento così pacato, come una cantilena, era quasi più spaventoso delle urla disumane dei suoi compagni. E Gajeel ricordava bene, ora, perché Mirajane era conosciuta come La Diavolessa.
Suo malgrado, si ritrovò ad ubbidire, e si ridistese su… qualcosa di morbido.
- Dove so…?
Ma la domanda gli si bloccò in gola quando riconobbe i muri pieni di scaffali, l’armadio da cui sbucava fuori un lenzuolo e il letto sfatto su cui giaceva. Fuori era buio, e l’ambiente era illuminato solo da un candelabro posto sul comodino.
- In camera di Levy… in camera vostra. Mi dispiace tanto Gajeel, ma ora devi assolutamente riposare.
- Aspetta – bofonchiò lui, la bocca impastata.
Cosa gli stava succedendo?
- Senti, non stai bene. Non ti giova alla salute tutto questo. Ormai ho perso il conto delle volte in cui sei svenuto, farnetichi nel sonno, sei inquieto e hai preso decisamente freddo. Guardati! Sei ancora in tenuta da corsa, non hai mangiato niente da… questa mattina, o forse da ieri, e scoprire tutte queste cose non ti ha fatto bene. Dannazione, Gajeel, solo questa mattina non ricordavi chi eri e ora hai scoperto che tutto ciò che avevi è sparito in poche ore.
Gajeel grugnì, infastidito: - Lo avevo notato, non serve girare il dito nella piaga.
- Scusami… - disse Mirajane, affranta.
- Siamo tutti stanchi – mormorò Lucy. – Domani, Gajeel, ti mostreremo come riattivare il generatore per l’energia, e la caldaia. È quasi inverno e inizia a fare freddo qui. Ci dispiace che tu non possa lavarti, per questa sera, e che la luce disponibile sia solo questa. Anzi, ringraziando che ci siano le candele…
- Perché la casa, così imboscata, era soggetta a frequenti black-out che duravano anche tutto il giorno – concluse per lei Gajeel, ricordando quei particolari che sembravano appartenere ad un’altra vita.
Lucy sorrise. – Esatto. Probabilmente hai anche fame, ma penso tu sia troppo stanco per mangiare. E poi… il nostro frigo è vuoto da due anni. Non oso immaginare come sono ridotti gli avanzi di cibo che c’erano dentro – esclamò la ragazza, rendendosi conto solo ora che il mastodontico frigorifero che era rimasto chiuso due anni probabilmente aveva fatto la muffa come gli alimenti che ospitava.
Il ragazzo non faceva nemmeno caso alla fame, o al freddo che gli si era appiccicato addosso come il sudore. Era così tanco da non poter riordinare nemmeno i pensieri, che sembravano coriandoli di carta che turbinavano nella sua testa.
- Le coperte sono vecchie, però dovrebbero tenerti al caldo – lo informò Mirajane indicando le lenzuola sparse per la camera.
Gajeel allungò una mano, in attesa di ricevere le coperte, prima di rendersi conto che doveva afferrarle da sé. Si agitò sul letto come un ubriaco e poi si sporse per recuperare la stoffa ancora morbida, sebbene non più profumata come un tempo.
- Avremo tempo domani per parlare – disse Mirajane, intuendo i suoi tormenti.
Poi fece un cenno a Lucy, che soffiò sulla candela, riuscendo a spegnerla solo dopo un titanico sforzo: Mirajane ne aveva avute abbastanza per quel giorno.
Gajeel percepì le loro presenze allontanarsi, e sobbalzò quando sentì il materasso ondeggiare impercettibilmente sotto al peso di quattro zampette felpate.
Lily miagolò piano e si accoccolò vicino a Gajeel, che capì che quella era una loro vecchia abitudine nel momento in cui si girò e passò un braccio accanto al suo gatto, con naturalezza.
Lui poteva essere nel casino più totale, ma il suo corpo non dimenticava.
 
Un dispettoso raggio di luce penetrò dalla finestra la mattina successiva, e decise di appoggiarsi proprio sugli occhi di Gajeel, che si dimenò con irritazione.
Ma non bastava la luce. No, ovviamente.
Qualcosa di morbido e leggero come una piuma gli solleticava il volto, e lui arricciò il naso come se avesse sentito un odore sgradevole. Fu lo sbuffo di una risata a fargli riprendere coscienza, cacciando via il sonno come una manciata di polvere al vento.
Gli occhi, ora spalancati, si fissarono su due calde iridi castane, che sembravano ancora più calde nella luce del mattino. Un’aureola di soffice azzurro circondava l’intenso color nocciola, e Gajeel boccheggiò, esterrefatto.
- Levy…
- Buongiorno, dormiglione – sussurrò lei dandogli un bacio sul naso.
- Ma cosa…?
- Cosa ci faccio qui? Mah, niente… sai, è anche camera mia, questa – rivelò ammiccando, prima di sedersi a cavalcioni su di lui.
Non sembrava trasparente, non era un miraggio. Era Levy.
La sua Levy.
Che ridacchiava sommessamente di fronte alla sua confusione.
- Cosa c’è? – chiese, giocando con una ciocca dei suoi capelli arruffati dalla frenesia del giorno prima.
- N-niente... – balbettò lui. – Solo… cosa fai qui? Come puoi essere qui? Tu eri…
Sporca e incosciente e aveva il cuore trafitto. L’aveva vista poche ore prima e non era così in forma, proprio per niente.
Sul suo vestito, inoltre, mancavano il sangue e il taglio lì dove la spada era penetrata nella carne.
- Sei un fantasma?
- No! – rispose lei, inorridendo. – Non sai nemmeno distinguere fantasmi e umani?
- Ma…
Gajeel continuava ad annaspare alla ricerca delle domande che si era posto. Ne aveva così tante, com’era possibile che non le ricordasse più?
- Aspetta – farneticò, lasciando ricadere la testa sul cuscino e stropicciandosi la faccia con le mani.
Levy era moribonda solo il giorno prima, era un miracolo che respirasse. Ma sapere come aveva fatto a guarire in una notte non era la questione più urgente.
- Sei sopravvissuta.
- Sì, ovvio. Mi vedi, no? – rispose lei con un sorriso, chinandosi per posare la testa lì dove batteva il cuore forte di Gajeel.
- Ma Mirajane…
Levy sbuffò, alzando la testa di scatto. – Non ci vediamo da due anni e tu vuoi parlare? Sei cambiato, Gajeel.
- Ma io non posso credere che tu sia… reale! – sbottò lui afferrandole le braccia e stringendogliele, come a sincerarsi della sua fisicità.
-Vuoi una prova?
- Sì! No… Cioè, è tutto un casino e io…
Ma non poté concludere la frase che Levy posò le sue labbra sulle sue, premendo con forza, come a scacciare via tutte le inquietudini del ragazzo con quel contatto.
E sembrò funzionare, davvero, perché Gajeel si rilassò e gemette schiudendo le labbra, stringendo a sé Levy come non faceva da troppo tempo e come non avrebbe mai creduto di voler fare.
Il giorno prima non aveva legami e ora si ritrovava a scoprire un sentimento così travolgente da essere incontenibile e spaventoso.
Gajeel ribaltò le loro posizioni e si appoggiò sui gomiti mentre Levy gli stringeva il collo con le braccia, restia a lasciare la sua bocca anche solo per riprendere fiato.
Dopo un periodo che parve interminabile, si staccarono, le fronti a contatto, i respiri accelerati che si mescolavano come se fossero uno solo, gli occhi chiusi per non pensare.
- Mi sei mancata, Levy – bisbigliò lui poco dopo, colto dall’irrefrenabile desiderio di dirglielo, così nuovo per lui.
Piegò la testa per baciarle dolcemente il collo, nascondendo il viso tra la sua morbida pelle. Poi si risollevò per lasciarle una scia di baci anche sulla mascella e sulle guance, dove si fermò: Levy stava piangendo, e il sapore salato sulle labbra del ragazzo ne era la prova.
- Levy, cosa…? – provò a chiedere.
Ma lei non lo guardava, fissava un punto indefinito fuori dalla finestra. Gajeel la vide cambiare sotto ai suoi occhi, mentre la sua pelle impallidiva e gli occhi perdevano la scintilla che li caratterizzavano, mentre dimagriva in un battito di ciglia.
- Non farti ingannare – mormorò flebilmente, la voce triste e stanca, affaticata. - Scopri la verità e liberami, Amore. Devi ricordare cosa è successo dopo, dopo che sei svenuto. Fallo per me.
- Levy…
Ma i colori si spensero e il mondo vorticò, portandosi via l’eco di quella voce che Gajeel voleva tanto ascoltare ancora.
 
Gajeel si svegliò urlando, portando una mano al cuore, cercando di calmare il respiro. Era ancora notte, a giudicare dal buio che si accalcava fuori dalla finestra, in attesa di entrare.
Era stato solo un sogno.
Un sogno tremendamente dolce e realistico, e questo poteva significare solo una cosa: che aveva un fondamento di realtà.
Probabilmente lui e Levy si erano svegliati più di una volta in quel modo, tra sussurri assonnati e labbra sfiorate. Sicuramente era il modo migliore di iniziare la giornata.
Gli ultimi baluardi della sua fervida immaginazione iniziarono però a spegnersi immediatamente, come accade sempre. Ricordiamo vividamente i sogni fatti nel momento in cui ci svegliamo, ma dopo poco ci sembra che tutto sfugga e non riusciamo più a visualizzare nulla.
E questo non andava bene, perché finché Gajeel poteva evocare nitidamente le labbra di Levy sulle sue poteva evitare di pensare a tutto quello che era successo solo il giorno prima. La testa gli pulsava di un male latente e sopito, pronto però a balzare fuori come un leone che ruggisce contro la preda di turno.
Dormire di nuovo era impossibile, così fece l’unica cosa che gli avrebbe permesso di distrarsi: correre fino a casa.
Nel silenzio innaturale della notte, uscì piano da camera sua e attraversò con circospezione il corridoio, assicurandosi di non avere fantasmi intorno e ringraziando mentalmente le ragazze che avevano voluto far mettere per terra quel lunghissimo tappeto. Nemmeno un orecchio allenato come il suo avrebbe potuto captare alcuno scricchiolio del parquet.
Appena mise un piede fuori dalla porta, Gajeel sfrecciò via, senza riscaldamento, senza stretching, senza un’idea precisa in mente.
Doveva solo correre per scaricare la tensione.



MaxB: con questo capitolo finiscono le morti e le robe violente! Largo al fluff!
UAAAAAH.
L'urlo è per il capitolo. Non sono mai stata così felice in tutta la mia vita, mai. Penso di aver scoperto come ci si sente quando si è innamorati, con il cuore che scoppia e la necessità di ridere e sorridere. Mio fratello si è seriamente preso paura.
Ma non faccio spoiler, dunque devo calmarmi (ahahahah seh certo).
Allora, nell'80% delle recensioni mi avete nominato Dante. Ahahahahahahahaah sono morta, seriamente. Io non ho mai trovato nemmeno una corrispondenza, ma va be'. Dante è famoso xD Oltre a Dante avete nominato gli svenimenti continui.
Be', mi ero dimenticata che ce n'erano così tanti AHAHAHAH.
Annuncio solennemente che Gajeel ha smesso di svenire! Chiudo il televoto!
No non c'entra.
Va be', ringrazio di cuore la mia Beta-Ebi-Pannocchia-Beatriz, che ascolta i miei audio-scleri da 6, dico 6 minuti (io ODIO gli audio ahahahah, letteralmente).
E ringrazio anche C63 alla quale devo ancora chiedere il nome, ma che nonostante questo dettaglio non si è ancora stufata di rispondere ai miei messaggi su Tumblr (probabilmente si è stufata però è gentile ed educata e mi risponde ahahah). Grazie C63 per il supporto agli scleri, sei fantastica!
Per evitare che i miei deliri diventino più lunghi dei capitoli, adieu!
MaxB

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***



Capitolo 5
Lottare, nudi, con l'aria... i passatempi di un non-fantasma


 
Mano a mano che si avvicinava a casa, la mente di Gajeel si schiariva e i muscoli si appesantivano. A giudicare dal buio notturno, erano circa le quattro di mattina, perché il cielo non era più scuro come a mezzanotte, ma non era nemmeno chiaro come nelle ore subito precedenti l’alba. Gajeel sapeva che il giorno prima sarebbe dovuto andare al lavoro, e che se il suo capo non lo avesse licenziato sarebbe stato solo per proprio tornaconto personale, perché in quella cittadina sperduta nessuno era qualificato come cuoco.
Come un’ombra, Gajeel aprì la porta di casa usando il mazzo di chiavi che aveva nascosto in giardino, ed entrò senza nemmeno accendere la luce per paura di svegliare qualcuno dei vicini. Conosceva bene l’ambiente, dopo due annetti, e orientarsi al buio non era difficile. Si diresse in camera con il passo felpato di un gatto e aprì l’armadio, distinguendo i contorni del suo interno una volta che gli occhi si furono abituati al buio. Afferrò un borsone capiente e ci infilò dentro della biancheria, qualche paio di pantaloni, felpe, canotte e camicie e due paia di stivali, ovviamente coperti da un sacchetto.
Mise la borsa di fianco alla porta e si diresse in bagno per prendere cose indispensabili come spazzolino e dentifricio, creme per corpo e capelli e la spazzola, di cui i suoi capelli avevano un disperato bisogno.
Fece scalo in cucina, complimentandosi con se stesso per aver fatto una mega spesa solo due giorni prima, per cui riempì tre borse grandi e una borsa-frigo che depositò davanti alla porta.
Osservò con occhio critico ciò che aveva preso, rendendosi conto che, senza macchina, avrebbe dovuto fare un bel po’ di strada… a piedi… con quattro borse più una sacca e un beauty.
Sbuffando mise il beauty da bagno dentro alla sacca dei vestiti, e se la caricò in spalla. Portò la spesa fuori dalla porta e solo all’ultimo si ricordò che potevano servirgli anche posate, piatti e tovaglioli.  Ma dove li avrebbe messi, in bocca?
Prese giusto un pacco da dieci confezioni di fazzoletti e tre rotoli di carta igienica che buttò negli angoli vuoti delle borse, insieme ad un rotolo di scottex, prima di chiudersi la porta alle spalle e avviarsi nella fredda e buia mattina con due sporte per mano e una gobba enorme sulla schiena.
Aveva bisogno di stare in quel bosco maledetto il più possibile, se sperava di riottenere completamente i ricordi del suo passato.
E pregava che ne valesse la pena, vista la fatica che stava facendo con quelle maledette borse!
 
- Gajeel! – esclamò una voce familiare, inducendo il ragazzo a girarsi.
Il richiamo troncò l’imprecazione che stava già sfuggendo alle sue labbra, veloce e piena di astio: camminare in quel maledetto bosco con venti chili più del normale addosso, con il buio che ti acceca come il sole di mezzogiorno e il suolo fangoso e appiccicoso che ti schizza tutte le gambe e ti ruba le scarpe… è da imprecazione a nastro.
- Visto che tornava? – disse Kana, un punta di orgoglio nella voce.
Ma non era stata lei a chiamarlo.
Lucy le camminava accanto, fasciata nel vestito ottocentesco, capelli acconciati e scarpette eleganti che non incontravano alcuna difficoltà nell’attraversare quel bosco impervio. Al contrario di Gajeel. La preoccupazione era ancora evidente sul suo viso. Era stata lei ad attirare la sua attenzione.
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia. – Kana perché sei in reggiseno e gonna?
L’effetto era a dir poco ridicolo.
La ragazza scosse le spalle, e Gajeel si rese conto che la cosa più strana non era il suo abbigliamento, ma la mancanza di una bottiglia a portata di mano. Kana era la più grande bevitrice di Fairy Tail, così tanto che nemmeno i maschi si azzardavano a competere con lei.
- Stavo litigando con Lucy quando lei mi ha pugnalata, due anni fa – rispose tranquillamente.
- Non era un litigio! – si schermì Lucy, risentita. – Dovevo solo convincerti a mettere anche il corpetto del vestito. Ti eri impuntata e non volevi più vestirti! E comunque è un costume Gajeel, non un reggiseno.
Questa volta fu il turno di Gajeel di scrollare le spalle, poco interessato: reggiseno o costume, non cambiava nulla. Era il solito modo di vestire di Kana, e lui non ci aveva mai fatto caso. Lui era interessato alle forme di un’altra ragazza…
- Comunque – esordì Lucy, distogliendolo dai suoi filmini mentali – Mirajane è preoccupatissima. Dovremmo chiamarla, ma si è dileguata da quando ha visto che non eri più in camera tua.
Gajeel non sapeva cosa dire. Erano… preoccupate per lui? Si sentì in dovere di giustificarsi, ma non sapeva cosa dire e dall’agitazione iniziò a grattarsi la massa di capelli così folta, sudata e annodata da sembrare un nido di rondini. – Sono andato a casa a fare… cioè, a prendere il necessario per stare qui… un po’. Così non devo andare sempre via.
- Visto?! – urlò Kana, saltellando sul posto. – Sono un genio. Voi vi preoccupate troppo. Hai portato l’alcol?
Gli occhi le si illuminarono e lei si bloccò, fissando Gajeel come se fosse un’invitante bottiglia di champagne da sei litri. Lui era leggermente spaventato.
- Non puoi bere, Kana! – le rammentò Lucy con un sospiro.
- Se mi impegno posso berne un goccetto. Non desidero altro.
- Ma cosa stai dicendo?! No che non puoi, vai a cercare Mirajane.
Sbuffando e brontolando a mezza voce, Kana si allontanò, l’ampia gonna che le ondeggiava attorno alle caviglie e le schiena nuda, attraversata solo dal cordino del bikini.
- Devo ammettere che non credevo che saresti tornato – ammise Lucy, fissandolo con serietà.
Gajeel grugnì qualcosa, prima di rispondere: - Pensavi che avessi paura?
- No – rispose lei sorridendo. – Altrimenti avrei dovuto dirlo a Natsu, che non ti avrebbe più lasciato stare per il resto dei tuoi giorni. Hai visto Levy, ieri?
- Già – ammise Gajeel, il tono di voce decisamente mente brusco.
- Per questo sei rimasto?
Il ragazzo ci pensò un po’ su, prima di sistemarsi meglio le borse tra le mani, ignorando i segni rossi tra le dita. – Per questo, e perché ho bisogno di sapere tutto.
- Pensavo che te ne fossi andato proprio per questi motivi.
- Non sono un codardo.
Lucy sorrise con affetto. – No, non lo sei – bisbigliò. – Vieni in casa, pesano quelle borse.
Gajeel la seguì in silenzio nel bosco, ringraziando la tenue luce dell’alba che gli permetteva di vedere per lo meno dov’erano le buche. Non aveva praticamente dormito quella notte.
Lucy entrò dalla porta-finestra che dalla cucina dava sull’orto ormai secco e infestato di erbacce, ma prima che Gajeel potesse seguirla un altro fantasma attraversò la porta e gli andò in contro. O meglio, due fantasmi, entrambi terribili: Erza e Mirajane.
- Eccoti. La prossima volta avverti quando te ne vai, va bene? – lo rimproverò la prima mentre la seconda, sollevata, gridava: - Gajeel, finalmente!
- Fatemi entrare, prima – le interruppe malamente il ragazzo prima di avviarsi verso la porta… e sbatterci contro.
- Accidenti – borbottò, lasciando cadere le borse e massaggiandosi naso e fronte. Quando alzò lo sguardo vide che Erza e Mira lo stavano fissando come se avesse due teste, con un paio di boxer infilato su entrambe. – Non fate quelle facce – ringhiò. – A stare con gente che passa attraverso le porte ci si confonde.
Poi aprì la porta e, afferrata la spesa, scappò dentro senza degnare di un’occhiata le ragazze, che continuavano a fissarlo sbigottite.
Poco dopo, comunque, attraversarono la porta chiusa e Gajeel sobbalzò: poteva anche dimenticarsi della sua consistenza materiale, ma vedere altri passare letteralmente in mezzo alle cose restava inquietante.
- Dove sei stato? – lo assalì Mirajane, pacata anche quando era alterata.
- A depredare casa mia per stare qui un po’ – rispose laconicamente prima di aprire il frigo… e richiuderlo con aria schifata. – Per caso qualcuno è stato ucciso dentro al frigo? Magari Droy?
Dall’enorme elettrodomestico che assomigliava più ad un armadio che ad un frigo usciva una puzza di muffa e marcio tale da far venire la nausea anche ai cani. Gajeel ebbe un conato sebbene non mangiasse da un giorno intero.
- Ti ho detto che siamo stati carenti di pulizie – si scusò Mirajane.
- Gajeel vieni con me ad accendere la caldaia – lo richiamò Erza.
- Ma non l’avevate fatto te e Gerard? – domandò il ragazzo una volta che ebbe preso un respiro piccolo, per precauzione, nel caso in cui l’aria fosse stata ancora contaminata.
- Sì, circa. Troppo complicato per dei fantasmi. Devi fare tu, ma io ti posso guidare.
- Troppo difficile… o troppo impegnati con altro? – borbottò lui, a voce troppo bassa per essere sentito.
Sbuffando seguì Erza nel giardino incolto e rinsecchito, calpestando foglie secche e morte mentre Erza veleggiava verso il lato destro della villa.
- Qui c’è la centralina elettrica, il contatore del gas e la chiusura dell’acqua che, come hai visto ieri, non è mai stata chiusa. Invece quella dell’elettricità siamo riusciti a serrarla, sebbene a fatica. Per cui siamo rimasti per due anni senza caldaia, senza gas e senza luci e corrente. Non che ci sia mancato, purtroppo. Che ci sia la neve o il sole, il vento o la pioggia o una tempesta di sabbia, noi stiamo bene, vestiti così.
- Grazie mille Erza, ma, sai, io sono fatto di pelle, carne e sangue, non aria o qualsiasi cosa ti permetta di… apparire qui davanti a me. E in questo momento io ho bisogno di una doccia, di schiacciare un pisolino, di mangiare, santo cielo!, e di vedere al buio invece di girare con le candele in mano! – sbraitò Gajeel, cercando comunque di non essere troppo impulsivo e irrispettoso. Con Erza non si poteva mai sapere cosa sarebbe accaduto.
Poteva resuscitare solo per dargli un pugno degno di questo nome.
- E io cosa ti sto dicendo, secondo te? – sibilò lei, i capelli che si muovevano come tentacoli nonostante lei non fosse soggetta ai cambiamenti metereologici. La cosa era sempre preoccupante. – Sono qua per mostrarti come fare a riattivare tutto. Per le pulizie però ti arrangi.
- Tsk – borbottò Gajeel, avvicinandosi per cercare di capire cosa doveva premere in modo da far diventare quel fatiscente rudere una vera e propria casa. Per fortuna le finestre non erano rotte e il tetto non aveva buchi. Tutto sommato non poteva lamentarsi.
Stato di pulizia generale a parte, ovviamente. Tra il fango che aveva portato all’interno con le scarpe da ginnastica e i centimetri di polvere dovuti all’incuria, c’era più pavimento fatto di sporcizia che di marmo.
Diversi minuti dopo, in seguito all’idea di Gajeel di prendere una torcia previdentemente portata, lui ed Erza riuscirono a riportare luce in casa. Nel momento in cui premettero l’interruttore diverse luci lasciate accese due anni prima tornarono pigramente a svolgere il loro lavoro, e Gajeel scappò in casa per mettere qualcosa sotto i denti: dopo un giorno di digiuno non si sarebbe accontentato di un panino.
Accese il gas e iniziò a prepararsi una colazione sontuosa che avrebbe potuto sfamare tre persone. Il ragazzo intanto ascoltava le chiacchiere di Mirajane ed Erza, sedute sul tavolo per qualche strano motivo che impediva loro di attraversarlo. Nessuna delle due si azzardava a dargli consigli culinari, perché era un cuoco e sapevano bene cosa succedeva a chi metteva bocca nei suoi piatti. Lo avevano imparato a loro spese.
Poi Gajeel riaprì erroneamente il frigo, venendo travolto da un conato di vomito.
- Dobbiamo davvero pulirlo… - mormorò Mirajane, dispiaciuta.
- Dobbiamo? Davvero? – ribatté sarcasticamente Gajeel, annusando ciò che stava cucinando per rifarsi il naso.
- Ci dispiace non poterti aiutare Gajeel, veramente.
Il ragazzo mangiò con appetito, e tanta era la fame che non fece nemmeno caso ai due paia di occhi puntati su di lui. Era decisamente meno inquietante di ciò che aveva vissuto fino a quel giorno.
Posate e stoviglie c’erano in abbondanza, dato il gran numero di abitanti della casa, e Gajeel le pulì a fondo con il detersivo prima di mangiare. Solo un altro punto da aggiungere alla lista delle cose da pulire.
Era ormai l’alba quando depose i piatti lavati sul bancone, per non confonderli con quelli ancora da lavare.
- Cosa vuoi fare ora, Gajeel? – indagò Mirajane. – Stai meglio oggi?
- Non ho più mal di testa, ma risponderò alla domanda solo dopo una doccia ed eventualmente una dormitina.
Erza annuì, d’accordo. – Allora io intanto vado da Gerard. Chiamatemi se avete bisogno.
Furtiva come un gatto, Erza si allontanò con leggiadria mentre la gonna blu, la sua preferita, il suo portafortuna nelle competizioni, ondeggiava leggera.
- Vuoi che resti qui? Magari posso rispondere a qualche domanda, o mostrarti altre parti della casa se non le ricordi – si offrì Mira.
- No – borbottò Gajeel recuperando la borsa con i vestiti. – Vado in camera mia a lavarmi, ti chiamerò dopo, quando farò il bucato, dato che non ricordo dov’è la lavanderia. E assisterai quando pulirò il marciume di quel frigo scalcagnato.
Mirajane ridacchiò, ma gli occhi erano tristi. – Vorrei tanto fare di più, Gajeel.
Quella vista lo mise a disagio: lei era sempre stata allegra, sempre sorridente, la barista della casa, che aveva tutto sotto controllo. L’abbattimento non faceva parte del DNA di Mirajane Strauss.
- Vuoi fare qualcosa per me?
Lei lo osservò, incuriosita e interessata: - Certo.
- Vai da Laxus. Sbaglio o qualcuno vi ha beccati nelle piscine alle due di notte?
Mirajane arrossì e si alzò immediatamente, arretrando. – Se hai bisogno chiamami – si congedò, rossa come un pomodoro nonostante sotto quella pelle inconsistente non scorresse nemmeno una goccia di sangue.
Gajeel ridacchiò leggermente quando fu rimasto solo, e si ricordò che la casa era anche dotata di una piscina bollente, con ai lati i bagni comuni maschili e femminili. Chissà se erano pulite e se si sarebbero riscaldate automaticamente grazie all’elettricità che azionava il termostato.
- Bah – borbottò fra sé e sé, dirigendosi in camera da letto.
Sul letto sfatto e decisamente poco pulito stava appollaiato Lily, in posa da sfinge, che miagolò contento quando lo vide.
- Ehi, gatto. Facciamo il letto?
Pantherlily miagolò di nuovo, quel suono roco che toglieva ogni dubbio riguardo alla sessualità di quel felino, e saltò giù dal materasso.
- No, eh? Ingrato.
Lily soffiò indispettito, facendo ridere Gajeel.
- Sai cosa ti dico, compare? Che ti meriti una punizione.
Detto ciò, tirò le coperte che erano rimaste sul letto e le appallottolò, tirandole sul gatto. Sommerso dal peso di tutta quella buia stoffa, Lily iniziò a ringhiare e miagolare in tono decisamente poco gentile e rassicurante, mentre Gajeel prendeva le lenzuola che aveva portato da casa e le stendeva sul letto.
Infilò tutti gli angoli sotto ai bordi del materasso, ma non fece in tempo a finire che il musetto infuriato di Lily gli si parò davanti, sul letto. Il gatto soffiò.
- Eddai, Lily! Scherzavo. Tu non mi aiuti a fare il letto! – esclamò Gajeel dando poi delle piccole pacche affettuose sulla testa del gatto, che si calmò e si lasciò coccolare. Circa.
Quelle attenzioni gli mancavano da due anni, e lui avrebbe riconosciuto il suo padrone ovunque.
Quando il letto fu finito, Gajeel si stiracchiò e si spogliò, ammonticchiando vestiti e coperte in un angolo della camera. Poi si chinò sotto il letto e starnutì per la vicinanza con la polvere, recuperando una coperta che da gialla era diventata grigia. E puzzolente.
- Lily – chiamò, disgustato, mentre il gatto rizzava le orecchie al suono del suo nome – qui qualcuno ha fatto pipì, direi! Accidenti. Hai un bosco a tua disposizione e la fai sulle coperte?
Gajeel si rese conto solo in quel momento di essere impegnato in una conversazione con un gatto. Lily, certo, il suo gatto, ma pur sempre un gatto.
Si passò una mano sul viso, esasperato, e quando la lasciò cadere vide entrare in camera un altro gatto, blu.
- Happy?! Ma sei ancora di quel colore? Com’è possibile?
Il gatto di Natsu si divertiva a buttarsi dentro ai secchi di vernice, ma quel colore blu apparteneva ad una scorribanda di due anni prima!
- Non lo so nemmeno io – rispose Natsu al posto suo, attraversando il muro per poi sedersi al centro del letto.
- Giù dalle coperte, Salamander! Mi insozzi tutto!
- Oh certo. Il fango fantasma e il sudore fantasma sporcano proprio ogni cosa – lo derise il suddetto Salamander. Natsu si era conquistato quel nome dopo aver catturato una rarissima salamandra dei boschi. Ovviamente era stata Levy a dire a tutti che non era un rettile comune.
- Fuori da camera mia! – sbraitò Gajeel, nudo in mezzo alla stanza.
- Testa bruciata! – gridò qualcuno dal corridoio. Gray entrò dalla porta aperta, se per abitudine o per cortesia nessuno avrebbe potuto dirlo. – Perché scappi dal combattimento? Sei un codardo!
- A chi hai dato del codardo, ghiacciolo?
- Via da qui! O vi lancio addosso la coperta con la pipì di gatto! – si infuriò Gajeel.
- Pipì di Happy, non mi cambia nulla – rivelò Natsu mentre Gray si buttava sul letto per tirargli un pugno.
Gajeel mollò la coperta con aria schifata, e con un ringhio animale si gettò sul materasso, colpendo solo l’aria mentre i due se le davano di santa ragione.
- Sono stufo dei fantasmi! – urlò, esasperato. – Maledetti!
Un secondo dopo Erza apparve nella stanza come una erinni, i capelli rossi che sembrava un’aureola di sangue attorno al viso chiaro. – Lasciatelo stare – sibilò afferrando Gray per un braccio e Natsu per l’altro. – O devo ricorrere alle maniere forti?
I due ragazzi si guardarono e deglutirono a vuoto, prima di darsi amichevoli pacche sulla schiena.
– Lasciamo che Gajeel si lavi, che bello! – cantilenò uno.
- Andiamo a fare anche noi il bagno, amico mio – rispose l’altro, pizzicando il compagni di nascosto.
Un calcio arrivò in risposta, ed Erza li buttò fuori dalla camera senza nemmeno rendersi conto che Gajeel era nudo come un neonato.
Happy e Lily lo fissavano placidamente, come se nulla fosse successo.
- Voi non li vedete, vero? – chiese retoricamente lui, alzandosi per andare in bagno. – Li percepite, ma non li vedete. Che gran botta di fortuna.
Il ragazzo sparì in bagno e aprì il rubinetto dell’acqua calda, aspettando con poca pazienza che il fango venisse sciacquato via dalle tubature vecchie e poco usate.
- E fate pipì fuori! – gridò all’indirizzo dei gatti prima di lasciarsi portare via dal vapore dell’acqua.
 
Quasi un’ora dopo, Gajeel poté dire di essere rinato: lavato e profumato, con i capelli che non erano più aggrovigliati e vestiti puliti addosso, era pronto per fare tutto ciò che avrebbe dovuto fare. Qualsiasi cosa fosse.
Lui stesso però non sapeva che cosa sarebbe successo. Metabolizzare tutto era davvero, davvero difficile.
Qualsiasi idea avesse ideato, comunque, che fosse la pulizia di fondo della casa o un interrogatorio a Makarov, cadde come un castello di carte nel momento in cui uscì dal bagno e trovò Levy seduta sul letto, che lo fissava con un’espressione indecifrabile. Sembrava felice e stanca, triste ed entusiasta.
- Cos…?
- Di solito esci dal bagno con l’asciugamano attorno alla vita e basta. O direttamente nudo. A cosa devo il decoro? – chiese, mentre la sua voce pacata e dolce faceva pompare il cuore di Gajeel al ritmo delle ali di un colibrì.
- Non esiste privacy quando la gente può attraversare i muri – rispose bruscamente lui quando si fu ripreso, cioè parecchi, parecchi istanti dopo.
Levy ridacchiò. – Sono quasi dispiaciuta.
Poi lo fissò con espressione più seria, facendogli capire che stava per dirgli qualcosa di importante. – Bentornato a casa.
Una forza misteriosa guidò il ragazzo, che si trovò sul letto a quattro zampe, sempre più vicino a Levy, semiseduta con le gambe distese. – Ora la smetterai di tormentarmi in sogno, spero – mormorò Gajeel, che si teneva comunque a debita distanza da lei. Non sapeva ancora se poteva toccarla o se l’avrebbe solo attraversata, e aveva paura. Tanta.
- In sogno? – chiese lei, confusa.
- Sì. Sei tu che mi appari volontariamente in sogno, vero? Mi hai condotto qui.
Levy sembrava smarrita, ma dopo un po’ scosse la testa e annuì. – Sì…
Entrambi si bloccarono, senza capire cosa sarebbe stato giusto dire e cos’avrebbero dovuto fare, finché Levy ruppe la tensione. – Mi sei mancato – bisbigliò, le mani intente a torturare la gonna come le volte in cui si infiltrava in camera sua e aveva paura di un rifiuto.
Gajeel prese un respiro profondo, godendosi quella quiete che era scesa su di lui come un piumone soffice e caldo in pieno inverno. – Pure tu, piccola, anche se non lo sapevo – rispose a mezza voce.
Era più facile fare quella confessione quando la voce era bassa, quasi onirica, come se non provenisse da lui.
Decisamente più diretta fu, invece, la domanda successiva: - Posso… posso baciarti?
Levy arrossì, facendo tornare in mente a Gajeel un sacco di piccoli ricordi, tutti legati alle sue morbidissime guance, quelle che adorava accarezzare con le labbra nei rari momenti in cui si concedeva un po’ di tenerezza, al sicuro nel letto, abbracciato stretto a lei. Due giorni prima avrebbe riso di gusto se qualcuno gli avesse detto che provava qualcosa di “sdolcinato” nei confronti di qualcuno. E invece, senza nemmeno aver recuperato tutti i ricordi, sentiva che sarebbe stato morto senza Levy. Morto dentro.
Aveva iniziato a vivere quando aveva capito di amarla.
- Non penso si possa fare, Gajeel – bisbigliò Levy, riportandolo alla realtà.
- Come scusa? – chiese lui, disorientato.
La ragazza sorrise tristemente, e guardandolo bene negli occhi allungò una mano. Gajeel vide con la coda dell’occhio i suoi contorni avvicinarsi alla pelle, ma non sentì nulla.
- No… no no no NO! – ruggì, furioso. – Perché, perché pure a te?!
Levy non si fece intimorire da quello scatto di esasperata rabbia, e restò ferma al suo posto intrecciando le mani, distogliendo lo sguardo. Gajeel si era raddrizzato ed ora se ne stava seduto sul letto, rigido come una statua, la testa tra le mani. – Perché anche tu? – mormorò ancora, la voce così priva di inflessioni da sembrare morta.
- Perché così ti ho salvato – rispose Levy, poggiando una mano sulle sue, come se davvero avesse potuto toccarlo.
Gajeel sobbalzò e si tolse le mani dal viso, provando ad afferrare quella di Levy. – Un momento – farfugliò ripetendo il gesto.
- Che stai facendo? – chiese lei, perplessa, mentre il ragazzo continuava ad attraversare le sue dita, come se si divertisse.
- La sento!
- Senti cosa?
- La tua mano! – rispose lui, sconvolto.
- Impossibile. È impossibile, Gajeel. Io sono un fantasma.
- Ti dico che la sento. È una sensazione strana, non so come spiegarla. Quando attraverso Natsu o Gray o Mirajane non lo percepisco, ed è inquietante perché, cavolo, fa accapponare la pelle, ma è solo aria. Invece tu sei più… densa. Sembra aria gelatinosa, non so se mi spiego.
Levy lo guardò con tanto d’occhi. – Senti una consistenza diversa?
- Esatto! Una via di mezzo tra lo scontrarsi con la carne di una persona e il passare attraverso l’aria. Una specie di campo. Ma è lieve.
- Sei sicuro di quello che stai dicendo? – lo interrogò Levy, elettrizzata, sedendosi come lui sul letto, portando una mano… be’, dentro la sua.
- Sì, la sento! – urlò lui, e se Levy non l’avesse conosciuto meglio di se stessa avrebbe potuto confondere quelle esclamazioni tonanti per irritazione, invece che per euforia. La gamma di dimostrazione delle emozioni di Gajeel non era molto ampia.
Tutta quell’attività paranormale doveva avergli stimolato le sinapsi, perché si rese conto che la cosa non era abituale nemmeno per un fantasma. – Come mai succede questa cosa?
- Sto formulando una teoria al riguardo, ma non posso dirtela ora – rispose lei evasivamente.
Fu quella frase a costringerlo a portare l’attenzione sull’unica cosa che contasse davvero: sapere.
- Levy – la chiamò, obbligandola a guardarlo solo grazie alla voce. – Com’è possibile? Cos’è successo due anni fa?
Lei non rispose, e per qualche motivo non distolse nemmeno gli occhi.
- Che cos’hai fatto due anni fa? E perché nemmeno Mirajane e tutti gli altri ne hanno idea?
La ragazza sembrava essersi pietrificata, e i suoi occhi tristi si velarono di orrore. Per Gajeel fu un’esperienza assolutamente nuova non perché aveva appena riacquistato la memoria, ma perché i suoi occhioni caldi non erano mai, mai stati amareggiati e spaventati. Rispondendo automaticamente ad un impulso a lui estraneo, si sporse e l’abbracciò, per poi ritrarsi immediatamente quando sentì il corpo di Levy unirsi, letteralmente, al suo. Non era una cosa piacevole.
Non lo era per niente.
- Scusa – mormorò lei, abbattuta.
- Non importa – borbottò lui grattandosi la nuca. – Basta che rispondi alla mia domanda!
Il ringhio sommesso fece capire a Levy che doveva rispondere per forza, perché quella questione gli premeva tanto da costringerlo ad alzare la voce persino con lei.
- Io non posso dirtelo, Gajeel. Tutta questa situazione è impossibile, lo sai bene. Se io ti dicessi che cosa ho fatto tu ne rimarresti sconvolto. Nemmeno Mirajane e gli altri lo sanno proprio per questo motivo. Devi recuperare la memoria da solo.
Stizzito, Gajeel si alzò in piedi e passeggiò rabbiosamente per la stanza; seppur grande, quella camera rimaneva sempre troppo piccola per la sua mola imponente.
- Ho seguito un gatto nel bosco e mi sono ritrovato in un castello che pullula di fantasmi. Sono stato accudito da quei fantasmi che mi hanno rivelato che io sono parte di questo castello. In un giorno ho rivissuto quasi vent’anni della vita che avevo totalmente dimenticato, rivivendo tutto quello che è successo due anni fa. E sono letterale quando dico che ho rivissuto tutto. Ho capito che uno spirito ha posseduto ad uno ad uno tutti noi, costringendoci a suicidarci o ucciderci a vicenda. Ho visto te, la donna che amo e che mi ha tormentato in sogno per troppi mesi, sdraiata su un tavolo di cemento come se fossi un sacrificio, dimagrita e con il cuore trafitto. Eppure sei viva, e respiri, e ora sei davanti a me e ti percepisco in qualche strano modo assolutamente assurdo. E dopo tutto questo IO non sono PRONTO per sapere che cosa DIAMINE ti è successo?!
Levy era rimasta zitta e lo aveva osservato senza battere ciglio mentre le sue parole da riflessive e pacate, per i canoni di Gajeel, diventavano dei rabbiosi ruggiti di impotenza.
Ma lei non poteva dirgli che cosa era successo. Proprio non poteva.
- Io… io lo so, Gajeel – bisbigliò mentre le lacrime si riversavano silenziosamente sulle sue guance pallide. – Fa male essere l’unica a sapere e non poter dire nulla, non sai quanto. Ma non posso aprire bocca, perché se lo facessi gli altri non mi guarderebbero più con gli stessi occhi. E se invece dicessi a te che cosa ho fatto, tu non avresti la forza di porre fine a tutto questo. Devi scoprire da solo com’è finita la storia. Mi dispiace.
- Cosa intendi dire? Non avrei la forza di fare cosa? – chiese dolcemente Gajeel, risalendo carponi sul letto per avvicinarsi a lei.
- Sei tu che devi porre fine a tutto questo una volta per tutte. Solo tu puoi dare pace alle nostre anime, che è ciò che attendiamo da due anni. Ma se ti rivelassi come devi fare, tu ti rifiuteresti. L’unico modo per convincerti è far sì che tu ricordi.
- Ma io non posso farlo! – sbottò lui. – Io ho perso i sensi e presumo anche la memoria, nel momento in cui tu ti sei sporta per afferrarmi dopo che mi avevi ferito. Non posso ricordare ciò che non ho vissuto.
Levy aggrottò le sopracciglia, confusa, senza nemmeno tentare di asciugare le lacrime. – Ma tu eri sveglio. Hai ripreso i sensi e mi hai fatto una promessa.
- Eh?
- Sì. Te lo assicuro. Tu hai visto. Magari non lo rammenti, ma io ne sono certa. Dopo essere svenuto, sei rimasto cosciente. Devi solo trovare un modo per evocare quel ricordo.
Gajeel soppesò le sue parole, riflettendo. Se ciò che diceva era vero, e doveva esserlo per forza, era un affare suo. Era palese la difficoltà della ragazza nel rivelare la fine di quella spaventosa storia, e lui non se la sentiva di forzarla affinché gliela dicesse. Non aveva ceduto in quei due anni con gli altri suoi compagni, come avrebbe potuto farlo con lui che era direttamente implicato?
- Ma non posso evocare quel ricordo – farfugliò allora.
- Perché?
- Perché… fino ad ora tutta la memoria che ho recuperato mi si è… sbloccata nel momento in cui ho visitato uno specifico luogo, che ha evocato i ricordi, o grazie a delle parole precise. Tecnicamente, se volessi sapere cos’è successo dopo, dovrei andare nell’armeria dov’è accaduto tutto, no? – chiese, attendendo che Levy annuisse. – Io ci sono stato, lì, ma ho ricordato solo fino al punto in cui sono svenuto.
Lei lo osservò senza dire una parola.
- Non puoi proprio rivelarmi nulla? – domandò Gajeel, insistendo.
Tutti a pretendere che ricordasse, ma mai un aiuto, vero?
- Non posso – bisbigliò Levy, la voce a mala pena udibile, tanto era fragile. – Ti prego, non chiedermelo più – lo supplicò.
Gajeel sospirò, stanco e deluso, ma non insisté. Se lo implorava così significava che davvero non poteva spingere per ottenere di più.
- Dai, facciamo qualcosa per distrarci – propose Levy, inginocchiandosi davanti a lui, mettendo in mostra la scollatura nel mentre. Erroneamente.
Lo sguardo del ragazzo venne immediatamente calamitato da quella morbida porzione di carne scoperta e messa in risalto dal corpetto.
Gajeel ghignò maliziosamente e il luccichio dei suoi canini troppo lunghi e appuntiti attirarono l’attenzione di Levy, che lo conosceva troppo bene per non capire.
- Non pensarci nemmeno – lo prevenne, ridacchiando.
- Cosa? – chiese lui, brusco, facendo il finto tonto.
- Lo sai benissimo, stupido Gajeel – rise lei cercando di sistemarsi il decolleté.
Lui allargò il ghigno e allungò la mano per fermarla, ma… le passò attraverso.
La mano rimase sospesa nel vuoto, dentro al corpo semitrasparente di Levy. Ogni traccia di ilarità era sparita dal viso del ragazzo, che aveva assunto di nuovo l’espressione impassibile che indossava come una maschera per proteggere il suo animo. La vita da orfano randagio, prima di Fairy Tail, era stata dura, e i suoi modi bruschi erano la sua eredità, la sua infanzia pesante come un fardello.
- Ecco perché non dovevi pensarci nemmeno – rivelò tristemente Levy, che si era girata sino a dargli le spalle.
Controluce, con il profilo che si stagliava fiero sulla sponda del letto e la luce del mattino che la attraversava, Levy sembrava più che mai un fantasma.
O una fata.
Come quella volta…



MaxB
Ho interrotto  qui il cap perché avrebbe  dovuto esserci un momento dolce, ma non me la sono sentita di leggerlo per correggerlo (e sinceramente 'sto cap è lungo 8 pagine, basta...).
Non voglio ricominciare a piangere, scusate, per un po' di fluff dovete attendere lunedì.
Non ho niente da dire, spero che il cap non vi risulti vuoto come sono io in questo momento.
Auguro a tutti di... non so...
Io uccido Hiro. Che mi mettano in prigione prima che faccia una pazzia e vada da lui a strappargli i capelli uno ad uno.
Non è divertente? Nella mia fic Gajeel è l'unico vivo. AHAHAAH-.-
Scusate.
MaxB

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Dal capitolo 5:
"Controluce, con il profilo che si stagliava fiero sulla sponda del letto e la luce del mattino che la attraversava, Levy sembrava più che mai un fantasma.
O una fata.
Come quella volta…"

 

Capitolo 6
Ripercorriamo la storia

- Gajeel, svegliati…
La voce di Levy mi arriva limpida e chiara alle orecchie. Qualcosa, sicuramente i suoi capelli, mi solleticano le guance e la luce del sole che mi colpisce gli occhi viene oscurata dal suo corpo.
Di solito sono io quello che si sveglia per primo, ma questo Levy non lo sa, perché resto immobile e in silenzio ad osservarla dormire: la bocca socchiusa, i capelli scompigliati, il volto rilassato, il suo calore contro il mio corpo.
Non c’è buongiorno migliore. Quando sento che inizia a svegliarsi fingo di dormire e lascio che sia lei a riscuotermi.
Non posso far sapere nemmeno a lei che la amo così tanto da guardarla mentre dorme. Ho una reputazione da difendere.
Infatti, anche questa mattina, percepisco il mio corpo vigile e il respiro troppo irregolare e leggero per essere quello del sonno.
Levy mi bacia una guancia. – Alzati! Devi preparare la colazione a tutti – mi sgrida, dandomi un altro bacio.
Io resto immobile, grugnendo giusto per mostrare il mio falso disappunto. Le permetterei di farmi tutto quello che vuole, specialmente se sono cose così piacevoli.
- Cucinano soli – mi sento farfugliare.
- Che cosa?! – esclama lei a mezzavoce, ridendo.
- La colazione – mi lamento. – Se la fanno da soli. Io preparo cena e pranzo. Non rompere, nanetta.
Levy mi tira un pugno privo di forza, privo di rabbia e privo di efficacia. Privo di credibilità, insomma.
Le mie parole, però, mi fanno tornare in mente una cosa: io sono il cuoco della casa. Ognuno ha la propria mansione nel palazzo, e il mio compito è quello di preparare i pasti insieme a Droy e Mirajane. Anzi, solo con Mira dato che le uniche volte in cui abbiamo permesso a Droy di aiutarci abbiamo portato in tavola metà cibo.
Ed ecco perché è stato così facile lavorare al ristorante in questi due anni.
- Va bene, gli altri si arrangiano. Ma io? – sento Levy domandarmi con voce da bambina, come se la stessi trascurando.
- Tu cosa? – ribatto aprendo un occhio, quanto basta per vedere in controluce la sua matassa di capelli celesti formarle un’aureola attorno al viso.
La canottiera di pizzo, quella che le ho regalato io, le sta tutta storta addosso a causa del sonno. Lei segue il mio sguardo e se la sistema in modo che la stoffa copra il seno in modo equo. Ha il viso in ombra, ma so bene che è arrossita.
- Tu cosa?  - ripeto, biascicando le parole e tornando a chiudere gli occhi.
- Io ho fame. Cosa mi prepari?
- Il letto.
- Daiiii – mi sgrida lei con voce stridula, ondeggiando sul materasso e facendo muovere le daghe di legno. Poi mi riempie il volto di baci e io sono costretto a girare la testa perché non noti il mio sorriso.
- Non rompere, Gamberetto – le intimo bruscamente.
Non posso vederla, ma ora, come anche due anni fa, posso giurare che ha gonfiato le guance con rabbia.
- Bene, allora niente premio, dopo – mi minaccia, muovendosi per scendere dal letto.
Queste minacce però no, eh!
Mi tiro su di scatto facendo leva sugli avambracci, e sento subito il freddo della mattina pizzicarmi il torace scoperto. Le mie reazioni sono identiche a quelle che ho compiuto in passato, e infatti mi immobilizzo, fisicamente e mentalmente, mentre contemplo Levy.
È rimasta ferma, seduta sulla sponda del letto, a fissare un punto fuori dalla finestra che deve aver attirato la sua attenzione. La luce delinea i suoi contorni facendola apparire più eterea di quanto non sia in versione fantasma.
Angelo, non fantasma.
Angelo o… - Fatina, sta nevicando, vieni a scaldarmi – borbotto ricadendo con la faccia sul cuscino.
- Fatina?! – esclama lei, sorpresa.
Oh cavolo. Non posso averla davvero chiamata in quel modo così… schifosamente dolce. Lei è la mia fata, ma nessuno lo sa. Nemmeno lei.
- Volevo dire… farina. Per la colazione. Come la neve fuori.
- Oh, certo – ridacchia lei buttandosi a pesce sulla mia schiena, per poi seppellire il viso nella mia pelle. – Mi fai la colazione buona?
Il Gajeel del passato sbuffa, ma io so che è divertito come lo sono io ora. – Prima vieni a farmi le coccole e poi ti cucino quello che vuoi.
Levy solleva la testa, a giudicare dal peso che viene tolto dalla mia schiena. – Sicuro di star bene? – mi chiede, apprensiva.
- Perché? – borbotto con la testa premuta sul cuscino.
- Prima mi chiami Fatina, poi mi dici che vuoi le… coccole… tutto a posto?
Sento il mio corpo irrigidirsi. Non sono molto lucido la mattina, e non sono lucido nemmeno quando sono vicino a Levy. Soprattutto se ha i capelli adorabili del risveglio e una striminzita canottierina di pizzo a coprirle la pelle.
Le due cose sommate decretano la mia morte.
Con uno scatto di cui non mi rendo nemmeno conto mi giro supino e fisso Levy in volto, che sorride felice. Le lascio un morbido e sonnolento bacio sulle labbra, che lei cerca di approfondire, ma io mi metto su un fianco e la trascino con me. La abbraccio e le impedisco di muoversi, incastrandola nella cella formata dalle mie braccia e gambe.
- Dormicchia un po’ che poi cucino – farfuglio, assonnato.
- Va bene, ma tu mi devi dire ‘buonanotte Fatina’ – propone lei, allungando il collo per guardarmi.
Incateno gli occhi ai suoi e ripenso alla perfezione di quel momento in cui era seduta sulla sponda del letto, e non posso evitare di dirlo.
- Buonanotte Fatina.
Le poso un bacio in fronte e la sento rilassarsi contro di me.
Ed è il miglior buongiorno che possa desiderare.

 
~~~~~~~~~~○~~~~~~~~~~
 
- Tutto bene Gajeel?
Al suono della voce di Levy, che lo osservava dalla sponda del letto come nel suo frammento di memoria appena riacquisito, Gajeel batté le palpebre per riprendersi.
- Che?
- Va bene tutto bene? – ripeté lei, avvicinandosi.
- Oh… sì. Tutto a posto.
Rimasero a fissarsi per alcuni istanti, senza fiatare, senza nemmeno comunicare con gli sguardi. Ognuno era assorto nei propri pensieri.
- Cosa facciamo ora? – indagò Levy poco dopo, curiosa.
Gajeel si grattò la nuca e poi scosse le spalle. – Penso che dovremmo… che dovrò fare un po’ di pulizie di fondo. Un bel po’. A partire dal frigo.
- Uh, Gajeel che pulisce – lo prese in giro Levy, sorridendo.
- Non c’è niente di strano, Gamberetto. Sai bene che sono meglio di te in casa.
Levy, per una volta, non se la prese per il nomignolo sciocco con cui la chiamava sempre. Anzi, le fece piacere. Se l’aveva chiamata Gamberetto poteva solo significare che aveva ricordato qualcosa del loro passato insieme.
E a proposito di questo…
- Gajeel, ma tu ti ricordi di noi? – bisbigliò, colta dall’improvviso timore di essere diventata una sconosciuta per lui.
Lui sogghignò e provò a darle una pacca sulla testa, prima di bloccarsi. – Non ti pare un po’ tardi per chiedermelo?
- Hai ragione… - rispose lei, tormentata.
Allora il ragazzo si chinò per incontrare i suoi occhi; era sempre a disagio quando lei non era serena. – Non ti ho dimenticata nemmeno in questi due anni in cui sono stato solo e senza ricordi.
- Davvero? – domandò lei, insicura.
Gajeel annuì. Ed era vero, davvero. Nell’angolo più remoto di se stesso aveva sentito che gli mancava qualcosa di fondamentale. Senza saperlo, aveva arredato il suo piccolo appartamentino al piano terra con mobili che sarebbero piaciuti a lei. E cucinava con estrema passione i suoi piatti preferiti.
A livello inconscio sentiva di amarla, anche se non sapeva cosa stava amando.
- Su, andiamo – le disse bruscamente.
 
- Ehi Mira! – esclamò Gajeel quando mise piede in cucina. Doveva essere un saluto, ma suonava più come un borbottio imbarazzato.
Imbarazzato da cosa, poi, che non poteva nemmeno tenere Levy per mano?
Che schifo di vita…
La ragazza sorrise alla volta di lui e Levy, ma non diede segno di sorpresa nel vederla. Quest’ultima, invece, si era irrigidita e sembrava a disagio. Gajeel pensò che fosse per il fatto che non aveva detto a nessuno cosa era successo alla fine di quella macabra serie di omicidi, negando a tutti la possibilità di capire cosa fare per far cessare la loro non-esistenza.
Ma Levy e Mirajane erano buone amiche, non potevano aver litigato. E Mira non teneva rancore.
- Ciao Gajeel – lo salutò sorridendo.
Il ragazzo aspettò che salutasse anche Levy, ma forse non era necessario. Erano nella stessa situazione da due anni, no?
Oh, ma che ne sapeva lui di amicizia tra donne! Magari erano solo in quel periodo del mese e non volevano salutarsi.
No, erano fantasmi…
Per fortuna Erza attraversò il muro insieme a Lucy, distraendolo dalle sue bizzarre elucubrazioni. – Ehilà – disse la donna più temuta di Fairy Tail, mentre la sua amica salutava con la mano. – Prepari già il pranzo? Mi fai la torta di fragole?
Gajeel rabbrividì al solo pensiero. Gli tornarono in mente tutte le volte in cui Erza gli aveva gentilmente chiesto, ossia letteralmente minacciato con la spada puntata alla gola, di prepararle una torta o qualche pasticcino. Per fortuna da fantasma non avrebbe più mangiato.
- No, pensavo di pulire la cucina a partire dal frigo. Sicuri che non ci sia morto nessuno lì dentro? – le informò Gajeel, afferrando una molletta dal portapenne per tapparsi il naso.
- Ottima idea. Un po’ di pulizia non farà male qui dentro. Anche se temo che siano scaduti da un pezzo i detersivi e robe varie – continuò Erza, sedendosi sul tavolo.
Il ragazzo scosse le spalle con menefreghismo, rovistando nelle sue borse della spesa per prendere i guanti in lattice. – Poco importa. Saranno ancora buoni, non sono mica formaggi. Non devo far risplendere questa topaia, devo solo renderla vivibile.
Makarov, che passava di lì in quel momento per chissà quale motivo, lo redarguì: - Vacci piano con le parole, che posso ancora sbatterti fuori da qui – prima di sparire in giardino.
Gajeel ghignò: aveva sentito fin troppe volte quella minaccia.
Mentre si accingeva ad aprire il frigo con un immane sforzo di volontà, sentì Lucy domandargli pacatamente: - Hai visto Levy?
Lui si girò e fissò con perplessità la ragazza in questione, che sembrava tesa e imbarazzata. Come se lei non appartenesse a quel luogo e a quelle persone. – Penso si riferisca al mio corpo – ipotizzò lei, interpretando le parole dell’amica.
Insomma, Levy era lì con lui, ovvio che l’aveva vista.
- Oh, certo – rispose bruscamente.
- Sicuro di stare bene, Gajeel? Forse oggi dovresti riposarti, dato quello che è successo ieri… - gli suggerì Mira, premurosa.
Il ragazzo emise un verso quasi disgustato, come se lo avessero accusato di debolezza. – Andrò a letto prima, questa sera. Ora devo pulire entro l’ora di pranzo perché io non mangerò immerso in questo sudiciume.
- Come vuoi – disse allora Erza, scendendo dal tavolo. – Almeno lascia che…
In quel momento un gran baccano la interruppe, e nella stanza rotolarono Natsu e Gray, avvinghiati e intenti a lottare e lanciarsi insulti, passando attraverso mobili e gambe di tavoli e sedie.
Era la cosa più bizzarra che Gajeel avesse mai visto. E di cose bizzarre ne aveva viste troppe.
- Gray-sama tu sei fortissimo, non devi nemmeno dimostrarlo! Juvia sa che sei il migliore! – gridò la ragazza entrando, incitando, più che fermando, Gray.
Elfman arrivò correndo e si gettò sopra ai due ragazzi, schiacciandoli. – Sii uomo e combatti! – urlò, mentre Erza interveniva e li separava.
- Elf-nii, smettila di fare così! – cinguettò Lisanna, vestita e acconciata di tutto punto, trascinando via il fratello.
Era strano, per Gajeel, vedere il modo in cui si toccavano e interagivano. A lui era tutto precluso. Tutto tranne una cosa.
Ghignò sadicamente. – Se volete dimostrare di essere forti, allora spostate me – li sfidò mettendosi in piedi in mezzo a loro.
Gray, Natsu ed Erza gli lanciarono un’occhiataccia delusa e impotente, scuotendo la testa.
- Ti basta poco per crederti forte, Testa Di Ferro! – sbraitò Natsu. – Ma perché non vieni qui a combattere con me?
Questa volta fu il turno di Gajeel di fissarlo come se fosse scemo.
Anzi, era scemo.
- Cretino! – esclamò Lucy dandogli una pacca in testa. – Come può farlo?
Natsu iniziò a lamentarsi ed Happy, entrato in quel momento insieme a Pantherlily, cominciò a miagolare.
Alla fine Lucy trascinò via il ragazzo, mormorando delle scuse poco convinte.
Gray scappò senza farsi notare, sperando di seminare Juvia, mentre Lisanna cacciò fuori dalla cucina Elfman.
Levy se la rideva della grossa.
- Non fa ridere – disse burbero Gajeel, più turbato dalla stupidità di Natsu che dal resto.
- Infatti sto solo sorridendo – rispose Mirajane.
- Stavo dicendo, prima di essere interrotta – riprese Erza – che se vuoi posso mostrarti lo stanzino dei detersivi.
Gajeel scosse la testa. – Mi ricordo dov’è, grazie.
- In tal caso tolgo il disturbo, devo allenare Gerard.
Il ragazzo sogghignò mentre la compagna si allontanava. La cosa più strana era non vedere i suoi lunghi capelli rossi muoversi. – Allenamento… certo.
Mirajane ridacchiò, così come Levy.
- Allenamento con la spada – precisò Erza, scoccandogli un’occhiataccia.
Il sorriso malevolo di Gajeel, se possibile, si allargò. – Uh-uh – affermò, infilandosi i guanti come un chirurgo. – E che spada usi?
Erza corrugò la fronte, senza capire come mai Gajeel fosse così interessato alle loro lezioni di scherma. – Quella di Gerard, ovvio.
Il ragazzo scoppiò a ridere, imitato da Mirajane, mentre Erza avvampava: aveva colto il doppio senso, anche se in ritardo.
- Ma cos’hai capito?! La spada che mi ha regalato lui! – si schermì.
Gajeel continuava a ridere. – Ci credo che te l’ha regalata! Torna utile pure a lui, sai.
Erza ringhiò, indispettita. – Ti punirei, se solo potessi farlo – lo informò debolmente prima di uscire con la testa alta.
- Mi erano mancati i tuoi commenti sottilmente perversi – disse Mirajane dopo alcuni istanti, continuando a ridacchiare.
- Davvero? – domandò Gajeel, mentre Levy andava a sedersi vicino all’unica ragazza rimasta nella stanza.
- Un sacco! Non ti ricordi? Qui dentro sono quella che ti conosce meglio dopo Levy e Juvia. Quando cucinavi con me eri rilassato e invece di fare il duro raccontavi barzellette terribili su tutti i nostri compagni – gli rammentò Mirajane, mentre lui apriva il frigo per pulirlo. Meglio iniziare subito, con le chiacchiere dell’amica che lo distraevano.
- Ma scherzi? – sbottò Levy, sorpresa e divertita.
- Inventavi storie assurde su tutti i membri della villa. Era divertente. Nessuno sapeva che avevi… che hai ancora, questo lato umoristico. Pessimo, certo, ma almeno facevi ridere.
Gajeel lentamente iniziò a ricordare frammenti delle sue giornate, quando cucinava, quando il pomeriggio si rilassava nella mansarda, circondato dal brusio delle chiacchiere dei compagni e, nell’ultimo periodo, dal calore del corpo di Levy che leggeva premuta contro di lui.
Si perse così tanto da agire meccanicamente, e nel giro di un’ora aveva lucidato il frigo. Non tanto da renderlo nuovo, ma quanto bastava per utilizzarlo senza rischiare che il cibo facesse i funghi solo entrando in contatto con quell’aria rancida.
Gajeel si tolse la molletta dal naso e sciacquò i guanti, afferrando poi straccio e disinfettante per pulire pensili e dispense.
- Ti dispiace se ti lascio solo? Devo… ho da fare… - esordì Mirajane dopo parecchi minuti di silenzio.
Il ragazzo si girò, confuso. Si era dimenticato della sua presenza, vicino a Levy che seguiva ogni suo movimento, ma dirlo sarebbe stato scortese. – Certo – disse laconicamente, ricominciando a pulire.
- Sicuro che starai bene? Sei sempre stato solitario, ma magari un po’ di compagnia ti farebbe meglio in questo momento…
- Ho Levy, non sono solo – la interruppe, disgustato dal modo in cui suonava quella frase: schifosamente dolce.
- S…sì – indugiò Mirajane, tormentata. – Però… non deprimerti – lo supplicò prima di lasciare la stanza.
Gajeel asciugò un mobile e si girò a fissare Levy. – Deprimermi con te qui?
Lei scosse le spalle. – Forse parlava del mio corpo. Magari sapere che non sono esattamente qui, che non puoi… che non possiamo interagire, ti potrebbe far stare male.
Lui mise giù straccio e detersivo e si sporse sul tavolo, facendola arretrare, le mani posate vicino ai suoi fianchi. – Troverò il modo di riportarti qui con me. Fisicamente. E allora sì che morirai, perché dovrai starmi appiccicata ogni minuto per il resto della tua vita.
Levy sorrise malinconicamente, e si avvicinò a lui, indugiando vicino al suo viso. Poi chiuse gli occhi e gli diede un bacio sulla guancia, un bacio che Gajeel sentì perfettamente. Scorse nelle sue vene e gli rammentò una miriade di ricordi piacevoli.

 
~~~~~~~~~~○~~~~~~~~~~
 
- Gajeel, ti prego, ho una voglia matta di cioccolata, mi prepari una torta? – mi implora Levy, le mani che si torturano l’un l’altra e gli occhi che mi supplicano.
Io sto… impastando un tacchino? Tacchino ripieno?
Non che mi importi, tanto questo è solo un ricordo e le mie mani cucinano anche se io non ci penso.
Stiamo già insieme in questo periodo, io e Levy?
- Levy, ti ho detto che sono stanco questa sera, e sono indietro con la cena. Mirajane è ammalata.
- Ti aiuto io! – si offre lei, avvicinandosi ad un grembiule per infilarselo.
- Non azzardarti – le intimo. – Sappiamo che non sai cucinare, lo sanno tutti qui dopo aver rischiato un’intossicazione alimentare per causa tua. Domani ti faccio la torta.
- Sei cattivo – mugugna lei. – Vado a farmi consolare da Jet e Droy. E ti porto via anche Lily!
Detto ciò se ne va a passo di marcia e io sbuffo stringendo i pugni unti di carne. – Allora infilati nel loro letto, questa notte! – le urlo imbestialito.
- Ti odio! – grida lei di rimando, sbattendo la porta della cucina.
Non stiamo già insieme. No.
 
Quella sera, dopo la cena e la pulizia della cucina, la raggiungo nell’unico luogo in cui so di poterla trovare: la mansarda silenziosa.
C’è una partita di basket importante, perciò i ragazzi sono tutti impegnati in sala giochi, mentre le ragazze hanno fatto un festino in piscina. Ma Levy non mi sembrava dell’umore adatto, quindi il mio corpo non esita percorrendo le scale che vanno all’ultimo piano.
Ed è lì che la trovo, rannicchiata davanti al camino. Mi dà la schiena.
- Non leggi? – le chiedo rudemente, come mio solito, posando di fianco a lei un piattino con una torta al cioccolato per due persone. Mi siedo a gambe incrociate vicino a lei, che non reagisce in alcun modo.
Fissa le fiamme, ipnotizzata.
- Che ti ha preso, prima? – sbotto dopo un po’.
Il tatto non è proprio inserito nel mio DNA.
- Scusa – mormora lei. – Ero solo… non importa.
- Dimmi – cerco di incitarla, ma mi esce solo un farfuglio svogliato.
- No, davvero. Scusa. E grazie per la torta. Anche se non la merito.
- Infatti è per me – mi sento rispondere mentre sorrido… a modo mio. – Però sono buono e l’ho divisa in due.
La sento sbuffare, divertita, mentre si siede e si volta verso di me.
Mangiamo la torta in silenzio e dopo un po’ lei rivela: - Ero gelosa.
La forchetta mi resta bloccata a mezz’aria. – Che? – esclamo, la bocca piena di cioccolato fuso, il ripieno della torta.
Lei arrossisce e non mi guarda, giocando con il pigiama corto. – Sì. Di Erza. Questa mattina ti ha chiesto una torta alle fragole e tu hai ubbidito subito. Con me… non l’hai mai fatto.
- Levy – scandisco bene, conscio del fatto che uso il suo nome solo per attirare la sua attenzione. E infatti lei mi guarda, incuriosita. – Erza mi pesta a sangue se non lo faccio.
Lei scoppia a ridere, ma la vedo comunque tesa.
Mi vengono in mente tutti i pensieri di quella volta. Quando ancora non sapevo di amarla. O meglio, lo sapevo ma non me n’ero accorto. La consideravo… importante, fondamentale, e mi piaceva dormire con lei accanto, anche se senza toccarci.
Piaceva anche a Lily.
- Ad Erza però non permetto di dormire con me – mi lascio sfuggire seccamente, prima di mangiare un’altra forchettata di torta.
Solo ora, osservando Levy sorridere e rilassarsi, mi rendo conto che è la cosa migliore che avrei potuto dirle.
Lei si sporge e dopo un attimo di esitazione mi bacia dolcemente una guancia.
Io mi irrigidisco mentre il mio cuore manca un battito.
Fa ridere vedere il mio me stesso del passato rendersi conto di cosa rappresenti Levy per me.
È in quel momento che capisco di amarla, piano piano e poi con la forza di un uragano.
Così quella notte, quando si intrufola nella mia stanza chiedendomi con gli occhi se posso ospitarla nel mio letto, non solo la lascio fare, ma la abbraccio, e la tengo stretta fino al mattino.
 
~~~~~~~~~~○~~~~~~~~~~

Per il resto del pomeriggio Gajeel non fece altro che pulire mentre Levy, che sembrava essersi rilassata senza nessuno intorno, parlava, parlava e parlava delle centinaia di storie che aveva letto. Lui adorava sentirgliele raccontare, specialmente quando lo faceva a tarda notte, con il buio a coprirli come la più calda delle coperte, la loro pelle a contatto per far sapere all’altro che c’erano.
La voce di Levy lo cullava e lo calmava sempre, ma mai lo avrebbe ammesso a se stesso. Così fece splendere la cucina, dal pavimento alle finestre, ai mobili e alla lavastoviglie, che fece andare a vuoto con un potente anticalcare prima di arrischiarsi ad usarla con i vecchi piatti impolverati. Le borse della spesa erano sistemate.
- Direi che qui abbiamo, anzi, ho, visto che tu sei inutile, finito.
- Ehi – si lamentò Levy, ridendo. – Riposati ora.
- Ma sei pazza? Hai visto quanto lavoro c’è da fare? In un giorno sono riuscito a fare solo la cucina!
- E camera tua…
- Sì, va be’, solo il letto.
- Allora pulisci il pavimento della sala da pranzo, che è il più indecente. E poi lava via il sangue da pareti e oggetti.
Gajeel ripensò a tutti i luoghi della casa che avrebbe dovuto rassettare e far brillare, e fece una smorfia.
Ma poi Levy gli sorrise di nuovo e con la testa gli indicò la sala da pranzo.
Così, sospirando, si diresse armato di spazzolone e buona volontà in sala da pranzo.
 
- Qual è la cosa più strana di questa situazione? – gli chiese Erza la sera, seduta con lui sul lungo tavolo da pranzo.
Mirajane, di fronte ad Erza, continuava a sorridere con gli occhi chiusi, il viso posato sui palmi delle mani. Levy dondolava le gambe di fianco a lui, seduta direttamente sul tavolo.
- Mangiare con voi che mi fissate – ringhiò Gajeel con la bocca piena.
Lucy rise e Natsu balzò sul tavolo. – Non lamentarti, chiodo arrugginito! – sbraitò. – Vorrei mangiare io, e non vedere mangiare uno che ha così poco rispetto per il cibo!
In risposta Gajeel addentò una coscia di pollo emettendo gemiti di puro piacere.
- Fai veramente schifo, non so come Levy possa essersi innamorata di te – disse Gray con una smorfia.
Tutti risero, e la diretta interessata rispose: - A volte me lo chiedo pure io.
- Ehi – si offese Gajeel, pulendosi le mani per versarsi un sorso d’acqua.
- Devo ammettere che con le pulizie ci sai fare – ammise Gerard, le mani posate sulle spalle di Erza, in piedi dietro di lei.
Gerard era il fidanzato di Erza, esterno all’orfanotrofio, che però era considerato uno della famiglia, tanto era il tempo che passava in compagnia dei ragazzi.
- Tu devi proprio intendertene, visto che eri la casalinga di Erza – lo derise Gray.
- Sei in vena di acidità questa sera, Gray? – gli fece notare lo stesso Gerard. - Erza non è l’unica brava a picchiare, in questa casa. – lo minacciò alludendo a se stesso.
La ragazza sorrise, tronfia. – So scegliere bene i miei ragazzi.
Gajeel passò alle verdure e si attirò altre occhiate… invidiose.
- Seriamente, la smettete? Okay che siete fantasmi, okay che state con delle ragazze spaventose, o ragazzi spaventosi, e okay che sto parlando con dei morti ma, cavolo, non fissatemi mentre mangio!
In risposta, Natsu gli si avvicino carponi, sul tavolo, e si piantò a due centimetri dal suo viso.
- Vorrei essere morto per poterti pestare, Salamander – sibilò Gajeel, mangiando ostentatamente le verdure.
La sequela di insulti e litigi che seguì animò la serata quel tanto che bastava da permettere a Gajeel di mangiare in pace.
Sì, sempre che ritrovarsi il corpo di Gray e Natsu sul piatto per colpa degli spintoni potesse considerarsi “pace”. Fortunatamente Gajeel era adattabile e iniziò a mangiare anche se dei corpi immateriali sostavano sulla sua cena.
 
Quando Gajeel finì di mangiare si spostarono tutti in soggiorno, e i fantasmi chiesero al ragazzo di accendere il camino per loro.
- Perché? – domandò allora lui, scontroso come sempre.
- Perché era questo il periodo in cui l’accendevamo, tardo autunno e inizio inverno. Inoltre la casa è fredda, per te – rispose Makarov, seduto sulla sua poltrona troppo grande a fumare una pipa.
Il ragazzo ubbidì mentre Natsu lo derideva per la sua incapacità con i fiammiferi. Gajeel si tratteneva solo perché sapeva che girarsi e tirargli un manrovescio lo avrebbe solo reso oggetto di ulteriori scherni.
Insomma, avrebbe scalfito l’aria!
- Questa era una sala da ballo una volta, vero, Master? – chiese Mirajane, accomodandosi su un lungo divano, mentre Levy annuiva.
Fu l’ultima a prendere posto, sul bracciolo del divano, di fianco a Gajeel.
- Certo, mia cara. Gajeel, ti ricordi un po’ di storia del castello o no? – indagò Makarov, gli occhi chiusi per la concentrazione.
- A dire il vero no – borbottò. E nemmeno mi interessa, avrebbe voluto aggiungere.
- Bene allora, facciamo un po’ di ripasso della storia di Fairy Tail.
Il Master si schiarì la voce mentre i vari abitanti immateriali del palazzo si mettevano comodi.
- Questo castello fu costruito dal mio trisnonno verso la seconda metà del diciannovesimo secolo…
- Eh?! – sbottò Gajeel.
- Verso il 1850 – chiarì Lucy, abituata a Natsu in quanto a comprendonio.
- Come dicevo – continuò il vecchio – fu costruito dal mio trisnonno, che all’epoca governava la città. L’impero era diviso in contee e alla mia casata era stata affidata questa contea. Una delle più ricche. Con il tempo questo governo crollò, e la città divenne dipendente dal potere dello stato sovrano, ma il potere e le ricchezze della mia famiglia non svanirono. Possedevamo ancora la maggior parte degli edifici della città, e i nostri introiti derivavano dagli immobili che affittavamo ai cittadini.
Gajeel dovette ammettere che, nonostante fosse partito prevenuto, gli interessava sapere come avesse fatto Makarov a crescere decine di orfani senza mai lavorare o ricevere sussidi dallo Stato.
- Quando mio padre morì e lasciò in eredità a me il castello, le trattative per venderlo erano ormai in atto. La villa non fungeva più da orfanotrofio ormai da anni, e tutte queste stanze per dignitari e servitù erano inutili, così come il fasto e la grandezza ormai spente del palazzo stesso. Era semplicemente troppo per una famiglia come noi. Fu così che decisi di ritrasformare casa mia in un orfanotrofio, come in origine. Anzi, in un rifugio. Annullai tutti gli accordi che mio padre aveva preso e con i soldi della mia eredità feci ristrutturare e ammodernare l’intero edificio. Iniziai ad accogliere bambini che avevano bisogno di guida e aiuto, e permisi loro di vivere qui fino a quando avessero trovato la loro strada. Molti se ne sono andati crescendo, ma l’ultima generazione è rimasta così fedele da restare con me fino alla fine. Wendy e Romeo, i più piccoli, sono stati i più seguiti, grazie a tutti i fratelli che hanno trovato qui dentro.
- Dov’è Wendy? – lo interruppe Gajeel, che si ricordava bene della ragazzina che lui e Natsu avevano considerato una vera e propria sorella.
- Sta molto tempo con Polyushika, un’eremita che vive a qualche minuto da qui, nel bosco. Lei è in grado di vedere gli spiriti, ed essendo una potente curatrice ha permesso a Wendy di assisterla… come meglio poteva. Voleva diventare un’infermiera da grande – rispose Mirajane.
Polyushika se la ricordava bene. Arrivava al castello, tutta imbacuccata in quel mantello da strega, quando qualcuno stava male. Fissava con disprezzo e disgusto ogni ragazzo, non parlava con nessuno, se non con Makarov, e scappava appena poteva.
Aveva visto Romeo gironzolare da quelle parti ogni tanto, ma non aveva mai prestato attenzione alla mancanza della ragazzina.
- Ma come hai fatto a mantenere tutta la baracca, vecchio? – chiese Gajeel, svogliato.
Essendo lui il cuoco, sapeva bene quanto cibo fosse necessario per mantenere pieni i delicati stomaci di quegli incivili dei suoi compagni. La spesa giornaliera non era certo piccola, per non parlare delle bollette dell’acqua per mantenere la piscina, o quelle del gas e della luce.
- Ma mi senti quando parlo? – sbottò Makarov, stizzito. – La città non è più sotto al mio controllo, ma gli edifici mi appartengono. Le mie entrate derivavano dalla città, da supermercati, appartamenti, bar e negozi. I soldi non mancavano.
- E adesso?
- Adesso cosa?
- Adesso cosa succede? Posso stare qui? La città è deserta. Però la casa potrebbe essere venduta – ragionò Gajeel.
- Dubito che ci sarà qualcuno pronto ad acquistarla. La città si è svuotata in seguito alla tragedia che si è consumata qui dentro. Gli abitanti sono scappati appena hanno potuto, e la polizia ha isolato tutto perché sta ancora svolgendo le indagini. Sai, non hanno saputo spiegare niente di quello che è successo. E la casa è mia, nessuno può toccarla – specificò Makarov. – Inoltre, ora la mia eredità spetta a te di diritto, in quanto unico sopravvissuto a tutti noi.
Gajeel spalancò gli occhi, scioccato. Non aveva pensato all’eredità di Makarov, che a quanto diceva doveva essere immensa. Quella era casa sua perché era lì che aveva vissuto sin da piccolo, ma non aveva pensato che potesse diventare letteralmente sua, con il suo nome scritto sul contratto di proprietà.
- Quindi vedi di andare a dormire e riprendere le pulizie domani, perché anche se ora tutto questo è tuo io ti tormenterò finché non splenderà! Sistema questo porcile! – sbraitò il Master, facendo ridere Natsu e Gray, che godevano delle sorti sudicie del loro compagno.
- Almeno io ho posso fare qualcosa, deficienti – commentò Gajeel alzandosi e imboccando le scale. Poi fece un cenno con la mano per dare la buonanotte e si diresse verso camera di Levy, che era diventata da tempo camera loro.
Nell’ultimo periodo di convivenza nel castello, si erano liberate una stanza dietro l’altra: prima Mirajane che era andata da Laxus, Gerard che era andato a vivere con Erza, Juvia che si era trasferita da Gray nonostante i suoi lamenti e le sue proibizioni, a cui nessuno aveva creduto quando una mattina si era presentato a colazione con un gigantesco succhiotto sulla mandibola. Natsu era famoso per le sue incursioni nel letto di Lucy, Alzack e Biska si erano sposati, Elfman usciva quasi ogni mattina dalla stanza di Evergreen.
E poi lui e Levy, che erano stati gli ultimi a sistemarsi. Si erano messi insieme quasi per primi, contemporaneamente a Mira ed Erza, ma Levy dormiva con Gajeel, anche se senza contatti con lui, da molto più tempo. Avevano deciso di unire le stanze quando avevano iniziato a capire che uscire dalla camera in intimo non era la cosa migliore da fare, con una pettegola come Erza in giro.
Gajeel si spogliò e si bloccò in mezzo alla stanza, indeciso sul da farsi. Voleva provare la piscina calda del castello, ma la voglia di scendere le scale era pari a zero. Inoltre si ricordò che dovevano esserci anche le rane in quell’acqua stantia, così optò per una doccia calda nel suo bagno.
Era talmente pieno di polvere che l’acqua che scorreva sul suo corpo diventava nera prima di fuggire nello scarico.
Quando uscì dal bagno, coperto solo da un asciugamano che gli fasciava i fianchi, si stava frizionando i capelli. L’aria era più tiepida e l’ambiente sembrava più accogliente senza quel gelo che sembrava ammantare ogni cosa. Levy era seduta sul letto e si stava fissando le unghie.
- Il camino sta scaldando le stanze? – domandò lui, prendendo dei boxer puliti dalla sacca che aveva portato da casa.
- Mh-mh – asserì Levy senza alzare gli occhi. – Scalda tutti i termosifoni e i pavimenti dei bagni. D’inverno è un gran risparmio di gas.
- Che stai facendo? – le domandò Gajeel. – Di solito quando mi cambio mi mangi con gli occhi.
Levy avvampò e lo fissò, sconvolta. – Cosa stai dicendo?! Non ho mai fatto una cosa simile!
Gajeel rise di fronte al suo imbarazzo, e si gettò a letto indossando i pantaloni della tuta e una canottiera aderente. In quel momento avrebbe dato qualsiasi cosa per poter stringere Levy tra le braccia e seppellire il naso nei suoi capelli.
- A cosa stai pensando? – domandò timidamente Levy, sbirciandolo con un occhio. Aveva nascosto il viso tra le ginocchia coperte dalla gonna lunga.
- A tutte le volte in cui sono uscito dalla doccia e tu hai reso vana la pulizia.
- Cosa intendi? – chiese ancora lei sollevando la testa, perplessa.
Gajeel ghignò. – Intendo dire che ogni volta, o quasi, che uscivo dalla doccia tu mi costringevi a rifarmela, perché nel giro di pochi minuti mi ritrovavo sudato nel letto con una piccola belva avvinghiata addosso a me.
Levy, le cui guance erano appena tornate al loro normale colorito traslucido, avvampò di nuovo. – Stupido Gajeel! Non è assolutamente vero, smettila di dire queste cose! – esclamò imbarazzatissima. – Eri tu a provocarmi e buttarmi a letto, non io – lo corresse, anche se quella correzione sembrava debole anche a lei.
Probabilmente perché era falsa.
Infatti Gajeel scoppiò a ridere. – Non sei brava a mentire, Gamberetto, lo sai?
Stizzita, Levy strinse il pugno e lo calò con tutta la forza di cui era capace sul petto di Gajeel, che sentì quella botta. Anche quella volta, come quando era viva, i suoi colpi lo facevano solo intenerire. La forza di un cucciolo di gatto che voleva essere una tigre.
- Che male! – la prese in giro Gajeel.
Levy sbuffò e si sdraiò su un fianco dandogli la schiena.
- Non fare la permal… ohi, Lily! – esclamò quando il gatto saltò sul letto e gli si raggomitolò in grembo. – Il letto è sempre stato così affollato? – chiese a Levy, cercando di ricordare dove dormiva il suo gatto di solito.
Levy grugnì, senza rispondere.
- Eddai! Rispondimi!
Gajeel allungò una mano per provare a riscuoterla in qualche modo, ma Pantherlily drizzò le orecchie e soffiò minacciosamente verso Levy.
Il ragazzo si bloccò e fissò il suo gatto mentre lei si girava e lo osservava, tesa.
- Che ti succede, gatto? Perché soffi a destra e a manca oggi?
Il gatto continuava a fissare con odio Levy, e alla fine scese dal petto di Gajeel per sistemarsi vicino alla sua testa, lontano dalla ragazza.
- Ma che gli prende? – chiese allora lui, confuso.
Pantherlily adorava Levy!
- Non chiederlo a me! – si schermì lei, girandosi per guardare Gajeel. – Comunque dormivamo così, con Lily che stava o vicino a te o vicino a me, acciambellato.
Il ragazzo annuì e si abbandonò sul cuscino, stanco dopo la giornata intensa. Era relativamente presto per i suoi canoni, ma si era svegliato che era ancora notte e ora il sonno reclamava il suo spazio.
- Tu dormi? – chiese a Levy spegnendo la luce, grato di poter usare la corrente invece delle candele che davano solo un tocco di tetraggine a quella storia già inquietante.
- Sì che dormo.
- Ma i fantaMaxsmi dormono?
- Se ne hanno voglia sì. Possiamo non farlo, ma lo facciamo sempre perché ci fa sentire più… umani.
Gajeel fece un cenno con il capo che si perse nel buio, prima di sentire le palpebre abbassarsi.
- Buonanotte Gajeel – bisbigliò Levy.
- ‘Notte – farfugliò lui.
E prima di infilarsi sotto al piumone pulito, sentì il fantasma della mano di Levy lasciargli una morbida carezza sul braccio.



MaxB
Voi direte: "Che pizza di capitolo, non sviene nessuno e Gajeel si crede una donna delle pulizie". Be', sì. Ma il cap è pieno di indizi per... qualcosa che so solo io MUAHAHAHAHAH.
No sul serio, indizi ce ne sono ma voi non sapete che indizi sono e di cosa sto parlando. Quindi non importa.
Voglio tanto Gajevy fluff, quindi ecco un cap che ripercorre le loro storia, da quando Gajeel ha capito di amarla al primo bacio, e bla bla bla... ce ne saranno altri di approfondimenti.
Una storia nella storia nella storia yeeeee. E' già tanto se mi capisco io xD
Va be' spero che vi piaccia, se vi piace o vi fa schifo fatemelo sapere, e viva la Gajevy!!!! SEMPRE E PER SEMPRE ç.ç
*si dispera*
MaxB
 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


Capitolo 7
I nostri primi baci

 
- Gajeel…
Finalmente so di chi è la voce, e riesco a distinguere i contorni definiti della sua figura snella.
- Gajeel salvami. Sei vicino, ora.
Levy mi tende una mano, ma io non posso afferrarla. È come se stessi rivivendo un ricordo e non avessi il controllo del mio corpo.
- Ricordati chi sono. Lo sai meglio di chiunque altro.
Certo che lo so meglio di chiunque altro. In tutti i sensi. E io ora ricordo chi è.
Ora dovrebbe dirmi “ricordati chi sei”.
- Non parlare a nessuno di me. Nemmeno a me stessa.
Cosa…?!
 
~~~~~~~~~~○~~~~~~~~~~

Gajeel si svegliò di soprassalto, sudato e ansimante.
- Ehi, tutto bene?
Levy si parò di fronte a lui, la voce assonnata come gli occhi, che da grandi erano diventati piccolissimi.
La luce entrava prepotentemente dalla finestra, finalmente un po’ di sole dopo due giorni tetrissimi.
La mano della ragazza si posò delicatamente sul viso di Gajeel, che sentì il suo contatto leggero come la sera prima.
- Era ora! – esclamò una voce familiare.
Gajeel sollevò la testa e incontrò il viso di Mirajane, vicino all’armadio.
- Che ci fai tu qui?! – esclamò, irritato.
Poteva anche essere impegnato con Levy… per quanto improbabile. Non c’era più privacy da quelle parti?
- Sono venuta a svegliarti, tranquillo. Non volevo molestarti. È abbastanza tardi.
- Avevo del sonno da recuperare – grugnì lui, togliendosi di dosso le coperte mentre Levy restava ferma sul letto, apprensiva.
Tanto ormai il momento con lei era rovinato, valeva la pena di alzarsi.
- Hai fatto un brutto sogno? – indagò Mirajane.
Gajeel annuì, stiracchiandosi la schiena mentre Lily si svegliava lentamente.
- Che hai sognato? – chiese Levy, curiosa.
- Ho sognato te, come sempre – rispose Gajeel, guardando Levy con gli occhi pieni di interrogativi.
Come mai continuava ad apparirgli in sogno se era lì con lui?
Lei si strinse nelle spalle, ma al ragazzo non scappò il suo sguardo confuso e preoccupato. Come se anche lei si chiedesse perché continuava ad apparirgli in sogno.
- Eh?! – esclamò Mira, sorpresa.
Gajeel e Levy la fissarono.
- Levy – ripeté Gajeel, stupito.
Ma era scema?
- Ah… - mormorò Mirajane, sempre più confusa. – E che hai sognato?
- Il solito... – rispose lui.
Ma non aveva voglia di parlarne, così lasciò perdere.
Dopo alcuni istanti di silenzio, Mirajane si avviò verso la porta, seguita in ritardo dal musetto attento di Lily.
- Scusa se ti ho disturbato, sono solo un po’ in ansia per te. Se hai bisogno basta chiamare.
Quando fu uscita dalla stanza, Lily si alzò e, guardando Levy in cagnesco, pronto a scattare, uscì anche lui.
- Ma non ti sembra strana Mira? – indagò Gajeel. – Anche Lily, ma lui è un gatto.
- Non mi pare. Se è per questo, siamo tutti strani. Che hai sognato comunque? – chiese Levy stringendosi le ginocchia al petto.
Il ragazzo la fissò, riflettendo.
Il sogno era più o meno lo stesso, ma dopo mesi in cui aveva visto e udito sempre le stesse cose, avrebbe percepito anche il minimo cambiamento.
Levy gli aveva detto di ricordarsi di lei, ancora, e poi gli aveva quasi intimato di non parlare con nessuno di quel sogno.
Se prima si svegliava inquieto, quasi spaventato, quella notte aveva sentito il calore della sua voce, e gli era sembrato di tornare indietro nel tempo. Quelle sensazioni gli mancavano, forse perché Levy era un fantasma.
- Niente, era un po’ diverso dal solito.
Levy provò a chiedere altro, ma Gajeel si infilò in bagno e quando uscì, diversi minuti dopo, non aprì bocca.
 
- Oggi che facciamo? – domandò Levy mentre il ragazzo mangiava.
- Oggi pulisco. La cucina è a posto, si può mangiare per terra da quanto è asettica.
- Allora da dove parti oggi?
- La mattina il soggiorno e il pomeriggio la piscina, dato che mi piacerebbe usarla.
- Ma fa freddo fuori!
Gajeel alzò lo sguardo, perplesso. – Ma non è termale?
- Quella interna sì.
- Aspetta. Ce ne sono due?
- Certo! – esclamò Levy, agitandosi. – Quella che sta fuori, e quella dietro il soggiorno, invernale e riscaldata.
Questo dettaglio era sfuggito alla sua memoria.
Ma se quella interna doveva essere ridotta male, non osava immaginare quella esterna. Altro che rane! Probabilmente era diventata una palude.
Se ne sarebbe preoccupato d’estate.
 
Alcuni minuti dopo, Levy volteggiava leggera per il soggiorno, canticchiando piano.
Gajeel stava battendo tutti i cuscini e i divani, starnutendo di tanto in tanto, senza mai lasciarsi distrarre comunque: Levy che ballava era sempre meravigliosa da vedere. Specialmente quando muoveva il bacino leggermente.
Peccato che indossasse la gonna lunga!
Con una buona dose di forza di volontà e masochismo, Gajeel arieggiò l’immenso soggiorno per far uscire la polvere, sbatté persino i pesanti tappeti, portandoli a forza sulla ringhiera della veranda dell’entrata. Anche il camino aveva bisogno di una bella pulita, ma il ragazzo decise che ci avrebbe pensato in primavera, quando avrebbe chiamato uno spazzacamino.
Spolverò i mobili e tolse le ragnatele, per poi pulire le scale e lucidare il pavimento, che dopo parecchia fatica cominciò a splendere.
Levy intanto girava su se stessa nei punti in cui Gajeel aveva già pulito, facendo aprire la gonna come una ruota.
Lui si appoggiò alla scopa, pulendosi la fronte sudata con il dorso del polso. – Ma che stai facendo, Gamberetto?
- Ballo, non è ovvio? – rispose lei ridendo.
- Sì, ma… balli da quasi due ore.
- E allora? Ti dà fastidio? Le feste qui dentro duravano fino a tarda notte. Questa era una sala da ballo una volta.
Gajeel osservò intorno, vedendo per la prima volta quello che aveva sempre guardato. Come se fosse un’esperienza nuova per lui.
Siamo talmente abituati a guardare alle cose superficialmente da non accorgerci dei dettagli che definiscono l’essenza di qualcosa.
Il pavimento lucido, le pareti di quel marrone caldo, le scale che, coperte dai tappeti, conducevano al primo piano. Era davvero una sala da ballo. Makarov, o magari suo padre, doveva averla trasformata in un soggiorno quando l’esigenza di dare feste da ballo era ormai passata di moda. Però il salone immenso conservava lo stesso il fascino delle cose antiche, e i candelabri appesi alle pareti evocavano fantasmi del passato. Sul soffitto, molto molto in alto, era appeso un lampadario da museo pieno di candele.
Quella reggia era davvero un vecchio castello rimodernato, dopotutto.
Gajeel lasciò cadere la scopa e s’impalò davanti a Levy, costringendola a fermarsi.
- Cosa fai?
- Non è una sala da ballo? – chiese lui retoricamente.
Alzò una mano, e attese che Levy facesse altrettanto. Sembrava che si sfiorassero, ma nessun calore veniva trasmesso con quel contatto. Gajeel passò un braccio attorno alla vita di Levy, ben attento a non toccarla.
Voleva fingere che non fosse vero, fingere che non fosse un fantasma. Se non le fosse passato attraverso, avrebbe potuto illudersi e godersi un ballo con lei.
Levy sorrise, arrossì leggermente, e posò la mano sulla sua spalla, senza tuttavia toccarla.
I due iniziarono a volteggiare lentamente, e ben presto la ragazza scoppiò a ridere.
- Che c’è? – sbottò lui in un ringhio sommesso.
- Anche se sono un fantasma i piedi me li pesti lo stesso – lo prese in giro. – E sei impacciato comunque.
Gajeel provò a ribattere, ma un’altra risata lo interruppe e lo costrinse ad alzare lo sguardo.
Mirajane era affacciata sul parapetto del primo piano, insieme ad Erza, ed entrambe ridevano sommessamente. Improvvisamente apparvero anche Natsu e Gray, che invece fecero leggermente più confusione.
- Sei ridicolo! Tu hai mai visto un palo di ferro ballare, Gray? Io sì – urlò Natsu.
- Io ne ho visti due – rispose l’altro tirandogli una pugno “amichevole”.
- E chi è l’altro? – chiese Natsu, tornando serio e circospetto.
- Tu, Natsu – rispose Erza per lui.
Il ragazzo fissò il compagno con astio, prima di restituire il pugno. – Allora devi includere anche Erza – sbraitò in un impeto di rabbia, senza rendersi conto di quello che diceva.
Ciò di cui si accorse benissimo, invece, fu il lampo rosso che si frappose tra lui e Gray, menando fendenti a destra e a manca.
- Io ballo benissimo! – strepitò Erza, costringendoli alla fuga per poi inseguirli.
Mirajane intanto continuava a ridere.
- Lo spettacolo è finito – borbottò Gajeel, scostandosi da Levy per riprendere lo spazzolone.
- Stai facendo un ottimo lavoro – si complimentò Mirajane.
- Lo so – ribatté lui, piccato.
Era ovvio che stesse facendo un ottimo lavoro, non c’era nemmeno da metterlo in dubbio.
- Ohi, Mira! – esclamò poco dopo, guardando in alto, verso di lei.
- Dimmi.
- Posso prendere i vostri vestiti per farne degli stracci? Ho finito quelli puliti e mancano ancora migliaia di stanze.
- Non toccare le mie armature – scandì la voce di Erza da qualche parte della casa, perentoria.
- E chi pulisce con le armature? – farfugliò Gajeel, facendo ridere Levy.
- Penso di sì, purtroppo – rispose Mirajane scendendo le scale. – A noi non serviranno… mai più. Quindi hai campo libero. Solo… magari parti dalle lenzuola, lasciando i vestiti per ultimi. Magari non ti servono…
Il suo viso si adombrò. Era dura separarsi dai propri vestiti, ma non a causa di una strana mania affezionale femminile, quanto perché era la definitiva ammissione che non sarebbero mai più tornati ad indossarli.
Non ne avrebbero più avuto bisogno.
Là dove riposavano i loro corpi non servivano vestiti.
- Ma le lenzuola possono tornarmi utili – farfugliò Gajeel, privo di tatto o sensibilità.
Infatti Levy gli tirò una gomitata che lui sentì più che bene.
Poteva quasi indovinare il cipiglio che in quel momento le stava sicuramente adombrando il viso.
- Hai fatto un ottimo lavoro qui, comunque – si riscosse Mirajane. – Potrei specchiarmici sul pavimento chiaro.
Gajeel ammirò la sua opera: il marmo bianco aveva cominciato a splendere dopo anni di incuria e sporcizia accumulata. Ma la luce del sole che filtrava dalle finestre non entrava abbastanza. Sebbene fosse tarda mattina, il soggiorno era sempre in ombra e i candelabri alle pareti erano tutti accesi.
- Ehi, Mira!
- Sì?
- Perché è così in ombra il soggiorno?
- Hai visto quanto è grande questa casa, Gajeel? Non sarebbe illuminata del tutto nemmeno con delle finestre al posto delle mura. Guarda in alto.
Gajeel obbedì e, seguendo il dito di Mirajane, fissò un punto sopra il portone d’ingresso: cinque grosse vetrate facevano entrare più luce possibile, ed era la maggior fonte di illuminazione della casa. Da fuori sembrava quasi che non ci fosse una porzione di muro, dall’esterno.
- Quelle vetrate le ha fatte mettere su il Master alcuni anni fa. Ha ristrutturato quasi tutto qui dentro. Il castello ha quasi duecento anni, alla fine. Tetti completamente nuovi, vetrate per far entrare più luci, nuova rete elettrica e impianto idraulico, riverniciatura di ogni parete e manutenzioni varie. Non è un mausoleo questo.
Gajeel cercò di figurarsi la villa come un vero castello, con torri, fossato, colonnati antichi e scale di marmo.
Be’, il marmo non mancava di certo: tra i pavimenti della casa e i muri del soggiorno, dovevano aver depredato una miniera.
Ricco il nonnetto, eh?
Ora che ci faceva caso, comunque, poteva vedere i numerosi interventi che erano stati apportati: la moquette della sala giochi, i tappeti verdi sulle scale di marmo, le lampadine sul grande candelabro sopra le loro teste, l’arredamento moderno, gli infissi nuovi.
Rispetto al progetto originale doveva essere quasi una casa nuova.
- Inoltre i muri sono di marmo lucido. Se pulisci quelli dovresti far splendere un pochino di più l’ambiente. Rifletterà la luce.
- Ma che razza di casa ha i muri di marmo?! – sbottò Gajeel, sconvolto.
I muri di marmo?
Il soggiorno era completamente rivestito di pannelli di legno sopra i quali c’era il marmo.
Mirajane annuì e sorrise, e Gajeel riprese a lavorare borbottando mentre Levy si zittì. Probabilmente quei due anni senza di lui l’aveva resa più triste di quanto avrebbe dovuto essere.
 
Man mano che passavano i giorni, Gajeel cominciava a rilassarsi e a sentirsi più a suo agio, iniziando a percepire il castello come casa sua. Per lo meno, sicuramente più dell’appartamento in cui era rimasto in quei due anni.
Aveva ripulito a fondo il soggiorno, la sala da pranzo e la camera di Levy, cioè camera sua.
Camera loro, insomma.
Quando aveva visto in che condizioni era ridotta la piscina interna, aveva deglutito, terrorizzato, per poi chiudere la porta e allontanarsi.
A parte il fatto che dovevano essere morte più di due persone lì dentro, e non in modo “pulito”, cioè non di annegamento o infarto; sarebbe stato un lavoraccio pulire tutto.
Così aveva iniziato a rimandare, e rimandare, e rimandare.
- Gajeel, non vuoi più farti il bagno in piscina? – gli aveva chiesto Levy, scherzando, dopo che per due giorni aveva evitato quella stanza.
- No, mi basta la doccia – aveva replicato bruscamente lui, facendola ridere.
Dopo pochi giorni dal suo arrivo, aveva interagito davvero con tutti, anche se solo con un cenno del capo a mo’ di saluto, per cui poteva dire di aver visto tutti gli abitanti. Tranne Wendy, che sembrava introvabile. La misera scorta di cibo che Gajeel aveva portato da casa si esaurì in fretta, così come la quantità industriale di detersivi che era andata via come l’acqua di un rubinetto aperto.
Makarov, così, aveva mostrato al ragazzo la cassaforte per le emergenze che teneva nascosta nel castello. Solo Erza e Mirajane ne conosceva l’ubicazione, così quando per la villa girò la voce che il nonnetto stava per far vedere a Gajeel tutti i suoi soldi, l’intera Fairy Tail si riunì nel soggiorno per seguire il Master, che bofonchiava riguardo all’avida cupidigia dei ragazzi.
Rimasero tutti sorpresi nello scoprire che la cassaforte era nascosta in camera di Erza. Stanza che, prima di diventare sua, era una piccola libreria.
- Per me Erza sgraffignava i quattrini – aveva commentato Natsu, ritrovandosi con un bernoccolo violaceo in testa due secondi dopo.
Aveva insultato Erza, il cui senso di giustizia era più grande della sua collezione di armature. Impossibile che avesse rubato. Anzi, probabilmente teneva d’occhio anche i prelievi del Master.
Quei soldi comunque, oltre a pietrificare Gajeel dalla sorpresa, si erano mantenuti bene per tutti quegli anni. Il ragazzo calcolò che a occhio e croce avrebbe potuto vivere di rendita per dieci anni. E quelli erano una minima parte del patrimonio di Makarov, che aveva più fondi bancari di un imperatore.
Così Gajeel spese felicemente un bel po’ di Jewels per rifornire tutte le dispende della cucina e tutti gli armadietti dei detersivi. Ancora si chiedeva come avessa potuto riempire tre carrelli della spesa. E meno male che doveva passare in incognito, dato che dai giornali della sua cittadina era stato dato per disperso!
 
Passò un mese e Gajeel pulì a fondo tutto il primo piano: le camere delle decine di inquilini di villa Fairy Tail profumavano di pulito e aria fresca. Le coperte erano state ammonticchiate per essere lavate, molte erano state tagliate per ricavarne degli stracci, e con il permesso dei proprietari i vestiti erano stati ammassati sul letto per una cernita.
Quando buttò l’ultima maglia dell’ultimo armadio dell’ultima stanza sul letto, Gajeel vi si gettò sopra e sospirò, stanco ma soddisfatto.
- Perché continui a pulire? – chiese Erza, osservandolo dalla porta del bagno, accanto a Mirajane.
Aveva pulito ogni giorno, tutti i giorni, instancabilmente e alacremente. Natsu si era anche stufato di chiamarlo “Bella Lavanderina” ad un certo punto.
Levy era rimasta ogni giorno al suo fianco, talvolta raccontandogli storie per tenergli compagnia, oppure stando in silenzio, godendosi la sua presenza e basta.
- Mi aiuta a ricordare – mugugnò Gajeel, esausto. Ogni sera andava a letto presto e si svegliava senza fretta, cominciando subito il lavoro.
- I luoghi ti aiutano, come mi avevi detto quando mi hai pregata di raccontarti cos’è successo due anni fa? – indagò Levy, spronandolo a parlare.
Era rimasta ferma davanti alla finestra per un’ora a fissare emozionata la neve che cadeva. L’inverno era arrivato gelido e implacabile, ma a dispetto della stazza il castello era caldo e accogliente.
- Mh… - grugnì lui. – Ogni stanza appartiene ad una persona di cui ricordo qualcosa. Così riacquisto pezzetti del mio passato.
- Ma… non hai ancora scoperto cosa è successo a Levy, alla fine, giusto? – chiese Mirajane.
Ultimamente era diventata davvero pesante con quella storia.
- Possibile che tu non sappia chiedere altro? – la rimbeccò lui, irritato.
- Non fare così – lo ammonì Erza. – Siamo solo preoccupate per te. Cosa farai dopo aver pulito tutta la casa, eh? Non è vita questa, Gajeel. Non lo è per noi come non lo è per te.
Il ragazzo voleva dare una risposta piccata riguardo al fatto che anche il giardino aveva un gran bisogno di cura, ma l’espressione di Levy lo bloccò.
- Voi non preoccupatevi per me. Da qualche parte sotto la polvere di questa casa dev’esserci la risposta alle nostre domande – borbottò prima di trascinarsi in corridoio per andare a sgranocchiare qualcosa.
Da qualche parte in quella casa…
Oppure fuori.
 
I giorni si trascinavano lenti e sempre uguali, ma a Gajeel non sembrava pesare più di tanto. Levy lo costrinse a riposare per due giorni, perché sfacchinare otto ore al giorno tra la polvere e lo sporco non era una cosa piacevole. E lui ne approfittò per allenarsi, e non rammollirsi con tutte quelle pulizie da femminuccia.
Si era abituato alla sala da pranzo affollata. Durante i pasti i ragazzi gli tenevano compagnia creando un cicaleccio tale da fargli venire il mal di testa. Ogni sera tutti i fantasmi del castello si sedevano con lui nel lungo tavolo e… si comportavano normalmente. A detta di Mirajane era un modo per fargli recuperare i ricordi, e Gajeel fu costretto ad ammettere che era vero: la routine a cui era stato abituato per anni gli risultava naturale.
Be’, più o meno, visto che non poteva partecipare alle battaglie di cibo che scoppiavano una sera sì e un sera sì: la gente si rotolava sui tavoli, e lui non poteva buttarsi nella mischia. Il cibo fasullo che i suoi compagni facevano comparire per dare l’impressione di mangiare davvero gli passava attraverso, facendolo arrabbiare ancora di più.
Levy era sempre al suo fianco, non si stancava mai. Diceva che era l’unico modo che aveva per recuperare il tempo perso. Non voleva stare lontano da lui per nessun motivo.
La neve, frutto di quel gelido inverno che stava appostato fuori dai vecchissimi muri del castello, aveva ricoperto tutto, e Gajeel aveva pensato bene di fare una spesa gigantesca, riempiendo la cucina come se tutti gli abitanti della villa avessero potuto mangiare: con il paesaggio tutto uguale e indistinguibile, non avrebbe trovato la strada per il supermercato, o il modo di portare il cibo in casa.
Sicuramente però non si annoiava. Dopo cena si guardava la televisione in mansarda o restava a chiacchierare con i suoi compagni sui divani del salottino dell’entrata. Chiacchierare… per forza, dato che non poteva fare a botte. Oppure andava in sala giochi a seguire le partite con i ragazzi, a giocare a poker o a fare qualche altra cosa. Quando i fantasmi erano particolarmente in forma riuscivano a giocare anche a Monopoli: lui faceva il possibile per non stancarli, prendendo per loro le carte, e in compenso loro riuscivano a mantenere le energie a lungo.
L’aria di depressione e opprimente malinconia aveva completamente abbandonato le mura della casa, facendola tornare agli antichi splendori, con voci allegre e baruffe, urli del Master e pianti causati da Erza. Gajeel si sentiva a casa.
- Bella lavanderina, quando ti decidi a pulire la sala giochi? – lo apostrofò Natsu una sera, mentre giocavano a carte in soggiorno.
Gajeel aveva uno stuzzicadenti tra le labbra e fissava in cagnesco tutti i suoi avversari, mentre Kana, con una bottiglia in mano, faceva un giro di tarocchi e scommetteva sul vincitore. Gray, sigaretta spenta in bocca, era altrettanto concentrato, al punto da non essere nemmeno disturbato dalla presenza di Juvia abbracciata al suo bicipite. Levy era seduta per terra, tra le gambe aperte di Gajeel, e fissava il tavolo da gioco che le arrivava al mento. Makao e Natsu erano di fianco a lui, alleati, e le ragazze facevano il tifo buttate comodamente sui divani.
Erza odiava quel gioco, e dato che quella sera si era dileguata con Gerard, loro ne avevano approfittato.
- Domani – bofonchiò Gajeel in risposta a Natsu mentre parlava a Gray con gli occhi, resi ancora più rossi e indomiti dalle fiamme del camino. Dovevano vincere.
Avevano usato poco la sala giochi, perché il sangue era ancora sulla moquette e la polvere su ogni superficie libera, quindi Gajeel preferiva il salotto.
Mirajane aveva avuto ragione: una volta pulito il muro di marmo, la sala enorme era sembrata più luminosa grazie al riflesso delle lampade.
- Stai facendo un ottimo lavoro – si complimentò lei, al suo fianco, cercando di tramutare in un complimento lo scherno di Natsu.
- Sì, a quanto pare qualcosa sai fare – borbottò quest’ultimo, prima di imprecare dopo aver pescato una brutta carta.
Laxus attraversò il camino e si fermò alle spalle di Gray, attirando l’attenzione di tutti. Fece un cenno a Mirajane con la testa.
- Buonanotte a tutti, io vado – disse lei in fretta, allontanandosi in un fruscio di gonna bordeaux.
- Seh, buonanotte – li prese in giro Gray, facendo ridacchiare Juvia.
Gajeel sentì una fitta di gelosia. Anche se erano morti, i suoi compagni potevano toccare le loro ragazze. A lui invece sembrava di essere tornato agli albori della sua storia con Levy, quando dormivano insieme senza tuttavia sfiorarsi. Però era ancora peggio. Non solo perché ricordava com’era averla tra le braccia, stringerla di notte, respirare i suoi capelli e scaldarsi i piedi tra le sue gambe calde, cose ormai preclusegli, ma soprattutto perché non aveva nemmeno più quello. Gli altri, invece, sì.
Levy dormiva con lui, ma sopra le coperte. Gajeel aveva provato a farla entrare con lui nel letto, ma una volta che aveva lasciato cadere il lenzuolo pesante, questo le era passato attraverso, facendola uscire allo scoperto. Non si azzardava nemmeno a starle troppo vicino, perché girarsi di notte e passare in mezzo al suo corpo era… inquietante e decisamente terrificante.
Si addormentava scrutando nei suoi occhi caldi, nei quali un tempo vedeva i riflessi della luna. I riflessi di quei raggi che ora le passavano oltre, senza più accarezzarla. Era terribilmente freddo.
Solo Lily, come una piccola borsa termica, lo scaldava, ma il gatto non sopportava la presenza di Levy e troppe volte Gajeel si svegliava per calmare i suoi soffi indignati nei confronti della ragazza.
Che il gatto desse a Levy la colpa della dipartita di Gajeel? Chi avrebbe potuto dirlo?
- E gli eroi vincono! – esultò Gray, riportandolo alla realtà.
Juvia si era alzata con lui, abbracciandolo e lodando le sue incredibili doti. Lui e Gray avevano vinto e, ovviamente, Natsu era pronto a fare casino.
Lucy intervenne prontamente e lo trascinò via prima ancora che potesse fiatare. Makao si dileguò, letteralmente, per evitare l’onta della sconfitta, mentre Kana si dimenava e inneggiava al sake.
Gray alzò la mano e fissò Gajeel, che sogghignò e gli batté la mano. Era bello poterlo fare, ogni tanto.
- A domani compare. Buone pulizie! – gli augurò prima di allontanarsi con Juvia addosso, come una specie di seconda pelle.
Pochi minuti dopo erano rimasti solo lui e Levy.
Gajeel rabbrividì e, alzandosi, si diresse verso il camino acceso. Prese due o tre pezzi di legno e lo ravvivò facendolo crepitare felice. Poi si sedette lì davanti.
Un cuscino gli colpì la testa.
- Ehi – si lamentò, mentre Levy ridacchiava e prendeva posto vicino a lui.
- La coperta è troppo pesante – lo informò. – Potevo solo tirarti il cuscino.
Lui si alzò e prese la coperta morbida e pelosa che era in assoluto l’oggetto più conteso del castello. Cioccolata calda esclusa, ovviamente.
Restarono vicini, in silenzio, a osservare le fiamme, a farsi bollire la pelle dal suo calore, e Gajeel si rese conto che l’aria scaldata dal fuoco sfrigolava come due anni prima, quando si era consumata la tragedia.
- Siamo stati posseduti tutti, vero?
Levy annuì, senza aggiungere altro. Lui lo aveva capito ancora prima di lei, all’epoca.
- Per questo l’aria sfrigolava e vibrava. Si spostava a causa della sua presenza, di quell’essere.
Levy annuì ancora, ipnotizzata dal fuoco.
Gajeel invece rimase fermo ad osservare lei, così intensamente da non rendersi conto di aver accorciato le distanze.
Fu la sua voce a riscuoterlo: - Non possiamo.
Lui sbatté le palpebre e si ritrasse, indurendo lo sguardo per non mostrare la sofferenza. Era straziante non poterla toccare. Soprattutto dopo aver ricordato quanto le stava appiccicato quando stavano insieme… normalmente, come due comuni adolescenti innamorati.
Levy lo conosceva, però, e sapeva che i suoi pensieri malinconici erano lo specchio dei suoi. – Ti ricordi la prima volta che ci siamo baciati?
Gajeel ghignò, voltandosi a guardarla con malizia. – Vorrai dire la prima volta che mi hai baciato – la corresse, infido.
Lei roteò gli occhi e sbuffò, facendolo sogghignare.
Se lo ricordava bene, eccome.
Come dimenticare un fulmine a ciel sereno?
- Ricordo anche il secondo e il terzo – le fece presente, orgoglioso.
- Non è vero – lo sfidò lei.
- Invece sì. Tu hai la memoria corta perché sei un Gamberetto.
Levy fece per ribattere, stizzita, ma Gajeel era lontano, ormai.
Era tornato indietro nel tempo.

 
~~~~~~~~~~○~~~~~~~~~~
 
Sto pelando le patate con impegno, a quanto pare. Mentre faccio mente locale e cerco di capire dove sono e cosa sto facendo, le mie mani continuano a lavorare, imperterrite.
Si vede che faccio il cuoco. Anche quando ho iniziato a lavorare al ristorante, certe cose mi sono sempre venute facilmente, e velocemente. Ora capisco davvero perché: preparare un arrosto con patate per qualcosa come trenta persone, di cui almeno la metà maschi famelici in piena fase di crescita, aiuta sicuramente ad impratichirsi con la culinaria.
Infatti mentre ci penso ho già pelato altre due patate, sospirando.
La mia testa si gira e riesco a studiare l’orologio prima che la mia mano butti la patata pelata dentro una grossa ciotola con altre decine di ortaggi: è mezzanotte passata.
Mangiarmi patate crude immerse in acqua e sale non è il mio ideale di spuntino di mezzanotte.
Giusto per chiarire.
Mentre il mio me del passato lavora, posso concentrarmi sui dettagli, grato del lavoro meccanico che non mi assorbe attenzione. Sono stanco, probabilmente perché Mirajane è andata ad un concerto per tre giorni e domani è domenica. Il che significa che resto solo io in cucina, e la domenica è il giorno in cui tutta, tutta Fairy Tail pranza e cena insieme. Alcuni di solito lavorano o fanno quello che vogliono, ma la domenica è sacra.
E io sono solo.
Per non parlare del fatto che, essendo inverno inoltrato, la maggior parte dei ragazzi che vivono in questa casa domani non si azzarderà ad uscire.
Natsu, Lucy, Gray, Juvia, Erza e Wendy sono andati a sbrigare delle commissioni fuori città per il Master, e Dio solo sa quanta fame avrà quella Salamandra inutile quando metterà piede in casa.
- Ehi – bisbiglia una voce alle mie spalle.
Il mio corpo continua a lavorare fluidamente, senza un sussulto, per cui capisco che, nel passato, quando tutto questo è accaduto, sapevo che stava arrivando qualcuno in cucina.
Ora invece sono sorpreso perché ho la mente da tutt’altra parte.
La mia testa si gira e fisso Levy da sopra la spalla: indossa una camicia da notte a maniche lunghe, gialla e morbida, che le arriva al ginocchio. I capelli spettinati e gli occhi gonfi mi suggeriscono che si è appena svegliata.
Torno a fissare le mie mani sporche della terra delle patate che Droy coltiva con cura, per nascondere un sorriso. Da quando ho capito che cosa provo per Levy, questo sentimento strano che a volte mi rende paranoico, sembra che non sappia fare altro.
E questo è male. Io non sorrido. Non devo sorridere. Altrimenti chi mi crederà un duro?
- Cosa fai in piedi? È tardi – le dico bruscamente.
Levy non risponde. In compenso, però, si avvicina ad un cassetto e prende un altro pelapatate. Poi mi si affianca e inizia a lavorare.
Io provo a guardarla con la coda dell’occhio, ma i capelli le formano una cortina impenetrabile davanti al viso, così torno alle mie patate.
Lei è più lenta e impacciata di me, e rischia due o tre volte di pelarsi un’unghia con quelle manine piccole e delicate. Vorrei tanto sentire se sono morbide come sembrano…
- Non eri a letto e… non riuscivo a dormire – esordisce lei, a bassa voce.
Per fortuna ho un buon udito.
- Sei venuta in camera mia?
- Mh-mh – ammette lei. La cosa non mi sorprende. Ormai è un’abitudine. – Ma Lily era da solo e il letto era freddo e rifatto, quindi non sei mai andato a dormire.
Io non rispondo, perché non saprei cosa dirle. A volte le parole mi sembrano sbagliate, e preferisco il silenzio.
Non ci pentiamo mai del silenzio. Almeno, non quanto ci pentiamo di quello che diciamo.
- Non hai sonno? A me sembri stanco…
- Hai idea di cosa significhi sfamare Salamander? Domani ci siamo tutti e oggi ho dovuto aiutare gli altri a spalare il vialetto, perciò non ho potuto tirarmi avanti – le faccio notare.
So di avere un tono di voce non esattamente caldo e amichevole, ma Levy non ci fa mai caso.
Oppure ci fa caso ma sorvola, perché sa che alla fine dentro sono morbido.
Poco però. Molto poco. Sono un duro io!
- Dai andiamo a dormire – sbadiglia, stiracchiandosi. – Ti aiuto io domani mattina.
- Tu vai intanto – le dico, facendolo sembrare più un ordine. – Ho un’altra trentina di patate da pelare, ma non ci vorrà molto.
- Chi ti aiuta domani? – chiede lei abbandonando tuberi e attrezzi affilati. Si è appena pelata il pollice ma crede che non me ne sia accorto.
- Kana. E… Lisanna – borbotto dopo averci pensato.
Levy sorride e riprende in mano il pelapatate: - Meglio se continuo. Sappiamo entrambi che quando Kana è in cucina si mette a rovistare in frigo in cerca delle birre.
- Oh, non solo. Inizia a raccontare barzellette sconce e fa supposizioni assurde su coppie improponibili – ammetto sogghignando.
È uno spasso avere Kana in cucina, e tollero la sua presenza solo perché è divertente quanto inutile.
Alla fine la scampa sempre e non cucina mai, ma ho il timore che se lo facesse verrebbero fuori pasti altamente alcolici, perciò è meglio che resti a chiacchierare.
- Non ci credo! – esclama lei, mentre le si illuminano gli occhi gonfi e assonnati. – Che tipo di coppie?
Io ridacchio. – Impossibili. Tipo Gray con Miriana, la svitata amica di Erza che si crede una gatta. O Elfman con Juvia! Per non parlare di Lucy e Laxus.
Levy scoppia a ridere, immaginandosi quelle coppie senza capo né coda.
Quando si calma io sto ancora sorridendo. Colpa del sonno.
Poi la vedo rabbrividire e mi accorgo che è scalza.
- Dormi Gamberetto. Io arrivo tra venti minuti. Lavati i piedi prima di entrare nel mio letto.
Lei sbuffa ma annuisce, e prova ad allontanarsi con passo strascicato.
Non so quale strano impulso mi abbia preso anni fa, quando è successo tutto questo. Non sono il tipo di ragazzo che desidera sapere perché e per come. Eppure quella volta presi Levy per il polso, bagnandole la pelle con la mano sporca di acqua e buccia di patate.
- Levy, perché vieni sempre a dormire da me?
Che grande che sono. Tra tutte le domande che potevo fare, proprio questa. Bel colpo Gajeel.
La domanda sembra quasi una minaccia se sono io a pronunciarla!
Lei avvampa e prova a liberare il polso, ma io la tengo stretta e non le schiodo gli occhi di dosso, anche se lei si fissa i piedi infreddoliti.
- Perché… mi piace. Faccio fatica a dormire ultimamente, ma con te… mi calmo.
Cerco di contenere il calore che mi esplode nel petto, in modo che non arrivi alle guance e faccia notare il mio imbarazzo.
Annuisco lentamente mentre la lascio libera, ma lei non se ne va. Alza il viso e mi guarda, e a me pare che sia la prima volta che ci vediamo per davvero.
Scrutandoci gli occhi come per leggere le nostre anime.
Senza rendermene conto, Levy si è avvicinata.
Senza rendermene conto, le sue labbra sono a un soffio dalle mie.
Senza rendermene conto, mi bacia.
Un bacio casto e leggero, quasi timoroso, però percepisco a distanza di anni, anche ora, nel mio presente, la morbida pressione che hanno lasciato, che mi segue come un fantasma ogni volta che le sono vicino.
Io sono troppo sbigottito per fare alcunché, così lei si allontana ed esce dalla cucina.
Sono certo che il rossore che si è impossessato delle mie guance sia secondo solo a quello di Levy, anche se non ho potuto appurarlo.
Ma sono anche certo che i battiti del mio cuore non siano secondi a quelli di nessuno.
Nemmeno a quelli di Levy.
 
Quando vado a letto, diversi minuti dopo, Levy sta già dormendo con una mano posata sul pelo di Lily. Russano piano entrambi. Io mi infilo sotto le coperte esausto, e mi rendo conto che Levy è così minuscola da non riuscire nemmeno a scaldare un letto.
Scuoto la testa con disapprovazione quando il freddo mi abbraccia, gelido come la neve che cade fuori dalla finestra.
Resto fermo alcuni istanti, e sto per chiedermene il perché quando il mio corpo decide di avvicinarsi a quello della ragazza che occupa il mio letto. Le passo un braccio attorno alla vita e la trascino verso di me fino a sentire la sua schiena premere contro il mio petto.
Non sa scaldare il letto, ma quando si agita nel sonno e allaccia le gambe con le mie mi rendo conto che a scaldare me è fin troppo, troppo brava.

 
~~~~~~~~~~○~~~~~~~~~~
 
- Gajeel, hai ricordato qualcosa?
La voce insistente di Levy lo riportò alla realtà, e lui fissò il fuoco per nascondere un sorriso, come quella volta.
Grugnì un sì e lei si sporse per guardarlo in volto. – Prima che tu decidessi di ignorarmi stavo dicendo che, sì, è vero, la prima volta ti ho baciato io, ma poi sei stato tu a baciarmi la seconda e la terza volta.
- Ah no – la bloccò Gajeel, mentre un musetto peloso iniziò a strusciarsi contro il suo braccio. Il ragazzo accarezzò Lily automaticamente, concentrandosi su Levy. – La seconda magari sì, dato che potevo morire, ma la terza mi sei saltata addosso tu.
- Non ti sono saltata addosso! – ribatté lei, quasi offesa.
Gajeel sogghignò. – Oh sì, piccola pervertita. Mi sei saltata in braccio.
- Era una cosa reciproca – borbottò lei, fissando il fuoco come per incenerirlo.
Sempre che sia una cosa possibile.
Calcolando che Gajeel stava parlando con un fantasma, chi può dirlo?
- Tu mi amavi e non potevi stare senza di me – la prese in giro, stuzzicandola com’era solito fare.
- No. Be’, sì. Ora no però. Ti sei giocato tutto.
Gajeel scoppiò a ridere, facendole gonfiare le guance, indispettita. – Come no! Lascia che ti rinfreschi la memoria.

 
~~~~~~~~~~○~~~~~~~~~~
 
So che è domenica senza nemmeno bisogno di concentrarmi sull’orologio.                    
È il giorno successivo a quello che ho ricordato prima. È la domenica per la quale ho preparato le patate e l’arrosto, ma poco prima di pranzo ho dovuto interrompere tutto per concentrarmi su qualcosa di più importante.
Mentre mi aggiro, frenetico, per la casa enorme, sento stralci di conversazione snocciolati dai compagni che si stanno preparando come me.
Nevica da due giorni e, com’era prevedibile, c’è stato un incidente con la neve sull’autostrada che collega la nostra provincia a… be’, il resto del mondo. Una valanga ha ostruito il passaggio nel punto esatto in cui avrebbe dovuto trovarsi la macchina di Erza, Gray, Lucy, Natsu, Juvia e Wendy nel momento in cui è rovinata a valle.
Pure la valanga ci mancava.
I ragazzi disponibili, me compreso ovviamente, si stavano organizzando alla velocità della luce per andare a sgomberare la strada. Più facile a dirsi che a farsi, visto che il rischio slavina era ancora alto e finire sepolti dalla neve era quasi una possibilità concreta.
Ma se c’è una cosa che ho imparato stando in questa gabbia di matti è che non si abbandona un amico nemmeno quando non ci sono più speranze.
Il corridoio del primo piano è vuoto, ma viene riempito dal brusio che sale dal soggiorno. Siamo tutti pronti, manchiamo solo io e pochi altri.
I miei piedi si dirigono a lunghe falcate verso camera mia, a sinistra delle scale e da tutt’altra parte rispetto a quella di Levy.
E a proposito di Levy…
- Che ci fai qui? Pensavo fossi di sotto – le dico, sorpreso di trovarla davanti alla porta della mia stanza.
Ma il mio tono di voce è sempre lo stesso, quindi sembro solo irritato.
Lei si morde le labbra con preoccupazione, muovendo le mani e spostando il peso da un piede all’altro, irrequieta. Io entro in camera mia e lei mi segue, senza però chiudere la porta. Prendo una felpa extra per sicurezza.
So già che avrò caldo, però siamo pur sempre sotto la neve in pieno inverno. Non voglio rischiare di essere io quello che avrà bisogno di un salvataggio.
Quando mi giro per uscire rischio di scontrarmi con Levy, ferma dietro di me. Negli occhi riesco a leggerle un turbine di emozioni che io non sono in grado di esprimere. In nessun modo.
Non ci siamo detti nulla da ieri notte, anzi, questa notte appena trascorsa. Dopo il bacio… niente.
Ci siamo svegliati, e lei è sgattaiolata via sperando di non essere vista, lasciandomi al freddo in quel letto così vuoto senza di lei.
A colazione non si è presentata e poi… be’, il pranzo è saltato.
- Lascio a te la gestione della cucina – le comunico.
Lei sgrana gli occhi, spaventata.
Sì, be’, non è una mossa saggia da parte mia. Lasciare la cucina a Levy?!
Oh cavolo, che ho combinato?
Il mio intento era di andare a salvare un gruppetto di idioti e risolvere un problema, non di crearne un altro mentre ne risolvevo uno.
- Non bruciare nulla – le intimo, più serio di quanto vorrei. – Il pranzo è pronto e dovrebbe bastarvi anche per la cena. In fondo siete solo voi ragazze, no?
- E voi? – mormora lei, torturandosi con le dita l’orlo della maglia.
- Non so a che ora arriveremo. Mirajane è tornata dal concerto?
- Sì, è saltato per via della neve…
- E allora se ne occuperà lei – la informo, facendo un passo avanti con l’intento di aggirarla e uscire.
Non voglio pensare ora a quello che è successo fra noi, a quello che ho capito, al fatto che non so nemmeno se tornerò a casa questa notte. Spero di tornarci, comunque. Insomma, se finisco schiacciato da una bella valanghina qualcuno se ne accorgerà e mi salverà, no?
Ma Levy non sembra avere la mia stessa opinione, e la cosa non mi sorprende.
- Stai attento – mi supplica aggrappandosi con una manina alla catasta di felpe termiche che ho indossato.
Però sento quel contatto come se mi stesse accarezzando la pelle, lo sento a distanza di anni, anche nel presente.
Ed è bello.
- Sono sempre attento – borbotto, fermandomi di fronte a lei. – Non preoccuparti per niente. Lo sai che torno. Non sono mica come Salamander.
Spero che sia bastato a calmarla e a farla ridere, ma cosa posso fare io? Io sono bravo a far piangere la gente, di certo non a consolarla!
- Me lo prometti? – sussurra così piano che devo chinarmi per sentirla. – Mi prometti che tornerai che a casa?
Mi duole il cuore a vederla così. Tanto.
Mi chino di più, fino ad arrivare alla sua altezza, e la fisso negli occhi in modo che creda alle mie parole.
- Dovunque sarò, in qualsiasi momento, troverò sempre il modo di tornare a casa – le confido. – A casa da te.
Perché la casa non è l’edificio in cui dormiamo la notte. La casa è il posto in cui sentiamo di voler andare. O tornare.
So che i miei occhi rossi possono risultare inquietanti a volte, magari anche spaventosi, però vedo Levy sospirare e rilassarsi, anche se la sua mano rimane sul mio petto.
Non so come succeda, non me ne rendo conto.
So solo che ad un certo punto le mie labbra sono sulle sue. Per mia volontà questa volta, e di certo non morbide e timide come quelle di lei.
La bacio con disperazione, lasciando trapelare la paura che mi pervade. Non paura per me, ma per coloro che spero di salvare.
Perché, lo so, odio Natsu e Gray lo tollero a malapena, ma sono la mia famiglia ora, e sarebbe una batosta troppo grande non trovarmeli più in giro per casa e scassare la mia pazienza.
Levy percepisce tutto, capisce come solo lei sa fare, e mi stringe in un abbraccio che sa di affetto e desiderio, terrore e felicità. Mi spinge a rallentare mentre io la tengo stretta per impedirle di scappare, e il nostro bacio diventa qualcosa di vero, che mi spinge a chiudere la palpebre solo per assaporare meglio quel momento.
Però la mia angoscia è troppa e rischia di rovinare quell’istante perfetto, così mi allontano, forse bruscamente, da quelle braccia esili, eppure così forti da rappresentare la casa a cui voglio tornare.
- Tornerò – le prometto prima di allontanarmi, dopo averle scompigliato i capelli.
Accarezzo in fretta Lily, unico testimone di quello che è successo, e scendo per le scale correndo, raggiungendo gli altri che stanno riempiendo le macchine; attendo che il Master mi urli dove devo andare per poi eseguire in silenzio gli ordini. Le ragazze ci fissano apprensive dalle diverse finestre, ma io non mi giro indietro nemmeno quando gli alberi coprono i muri del vecchio castello.
Perché se lo facessi il desiderio di tornare a casa sarebbe troppo straziante.



MaxB
Stavo per assassinare il pc. Ve lo assicuro.
Alle nove ha deciso di sclerare mentre correggevo la bozza del capitolo, l'ho riavviato e ha deciso che per due ore doveva AGGIORNARSI. Ho le foto che provano che io ho dormito sul divano dalle 21 alle 23 e che il pc non è andato avanti di un millimetro nel suo aggiornamento.
Giusto quando devo postare, no? -.-
Va be', ce l'ho fatta lo stesso, ho dovuto perché martedì non posso postare.
Comunque capitolo moltissimo di passaggio, ma è uno dei miei preferiti perché... Gajeel e Levy e i bacini e il fluff e *-* Sono le tappe dei loro primi tre baci. Due in questo capitolo e l'ultimo nel prossimo.
Ho tagliato qui apposta per conservarvelo muahahaha.
SONO TANTO FELICE CHE GAJEEL nabifnsjfnkjahiuchsoI non dico nulla *spoiler* AAHH*-*
Ho detto tutto.
Vai a figliare con Levy, Gajeel, vai. Su.
Spero che il cap vi piaccia e vi ringrazio per la pazienza che portare e per l'assiduità con cui mi seguite. Grazie davvero.
MaxB

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


Due appunti dal cap 7: Gajeel e Levy, davanti al fuoco, ricordano le tappe dei loro primi due baci. Subito dopo il secondo bacio, Gajeel è costretto ad affrontare una missione di salvataggio con tutti gli altri ragazzi di Fairy Tail per salvare Erza, Lucy, Gray, Natsu, Juvia e Wendy, bloccati da una valanga.


Capitolo 8
Quando ci facevamo il bagno in un altro modo...


 
È notte fonda quando torniamo, e la villa sembra abbandonata e sola.
Nel silenzio tipico dell’inverno, quel silenzio così rumoroso da riempire ogni angolo del bosco con il leggero cadere della neve, mi sembra di essere dentro un libro di favole.
Ma non sempre le favole hanno il lieto fine, e spero tanto che questo non sia il caso nostro.
I ragazzi ci scaricano davanti alla casa insieme alle borse, alle vanghe e gli altri attrezzi per scavare mentre noi ci avviciniamo alla porta.
Quando la apriamo troviamo tutte le ragazze sedute sui divani del soggiorno, in pigiama. Non parlano, non festeggiano, non fanno nulla. Si limitano a fissare le fiamme tenendosi per mano o abbracciandosi.
Kana è seduta sul tavolino di cristallo, in maniche corte, visibilmente ubriaca, e appena ci vede urla: -  Donne di poca fede, visto che le mie carte non sbagliano!?
Tutte si girano verso di noi e scoppia il pandemonio. Gente che corre e urla e si butta ovunque. Mirajane corre in cucina per scaldare la cena, presumo. È una maga quando si tratta di risollevare il morale di qualcuno tramite il cibo. Biska viene verso di noi, tuffandosi tra le braccia di Alzack come se fosse estate e il ragazzo una piscina rinfrescante.
Lentamente arrivano tutti, e Natsu, Lucy, Gray, Juvia, Erza e le altre vittime vengono sommersi di abbracci e commenti di sollievo.
Io so già che stanno bene. Il guard-rail ha bloccato la loro macchina, impedendole di precipitare nel burrone, e loro hanno solo dovuto attendere l’arrivo dei soccorsi seduti in macchina al caldino. Beati loro, a riposarsi mentre noi deficienti facevamo il lavoro sporco.
Sì, be’, beati… Natsu aveva vomitato e a Gray era venuto un attacco di influenza intestinale.
Direi che è stato un vero e proprio salvataggio.
In ogni caso, io non sono tranquillo: non vedo Levy.
Prima che il mio cervello possa provare a capire dov’è, il mio corpo si è già mosso, ed è solo quando imbocco la seconda rampa di scale che capisco dopo sto andando: da lei in mansarda.
La trovo davanti al camino, da sola, che fissa un libro senza riuscire a leggerlo. Com’è già successo quando mi ha piantato quell’assurda scenata di gelosia per la torta di Erza.
Ho imparato che se Levy non legge quando ha un momento libero o, peggio, se ha un libro davanti e non riesce a leggere, è davvero troppo, troppo preoccupata.
So di non essere bravo nelle conversazioni, e gli esordi sono il mio tallone d’Achille, in particolare. Così invece di correre da lei, stritolarla in un abbraccio e dirle che ho scoperto di amarla, esclamo: - Per lo meno la casa non è andata a fuoco, con te in cucina.
Adesso che posso rivivere quello che è successo due anni fa, quelle parole mi sembrano ancora più penose. Che ridicolo sono.
Levy si gira di scatto, spinge via il libro e si alza a fatica, facendo una smorfia. Probabilmente perché è rimasta seduta in quella posizione rigida e scomoda per chissà quanto tempo, con i piedi talmente fermi da essere insensibili.
Però, nel momento in cui le mie braccia decidono di loro spontanea volontà di aprirsi per accoglierla, lei ci si fionda, incurante dei formicolii che le torturano gli arti, e si butta contro di me con talmente tanta forza da far passare quell’abbraccio per un placcaggio in piena regola.
Le sue mani si avvinghiano alla mia schiena e lei incassa la testa nel mio petto con una disperazione tale da rendermi certo che, quando si scosterà, ci sarà una rientranza a forma di testa di Levy nelle mie costole.
- Idiota – farfuglia lei, la voce ovattata eppure piena di sollievo.
Il suo corpo, però, è ancora rigido, e io la stringo a me posando il naso sulla sua nuca, inspirando il suo odore per calmarmi mentre lei fa lo stesso con le mie braccia. Ci sciogliamo, finalmente, ci liberiamo della tensione accumulata, e Levy si scosta quel tanto che basta per guardarmi in volto.
Quando ci baciamo, mi rendo conto che oltre ad essere stato naturale, è stato deciso congiuntamente. Non si è sporta lei, non mi sono chinato io. Ci siamo incontrati a metà strada, una metà perfetta, permettendomi di cogliere appieno ciò che la disperazione mi aveva occultato quando ci eravamo baciati in camera: desiderio.
Levy sembra essere sulla mia stessa lunghezza d’onda.
Le sue mani si aggrappano ai miei capelli mentre le mie le circondano il viso, sperando di trasmettere sicurezza con quel contatto. Cercando di realizzare che stiamo bene e tutto è finito.
Anche ora che ho la mente abbastanza lucida rispetto a quando ho vissuto veramente quell’esperienza, non riesco a capire come siamo potuti diventare così frenetici e bisognosi. Le mani di Levy riescono a togliermi ben due felpe mentre le nostre lingue si intrecciano bruciando più del fuoco alle nostre spalle, lottando per qualcosa che non sapevamo di volere così disperatamente. Le mie braccia si intrufolano lentamente sotto la sua camicia da notte, e le accarezzo le gambe solo con i polpastrelli, lievemente, come se fosse fatta di porcellana. Arrivo, infine, alla sua schiena calda, e riesco quasi a sentire lo sfrigolio che produce il freddo gelido delle mie mani a contatto con la sua pelle bollente.
Lei sospira e rabbrividisce, se di freddo o di gioia o che altro, non lo so.
Sembra che non ci sia nemmeno bisogno di respirare, siamo l’uno l’ossigeno dell’altra.
La bocca di Levy si sposta in basso, seguendo il profilo della mia mascella per posarsi infine sul collo e circondarlo con le dita sottili. Grugnisco di piacere.
Non sono ancora riuscito a capacitarmi di quella situazione quando sento la porta della mansarda aprirsi. Ci blocchiamo, immobili come statue, guardandoci negli occhi dopo tanto tempo.
- Gajeel, Mira ha detto che devi andare a mangiare con gli altri – biascica Kana, udibilmente alticcia, alle nostre spalle.
Poi si richiude la porta alle spalle e va via ridendo, senza essersi accorta della presenza femminile che la mia mole imponente nasconde.
Quando realizza in che situazione ci stava per beccare Kana, Levy avvampa e si ritrae.
Reazione normale, dato che avevo sentito le sue dita sfiorarmi la cintura più di una volta.
O forse non era normale.
- Devi andare a mangiare – mi comunica, come se non avessi sentito le parole di Kana.
- Lo so – mormoro, grattandomi la nuca, mentre le mie mani reclamano a gran voce il calore del suo corpo.
- Io… ehm… - farfuglia, imbarazzata. – Vado a dormire. Buonanotte.
Io aggrotto le sopracciglia, perplesso di fronte a quell’annuncio, ma poi lei mi bacia una guancia e io non penso più a nulla.
La osservo mentre si allontana e mi sbircia da sopra una spalla prima di sparire fuori dalla mansarda.
Ora, come anni fa, mi chiedo come sia possibile che le cose siano decollate così in fretta.
E precipitate.
 
~~~~~~~~~~○~~~~~~~~~~

Quando lo sguardo di Gajeel si focalizzò su Levy, tornando al presente, il rossore che aveva sulle guance di certo non era dovuto ad un effetto luminoso del fuoco di fronte a loro.
- Sì, be’… - farfugliò lei, imbarazzata. – Non è stata colpa mia.
- Ah no, certo – la provocò. – Eri stata posseduta.
La sua battuta, però, non fece ridere nemmeno lui, e Gajeel si pentì di aver pronunciato quelle parole nel momento stesso in cui gli uscirono dalla bocca.
Lo scoppiettio del fuoco divenne l’unico rumore udibile, e coprì persino i loro respiri.
- Comunque tu dopo mi hai ignorata completamente – riprese il discorso Levy, con un cipiglio irritato.
- Come scusa?
- Sì. Non mi hai più parlato di nulla, non mi hai più toccata o considerata, men che meno baciata.
Gajeel si grattò la nuca, come faceva sempre quando non sapeva cosa dire o fare.
Del resto, era anche stanco, e addentrarsi in quella conversazione con lei, a quell’ora, sarebbe stato un bagno di sangue.
- Già – disse solo, alzandosi. – Buonanotte Gamberetto.
- Ehi! – protestò Levy quando Gajeel salì le scale, mentre la sua risata si spandeva nell’aria come l’eco di una caverna. – Ti auguro di soffocarti con la polvere domani! O di infilzarti con una spada! – gli urlò, arrabbiata.
- Figurati! Dopo moriresti davvero – rispose la sua voce, lontana.
Levy scosse la testa, rassegnata.
Poi però pensò che perdere la vita per mano della persona più amata dovesse essere una delle cose più penose e strazianti del mondo.
E forse era quello il destino che l’attendeva.
 
Il mattino seguente Gajeel si alzò presto e iniziò subito a lavorare, dopo la colazione.
I due giorni di vacanzina ordinati da Levy erano finiti, e la casa era stata completata solo per meno di metà. Un piano era a posto, ma quello più basso non era stato ancora finito e Gajeel aveva intenzione di rimediare.
Così iniziò subito a sistemare la sala giochi.
Gli ci volle quasi una giornata intera per pulire la moquette sudicia e polverosa, diventata grigia invece di giallo-ocra.
Un po’ era colpa della moquette, ma poco. Per il resto erano da accusare gli abitanti del castello, in particolare i maschi. Natsu, Gray, Elfman, Makao, Wakaba, persino Romeo, si misero a disturbare il lavoratore, pregandolo di verificare se le console funzionavano, intimandogli di comprare i nuovi giochi che si erano persi in quegli anni, minacciandolo di fargli perdere il sonno se non avesse concluso le partite che loro avevano iniziato.
Ad un certo punto, esasperato, Gajeel raccattò spazzoloni, scope e secchi e corse dietro ai fantasmi che, dimentichi del loro essere spiriti eterei, scapparono terrorizzati: le iridi brillanti di Gajeel sembravano proprio di quel color vermiglio del sangue, e la smorfia sanguinaria che aveva sul volto non prometteva nulla di buono.
Poi, però, il ragazzo tirò un secchio in testa a Natsu. Secchio che gli attraversò il cranio senza procurare danni, ovviamente, e che rimbalzò per terra sino a sbattere contro la porta che conduceva all’armeria. Fu allora che i fantasmi si resero conto che Gajeel non poteva far loro nulla, e iniziarono a tormentarlo girandogli intorno come in una strana giostra per bambini.
Il ragazzo ringhiò, stanco ed esasperato dal loro comportamento. Ormai aveva raggiunto il parossismo della rabbia.
Levy se la rideva di gusto seduta su un divanetto davanti ad un videogioco che Gajeel aveva iniziato poco prima, cedendo alle richieste pressanti dei compagni.
Poi finì tutto, il silenziò piombò sulla grande stanza e i ragazzi si immobilizzarono, improvvisamente, rabbrividendo di paura.
Elfman fu il più accorto di tutti e dopo aver detto: - È da uomini fuggire per salvarsi la vita -, corse fuori attraversando il muro.
Gli altri non furono così previdenti e non poterono evitare la furia di Mirajane ed Erza che, tallonate da Laxus e Gerard, piombarono nella stanza menando sinistri e calci a tradimento senza lasciare il tempo di reagire.
- Fuori di qui! – tuonò Mirajane, terrorizzando persino Natsu e Gray e costringendoli a scappare via.
Gajeel rimase fermo in mezzo alla stanza, imbambolato e paralizzato.
Le due donne si erano scagliate contro i ragazzi che gli ronzavano attorno, mettendo a segno botte micidiali. Eppure lui era illeso.
Ora sapeva come si sentivano le persone che, miracolate, si ritrovavano nell’occhio di un ciclone devastante, mentre attorno a loro il mondo era ridotto ad un vorticante caos.
Mirajane gli sorrise ed Erza incrociò le braccia, soddisfatta. Alle loro spalle, Laxus e Gerard sembravano impassibili, come se avere una iena assassina per compagna fosse una cosa quasi noiosa.
O nella norma.
Be’, Gajeel aveva un uccellino dolce e affettuoso per fidanzata, e gli andava più che bene così. Doveva ancora decidere se classificare l’atteggiamento di Gerard e Laxus come coraggio o come masochismo.
O forse le ragazze li avevano semplicemente minacciati e costretti a stare con loro. Sembrava molto più plausibile.
- Non avevo bisogno di aiuto – farfugliò comunque. Non si sarebbe mostrato intimorito, mai.
Il sorriso caldo di Mira non si affievolì, ma in compenso si acuì lo sguardo duro di Erza. – Prego – disse in risposta. – Ora puoi tornare a lavorare.
Gajeel grugnì, infastidito; si diresse verso la console e la spense, trattenendosi a stento dallo spaccare il disco di gioco.
 
Fu solo nel tardo pomeriggio che completò tutta la sala giochi, lasciandosi cadere sul divanetto vicino a Levy, esausto.
- Basta per oggi – gli consigliò Levy, facendo convergere la sua forza nella mano in modo che Gajeel potesse sentire la sua carezza sul braccio.
Aprì gli occhi e inclinò la testa, rivolgendole un piccolo sorriso di ringraziamento. – Vado ancora un po’ avanti con l’armeria. Per ora non l’ho mai visitata veramente bene, chissà che mi possa aiutare a sbloccare qualcosa. È successo tutto lì alla fine, no?
Levy annuì, ma sul viso passò un’ombra che velò i suoi occhi luminosi. – Va bene.
Gajeel non voleva ammetterlo, ma sperava che tornare in quella stanza, con il corpo di Levy in vista, potesse fare qualcosa per i suoi sogni.
Non sognava più nulla.
Né Levy, né cosa strampalate, ma tecnicamente normali per chiunque.
Gli avvertimenti della ragazza lo avevano sempre agitato, ma un conto era svegliarsi con la tachicardia a causa di un sogno, e un conto era svegliarsi nello stesso modo ma senza aver sognato nulla.
Non voleva ammetterlo, ma la mancanza di quei sogni lo preoccupavano. Perché Levy non cercava più di avvertirlo di… qualsiasi cosa avesse voluto avvertirlo?
Inoltre, il suo corpo inerte sul tavolo di cemento grezzo avrebbe potuto sbloccare qualcosa in lui.
Così, anche se stanco e affamato, si alzò e si diresse verso la porta di legno pesante dell’armeria. Vi appoggiò una mano sopra e, prima di spingerla per entrare, si girò indietro e fissò il punto in cui era stato versato il sangue di Gerard. Non c’era più nulla.
Stava dando nuova vita a quella casa, cancellando le tracce dell’orrore cui aveva assistito, e sembrava che persino i fantasmi diventassero più… vivi.
Ogni traccia della tragedia in meno era una traccia di “normalità” in più.
Prese coraggio ed entrò.
 
La porta si richiuse alle sue spalle con un fruscio e infine uno scatto metallico.
Gajeel restò immobile a fissare il corpo di Levy, con la mandibola serrata e gli occhi secchi; il suo petto si alzava e abbassava ad un ritmo perfetto e immutabile, e il cuore lo seguiva a ruota. Riuscì quasi ad illudersi di vederla muovere le palpebre, di spalancarle e poi di aprirle, incurvando le labbra screpolate in un sorriso.
Poi, però, Gajeel chiuse gli occhi, e quando li riaprì Levy non si era mossa.
Distolse lo sguardo e si fissò la punta dei piedi.
- Ehi – bisbigliò la sua voce preferita.
Gajeel alzò la testa di scatto, ma quella che aveva davanti era solo l’anima di Levy. Il suo fantasma.
- Forse è il caso che tu vada a mangiare e poi a riposare. Posso leggerti un libro davanti al fuoco, se vuoi – gli propose.
Per quanto l’idea lo tentasse, il ragazzo sapeva di non poter cedere. Avrebbe dovuto affrontare tutto quello, prima o poi.
Così scosse la testa e si avvicinò per scrutare il suo corpo in cerca di dettagli rivelatori. In cerca di ricordi.
L’odore di Levy non era dei migliori. Proprio no. Lei profumava persino quando sudava. Sapeva di sale, ed era un odore naturale e non invadente. Quello, invece…
La labbra erano screpolate e le sue mani piccole e morbide sembravano scarnificate: tendini e ossa risaltavano al di sotto della pelle, sottile come carta vetrata, tesa come se qualcuno la stesse tirando.
Il vestito le andava largo addosso, e Gajeel non poté fare a meno di alzare lo sguardo per notare quanto invece lo aveva riempito bene due anni prima, con le curve proporzionate e aggraziate. Il fantasma era la bellezza incarnata di quel corpo che ormai, di bello, conservava solo il ricordo.
I capelli blu che sembravano una nuvola placida, o un’aureola o un ammasso di morbide piume di pulcino erano schiacciati sulla testa, sporchi e opachi.
La sua carnagione era pallida e talmente fragile da dare l’idea di essere sul punto di polverizzarsi al minimo alito di vento.
A Gajeel venne un’idea strampalata, eppure giusta.
- Ti va se ti lavo?
Levy rischiò di strozzarsi con la sua stessa saliva. – Che cosa?! – esclamò.
Gajeel avvampò, con suo disappunto. – Non fraintendermi! Pensavo che sarebbe stato più… decoroso per te.
Levy richiuse la bocca e osservò il suo corpo, soppesando la proposta.
Non si vergognava di mostrarsi nuda a lui. Quello no, da molto tempo ormai. Ma provava imbarazzo all’idea che lui vedesse il suo corpo di quel momento. Così mal ridotto e decisamente poco femminile e aggraziato.
Però un bagno le serviva. Non era dignitoso restare in quello stato.
- Ehm… va… va bene – concesse, mordendosi le labbra a causa dell’agitazione.
Gajeel strinse le labbra, cercando di capire come fare. Aveva quasi sperato in un rifiuto della proprietaria del corpo, ma ora che aveva avuto il via libera non poteva tirarsi indietro.
- La vasca è troppo piccola e la piscina ti farebbe solo morire di qualche strana malattia, hai qualche idea? – chiese, spostando il peso da una gamba all’altra.
Levy soppesò la domanda, riflettendo. – Nel bagno delle ragazze c’è parecchio spazio. E una piccola vasca ricavata nel terreno.
Gajeel fece una smorfia. – Devo ancora pulire, non oso immaginare chi ci sia morto dentro.
La sua frase doveva essere solo una figura retorica che desse più enfasi allo stato di degrado in cui probabilmente versava il bagno, ma l’espressione di Levy gli suggerì che forse qualcuno era davvero morto lì dentro.
- Gajeel, usa quella di camera tua – propose lei. – Insomma, è abbastanza grande da contenere te. E ti ricordi che ci stavamo bene anche in due…?
Il ragazzo avrebbe ghignato di fronte al tono imbarazzato della ragazza, se solo non si fosse ritrovato a pensare a tutti i bagni che avevano fatto insieme.
Con un grugnito acconsentì, e si avvicinò con titubanza al corpo.
Lentamente sollevò una mano e con le dita, leggero come il volo di una piuma, le sfiorò gli zigomi un tempo pieni e morbidi. Non approfondì il contatto per paura di vedere la pelle sparire nelle scie di calore lasciate dalle sue mani, come se fossero state gomme da cancellare.
Però aveva decisamente bisogno di un bagno: sembrava che persino sulla sua pelle si fosse accumulata polvere.
Gajeel passò lentamente un braccio sotto alle sue ginocchia e l’altro dietro la schiena. Levy avrebbe riso di fronte a tanta attenzione se non fosse stata così in ansia per le sorti del suo fisico. Si fidava ciecamente di Gajeel, ma la fragilità di quel corpo di porcellana restava, indubbiamente.
E lui non era meno teso di lei. Era stato meno impacciato e in imbarazzo durante i suoi primi approcci fisici con Levy, il che era tutto dire.
Nel momento in cui la sollevò, anche se delicatamente, la testa le ricadde all’indietro come un peso morto e Gajeel temette di scoprire che aveva il collo spezzato. Un braccio pendeva inerte mentre l’altro era appoggiato al suo petto, come a proteggersi da un’ipotetica aggressione.
Sentiva le ossa premergli contro l’addome, sentiva le giunture e i legamenti sotto le mani, sentiva che di carne, in quel corpo che aveva tanto amato, non era rimasto granché, e questo gli faceva male. Se non avesse avuto tutto quel controllo, l’avrebbe lasciata cadere a terra dalla paura. Era anoressica, e non c’è niente di peggio che toccare un corpo tiepido, vivo, e sentire solo la durezza delle ossa lì dove dovrebbe esserci la morbidezza della vitalità.
Voleva piangere dalla pena.
Che cosa avevano fatto alla sua Levy?
Mentre saliva le scale per arrivare nella sua vecchia camera, tallonato dal fantasma depresso della ragazza che portava in braccio, Gajeel giurò che avrebbe ottenuto vendetta su chiunque avesse ridotto in quello stato la cosa più preziosa che aveva.
 
Lavare Levy si rivelò più arduo del previsto. La pelle morta che si era appiccicata al suo corpo in quei due anni si scollò, libera, e a Gajeel sembrò che tutto il corpo finalmente respirasse di nuovo, con ogni poro libero e fresco.
Le cellule morte si staccavano a scaglie dai tessuti, così grosse che Gajeel si prese paura. Se non ci fosse stata Levy a spiegargli che era solo un bene se si stava spellando, avrebbe avuto un attacco di panico. La sporcizia accumulatasi era così tanta da costringere il ragazzo a svuotare la vasca per ben due volte, e solo la terza volta che la riempì l’acqua rimase limpida.
Dopo aver grattato via ogni residuo morto, la pelle di Levy tornò liscia e morbida, anche se pallida e al limite della soglia di calore richiesta dal fisico per mantenersi vivo. Per lo meno c’era l’acqua a scaldarla.
Gajeel la massaggiò dolcemente cospargendola del suo bagnoschiuma preferito, quello che aveva continuato a comprare senza motivo apparente in quei due anni in cui di sé aveva saputo solo il nome. Lui poteva non ricordare, ma il suo naso aveva agito per lui.
Levy lo incoraggiò ad accarezzarla di più, senza avere paura di romperle qualcosa o di sembrare un maniaco, in modo da riattivarle la circolazione. E così fece Gajeel, donando sollievo alla sua schiena piagata e alle sue gambe stanche di stare ferme.
Le lavò i capelli con devozione e accuratezza, applicandole lo shampoo per ben tre volte in modo da assicurarsi che fossero effettivamente puliti. Per il fisico di Levy il tempo sembrava essersi fermato, e i capelli non le erano cresciuti, così come i peli. Altrimenti sarebbe stata una specie di donna-scimmia.
Sembrava che fosse trascorsa un’ora invece di due anni, una cosa in qualche modo incomprensibile.
Quando sciacquò via anche il balsamo e l’odore di pulito gli penetrò nelle narici andando a sedimentarsi nei suoi polmoni, Gajeel ghignò con malizia alla volta di Levy, che si impegnò al massimo per non arrossire.
Sapeva che stava ripensando a tutte le volte in cui lui l’aveva trascinata in vasca con lui, più per il gusto di sentirla brontolare e opporre resistenza che per il piacere di essere abbracciati e protetti dall’acqua calda. Ma Levy era imbarazzata perché ricordava come alla fine il litigio finisse con lei che emetteva brontolii… be’, non esattamente irritati.
- Muoviti a finire – lo rimproverò lei, anche se Gajeel stava facendo il più in fretta possibile.
- Saresti di un’altra opinione se fossi dentro qui invece che lì – la informò, indicando con un cenno della testa il corpo stretto tra le sue braccia.
Levy arrossì ancora di più e sbuffò, stizzita e gelosa di quelle carezze che non riusciva più ad assaporare.
Quando, pochi minuti dopo, Gajeel tirò fuori il corpo di Levy dalla vasca, si pentì di aver già pulito il bagno della loro camera: era più sporco di prima.
La schiuma del detergente e quella dello shampoo si erano mischiate e avevano imbrattato tutto di un morbido e poroso bianco su cui Gajeel non faceva altro che scivolare e lasciare pedate, mentre l’acqua della vasca si era depositata a terra in piccole pozze a causa degli schizzi.
Con l’aiuto del fantasma di Levy, il ragazzo riuscì ad avvolgere il suo corpo in un asciugamano enorme.
Fu un sollievo, dovette ammettere a malincuore, non vedere più quel corpo che sembrava agonizzare, così teso da essere prossimo alla rottura.
Le costole e le ossa del bacino erano visibili a occhio nudo, senza nemmeno bisogno di fare una radiografia. E quell’asciugamano che un tempo le fasciava così bene le curve, tanto da fargli venire voglia di toglierglielo e ributtarla in vasca, era enorme. Levy ci navigava dentro, e quel contrasto metteva ancora più in mostra le ginocchia ossute, quasi deformi da quanto erano grandi.
Per Gajeel era stata dura toccarla e sentire sulle dita la fragilità di quella piccola forza della natura che era Levy, ma l’acqua aveva mascherato la realtà. Vederla a occhio nudo, senza vestiti a coprirla, era più tremendo di qualsiasi tortura Gajeel avesse mai potuto subire.
La depositò sul letto su cui aveva già preparato un altro asciugamano e le tampono delicatamente la pelle, come un giardiniere premuroso che cerca di guarire i delicati petali di un fiore debole.
Poi girò le spalle e fece per tornare al bagno.
- Ehi! – protestò Levy. – Non avrai mica intenzione di lasciarmi qui a prendere freddo, vero?
- Devo pulire la vasca prima. Intanto tu ti asciughi – rispose lui, sparendo oltre la porta.
- Grazie tante! Prenderò un raffreddore e morirò di sicuro!
Gajeel ridacchiò, facendo sorridere anche la ragazza fintamente arrabbiata. – Oh certo. Sei sopravvissuta due anni dopo una pugnalata al cuore, ma un colpo di vento potrebbe minare il tuo sistema immunitario!
Levy sbuffò e decise di lasciar perdere e attendere che Gajeel finisse di pulire prima di riuscire a vedere il suo corpo finalmente vestito e riscaldato.
L’operazione però non si rivelò così semplice e veloce, perché le cellule morte di Levy si erano attaccate ai bordi della vasca e la loro appiccicosità le rendeva difficile da togliere. Fu un lavoro duro e se Gajeel non fosse stato così abituato a maneggiare alimenti viscidi e non sempre piacevoli al tatto, pulire gli avrebbe fatto ribrezzo. Pregò che Levy non lo seguisse, scoprendo così quanto il suo corpo si era squamato, e per una volta il suo desiderio fu esaudito.
Quando tornò in camera, trovò la ragazza sdraiata supina sul letto, intenta a contemplare il proprio volto incavato.
Sembravano due gemelle, e a Gajeel fece uno strano effetto vederle così vicine. Erano la stessa persona, ma erano totalmente diverse.
- Posso bruciare il vestito? – chiese con poco tatto. – Puzza ed è sporco.
Levy non si voltò, e rispose: - Fai come vuoi. I miei vestiti sono nell’armadio. Spero che non siano stati mangiati dalle terme o che non abbiano un odore cattivo.
Gajeel aprì l’armadio e frugò un po’ tra i suoi vestiti. Dopo alcuni istanti ghignò e si voltò con in mano un succinto abito rosso. Probabilmente le sarebbe arrivato a metà coscia. Era pieno di brillantini luccicanti e in vita aveva una cintura di nastro che doveva chiudersi con un grande fiocco. La parte superiore terminava come un top a cuore smanicato e pieno di pelo bianco e soffice. Delle maniche rosse con i polsini molto larghi e pieni di pelo erano abbinati al vestito, lasciando così le spalle nude. Anche l’orlo della gonna era decorato con il pelo bianco.
Gajeel non l’avrebbe mai dimenticato: era il vestito natalizio che le aveva regalato due anni prima e che si abbinava benissimo alla biancheria provocante che le aveva regalato in un’altra occasione. Aveva sperato di vederla vestita così la notte dell’incidente, quando invece lei aveva deciso di mettere quell’antico vestito giallo.
Levy avvampò. – Non azzardarti a farmelo indossare! Prenderei solo freddo e tu lo sai, maniaco pervertito!
Ma Gajeel sogghignò ancora di più e aprì il cassetto della biancheria.
- Gajeel Redfox non provare nemmeno a cercare il corpetto e il resto del corredo che so che stai cercando! – gli intimò alzandosi e raggiungendolo.
Si parò davanti a lui, attraversando l’armadio, cosa che detestava fare, solo perché sapeva che metteva a disagio anche lui.
- Mettimi. Una. Felpa. E. dei. Maledetti. Leggings! – scandì, pungolandogli il petto con l’indice ad ogni parola pronunciata.
Gajeel sentì bene il contatto, ma non perse per questo il ghigno, quello che non prometteva nulla di buono. – Va bene, va bene! – concesse alzando le mani, cadendo poi sul letto ridendo.
- Ehi, occhio al mio corpo! – strillò Levy, che cercava di restare arrabbiata anche se negli occhi aveva un’inconfondibile luce divertita.
Il ragazzo si spostò sentendo il contatto con i piedi di Levy. Li toccò e sentì quanto freddi erano diventati.
Il sorriso si spense immediatamente.
- Mi sa che devo metterti davvero una felpa. Una delle mie, piccola ladra?
Levy sorrise con aria colpevole. D’inverno amava rubare le felpe calde e pesanti di Gajeel, dentro cui scompariva. Alcune le arrivavano quasi alle ginocchia, e per stare comoda in camera erano la prima scelta.
- I leggings dovrebbero essere nell’angolo destro dell’armadio. Dammi la felpa più calda che hai.
Gajeel ubbidì senza fiatare, lanciando i pantaloni sul letto. Nel cassetto della biancheria prese dei calzettoni grossi di lana, quelli che Levy indossava quando aveva la febbre. Poi scrutò il fantasma alle sue spalle da sopra la spalla. – Perizoma?
La ragazza avvampò e balbettò: - Cosa? Eh?
Gajeel tirò fuori dal cassetto un paio di mutande che potevano benissimo passare per un filo di cotone grosso. Stoffa? Forse non ce n’era nemmeno.
- M-m-mettilo giù subito. Eri tu a comprarmi quelle… quei… be’ hai capito – mormorò lei.
A Gajeel parve di vedere la sua pelle bollire, tanto era rosso il colore delle sue guance. Se chiudeva gli occhi poteva immaginare il calore irradiarsi dalla sua pelle.
Avrebbe dato qualsiasi cosa per poterle prendere il viso tra le mani.
- Non ero io a comprarteli! – esclamò lui, sogghignando. – Ero io ad apprezzarli, ma quando ti toglievi il pigiama e mi saltavi addosso con qualcosa di nuovo, era una sorpresa anche per me.
Levy gonfiò le gote, assumendo le sembianze di un pomodoro.
- Solo perché ti ho regalato due completini intimi non vuol dire che te li ho comprati tutti io – le fece notare.
La ragazza non sapeva più come ribattere, perché lui aveva ragione. Indossava quasi sempre mutande classiche, comode, quasi fatte a culotte, e Gajeel non le aveva mai detto che preferiva qualcosa di più provocante. Poi lei una sera, per provare, aveva messo una mutanda… non molto mutanda. E il ragazzo di certo non si era opposto. Così aveva comprato qualche completino sexy per fargli un piacere. Di giorno non indossava nulla del genere.
- Prendimi le mutande normali, subito – gli intimò.
Gajeel si concesse un ultimo ghigno bastardo prima di afferrare delle caste mutande bianche a fiori e dirigersi verso il suo corpo.
Levy, ancora arrabbiata, non perdeva nemmeno un gesto di ciò che faceva.
- Sai, dopo tutto il tempo che siamo stati insieme e tutte le cose che abbiamo fatto, ancora mi chiedo come tu possa vergognarti così tanto per queste stupidaggini – la derise mentre toglieva con cura gli asciugamani dal suo corpo.
A Gajeel vennero in mente mille occasioni, mille diverse atmosfere, mille lune differenti durante le quali aveva osservato con estrema attenzione il corpo nudo di Levy, che brillava della tenue luce notturna. Era come la luna, che splendeva perché illuminata dal sole.
 Amava guardarla, e quando lei se ne accorgeva squittiva imbarazzata e avvampava, cercando di coprirsi come poteva le parti più esposte del corpo. Gajeel rideva sempre e la stringeva a sé per ripicca, ma sapeva bene che in realtà Levy era lusingata da quegli esami pieni di amore.
In quel momento, invece, cercò di guardare il meno possibile quel corpo, affinché i suoi tragici dettagli non si sovrapponessero a quelli più vecchi e piacevoli. Voleva ricordare quanto Levy fosse morbida e perfetta, non quanto fosse scheletrica.
Il fantasma se ne accorse e l’imbarazzo lasciò spazio alla malinconia.
Nessuno dei due aprì bocca per un bel po’ di tempo, mentre Gajeel vestiva con cura Levy.
Con i calzettoni, la mega-felpa e i leggings sembrava pronta per infilarsi nel letto a dormire. Anzi, sembrava proprio addormentata. La pulizia le aveva fatto decisamente bene e il viso aveva ripreso un po’ di colore e lucentezza.
- Ora che si fa? – domandò Levy, seduta sul letto.
- Si dorme – rispose lui, fissandola come se avesse appena chiesto se lui era maschio o femmina.
Insomma, non era ovvio?
- E io?
Gajeel aggrottò le sopracciglia. – Tu cosa?
- Mi lasci qui sul letto?
- Be’… - mormorò lui grattandosi la nuca. – Sì. Perché, no?
Levy, perplessa, si spostò quando Gajeel prese in braccio il suo corpo e lo depositò sotto le coperte, nel lato di letto che lei era solita occupare. Le sistemò le coperte in modo che non soffrisse il caldo e poi andò in bagno.
Diversi minuti dopo spense tutte le luci e si coricò di fianco a Levy, abbastanza vicino da sfiorarle il braccio.
Strano a dirsi, ma Levy aveva scaldato il letto. Poco, certo, ma almeno Gajeel non si sentiva più solo. Allungò una mano e strinse quella di Levy.
- Ehi, Gamberetto? – chiese a bassa voce.
Il che significava che avrebbero potuto sentirlo anche con la porta chiusa. La sua voce si sentiva sempre troppo.
- Sì?
- Così mi sembra che tu sia davvero qui con me – ammise.
- Ma io sono qui con te – rettificò lei.
- Hai capito cosa intendo.
Levy non rispose e Gajeel, facendo attenzione, si avvicinò a Levy ancora di più. La stava abbracciando attraverso la felpa, ed era il massimo che potesse ottenere. Senza quella, oltretutto, avrebbe sentito la sua magrezza premergli contro il braccio come un coltello.
L’odore dei suoi capelli profumati, la morbidezza del suo viso, la regolarità del suo respiro accanto a sé risvegliarono in Gajeel una miriade di ricordi che non pensava nemmeno di rammentare.
E si addormentò felice perché, anche se Levy era un corpo vuoto, anche se era un fantasma, anche se era tutto orribilmente surreale, lei era ancora con lui.
Così si addormentò sorridendo.
 
Quella notte i sogni tornarono a tormentarlo e Gajeel si sorprese della vividezza con cui si presentarono. Sembrava davvero che fosse lì con Levy, ma la luce bianca che rendeva impossibile distinguere cielo, terra e ambiente non aveva nulla di naturale.
Al suo risveglio, però, Gajeel non ricordava niente. L’affanno era quello di sempre, il senso di inquietudine e la nostalgia anche. La tachicardia sembrava addirittura peggiore, come l’ansia della Levy del sogno.
Andò in bagno a sciacquarsi il viso mentre il bianco della neve rendeva il bosco simile al suo sogno.
E mentre si lavava il viso con energia, sperando di scacciare via il tremore, gli venne in mente cosa Levy gli aveva detto con tanta insistenza: di andare assolutamente in armeria per ottenere la chiave.



MaxB
Sì dico solo che io non mi ricordavo di averla tirata tanto per le lunghe. Ops ahahahah.
Ma sì dai è la quiete prima della tempesta... eheheh.
Adoro leggere nelle recensioni le vostre congetture, e dico solo che credevo di essere stata più... mh... come dire...sibillina? Invece ho praticamente scritto segreti che avete capito tutti ahahahaha.
Però devono ancora essere scoperte diverse cose. E nel giro di due capitoli inizierà a trapelare qualcosa. Il prossimo è ancora di passaggio, il 10 invece sarà più... di impatto. Circa. Almeno saprete che cavolo è successo in armeria dopo uno dei tanti svenimenti di Gajeel.
Portate pazienza, spero che il cap vi piaccia lo stesso^^ Godetevi i battibecchi tra i nostri due amati*-* E VIVA GAJEEL CHE ARROSSISCE kfakjfkjabfkjasbcnkjsncvijas *muore*
Grazie di cuore a tutti!
MaxB

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9
Pulite pure voi, cialtroni!

 

- Gajeel basta, sei distrutto ormai – lo supplicò Levy quella sera, seduta sul freddo tavolo di cemento grigiastro che sembrava brillare come lucente marmo.
- No, deve esserci una chiave qui intorno, dev’essere così o tutto questo non ha senso! - si infervorò Gajeel continuando a guardare vicino alla moltitudine di armi dalle forme e scopi più svariati.
- Ma qui non c’è nessuna chiave! Ti prego, vai a dormire! È da questa mattina che lavori e hai fatto solo una misera pausa pranzo!
E non era un’esagerazione. Dal suo risveglio fino a quel momento non aveva fatto altro che pulire teche di vetro e lucidare armi, arrivando al punto di far risplendere la stanza ogni qual volta la luce incontrava una lucida lama di qualche arma.
- Levy, tu non capisci! – sbottò Gajeel, facendola sussultare. Raramente alzava la voce con lei, e quando succedeva se ne pentiva sempre amaramente. – Io so che qui c’è qualcosa. Deve esserci qualcosa per capire. Una botola nascosta, un pertugio, qualsiasi cosa. E io sto pulendo questo maledetto castello solo per trovare un senso a tutto questo.
- Ma... come fai ad essere sicuro che ci sia una chiave? – mormorò Levy, la voce flebile come il fuoco di una candela morente.
Gajeel aprì la bocca per rispondere, ma la richiuse immediatamente, in maniera così brusca che quasi si udì il rumore dei denti che cozzavano tra di loro.
Non parlare a nessuno di me. Nemmeno a me stessa.
Levy gliel’aveva detto parecchi giorni prima, e poi era sparita e lui non l’aveva più sognata. Ma quella notte gliel’aveva ripetuto, oltre a rivelargli della chiave che era nell’armeria.
Non capiva per quale motivo Levy continuasse a suggerirgli di non fidarsi di Levy stessa, però era sicuro di una cosa: la ragazza del suo sogno aveva qualcosa in più, qualcosa che il fantasma non aveva.
Qualcosa che gli ricordava casa.
Se avesse preso un granchio si sarebbe maledetto a vita, ma aveva dei sensi buoni e il suo istinto era affidabile.
- Lo so e basta. In fondo, è qui che si è concluso tutto, no? – le fece notare poco dopo.
Levy annuì fiaccamente, e si mise a cercare con lui quella fantomatica chiave.
Passò quasi mezz’ora, e dell’oggetto onirico nessuna traccia.
Nessuno dei due aveva più aperto bocca.
- Forse non è una chiave reale. Magari è metaforica – suggerì Levy.
Gajeel non rispose.
- Ehi, ci sei? Sto parlando con te.
Ancora silenzio.
Levy sbuffò e si girò per osservare Gajeel che dava le spalle a lei e alla porta. Era in piedi dall’altra parte del tavolo di cemento, fermo davanti ad un teca.
- Gajeel tutto bene? – domandò lei avvicinandosi, fermandosi accanto a lui.
- Perché è vuota?
Levy aggrottò le sopracciglia. – Cosa?
In risposta, il ragazzo fece scorrere un dito sul bordo superiore di quella teca di vetro che stava osservando, quasi ipnotizzato.
Lo aveva notato ogni volta che era entrato nella stanza, ma non vi aveva mai prestato davvero attenzione. Dopo aver passato un’intera giornata a pulire l’armeria, però, il fatto che fosse vuota risultava strano come un pulcino al cinema. Tutte le armi avevano il loro posto sul muro, e tutti gli scomparti e i mobili espositori avevano la loro arma.
Quella teca, invece, era completamente vuota. Gajeel si chinò per osservare gli intagli su quel piedistallo di legno. A occhio e croce doveva essere vecchio quanto il castello stesso, ma mantenuto con la stessa cura che si sarebbe riservata ad una corona d’oro. Il vetro era lucido come uno specchio che riflette la luce, e spesso come se fosse antiproiettile. La parte superiore della teca, di vetro anch’essa, che doveva sigillarne il contenuto all’interno, era appoggiata al muro al suo fianco, e spariva per metà dietro il legno del piedistallo.
- Questa teca è vuota – specificò Gajeel alzandosi, accarezzando il lungo cuscino di seta rossa che aveva pulito e liberato dalla polvere.
- Ah. Be’, mi pare ovvio – disse Levy.
- Grazie tante – farfugliò risentito, facendola ridere.
- Sto scherzando. È vuota perché l’arma l’ha presa Erza.
- Mh. Ma Erza non ha un fantastilione di armi?
- Sì, ma questa è speciale. È un’arma portafortuna, estremamente potente.
- Ma di cosa stai parlando? Che cosa c’era qui dentro? – indagò Gajeel, stanco di parlare di una cosa di cui non immaginava nemmeno la forma.
- Di una spada, ovviamente!
Ovviamente. Che arma poteva fregare, Erza? Di certo non una mazza ferrata.
- Senti, che ne dici di spiegarmi un po’ di cosette? – le chiese con poco garbo, irritato.
Levy si avvicinò e lo scrutò, com’era solita fare quando Gajeel aveva qualcosa che non andava e non aveva intenzione di parlarne. Solo lei riusciva a notare i suoi cambiamenti d’umore.
- Davvero non ti ricordi nulla della Spada dello Spirito?
- La che? Ah, certo, è un’abitudine di Erza dare i nomi alle spade. Questo non significa che io debba saperli tutti, non ti pare?
Levy ridacchiò. – Non gliel’ha dato Erza il nome. È il suo nome.
- Oh sì, tutto chiaro. Questa sera mi metto Lucio, va bene?
Levy lo fissò perplessa. – Eh?
- Lucio, il mio paio di boxer neri. Uno dei tanti. Ma non gliel’ho dato io il nome. Lucio è il nome del paio di boxer.
Levy ci impiegò un po’ di tempo a capire che la stava prendendo in giro, e quando successe gli tirò un pugno sul braccio che però non gli fece niente. E il bello era che lei doveva impegnarsi più del normale per toccarlo.
- Scemo. Non intendevo quello. Questa spada si chiama così perché è una spada speciale. È un regalo donato ad un antenato del Master dal forgiatore più abile che sia mai esistito. Le sue spade sono tutte leggendarie, esposte in musei famosi disseminati per il mondo. Ma la Spada dello Spirito è la più fenomenale di tutte, ed è un dono. È stata forgiata grazie al fuoco dei draghi e alla potenza degli spiriti della natura.
- Devi smetterla di leggere favole sui draghi, Gamberetto – sbuffò Gajeel.
Aveva intuito che la faccenda sarebbe andata avanti un bel po’, così si era seduto sul freddo tavolo di cemento. Non voleva dirglielo, ma lui adorava sentirla raccontare storie. Di solito se ne stavano sdraiati sotto le coperte, abbracciati, e la sue voce pacata e melliflua lo cullava, trasportandolo in mondi di fantasia dove poteva vivere della avventure con lei.
Non gliene aveva raccontata nemmeno una da quando era arrivato, e gli mancavano.
- Non è una favola. È una storia che ho trovato in un libro in mansarda. È un libro vecchissimo. Si chiamava proprio Fairy Tail. Il Master mi ha rivelato che racchiude la storia di questo castello, anche se lui non ha mai creduto a tutto. Ha detto che spettava a me decidere a cosa credere, e io credo ad ogni singola cosa.
- Come sempre… - bofonchiò lui. – Tutto quello che è scritto in un libro per te è sacro.
- Vuoi sentire la storia della Spada dello Spirito o vuoi continuare a brontolare? – chiese lei, stizzita.
- Vai avanti.
- Ecco, grazie. Come dicevo, è una spada particolare. Il forgiatore, Zeref, la donò all’antenato del Master per festeggiare le nozze tra sua figlia e il promesso sposo, il primogenito dei Dreyar. Quindi i due, oltre ad essere intimi amici, erano anche consuoceri. Purtroppo Mastro Zeref era gravemente malato e, dopo aver forgiato la spada, spirò. Sembra che sia stato consumato dalla passione che instillò nella spada stessa, consumato da quell’energia che la spada pretendeva. Per questo si chiama Spada dello Spirito. Perché contiene lo spirito di Mastro Zeref, morto per dare alla vita la spada.
Gajeel la fissava con il mento appoggiato tra le mani, i gomiti puntellati sulle cosce. All’inizio era stato più interessato ai movimenti e ai gesti di Levy, o al classico modo in cui si illuminava quando raccontava qualcosa, ma la storia aveva lentamente iniziato a prenderlo.
- Tipo che quel tizio è dentro la spada?
Levy si bloccò e lo fissò con astio. – No – disse, seccata. – Zeref non è dentro la spada, ma ha dato potere alla spada. Si chiama Spada dello Spirito, ma ha molti nomi. Spada dell’Unione, Spada della Separazione, Spada della Dannazione.
- E quindi?
- Ci sto arrivando Gajeel! Stai buono? Sei peggio di un bambino – sbuffò Levy, mentre Gajeel ghignava soddisfatto. – Il fatto che sia una spada speciale, e che sia nata dall’amore che Zeref nutriva nei confronti della sua stessa figlia e di Dreyar, l’ha resa una spada portafortuna. Nel momento in cui quella spada ha preso posto in questa teca, è come se avesse attivato uno scudo protettivo che ha reso sicura la casa.
- In che senso? – la interruppe Gajeel, con le sopracciglia aggrottate.
- Gajeel, è una spada portafortuna! Il primogenito dei Dreyar e la figlia di Zeref hanno costruito il loro impero da zero. Hanno fondato la città, diventando ricchissimi, e la spada li ha protetti dalla sfortuna. Il castello non ha mai preso fuoco, non è mai crollato nulla, tutto era prospero. E i nemici non si sono mai avvicinati a queste mura.
- Lo vedo – sbuffò Gajeel, sarcastico, alludendo a ciò che era successo due anni prima. Di sicuro non un evento fortunato. – Aspetta, la spada dov’è, adesso?
La teca era vuota. Era vuota anche la prima volta in cui aveva messo piede nell’armeria. Era sempre stata vuota.
- Erza… - mormorò Levy.
Gajeel assottigliò gli occhi, per guardarla con più attenzione. – Erza cosa?
- Erza aveva un campionato il giorno in cui è successo il disastro. È partita la mattina presto e ha preso la Spada dello Spirito, per combattere con quella.
- Che cosa?! – esclamò Gajeel. Senza rendersene conto, aveva cominciato a credere alla storiella della spada portafortuna. – Ma il Master lo sapeva? Ma se proteggeva la casa come ha potuto…? Cosa…?
Mano a mano che poneva domande sempre più urgenti e terribilmente logiche, capiva che la cosa aveva un senso. Le cose erano andate bene per, quanto?, duecento anni? Come mai il disastro era successo proprio quando Erza aveva portato via la spada?
- Il Master lo sapeva, le ha dato il permesso.
- Ma… no!
- Sì, Gajeel. Ti ho detto che Makarov mi ha detto di decidere da me a cosa credere. Lui non credeva alla storia della spada. Io sì. Ma non sapevo che Erza l’avrebbe presa. Il campionato era una cosa grossa. Avrebbe potuto vincere il titolo di Campionessa Mondiale della Scherma. Anzi, l’ha sicuramente ottenuto. Certo che tornare a casa e trovare tutti morti non dev’essere stato un bel modo di festeggiare… - aggiunse bofonchiando.
Il cervello di Gajeel girava come una trottola. Lui l’aveva visto. L’ultimo ricordo legato alla morte di tutti riguardava l’arrivo di Erza e la sua perdita di memoria.
- Erza aveva la spada al fianco quando è tornata a casa! Ha ucciso Gerard, è venuta qui in armeria e io l’ho… uccisa, ma la spada era al suo fianco.
- Esatto.
- Dov’è ora?
- …questo non lo so, Gajeel.
- Dobbiamo riportarla qui. No? Potrebbe continuare a proteggere la casa. Lo spirito potrebbe tornare!
Levy alzò le mani, provando a calmarlo. – Gajeel, rilassati. Sei qui da mesi e va tutto bene. Respira.
Gajeel chiuse la bocca e si stropicciò il viso. Sentire il freddo dei piercings contro le mani lo aiutava sempre a riprendere lucidità.
- Quindi è vera la storia della spada?
- Direi di sì. Insomma, per duecento anni la spada resta nella teca e va tutto bene. Erza la porta via due giorni e succede il finimondo. Era… è una spada portafortuna. Ma ha anche altri poteri.
- Cioè?
- Cioè influisce sulla nostra anima, sul nostro spirito. Spada dello Spirito, no? È immortale, per così dire, perché non si ossida mai, non deve mai essere affilata. Ma ha un potere molto grande su noi umani. Mirajane ti ha spiegato come mai esistiamo noi fantasmi?
- Sì… circa.
- Moriamo, e siamo mangiati dai lombrichi. Ma se la nostra vita finisce in un modo che non doveva, quindi per omicidio, diventiamo fantasmi. C’è un altro modo per diventare fantasmi. Questa spada separa lo spirito dalla carne. Se viene usata su di te, ti rende un fantasma, perché opera una frattura su quel legame che tiene uniti te e il tuo corpo. Quest’ultimo muore, incapace di vivere senza un’anima, ma soprattutto a causa della ferita che la spada causa. La tua anima è libera da legami e vive indipendente, senza potersi manifestare agli altri. Però può anche unire due anime in un corpo solo, perciò Spada dell’Unione, così come può separarne due.
Gajeel fissò intensamente Levy, e gli tornò in mente lo stato del suo corpo. – Tu hai combinato qualcosa con quella spada, vero?
La ragazza sobbalzò e lo osservò con aria colpevole. – Ti ho già detto che non posso dirti nulla, Gajeel – si scusò.
Lui sbuffò e strinse i pugni. Poi gli venne in mente una cosa. – Come fanno i fantasmi a trovare la pace? I ragazzi che sono in questa casa la troveranno quando morirà il colpevole degli omicidi, giusto? Ogni assassinato morirà definitivamente quando il loro omicida sarà assicurato alla giustizia. Ma chi perde la vita per colpa di questa spada?
- Non credo ci siano molti casi del genere al mondo, Gajeel. Questa spada è unica e non sono sicura che sia mai stata usata per uccidere.
- Ma si può usare sugli spiriti? Cosa succederebbe se la usassi su Mirajane?
- Quello che succederebbe se usassi su di lei qualsiasi altra spada. Le passeresti attraverso.
- Forse no – rifletté. – Hai detto te che è una speciale e unica. Magari si chiama Spada dello Spirito perché può agire anche sugli spiriti.
Levy sospirò. – Non lo so Gajeel. So solo che questa storia mi ha sempre affascinata, ma è terribile sapere che a causa di una spada abbiamo perso tutto. Io ti ho detto ciò che so, ora andiamo a dormire. Anzi, prima devi mangiare qualcosa. Muovi le chiappe, su.
Le insistenze di Levy lo costrinsero ad abbandonare quella stanza di pietra e metallo che profumava di pulito, con la testa ancora più stipata di interrogativi e misteri irrisolti.
Mentre si dirigeva in cucina, però, si accorse di essere certo di una cosa: come gli aveva detto la Levy del sogno, la chiave era in armeria.
Era.
Ora la spada, la chiave, non era più lì.
Ma almeno aveva un punto di partenza da cui cominciare ad indagare.
 
Gajeel pensò per giorni interi alla storia della Spada dello Spirito, a volte dandosi dello stupido credulone, altre volte maledicendo Erza e il Master per la loro ignoranza, o ancora arrabbiandosi con se stesso per non aver trovato quell’arma.
Ma i mesi passarono via velocemente e, con loro, anche le preoccupazioni di Gajeel, che si godeva la primavera in santa pace.
I fantasmi si aggiravano sempre più spesso per casa. Se prima lasciavano fin troppo spazio a Gajeel e Levy, ora i due facevano fatica a stare un po’ da soli. E in tranquillità.
Infatti, da quando Gajeel era riuscito a pulire a fondo la piscina esterna e quella interna, che si trovava dietro il soggiorno, a tutte le ore del giorno e della notte si sentivano gli schiamazzi allegri e spensierati dei suoi compagni.
Gajeel aveva pagato una squadra di manutentori affinché disinfettassero e pulissero a fondo la piscina esterna, facendola tornare a splendere e soprattutto rendendola così pulita da non essere più la culla dell’ebola. I manutentori avevano avuto i conati di vomito quando avevano visto la piscina.
Riconoscente, Gajeel aveva dato loro una mancia extra, e alla fine loro avevano svolto il lavoro con professionalità e una buona dose di forza di volontà.
La prima volta che Gajeel aveva sentito un urlo provenire dal retro del castello si era precipitato fuori temendo che fosse successo qualcosa di grave. Invece era solo Natsu che aveva buttato in piscina Lucy, e ben presto tutti l’avevano raggiunta.
La cosa più spaventosa e inquietante era stata l’immobilità dell’acqua. Come accadeva con ogni altro oggetto o mobile o parete, l’acqua passava attraverso i loro corpi immateriali. Perciò la superficie della piscina restava ferma, increspata solo da qualche refolo di vento, mentre i fantasmi scomparivano sott’acqua per interi minuti, riemergendo completamente asciutti e senza il bisogno di ossigeno che si ha dopo aver trattenuto a lungo il respiro.
- Come mai non ci siete venuti prima, in piscina? – aveva chiesto Gajeel a Mirajane, sempre presente.
Era quasi preoccupante il modo in cui lei si prendeva cura di lui, chiedendogli come stava, organizzando per lui le serate con gli altri, o apparendo all’improvviso solo per assicurarsi che non si fosse fatto male.
- Hai visto quanto era lurida? – aveva risposto lei, sorridendo come sempre.
- Sì, be’… non mi pare che sia una cosa che vi interessi. Insomma, da quanto vedo, potevate benissimo fregarvene dei cadaveri delle nutrie che ci sguazzavano.
Levy, di fianco a lui, aveva fatto una smorfia disgustata. Forse i cadaveri delle nutrie erano l’ultima cosa che mancava per rendere la piscina una vera e propria fogna.
- Gajeel, lasciaci illudere, per favore – aveva ribadito Mirajane, più seriamente del previsto.
Il ragazzo era ammutolito. Poi gli era venuta in mente un’altra cosa. – Perché respirate sott’acqua?
Mirajane era scoppiata a ridere, imitata da Levy.
- Gajeel, non è che respiriamo sott’acqua. Semplicemente, non respiriamo.
- Oh…
Da allora se n’era stato zitto, temendo di fare qualche altra domanda assurda tipo: “Perché non posso toccarvi?”. Oppure: “Perché passate attraverso i muri?”.
Un’altra cosa che la primavera aveva portato con sé l’insolita aria calda tipica dei primi mesi estivi. Gajeel non se ne lamentava assolutamente. Anzi, per lui era un bene! La neve si era sciolta tutta e il bosco stava rifiorendo rigoglioso, profumato e colorato. Di conseguenza, il sole scaldava le immense pareti del castello e Gajeel aveva potuto dire definitivamente addio alla legna e ai camini.
- Ora capisci quanto mi costavate te e gli altri, tra legna e quant’altro? – gli aveva chiesto acidamente il Master quando Gajeel aveva spento con aria solenne il riscaldamento.
In risposta, il ragazzo aveva ghignato e se n’era andato fischiettando.
 
- Ehi, Gajeel. Che cos’hai intenzione di fare oggi? – gli chiese un giorno Erza, mentre faceva colazione con lui, Levy, Mirajane, Natsu, Gray, Juvia e alcuni altri sparsi per il tavolo.
Happy e Lily mangiavano delle crocchette vicino a Gajeel.
Le ragazze si erano imputate per tornare alle loro vecchie abitudini alimentari, con i pasti consumati insieme come in una vera famiglia. A quanto, però, non rammentavano che quando erano tutti vivi Gajeel la mattina dormiva fino a tardi, dato che la sera faceva le ore piccole per preparare il menu del giorno successivo.
Quando lui glielo aveva fatto notare, Erza aveva negato tutto e gli aveva detto di non essere petulante; il ragazzo si era subito zittito mentre Gray e Natsu ghignavano con infamia. Erza era Erza, fantasma o no che fosse.
- Boh – rispose lui, stiracchiandosi. La mattina era poco propenso a parlare.
- Be’, trova qualcosa da sbrigare perché non mi va di vederti battere la fiacca come ieri e l’altro ieri. Pensi di restare chiuso in sala giochi tutto il giorno anche oggi? – lo interrogò Erza, contrariata.
Natsu e Gray saltarono sul tavolo e si chinarono verso Gajeel, fissandolo in modo inquietante. Gajeel si ritrasse inorridito, ma nulla poté aiutarlo a fuggire dagli urli concitati dei due compagni, che gli consigliavano questo o quel gioco e poi si azzuffavano tra di loro.
Con un grido di guerra, Erza li afferrò e li scagliò… al di là del muro della sala da pranzo.
Gajeel deglutì a fatica e tornò a mangiare come se niente fosse, ma un urletto indignato lo distrasse di nuovo.
- Erza puoi avvisare quando scagli qualcuno attraverso i muri? – chiese Gerard entrando.
Si stava massaggiando una spalla e aveva un’aria irritata.
- Scusa caro – rispose lei, con tono fintamente pentito. Dopo avergli lanciato un’occhiata, tornò a mangiare la sua torta alle fragole fatta di… aria.
- Chi è che ha url…? – chiese Mirajane, prima di essere interrotta da Lucy, che entrò nella sala a passo di carica.
Stava armeggiando con… lo stretto corpetto del vestito. – Erza! Mi sono atterrati proprio… ha capito dove! – sbottò, indignata. – Sai quanto male fa?
Juvia si alzò lentamente dalla sedia, facendo scendere di alcuni gradi la temperatura dell’ambiente. – Rivale in amore… - sibilò, fulminandola con lo sguardo.
Natsu e Gray rientrarono guardandosi in cagnesco, e si sedettero ai loro posti in silenzio, senza lasciare mai il contatto visivo con l’altro.
Gerard scosse la testa e prese posto vicino ad Erza, per poi rubarle un pezzo di torta quando lei si voltò.
- Allora Gajeel?
- Cosa? – mugugnò lui, infastidito. – Ho pulito la casa da cima a fondo, compresa l’armeria e la soffitta polverosa. Ho persino piantato i fiori in giardino!
- E quindi ora te ne stai qui a spendere i soldi del Master in cibo e bollette? – ribatté lei, severa.
Alle loro spalle, su un tavolo vicino, Makarov grugnì il suo disappunto.
- Non sto sperperando proprio nulla!
- Levy non approverebbe questa tua scelta di vita – rimarcò Erza, con le braccia incrociate e il mento alto.
Gajeel lanciò un’occhiata a Levy, che sorrise e scosse le spalle.
- Ma Levy approva – specificò lui.
Erza sospirò. -  Grazie tante…
Gajeel corrugò la fronte e fissò la sua ragazza, confuso.
- Trova il modo di salvarci, piuttosto! – esclamò Erza.
Gajeel sbuffò e si alzò in piedi, spostando rumorosamente la sedia. – Così vi togliete finalmente dai piedi, per sempre?! Non ti conviene farmi proposte così allettanti.
Erza lo imitò e Gerard fu costretto a spostarsi per evitare un fatale colpo di gomito. – Attento, anche se sono un fantasma, posso ancora fare mooolto male a chi lo merita.
Natsu e Gray, dimentichi del loro astio reciproco, avevano iniziato a scommettere sulle possibilità che aveva Erza di uccidere Gajeel.
- Calmiamoci, ragazzi – disse Mirajane, che aveva momentaneamente perso il sorriso. Non le piaceva quando la gente litigava, ma raramente risuciva ad intervenire per placare le risse: veniva sempre colpita in testa da qualche piatto o bicchiere vagante.
- Ho io un’idea! – esclamò Lucy, che si era seduta sul tavolo, vicino a Natsu. – Il bucato!
Diverse teste si voltarono a fissarla come se si fosse appena rasata i capelli, compreso Happy che miagolò in protesta.
- Il bucato cosa? – chiese Gray.
- Che cos’hai bucato Lucy? – domandò invece Natsu, confuso.
- Gajeel può fare il bucato – si affrettò a specificare.
Il ragazzo sbuffò. Odiava fare il bucato, ma sapeva che prima o poi gli sarebbe toccato. Pulendo la villa aveva scoperto una stanza adibita a lavanderia, con una decina di lavatrici perfettamente funzionanti. Be’, una era morta e un’altra aveva esalato l’ultimo, scricchiolante respiro quando era stata accesa, però otto erano pronte all’uso.
Con tutti gli stracci che aveva usato per pulire e le lenzuola che aveva buttato da lavare, Gajeel aveva accumulato almeno cento chili di panni da lavare. Senza tenere conto dei vestiti che i suoi eterei coinquilini non volevano buttare via.
Aveva riempito parecchi sacchi di indumenti da dare in beneficenza, ma tutti i suoi compagni avevano deciso di tenere da parte alcuni dei loro vestiti preferiti.
Nel caso in cui… magari… si fosse ripresentata per loro la possibilità di indossarli.
Gajeel aveva acconsentito solo perché gli avevano fatto tutti tremendamente pena, persino il Master. E per una volta aveva capito come dovevano sentirti smarriti e confusi: in un limbo a metà tra la pace alla quale anelavano, il nulla della morte, e la realtà da cui erano stati strappati.
Gettare via tutti i loro effetti personali sarebbe stato un colpo troppo basso.
Avrebbe tolto loro ogni speranza di poter, un giorno, tornare ad essere vivi.
Così, dopo aver tolto le lenzuola da ogni letto e averne strappate alcune per ricavarne degli stracci, Gajeel aveva ammonticchiato i vestiti buoni sui materassi, in attesa di lavarli.
Attesa che, a quanto pare, era finita.
- No il bucato – si lamentò, sconfitto.
Natsu e Gray lo derisero, imitati dai ragazzi seduti un po’ più lontani, come Makao, Wakaba ed Elfman, che diceva che fare il bucato non era affatto da uomo.
- Sì il bucato! – esclamò Mirajane, come se si fosse appena ricordata di una cosa importantissima. – Ti ricordi che avevamo detto che avremmo fatto tutto in primavera altrimenti i panni non si sarebbero mai asciugati e la casa sarebbe stata tappezzata di stoffa umida?
- Tsk – assentì Gajeel, amareggiato.
- Be’, direi che Erza ha avuto un’ottima idea. Mettiamo in lavatrice le lenzuola e i vestiti e poi ti aiutiamo a stendere i panni come possiamo.
- Che cosa?! – urlò Gray, sconvolto, mentre tutti i commensali ammutolivano.
- Non voglio sentire un lamento – intimò Mirajane. – Gajeel ha pulito il castello da cima a fondo, e lo ha fatto anche per noi. Il minimo che possiamo fare per ringraziarlo è aiutarlo con il bucato.
Un unico, grosso sospiro di disappunto si levò dalle bocche dei presenti, che non si azzardarono a contraddire Mirajane.
Svuotato di ogni forza nonostante fosse mattina, Gajeel si risedette e batté la testa sul tavolo, frustrato.
Questa volta, nessuno rise.
 
Mentre passava di camera in camera, di mucchietto di panni in mucchietto di panni, Gajeel brontolava.
Mirajane ed Erza erano andate a fare un sopralluogo nella lavanderia del primo piano per assicurarsi che ci fosse abbastanza detersivo per dieci o più lavatrici, ammorbidente incluso, e che non fossero scaduti, così il ragazzo fu libero di imprecare e farfugliare ogni sorta di maledizioni.
Levy si era sistemata sopra una montagna di panni, nel corridoio, e sfogliava un libro che Gajeel le aveva aperto.
- Risparmia le forze per dopo, Gamberetto – la sgridò lui quando, entrando nella stanza di Erza e Gerard, la vide girare l’ennesima pagina, consumando quindi energia preziosa. – Faccio lavorare anche te. Ingrati tutti quanti.
Levy ridacchiò e continuò a leggere, ma fu interrotta poco tempo dopo: diversi indumenti le avevano attraversato il corpo e si erano posati ai lati della montagna di stoffa.
La ragazza fece giusto in tempo ad alzare lo sguardo e vedere la faccia paonazza di Gajeel prima che sparisse nella stanza successiva.
- Che succede? – urlò, incuriosita.
Non ottenendo risposta, si alzò ed entrò nella stanza in cui si era infilato Gajeel.
- Ehi? Perché sei rosso? – domandò di nuovo.
Il ragazzo prese quanta più roba poteva e si diresse verso la porta: - Diciamo che Erza è quella che ha deciso di tenere più vestiti di tutti gli altri. E che la maggior parte di questi vestiti è composta da biancheria intima.
Levy continuava a non capire, ma ormai Gajeel era sparito oltre la porta.
Quando rientrò per prendere gli ultimi capi, Levy lo incalzò: - E quindi?
- E quindi – sospirò lui – non voglio proprio sapere che razza di cose strane facessero lei e Gerard quando… si impegnavano. Non penso che per lui sia stata una gran fortuna, sottostare a tutte le strane fantasie di Erza…
Levy scoppiò a ridere e corse fuori dalla camera, andando a curiosare tra la montagna di panni. Arrossì violentemente quando incontrò uno o due paia di mutande di Erza. Sempre che potessero essere definite mutande.
Gajeel la raggiunse alle spalle e le buttò addosso i vestiti che, ovviamente, la trapassarono. Poi si avvicinò al suo orecchio e bisbigliò: - Certo, se fossi tu ad indossare quella roba, non sarebbe assolutamente una tortura per me. Mi sacrificherei volentieri.
Levy, intenta a studiare con curiosità la biancheria dell’amica, sobbalzò e gonfiò le guance, imbarazzata.
- Che succede qui? – chiese Mirajane salendo le scale, tallonata da Erza.
- Niente – si affrettò a rispondere Levy, mentre Gajeel ridacchiava.
- Allora? – incalzò Erza, che fiutava odore di guai… per lui.
- Oh niente. Mi stavo solo chiedendo quanto tu e Gerard abbiate rispettato la regola che hai imposto. La regola che impediva ai ragazzi di dormire con le ragazze e viceversa – le spiegò Gajeel.
- Sempre rispettata – rispose lei, senza tentennamenti.
- Certo, perché non dormivate infatti! – esclamò lui con un ghigno sadico.
Fu allora che Mirajane notò la biancheria sparsa. – Ma di chi è questa roba?
- Chiedilo alla tua amica – la invitò Gajeel, sparendo dentro la stanza successiva.
Quando tornò, alcuni istanti dopo, Mirajane stava discutendo animatamente con Erza riguardo alle modalità di utilizzo di quella lingérie succinta, meditando ad alta voce sui modi in cui avrebbero potuto adoperarla lei e Laxus.
Levy le osservava incuriosita ad un passo di distanza, seguendo con interesse i ragionamenti.
Gajeel scappò prima di vomitare. O, peggio, prima di immaginarsi le scene che le ragazze stavano descrivendo.
Quando, diversi minuti dopo, Gajeel buttò l’ultimo carico di panni nel mucchio, Erza lo guardò severamente. – Hai finito?
- Magari! – mugugnò lui.
Insofferente, buttò tutti gli indumenti giù per le scale con diversi calci, beccando due o tre fantasmi che passavano davanti alle scale in quel momento.
- Vuoi botte, Testa di Ferro?! – gridò Natsu, alzando il pugno con aria bellicosa.
- Hai i chiodi al posto del cervello?! – rincarò Gray, fremendo.
- Ma se non potete nemmeno toccarmi, codardi! – rispose lui, affacciandosi al parapetto.
- Se non la finite vi tormenterò anche dopo che sarete morti! – li minacciò Erza. – E con morti intendo morti!
Gray e Natsu si allontanarono con il broncio, sfidando Gajeel con lo sguardo carico di irritazione, mentre quest’ultimo trascinava i panni in lavanderia passando per la sala giochi. Dovette fare molteplici viaggi per riuscire a trasportare ogni singolo lenzuolo, ogni paio di calzino e ogni asciugamano nella stanza, e perse ancora più tempo a caricare ogni singola lavatrice dividendo i capi per colore e delicatezza, con Erza e Mirajane che sorvegliavano il suo operato rendendogli la vita impossibile.
- Tutto bene? – gli chiese Levy quando, ad un certo punto, Gajeel stracciò un paio di mutande di Erza dalla rabbia, attento a non farsi vedere dalla ragazza alle sue spalle.
- Giuro che la prossima volta porto tutto in tintoria. O me ne vado in giro con i vestiti onti.
La risata di Levy venne coperta dal suono di diverse lavatrici che iniziavano a centrifugare.
 
Diverso tempo dopo, quel pomeriggio, Gajeel si aggirava mugugnando per il giardino, scaricando bacinelle e bacinelle di panni umidi e profumati ai piedi di alcuni alberi.
Anni prima lui e altri ragazzi dell’orfanotrofio, sotto ordine del Master, avevano dovuto legare dei fili di resistente corda liscia da un albero all’altro, creando così decine di stendini sospesi a mezz’aria. Erano stati costretti a sorbirsi le lamentele di Laki, l’ambientalista del castello, per un’intera giornata, ma almeno la sala giochi aveva smesso di essere il covo dei panni da asciugare.
- Piazza una bacinella lì. Una lì anche. Non lì, là. No! – ordinava Erza, un braccio teso ad indicare imperiosamente i punti in cui le pile di vestiti avrebbero dovuto essere posizionati.
Mirajane stava facendo il giro della casa per chiamare quante più persone poteva. Chissà perché, Gajeel aveva la sensazione che tutti i fantasmi si sarebbero dileguati.
Invece furono parecchie le persone che si riversarono fuori dal castello attraversando i muri. Certo, tallonati da una Mirajane che sembrava avere il cipiglio di un’assassina, ma era già qualcosa che fossero andati. Persino il Master.
- Io coordino e basta – si schermì subito, sedendosi sul tronco mozzato di un albero che era stato tagliato anni prima.
Elfman, Laxus, Natsu e Gray guardavano Gajeel con aria divertita e strafottente, mentre Erza continuava a dirgli cosa doveva fare e gli intimava di darsi una mossa a stendere gli indumenti. Gerard invece aveva uno sguardo pieno di compassione, e Gajeel capì che doveva essere davvero un angelo per amare Erza.
Lucy, Juvia, Lisanna, Kana ed Evergreen erano incuriosite, invece. Be’, Juvia stava anche tenendo d’occhio Lucy che si trovava vicinissima al suo amato Gray.
C’erano solo… sette persone a separarli.
Erano proprio vicinissimi.
- Che facciamo qui? Il gioco della bottiglia? Ne svuoto una e ci sto! – esclamò Kana, entusiasta.
- No, aiutiamo Gajeel a stendere il bucato – esclamò Mirajane con l’entusiasmo di una boyscout che vende biscotti.
La risposta che ricevette, però, fu eufemisticamente gelida.
L’unica cosa che impedì ai cosiddetti amici di Gajeel di scappare fu l’occhiata omicida di Erza, della serie “o vi muovete o vi ammazzo… di nuovo”.
- Ma come facciamo a dargli una mano? – chiese Lisanna, dando voce ai dubbi di tutti, mentre il ragazzo continuava a stendere il bucato bofonchiando.
- Prendete le mollette e le mettete. Non sono troppo pesanti, non vi stancherete, pappe molli. Ora, su! Al lavoro! – ordinò Erza battendo le mani.
Mirajane sorrise con gioia e prese per mano Lucy e Lisanna, che sbuffarono. Gli altri le seguirono, rassegnati, e si impegnarono al massimo per sistemare le mollette sui panni che Gajeel aveva steso.
- Ehm… tu non vieni? – domandò Gerard, rivolto alla sua ragazza.
Erza alzò il mento per darsi un tono e scosse la testa. – Oh, no. Io devo coordinare voi e disciplinarvi.
Gerard sorrise, sconfitto, e le accarezzò il viso prima di andare ad aiutare gli altri.
Il silenzio regnò sovrano per i primi attimi di lavoro, mentre il fruscio dei vestiti, delle fronde degli alberi e della quiete aiutavano tutti a rilassarsi. Solo gli sbuffi dei ragazzi disturbavano la tranquillità.
Ma Fairy Tail era Fairy Tail, e la tranquillità non era di casa. Nel giro di poco si scatenarono le prime baruffe e le ragazze iniziarono a ridere e scherzare. Ogni tanto qualche fantasma passava attraverso le lenzuola per raggiungere altri punti dove posizionare le mollette, e Gajeel sobbalzava leggermente. Levy non lasciava mai il suo fianco.
- …e così Natsu si scottò la lingua – finì di raccontare Lucy, mentre Gray se la rideva della grossa e Gajeel lo aiutava ad infierire.
- Allora non sei così a prova di fuoco, eh?
Levy scoppiò a ridere e si avvicinò a Lucy.
- Non prendiamo in giro gli altri – intervenne Erza, che venne bellamente ignorata da tutti.
- A proposito di scottarsi, vi ricordate quando Jet è caduto per sbaglio addosso a Levy? Lei è arrossita così tanto da aver alzato la temperatura della stanza, e Gajeel ha dato così tanti pugni a Jet da farlo finire in infermeria.
- Lascia stare, Lisanna – rise Levy, imbarazzata, mentre tutti ridevano ricordando la scena di violenta gelosia.
Gajeel rimase impassibile, internamente orgoglioso per la sua buona difesa del territorio, ma una piccola parte del suo cervello non poté fare a meno di notare che Levy veniva considerata poco. Anche in quel momento, mentre parlavano di lei, le ragazze non la includevano.
Possibile che fossero arrabbiate perché Levy non voleva dire cosa fosse successo due anni prima?
Curiosità o no, a Fairy Tail non era quello il modo di trattare una compagna.
Finirono di stendere il bucato che era ormai tardo pomeriggio, e la luce del tramonto occultato dalle foglie degli alberi stava lasciando spazio all’inquietante buio.
Il giardino era ormai più pieno di stoffa che di piante, e Gajeel fu soddisfatto del suo lavoro. Ora che aveva finalmente concluso la pulizia di ogni angolo del castello, poteva dedicarsi a Levy. Ghignò dolcemente all’indirizzo della ragazza, che ricambiò il sorriso e si diresse verso casa.
- Vorrei tanto che Levy fosse sveglia – bisbigliò Lucy a Kana, malinconicamente.
Gajeel aveva sempre avuto un buon udito, e quelle parole non avrebbe dovuto sentirle a causa della distanza.
- Sì – assentì Kana, priva del solito brio nella voce. – Vorrei parlarle ancora.
Gajeel si bloccò di fronte alla porta che conduceva alla lavanderia, cercando di elaborare quelle parole. Non c’era molta differenza tra il parlare alla Levy fantasma e parlare con quella vera.
E allora cosa voleva dire Kana?
- Gajeel, andiamo? Mi avevi promesso che avresti mangiato.
Il ragazzo annuì ed entrò, certo di una sola cosa: non aveva più scuse.
Doveva capire cos’era successo a Levy.
 
Gajeel non avrebbe mai stirato quella montagna di panni che aveva steso. Mai.
E infatti non lo fece. Quando, due giorni dopo, il sole asciugò totalmente i vestiti, il ragazzo fece avanti e indietro tra la sala giochi e il giardino esterno per portare dentro il bucato. Piegò con cura ogni singolo indumento e zittì Mirajane quando propose il ferro da stiro, ricorrendo alla scusa che tanto i fantasmi non avrebbero mai indossato quei vestiti.
Dunque chi se ne fregava delle pieghe.
Il tempo sembrava essersi fermato da quando aveva finito di tenere impegnata la mente e il corpo con le pulizie. Le giornate erano lentissime e deprimenti, oppure troppo veloci e vuote. Nemmeno i ragazzi riuscivano a distrarlo.
Levy era diventata più taciturna del solito, non parlava mai con nessuno e aveva iniziato a raccontargli storie di loro due, vecchi ricordi, sempre meno frequentemente. A letto, quando Gajeel abbracciava il suo corpo tiepido ed effimero quanto un fiore in inverno, lo faceva più per disperazione e desiderio di conforto che per speranza di riaverla con sé e ricordare ciò che era stato.
Se pulendo, indagando ogni angolo di quel castello fatiscente, non gli era venuto in mente nulla, cos’avrebbe potuto fare in quel momento, quando non aveva più nulla a cui appigliarsi?
- Per me dovresti fare una passeggiatina fuori – gli consigliò Mirajane pochi giorni dopo, quando ormai la primavera aveva prepotentemente cacciato via anche gli ultimi residui d’inverno.
La neve si era sciolta, l’aria si era scaldata e persino il vento sembrava essere diventato una tenera carezza sul viso invece di un dispettoso pizzicotto sulle guance.
Gajeel aveva grugnito una risposta ed era andato in piscina, quella interna, sperando di annegare i suoi pensieri e vivere, per alcuni minuti.
Ma non era riuscito ad annegare nulla.
Così, quando uscì dalla piscina con i capelli fradici e caldi, tracciando una pista d’acqua alle sue spalle, si bloccò e il suo cervello si spense, iniziando solo in quel momento a metabolizzare la morte di tutti i suoi compagni e della sua vita precedente.
La morte di Levy.
I suoi occhi vacui lo fissarono senza vederlo realmente, senza nemmeno accorgersi della disperazione che gli stava attanagliando il cuore in quel momento.
E non era per colpa della sua impassibile espressione facciale, che Gajeel ostentava sempre.
No. Levy vedeva sempre lui. Lo vedeva. Gli vedeva dentro, in qualsiasi situazione. Capiva ciò che provava e lui sapeva che lei era presente quando le sue mani morbide e piccole, di solito fredde, si posavano sulle sue spalle, o sul suo petto, sulle sue gote o sul dorso delle sue mani.
Forse dipendeva dal fatto che era un fantasma, ma Gajeel non la sentiva vicina.
La sentiva più distante che mai.
Quando alzò lo sguardo e osservò il mondo fuori dalle ampie finestre, però, sorrise.
Gli alberi che circondavano la casa si erano vestiti di fiori bianchi e rosa, che svolazzavano in giro come dei veli, sospinti dalla brezza birichina.
Anni prima, era rimasto un pomeriggio intero nel bosco con Levy, sdraiati su una coperta, ad osservare il cielo occupato dalle fronde di giada degli alberi. La ragazza aveva smesso di leggere quando aveva notato l’espressione estatica che aveva Gajeel. Si era sdraiata accanto a lui, si era posata Lily in grembo, senza svegliarlo, e aveva appoggiato la testa alla spalla di Gajeel, mentre lui la circondava con le sue forti braccia.
Il giardino era ciò che gli serviva.
Il bosco era ancora pieno di segreti.
 
- Oggi vado a passeggiare nel bosco – annunciò Gajeel una mattina a colazione, riuscendo a zittire i ragazzi che litigavano e il rumore della forchetta di Erza sul piatto.
Levy sollevò lo sguardo, incuriosita, e lui riuscì a notare una scintilla di vita nei suoi grandi occhi pieni di cose.
- Ottima idea – approvò Mirajane.
- Vuoi compagnia? Potrei mostrarti le zone dell’orto che hanno bisogno di cura, o le aiuole che necessitano di…
- Erza – la interruppe pacatamente Gerard. – Lascia che vada da solo. Penso sia meglio.
Gajeel cercò di ringraziarlo con lo sguardo e, senza nemmeno accorgersene, sospirò di sollievo.
Erza invece non sembrò convintissima, ma annuì e tornò alla sua torta.
Gajeel lanciò un’occhiata a Levy e la vide tornare a scrutarsi il vestito con ansia, come se un’esplorazione nel bosco la preoccupasse.
Fu quello che spinse il ragazzo ad alzarsi e dirigersi in cucina per ripulire, prima di uscire in giardino quasi correndo.
Si fidava di Levy.
Ma si fidava ancora di più della Levy del suo sogno, che gli ripeteva di non fidarsi di nessuno.
Se il suo fantasma era preoccupato, in giardino c’era qualcosa.
 
Poco dopo, Gajeel stava fissando sconvolto Levy. Il che, per il bagaglio di espressioni facciali di Gajeel, si traduceva in un aggrottamento delle sopracciglia non indifferente.
La ragazza saltellava, anzi, fluttuava con leggiadria a destra e a sinistra, osservando ogni singolo fiore e ogni arbusto colorato dai loro petali.
- Guarda qui, Gajeel! Guarda che belli! Ti ricordi quando siamo rimasti qui sotto a baciarci? Quando siamo tornati a casa avevamo i capelli bianchissimi! – esclamò lei fermandosi sotto un albero pieno di minuscoli fiorellini bianchi.
Il ragazzo restava in silenzio e la fissava ghignando un po’, facendole capire che stava sorridendo al ricordo.
- Oh, e qui una volta tu ti sei appisolato e quando ti sei svegliato era notte e nessuno riusciva a trovarti! – gli ricordò indicandogli le radici di un albero.
La loro visita nel giardino dei segreti procedette così per svariati minuti, e Gajeel sentì il cuore alleggerirsi lentamente mentre Levy sorrideva, saltellava e chiacchierava. Tra le tante cose che conosceva era inclusa la botanica, quindi non si stava certo trattenendo dal descrivere ogni singola forma vegetale che incontravano. Se solo non fosse stata così eterea ed evanescente, il ragazzo avrebbe potuto confondere quegli attimi per una normale e reale passeggiata nel bosco, come quelle che facevano sempre. E che finivano inesorabilmente con Levy premuta contro il tronco di qualche robusto albero, o sdraiata sull’erba a ridere.
Quante maglie aveva dovuto gettare via a causa della resina che si era appiccicata al tessuto?
- Gajeel! – esclamò ad un certo punto Levy.
Smarrito nei suoi ricordi, lui l’aveva persa di vista e quel richiamo lo aveva spaventato.
- Levy? Levy, dove sei?! – urlò, preoccupato.
Grazie al suo orecchio allenato riuscì a raggiungere il punto da cui proveniva la voce di Levy.
E si fermò nel mezzo della sua corsa.
Davanti a loro, nel bel mezzo del giardino, o forse al centro dell’intero bosco, si stagliava un imponente ciliegio.
Sembrava il padre dell’intera foresta, il fulcro di energia che permetteva ad uccelli, volpi, lombrichi e arbusti di vivere.
- Non posso crederci – mormorò Levy, avvicinandosi piano al tronco di quel magnifico ciliegio.
Gajeel la vide sparire in un’ondata di delicato rosa, invisibile sotto alle fronde di quell’albero che sembrava racchiudere la nascita del mondo. O nascondere un passaggio segreto.
 - Dai, Gajeel! – lo spronò Levy da qualche parte in quel rosa, inducendolo a muoversi.
In pochi passi fu davanti al tronco marrone dell’albero, di un colore più scuro degli occhi di Levy, ma altrettanto caldo. Si aggrappò a due robusti rami bassi e salì fino al punto in cui il tronco si diramava, creando uno spazio largo abbastanza per stare in piedi. Levy era appollaiata su un ramo laterale e osservava con gli occhi scintillanti i mazzetti di fiori che riempivano l’aria con il loro delicato profumo. I capelli della ragazza venivano attraversati da petali che ne attenuavano il colore, ma il il contrasto era così magnifico da far sembrare che i fiori stessero galleggiando nell’acqua turchese. O stessero coprendo un pezzo di cielo.
- Ti ricordi quando mi hai invitata alla festa per il solstizio d’estate? – mormorò a bassa voce, quasi temesse di disturbare la quiete con la sua voce.
Gajeel annuì, incapace di parlare, e si avvicinò a lei dopo essersi assicurato che il ramo fosse abbastanza resistente. Si fermò con la schiena premuta contro un altro ramo e si mise comodo.
- Quella sera è stata la nostra prima… la nostra prima volta. Ti ricordi? – chiese ancora lei, mentre il rossore colorava le sue guance.
O forse era solo il roseo riflesso dei fiori?
Gajeel ghignò, per una volta senza malizia, e desiderò con tutto il cuore passarle un braccio attorno alla vita e attirarla a sé, per sentirsi a casa, in pace. In quella cupola profumata di primavera gli sembrava di essere in un altro pianeta.
- E come potrei dimenticare? Mi sei saltata addosso come se fossi stato l’ultimo uomo rimasto sulla terra.
Come previsto, Levy indurì lo sguardo e lo fissò con irritazione. – Sei sempre il solito! Ero arrabbiata, per questo ti sono saltata addosso.
- Certo, certo – sghignazzò lui. – E che motivi avevi per essere arrabbiata con me?
Levy lo fissò, sperando di incenerirlo con gli occhi. – Mi hai ignorata per settimane.
Lui sbuffò divertito. – Quante manie di protagonismo!
- Lascia che ti ricordi un po’ di cose – sibilò Levy, avvicinandosi a lui.
Il cuore di Gajeel perse un battito. Quando gli si avvicinava con l’intento di sedurlo era impossibile resisterle, ma quando era arrabbiata il suo cuore faceva le capriole e si ritrovava a deglutire con la gola secca, un attacco di tachicardia pronto a farsi beffe di lui.
- Ricordami quello che vuoi – mugugnò prima di perdersi nei frammenti di memoria.



MaxB
E ci stiamo lentamente avviando verso la fine della storiaaaa.
Si fa per dire. Non pensavo davvero che venisse così lunga.
Non so se si è capito, ma i sottotitoli di ogni capitolo non sono altro che piccoli scleri. Io scrivo Capitolo n° e poi aggiungo un commento a caldo ahahaha. Ho problemi.
Comunque il prossimo capitolo narrerà della prima volta dei nostri due amati (sporcaccioni) e FORSE vi farà finalmente scoprire cos'è successo a Levy. Dico forse perché non so quanto lungo verrà e quindi boh. Ma da qui in poi sarà un susseguirsi di rivelazioni choc! (Non è vero, perché tutti avete capito tutto e questa cosa mi rode-.-).
Buonanotte gente!
MaxB



P.S..: chiedo scusa se ci sono molte sviste ortografiche. La sottolineatura di Word mi ha abbandonata perché ha deciso che ho fatto troppi errori e non riesce più a conteggiarli (dico solo che ogni dannato nome era considerato errore-.- Ci credo che ne faccio troppi, secondo Word) e quindi mi è ancora più difficile trovare gli errori se nemmeno me li indica.
SHCUSHATEMI :3

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


Due appunti dal cap 9: Gajeel decide di passeggiare in giardino alla ricerca di quel ricordo perduto che gli impedisce di capire qualcosa di fondamentale. Seduto su un ciliegio con Levy, ricorda il dolce passato.


Capitolo 10
Ricordi d'amore e di sangue


 
- Hai invitato Levy alla festa? – mi chiede Juvia per la decima volta.
Io ringhio sommessamente, come una tigre infastidita. – Ma la smetti? Fatti i fattacci tuoi e vattene a stalkerare Gray!
- Juvia non stalkera Gray – ribatte lei, offesa. – Juvia e Gray si amano.
- E allora perché lui scappa ogni volta che ti vede? – la incalzo sadicamente.
- Si chiama corteggiamento! – risponde lei piccata. – E comunque, almeno Gray andrà alla festa con Juvia questa sera.
Okay, uno a zero per lei, lo ammetto.
- Ma perché insisti così tanto con lei? Non siamo uno di quei romanzi smielati che piacciono tanto ad Erza.
Juvia scuote la testa. – I romanzi piacciono a Levy e Lucy. Erza vuole quelli più…
- Non importa! – la blocco. Che orrore…
- Levy ha detto no a Jet e Droy. Anche i suoi amici in città l’hanno invitata e ha detto no. E ti guarda sospirando. Tu sai che lei è importante per te. Quasi quanto Gray lo è per Juvia.
Il paragone fa abbastanza schifo, però io so che non è così.
È molto di più, purtroppo.
E la sto evitando.
Non ci so fare con queste cose. Fare a pugni è più facile e istintivo. Non sembro un orso che balla il tip-tap con le scarpe troppo strette, quando faccio a botte.
Dopo quella notte in cui io e Levy siamo stati interrotti, non ho più avuto il coraggio di baciarla. Anzi, di toccarla. Nemmeno di guardarla, se non in attimi fugaci, rubati alla sua attenzione quando lei non osservava. Percepivo i suoi occhi su di me, trepidanti, e il modo in cui si spegnevano quando i miei non la cercavano.
Il fatto è che quella notte, quando avevamo iniziato a bruciare come il fuoco, era semplicemente successo. Stava per succedere. Nei giorni successivi ero invece…imbarazzato. Come avrei potuto fare in modo che accadesse di nuovo? Cosa dovevo fare? Avvicinarmi e… cosa? Baciarla di punto in bianco? Chiederle come stava senza poi sapere come continuare la conversazione? Domandarle come avesse dormito?
Dormiva con me, diamine! E sapevo che non dormiva bene, dal momento che non l’avevo più toccata nel sonno. Anzi, avevo fatto in modo di fingere di dormire quando lei arrivava, per non parlarle. Ogni notte avevo sentito i suoi passi timorosi farsi largo fin sotto le coperte, e il respiro restare irregolare per tutta la notte. Si agitava ed io, dopo mesi passati in quel letto con lei, sapevo che in realtà non dormiva. Come me.
Era da una settimana che non veniva più in camera mia, e il letto era dolorosamente freddo con solo Lily a scaldarlo.
- Levy ed io non stiamo insieme e non potremmo mai stare insieme – sancisco, sperando di porre fine alla conversazione.
Juvia sospira e si alza, mormorando che sono davvero una testa di ferro. Poi però si ferma e dice: - Levy è triste da un po’ di tempo. E Gajeel anche.
- Juvia…
- Va bene! – mi blocca. – Juvia non vuole spronare Gajeel a fare nulla, vuole solo dire che Levy ha tanta voglia di andare alla festa, ma non può. Se Gajeel la invita magari può farle un favore. Un favore ad un’amica, e basta.
Mentre esce in silenzio, io mi rendo conto che il mio orgoglio può sopportare un sacrificio per un’amica.
Un sacrificio per Levy… si può fare.
Peccato che Levy non sia solo un’amica.
 
Pochi minuti dopo mi sto aggirando per il bosco brontolando. Quando ho chiesto a Mirajane dov’era Levy, lei si è scambiata un’occhiata eloquente con Kana, che ha alzato la bottiglia e brindato.
Alla faccia del tenere la cosa segreta.
Come mi hanno anticipato, trovo Levy appollaiata sotto un ciliegio imponente. Il suolo erboso è ammantato di petali rosa che sembrano una coperta. Levy ne ha alcuni impigliati tra i capelli, e sembra che abbia denudato l’albero ormai spoglio. Purtroppo i fiori di ciliegio durano quanto un soffio di vento.
- Ehi – saluto, anche se sembra più il grugnito di un facocero.
Levy alza lo sguardo e la vedo illuminarsi di speranza prima di scuotere la testa e tornare a leggere. – Ciao – esordisce con freddezza.
Ecco. Ora che cavolo dico?
- Ehm… in città c’è la festa per il solstizio – mormoro, a disagio.
- Già. Mi sorprende che tu l’abbia notato. La stanno organizzando solo da… due mesi.
Gli occhi restano fissi sulla pagina, ma riesco a vedere la sua espressione corrucciata.
- Erza e Gerard ci vanno. Anche Mirajane e Laxus. E le tue amiche con Natsu e Gray. Kana va con Bacchus…
Forse evidenziare quante coppiette vanno alla festa non è il massimo. Be’, non sono coppie, non ancora, ma sappiamo bene entrambi chi ha invitato chi. E non per semplice amicizia.
- Lo so – risponde lei.
Il silenzio cala su di noi come se fossimo in un film muto, e ad un tratto divento consapevole di ogni petalo di fiore che fluttua nell’aria.
- Gajeel, cosa sei venuto a fare qui?
Quando alzo la testa, lei mi sta fissando e io distolgo il mio sguardo. – Tu vieni con me questa sera.
Allora, quando penso a cosa dire, dico cose penose, e se non ci penso mi escono ordini dittatoriali. Poi si domandano perché parlo poco.
- Come scusa?
- Ehm… no volevo chiederti se ti va di… venire con me alla festa, questa sera.
Levy rimane leggermente spiazzata, e non so se è una cosa bella o brutta. – Va… va bene. Sì – dice sorridendo. Poi però cerca di darsi un tono: - Tanto non ho niente da fare questa sera.
- Mh. Okay allora. Andiamo con gli altri e… ci vediamo davanti a Fairy Tail. Va bene?
- Certo.
- Allora ciao – mormoro prima di dileguarmi.
Probabilmente assalire il suo collo profumato sarebbe stato meno difficile.
 
La serata è a dir poco insignificante e piatta. Eufemisticamente parlando è stata disagevole. Siamo usciti come gruppo, e tutti noi maschi abbiamo cercato di tenerci la mandibola attaccata alla faccia nel momento in cui le ragazze sono uscite di casa fasciate nei loro yukata colorati e… bellissimi.
Levy si è tirata su i capelli, legandoli in uno chignon elegante da cui scende qualche ciocca arricciata. A tenerle indietro la frangetta ribelle c’è una fascetta arancione con un fiore bianco laterale, che si abbina perfettamente allo yukata giallo arricchito da fantasie floreali arancioni. L’ampia cintura obi è di un azzurro limpido e sfumato, che sembra essere stato tratto direttamente dai capelli di Levy.
È più bella di un tramonto estivo. E non gliel’ho fatto capire.
Siamo arrivati in città scherzando come gruppo, con Natsu che faceva il deficiente e Laxus che sbuffava, e il percorso nel bosco era stato lento per colpa degli zoccoli di legno delle ragazze. Abbiamo fatto alcuni giochi insieme, fermandoci alle bancarelle della pesca o a quelli delle vincite, sfidandoci tra noi maschi dominanti per poi regalare i nostri trofei alle signore. Abbiamo mangiato, gareggiando anche sulla quantità di cibo che saremmo stati in grado di ingurgitare.
E poi è arrivato il fatidico momento, verso le dieci e mezza, in cui ognuno è andato per la sua strada.
Erza di punto in bianco ha trascinato Gerard ad una bancarella di torte artigianali. Mirajane ha proposto a Laxus di osservare dei quadri ispirati ai fenomeni metereologici. Gray è andato alla ricerca della sua camicia mentre Juvia lo inseguiva e Natsu ha trascinato Lucy a vedere i fuochi d’artificio, provando a convincerla a legarsi lei stessa dei petardi alla cintura. E il gruppo si è lentamente sfoltito.
Alla fine siamo rimasti io e Levy a passeggiare in silenzio tra le bancarelle. Mi sono fermato quando Levy si è interessata a qualche banco, entusiasta. Ma quando provavo a comprarle qualcosa, il momento passava e lei si dirigeva all’espositore successivo. Se la situazione tra di noi non fosse stata così indefinita, mi sarei goduto quella serata e il silenzio complice tra di noi, magari con la sua mano nella mia, bevendomi quei sorrisi emozionati che, purtroppo, erano destinati solo a libri e decorazioni colorate.
- Cosa ti va di fare? – le chiedo dopo mezz’ora buona.
- Quello che vuoi. Per me è indifferente – mormora lei senza nemmeno guardarmi, le mani intente a torturarsi l’un l’altra.
Le nostre dita non si sono neanche sfiorate. Nemmeno le nostre spalle.
- Vuoi andare a casa? – propongo. Sono così a disagio da non rendermi conto che se la porto a casa porrò fine alla serata. E non so se avrò altre possibilità.
Le sue spalle si incurvano e le mani le ricadono lungo i fianchi. I suoi occhi fissano il bosco di fianco a noi con una strana determinazione. Un fuocherello di rabbia sopita arde dietro le sue orbite, e io mi sento più stupido che mai.
- Sì. Voglio andare a dormire.
 
Quando arriviamo all’entrata del castello e Levy fa girare la chiave nella porta d’ingresso, lo schiocco della serratura risuona nel vuoto come se la villa fosse abbandonata. Così vuota e silenziosa sembra una casa fantasma. Persino a notte fonda c’è sempre qualcuno che gironzola, qualche scricchiolio al piano di sopra o qualcuno che si fa un bagno notturno. Ora non è nemmeno mezzanotte e sembra una silenziosa domenica mattina. Ma questa notte sono tutti fuori, persino Makarov. Io e Levy siamo a casa da soli.
Quasi soli. Lily ed Happy ci fissano dalla cima di un mobile, gli occhi brillanti e sonnacchiosi. Probabilmente sono rimasti bloccati tra l’ingresso e il soggiorno senza che nessuno aprisse loro le porte.
Ci leviamo le scarpe nel piccolo ingresso e Levy apre la porta per il soggiorno. Io la seguo e richiudo la porta, ma quando mi giro lei è già a metà scala.
- Ehi, dove vai? -  la richiamo mentre mi affretto a seguirla.
Levy svolta a destra dopo essere arrivata in cima, ed è talmente imbronciata che quasi ho paura di parlarle di nuovo.
Sta andando in camera sua.
- Levy? – la chiamo di nuovo, attraversando il corridoio alle sue spalle.
- Che c’è? – mi incalza lei, secca e fredda.
Mi pare che la temperatura dell’aria si abbassi di qualche grado, e non è piacevole. Anche se, essendo estate, fa davvero caldo.
- Dove vai?
- A dormire, ovviamente.
- Perché?
Questa volta si gira a guardarmi, una mano posata sulla maniglia della sua porta, e mi fulmina con lo sguardo. Di solito Levy si imbroncia, si irrita, si offende, ma non si arrabbia quasi mai.
Adesso invece è così irata da mettermi a disagio. Mi rendo conto, a distanza di anni, che quella è stata l’unica vera volta in cui l’ho vista arrabbiata. Per fortuna.
- Perché?! – ribatte, ogni lettera una stilettata di acredine. – Anzi, perché no? Devo restare ancora con te aspettando che il silenzio parli per noi? Sono stanca Gajeel, stanca di non capire e di fraintendere.
- Non ti sei divertita questa sera?
Tra tutte le domande stupide che potevo fare, questa è la più stupida in assoluto. Infatti la vedo spalancare gli occhi.
- Sì che mi sono divertita. Magari meno nell’ultima parte della serata, ma non è questo il punto.
- E allora qual è il punto?
Un sbuffo imbestialito. – Il punto è che non capisco cosa vuoi, Gajeel! Pensavo che i miei sentimenti per te fossero lampanti e che tu fossi solo un po’ tonto, come mi dicevano Juvia, Mira e Lucy, insieme alle altre. Per quale stupida ragione una persona si infila nel letto di un ragazzo ogni santa notte, eh? Non hai mai capito nulla, mai! Sei stato mio amico e mi andava bene, mi consideravi un’amica e doveva per forza andarmi bene. Ma ogni tanto eri troppo premuroso e sembrava che flirtassi e mi illudevi senza rendertene conto, perché un attimo dopo mi ignoravi.
Voglio farmi più piccolo sotto a quelle rivelazioni. Sono stato ingenuo e stupido e l’ho fatta soffrire inutilmente.
- Finché potevo esserti vicina non mi importava, comunque. Ma poi hai iniziato a fissarmi, ad interessarti a me. Hai cominciato a stringermi a te la notte, a scherzare con più scioltezza e sembrava che le cose andassero bene. Io ti ho baciato. Poi tu mi hai baciata. E chissà cosa sarebbe successo la notte della valanga se Kana non ci avesse interrotti. Pensavo che tu avessi finalmente capito e speravo che avessi aperto gli occhi, ma dopo quella notte non mi hai più nemmeno parlato! Ho provato ad avvicinarmi, ma quando il tuo distacco mi ha raggiunta come una scheggia di ghiaccio non ho potuto far altro che smetterla, perché era palese che non ti interessassi. Baciarmi era stato un errore. E ora mi inviti alla festa del solstizio per poi portarmi a casa prestissimo, senza nemmeno provare a parlare. Se mi hai invitata solo perché ti facevo pena potevi anche risparmiarti questa serata insulsa!
Non batto ciglio, non lascio trasparire nulla sul mio viso accigliato. – Hai finito?
- No che non ho finito! – urla lei. – Non capisco cosa cavolo vuoi, idiota! Dimmelo e facciamola finita, così posso andarmene per la mia strada.
- Dovresti saperlo che non sono bravo con le parole, o con certe cose in generale – le faccio notare.
- Me ne sono accorta.
- Quindi speravo che le mie azioni potessero spiegare meglio. Poi però non sapevo più come comportarmi.
Levy aggrotta le sopracciglia, più confusa che mai. – Ma di cosa stai parlando?
- Del fatto che ti amo ma non so come gestire la cosa! Che avrei dovuto fare, eh?! Dichiararmi? Mi sentivo stupido, va bene? – esplodo, riversando la mia inquietudine su di lei come un fiume che rompe gli argini. Faccio sempre le cose nel modo peggiore.
- Non sapevi come gestire la cosa? Gestire cosa, esattamente? Perché non parli mai e te ne stai chiuso a rimuginare nel tuo bozzolo di ferro, cretino?!
Ringhio, esasperato. Non ha nemmeno sentito quando le ho detto che la amo. Non sono in grado di farmi capire e lei è troppo nervosa per provare a comprendere come mi sono sentito, quindi posso fare una cosa sola. Una cosa che ho già fatto e che ha funzionato. Se questa volta non va come la scorsa, allora tra me e lei è finita ancora prima di nascere.
Anche se ci amiamo.
- Non sono bravo con le parole Levy! Come posso dirti che voglio questo solo parlando?
Mentre sibilo, le passo una mano sul collo accaldato, e appena finisco di pronunciare l’ultima lettera premo le mie labbra sulle sue con decisione e stizza, sperando che apra gli occhi sulla verità.
In realtà li chiude, dopo un attimo di sorpresa, e mi afferra per il colletto della camicia.
Mi stacco e aspetto che sollevi le palpebre, per inchiodarla col mio sguardo: - Come potevo dirti questo quando non ero sicuro di quello che tu provavi? – bisbiglio sulle sue labbra, tracciandone il contorno con il pollice. La morbidezza della sua pelle ha tutto un altro effetto sulle mani piuttosto che sulla bocca.
- Sono venuta a dormire da te per mesi, stupido – mormora lei. – Persino Natsu ha capito che mi piacevi.
- Allora permettimi di recuperare i mesi in cui sono stato ignorante riguardo a ciò che provavo io, che ne dici?
Levy annuisce e, senza aspettare, si solleva sulle punte dei piedi e io la stringo a me. La notte è calda e l’aria estiva ci ricopre come una coperta, ma se scoppiasse un incendio non me ne accorgerei nemmeno. La spingo contro la porta quasi con violenza, trattenendo a stento il fiume di sentimenti impetuosi che provo verso di lei, che si sono accumulati in queste settimane lontano da lei e dalla sua pelle.
Lei geme sulla mia bocca e scende a baciarmi il collo mentre io reclino la testa per darle maggior accesso possibile alla mia pelle. Poi la sua mano abbassa la maniglia su cui è rimasta posata tutto il tempo, e la porta si spalanca senza cigolare.
Riesco ad afferrare Levy per la vita prima che cada a causa della perdita del sostegno, ed entriamo con impaccio in camera sua. Poi tiro un calcio alla porta per chiuderla e provo a tirarmela in braccio, ma lo yukata che le avvolge le gambe me lo impedisce.
Così aspetto paziente mentre le nostre labbra si incontrano e poi si posano sui nostri colli, assaporando uno la pelle dell’altra come se fosse il cibo più delizioso che abbiamo mai assaggiato.
E forse è proprio così.
Questa volta è il mio turno di gemere quando Levy mi sbottona in fretta la camicia e mi bacia il petto dopo avermi morso giocosamente il collo. Il cotone leggero che Juvia mi ha costretto ad indossare per la serata finisce ai nostri piedi, e io lo spingo via con la scarpa. Levy mi accarezza le braccia e sento i muscoli tendersi e rilassarsi ritmicamente sotto al movimento delle sue mani dolci.
Vorrei fare tutto, vorrei strapparle di dosso i vestiti e sbatterla sul letto, vorrei essere delicato allo stesso tempo perché Levy è una farfalla nelle mie mani, ma il cervello sembra essere andato in tilt e non faccio altro che stringerla a me per baciarla in mille modi diversi.
Se non fosse lei a muoversi, probabilmente resterei tutta la notte in piedi, appiccicato alle sue labbra. Ricordo ancora il panico che per un momento mi aveva attanagliato, mentre mi chiedevo se sarebbe sempre stato così o se le volte successive sarei stato in grado per lo meno di muovermi con intraprendenza.
Non era molto virile lasciar fare tutto a Levy.
Infatti, lei inizia a slacciarsi l’obi, e una volta sciolto il fiocco getta via il cinturone, facendolo atterrare sul comodino con i libri. Vorrei scostarla da me per vedere il modo in cui lo yukata si apre lentamente, rivelando piano il corpo che voglio fare mio, ma allo stesso tempo non voglio che il mio naso si allontani dal profumo del suo collo e non voglio che le sue dita si spostino dai miei capelli.
Ancora una volta è lei a prendere la decisione, e mentre io cerco di capire cosa fare, Levy si è tolta sandali e calzettini. Si stacca da me e, mentre si accerta che i miei occhi siano fissi nei suoi, si siede sul letto. Le sue mani, intrecciate alle mie, mi tirano verso di lei e io mi inginocchio tra le sue gambe semiaperte. Ormai lo yukata sembra solo una vestaglia colorata, che le copre morbidamente le cosce mentre dallo scollo si intravede la curva del seno, libero.
Nel momento in cui faccio scorrere le mani sui suoi polpacci e sulle sue ginocchia, sembra rendersi conto improvvisamente della situazione. Così, quando le accarezzo le cosce facendo cadere dalle sue gambe il tessuto arancione, avvampa.
L’imbarazzo la spinge a chinare la testa per osservare il modo in cui i miei grandi palmi coprono la sua pelle chiara, che brilla sotto la luna calda. Purtroppo lo yukata non si è aperto del tutto e io non posso guardare tutto quello che vorrei, ma so che rimedierò dopo.
Le prendo il mento tra il pollice e l’indice, alzandoglielo, finché i suoi occhi tornano nei miei. La bacio sugli occhi e sulle gote, all’angolo della bocca e poi sulle labbra. La sento rilassarsi nel calore delle mie lievi tenerezze, e acquista fiducia togliendosi lo yukata, alzando leggermente il bacino per farlo scorrere via.
È adesso che mi concedo il lusso di guardarla, di mangiarla con gli occhi, centimetro per centimetro, neo per neo, cicatrice per cicatrice.
- Non guardarmi così – mormora lei, la voce piccola come quella di un pulcino.
- Così come?
- Come un cieco che vede per la prima volta.
La risposta mi spiazza, distogliendomi dalla mia contemplazione. Sono così perplesso che quasi non mi accorgo delle sue dita leggere che armeggiano con i miei pantaloni.
Quasi.
- Cosa vuol dire? – brontolo, mentre mi pare che l’atmosfera attorno a noi si rompa come un sottile strato di ghiaccio calpestato.
Le si blocca e mi fissa. – Che guardarmi non dovrebbe essere così emozionante.
Non capisco se mi sta provocando per spronarmi a fare qualcosa di più che stare lì a guardarla, o se ha solo voglia di mettere in risalto chi è che comanda. Perché il cieco sono io, non lei. I ciechi non comandano.
Comanda lei, lo so, ma non ho intenzione di lasciarglielo capire.
- Se fossi cieco, la prima cosa che vorrei vedere saresti tu – rispondo.
Lei sorride, illuminando il suo viso più delle stelle che accompagnano la nostra notte. Arretra sul letto e prova a coprirsi come può, ma sulle labbra ha un sorriso impertinente che mi fa venire voglia di ringhiare di malizia. O fare le fusa. Mi sbarazzo in fretta dei pantaloni e mi avvicino gattonando, come una tigre che ha appena puntato la sua preda. Lei si sdraia, assecondando i miei movimenti, e si fa ancora più piccola sotto di me.
- Vorrei che questa notte durasse per sempre – mormora circondandomi il collo con le braccia.
Io le bacio la spalla e raggiungo la clavicola, soffiando e facendola ridere e contorcere sotto di me.
- Se tutte le notti saranno così, sarà un per sempre – le rispondo io, scendendo fino al suo ombelico.
- La ripetizione eterna di qualcosa. Sì, mi piace – risponde sorridendo mentre io le bacio la pancia. – Gajeel che stai… ah! Smettila! – urla ridendo, mentre le faccio il solletico con la bocca.
Però l’ilarità svanisce quando raggiungo il tessuto della sua biancheria. Si irrigidisce.
- Gajeel… – mormora, più preoccupata che emozionata.
Non posso permettere che diventi tesa. Voglio che sia la notte più bella della sua vita, e devo lavorare per fare in modo che sia così. Mi giro su un fianco e mi sdraio vicino a lei, seppellendo il viso nel mio nuovo nascondiglio preferito: il suo collo. I suoi capelli, ormai sciolti, mi accarezzano le guance e io sento che da ora in poi non potrò più dormire, se non in questo modo.
Le sue mani iniziano a giocare con i miei capelli mentre le mie mappano il suo corpo, dalle cosce alla schiena, alla testa. È così piccola che le mie mani la coprono fin troppo.
Restiamo in silenzio ad ascoltare uno i respiri dell’altra, mentre io sento battere il suo cuore nel suo collo.
- Hai intenzione di concludere qualcosa o ci addormentiamo e rimandiamo a domani? No, perché, sai… io vorrei arrivare a qualcosa, ad un certo punto – sbotta lei dopo un po’, piena di aspettativa.
È così inaspettata, questa uscita, che scoppio a ridere.
- Ma se ti sei irrigidita quando ti ho sfiorato le mutande!
Non mi serve guardarla per sapere che è arrossita.
- Va be’ – minimizza lei. – Non era un invito ad andare a dormire.
Io sghignazzo e attacco la sua bocca, che si rivela famelica e impaziente.
- Fammi tua – la sento bisbigliare prima che i sensi prendano completamente il sopravvento sul raziocinio.
Non è stata quella la notte in cui abbiamo fatto il sesso migliore della nostra vita. Quello arriva con la pratica e la scoperta l’uno dell’altra. Di notti più passionali ce ne sono state tante, e tremo ancora al solo ricordo.
Quella, però, è stata la notte in cui abbiamo dato un corpo ad un sentimento.
È stata la notte in cui abbia Fatto, fatto nel vero senso della parola, l’Amore.

 
~~~~~~~~~~○~~~~~~~~~~
 
Il sorriso divertito di Gajeel fece avvampare Levy.
- No ti ho mai detto quelle cose – mormorò.
- Oh, sì, Gamberetto. Sappiamo entrambi che la più impaziente sei tu. Io ho molto autocontrollo – infierì Gajeel, sereno dopo tanto tempo.
Ricordare i momenti passati con lei gli faceva solo bene.
- Cosa stai dicendo?! -  lo incalzò Levy, agitandosi sul ramo. – Sei tu che mi prendevi ovunque! Una volta nel bosco, in mansarda, in armeria, persino in lavanderia e in cucina nel cuore della notte!
- E con ciò? Sappiamo bene che lo facevo solo per te. Non puoi dirmi che non ti piacevano le lavatrici!
- Eri tu il maniaco pervertito! Io subivo passivamente.
Gajeel scoppiò a ridere. – Passivamente, certo. E gli attentati che mi facevi in doccia? Meglio che stai zitta, se non vuoi essere rovinata.
Levy arricciò le labbra e distolse lo sguardo, provando a scrutare il cielo in quella massa di profumate nuvole rosa.
Gajeel perse il sorriso. In passato era quello il loro modo di arrivare al sodo: battibeccare fingendosi offesi mentre la tensione saliva e loro finivano inevitabilmente appiccicati. Nessuno dei due si tirava indietro sul piano verbale, quindi finivano sempre col rotolarsi da qualche parte.
Quella volta non potevano. Non avrebbero concluso nulla.
Non potevano.
Per quello Levy si era zittita, ma lui se n’era accorto lo stesso.
Sospirò, appoggiando la testa ad un ramo. Era così dolorosamente ingiusto.
Poco dopo si voltò a fissare Levy, trovandola assorta in qualche riflessione arcana e misteriosa. Era stupenda.
Un’idea malsana gli ballonzolò in mente, e Gajeel si agitò sul ramo, avvicinandosi a lei.
- Che hai? – gli chiese Levy, distratta da suoi movimenti.
- Ho un’idea – mormorò lui, provando a mettersi di fronte a lei.
Dopo alcuni difficoltosi tentativi che avevano come scopo supremo il non restare castrato, Gajeel si posizionò a cavalcioni di un ramo, così vicino a Levy da attraversare gli orli del suo vestito giallo. – Sei stanca?
 - No. Perché?
- Concentrati – la spronò, iniziando ad avvicinarsi lentamente alle sue labbra.
Levy capì le sue intenzioni, e stranamente non si allontanò. Nel momento in cui le loro bocche si sfiorarono, Gajeel temette di incontrare aria al millimetro successivo. E la paura lo afferrò allo stomaco.
Poi, però, le labbra di Levy furono sulle sue, vere dopo tanto tempo, e nell’euforia del momento Gajeel le circondò il viso.
La ragazza si stava sforzando molto per baciarlo, concentrandosi nell’incanalare l’energia sul suo viso e sulle sue mani. L’impazienza e il bisogno di Gajeel si placarono alcuni attimi dopo, permettendogli di donarle uno dei baci più dolci e amorevoli che le avesse mai dato.
Purtroppo, finì troppo presto.
- Gajeel – lo avvisò lei, mentre le sue mani tornavano ad attraversarlo. – Mi dispiace, non ce la faccio più… - ansimò scostandosi.
Il ragazzo restò con gli occhi chiusi per assaporare gli strascichi di quel bacio che aveva tanto agognato.
Era stato più di quanto avesse potuto desiderare.
Sollevò le palpebre con l’intento di ringraziarla, di mostrarle quanto avesse significato per lui quel breve contatto.
Ma un luccichio alle spalle della ragazza lo bloccò.
- Gajeel, tutto bene? – lo chiamò lei, preoccupata dalla sua apatia. – Gajeel?
Ma lui non rispose. Scese dall’albero in fretta, con una grazia inaspettata per essere un armadio di quasi un metro e novanta e cento chili di muscoli.
- Ehi, dove vai? – lo richiamò ancora Levy, affrettandosi a raggiungerlo.
Di fronte ai due si stagliava… il bosco. Gli alberi circondavano il grande ciliegio formando una piccola radura, ma le altre forme vegetali non avevano nulla di interessante. O insolito.
Poi Gajeel si infilò tra due cespugli e divenne invisibile alla vista, coperto dal fogliame e dall’ombra delle frasche fiorite.
- Ma cosa ti ha preso? – chiese Levy, facendosi largo senza fatica attraverso gli arbusti.
Quando alzò lo sguardo, però, si zittì. E spalancò gli occhi.
Nella penombra Gajeel aveva scorto qualcosa che luccicava leggermente.
Seppellita sotto ad un cumulo di foglie morte, incuneata tra due rocce frastagliate e muschiose, c’era una spada. Una spada con l’elsa blu e gli intarsi argento che si avvolgevano a spirale lungo l’impugnatura.
Gajeel non era nemmeno consapevole della presenza di Levy, immobile e silenziosa di fianco a lui. Rigida.
- La Spada dello Spirito – mormorò flebilmente lui, allungando una mano coperta dai soliti guanti che lasciavano le dita scoperte. Era la spada che pendeva dal fianco di Erza quando, due anni prima, era morta. La spada che aveva sottratto alla casa, lasciandola in balìa di uno spirito malvagio.
- Aspetta – lo bloccò Levy quando ormai i polpastrelli erano ad un soffio dall’elsa. Gajeel la osservò senza capire. – Manca il… fodero. Il fodero, sì.
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia. Non capiva perché potesse interessarle il fodero. Quella spada, forse, poteva salvare la villa. In qualche modo.
O forse si stava solo raccontando troppe favolette per consolarsi.
Comunque ascoltò la ragazza e, dopo aver buttato a terra mucchietti di foglie secche e umide, che puzzavano di natura in decomposizione, scorse parte del fodero.
- Eccolo – mormorò, tirandolo fuori dalla tomba di foglie.
Il fodero era stato appoggiato sul grosso masso in cui era incastrata la spada, come se qualcuno l’avesse tolta dalla sua custodia per giocare alla Spada nella Roccia e avesse abbandonato lì il fodero perché non sapeva che farsene.
- Wow – si lasciò sfuggire Gajeel una volta presolo in mano.
Il fodero, freddo come il ghiaccio, era dello stesso colore intenso dell’elsa della spada, una via di mezzo tra il blu notte e il colore dei capelli di Levy. Lungo l’asta si rincorrevano, intrecciandosi, le decorazioni d’argento puro che si erano interrotte nella spada così che, uniti, arma e contenitore sembrassero un unico, inseparabile oggetto.
- Bella, è davvero bella – concesse Levy. – Non a caso era la spada preferita di Erza.
Gajeel abbassò il fodero per guardarla. – L’aveva usata altre volte?
- Oh, no, no – negò lei. – Ma eravamo tutti curiosi quando ha aperto la teca per prenderla. Anche se non tutti credevano alla leggenda, era pur sempre un oggetto antico avvolto da un velo di mistero. Erza disse che sembrava un’estensione del suo braccio, e che non aveva mai maneggiato una spada così confortevole.
Il ragazzo annuì, tornando a studiare l’elsa della spada. – Chi l’ha incastonata qui?
Levy si torturò le mani, a disagio, e la mente di Gajeel iniziò a girare vorticosamente nel tentativo di capire e dare un senso a quella faccenda. – Levy? Che diamine hai combinato?
La ragazza fuggì il suo sguardo e arretrò di un passo.
Gajeel si spazientì e, con un ringhio di frustrazione, afferrò la spada con una mano e la divelse dalla roccia senza sforzo.
Non era più padrone di nulla. Forse non lo era mai stato.
Forse siamo solo foglie trasportate dal vento, incapaci di prevederne la rotta e governarne le correnti.
Però, mentre spalancava gli occhi e barcollava sotto al potente peso della spada, Gajeel capì che, almeno, sarebbe stato padrone dei suoi ricordi.
Si accasciò su un tappeto di vegetazione morta mentre l’ultimo tassello gli restituiva la sua storia.

 
~~~~~~~~~~○~~~~~~~~~~
 
Una fitta alla testa obnubila il dolore dei tagli che ho sul fianco e sulle braccia, facendo passare le ferite da spada per semplici graffi. Puntini rossi che sembrano gocce di sangue coagulato mi saltellano davanti agli occhi chiusi, colorando la nera oscurità con un caldo e vischioso vermiglio.
Le orecchie mi si stappano lentamente e lo scalpiccio leggero che riverbera nel pavimento diventa un vero e proprio rumore.
Alzo le palpebre lentamente e riesco ad intravedere gli occhi annacquati di Levy, distrutta dal dolore e terrorizzata.
Una risata talmente spaventosa da sembrare finta riecheggia nella stanza come un tuono. – Ma brava. Praticamente hai ucciso il tuo ragazzo. E io sono ovviamente fuggito. Cosa pensi di fare ora?
- Morire e portarti con me – mormora Levy, fissando un punto fisso davanti a sé, praticamente sopra di me.
Infatti, all’altezza dei miei occhi, l’aria sfrigola e si agita mentre gli atomi impazziti fanno posto a quella presenza metafisica che occupa uno spazio che non gli spetta.
Lo spettro è proprio sopra di me, traslucido nel suo aspetto grigiastro. Sembra più forte. Forse rubare i corpi altrui lo rende più potente.
- Non posso morire. E l’unico corpo che mi rimane da possedere è il tuo. Sarà divertente portarti sul tetto e poi farti provare l’ebbrezza del volo. Io ovviamente abbandonerò il tuo corpo quasi subito, godendomi la dimostrazione a grandezza naturale di come ottenere una frittata perfetta.
Levy abbassa la testa, sconfitta, ma dalla mia posizione riesco a vedere le sue pupille muoversi frenetiche, come sempre quando cerca una soluzione veloce a qualche enigma. I suoi occhi analizzano il suolo come se ci fosse registrato un codice comprensibile solo a lei.
Il suo sguardo indugia alla sua sinistra due o tre volte, prima di fissarsi su qualcosa di preciso. Essendo sdraiato, non posso vedere cos’ha puntato, ma il piano che ha ingegnato deve soddisfarla, perché solleva di nuovo la testa. L’espressione è dimessa, quasi rassegnata, ma io so leggere i suoi occhi, e il fuoco battagliero che li anima è appena stato imbevuto di benzina.
Levy si stacca dal tavolo di cemento, troppo simile ad una tavola sacrificale, e inizia a passeggiare lentamente verso il punto che aveva fissato prima. Vanta una nonchalance che spero possa ingannare lo spirito. – Dimentichi che io, al contrario dei miei amici, so come batterti.
L’essere ride, pregustando la vittoria. Inizia a spostarsi lentamente alla sua sinistra, dalla parte opposta rispetto a Levy. – E come pensi di farcela? Ti pugnalerai una volta che io ti avrò posseduta? Impossibile. Sai, non avrai più il controllo delle tue azioni.
Levy sorride, un sorriso triste. La sua riuscita avrà un caro prezzo. Lo spettro alle sue spalle si è avvicinato, e lei si irrigidisce quando quell’aria turbolenta le sfiora la pelle. Nel momento in cui si china e slaccia il fodero della spada dal fianco di Erza, fingendo un mancamento, capisco.
La Spada dello Spirito è ora tra le mani di Levy, e io cerco in tutti i modi di gridare per bloccarla, per impedirle di fare ciò che sta facendo. Ma ovviamente non posso, perché non controllo la mia voce e non so quanto il mio me del passato abbia capito ciò che sta succedendo.
Così accucciata vicino al corpo di Erza, Levy nasconde ciò che sta facendo. Con mani tremanti impugna il fodero blu della spada, e attorciglia le dita attorno all’elsa gelida. Per un momento perde la concentrazione e il terrore affiora sul suo viso delicato, ma ben presto viene spazzato via dalla determinazione.
Levy stringe le mani e si alza estraendo la spada dal fodero. Inizia a parlare a voce alta per mascherare il rumore affilato della lama. – Io avrò sempre il controllo delle mie azioni. Tu sai perché sei qui? Perché finalmente hai potuto accedere a questo castello.
Alle sue spalle, lo spirito esita. Se avesse alito, vedrei i capelli di Levy muoversi. Ma tutto è immobile, in attesa della tragedia. – Quella maledetta spada – ringhia.
Levy sorride e alza il mento, rivelando le lacrime che le rigano il viso. – Questa benedetta spada – replica.
Mi sembra di veder sussultare lo spettro.
- NO! – urla, concitato, muovendosi come uno sciame impazzito di mosche.
Ha visto la spada che Levy stringe al petto. Ma lei è stata più veloce e non gli ha lasciato il tempo di agire.
Sollevando la Spada dello Spirito, ha diretto il puntale verso il proprio cuore.
- Tu non…! – ringhia ancora lo spettro, prima che le sue parole vengano soffocate.
Levy ha affondato la lama con un gemito, trapassandosi il cuore e infilzando se stessa e lo spirito.
L’essere acquista spessore e materia, un attimo dopo torna ad essere pura aria e quello dopo ancora grida e sanguina nero.
Levy respira affannosamente, le dita strette attorno all’elsa. Piange silenziosamente, come se quel fiume salato che le solca le guance facesse parte della sua natura, e non fosse totalmente paradossale sul suo viso solare. – Spada dello Spirito. Spada della Separazione, Spada della Dannazione. Spada dell’Unione – rantola Levy, mentre il mostro alle sue spalle cigola come un vecchio ingranaggio rotto, avvolgendola. – Per me, è stata la Spada Benedetta che ha protetto la mia famiglia per anni. Ma sarà anche la Spada della Dannazione. E la Spada dell’Unione. Ora il tuo spirito è unito al mio corpo, al mio spirito. E non potrai più fuggire, perché le mie ossa saranno la tua prigione e i miei nervi i tuoi legami di ferro. Tu ora sei dentro di me, e non fuggirai mai più.
Un singhiozzo la scuote, e stringe gli occhi, sopraffatta dal dolore. Le viene la pelle d’oca e boccheggia, mentre quella presenza oscura viene assorbita dalla ferita nel suo cuore, che brilla di luce blu.
- Muori con me, bastardo.
Lo spirito urla facendo tremare le mura del castello, mentre entra nel corpo di Levy. Con un rombo l’aria torna immobile, e lei ansima, le mani premute sullo stomaco. Trema e si appoggia al tavolo di cemento. Con un respiro strozzato, si toglie la spada dal petto. Il movimento è fluido e terribilmente doloroso a giudicare dal modo in cui si morde a sangue le labbra.
La spada cade a terra, riempiendo la stanza di un rumore cristallino come quello vetro infranto. È pulita, è lucida come se qualcuno l’avesse appena creata, e brilla di una luce azzurra identica a quella sprigionata dal cuore di Levy. Una cicatrice sul cuore, lì dove due anime si sono unite, ingabbiate in un corpo troppo piccolo.
Ora capisco che non tornerà più da me. L’ho persa per sempre.
Io e Levy non staremo mai più insieme.
Lei tossisce e si accascia per terra, vicino al corpo di Erza, il respiro corto e rantolante.
Si gira verso di me un’ultima volta, nel momento in cui le mie palpebre si chiudono definitivamente.
- A presto, Gajeel – bisbiglia.
 
La sua voce è l’ultima cosa che sento prima di svegliarmi all’ospedale, con il cuore rotto e la testa vuota.



MaxB
... ahem... buonasera... eheheh.
Chiedo scusissima per il ritardo, ma è stato un fine-inizio settimana da incubo. Tra risvegli alle 4 di mattina e orari della buonanotte alle due della mattina, sono fusa e lunedì non ho proprio proprio potuto postare.
Spero che mi perdoniate, il capitolo è tanto fluff all'inizio (circa... no, va be', scherzavo) e alla fine c'è finalmente la scoperta di ciò che è successo a Levy.
Spero che con questo ultimo flashback vi si siano chiarite le idee, visto che avevo creato confusione in alcuni di voi lo scorso capitolo. Ecco, se ora la cosa è più chiara allora la confusione è perfetta.
Se ancora siete confusi vedrò di riflettere sul senso di The Ghost ahahahah.
So che la maggior parte capirà anche troppo.
Vi saluto e vi ringrazio infinitamente per la pazienza, spero che il cap vi piaccia.
A lunedì!
MaxB
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


Capitolo 11
Gli addii fanno proprio SCHIFO


 
- Gajeel… prego… ndimi…
Il ragazzo sbatté lentamente le palpebre mentre la voce di Levy cominciava a raggiungere il suo timpano con più forza. Era come riaffiorare dal mare.
- Gajeel, dimmi qualcosa. Reagisci!
La prima cosa che vide fu la spada, posata sul manto di foglie davanti al suo viso.
La prima cosa che percepì furono le mani di Levy che lo scuotevano. Si stava sforzando tanto solo per toccarlo, per aiutarlo a riprendere conoscenza.
Un gemito gli sfuggì dalle labbra e zittì Levy, che si gettò su di lui singhiozzando.
Gajeel tossì mentre gli ultimi strascichi del dolore provato due anni prima si allontanavano nel silenzio tipico di un fantasma. Mentre Levy piangeva sopra di lui, capì che anche lei aveva rivissuto gli ultimi attimi di quella storia assurda.
- Come hai potuto? – mormorò lui, passandole una mano sulla schiena.
- Co-cosa? – balbettò lei, sopraffatta.
- Come hai potuto suicidarti?
Gajeel respirava pesantemente nel tentativo di evitare al bruciore dei suoi occhi di trasformarsi in lacrime amare. Un peso immenso gli stringeva il petto, e non dipendeva da Levy.
- Non mi sono su-suicidata – gemette lei. Tacque per diversi minuti, mentre la facoltà di parlare rientrava in possesso delle sue corde vocali. – Che altro avrei potuto fare? Eravate tutti morti. Tu eri devastato dalle ferite. Se avessi lasciato libero lo spettro mi avrebbe uccisa, e avrebbe ammazzato anche te. O ti avrebbe lasciato ad agonizzare sul pavimento. Ho pensato… ho pensato che portarlo via con me ferendomi sarebbe stato meglio che lasciarlo libero di andare a seminare altro terrore.
Gajeel allungò una mano per accarezzarle i capelli, ma la mano affondò in quell’inconsistenza vischiosa che rappresentava Levy. Come se l’aria avesse una forma propria. E ora capiva perché.
Le sue mani attraversavano gli altri fantasmi, come se fossero aria. Ma Levy era aria pesante.
Era più densa. Perché dentro di sé aveva due spiriti. Forse era per quello che non era morta.
Trafitta al cuore. Sarebbe dovuta morire immediatamente.
Però le due presenze che litigavano nel suo corpo le avevano dato vigore, e invece di morire si era estraniata dal tempo, mentre lo spirito maligno era rinchiuso nel suo corpo, impotente.
- Cosa… cosa devo fare? Come posso aiutarti? – domandò Gajeel in un sussurro, lo struggimento lampante nella sua voce.
- Penso che tu sappia già la risposta…
Sì. O forse no. Probabilmente la immaginava. Chi poteva saperlo?
- Devi uccidermi Gajeel. Ti ho aspettato per questo. Ho atteso per questo. Non avresti mai capito se non avessi visto con i tuoi occhi.
Il ragazzo restò zitto, gli occhi secchi come il deserto, il cuore vuoto come uno scrigno senza più gioielli.
- Se ti avessi detto settimane fa di uccidere il mio corpo, tu ti saresti rifiutato. Mi avresti guardata come se fossi pazza. E lo stesso gli altri – insisté. – Ma ora tu sai, ricordi cos’è successo. Quindi hai capito cosa devi fare. Non c’è altra scelta. Sono felice che tu sia sopravvissuto, comunque.
Levy si strinse nelle spalle e Gajeel sentì di nuovo il suo corpo acquistare forza e consistenza, fino a sentire ogni lembo di carne che pesava su di lui. Abbracciò quel corpo che non era che una proiezione di quello che amava, ed osservò il sole che filtrava dalle foglie sopra di sé, illudendosi che fosse tutto un sogno.
- Non posso vivere così, Gajeel. E nemmeno tu puoi.
Lui annuì. Quando sentì di nuovo Levy diventare un fantasma, si sedette e poi si alzò, imitato da lei. Raccolse la spada e sentì il peso di ciò che doveva compiere gravare su di lui. Infilò l’arma nel fodero e se lo legò in vita. Poi guardò Levy e, prima che lei potesse muovere un dito, scappò via.
Corse negli alberi come se lo spirito fosse stato alle sue spalle. Corse come se avesse avuto il fuoco sotto ai piedi. Corse come se Levy fosse stata in pericolo, e la sua salvezza fosse dipesa dalla sua velocità. Corse fino a vedere solo una guglia del castello sbucare dal verde fogliame che opprimeva il cielo.
Fu allora che sguainò la spada e si scagliò urlando contro un albero, infierendo contro il tronco come se al posto della spada avesse avuto un’ascia. Lottò contro la vegetazione con tutta la rabbia e l’odio che possedeva, sperando di infliggere all’arma almeno un decimo del dolore che provava lui.
Altro che Spada Benedetta e portafortuna.
Gli aveva tolto gli amici.
Gli aveva tolto i ricordi.
Gli aveva tolto Levy.
Quella spada era stata una maledizione, era nata come tale nel momento stesso in cui Mastro Zeref l’aveva ideata. Del resto, cosa può portare di buono un’arma nella cui lama scorre la potenza di un’anima umana?
Ma la spada rimase immobile, intatta, prendendosi beffe di lui. Era immortale e indistruttibile, al contrario del corpo che l’aveva generata.
Gajeel ringhiò e la gettò a terra, scagliandosi lui stesso contro agli alberi fino a farsi sanguinare le nocche. Fino a quando il rumore dei battiti accelerati del suo cuore si sostituirono ai grilli notturni.
Quando sentì le urla che gridavano il suo nome restò zitto, la testa posata contro il tronco lacerato di un povero albero, la testa vuota come il senso di quello che stava vivendo.
Non sobbalzò nemmeno quando una mano si posò sulla sua spalla.
- Torniamo a casa, Gajeel – sussurrò dolcemente Mirajane.
Si lasciò trascinare via, inerte, chinandosi all’ultimo secondo per recuperare la Spada dello Spirito.
In qualche modo il ruolo di quella lama non era ancora da archiviare.
 
- Gajeel. Redfox! – sbraitò Erza una volta che il ragazzo e Mirajane misero piede dentro casa.
Il salone era pieno di ragazzi e ragazze preoccupati che facevano avanti e indietro e parlottavano tra di loro.
- Tranquilla Erza – la bloccò Mira prima che la ragazza minacciasse la vita di Gajeel. Avrebbe potuto farlo anche da fantasma.
- Be’, delle spiegazioni le deve a tutti. Non può sparire così senza avvertire.
Gajeel sollevò lo sguardo, innervosito, e incontrò gli occhi di Levy, seduta sulle scale. Era sconsolata e abbattuta.
- Perché sei scappato? – lo incalzò Erza, mentre alle sue spalle persino Gray e Natsu tacevano.
- Non sono scappato. Avevo detto che sarei andato fuori a passeggiare. Non devo certo rendere conto a voi di ciò che faccio.
Gerard si schiaffò le mani sul viso mentre gli occhi di Erza lampeggiavano di collera. – Ovvio che no. Ma si dà il caso che una passeggiata non preveda lo star fuori fino a tarda notte, senza tornare a casa a mangiare.
- Gajeel… - mormorò Mirajane, prevenendo la seconda parte della sfuriata di Erza. La ragazza sollevò la sua grande mano, sconvolta. – Che hai fatto alle mani?
Sulle nocche insanguinate e infangate erano attaccati pezzi di corteccia e briciole di foglie, come in un bricolage alternativo.
Persino la rabbia di Erza vacillò. – Ma che diavolo è successo?!
Mirajane sospirò. – Gajeel, vai a farti un bagno caldo. Noi ti prepariamo la cena. Sarà faticoso, ma siamo almeno una trentina e dovremmo farcela. Quando sei pronto scendi.
Il ragazzo grugnì e si diresse al piano superiore senza degnare Levy di uno sguardo.
Faceva troppo male.
 
Quando Gajeel scese, un’ora più tardi, in sala da pranzo erano presenti solo Mira, Erza, Natsu, Gray, Juvia, Gerard e Lucy.
Le due donne avevano insistito per restare sole con lui, ma Natsu e Gray non si sarebbero persi per nulla al mondo una sfuriata di Erza a danno di Gajeel, Juvia non avrebbe lasciato Gray da solo, Gerard sperava di fare da paciere nel caso in cui Erza fosse esplosa e Lucy… be’, era lì. Levy era seduta su un altro tavolo, un po’ isolata, e si fissava i piedi.
- Non ho voglia di parlare – sancì Gajeel sedendosi a tavola e buttandosi a capofitto sulla bistecca preparatagli.
- Non ci interessa, sei sparito e hai l’obbligo di dirci per quale motivo sembri uscito da una lotta contro un t-rex!
- Erza! – riprese pacatamente Mirajane. – Non aggredirlo così.
Gajeel grugnì con la bocca piena e non sollevò lo sguardo. Sentiva di aver davvero bisogno di parlare con qualcuno.
Qualcuno che non fosse Levy.
Paradossale ma vero.
- Forse è il giunto il momento di raccontare la verità – lo spronò Levy, intuendo i suoi pensieri.
Gajeel la fissò di sottecchi e finì di masticare il boccone troppo grosso.
Bevve un sorso di birra e osservò i presenti, che attendevano con pazienza. Come facevano da due anni, del resto.
- Ho rimesso la Spada dello Spirito al suo posto – esordì, non sapendo bene da dove cominciare.
In risposta ottenne solo sguardi vacui e confusi e un: - Ah! Che ridicolo mettere nomi alle spade – di Natsu.
Solo Mirajane sembrava aver intuito qualcosa.
- Che roba è la Spada dello Spirito? – chiese Erza.
- La spada che hai fregato per il tuo torneo due anni fa.
- Quella blu e argento? – domandò ancora.
- Eh già. Quella che ha fatto succedere questo casino.
- Cosa?! – sbottò Lucy.
- Già. Si dà il caso che quella spada proteggesse la casa da sfortuna e chissà quali maledizioni. Quando Erza ha preso la spada, ha eliminato la protezione e uno spirito simpatico è arrivato a dirci ciao ciao portando una bella scia di morte come regalo.
Natsu scoppiò a ridere mentre Erza arrossiva. Non le piaceva essere accusata. – E io che ne sapevo, scusa?
Sbuffando, Gajeel raccontò loro tutta la storia: la leggenda della Spada, la decisione del Master di prestarla ad Erza, la presenza dello spirito di cui loro erano già a conoscenza e la fine di Levy.
Il motivo per cui non aveva mai detto nulla.
- Quindi tu devi uccidere Levy?!
- Io non credo a questa favoletta.
- Non è colpa mia, ma del Master!
- E ora che facciamo?!
- Non posso crederci…
Una tempesta di domande colpì Gajeel, che strinse i denti per non urlare.
La mano di Mira si materializzò sul suo braccio per dargli conforto. – Levy è stata molto coraggiosa, Gajeel. Chissà quanti altri disastri avrebbe potuto commettere quel mostro orrendo prima che qualcuno riuscisse a fermarlo.
Mano a mano che Mirajane parlava, le voci concitate si acquietavano, iniziando lentamente a metabolizzare tutte quelle macabre informazioni.
- Quindi è… tutto vero? – chiese Lucy, la voce labile e prossima al pianto.
- Lu-chan… - mormorò Levy, affranta.
Ma la sua amica non rispose.
- E ora cosa facciamo? – indagò Juvia, lucida. Gajeel poteva vedere lo choc crescere in lei, ma fino a quel momento era calma e controllata.
- Io devo… devo ucciderla – bisbigliò il ragazzo. – Devo ucciderla e uccidere il demone che porta dentro di sé. Sarà libera e lo sarete anche voi.
La notizia colpì i ragazzi come una bomba assordante. Non avevano collegato la morte di Levy alla loro salvezza.
Morta lei, moriva il loro assassino. Morto quello, loro sarebbero morti.
Finalmente.
L’incredulità crebbe negli occhi di Lucy. – Tutto questo finirà?
- No – disse Gajeel, secco.
Tutti lo fissarono sbigottiti. – Ma Gajeel…
- Niente ma. Non ucciderò mai Levy. Mi dispiace, ragazzi, ma dovrete tenermi compagnia un altro po’…
Doveva essere un modo per alleggerire la tensione, ma quella crebbe invece che scemare.
- Ehi, chi credi di…
- Calmatevi – sbottò Mirajane, esasperata e sconvolta. – Gajeel oggi ne ha viste troppe. E anche noi. Non è una cosa facile da digerire, ed è normale che lui voglia evitare di uccidere Levy. Lasciamogli il tempo di riflettere.
Gli altri sembrarono soppesare positivamente la sua richiesta, e alla fine annuirono. Del resto, non se ne parlava nemmeno di rispondere a Mirajane.
- Possiamo almeno vedere la spada? – chiese Lucy.
 
Gajeel li condusse attraverso il salone, la sala giochi e poi l’armeria. Era andato a posizionare la Spada nel suo legittimo posto prima di sedersi per mangiare.
Sperava che almeno potesse tornare a portargli fortuna.
I suoi compagni sciamarono attorno alla teca come un gruppetto di bambini in un museo.
Gajeel spalancò gli occhi quando iniziarono a brillare, assomigliando più a degli angeli che a dei fantasmi.
- Che vi prende?! – esclamò, di fronte ai loro sospiri rilassati. Sembrava che un peso enorme fosse stato tolto dalle loro spalle.
- La Spada, Gajeel – mormorò Lucy, sorridendo.
- Ci dà pace – aggiunse Mirajane.
Il ragazzo guardò la faccia inebetita di Natsu e Gray, che sorridevano come due innamorati senza spina dorsale.
- Ma che state dicendo?! – chiese lui bruscamente, attraversandoli per avvicinarsi. La Spada brillava di una luce tenue, sprigionando un leggero potere.
- È così piacevole. A Juvia sembra di poter dormire per sempre – mormorò Juvia con la voce impastata dal sonno.
Gajeel era perplesso. A lui quella spada non faceva alcun effetto. Girandosi scorse Levy, accanto alla porta. Il suo atteggiamento era antitetico rispetto a quello degli altri.
Strano, perché anche lei era uno spirito come loro.
Quando le pose una muta domanda con gli occhi, lei scosse le spalle, a disagio: - Non ho dei ricordi molto positivi legati a quella spada. Mi va meglio restare qui.
Lui annuì e tornò a guardare i suoi amici. – Ma perché reagite così? È bella, certo, ma non siete esagerati?
- Non puoi capire, Gajeel – mormorò Mirajane. – Si chiama Spada dello Spirito, no? A noi… fa bene. Ci dà serenità.
Il ragazzo scosse la testa e rinunciò a capire per quale motivo i ragazzi sembravano diventati dei figli dei fiori. – Bene, peace and love a tutti, ora sparite che siete inquietanti.
Chiuse il coperchio della teca, come avrebbe dovuto essere per quegli ultimi due anni, e augurò la buonanotte agli altri, che restarono a fissare la teca.
Gajeel uscì dalla stanza tenendo d’occhio Levy, che si agitava spostando il peso da un piede all’altro. Era irrequieta, e nemmeno quando in passato gli chiedeva il permesso di dormire con lui si innervosiva tanto.
Quando si allontanò giurò di aver visto sul suo volto un sorriso che di dolce non aveva nemmeno l’ombra.
 
Quella notte Gajeel si girò più e più volte nel letto, senza riuscire a dormire. Nemmeno stare fermo ad ascoltare il respiro regolare di Levy, il suo confortante calore, lo aiutava.
Rimuginava su quello che aveva visto quel giorno, su quello che aveva ricordato, sul suo futuro. Se avesse fatto la cosa giusta, uccidendo per sempre lo spettro, si sarebbe privato di Levy: del suo fantasma che gli teneva compagnia, del suo corpo che chi notte lo aiutava a dimenticare gli incubi, ma avrebbe liberato tutti gli abitanti di Fairy Tail dalla loro non-esistenza.
Voleva essere egoista, ma al tempo stesso non voleva esserlo. Era così difficile fare la cosa giusta.
Quando si assopì, sognò Levy.
 
~~~~~~~~~~○~~~~~~~~~~

- Gajeel…
Come sempre non riesco a parlare, ma sento il mio cuore accelerare come non mi capita più da tempo quando lei parla. Percepisco solo quello. Il mio cuore. Il resto del corpo non so nemmeno se esista.
- Gajeel, salvami. Salva tutti. Ricordati chi sono.
Ringhio di frustrazione, ma nessuno mi sente.
- Uccidi quella giusta…
Aspetta, cos…
 
~~~~~~~~~~○~~~~~~~~~~

Gajeel si svegliò di soprassalto, urtando il braccio di Levy. Il suo fantasma non c’era. Strano.
Il ragazzo si alzò sbuffando, e attraversò lentamente il corridoio per raggiungere la cucina. Rabbrividì. Per la prima volta si sentì solo in quel castello abbandonato. Infestato dai fantasmi. Gli veniva da ridere per l’assurdità di quella situazione. Levy era sempre, sempre stata con lui. Ma senza lei, senza le voci degli altri o le televisioni dimenticate accese da qualche nottambulo che si addormentava sulla poltrona, la villa sembrava solo pronta a divorarlo.
In teoria la Spada avrebbe dovuto proteggere Fairy Tail, quindi ora che era tornata al suo posto la villa era al sicuro.
Forse.
Gajeel si godé la pace finché poté, ma quando bevve un bicchiere d’acqua, in cucina, mille domande iniziarono a tormentarlo. Prima tra tutti, quella del sogno.
Cosa diamine voleva dire Levy pregandolo di uccidere quella giusta? Quella giusta chi? Non doveva uccidere lei?
- Non riesci a dormire, figliolo?
Gajeel sobbalzò come un gatto quando sentì la voce alle sue spalle. Seduto sui banconi da lavoro, Makarov se ne stava bello placido immerso nel buio della notte. Happy e Lily dormivano ai suoi fianchi, muovendo le code a scatti.
- Ma che…?! Vuoi forse uccidermi, nonnetto? – sibilò, posando con forza il bicchiere sul tavolo.
Il vecchio rise sommessamente. – Oh no, no, ci mancherebbe. Poi chi ci salverebbe?
Gajeel chiuse forte gli occhi e strinse i pugni a quella sottesa richiesta.
- Tutto bene, figliolo?
Il ragazzo riaprì gli occhi di scatto e inchiodò lo sguardo a quello di Makarov, che lo fissava tranquillamente da sotto le sopracciglia cespugliose e bianche come la neve. – Certo. Cosa potrebbe non andare bene? Dopo due anni vissuti nella completa ignoranza scopro che sono un orfano e che vivevo nel castello di un riccone come te, che però tutti i miei amici sono morti, uccidendosi l’un l’altro a causa di strani possedimenti. Come se non bastasse vengo a sapere che la mia ragazza non è morta, ma il suo corpo fa robe strane tipo respirare e non decomporsi nonostante sia stata trafitta al cuore. Ciliegina sulla torta, recupero l’ultimo frammento della mia bucherellata memoria e capisco che la mia ragazza contiene lo spirito che ha ammazzato tutti gli altri, e che quindi per liberarli da questo limbo devo uccidere lei. Ripeto: secondo te che cosa potrebbe andare male?
Makarov sospirò, senza scomporsi. Aveva assistito alla sfuriata di Gajeel senza mai incurvare le spalle o mostrare compassione. – Non posso capirti, figliolo. Quello che è successo a noi è tragico, ma quello che tu stai vivendo è un dramma senza precedenti. Avrei tanto voluto vedervi invecchiare, finché non mi avreste seppellito. Come vi ho visti crescere, volevo esserci anche ai vostri matrimoni, volevo tenere in braccio i miei nipotini, volevo andarmene da questo mondo sorridendo, circondato dall’amore di tutti voi. Ma non è stato così, purtroppo. Sono stato ucciso da uno spirito che ha reso la mia morte amara, perpetrandola da una delle vostre mani. Ho passato la mia esistenza ad accudirvi, insegnandovi ad ascoltare il vostro cuore, ma alla fine non sono stato in grado di darvi la cosa più importante. Un futuro.
La rabbia di Gajeel sfumò, si sgonfiò come un palloncino che non viene chiuso bene.
- Non sai quante volte al giorno, quante volte ogni minuto mi maledico per non aver dato retta a Levy quando mi diceva che quella spada era davvero sacra. Ero cinico. Io, io che raccontavo ai miei bambini le favole ogni sera, che insegnavo loro a credere all’esistenza delle fate, a cercarle per vedere se avevano la coda o no. Io sono stato cinico e per questo avete pagato tutti voi. Marcire all’inferno per tutta l’eternità non espierebbe le mie colpe, per questo voglio solo morire. Egoisticamente, vorrei che tu impugnassi una spada e la uccidessi subito. Ma non è più il mio tempo, per le decisioni. Ora siamo tutti nelle tue mani. E, comunque vadano le cose, noi saremo con te, Gajeel.
Il ragazzo alzò lo sguardo e si rese conto solo in quel momento delle presenze eteree che affollavano la cucina. Mirajane, Erza, Lucy, Juvia, Kana, persino Evergreen, Laki, Lisanna e tutte le altre ragazze, sue compagne. Sue sorelle. Piangevano silenziosamente. Gli altri lo osservavano con comprensione, tutti, persino Natsu e Gray, Laxus, Gerard, Makao, Wakaba, Elfman, Jet e Droy, Warren, Nab, Visitor.
- Se sceglierai di non uccidere Levy, noi ti appoggeremo. Ma nel momento in cui sarai vecchio, avrai vissuto una vita felice e appagante, magari lontano da qui, in un altro stato forse, ricordati di noi. Ricordati della ragazza che hai amato e vieni a liberarci. Noi attenderemo, in base alla tua volontà. Però non lasciarci qui per sempre. Con i secoli rischieremmo di diventare come quello spirito mostruoso che ha compiuto questa strage – continuò Makarov, sommessamente. – L’eternità non è bella come credono i vivi. Non se non puoi viverla nel modo in cui hai sempre desiderato.
Gajeel finì di bere e osservò i suoi compagni uno ad uno. Nessuno lo accusava, nessuno lo stava spronando ad uccidere Levy. Lo avrebbero appoggiato qualsiasi cosa avesse deciso di fare.
Anche se avesse voluto vivere da egoista.
D’un tratto si sentì terribilmente in colpa all’idea di far passare loro una vita orribile solo per poter stare al fianco di un fantasma.
Salutò tutti con un cenno della testa e uscì dalla cucina. In sala da pranzo, iniziò a correre a rotta di collo verso la camera da letto. La sua vecchia, quella in cui dormiva prima di traferirsi in quella di Levy. Quella in cui lei si dirigeva sempre per chiedergli se poteva dormire con lui.
Passò la notte ad ascoltare il suono del suo respiro, fissando il soffitto alla ricerca delle risposte che lui non aveva.
Si addormentò solo alle prime luci dell’alba, quando la luce filtrò tra il groviglio dei suoi pensieri e concesse serenità alla sua mente stanca.
 
Passò una settimana prima che Gajeel prendesse una decisione.
Aveva vissuto gli ultimi mesi aspettando, aspettando di scoprire che cos’era successo, fino in fondo. E ora aspettava di scegliere cosa fare della sua vita.
Gajeel scoprì così che ci sono diversi tipi di attesa, ma tutti quanti sono accomunati da una caratteristica in comune: lo schifo.
Aspettare faceva veramente, ma veramente schifo.
 I fantasmi non facevano più colazione con lui, e se lo incrociavano lo salutavano con imbarazzo per poi dileguarsi. Gajeel si chiedeva se erano arrabbiati con lui perché ancora non li aveva liberati, dando loro una vera morte, ma Levy lo rassicurò: non avevano contatti con lui perché temevano di forzarlo a fare qualcosa di cui poi si sarebbe pentito.
- Che?! – aveva chiesto lui, confuso.
- Hanno paura di influenzare le tue decisioni – aveva chiarito Levy. – Magari ti convincono a fare qualcosa di cui potresti pentirti per il resto della vita.
Gajeel era rimasto zitto, ma aveva iniziato a pensare che se doveva passare la sua esistenza ad essere evitato dai suoi compagni forse non aveva nemmeno senso rimanere in quel castello.
Mira era l’unica che ogni tanto gli teneva compagnia, oltre a Levy. Ma la ragazza era strana. Silenziosa e irrequieta.
Gajeel iniziava a pensare che quella vita pesasse anche a lei, e che desiderasse solo la morte dopo aver salvato tutta Fairy Tail. Quando il ragazzo le espresse le sue supposizioni, lei non le negò. Invece sorrise enigmaticamente. Quella risposta mancata lo gelò dentro.
I giorni trascorsero lenti e inesorabili, mentre Gajeel si sentiva sempre più solo, vuoto, e privo di senso. Come il suo comportamento. Iniziò a passare sempre più tempo in armeria, accanto alla Spada dello Spirito, sperando che desse fortuna anche a lui e gli facesse capire cosa doveva fare. Ogni tanto qualcuno lo affiancava e osservava la spada con desiderio e pace, pregustando la serenità che avrebbe sperimentato se solo fosse stato liberato da quella vita forzata e innaturale.
Levy restava sempre fuori, a volte accampando qualche scusa strana e altre volte sparendo per tutto il tempo in cui lui rimaneva in armeria.
- Agli altri piace restare vicino alla Spada – le aveva detto una volta Gajeel. – So che è legata a brutti ricordi, ma magari può farti stare meglio.
- No, grazie. So che la Spada ha fatto del bene, e che è irrazionale temerla, ma proprio non riesco a stare accanto a lei.
Gajeel aveva scosso le spalle e non aveva più sollevato l’argomento.
Si era ritrovato sempre più spesso ad osservare la ragazza in silenzio, cercando di cogliere un guizzo di vita, una scintilla d’amore che lo convincesse che Levy fosse felice di quella situazione. Ma ciò che vide fu solo lo sguardo nostalgico che la ragazza lanciava al suo corpo ogni notte, quando Gajeel andava a dormire, o quando la lavava e la cambiava.
Chi era lui per far soffrire tutti quanti? Levy era infelice. I suoi compagni erano infelici. E lui? Come poteva essere contento lui?
Ben presto capì che quella non era vita, per nessuno di loro. Non poteva costringere Levy a stare tutta la vita accanto a lui, mentre il suo corpo le ricordava quello che non poteva più avere. Non poteva essere gioioso accanto a lei, che sembrava spegnersi ogni giorno di più.
A volte dobbiamo mettere da parte i nostri desideri, per fare del bene agli altri. Solo così sapremo che in realtà facciamo del bene anche a noi stessi.
Gajeel non poteva immaginarsi una vita senza Levy, ma non poteva nemmeno immaginare una vita vissuta in quel modo. Sarebbero impazziti tutti. E lei non lo meritava.
Probabilmente sarebbe vissuto da solo fra quelle mura fino alla fine dei suoi giorni. Magari avrebbe rifondato l’orfanotrofio. Soldi, ne aveva, essendo l’unico erede vivo di Makarov. Avrebbe evitato di essere un completo eremita, con dei bambini da accudire.
Fu con quei pensieri in mente che, una settimana dopo aver rimesso la spada al suo posto, Gajeel si piantò nel soggiorno e chiamò a gran voce tutti quanti.
- Va bene – esordì quando una folla di modeste dimensioni si fu raggruppata di fronte a lui. – Lo farò. Vi libererò e… ucciderò Levy – mormorò, lanciando un’occhiata alla ragazza.
Dopo alcuni istanti di silenzio sbigottito, la gilda esplose in urla di giubilo e contentezza, e i fantasmi festeggiarono fino a notte fonda, coinvolgendo anche Gajeel.
Lui si lasciò portare via dalla felicità della massa solo perché sapeva che sarebbe stata l’ultima volta che avrebbero fatto festa tutti insieme, come ai vecchi tempi.
Il vino gli alleggerì le membra, la gioia dei suoi amici gli liberò la mente, e il sorriso di vittoria e commozione di Levy gli fece volare il cuore.
La cosa giusta e la cosa facile non sono mai la stessa, purtroppo.
 
Il giorno successivo fu un susseguirsi di ricordi.
La mattina Gajeel si svegliò e la prima cosa che vide fu Levy, sorridente, che gli baciava la fronte.
Da troppo tempo non riceveva un buongiorno così dolce.
- Che fai? – le chiese borbottando, celando il piacere che quei contatti leggeri gli provocavano.
- Approfitto del tempo che ci rimane insieme. Quando pensi di…?
Gajeel intuì che la domanda in sospeso doveva rimanere tale, così non la spronò a finire di parlare. – Domani. Penso che farò domani. Ho bisogno di un giorno ancora con te e con gli altri.
Levy annuì gravemente, prima di posargli un bacio sulla labbra. – Mi mancherai.
Lui sbuffò, percependo uno strano e poco familiare nodo in gola. – Non è vero. Sei tu che mancherai a me.
Lei annuì ancora, conscia del fatto che lei avrebbe cessato di esistere e basta. Un sonno senza sogni. Quello di cui tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo bisogno.
A volte abbiamo compassione per coloro che sono morti, proviamo pena per la vita che non hanno potuto vivere. Ma quelli che portano il peso della loro vita mancata sono le persone che li hanno amati, e che devono vivere con la loro assenza.
Non è mai chi muore a soffrire.
- Ti volevo chiedere di sposarmi, sai? – le chiese lui poco dopo, prendendola alla sprovvista. – L’anello dovrebbe essere ancora nell’armadio, sepolto sotto alcune felpe.
Levy sgranò gli occhi, colta alla sprovvista. – Tu… cosa?
- Te lo avrei chiesto dopo quell’assurda festa in costume ottocentesco – continuò lui, fissando il soffitto mentre si lasciava trasportare dai ricordi. Era rientrato in pieno possesso della sua memoria. – Quale occasione più adatta? Avevamo anche i vestiti a tema. Finito di fare festa saremmo venuti in camera e tu mi avresti fregato una felpa, come al solito. E avresti trovato una scatoletta sotto il primo maglione.
Levy lo fissava in silenzio, gli occhi lucidi di emozione.
- L’avresti presa in mano con aria incuriosita, come se fosse un enigma da risolvere o una nuova lingua da studiare. L’ho vista così tante quell’espressione… e ogni volta mi ha fatto innamorare di più. Poi l’avresti aperta, avresti trattenuto il fiato e il tuo cervello avrebbe cercato di capire cosa fare. Rimetterla giù e far finta di nulla? Girarti e chiedermi cosa significasse? Uscire dalla stanza chiamando Lucy? Ma io non ti avrei permesso di fare nulla. Mi sarei avvicinato e ti avrei abbracciata, e chinandomi ti avrei chiesto se volevi sposarmi.
- E poi? – incalzò Levy quando, alcuni istanti dopo, Gajeel non diede segno di voler finire il racconto.
Il ragazzo piegò il collo e fissò Levy, sdraiata su di lui. Avrebbe tanto voluto sentire il suo corpo contro il suo. – Poi niente, avremmo fatto sesso come dei conigli fino al mattino.
Levy sgranò gli occhi e boccheggiò, spiazzata. – Ga-Gajeel! – balbettò indignata quando riuscì a recuperare un filo di voce.
Il ragazzo scoppiò a ridere di gusto, mentre il viso di Levy diventava rosso e viola d’indignazione. – Sei proprio un pervertito, hai rovinato tutto.
Lui continuò a ridere. Con il tempo aveva imparato che quello era il modo migliore per mettere Levy in imbarazzo. Aveva perfezionato le tecniche.
- Dài, Gamberetto, sai che non dico sul serio. Prima ti avrei spogliata lentamente, ti avrei infilata in quel bel vestitino rosso degno di un sexy-shop e poi ti avrei spogliata di nuovo. E avremmo fatto l’amore lentamente, con le candele, per poi farci una doccia e addormentarci abbracciati.
Il rossore sulle gote di Levy non accennava a calare, soprattutto perché la scena che Gajeel stava dipingendo era totalmente verosimile, ma almeno la rabbia era sbollita completamente. – Hai probabilmente ragione su tutta la linea, tranne che sul vestitino rosso.
Gajeel arricciò le labbra, pensieroso. – Te lo concedo. Ma solo se ammetti che lo avresti indossato a sorpresa la notte successiva.
Levy sbuffò e si sedette dandogli le spalle per celare un sorriso consapevole. Sentì il letto scricchiolare sotto il suo peso mentre lui si sedeva accanto a lei. – Se non lo ammetti inizio a ricordarti tutte le volte in cui hai fatto la ninfomane pervertita. Come quando hai voluto convincermi a studiare il kamasutra per poi applicarlo e…
- Lo ammetto! Basta! Lo ammetto – sbottò lei, agitata, guardandosi attorno con il terrore negli occhi.
Gajeel ridacchiò e sollevò una mano per accarezzarla, prima di lasciarla cadere, impotente.
- Vorrei farlo con te un’ultima volta – mormorò in imbarazzo. – Anche solo dormire con te. Non così, con il tuo corpo che scalda a mala pena le lenzuola. Come in passato, quando tu leggevi fino a tardi e io mi svegliavo per rubarti il libro e farti dormire. E tu per ripicca mi tenevi sveglio in modi poco casti. O quando restavamo al buio e tu mi raccontavi il libro che stavi leggendo, e la mattina ci svegliavamo e restavamo in silenzio sotto al calore delle coperte, fingendo di dormire.
Levy non poté impedire alle lacrime di solcare il suo viso come un piccolo ruscello che cerca la via per arrivare al mare. Che cerca la libertà dalla sofferenza che portiamo dentro.
- In primavera ci mettevamo per terra nel bosco, e mentre io dormivo tu leggevi. Io per rilassarmi contavo il numero di volte in cui le pagine frusciavano perché tu le giravi, e cercavo di capire cosa stesse accadendo concentrandomi sul tuo respiro. Quando aprivo gli occhi scoprivo di aver ceduto al sonno, ma non ero l’unico perché tu finivi sempre col dormire sopra i libri. E Lily si posizionava accanto a noi, scuro come un’ombra e sempre pronto a farci da protettore.
Come se si fosse sentito preso in causa, il gatto saltò sul letto e miagolò, facendo ridere Levy tra le lacrime.
A volte i ricordi sono più dolorosi dell’assenza.
Gajeel fissava le lacrime di Levy, desiderando di potergliele asciugare. Poi voltò lo sguardo e strinse i pugni. – Cosa devo fare?
- Mh? – mormorò lei, senza capire.
- Prendo la Spada dello Spirito e ti… colpisco? Dove capita o qualche punto preciso?
- No!
Il terrore nel tono di voce di Levy lo fece sussultare leggermente, e per un istante si illuse di averle fatto cambiare in qualche modo idea. Magari non voleva più andarsene e lasciarlo solo.
- Non toccare quella spada. Sei matto? Levatela dalla testa!
Gajeel aggrottò le sopracciglia. – Perché non devo ucciderti con quella?
- Pronto, genio? Quella Spada separa il corpo dallo spirito. Il mio corpo è ancora vivo, e se mi trafiggi con quella resterò per sempre un fantasma, come gli altri. Solo che non ci sarà più nulla da uccidere, e resteremo fantasmi per tutta l’eternità.
Il ragazzo la guardò senza battere ciglio. – Scusa una cosa… no aspetta. Fammi pensare perché questa roba metafisica è complicata.
Lo spirito era dentro di lei. Il suo corpo conteneva due anime. E la Spada dello Spirito le aveva unite. Non poteva quindi anche separarle, liberando il loro assassino? Ma se le avesse separate, Levy sarebbe morta mentre lo spirito sarebbe vissuto. Oppure il corpo sarebbe morto e le due anime si sarebbero separate, andando ad aggiungersi alle file dei fantasmi di quella casa?
- Che grandissimo schifo. Cosa ti succede se ti trafiggo con la Spada dello Spirito?
Levy lo osservò, riflettendo. – Ci separiamo. Io e lo spirito. Però il mio corpo non reggerà più il colpo come la prima volta. Io morirò, anima e corpo, mentre lui sarà libero.
Versione peggiore di questa non poteva esistere. – Perfetto, niente Spada dello Schifosissimo-Spirito. Invece se ti colpisco con una spada normale?
- Muoio e basta. Moriamo tutti e due. Mi porto lo spirito dietro, come sarebbe dovuto accadere due anni fa. Ho solo ritardato l’inevitabile per dare a te un po’ di tempo.
La paura svanì dal viso di Levy con quell’ultima affermazione. Lui si era convinto. Tutto sarebbe andato per il meglio.
Il silenzio regnò sovrano per alcuni istanti eterni, facendo scoprire a Gajeel che in realtà l’assenza di suono è rumorosa e assurdamente opprimente.
- Vai a mangiare, Gajeel – suggerì Levy. – Voglio vederti in forze prima di andarmene. Voglio pensare che starai bene anche senza di me. Me lo devi promettere.
- Non posso fare promesse impossibili.
Lei chinò la testa e si asciugò una lacrima prima che lui potesse vederla. – Vivi anche per me, però. Questo puoi promettermelo?
Gajeel chiuse gli occhi e immaginò di posarle un bacio sulle labbra. Quell’illusione di un ricordo che non gli apparteneva sarebbe stata la sua più grande nostalgia. Il suo rammarico.
- Vivrò con te, non per te. Ti porterò con me per sempre. Ovunque, ogni giorno.
Si alzò senza aggiungere altro e si diresse in cucina per mangiare, anche se la sua fame sembrava solo il fantasma di una gioia che languiva nel suo cuore.
 
Il resto della giornata fu un susseguirsi di echi del passato. La mattina Gajeel fece il possibile per esaudire gli ultimi desideri dei suoi amici fantasmi, anche se per un paio d’ore fu monopolizzato da Erza che lo obbligò a lucidare le sue armature. Gli strappò la promessa di non venderle, nemmeno ai musei più prestigiosi.
Sembrava che tutti avessero qualcosa da chiedergli, giuramenti da fargli fare, certezze da solidificare.
Quando la morte ci ghermisce le membra, non abbiamo più la certezza di nulla. Ecco perché cerchiamo verità negli altri. Proviamo a realizzare quello che non abbiamo potuto fare, come per dimostrare a noi stessi che la nostra vita non è stata vana, e che vivremo nelle gesta di chi verrà dopo di noi.
In realtà, la vita stessa è un’illusione, e prima o poi anche la storia viene dimenticata, mentre l’amore si affievolisce e nel cuore ci rimane solo l’amaro ricordo della sofferenza che l’assenza genera, velenosa come fiele.
Nel pomeriggio, invece, l’umore generale sembrò risollevarsi e Gajeel poté finalmente gettare sul tavolo il taccuino delle promesse. Ne aveva troppe da mantenere, ma era certo che almeno avrebbero dato un senso alla sua vita. Per un po’.
- Vi ricordate quando Gray e Natsu si sono procurati un trauma cranico facendo la lotta, da piccoli? – chiese Mirajane di punto in bianco.
Laxus ridacchiò, mentre gli altri annuivano e sorridevano. – Colpa mia. Avevo detto loro che la testa è in realtà un cocomero e quando si rompe esce il succo del frutto, il più buono del mondo. Si erano fissati con i cocomeri.
Molti ragazzi scoppiarono a ridere mentre Gray e Natsu facevano i duri per non lasciar trasparire l’imbarazzo.
- Non fa ridere – sbottò Makarov, accigliato. – Ho passato una settimana con quelle due pesti, all’ospedale. E Natsu ha continuato a credere alla storia del cocomero, provando in ogni modo a rompersi la testa.
Il ragazzo in questione aggrottò le sopracciglia, pensieroso. Si era dimenticato di quella storia, ma tutti lo conoscevano abbastanza bene da sapere che si stava ancora chiedendo cosa ci fosse dentro il suo cranio.
- Elfman era un piagnone. Una volta ha pianto persino quando gli si è tolto un cerotto da un taglio invisibile – intervenne Gray per distogliere da sé l’attenzione.
- Piangere da piccoli è da veri uomini! – ribatté l’altro, per nulla offeso.
Gajeel iniziò a lasciarsi trasportare da quel cicaleccio allegro, mentre a sprazzi scoppiavano risate seguite da pacche sulla schiena, o prese in giro affettuose. Lily gli si era accoccolato in grembo e sonnecchiava piano, ma il ragazzo aveva notato che lui, come Happy, ogni tanto lanciava un’occhiata torva a Levy.
- E quando abbiamo beccato Laxus e Mirajane in cucina? – esclamò Lucy, rossa come un pomodoro. Probabilmente qualcuno l’aveva messa in imbarazzo.
Gajeel si ricordava di quella volta. Stava entrando in cucina con Levy, Natsu e Gray, Lucy e Juvia per una prova di coraggio basata sul cibo. All’epoca solo lui e Levy erano ufficialmente stati sgamati. Dopo la notte estiva in cui avevano rotto ogni barriera tra di loro, Levy non era più sgattaiolata via da camera sua la mattina presto, temendo di essere vista. No. Lei e Gajeel avevano iniziato ad uscire indisturbati dalla camera di uno dei due, con la faccia tipica di chi si è appena svegliato. Il ragazzo all’inizio lanciava occhiatacce minacciose a tutti quelli che li fissavano stupiti, chiedendo bruscamente: “Che vuoi?”. Poi aveva rinunciato, e all’iniziale stupore si erano sostituiti i commenti maliziosi. Nessuno l’avrebbe mai ammesso, ma erano tutti entusiasti per loro.
Non erano rimasti a lungo i soli, comunque, perché Mirajane e Laxus erano stati sorpresi da sei paia di occhi, in cucina. Erza e Gerard li avevano seguiti a ruota, beccati in armeria e parecchio svestiti.
Gajeel ringraziava sempre per la fortuna che aveva avuto: i malcapitati che avevano sorpreso Erza avevano avuto gli occhi pesti per giorni. Gerard inoltre, in una bella notte di baldoria, si era ubriacato al punto da rivelare che Erza la loro prima volta era terroizzata. Nonostante i libri a luce rosse che leggeva, nonostante le proposte velatamente sporche, la donna indomita che tutti temevano aveva avuto paura di fare l’amore con Gerard. Per fortuna lei era ancora all’oscuro del fatto che, ormai, lo sapevano tutti.
- Mi ricordo – intervenne proprio Erza, scuotendo la testa con disappunto. – Mirajane non ha potuto mettere piede in cucina per un mese a causa del suo atteggiamento deplorevole.
- Senti chi parla… - borbottò la diretta interessata.
- Io e Lucy non siamo mai stati beccati. Quindi ho vinto! – esultò Natsu saltando sul divano e ruggendo la sua gioia.
- È pensiero comune a tutti noi che tu sia asessuato, Natsu – spiegò il Master.
Natsu non riuscì a far tacere le risate di scherno dei suoi amici nemmeno sotto minaccia, e alla fine fu costretto a sedersi, perché lo sguardo di fuoco di Erza gli stava per incendiare la maglietta.
- Vi immaginate se ci fossimo sposati? – chiese Lucy poco dopo.
- Tanti piccoli Gray per la casa – mormorò Juvia, sognante.
- La casa piena dei… vostri… figli – biascicò Makarov, terrorizzato all’idea.
In realtà, non aver potuto veder crescere i figli dei suoi nipoti, o figli, era il suo più grande rimpianto.
Biska guardò con un sorriso triste Asuka, grata di averla vista crescere, seppure per poco.
La felicità che aveva fatto volare via quelle ore, mentre il buio oscurava il sole, si spense come una candela rinchiusa in un bicchiere di vetro.
Avevano ricordato quello che avevano passato, solo momenti gioiosi e pieni di vita, ma nessuno poteva evitare di far caso alla presenza invisibile che gravava sulle loro teste: i ricordi di quello che non avevano avuto.
Gajeel non voleva un addio triste. Non voleva proprio un addio, a dire il vero. Ma un addio depresso e fiacco era proprio l’ossimoro di Fairy Tail.
- Grazie, Gajeel, per averci fatto sentire vivi in questi ultimi mesi – intervenne Erza, parlando a nome di tutti. – Sei molto coraggioso. Noi non ci saremo più, finalmente saremo in pace, ma sarà tuo l’onere di sopportare la mancanza di tutti. Quindi grazie, grazie per il tuo sacrificio. È stato un dono conoscerti. E conoscere tutti voi, ragazzi.
La voce di Erza, la Titania, si ruppe sull’ultima parola, e le lacrime trovarono l’accesso al mondo esterno.
Tutti lo ringraziarono in coro, salutando Gajeel e salutandosi tra loro. Natsu, Gray e lui si insultarono con gli occhi lucidi, prima di cedere e abbracciarsi, scatenando ancora di più le lacrime dei più sensibili. Makarov aveva pianto tanto da convincere Juvia che se fosse stato vivo si sarebbe disidratato.
Quando fu rimasto solo con Mirajane, perché anche Levy era fuggita in preda all’emozione, Gajeel si rese conto che il peggio doveva ancora venire, nella sua vita.
È peggio sapere la data della propria morte, così da salutare chi amiamo e riempir loro il petto di angoscia, o andarsene senza sapere come né quando, illudendosi di essere immortali?
I suoi amici avevano sperimentato entrambi i casi, e mai li aveva visti così distrutti.
Forse, la cosa migliore sarebbe non morire e basta.
Facile, no?
- Non sai che gioia è stata per noi scoprirti vivo dopo due anni, Gajeel – disse Mira, che gli si era avvicinata in silenzio. Del resto, che rumore poteva fare un fantasma?
Gajeel sbuffò una minuscola risata priva di divertimento. – Immagino.
- Dico sul serio. Hai visto Natsu e Gray questa sera. Ricordi cosa ripeteva sempre Natsu? ‘Rivali, non nemici’. Siamo una famiglia. Se uno di noi sta male è nel nostro DNA fairytailiano l’ordine di scoprire dov’è. Temevamo che fossi ridotto come Levy, con il corpo in quello stato comatoso, disperso chissà dove. Del resto non vedevamo nemmeno te.
Gajeel annuì, stanco dopo quella giornata intensa. Non ricordava nemmeno cosa Mira gli avesse detto.
- Sii coraggioso Gajeel. Vorrei dirti di vivere per tutti noi, ma ora più che mai devi vivere per te stesso. So che sarà dura.
Voleva dirle che no, non lo sapeva. Ma Mira era sempre stata gentile, una buona amica davvero, e non voleva farla sentire male.
- Però ricordarci. Almeno questo. Ogni tanto, non tutti i giorni. Magari a Natale, o quando cade il nostro compleanno, anche se so benissimo che non te ne ricordi nemmeno uno. Te li rammentavo tutti io, quando era il momento.
Gajeel sorrise un pochino. Nel senso che increspò un lato della bocca. Insomma, lo mosse di due millimetri. In realtà i compleanni li ricordava tutti, ma era diventata un’abitudine familiare quella di aspettare che fosse Mira a farglieli presenti.
- Buonanotte, Gajeel. Ci vediamo domani. E grazie, grazie davvero.
La sua uscita di scena fu così improvvisa e invisibile che Gajeel si chiese se l’avesse solo immaginata. Magari si era immaginato tutti quei mesi. Ma un sogno non poteva durare così a lungo.
E a proposito di sogni, Levy continuava a tormentarlo con la sua voce anche di giorno.
- Uccidi quella giusta…
Che.
Grandissimo.
Schifosissimo.
Oscenissimo.
Levy avrebbe avuto altri sinonimi… CASINO.
Con un ringhio frustrato il ragazzo si alzò e iniziò a correre, senza chiudere le porte dietro di sé. Voleva andare a correre il pomeriggio, ma l’immersione nel passato lo aveva distratto.
Tutto era cominciato con una corsa, per cui tutto sarebbe dovuto finire con una corsa. No?
La verità era che voleva solo sentire i muscoli bruciare, così che il sangue potesse affluire nei muscoli e abbandonare il suo cervello sovraccarico.
Non capiva più niente.
L’indomani sarebbe rimasto solo con due gatti, tra cui quello di Natsu. Avrebbe dovuto uccidere la donna che amava e vivere per tutti quelli ai quali stava offrendo finalmente la libertà. Doveva ammettere che voleva essere al posto loro, per lasciare a qualcun altro il fardello della vita.
A volte era così difficile vivere, quando non si avevano più motivi per farlo.
Forse era per quello che gli avevano strappato quella promesse. Per dargli abbastanza motivi.
Finalmente i tendini, i polpacci e le cosce cominciarono a scaldarsi e lavorare, mentre il respiro si sintonizzava su un ritmo stabile che gli forniva la colonna sonora di cui aveva bisogno.
Sgombera la mente, Gajeel.
Lo stava facendo. Oh, sì, eccome se lo stava facendo.
Lo fece finché vide delle luci in lontananza. Due luci tremolanti che lo scrutavano come due occhi da gatto attraverso il bosco.
Si bloccò di colpo senza nemmeno rendersene conto, ricevendo uno scossone al ginocchio che lo fece imprecare.
Lui conosceva quel posto nel bosco. I ricordi diventavano nitidi mano a mano che si avvicinava. Non aveva mai visitato quella zona nei mesi precedenti, ma c’era già stato. Però la via era bloccata da alcuni alberi caduti che formavano un intrico di tronchi e rami che avrebbe fatto un lavoro migliore di una falciatrice assassina se qualcuno ci fosse passato in mezzo.
Così Gajeel fu costretto a prendere una strada più lunga, tornando indietro corricchiando.
Passò accanto al ciliegio su cui era stato con Levy, dove aveva trovato la Spada dello Spirito, e quasi non notò la presenza che si godeva la luna.
Quasi.
Questa volta, il ragazzo fu più dolce nell’inchiodare.
Una ragazzina se ne stava seduta su un masso vicino all’imponente ciliegio, fissandolo con curiosità e gentilezza. Probabilmente aveva tredici anni, forse meno. I capelli biondi erano lunghissimi e Gajeel li avrebbe scambiati per un mantello fatto di luce lunare se non si fossero mossi in maniera uniforme. Sembravano dotati di vita propria. Gli occhi chiari sembravano due piccole lucciole nel buio.
Il ragazzo restò impalato. Gli sembrava familiare quella bambina. Ma dove l’aveva già vista?
Lei alzò la mano per salutarlo e gli regalò un sorriso dolce.
Gajeel, impacciato, ricambiò il saluto.
Circa.
La ragazza allungò il braccio, facendo frusciare il lungo vestito bianco, e gli indicò la direzione che Gajeel doveva prendere. Che fosse un angelo?
Lui la ringraziò con un cenno del capo e riprese a correre nella direzione indicata.
Non era un angelo.
A giudicare dal modo in cui il suo corpo evanescente si fondeva con gli alberi alle sue spalle, Gajeel avrebbe giurato che fosse un fantasma.



MaxB
Probabilmente vi siete tagliati le vene. Mi disp, il cap così mi piace troppo... ehehe^^
Mi piacciono le cose depressive... oddio.
Be' non ho nulla da dire, solo un piccolo appunto: ho cercato di rendere le cose chiare, almeno il più possibile, e il cap prossimo sarà MOLTO corto. Corto ma molto denso. Devo renderlo corto.
Forse no, però. Mah, vedremo dai.
Siamo ufficialmente a 100 pagine su 130, quindi abbiamo quasi finisciuto (?).
A presto,
MaxB

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


Capitolo 12
Troppe versioni, pochi pugni


 
Quando raggiunse la casetta di legno e paglia che sembrava sbucata dalle favole, Gajeel ebbe paura. Sembrava proprio la casa di una strega. Le due luci che lo avevano seguito come due pupille luccicanti erano in realtà piccole finestre poste di fianco alla porta, illuminate dall’interno da decine e decine di candelabri.
Il ragazzo si avvicinò alla porta, incerto sul da farsi.
- Se sei un ladro non hai speranze, stupido umano. Persino una vecchia sorda e cieca ti avrebbe beccato.
Gajeel, in maniera molto virile, saltò dalla paura e urlò.
Alle sue spalle c’era una donna anziana, alta e magra, con una tinta sbagliata in testa e delle rughe che si dipanavano sul suo viso come una ragnatela ovale. I capelli rosa erano fissati in un’acconciatura austera con delle bacchette a forma di luna e altre cose indefinibili.
- Sei uno dei ragazzi di Makarov? – lo incalzò, prima di grugnire con fastidio. – Pensavo foste morti tutti. A quanto pare non sono stata così fortunata.
- Tu.. tu sei… Polyka? Quella vecchia spaventosa da cui ci portava Makarov quando stavamo male? Avevamo il terrore di ammalarci ed essere costretti a venire qui.
La donna ringhiò, e Gajeel si chiese se in realtà non fosse una bestia selvatica mascherata da donna.
Perché era una donna, giusto?
- Sono Polyushika, sì. E mi sono presa cura di voi per tutta la vostra vita, razza di inutile essere. Avrei dovuto avvelenarvi da piccoli.
Gajeel non replicò e restò lì, in imbarazzo, a fissarsi le scarpe.
- Entri o devo ficcarti in casa con le cattive? Non posso entrare se non levi quel tuo sedere dalla porta.
Il ragazzo aprì la porta senza fiatare, entrando nella casetta di legno più luminosa che avesse mai visto. C’erano mele ovunque, persino attaccate con dei chiodi nei punti liberi delle quattro pareti di legno chiaro che reggevano la baracca. Tavoli ingombri di libri aggiungevano caos al caos, e l’ambiente sembrava essere un’unica gigantesca stanza in cui la vecchia mangiava e dormiva. Sempre che facesse quelle cose normali…
Sotto al tavolo si mosse qualcosa, e dei lunghi e fluenti capelli blu legati in due codine invasero il campo visivo di Gajeel.
- Hai trovato le primule rosse, Polyushika? – chiese una ragazzina con le mani ingombre di fogli, che si girò dopo aver posato le carte su un altro mucchio di carte.
- Wendy! – esclamò Gajeel, sconvolto.
Si era accorto della mancanza della piccola a Fairy Tail, e Mirajane gli aveva proprio detto che stava molto tempo con Polyushika. E che la vecchia vedeva gli spiriti, motivo per cui Wendy interagiva con lei. No?
- Sì, le ho trovate – borbottò la vecchia. – E ho trovato anche qualcosa di meno interessante.
- Gajeel! – gridò Wendy, portandosi le mani alla bocca. Stentava a credere ai propri occhi.
- Cosa fai qui? – le chiese lui, avvicinandosi per posarle una carezza sulla testa. Una carezza a modo suo, ovviamente…
Ma la mano scivolò dentro la sua testa e Wendy arretrò, a disagio.
- Oh, certo. Anche tu sei… sì… - farfugliò Gajeel. – Scusa, è che avevi le carte in mano, e non ti vedo da tanto e…
Una scopata in testa lo zittì. – Basta blaterare, mi fai venire il mal di testa.
- Razza di vecchia rospa – ringhiò Gajeel.
Ma l’indice alzato di Polyushika lo rimise a posto. Quell’eremita era più spaventosa di Erza e Mira messe insieme. Del resto, per riuscire a zittire Gajeel, Natsu e Gray alzando solo un dito…
- Cosa fai qui, Gajeel? – chiese Wendy, sorridendo contenta. – Non ti vedo da tantissimo tempo! Be’, non vedo nemmeno gli altri. Mi sa che sono rimasta assente troppo a lungo. Vero Charle?
Una gattina bianca dall’aria arrogante, tipica dei felini col pedigree, fissò Gajeel con poco interesse, prima di sdraiarsi sul tavolo e chiudere gli occhi.
Quegli umani non erano degni della sua attenzione. E nemmeno i gatti da cui teneva le distanze, Happy e Lily.
- Passeggiavo… - rispose ambiguamente Gajeel, incrociando le braccia al petto.
- Scappava, più che passeggiare – lo corresse Polyushika, posando un mazzetto di fiori su un tavolo ingombro di erbe. -  Sinceramente di solito non me ne fregherebbe nulla dei tuoi problemi, ma suppongo tu sia coinvolto nel caso dei fantasmi, no?
Gajeel cercò di non mostrarsi sorpreso. La vecchia era davvero sagace. – Sì, sono stato piò o meno coinvolto.
- E come mai non sei morto? – indagò Polyushika, mettendo giù le erbe che teneva in mano. Probabilmente la storia di Gajeel era più interessante di un intruglio medicale.
- Sono stato salvato.
- Pensavo fossi morto e risorto – rispose sarcasticamente l’eremita, roteando gli occhi. Wendy ridacchiò, accostandosi a Gajeel. – Senti, inutile umano, sono due anni che cerco di far luce su questa faccenda. Makarov era un mio carissimo amico, e la sua morte inspiegabile mi ha sconvolta. Sono stata indagata dalla polizia, perché accusata di essere stata io sterminare tutta Fairy Tail. Ma le accuse sono cadute nel momento in cui hanno capito che non c’erano prove che mi incastrassero. Trenta morti senza nemmeno lasciare in giro un’impronta digitale? Ne sarei capace, sì, ma questo non l’ho detto alla polizia.
- Non sei stata tu – disse Wendy, abbacchiata.
Gajeel avrebbe voluto posarle una mano sulla testa, il suo modo di consolare le persone. Aveva sempre avuto un debole per i bambini, e Wendy era una ragazzina adorabile.
- Qui ci sono di mezzo forze che trascendono la materialità. O sbaglio?
Il ragazzo annuì seccamente. Si sentiva stanco. Troppo stanco. L’indomani avrebbe dovuto uccidere la donna che amava, e non sapeva cosa fare della sua vita.
Non lo sapeva per nulla.
- Wendy mi ha detto che uno dietro l’altro quelli di Fairy Tail si sono uccisi a vicenda, fidanzata con fidanzato, fratello con sorella, amiche. Possessione?
Ancora una volta, Gajeel annuì.
Polyushika sospirò e si diresse nella piccola cucina a vista, preparando il tè. – Temo che sarà una lunga serata. Io posso avere delle informazioni che ti interessano, e tu puoi averne alcune di utili per me. Ho scritto a mano una specie di raccolta di attività paranormali, un insieme di modi e diverse situazioni in cui gli spiriti interagiscono con noi. Ma mi mancano alcune nozioni che credo tu possa darmi.
Gajeel, in risposta, si sedette sull’unica sedia che trovò libera. – Cosa vuoi sapere?
Polyushika abbozzò un piccolo sorriso mentre Wendy gironzolava per la casa, alla ricerca degli appunti della guaritrice.
- Cos’è successo quella notte?
Il ragazzo chiuse gli occhi e cercò di fare mente locale, tentando di ricondurre all’ordine i suoi stanchi pensieri. Lentamente le raccontò di come la serata fosse iniziata normalmente, poi si ricordò che Erza aveva preso la Spada e allora aprì una parentesi sull’arma.
La sua narrazione tutta spizzichi e bocconi scollegati divenne fluida con il passare dei minuti, e Gajeel le disse per filo e per segno ogni cosa, mettendo tutto al giusto posto: la prima morte, la seconda possessione, la fuga, il genocidio. La mattina successiva, il sangue, l’arrivo di Erza con la Spada e la sua morte per mano dello stesso Gajeel, posseduto. Il piano di Levy e il suo tentativo di salvarlo ferendolo.
E poi la violenza della ragazza, che si era pugnalata con la spada portando il mostro con sé.
Polyushika restò in silenzio alcuni istanti, scrivendo qualcosa su alcuni fogli, una mano a coprirsi la bocca come ad impedire al contenuto del suo stomaco di fuoriuscire.
O forse stava solo riflettendo.
- Lo spirito si chiama Acnologia – esordì.
Gajeel strabuzzò gli occhi. Certo non era il commento che si era aspettato, dopo aver raccontato una macabra storia horror.
- Cosa scusa?!
- Lo spirito che risiede nel corpo di Levy si chiama Acnologia. O meglio, si chiamava Acnologia. Era il fratello dell’antenato di Makarov, e questo fa di lui un pro-pro-chissà-quanti-altri-pro-prozio del Master di Fairy Tail. È stato ucciso dal bis-bis-bis… oh, insomma, hai capito! Dal bis-nonno di Makarov.
Gajeel non era molto sveglio, e in legami di parentela faceva proprio pena.
Polyushika sbuffò leggendo lo smarrimento sul suo volto. – Allora. Yuri Dreyar. Ti dice qualcosa il nome?
Gajeel si grattò la testa. – Dreyar è il cognome del nonnetto. Yuri chi è, il suo cane?
- Gajeel! – lo rimproverò Wendy, scuotendo la testa. Charle miagolò il suo disappunto. – Yuri Dreyar è il fondatore dell’orfanotrofio. È l’antenato di Makarov. Hai presente i dipinti appesi nel soggiorno?
- Quelli che ritraggono vecchi brutti e rugosi?
- Quelli. Sono tutti i Dreyar che hanno ereditato Fairy Tail dopo la morte di Yuri Dreyar.
- Yuri Dreyar aveva un fratello più grande, Acnologia Dreyar. E una sorella piccola, Mavis – lo informò Polyushika.
Di fronte allo sguardo smarrito di Gajeel, prese la scopa e il ragazzo si alzò di scatto. – Ho capito, ho capito! – sbottò proteggendosi la faccia come poteva. – Acnogioia, Yuri e Mafis, tre fratelli. Yuri ha formato Fairy Tail.
- Si chiamano Mavis e Acnolo… non fa niente – suffò la vecchia, abbassando la scopa ma tenendola a portata di mano. – Il padre di Yuri, Acnologia e Mavis morì presto, ma lasciò ai un impero commerciale e un’intera cittadina. Questa. Alla lettura del testamento, però, scoprirono che il padre aveva lasciato tutto in eredità a Yuri: casa, soldi e attività commerciali. Mavis avrebbe beneficiato di una cospicua parte del denaro come dote per il matrimonio, ma ad Acnologia non andò nulla.
- Che padre insensibile… - bofonchiò Gajeel.
- Non fu insensibile. Acnologia era una pessima persona. Aveva già ucciso, all’età di vent’anni, una decina di persone, ingaggiando sicari che facessero per lui il lavoro sporco. Giocava, beveva, e spendeva il patrimonio di famiglia, all’epoca non così ingente, in donne. Il padre di Yuri volle dare tutto al secondo figlio per tutelarsi, cosicché i sacrifici di un’intera vita non andassero scialacquati come un bicchiere di vino scadente.
Gajeel cambiò opinione su Acnologia.
- Il fratello maggiore andò su tutte le furie, e cercò di uccidere Yuri in svariati modi. Non so bene come, ma Yuri è riuscito a sopravvivere a tutti gli attentati alla sua vita. Ora che mi hai parlato di questa Spada dello Spirito, penso di aver capito per quale motivo.
Wendy si avvicinò a Gajeel, fissando la donna con curiosità. Aveva sentito la storia della fondazione di Fairy Tail parecchie volte, ma la vicenda presentava buchi e incongruenze. Erano anni che Polyushika cercava gli ultimi dettagli del passato di Fairy Tail.
- La Spada dello Spirito era stata data da Mastro Zeref al padre di Yuri. La Spada lo ha protetto e gli ha permesso di diventare il magnate della città.
Gajeel si ricordò di ciò che gli aveva detto Levy della Spada, del fatto che era stata donata al primogenito dei Dreyar per le nozze con la figlia. Dunque quel fantomatico primogenito era il padre di Yuri.
- L’eredità aveva permesso a Yuri di prendere possesso della Spada, e in seguito al primo attentato del fratello non se ne separava nemmeno di notte. Penso che la Spada dello Spirito gli abbia risparmiato la vita. Purtroppo, non l’ha risparmiata a coloro che Yuri amava.
Gajeel si sporse sulla sedia cercando di fare mente locale mentre Polyushika si alzava per servire il tè.
- Mavis amava suo fratello Yuri. E Acnologia era talmente pazzo da voler far soffrire il fratello a qualunque costo. Fu così che, un giorno, fregò la Spada da sotto il naso di Yuri e trafisse Mavis davanti ai suoi occhi. Furente e distrutto dal dolore, Yuri disarmò Acnologia e con la stessa Spada uccise il fratello.
- Bel tipo questo Acnogioia.
La vecchia guaritrice ignorò il commento mentre posava la tazzina di tè davanti a Gajeel. – Lo spirito che ha posseduto tutti quelli di Fairy Tail, ad uno ad uno, è Acnologia. Dopo secoli ha finalmente potuto avere la sua vendetta sui figli di Yuri. Quando Erza ha preso la Spada dello Spirito dalla teca, lui è potuto entrare e spadroneggiare. La Spada con cui Yuri lo ha ucciso ha semplicemente separato il suo corpo e la sua anima.
Gajeel strinse forte la tazza tra le dita, provando a scaldare il freddo che sentiva in tutto il corpo.
- Yuri fondò l’orfanotrofio per esaudire il desiderio di Mavis. Lei non ha mai potuto farlo. Si dice che fosse ancora una ragazzina quando incontrò la sua fine.
Gajeel guardò Wendy, che per lui era come una sorella. Se qualcuno le avesse torto un capello avrebbe ucciso lui, il suo cadavere e il suo spirito.
E di capello gliene era stato torto più di uno. Iniziò a capire la necessità di uccidere Levy, il cui corpo ospitava lo spirito di Acnologia.
- Acnogioia è dentro il corpo di Levy.
- Lo so – rispose Polyushika, fissando il vuoto senza battere le palpebre. – Da domani dovrò fare a meno di te, Wendy.
La ragazzina annuì tristemente, sistemandosi vicino alla sua gotta che miagolò piano.
- Non devi uccidere il corpo con la Spada dello Spirito! – esclamò di punto in bianco la vecchia, terrorizzata.
Gajeel la fissò spaventato, ma poi annuì. Levy glielo aveva già detto.
- Lo so. Se lo trafiggo con la Spada dello Spirito, l’anima di Levy e quella di Acnogiolia si separeranno. Ma il corpo di Levy non reggerà e quindi lei morirà. Anacologia invece sarà libero.
Si era ripetuto in testa quella spiegazione mille e mille volte, per trovare nella sua logica una falla che gli permettesse di salvare Levy e uccidere il mostro.
Ma non ne aveva trovate.
- No! Cosa ti salta in mente? Chi ti ha detto queste cavolate? – esclamò Polyushika, bofonchiando qualcosa a proposito della stupidità umana. – Usa un attimo il cervello, anche se è così piccolo che impiegherai più tempo a trovarlo che a pensare.
L’occhiata truce che Gajeel le lanciò non sortì alcun effetto.
- Nel momento in cui Levy ha unito se stessa ed Acnologia, il corpo della ragazza è diventato una gabbia. Acnologia è nel corpo, è il corpo. Se tu usi la Spada dello Spirito per trafiggere Levy succederà proprio quello che è successo ad Acnologia: il corpo muore e lo spirito vive per sempre. Se il corpo muore è la fine anche di Acnologia, ma lo spirito di Levy sarà un fantasma per sempre.
Gajeel cercò di nascondere la confusione. Levy gli aveva detto che invece Acnologia sarebbe sopravvissuto, non che lei sarebbe rimasta un fantasma per sempre.
- Il corpo è una prigione, una gabbia, Gajeel – gli rammentò la vecchia prima di prendere le tazzine e posarle nel lavandino.
Il ragazzo aveva mille domande da fare, ma gli sfuggivano come pesci e si maledisse per questo.
- Acnogio…
- Acnologia! – sbraitò Polyushika, stufa di quegli storpiamenti.
- Va be’ quello là, il cattivone. Hai capito, no? È uno spirito, è sempre stato nei pressi del castello?
Polyushika aggrottò le sopracciglia. – Sì, penso proprio di sì. Gli spiriti della vendetta, come lui, bazzicano sempre nei pressi degli oggetti di loro interesse.
- Ma se fosse morto qualcuno di noi e fosse diventato un fantasma, non avrebbe potuto dirci di stare attenti perché questo bastardo aspettava solo di avere accesso alla casa?
- Nessuno può vederli, Gajeel. A meno che non siano loro a mostrarsi. Nemmeno gli altri fantasmi possono vederli.
- Cosa? Fantasmi che si nascondono agli altri fantasmi?
- Non è proprio un nascondersi. È più un castigo. I tuoi amici fantasmi interagiscono tra di loro, no? Quelli che invece vogliono causare il male, gli spiriti della vendetta, non meritano nemmeno la compagnia degli altri fantasmi. Nessuno può vederli.
Gajeel si chiese se quell’informazione poteva tornargli utile.
No, per niente.
- Sarà meglio che vada. Non vorrei che qualcuno dei fantasmi toccasse la Spada e facesse qualcosa di stupido. Ne sono attratti come mosche – disse Gajeel, alzandosi in piedi.
Un giramento di testa lo colse e dovette appoggiarsi al tavolo per rimanere stabile.
- Sai che gli spiriti della vendetta la temono? Non so perché, ma ho trovato due o tre testimonianze al riguardo. Forse perché è una spada pura e loro sono marci dentro. Se ne tengono alla larga. Comunque non andrai da nessuna parte, ho messo un sonnifero nel tè.
- Polyushika! – esclamò Wendy, sorpresa.
- Vai a casa, Wendy. Passa gli ultimi istanti di vita con i tuoi amici. Gajeel deve restare qui per riflettere. Ha le idee confuse e l’intruglio che sto preparando lo aiuterà a rilassarsi.
Il ragazzo bofonchiò parole senza senso mentre le palpebre iniziavano a lottare contro la sua volontà di tenerle aperte.
Gajeel crollò per terra mentre Wendy piangeva e dava il suo addio alla donna che aveva considerato una nonna.

 
~~~~~~~~~~○~~~~~~~~~~
 
- Gajeel… rifletti, ti prego. Ricordati chi sono.
Levy. La vedo interamente questa volta. Indossa il vestito giallo dall’aria antica, come il suo fantasma. Ma il suo fantasma è lei, no?
- Gajeel ragiona. Puoi arrivarci. Non abbandonarmi, ti prego.
Non so perché piange. È stata lei ad insistere perché la uccidessi.
Prima che possa fiatare mi corre incontro a braccia aperte.
Ma il sogno svanisce come se qualcuno avesse spento la luce.

 
~~~~~~~~~~○~~~~~~~~~~
 
Gajeel si svegliò di soprassalto; la luce che filtrava dalle finestre era troppo intensa per essere quella dell’alba. Di Polyushika non c’era traccia, e nemmeno di Wendy e Charle.
La stanza era così disordinata e impolverata da sembrare abbandonata da anni. E forse era proprio così. Forse Gajeel si era immaginato tutto. Però le primule rosse su uno dei tavoli erano fresche, le aveva prese Polyushika la notte prima. Quindi quella casa era effettivamente abitata.
Gajeel uscì dal casolare coprendosi gli occhi a causa della luce accecante, lo stomaco che brontolava dalla fame.
O forse dalla nausea per quello che stava per fare.
Vicino al ciliegio non c’era nessuna bambina fantasma, e questo fu un sollievo per lui. Quella mattina doveva affrontarne trenta che conosceva, cercare di conoscerne uno nuovo sarebbe stato semplicemente troppo.
Per un breve momento pensò che sarebbe stato meglio sbrigarsi, agire subito, correre da Levy per ucciderla e porre fine alle sofferenze di tutti.
Per poter ricominciare a vivere.
Forse, però, in realtà avrebbe smesso di vivere, non cominciato.
Come si fa ad andare avanti quando il nostro stesso mondo ci collassa addosso?
È possibile una cosa simile?
Gajeel salì le scale dell’entrata del castello senza nemmeno farci caso. Capì dov’era solo quando si sentì osservato: i suoi compagni erano tutto raggruppati nel soggiorno, nell’immenso salone da ballo che decenni prima aveva ospitato tutte le famiglie della cittadina durante le celebrazioni più importanti.
Il salone sembrava sovraffollato nonostante l’ampiezza considerevole. La cosa divertente era che, in realtà, quello spazio era vuoto, dato che i fantasmi erano intangibili.
Divertentissimo…
I fantasmi si spostarono lentamente al passaggio di Gajeel, formando un corridoio che lo conducesse alla sala giochi. Il ragazzo percorse lo spazio senza pensare, mentre le sue gambe agivano di vita propria come quando riviveva i ricordi del passato.
Che fosse anche quella una memoria? Che avesse già vissuto quella situazione?
Era nel presente o viveva nel passato?
Ma che cos’era il passato?
Gajeel, ormai, non sapeva più nulla.
- Levy è in armeria, Gajeel. L’abbiamo portata giù noi, prima. Non era il caso che morisse nel vostro letto – disse Mirajane, fraintendendo la confusione sul volto di Gajeel.
- Tra poco sarà tutto finito – lo rassicurò Erza, stringendo la mano di Gerard per trattenere le lacrime.
- Gajeel – lo richiamo Makarov, facendo un passo avanti. A Gajeel pareva che gli tremasse la voce, ma forse era solo un’impressione. – Figliolo, è stato un piacere conoscerti e accudirti. Non dimenticare mai casa tua. Potrai fare ciò che vorrai dei miei soldi, della mia casa, della tua vita, ma non dimenticare mai Fairy Tail. Non dimenticare noi.
Gajeel chiuse gli occhi, sperando che qualche pensiero intelligente gli suggerisse cosa fare, ma la sua mente era un foglio di carta bianco. Vuoto. Inutile.
Non li avrebbe mai dimenticati.
Come si potrebbe dimenticare il proprio cuore, del resto?
- Buona fortuna, Gajeel.
Il ragazzo voltò loro le spalle e si avviò verso l’armeria senza mai voltarsi indietro.
 
Levy era sul tavolo di cemento grezzo nel centro della piccola stanza fredda. Non tanto per la temperatura, quanto per l’atmosfera tetra. Muri grigi, armi grigie, pavimento grigio. Solo la teca contente la Spada dello Spirito emanava un piccolo bagliore luminoso.
Gajeel si avvicinò all’arma senza pensarci, e impugnò la Spada, soppesandola nella sua mano.
La sentiva scomoda e pesante, con l’elsa troppo piccola; ma pochi secondi dopo, l’impugnatura si trasformò nelle sue mani e la lama divenne leggera come una piuma. Un’estensione del suo braccio.
Quella Spada era fatta per essere impugnata, da chiunque.
- Gajeel! – esclamò una vocina spaventava alle sue spalle. Levy era sulla soglia e lo fissava con gli occhi sbarrati, terrorizzata. – Cosa vuoi fare con quella Spada? Mettila giù, ti prego. Ho paura solo a vederla!
Gli occhi di Levy… non erano i suoi occhi. Gajeel assottigliò i suoi per concentrarsi meglio e capire perché fossero diversi. Lei si accorse di quello studio accurato e cercò di calmarsi.
Com’era possibile che quella spada la spaventasse tanto?
Uno strisciante senso di smarrimento lo travolse, agguantandolo alle viscere. Qualcosa non andava. Qualcosa non era mai andato. Qualcosa era cambiato nel momento in cui aveva visto il fantasma di Levy. Levy era cambiata.
E i due anni della sua assenza non giustificavano quel cambiamento. Era irrequieta, agitata, solitaria, strana.
Nelle sue memorie non era così. C’era qualcosa di estremamente sbagliato.
- Voglio solo tenerla vicino a me. Porta fortuna, no? Ne ho bisogno Levy. Sarà l’ultima cosa che mi resterà tra poco.
Levy tentennò, ma alla fine annuì e si avvicinò ai piedi del suo corpo. Era assurdo vedere due Levy, una accanto all’altra.
Gajeel si allontanò dalla teca e nell’avvicinarsi al muro per prendere una spada qualsiasi passò una mano in mezzo al corpo del fantasma di Levy.
Come sempre sentì una consistenza densa anche se stava attraversando letteralmente un corpo fatto d’aria. Perché? Perché con gli altri fantasmi non succedeva? Gli altri erano pura intangibilità. Lei era… una cosa a metà. Come se la sua anima fosse stata più densa, più corposa, più forte.
Dipendeva dal fatto che nel suo corpo c’erano due anime, la sua e quella di Acnologia? Non ci aveva mai riflettuto…
Gajeel prese una katana dal muro e si diresse di fronte al tavolo di Levy, una spada per mano: quella normale nella sinistra, e quella dello Spirito nella destra, vicino al fantasma. Con la coda dell’occhio, Gajeel vide Levy ritrarsi dalla Spada, a disagio.
Qualcosa gli sfuggiva. Qualcosa di fondamentale gli stava impedendo di cogliere un dettaglio essenziale, al cospetto del quale tutto quello che gli avevano detto perdeva senso.
Non doveva colpire il corpo con la Spada dello Spirito.
Levy gli aveva detto che se lo avesse fatto lei sarebbe morta e lo spirito sarebbe vissuto.
Polyushika gli aveva detto che lei sarebbe rimasta un fantasma per sempre e lo spirito sarebbe morto.
Ma non tornava. Erano versioni troppo diverse.
Perché Levy gli avrebbe mentito? E perché Polyushika avrebbe dovuto raccontargli un’altra versione?
Quali erano state le parole esatte della vecchia?
- Nel momento in cui Levy ha unito se stessa ed Acnologia, il corpo della ragazza è diventato una gabbia. Acnologia è nel corpo, è il corpo. Se tu usi la Spada dello Spirito per trafiggere Levy succederà proprio quello che è successo ad Acnologia: il corpo muore e lo spirito vive per sempre. Se il corpo muore è la fine anche di Acnologia, ma lo spirito di Levy sarà un fantasma per sempre.
Ma non aveva senso.
Gajeel strinse gli occhi, sapendo che Levy non lo avrebbe distratto. Credeva che si stesse concentrando per compiere quell’omicidio, credeva che gli servisse tempo.
Be’, si stava davvero concentrando, ma per altri motivi.
Il corpo della ragazza è diventato una gabbia.
Acnologia è nel corpo.
Una gabbia.
Se il corpo di Levy era una gabbia, Acnologia era in una specie di prigione.
E cosa succede quando una gabbia… muore? Quando una gabbia si rompe? Quando viene aperta…
Il suo contenuto viene liberato.
Se il corpo di Levy fosse morto Acnologia sarebbe stato libero.
Se lo avesse trafitto con la Spada dello Spirito, il corpo sarebbe morto, e sia Levy che Acnologia sarebbero rimasti spiriti per sempre. Entrambi, non solo uno dei due.
Ma se avesse ucciso il corpo di Levy con un’arma qualsiasi… la gabbia avrebbe liberato lo spirito intrappolato al suo interno, mentre Levy sarebbe morta con il corpo.
Gajeel arretrò, soffocando un singulto.
- Gajeel? – chiese Levy, la voce ovattata alle orecchie di Gajeel.
Se lui avesse ucciso Levy, Acnologia avrebbe vinto. Sarebbe stato libero. Lui non doveva colpire il corpo! Perché Levy continuava a dirgli di sì, invece? E perché gli aveva detto una bugia dietro l’altra?
Il ragazzo incontrò lo sguardo della donna che amava, aspettando di trovarselo preoccupato per lui. Però non lo era.
Era solo… ansioso.
Fu quella la scintilla che fece scattare la molla nel cervello di Gajeel.
 
- Ma solo tu, ormai, puoi raccontarci la fine di questa storia. Perché lei non l’ha mai fatto… - aveva detto Mirajane…
 
Ma Levy e Mirajane erano buone amiche, non potevano aver litigato. E Mira non teneva rancore.
- Ciao Gajeel – lo salutò quest’ultima, sorridendo.
Il ragazzo aspettò che salutasse anche Levy, ma forse non era necessario. Erano nella stessa situazione da due anni, no?
 
Mentre si accingeva ad aprire il frigo con un immane sforzo di volontà, sentì Lucy domandargli pacatamente: - Hai visto Levy?
Lui si girò e fissò con perplessità la ragazza in questione, che sembrava tesa e imbarazzata. Come se lei non appartenesse a quel luogo e a quelle persone. – Penso si riferisca al mio corpo – ipotizzò Levy, interpretando le parole dell’amica.
Insomma, Levy era lì con lui, ovvio che l’aveva vista.
 
Levy se la rideva della grossa.
- Non fa ridere – disse burbero Gajeel, più turbato dalla stupidità di Natsu che dal resto.
- Infatti sto solo sorridendo – rispose Mirajane.
 
- Sicuro che starai bene? Sei sempre stato solitario, ma magari un po’ di compagnia ti farebbe bene in questo momento…
- Ho Levy, non sono solo – la interruppe, disgustato dal modo in cui suonava quella frase: schifosamente dolce.
- S…sì – indugiò Mirajane, tormentata. – Però… non deprimerti – lo supplicò prima di lasciare la stanza.
 
Gajeel allungò una mano per provare a riscuoterla in qualche modo, ma Pantherlily drizzò le orecchie e soffiò minacciosamente verso Levy.
Il ragazzo si bloccò e fissò il suo gatto mentre lei si girava e lo osservava, tesa.
- Che ti succede, gatto? Perché soffi a destra e a manca oggi?
Il gatto continuava a fissare con odio Levy, e alla fine scese dal petto di Gajeel per sistemarsi vicino alla sua testa, lontano dalla ragazza.
- Ma che gli prende? – chiese allora lui, confuso.
Pantherlily adorava Levy!
 
- Hai fatto un brutto sogno? – indagò Mirajane.
Gajeel annuì, stiracchiandosi la schiena mentre Lily si svegliava lentamente.
- Che hai sognato? – chiese Levy, curiosa.
- Ho sognato te, come sempre – rispose Gajeel, guardando Levy con gli occhi pieni di interrogativi.
Come mai continuava ad apparirgli in sogno se era lì con lui?
Lei si strinse nelle spalle, ma al ragazzo non scappò il suo sguardo confuso e preoccupato. Come se anche lei si chiedesse perché continuava ad apparirgli in sogno.
- Eh?! – esclamò Mira, sorpresa.
Gajeel e Levy la fissarono.
- Levy – ripeté Gajeel, stupito.
Ma era scema?
- Ah… - mormorò Mirajane, sempre più confusa. – E che hai sognato?
 
- Levy non approverebbe questa tua scelta di vita – rimarcò Erza, con le braccia incrociate e il mento alto.
Gajeel lanciò un’occhiata a Levy, che sorrise e scosse le spalle.
- Ma Levy approva – specificò lui.
Erza sospirò. -  Grazie tante…
 
- Che succede qui? – chiese Mirajane salendo le scale, tallonata da Erza.
- Niente – si affrettò a rispondere Levy, mentre Gajeel ridacchiava.
- Allora? – incalzò Erza, che fiutava odore di guai… per lui.
 
- Vorrei tanto che Levy fosse sveglia – bisbigliò Lucy a Kana, malinconicamente.
Gajeel aveva sempre avuto un buon udito, e quelle parole non avrebbe dovuto sentirle a causa della distanza.
- Sì – assentì Kana, priva del solito brio nella voce. – Vorrei parlarle ancora.
 
- Lu-chan… - mormorò Levy, affranta.
Ma la sua amica non rispose.
 
Gajeel era perplesso. A lui quella spada non faceva alcun effetto. Girandosi scorse Levy, accanto alla porta. Il suo atteggiamento era antitetico rispetto a quello degli altri.
Strano, perché anche lei era uno spirito come loro.
Quando le pose una muta domanda con gli occhi, lei scosse le spalle, a disagio: - Non ho dei ricordi molto positivi legati a quella spada. Mi va meglio restare qui.
 
- Agli altri piace restare vicino alla Spada – le aveva detto una volta Gajeel. – So che è legata a brutti ricordi, ma magari può farti stare meglio.
- No, grazie. So che la Spada ha fatto del bene, e che è irrazionale temerla, ma proprio non riesco a stare accanto a lei.
 
- Sarà meglio che vada. Non vorrei che qualcuno dei fantasmi toccasse la Spada e facesse qualcosa di stupido. Ne sono attratti come mosche – disse Gajeel, alzandosi in piedi.
- Sai che gli spiriti della vendetta la temono? Non so perché ma ho trovato due o tre testimonianze al riguardo. Forse perché è una spada pura e loro sono marci dentro. Se ne tengono alla larga.
 
I ragazzi e le ragazze non avevano mai interagito con Levy. Per lo meno, non davanti a Gajeel.
Come se non la vedessero.
Lily ed Happy, due anni prima, avevano attaccato Natsu quando era stato posseduto e aveva puntato un coltello alla gola di Lucy. Avevano ringhiato e soffiato perché sentivano che non era Natsu.
Lily in quei mesi non faceva altro che guardare trucemente Levy, cosa che non era mai, mai accaduta.
Forse perché… non era Levy quella che il gatto percepiva.
Lei si teneva alla larga dalla Spada, come si sta alla larga da qualcosa di putrido e spaventoso. Gli altri, invece, stavano meglio se erano vicini all’arma.
E poi… quella frase. Quando Gajeel aveva visto il corpo di Levy per la prima volta, Mirajane aveva cercato di dirgli qualcosa. Una cosa che lui non aveva sentito perché si era girato, percependo la presenza del fantasma di Levy.
Non aveva registrato le sue parole, ma le aveva sentite.
 
- Non lo sappiamo – disse Mirajane, lo sguardo fisso in un punto, incantato. – Non riusciamo a capirlo, lei respira ed è viva ma dev’essere successo qualcosa alla sua anima, e noi non sappiamo… dove sia.
 
Non sappiamo dove sia.
 
Nessuno, a parte Gajeel, vedeva Levy.
Polyushika gli aveva detto che gli spiriti della vendetta non potevano essere visti dagli altri fantasmi. Solo gli umani potevano vederli. E solo se erano loro a mostrarsi.
Nessuno vedeva Levy.
I gatti la detestavano.
Lei gli compariva in sonno, e solo nei suoi sogni gli sembrava vera.
Lo spirito che aveva davanti non sembrava Levy.
Non era Levy.
Per tutti quei mesi… aveva parlato con Acnologia.
- Gajeel, tutto bene? Forza, puoi farcela. Ti prego, fallo per me…
La voce supplichevole di Levy lo raggiunse, facendo breccia nei suoi vorticanti pensieri impazziti. Quella voce che gli ricordava terribilmente la risata gracchiante di Acnologia mentre uccideva la sua famiglia.
Fu solo grazie alla sua espressione perennemente impassibile che Gajeel riuscì a non fulminare Lev… Acnologia con un’occhiata di fuoco.
- Ce la faccio, sì – disse bruscamente, facendo allontanare Levy.
Gajeel si raddrizzò e strinse forte le dita sulle else delle due spade.
Ecco perché Levy, la finta Levy, gli aveva detto che se avesse colpito il suo corpo con la Spada dello Spirito sarebbe stato liberato Acnologia. Era parzialmente vero, e agli occhi di Gajeel era terribile, perciò non l’avrebbe mai fatto. Ovviamente, anche agli occhi di Acnologia era poco conveniente, perché lui voleva sterminarli tutti, mentre Levy sarebbe sopravvissuta con lui.
Qualsiasi strada avesse scelto, Acnologia sarebbe stato libero. Levy sarebbe morta. O resa fantasma per sempre.
A meno che…
Spada dell’Unione. Spada della Separazione.
Nessuno sapeva appieno quali fossero i poteri della lama, perché nessuno aveva mai vissuto quella situazione.
Ma Levy, la vera Levy, lo aveva capito da anni. Da due anni. E aveva sempre cercato di aiutarlo in sogno, forzando la clausura a cui Acnologia l’aveva costretta.
C’era arrivato.
- Grazie, Levy… - bisbigliò.
Il fantasma aggrottò le sopracciglia. – Cos…
Gajeel non aspettò la fine.
Sollevò la Spada dello Spirito e trafisse Levy dritta nel cuore.
Trafisse il suo fantasma.
Trafisse Acnologia.
E la Spada attraversò lo spirito come se fosse stato un corpo vero e proprio.
 
Spada dell’Unione. Aveva unito lo spirito di Acnologia a Levy.
Spada della Separazione. Avrebbe diviso Levy, il suo corpo e Acnologia.
E allora perché non separare due spiriti?
Gajeel vide il fantasma di Levy soffocare, afferrarsi la gola e rantolare. Il corpo di Levy trasse un respiro profondo mentre il suo spirito tornava ad occupare il suo posto. Corpo e spirito insieme.
Levy era viva. Viva davvero.
E anche Acnologia.
Gajeel, impassibile, sogghignò crudelmente. La Spada separava corpo e spirito. Univa spirito e spirito. Separava spirito e spirito.
Due elementi. Sempre.
E se avesse usato la Spada su un solo elemento? Uno spirito. Solo.
Con un urlo di guerra che conteneva tutto il dolore per i suoi cari, Gajeel ritrasse la Spada per trapassare di nuovo lo spirito da parte a parte.
Acnologia si dissolse nel nulla, mentre l’eco delle sue urla disumane si spegneva tra i muri.
Il bagliore fioco che la Spada dello Spirito emanava si affievolì, e quell’arma tornò ad essere una semplice lama affilata. All’apparenza.
- Se usi la Spada su uno spirito, lo separi dall’ultima cosa che gli è rimasta. La vita – spiegò Gajeel a se stesso.
Acnologia, dopo duecento anni, era morto. Aveva trucidato la sua famiglia, ponendo fine alla vita di decine di persone. E gli aveva fatto credere di non avere più un futuro. Ma lui ce l’aveva fatta. Lui e Levy, ce l’avevano fatta. Insieme.
Gajeel si lasciò sfuggire una lunga, nervosa, risata liberatoria.
Ce l’aveva fatta!
Lasciò cadere le spade e si infilò le mani tra i capelli, respirando affannosamente.
Era davvero finita.
I respiri di Levy attirarono la sua attenzione.
- No… - mormorò, terrorizzato, avvicinandosi a lei e accarezzandole il volto.
I respiri erano sempre più accelerati, uscivano come dei dolorosi gemiti, accompagnati da colpi di tosse secca e raschiante.
- Ti prego Levy, ti prego. No, non ora. Non lasciarmi ora. Io non…
Levy spalancò gli occhi e respirò come una persona che aveva rischiato l’annegamento, cercando di far arrivare più aria possibile nei polmoni.
Si mise una mano sulla gola e strinse gli occhi, coprendoseli con le mani.
- Levy! – esclamò Gajeel, posandole le mani sulle spalle, sulle braccia, sul viso, ovunque, perché non gli sembrava vero di poter finalmente toccare quel corpo che tanto amava e che era vivo per davvero, non in un qualche stato comatoso.
- Levy, Levy io… io non… diamine, io…
La ragazza alzò una mano e lo bloccò, facendogli cenno di tacere.
Rimase immobile per minuti interminabili mentre il respiro tornava regolare e gli occhi si abituavano alla luce, seppur fioca, dell’armeria. Erano rimasti chiusi per due anni.
Gajeel non le scollò gli occhi di dosso, incredulo. Non voleva illudersi, non sarebbe sopravvissuto a quell’illusione, ma Levy era davvero viva, davanti a lui. Non era possibile… Nemmeno lui ci aveva sperato!
Certo, era sottopeso di minimo venti chili, probabilmente i muscoli erano atrofizzati e chissà quali altri funzioni corporee erano rimaste inattive per due anni. Ma era lì con lui e avrebbero affrontato insieme tutto.
Quando finalmente riuscì ad aprire gli occhi senza proteggerli, impiegò un tempo infinito, secondo Gajeel, per mettere a fuoco e riconoscere l’ambiente che la circondava. Provò a far forza sulle braccia per alzarsi, ma il tremore le rendeva impossibile anche solo muoverle. Lui provò ad aiutarla posandole delicatamente le mani sulle braccia, ma lei si ritrasse come una tartaruga che torna nel guscio.
- Levy… - bisbigliò, sporgendosi affinché potesse vederlo. Le sue orecchie dovevano essere alquanto sensibili, e i rumori forti non le avrebbero fatto bene. – Levy, ce l’ho fatta. Siamo liberi. Sei libera, finalmente!
Lei mise a fuoco il viso con alcune difficoltà, e quando Gajeel capì che era riuscita a vederlo, le sorrise incoraggiante. A modo suo, ovviamente.
Ma Levy non sorrise, non addolcì lo sguardo e non dimostrò nessuna gioia. Solo confusione, paura e perplessità.
- Levy, cos…?
La ragazza mosse la bocca, ma non uscì alcun suono. Ci riprovò, e ottenne lo stesso, scarso risultato.
A Gajeel bastò quello, però. Il labiale era inequivocabile. Doloroso come se quello trafitto fosse stato lui.
“Chi sei?”.
Ecco cosa Levy tentava di dire.



MaxB
So che il cap doveva essere corto (4 pagine), ma non valeva la pena di tirarla per le lunghe. Tanto avete già capito tutto.
Perciò... ta da'!
Ahahahah scusate sono ancora in fase delirante per la correzione di Mi presenti la sposa? Quel capitolo mi ha esaurito la scorta di neuroni (già pochi di mio).
Va be' dai, spero che abbiate capito e ottenuto le certezze che cercavate. Finalmente Gajeel ha concluso qualcosa di buono.
Forse...
A presto e grazie a tutti coloro che leggeranno e lasceranno un commento^^
MaxB

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


Capitolo 13
Morti ovunque, reali e metaforiche



Levy guarì completamente solo l’inverno successivo, mesi dopo la fine della paradossale vicenda.
Gajeel aveva chiamato Polyushika, che aveva vissuto con loro per alcune settimane, curando Levy con impacchi per gli occhi e la gola, e ricette che incaricava Gajeel di cucinare. Doveva seguire una dieta specifica per recuperare i chili persi e allo stesso tempo non affaticare il corpo.
Il ragazzo viveva come un automa, senza capacitarsi di ciò che era successo. Si svegliava e cucinava, mangiava e faceva qualche lavoretto, stava con Levy, in silenzio, mentre lei faceva di tutto per non incrociare i suoi occhi.
Si ritraeva quando lui si avvicinava, anche solo per cambiarle una pezza o portarle il cibo in camera. Quella era la cosa che faceva più male.
Dopo una settimana ricominciò a parlare, con una voce gracchiante e ruvida, che però si ammorbidì in pochi giorni. Gajeel chiudeva gli occhi quando lei conversava con Polyushika; se si concentrava, riusciva a fingere che stesse andando tutto bene e che Levy si ricordasse di chi era lui.
Poteva illudersi di non essere diventato un estraneo per lei.
Polyushika una sera lo aveva preso in disparte e gli aveva detto che non doveva in alcun modo pressare Levy, forzarla a fare qualcosa o spingerla ad accettare la sua presenza. La ragazza aveva rivelato alla vecchia di aver paura di quel ragazzo che la fissava come un pazzo senza ragione, che la beveva con gli occhi in attesa di qualcosa che lei non comprendeva. Gajeel la inquietava.
E quello, per lui, fu il colpo di grazia.
Vivere non aveva più senso, come non aveva più sapore il cibo che Polyushika lo costringeva ad ingollare. I colori non esistevano più e la maggior parte del tempo Gajeel se ne stava seduto a fissare il vuoto, mentre i pensieri gli affollavano la mente e gli impedivano di muoversi.
- Ora basta! Sono stufa di fare da balia! Essere l’infermiera della ragazza mi va bene, ma tu sei patetico! Smettila di piangerti addosso e farti curare da una vecchia come me! – gli aveva gridato contro una volta Polyushika, di fronte all’ennesima risposta muta alle sue domande. – Levy non ti vorrebbe così.
Era dura, troppo, ma Polyushika aveva ragione. Ogni volta che Gajeel portava un pasto a Levy, tratteneva il respiro, in attesa di un riconoscimento in quegli occhi color miele. E ogni volta il cuore gli moriva quando Levy cercava in tutti i modi di non sfiorarlo accidentalmente e bisbigliava un piccolo e spaventato “grazie”.
Gajeel non rispondeva mai, e se ne andava in silenzio com’era arrivato, lasciandola sola o in compagnia di Polyushika. O di Lily, che non si allontanava più dal corpo di Levy. Lei aveva fatto presto a riprendere con il gatto il rapporto che aveva avuto anni prima, ma allora perché non poteva essere lo stesso con Gajeel?
Non sapeva come fosse potuto accadere, ma era diventato lui il fantasma di quella casa vecchia e vuota.
 
Un giorno decise di correre come aveva fatto il giorno in cui aveva scoperto il castello in rovina. Il giorno in cui aveva trovato le sue memorie. Se tanti mesi prima era successo qualcosa di così assurdo, con una corsa, non era da escludere che potessero esserci altre scoperte, altri cambiamenti.
Ma gli atteggiamenti positivi erano tipici di Gajeel quanto la cortesia e il galateo, quindi correva solo per sfogarsi.
Concentrati sul dolore alle cosce, si ripeté, gli occhi che bruciavano. Senti quanto ti bruciano le caviglie, ascolta il tuo respiro. Non pensare.
Non pensare.
Al fatto che per Levy era diventato un estraneo. Le aveva salvato la vita, ma a che prezzo?
Avrebbe dovuto essere il periodo più felice della sua vita, aveva avuto una seconda opportunità. Avrebbe dovuto uccidere la sua donna e restare solo a fare l’eremita Aveva rischiato di di liberare lo spirito maligno che aveva causato solo disgrazie.
Invece aveva vinto su tutto, perdendo la cosa più importante. Che senso aveva quello scherzo privo d’ironia? Era una punizione, forse? E per cosa?!
Frustrato, ringhiò e sferrò un pugno al tronco di un grosso albero. La neve gli cadde in testa come a deriderlo, e Gajeel rabbrividì. Non si era coperto granché bene, sperando di scaldarsi con la corsa.
Ma non puoi scaldarti se nel tuo cuore alberga il ghiaccio più ostile.
Ancora più arrabbiato, Gajeel infierì su quel tronco innocente ancora e ancora, fino a farsi sanguinare le nocche. Come quando aveva scoperto di dover uccidere Levy.
- Basta.
Gajeel si bloccò e alzò lo sguardo, puntandolo sui rami dell’albero. Erano fitti e grossi, così tanto da poter sostenere il peso di più persone e creare spazi comodi per sedersi.
Era il ciliegio suo e di Levy. Forse l’unica cosa in quel mondo che non meritasse una simile rabbia.
Il ragazzo si ritrasse imbarazzato, scusandosi mentalmente con il vecchio albero.
Un momento.
Gli aveva parlato?!
- Sono qui dietro.
Gajeel si girò di scatto, suo malgrado spaventato. Ne aveva viste abbastanza per sapere che una voce piccola e pacata come quella che sentiva poteva essere una minaccia spaventosa, in realtà.
Davanti a lui c’era una bambina. Una ragazzina. Aveva gli occhi chiari, saggi e stanchi, e un portamento fiero e sicuro. Gajeel sentì che quella piccoletta avrebbe potuto consolarlo e farlo sentire al sicuro come nessun altro, in quel momento.
Era la stessa bambina che aveva visto quando era andato da Polyushika la prima volta. Quella che gli aveva indicato la strada per la casupola della vecchia, appollaiata su una roccia vicino a quell’albero.
- C’è sempre una speranza, Gajeel. Lo sai. Non abbatterti. Pensa a cosa puoi fare per riavere indietro ciò che hai perso.
Il ragazzo, completamente spiazzato, deglutì senza rispondere.
Quella ragazzina innocente era un fantasma.
Un altro?!
- Nella vita ho potuto sperimentare ben poche cose, come puoi immaginare. Non sono mai diventata adulta, ho solo toccato la soglia dell’adolescenza. Ho visto questo mondo cambiare e l’amore trionfare sul male, sempre, anche se di tempo ce n’è sempre voluto tanto. Il tempo non ha fretta, Gajeel. Perché è eterno. Noi siamo esseri caduchi ed effimeri come i fiori di questo ciliegio, spazzati via dal vento senza preavvisi.
La ragazzina si avvicinò a Gajeel, lo sorpassò e provò ad accarezzare il tronco dell’albero, lì dove Gajeel lo aveva ferito.
- Come dicevo, non ho sperimentato molto. Ma ho osservato molto. Ho visto gli anni passare, le guerre scoppiare e cessare, senza mai estinguersi davvero, i bambini nascere e i nonni morire, le storie finire e il domani iniziare. A volte non ho trovato il senso di tutto ciò. Mi sono chiesta cosa siamo venuti a fare qui, se la sofferenza è dietro l’angolo e minaccia tutto quello che abbiamo di più caro. Viviamo poco, e viviamo una vita di stenti; abbiamo paura perché siamo sotto tiro ogni giorno che passa. Minacciati dal nostro stesso corpo, dalle nostre… come si dice? Cellule? La medicina moderna… duecento anni fa la medicina moderna consisteva nel farsi i salassi per scacciare i demoni, quando in realtà il problema era solo la pressione alta.
La ragazzina sorrise e fissò Gajeel dritto negli occhi, luce pura in una macchia di sangue.
- Non ho trovato risposte alle mie domande, Gajeel. Non ho risposte per nessuno. Ma se qualcuno mi chiedesse cosa ho imparato dalla vita, io risponderei che la vita stessa insegna qualcosa ad ognuno di noi, e la vita di tutti noi forma altra vita. La vita è viva, e agisce come vuole, come noi umani. La vita è un ostacolo infinito. La vita non ci rende le cose facili. Ma se le cose fossero facili, come potremmo sentirci soddisfatti? Forse la Vita vuole solo farci godere ciò che abbiamo dopo aver penato per anni. Chi lo sa. Io so solo che il senso della vita è la vita stessa. Sta a noi trovare un senso ad ogni giorno che passiamo in questo mondo.
La bambina dai lunghi capelli biondi sorrise di nuovo, inclinando la testa come Mirajane, e si allontanò.
- Io sono felice che il mio orfanotrofio abbia donato gioia e amore ai bambini di diverse generazioni. Penso di essere diventata io stesso l’edificio, ecco perché ancora non me ne sono andata. Insieme alla spada veglierò sul futuro di chi abiterà tra le mura del castello, e vivrò nei sorrisi di coloro che vorranno chiamarlo ‘casa’. Buona fortuna, Gajeel. Trova il modo di superare ogni avversità e non abbandonare mai coloro che ami.
La bambina sparì così com’era comparsa, lasciando Gajeel libero di respirare. Non si era reso conto di essere stato così immobile, incapace di battere ciglio e proferire parola.
- Grazie – risuonò un’ultima volta la voce della ragazzina tutto intorno a lui, facendolo arretrare fino a poggiare la schiena contro il tronco.
Rimase a fissare il cielo per alcuni interminabili istanti, finché non sentì le scarpe zuppe di neve sciolta e gli arti intirizziti.
Allora sorrise, una minuscola increspatura delle labbra, e riprese a correre verso casa.
Non sapeva dov’era andata la bambina, non sapeva se l’avrebbe più rivista o se ci avrebbe parlato ancora, ma sapeva che avrebbe vegliato su Fairy Tail.
Come poteva essere altrimenti?
- Grazie, Mavis – disse.
Una folata di vento caldo gli accarezzò il viso, e lui accelerò l’andatura.
Poteva solo ringraziare quella bambina uccisa troppo presto, strappata alla vita, i cui desideri di bontà erano stati realizzati dal fratello, Yuri Dreyar.
Poteva solo ringraziarla per avergli dato, anche se indirettamente, una vita.
 
Gajeel entrò in casa in fretta, scrollandosi la neve di dosso. Aveva iniziato a nevicare sulla via del ritorno, e lui voleva solo fare un bagno bollente.
Con Levy.
Scosse la testa a quel pensiero, scuotendosi i capelli e levandosi le scarpe e i calzini bagnati all’entrata.
Polyushika era tornata a casa sua da qualche settimana, anche se ogni domenica passava per vedere come stava Levy. Anche se Gajeel aveva il sospetto che la vecchia eremita si fosse leggermente affezionata anche a lui.
Salì le scale lentamente, cercando di non fissare le ombre che le lampade accese gettavano su quel salone immenso. Gajeel si fermò appena raggiunse il primo piano, si portò al centro del corridoio e appoggiò le mani al parapetto, guardando di sotto, fissando il vuoto; l’assenza di tutti quelli che davano vita a quella casa. Mavis era diventata il castello stesso, ma doveva essere triste senza nessuno a far riecheggiare risate e litigi tra quelle pareti.
Con un sospiro, Gajeel si diresse verso camera sua. Anzi, camera di Levy. Quella che un tempo era stata la loro camera e ora narrava solo storie di solitudine. Gajeel odiò ogni suo passo, ogni rumore attutito che i suoi piedi creavano pestando la moquette. A Fairy Tail, nessuno aveva mai sentito il rumore dei propri passi. C’era sempre troppo casino.
Il ragazzo bussò piano alla porta di Levy, temendo di disturbarla. Quando non udì alcuna risposta, abbassò piano la maniglia, mentre il flashback della loro prima volta gli inondava il cervello e lo faceva rabbrividire di dolore.
La ragazza dormiva nel letto troppo grande, la bocca socchiusa e i capelli profumati e puliti che venivano fatti ondeggiare ad ogni sbuffo del naso. Quando dormiva era così tenera, così simile alla donna che un tempo lo aveva amato. La fronte era distesa e nelle palpebre abbassate non si scorgeva traccia di paura. Non si vedevano le ferite che quel corpo aveva subito, nella carne e nell’anima.
Gajeel non resistette e si chinò per lasciarle un bacio in fronte, prima di allontanarsi in fretta e dirigersi all’armadio. Non aveva ancora portato i suoi vestiti nella camera in cui dormiva, la sua vecchia camera da single. Gli sembrava troppo definitivo. Terribilmente sbagliato.
- Ehi – mormorò Levy alle sue spalle, con la voce arrochita dal sonno. – Cosa fai?
Gajeel la guardò di sfuggita da sopra la spalla, odiando la visione di lei che si sfregava gli occhi e cercava di mettere in ordine i capelli. La odiava perché non era più sua.
- Prendo la mia roba ed esco, scusa se ti ho svegliata. Tra poco ti porto la cena.
Afferrata la biancheria, Gajeel si girò e la fissò, in attesa di… qualcosa.
Levy era sveglia e attenta, ora, e si torturava le mani nervosamente. – Non ho molta fame.
Lui scrollò le spalle, come se non potesse farci nulla. – Sai che Polyushika mi spenna vivo se non ti faccio mangiare.
Un sorriso piccolo quanto una lacrima le addolcì l’espressione facciale, ma gli occhi rimasero confusi e inquieti. Levy aveva ripreso peso. Non tanto quanto prima, non era ancora al massimo della forma fisica, ma almeno quelle volte in cui Gajeel aiutava Polyushika ad alzarla non toccava solo ossa.
Aveva rimesso su parte di quel bel sedere tondo che aveva tanto amato. Che continuava ad amare. E a desiderare.
- Va bene – acconsentì lei.
Gajeel annuì e si avviò verso la porta, mentre un altro pezzo del suo cuore già infranto cadeva in quella stanza. Cosa sarebbe successo nel momento in cui avesse perso ogni briciola di quell’organo?
Era meglio se non l’avesse avuto, un cuore. Sarebbe stato meglio senza.
- Gajeel – lo fermò Levy, toccandogli la mano.
Il ragazzo si girò di scatto e lei si ritrasse, pentendosi di quel contatto.
- Mh? – mugugnò lui, dandosi un tono, per non mostrarle quanto in realtà si struggeva per lei.
- Polyushika ha detto che se me la sento posso… iniziare a muovermi.
Aveva riacquistato peso, sì, ma lentamente. Molto lentamente. E il corpo che era rimasto fermo per due anni si stancava subito.
- Mh – rispose lui, attendendo ulteriori chiarimenti.
- Ti… ti andrebbe di… farmi visitare il castello o portarmi a passeggiare? Per, sai, i muscoli. Hanno bisogno di rafforzarsi un pochino.
Gajeel annuì. – Quando vuoi.
- Okay. Grazie. Allora… ehm… a dopo.
Lui le fece un cenno con la mano e si chiuse la porta alle spalle.
Mavis aveva ragione. La vita è una vera bastarda. È come l’amore, che prima ti dà tutto e ti fa toccare il cielo e poi, senza preavviso, ti toglie tutto quello che hai, con gli interessi.
Ma non possiamo lasciarci abbattere e dobbiamo trovare il buono nelle piccole cose di ogni giorno.
La felicità, per Gajeel, era e sarebbe sempre stata Levy. La Levy che, anche se viveva solo nei suoi ricordi, era lì con lui in quel momento.
E Gajeel poteva solo ringraziare se riusciva a vedere quegli occhi ogni giorno.
 
La prima volta che portò in girò Levy c’era anche Polyushika, nel caso in cui la ragazza avesse avuto un calo di forze o un mancamento. Attraversarono il corridoio fino alle scale, e Levy restò a contemplare il salone sotto di lei con gli occhi sgranati, sorridendo ammirata.
- Tu vivi qui?! – aveva chiesto a Gajeel, esterrefatta.
- Ci vivi anche tu. Ci vivevamo tutti.
Levy lo aveva guardato, senza capire. - Tutti chi?
- Un giorno te lo dirò.
Avevano sceso le scale con una lentezza esasperante, ma per Gajeel Levy andava anche troppo veloce. Niente la legava a quel castello, e una volta in forze, temeva che se ne sarebbe andata come la nebbia mattutina.
Ci vollero due settimane per mostrarle la villa da cima a fondo, e dopo aver perlustrato ogni angolo segreto di quell’edificio, tranne l’armeria, che Polyushika aveva tassativamente vietato per paura che potesse causare un qualche shock alla ragazza, Levy chiese di poter riabilitare i muscoli nella piscina interna della villa.
Gajeel acconsentì e poco a poco Polyushika li lasciò soli, sempre di più, fino ad andarli a trovare ogni due settimane. Il ragazzo restava con la bocca asciutta e la gola secca ogni volta che Levy entrava nell’acqua, con il corpo, il suo corpo, fasciato in costumi che in passato le aveva sempre strappato di dosso.
Era più difficile che mai stare così a contatto con lei senza poterla nemmeno sfiorare, e a Gajeel sembrò di impazzire.
Fu per quel motivo che cominciò a raccontarle di loro. Di Fairy Tail, dello scopo di quell’orfanotrofio, del modo in cui erano cresciuti, delle feste e della baldoria. Gliene parlava a cena, in piscina, in salotto, nei momenti in cui la portava in giardino a passeggiare. Levy sembrava pendere dalle sue labbra, si beveva quella storia come se Gajeel fosse stato uno di quei libri che le piacevano tanto. Le parlò di lei, di com’era e di cosa faceva, dei suoi pregi e dei suoi difetti, dei suoi manierismi, delle abitudini, delle fisse e dei punti deboli così come di quelli forti.
Levy riscoprì se stessa grazie a quel ragazzo con cui condivideva le giornate, e iniziò a rintanarsi nella biblioteca della mansarda ogni volta che poteva. Quando Gajeel la chiamava per il pranzo o per la cena, Levy lo assaliva, euforica, parlandogli di questo o di quel libro, delle scoperte che aveva fatto, della sua capacità di tradurre le lingue antiche. E a Gajeel sembrava sempre di essere tornato indietro, di aver solo sognato quel periodo assurdo a cui erano seguite le morti e i fantasmi. Era tutto falso, lo aveva solo immaginato.
Però Levy non lo toccava mai, la notte non lo cercava, era cortese solo perché lei era gentile con tutti.
Iniziò a parlarle di loro, di loro due, quando la primavera iniziò a sciogliere la neve, e i fiori formarono una coperta morbida sull’erba. Le disse di come lei sgattaiolava in camera sua, di quanto tempo avesse impiegato lui per capire i suoi sentimenti, del loro primo bacio, della loro prima volta, ogni momento rubato ai loro doveri e ogni litigio, a cui seguiva immediatamente una riappacificazione sincera. Le raccontò dei loro progetti e di come lui si era sentito pronto a sposarla.
Levy restò zitta e distante per una giornata intera quando lui ebbe finito di raccontarle quella storia d’amore che un tempo le era appartenuta, sentendosi morire dentro tanta era la mancanza che gli divorava il petto.
Due giorni dopo, Gajeel la trovò di fronte al grande ciliegio che sembrava essere onnipresente nei momenti importanti della sua vita.
Levy giocava con un fiore e aveva una determinazione feroce nello sguardo. Gajeel sapeva che stava per chiedergli qualcosa, e che niente le avrebbe impedito di ottenere la risposta.
- Cosa fai qui da sola? – le chiese, chinandosi, per raccogliere altri fiori che poi le porse.
- Cos’è successo? – ribatté lei pacatamente.
Gajeel aveva capito perfettamente cosa voleva sapere, ma fece il finto tonto, sperando di sbagliarsi: - Dove?
- Qui. Perché mi sono svegliata senza un passato? Quanto tempo sono stata prova di coscienza? E perché? E dove sono tutte le persone di cui mi parli, quelli con cui sono cresciuta? Voglio sapere il mio passato, Gajeel.
Il ragazzo non rispose subito, e rimase a scrutare i petali di fiori ammucchiati sulle sue mani, senza realmente vederli.
Quante volte si era fatto le stesse domande, senza però sapere cosa chiedere. Lui non aveva avuto una vita così facile. Lui aveva scoperto tutto dopo due anni, e nel peggiore dei modi. Levy invece poteva contare su di lui.
- Sei sicura di…
- Sì. Sono sicura. Ho bisogno di saperlo. Hai idea di cosa significhi svegliarsi senza un passato, in compagnia di uno sconosciuto con cui a quanto pare hai avuto una storia parecchio seria, e non saperne niente? E chi mi dice che tu non stai mentendo?
L’agitazione era così genuina e pura, così diversa da quella che l’aveva contraddistinta quando Acnologia aveva finto di essere lei. Come aveva fatto a non accorgersene, lui, che la conosceva meglio di lei stessa?
- Puoi aspettare fino a questa sera? È… complicata, come questione.
Levy restò zitta, e si rigirò il fiore tra le mani, interrogandolo come se avesse potuto suggerirle cosa fare.
- D’accordo.
Silenzioso com’era arrivato, Gajeel si allontanò, chiedendosi come la vita, la sua vita, potesse sfuggire così totalmente al suo controllo.
 
Gajeel portò tutta la cena in soggiorno, per cercare di raccontare l’inizio della storia senza mai interrompersi. Era l’inizio del loro presente, ma era stata la fine di molte altre storie.
A volte non si può distinguere l’albore di qualcosa dal suo termine, tanto sono imprescindibilmente legati.
Gajeel iniziò a parlare della storia dell’orfanotrofio, per cercare di spiegare quei fatti tanto assurdi e incredibili in modo che potessero avere un senso cronologico. Chissà se Levy gli avrebbe creduto. Lui, anni prima, non l’avrebbe fatto.
Levy intanto sfogliava in silenzio gli album di foto che Gajeel aveva ripescato dalla soffitta, come prova che quanto gli aveva detto era vero. Mentre parlava, vedeva le dita di Levy soffermarsi sui volti dei suoi vecchi compagni, come a cercare di riacquisire i ricordi mediante il tatto. Aveva impiegato l’intero pomeriggio per raccogliere tutte le foto di loro due, e con sua sorpresa aveva scoperto che erano davvero, davvero tante. Aveva cerato di incollarle su un album in modo che narrassero da sole la loro storia, e pensava di esserci riuscito bene: l’album immortalava l’evoluzione del loro amore, e Gajeel giurò di aver visto una lacrima sfuggire al controllo di Levy mentre osservava una foto in cui, abbracciati, guardavano i fuochi d’artificio.
Quando la storia cominciò a complicarsi, per la ragazza non ci fu più spazio per le distrazioni. Le foto dovevano aspettare. Gajeel vide prima lo sgomento e poi la rabbia farsi strada su quel viso dolce che tanto amava, e che ultimamente sorrideva così poco. Sgomento per l’assoluta stranezza di quella vicenda, e poi rabbia per la presa in giro a cui Gajeel la stava sottoponendo.
Nonostante questo, nonostante non credesse ad una parola di quelle che Gajeel le raccontava, Levy non fiatò. E ben presto la rabbia passò dal terrore più assoluto all’orrore, lasciandola vuota.
Più vuota di quanto non fosse stata prima.
Quando finì di raccontare, ormai alle prime ore del mattino, il pasto di Gajeel era diventato freddo, come il suo cuore. Lily si era acciambellato in grembo a Levy, godendosi le sue carezze distratte e sistematiche.
Il silenziò regnò sovrano per un tempo che al ragazzo parve infinito. Non sapeva cosa dire. Le aveva raccontato ogni singola verità. Toccava a lei decidere cosa farne.
- Quindi mi sono… infilzata. Con una spada magica – disse, toccandosi la cicatrice, lì dove batteva il suo cuore. – Ma non sono morta. Sono rimasta… in stato vegetativo per due anni, mentre un fantasma malvagio se ne andava in giro con le mie sembianze. Ma io ti comparivo in sogno. Io…
Levy iniziò ad agitarsi, facendo cadere il bicchiere d’acqua che aveva lasciato intatto.
- Scusa. Cioè, non volevo. È che…
- Tranquilla, Levy – mormorò lui, prendendole la mano. Lei ritrasse subito la sua, a disagio a causa di quel contatto.
Perché non le era successo quello che era successo a lui? Perché lui aveva riottenuto i ricordi visitando parti specifiche del castello e lei no? Nemmeno dopo aver sentito tutta la storia della sua vita!
Quanto ancora doveva penare per riavere la felicità che gli era stata strappata?
- Vai a letto – le ordinò, più bruscamente di quanto volesse. – Sono tante informazioni difficili da assimilare, una buona notte di riposo… o quello che ne resta, possono aiutarti a metabolizzare il tutto.
Levy annuì e, preso Lily, si diresse in fretta in camera. Senza ringraziare per il salvataggio. Senza nemmeno guardarlo.
Gajeel seppellì il viso nelle mani e rimase lì, immobile, cercando di tenere insieme i pezzi di se stesso. Poi si alzò lentamente e sparecchiò il tavolino del soggiorno.
Quando andò a mettere a posto gli album di foto, si accorse che quello suo e di Levy non c’era.
Lo cercò ovunque, ma era sparito. Lo aveva preso lei.
Anche se pensava che non avrebbe chiuso occhio, quella notte, quando Gajeel si buttò a letto si addormentò subito.
Sapere che Levy aveva le loro foto vicino gli aveva dato una speranza che da troppo tempo non si concedeva.
 
La speranza è l’ultima a morire, ma quando muore ci toglie ogni cosa, ogni voglia di vivere.
E Gajeel scoprì di non averla mai persa.
Almeno finché non arrivò la batosta finale, quella che uccise tutto, non solo la speranza.
Levy, dopo aver saputo la verità, dopo averla più o meno capita, gli aveva detto che gli credeva.
Gajeel sospettava che gli credesse solo perché per uno come lui era impossibile creare una storia tanto complicata eppure, a suo modo, verosimile. Era troppo assurda per non esere vera.  Levy non gli credeva sulla fiducia. No. Lo faceva solo perché la storia stava in piedi.
E quella fu l’unica cosa che gli disse in tre giorni.
Andò a passeggiare da sola, fece movimento in piscina da sola, gli chiese se poteva mangiare in camera da sola, perché non stava bene.
E Gajeel la lasciò fare, perché credeva che le servisse tempo. Solo quello, tempo.
E lui le avrebbe dato tutto.
Lei, però, non era disposta a dare tutto a lui.
La sera del quarto giorno, a cena, parlò di nuovo.
- Ho visto le nostre foto. Eravamo felici, vero?
- Molto – rispose lui, ingollando i sentimenti con il boccone che stava masticando.
C’erano arrivati. Stavano per ricominciare, insieme.
- Però io non ricordo nulla.
- Già. Ma con il tempo, mag…
- No, Gajeel. Scusami. Davvero, non so come dirti questa cosa. Io… capisco che mi ami, sul serio. Te lo leggo negli occhi. Ma la ragazza che pensi che io sia è morta ormai tre anni fa, quando ha unito se stessa a quel mostro assassino. Io non ho più ricordi. E senza ricordi non sono quella che amavi.
Gajeel non mosse un muscolo, non strinse nemmeno i pugni a causa della tensione. Era diventato una statua.
- Ho bisogno di ricominciare, di riscoprire chi sono. E ne hai bisogno anche tu. Qui dentro non posso farlo.
Era finita. Gajeel lo seppe ancora prima di sentire quelle parole lasciare la sua bocca per trafiggerlo al cuore.
Era finita.
- Voglio andarmene, Gajeel.




MaxB
Ooooooook *si nasconde*. Non uccidetemi. Vengo in pace.
Circa.
Sì, so che il capitolo è cortino e sì, so che sono bastarda, ma c'est la vie. E la vie non è tutta rosa e fiori, sapete? Potrei morire questa notte e basta, sarebbe finita lì. Penso che questa notte non morirò, comunque.
Sono sveglia dalle 4 di mattina quindi deliro ahaha.
Ma comunque.... - 2 capitoli e bye bye The Ghost.
Metterò il mio primo flag su Storia completa. Penso che mi commuoverò.
A presto, fatemi sapere se vi piace o no questo capitolo osceno ahahahah.
MaxB

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Capitolo 14 - Epilogo ***


Epilogo
Quando vivere non ha più un senso



 
Levy fu pronta per la partenza una settimana dopo.
Aveva preparato i bagagli, dove aveva messo tutti i suoi vestiti e alcuni dei libri che aveva letto e che erano diventati i suoi preferiti, in quella nuova vita.
Gajeel aveva sbirciato, di nascosto, mentre disfaceva l’armadio, e aveva sentito il suo cuore svuotarsi come quel mobile, lentamente e inesorabilmente.
Non avevano parlato molto in quella settimana. Polyushika era venuta a salutarla, le aveva preparato alcuni unguenti medicinali nel caso in cui avesse sentito male a qualche muscolo o articolazione, e le aveva augurato buona fortuna.
Gajeel pensò che, a modo suo, Polyushika era stata dolce. Lo negava, ma si era davvero affezionata a quella ragazza che aveva curato per molto tempo. E che, le andava riconosciuto, aveva contribuito alla salvezza di Fairy Taill, ponendo fine alla minaccia di Acnologia.
Gajeel cercò a più riprese di parlare a Levy, di convincerla, di persuaderla che potevano tornare ad essere felici come un tempo, insieme. Potevano riscoprirsi a vicenda, iniziare una nuova storia.
Ma Levy fu inamovibile, certa del fatto che in quel modo Gajeel si sarebbe solo ferito. La ragazza che lui cercava era morta da tempo, glielo ribadiva sempre, ma questo non rendeva certo più dolce il boccone di veleno da ingollare.
La sera del sesto giorno gli comunicò che sarebbe partita l’indomani, senza aspettare oltre. Si sentiva soffocare dai ricordi non suoi e non gli aveva dato la notizia con un grande preavviso per evitare sue ulteriori pressioni.
Levy pianse quando glielo disse, perché anche se non era più la sua Levy, quella di cui Gajeel si era innamorato, restava pur sempre buona come il pane, e dagli album di foto e dagli atteggiamenti di Gajeel aveva capito che l’amore che avevano condiviso era quello che si trova una sola volta nella vita.
Ma lei non poteva farci nulla, non voleva stare in quella casa troppo vecchia a cercare di essere all’altezza della persona che era stata un tempo e che non sarebbe più tornata. La vita le stava dando una seconda chance quando in realtà sarebbe dovuta morire, e lei non l’avrebbe sprecata.
Gajeel non fece niente tutto il giorno, restò sdraiato sul divano a fissare il soffitto mentre Levy andava in giro per casa per ammucchiare i suoi effetti, depositandoli nelle valigie che poi sistemò nell’ingresso di casa. Gajeel si alzò solo per bere e andare in bagno, e per cucinare, anche se lui di tutto il cibo che preparò non toccò niente. Levy si fece un panino sia a pranzo che a cena e scappò in camera.
Era così vigliacca da non avere nemmeno la forza di guardare a viso aperto il ragazzo che stava distruggendo.
Gajeel non la vide mai quel giorno, e forse era meglio così, o forse era terribilmente sbagliato. Lui, se avesse potuto, avrebbe goduto di ogni istante in sua compagnia, anche se lei non lo avesse considerato. Voleva solo sentire accanto a sé la sua presenza, viva, il suo calore, e illudersi che fosse la stessa di sempre.
La sera, prima di andare a dormire, bussò in camera sua.
- Che c’è? – chiese una voce irritata al suo interno.
Levy non era mai stata sgarbata, mai. Men che meno con lui. E Gajeel non sapeva che anche a lei faceva male pronunciare con finta nonchalance quelle parole piene di astio. Perché lei veniva colpita dall’ingiustizia quanto lui.
- Posso… posso entrare? Non voglio insistere, devo solo dirti una cosa finanziariamente importante.
Levy prese un respiro profondo e in fretta e furia nascose la foto su cui aveva pianto negli ultimi minuti. La foto ritraeva lei, una se stessa in cui non si riconosceva, mentre leggeva un libro sotto un albero in fiore. Molto probabilmente era il ciliegio che aveva visto passeggiando, quello di cui Gajeel le aveva sempre parlato. Nella foto stava indicando alla telecamera di fare silenzio, perché sulle sue gambe giaceva la testa di Gajeel, profondamente addormentato, con Lily acciambellato sul suo ventre. Era l’unica foto in cui il ragazzo era visibilmente rilassato, e il cipiglio che lo contraddistingueva sembrava essere stato cancellato con photoshop.
Levy l’aveva fissata ogni notte prima di dormire, strappandola agli album di fotografie. Si addormentava con la foto tra le dita e la mattina dopo si affannava per cercarla. Era tutta sgualcita, ma non le importava, perché il sorriso che aveva dipinto sulle labbra sembrava amore puro. Levy aveva passato diverso tempo davanti allo specchio, ma non era riuscita ad imitare quel sorriso. Aveva sperato di sognare quel ricordo, quel pomeriggio tranquillo passato a leggere con un ragazzo che russava.
Ma la memoria non era migliorata, e la sua speranza di tornare ad essere la ragazza innamorata della foto era sparita per sempre.
- Entra pure – disse, dandosi da fare per sembrare indaffarata.
- Scusa se… disturbo – mormorò Gajeel grattandosi la testa, a disagio sulla soglia della camera che per lungo tempo era stata anche sua.
- Vorrei andare a letto presto, dimmi – lo incalzò lei, avendo cura di nascondere bene gli occhi.
- Ah, sì. Ehm… ho parlato con Makarov prima della sua… dipartita. Makarov era il nonno… cioè il proprietario del castello. Aveva lui i soldi, insomma. Mi ha fatto sapere cosa devo fare per entrarne in possesso e dove trovare il testamento. Essendo l’unico vivo il… patrimonio era automaticamente passato a me, ma dato che ci sei anche tu e che… stai andando via…. Io…
Levy si bloccò. – Mi stai dando metà patrimonio?
- Non sono io che te lo sto dando. È già tuo – rispose Gajeel. – Ho comprato un cellulare nuovo e… se vuoi posso darti il mio numero così appena avrò sistemato la questione del testamento potrai chiamarmi e… senza venire qui io… sì, insomma, posso darti i soldi. Non penso che tu voglia la casa, giusto?
La ragazza scosse la testa e piegò per la decima volta una maglia già perfettamente piegata.
- Tutto qui? Be’, grazie per l’onestà.
- Sì… - borbottò lui. Poi indugiò sulla porta, e Levy si irrigidì involontariamente. - Senti, io…
- Mi dispiace Gajeel, devo proprio andare a dormire. A domani.
Levy lo spinse fuori e, una volta chiusa la porta, si appoggiò ad essa con la fronte e si tappò la bocca per non farsi sentire. Le lacrime le inzuppavano le dita e cadevano al suolo come piccole bombe, chicchi di grandine proveniente dal suo cuore freddo e vuoto.
- Ti amo, Gajeel – sussurrò, conscia del fatto che era vero, probabilmente, ma che nessuno dei due avrebbe potuto far nulla in proposito.
Voleva solo sentire come suonavano quelle parole sulle sue labbra. Chissà quando la Levy del passato gli diceva che l’amava, in che circostanze. E chissà come reagiva lui.
Trattenendo i singhiozzi a stento, si trascinò fino alla finestra e fissò le stelle, che immerse nel buio del bosco splendevano con forza inaudita.
In due parti diverse della casa, senza saperlo, chiusi nel loro dolore e nella loro incapacità di vivere, Levy e Gajeel guardavano lo stesso, identico cielo.
Solo che lo guardavano da due angolature diverse, e sembravano due cieli divisi.
 
Gajeel quella notte non chiuse occhio, letteralmente. Lily dormiva placidamente accanto a lui, come nel passato lontano che ormai sembrava appartenere ad un’altra persona.
Quando riusciva ad assopirsi, uno scricchiolio o un refolo di vento lo svegliavano, e lui rizzava le orecchie temendo una fuga improvvisa di Levy.
Voleva, doveva, almeno salutarla, ma non sapeva cosa aspettarsi da quella nuova persona che viveva nel corpo della donna che amava.
Così restò vigile, attento a captare ogni scricchiolio rivelatore, ma niente gli suggerì che Levy fosse già partita.
La mattina arrivò troppo presto, mentre la nebbia della nuova primavera si faceva largo nel bosco, permeando ogni cosa. Era già passato un anno e mezzo da quando era tornato a vivere nel castello, nella sua vera casa. Sembravano passati secoli, oppure solo pochi giorni.
Quando Gajeel uscì dalla camera, Levy fece lo stesso, e si ritrovarono fermi in mezzo al corridoio, a scrutarsi, senza ben sapere cosa fare.
- Ciao – disse Levy, in un modo che suggerì a Gajeel che se avesse potuto fare a meno di salutarlo, lo avrebbe fatto.
- Ehi – rispose lui, con un briciolo in più di convinzione. Tutta la forza che lei gli aveva lasciato. Praticamente nulla.
- Preparo la… colazione buona? – chiese lui sorridendo, ricordandosi di quando lei lo svegliava chiedendogli proprio quello, di avere una ‘colazione buona’. Non gli aveva mai spiegato cosa fosse, però.
- Oh, no. Grazie. Parto subito, non ho molta fame. Magari mangerò qualcosa dopo…
Levy strinse convulsamente le cinghie della borsa che aveva a tracolla, e si trascinò dietro la valigia mentre avanzava verso le scale. Imboccò i primi gradini che trovò, scendendo dall’altra parte rispetto a Gajeel. Era la prima volta che venivano usate le due rampe contemporaneamente. Lui e lei erano sempre saliti e scesi dalla stessa scala, insieme.
La loro imminente separazione sembrava concretizzarsi lì, in quel momento, con Levy che scendeva e Gajeel che, dall’altra parte, la osservava impotente, con le mani calate bene in tasca.
Dalla parte opposta. Lontane, le due estremità. Lontani, i loro cuori. Il loro futuro insieme… lontano.
Pantherlily sbucò dalla sala da pranzo miagolando, e trotterellò verso Levy sedendosi ai suoi piedi. La giovane sorrise al gatto e, posando l’ultima valigia vicino alle altre, si chinò per accarezzare il micio. – Ehi, amico – mormorò, consapevole del fatto che Gajeel le si stava avvicinando in silenzio. – Prenditi cura di… di questo posto, va bene? Sono certa che lo farai.
Lily le leccò le punte delle dita, per poi alzarsi e andare a strusciarsi contro le gambe di Gajeel, che se ne stava fermo come una statua a fissare il pavimento, le mani in tasca.
Levy si alzò lentamente e, per una volta, lo osservò. Lo guardò davvero.
Con le grandi mani nascoste nei pantaloni, lo stile che lei avrebbe riconosciuto ovunque come suo, il groviglio di capelli corvini che lo rendevano simile ad un mal riuscito tentativo di civilizzare un selvaggio, la stazza imponente e i muscoli ben definiti, i piercing che brillavano sotto alla chiara luce delle candele.
Lo aveva amato, lo aveva amato tanto da essere disposta a sacrificare se stessa pur di salvarlo. Ma il suo sacrificio le aveva chiesto in cambio un prezzo troppo alto.
- Io, allora… ehm… - farfugliò lei, infilando una mano nella tasca della giacca leggera. Le sue dita strinsero la foto consunta che era diventata il suo cammeo, il suo aggancio al passato, il suo disperato tentativo di ricordare una storia d’amore a cui desiderava prendere parte. Fu la foto a darle coraggio.
- Grazie, Gajeel. Davvero, hai fatto per me più di quanto avrebbe mai fatto chiunque. E… mi dispiace ripagarti così, ma io… davvero, io… - balbettò, mentre le lacrime la deridevano e minacciavano di sopraffarla.
- Non… - la interruppe Gajeel, sospirando. – Non fa nulla.
Quante bugie possono contenere tre parole?
A volte le frasi più brevi sono le più menzognere di tutte, ci traggono in inganno facilmente mentre la verità viene occultata da poche lettere.
“Come stai?”
“Bene”. Quattro lettere. Un mondo di bugie. La falsità più grande del mondo.
Levy strinse i pugni, accarezzò la foto di nascosto e si avvicinò a Gajeel, alzandosi sulle punte dei piedi per lasciargli un bacio d’addio sulla guancia.
Sorpreso dalla sua vicinanza, il ragazzo girò la testa di scatto, una scintilla insopportabilmente dolorosa dipinta negli occhi: speranza. L’ultima.
I loro respiri si mescolarono, i loro occhi si incrociarono e le loro bocche si fermarono a pochi millimetri di distanza. Come i loro cuori.
Levy si ritrasse, impaurita, quando si rese conto che stava per baciarlo sul serio, e si schiarì la voce per cercare di darsi un tono. Il momento era passato, e non sarebbe più tornato.
- Addio, Gajeel. Scusami, grazie, ti auguro una vita felice e soddisfacente.
Il ragazzo annuì, fissandola intensamente. Non voleva, non lo voleva assolutamente, ma sapeva che quell’immagine si era già impressa a fuoco nella sua mente e sarebbe tornata a salutarlo ogni notte fino alla fine della sua insignificante esistenza. Il suo incubo peggiore. La partenza di Levy.
Silenziosa come il fantasma che era stata, Levy portò le valigie sul portico d’entrata e Gajeel la sentì chiamare un taxi.
Non c’era più niente da fare, aveva perso tutto. Con il cervello vuoto, decise di approfittarne per andare a recuperare la notte passata insonne. Finché il cervello fosse rimasto in stato di incredulità e mancanza di accettazione, forse sarebbe riuscito a dormire.
Così Gajeel prese Lily e si diresse verso le scale, girando le spalle all’entrata.
Girando le spalle a Levy.
 
Il taxi sarebbe arrivato dopo mezz’ora perché la città di Magnolia, di cui a quanto pare il vecchio Makarov era stato un tempo proprietario, era completamente disabitata, e dunque priva di qualsivoglia servizio.
Levy si sedette su una panchina, in attesa, ma era troppo inquieta per riuscire a fare alcunché.
Lasciò vagare lo sguardo per il giardino, soffermandosi sulla stradina che Gajeel aveva ripulito per permettere l’accesso alle macchine. Macchine che nessuno ormai possedeva più, in quella casa. Però sarebbe tornata utile per il taxi, e Levy non avrebbe dovuto trascinare le valigie nel bosco. Ancora non sapeva cos’avrebbe fatto. Probabilmente si sarebbe fermata in un hotel qualche giorno, a fare ricerche in merito a quel mondo che non conosceva: chi governava, che cosa stava succedendo, guerre, innovazioni. Così tante cose erano state perse in quegli anni.
Di fianco alla stradina, l’orto che lei e Gajeel avevano ripiantato stava germogliando, e già qualche pianta iniziava a dare i suoi frutti. L’idea era venuta al ragazzo che, stanco di dover sempre uscire di casa e fare un sacco di strada per procurarsi verdura fresca, aveva usato la scusa dell’orto per far fare esercizio a Levy. Sembrava una presa in giro, all’inizio, ma l’aria fresca, l’attività fisica lieve e il contatto con la natura l’avevano davvero aiutata a riprendersi. Avevano lavorato in silenzio, e Levy era sempre stata consapevole degli sguardi che Gajeel le lanciava, senza nemmeno premurarsi di nasconderli.
L’amava così tanto da ferirsi da solo.
Sospirando, Levy si alzò e si appoggiò al parapetto del portico. La primavera era davvero clemente con il castello, donando gioia ai quei muri grigi con gli alberi in fiore e la vivacità dei colori.
La ragazza si soffermò a ripensare a tutta quella storia di cui lei era stata protagonista senza nemmeno saperlo. Posseduta. Usata. E poi svuotata.
Il tutto per colpa di una spada. Spada che, per altro, non aveva mai visto.
Gajeel, quando le aveva fatto fare il tour della villa, mostrandole angoli segreti e quadri dei suoi vecchi amici, non le aveva mai fatto vedere l’armeria di cui le aveva parlato. Da quanto aveva capito, però, era vicino alla lavanderia, e vi si accedeva attraverso la sala giochi.
Chissà perché Gajeel non l’aveva mai portata lì. Probabilmente per lui sarebbe stato troppo entrare in quella stanza con lei, quella stanza che era l’inizio e la fine di quella tragica avventura. E forse sarebbe stato troppo anche per lei.
Però voleva vederla. Doveva.
Prima di sparire per sempre, voleva toccare quella Spada con cui si era maledetta e con cui Gajeel l’aveva salvata.
Levy aprì la porta d’entrata silenziosamente, ed entrò nell’anticamera. Attenta a non far rumore, aprì una delle due porte che conducevano al soggiorno, al salone, e si accertò della mancanza di Gajeel. Doveva essere tornato a letto.
Levy si diresse a sinistra e varcò la porta della sala giochi, senza accendere le luci. Fuori la luce era abbastanza forte da illuminare gli ambienti, ma la sala giochi era stata progettata per avere poche finestre dal momento che fungeva anche da sala cinema. Chiudendo gli occhi, la ragazza lasciò che fosse il suo corpo a guidarla: il suo subconscio conosceva quel luogo, sapeva dove andare e cosa fare. Svuotò la mente e lasciò liberi i suoi piedi. Dopo alcuni istanti aprì gli occhi e scoprì di essere arrivata in fondo alla sala. Nella penombra poteva scorgere la porta della lavanderia, sulla sinistra, e a destra una porta pesante e intagliata.
Senza esitare, Levy si avvicinò e l’aprì, spingendola con forza.
L’ambiente era cupo e completamente buio, ma un bagliore si diffondeva nella stanza partendo da un puto proprio davanti all’entrata, davanti al tavolo dove il corpo Levy aveva giaciuto tutto quel tempo.
Meccanicamente, la ragazza allungò una mano e accese l’antiquato lampadario che pendeva dal soffitto. L’armeria era pulita e i pavimenti ancora profumavano di detersivo: Gajeel doveva averla pulita da poco. Le lame delle armi che splendevano sui muri, gloriosi, riflettevano la luce creando piccoli caleidoscopi luminosi, e Levy ne rimase incantata.
Si diresse lentamente verso la teca che, da quanto le aveva detto Gajeel, conteneva la Spada dello Spirito, aggirando il tavolo di cemento che la inquietava.
L’arma era adagiata su un cuscino rosso dentro ad una teca di vetro oblunga che sembrava essere stata scavata dall’interno, e non plasmata su misura. La lama era nascosta, al sicuro dentro il fodero blu, ma le decorazioni erano così ben fatte da far sembrare fodero ed elsa un unico gioiello blu e argento.
Era una delle cose più belle che Levy avesse mai visto. L’arma sembrava chiamarla a sé, invitarla a toccarla, e… respirare.
La vita di Mastro Zeref era ancora lì dentro, probabilmente, pronta a fare del bene a chiunque avesse reputato degno.
La luce sacra della Spada si rifletteva negli occhi puri di Levy, facendoli brillare, e la ragazza allungò le dita per sollevare la teca. Le parve di sentire un sospiro, così si guardò intorno, spaventata.
Ma in quella stanza c’era solo lei.
Trattenendo il respiro, prese coraggio e allungò l’indice per percorrere con il polpastrello gli intarsi argentati di quella meraviglia.
Levy si sentì bene, si sentì bene dopo… anni. Chiuse gli occhi e sorrise, e senza pensare prese il fodero e lo fece uscire dalla teca. Impugnando l’elsa della Spada, la sfoderò, perché voleva sentire…
Voleva sentire l’effetto che faceva tenere in mano l’arma con cui si era condannata. Peso, forma, dimensione.
Era pesante, ma nel giro di qualche secondo la sentì più leggera, più corta, perfetta per lei. Che fosse solo una sua impressione?
E poi successe.
Successe nel momento in cui si portò la lama di fronte al naso, per osservarne la lucentezza.
I suoi occhi incontrarono il suo riflesso nella lama lucida e liscia, e Levy li vide spalancarsi.
Fodero e Spada colpirono il pavimento con un tonfo cristallino, ma lei non se ne accorse.
Chiuse forte gli occhi e iniziò a tremare, abbracciandosi.
Un respiro strozzato le uscì dalla gola, e quando riaprì gli occhi pieni di lacrime, calciò la Spada inavvertitamente e scappò da quella stanza.
Scappò via senza più voltarsi indietro.




MaxB
Chiedo scusissima per il capitolo molto corto. Mi rifarò con il prossimo.
La verità è che questo cap sarebbe dovuto essere parte di quello precedente, ma ho voluto tenervi sulle spine perché sono una persona cattiva.
E voglio tenervi sulle spine pure ora muahahaha.
Scherzi a parte, se penso al fatto che questo è il penultimo capitolo, rabbirividisco.
Questa storia ha rappresentato moltissimo per me, ed è la prima e unica storia che per ora ho concluso. Sono riuscita a dimostrare a me stessa che se voglio, posso concludere le storie, perciò ora mi rimboccherò le dita (?) per LNVI, perché metterò il flag "storia conclusa" anche su quella, dovessi morire.
Grazie a chi mi ha seguita fino a qui e a chi lo farà anche lunedì prossimo.
A presto!
MaxB

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Capitolo 15 - Epilogo del Prologo ***


Epilogo del prologo
Il futuro... nonostante tutto

 
 
Come in una vecchia fiaba per bambini, la mezzanotte scoccò proprio nel momento in cui l’uomo finì la storia.
Il respiro di una ventina di bambini si bloccò, il fiato sospeso, in attesa.
La donna che era rimasta raggomitolata su di lui tutte quelle ore, immobile, mosse le dita e allentò la morsa sulla mano del marito. Avevano tenuto le dita intrecciate per tutte la storia, per assicurarsi di essere loro due insieme, per sempre e sempre, e che non si sarebbero mai più separati. Per nessuno motivo.
- Master? – chiamò una vocina sottile.
Gajeel aprì gli occhi, di un liquido rosso che sembrava un mare in tempesta. Levy se ne innamorava ogni volta che li guardava, perché la scaldavano dentro anche quando il gelido passato minacciava di sopraffarla.
- Dimmi, Kinana – rispose lui, addolcendo la voce.
Gli occhi di numerosi bambini erano fissi su di lui, ancora rapiti, mentre altri erano spaventati. Le bambine più dolci invece piangevano, spaventate all’idea della mancanza di un lieto fine in quella storia d’amore.
Anche la piccola Kinana piangeva. – La storia finisce così? Ma Levy è scappata? Perché? Lui l’amava! – disse, la voce rotta.
Gajeel ghignò, un ghigno diverso da quello che aveva quando era un ragazzo libero, senza responsabilità. Era la sua versione di un sorriso rassicurante, e i suoi bimbi erano abituati a vederlo.
- Levy ha ritrovato la memoria? – chiese uno dei pargoli più discoli, che ogni tanto Gajeel chiamava erroneamente Natsu, facendolo infuriare. Era rimasto zitto per tutto il racconto, non aveva nemmeno commentato. Forse perché aveva capito quanto quella storia toccasse il Master e sua moglie.
- Perché la mamma è scappata quando ha visto la Spada? – intervenne Emma, la figlia dei due. – Eravate davvero voi, vero? Non è inventata questa storia?
- Non è inventata, Emma – rispose dolcemente la madre, asciugandosi una lacrima solitaria.
- Ma io non ho mai visto l’armeria! – esclamò un altro bambino, mentre gli altri annuivano.
Gajeel ghignò nuovamente. – Credeteci o no, io so che è vero. Levy ha davvero una cicatrice sul cuore, le mie braccia e il mio fianco li avete sempre visti, attraversati da tagli profondi. Polyushika la conoscete bene e i ritratti appesi vicino alle porte di ogni camera sono i nostri vecchi compagni, i nostri fratelli.
I bambini restarono zitti dopo quel commento, e aspettarono.
- Allora la storia la volete sapere? O volete immaginarvi voi la fine? – intervenne Levy, baciando il marito sulla guancia per poi seppellire il viso nel suo collo.
Un bambino, uno dei più svegli e vivaci, ridacchiò e commentò: - Hanno fatto sesso – facendo ridere tutti gli altri.
- Ehi – ringhiò Gajeel. – Vi ho detto che quelle cose si fanno solo a venticinque anni, quindi non parlate di cose che non sapete, marmocchi!
Levy gli scoppiò a ridere sul collo, facendogli il solletico. Forse, dopo quel commento, Gajeel avrebbe preso in considerazione la sua idea di fare un po’ di educazione sessuale ai bambini, anche se erano ancora piccolini. Almeno le basi!
Fortunatamente, comunque, lui aveva taciuto le parti più cruente del racconto, per non spaventare i bambini, e di conseguenza aveva omesso anche parte delle loro interazioni. Certe cose non andavano mai raccontate, specie a dei ragazzini fantasiosi sulla soglia della pubertà.
- Racconta la fine, papà! – lo incalzò Shutora.
- Ah… – sospirò lui – Va bene. Però poi tutti a letto, domani avete scuola!
- Domani è domenica – bisbigliò Levy, sempre con il naso sul suo collo.
- Li mando a scuola lo stesso così noi abbiamo la casa per noi.
Levy ridacchiò e gli tirò un pugno scherzoso, grata per il futuro che le era stato donato.
Nonostante tutto.
 
Mi rigiro nel letto senza riuscire ad addormentarmi, anche se sono così stanco da poter letteralmente morire di sonno. Fisso il soffitto, in attesa di sentire il taxi che arriva e Levy che se ne va, portando via con sé il mio futuro. Il nostro futuro.
Non voglio pensare a quello che succederà, non voglio pensare a ciò che farò della mia vita ora. Non ho la forza di pensarci.
- Gajeel…
Sono così devastato e vuoto che mi pare di sentire la voce di Levy chiamarmi, i suoi passi che risuonano per le scale e l’eco dei suoi singhiozzi. Sono così irrimediabilmente perso?
Che senso ha avuto tutto questo?
- Gajeel…!!
Basta, basta!
Mi premo il cuscino sulla testa e stringo i denti. Fino a quanto continuerò a sentire la sua voce?
Poi però la porta di camera mia si spalanca e sbatte contro il muro, mentre il materasso del letto ondeggia e scricchiola quando un peso ci si getta sopra.
- Ma che…?! – esclamo, gettando via il cuscino, prima di essere interrotto.
Levy mi ha placcato e, singhiozzando disperata, mi ha praticamente sbattuto a letto, sdraiato, con lei sopra.
- Che diamine…?!
Ma lei non reagisce e continua a singhiozzare, le braccia serrate attorno al mio collo e le lacrime che scendono e mi inzuppano la canottiera che porto per dormire.
- Gajeel, Gajeel, non posso… oh, Gajeel – biascica lei, in continuazione, dondolandosi su di me.
La mia vita può diventare più assurda di così?
- Levy calmati, che succede? Non passa il taxi? – le chiedo bruscamente mettendomi a sedere, e tirandola su con me.
- Gajeel, perdonami. Perdonami…
- Ehm… sì. Io ti… cioè, insomma, sarà difficile, ma non posso costringerti a restare e…
- Stai zitto un po’ – mi intima, ma per un breve momento mi pare di sentirla ridere.
È completamente andata via di testa, vero?
Invece lei allontana il viso dalla mia spalla e mi guarda sorridendo, asciugandosi le lacrime con i polsi. Mi fissa, e mi pare di intravedere qualcosa dei suoi vecchi occhi. Qualcosa che non vedevo da tanto, troppo tempo.
- Ti amo, Gajeel, ti amo ti amo ti amo, per sempre – mi rivela prima di baciarmi.
Baciarmi.
Nello stesso, identico modo in cui mi baciava in passato, quel modo tutto morsi e coreografie che abbiamo collaudato in mesi e mesi di rapporto. In quel modo che solo la mia Levy può ricordare, non Acnologia, non la Levy senza memoria. Solo Levy.
Io rispondo al bacio prima di chiedermi cosa diavolo stia succedendo, perché non so quanto durerà il momento di follia della ragazza che mi sta praticamente tenendo in ostaggio.
Poi potrò farmi tutte le pare mentali che voglio, piangermi addosso e buttarmi giù dal tetto, ma dopo.
Ora non voglio rovinare questo momento, forse l’ultimo che mi è rimasto.
- Ti amo, Gajeel, ti amo, ti amo… - continua a mormorare tra un bacio famelico e l’altro, quasi a corto di fiato.
Sto per risponderle che la amo anche io, da troppo tempo, ma mi blocco.
Mi ama.
Mi ama?!
- Levy! – esclamo, prendendola per le braccia e allontanandola da me. Le brillano gli occhi, e non solo per le lacrime. Ha le guance arrossate e sorride e giuro che è in tutto e per tutto uguale alla ragazza di cui mi sono innamorato, e che un tempo mi ricambiava. – Cosa significa che mi ami?
- Significa che ti amo, stupido Gajeel! – ride lei, come se fosse una cosa ovvia. Mi abbraccia ancora e mi bacia di nuovo, ma lentamente, assaporando ogni contatto, ogni tocco delle nostre labbra. Sono state poche le volte in cui ci siamo baciati così, donando all’amore il senso del tatto, creando con le nostre labbra l’Amore. Pochi momenti, speciali, intensi.
- Levy, sei tu? – bisbiglio, pronto a sentire il rumore del mio cuore che va in mille pezzi.
Ma lei continua a baciarmi come se fosse il nostro ultimo bacio, e la sento sorridere contenta sulla mia bocca.
- Sono io, Gajeel – sussurra a sua volta quando si stacca, fissandomi negli occhi e asciugando con i pollici le lacrime che non mi sono nemmeno accorto di aver versato. -  Sono io, sono la tua Levy, e non me ne andrò mai più. Mai. Più.
Mi abbraccia di nuovo, mi stringe a sé mentre le mie braccia se ne stanno inerti lungo i miei fianchi, incapaci di reagire agli stimoli del cervello.
Forse perché il cervello è andato in pausa.
Levy è tornata. È lei, è davvero lei. È qui con me e non se ne andrà più.
Mai più. Per sempre.
Finalmente le mie braccia la circondano e inizio a dondolare, cullandola al mio petto, mentre scoppio a piangere come un bambino.
Ma non me ne frega niente. Perché quest’avventura orribile ha finalmente un lieto fine e la mia vita ha di nuovo un senso.
Non me ne frega niente di nulla.
Levy è tra le mie braccia, è con me, è vera, e io piango tutto il dolore che non sapevo di aver accumulato in quest’anno e mezzo trascorso al castello. O nei due anni vissuti senza memorie.
Piango con Levy perché siamo finalmente insieme, e il mio cuore pieno di amore e gioia non può più tollerare il dolore.
Non c’è più spazio per la sofferenza dentro di me.
Spero che non ce ne sia mai più.
 
Trascorriamo la giornata a letto, abbracciati, in silenzio. Ogni tanto lo schiocco di qualche bacio riempie l’aria, e la risatina sommessa di Levy mi scalda il cuore. Abbiamo pianto insieme per un tempo che mi è parso interminabile, finché i nostri animi si sono calmati e i nostri baci sono diventati un conforto invece che un tentativo estremo di scacciare la disperazione.
Sospiro mentre fuori inizia a piovere, e seppellisco il viso nei suoi capelli, in quell’angolino di collo che è sempre stato il posto preferito del mio mento. Tornare a respirare il profumo direttamente dalla sua pelle è come riempire i polmoni di ossigeno dopo essere quasi annegati: liberatorio, necessario.
Lei ridacchia quando strofino le labbra sul suo collo, e si muove per intrecciare le gambe nude alle mie. Non so per quale motivo non ci siamo saltati ancora addosso. Il mio autocontrollo aveva iniziato a dissolversi quando Levy si è spogliata, ma la sua fuga sotto le coperte con me mi ha fatto desistere.
Forse ci sembra tutto troppo irreale per lasciarci andare completamente, ancora.
- Vado a preparare il pranzo – bisbiglia lei dopo un po’, penetrando nella nebbia che mi obnubila la mente.
Non mi ero accorto di essermi assopito. Del resto, è così rilassante starle accanto. Potrei morire felice, sul serio, tra le sue braccia. Nessun rimpianto. Solo calore.
Ma ovviamente questo non traspare, e io le afferro rudemente il polso quando lei si alza per uscire dal letto. – Ho appena pulito la casa, non vorrei che tu la facessi saltare in aria.
- Scemo, preparo solo dei panini. In questi mesi non hai fatto altro che lavorare per me.
Grugnisco un assenso e me la mangio con gli occhi mentre lei esce fuori dalle coperte e si infila la mia maglia, che le sta larga eppure copre proprio i punti che mi interessa vedere.
Lei intuisce i miei pensieri e mi fa l’occhiolino prima di uscire dalla camera e dirigersi in cucina.
Ho paura che non torni. Ho paura che sia solo un sogno, e che quando aprirò gli occhi scoprirò che il taxi se l’è portata via.
Per distrarmi fino al suo ritorno mi metto a sistemare i vestiti che ha abbandonato per terra. Nessuno ci credeva quando dicevo in giro che quello ordinato ero io. Levy è maniaca solo con i libri, per il resto può vivere nel più completo casino.
Le piego gli abiti e, quando prendo in mano la maglia, cade per terra un foglio.
No, non un foglio.
Mi chino a raccogliere la foto che ci ritrae, quella foto che non mi ero accorto mancasse dall’album.
Una delle mie foto preferite, con me che dormo sulle gambe di Levy dopo averle concesso di leggere, ore prima, la fatidica “ultima pagina”. Come sempre. Il ciliegio in fiore e Lily che dorme sul mio ventre perdono la loro bellezza quando guardo Levy, che sorride e ordina il silenzio a chi sta scattando la foto, così da non disturbarmi.
Fino a poche ore fa pensavo che non avrei più visto quel sorriso sul suo volto.
Invece è di nuovo mio, solo mio, finché morirò.
Quando, diversi minuti dopo, Levy rimette piede in camera e appoggia un vassoio con piatti e cibo sul comodino, io sono ancora fermo, chinato per terra, ad assorbire ogni dettaglio di quella foto sgualcita per farla diventare parte di me, impressa nel cuore come se fosse quel pezzettino di carta a farmi scorrere il sangue nelle vene.
- Gajeel… - mi riscuote Levy posandomi una mano sulla spalla, abbassando la schiena per osservare ciò che sto guardando.
Non mi serve guardarla per sapere che è arrossita.
- Oh… l’ho tenuta con me perché speravo che mi aiutasse a, sì, recuperare i ricordi. Ho sperato ogni minuto di ogni giorno di poter ricordare chi eravamo, Gajeel, perché si vede dalle foto che ci amavamo tantissimo. Ma non è mai successo nulla, né un flashback né un sogno, e io non potevo continuare a vivere qui, dove un tempo un’altra me era stata felice. Mi faceva paura.
Volto lo sguardo e mi scontro con i suoi occhi, così vicini al mio viso. Sono sinceri, come sempre, e non hanno segreti per me. Non ne hanno mai avuti.
Lascio cadere la foto e la bacio, ma non come prima. Lei percepisce la mia urgenza, il mio desiderio, il mio estremo bisogno di sentire che è tutto vero, e mi asseconda senza esitare. Forse, è quello di cui ha bisogno anche lei.
Nel momento in cui lei si sdraia sul letto e mi fissa con gli occhi pieni di fiducia, mi salgono di nuovo le lacrime agli occhi. Mentre la fisso dall’alto, la sua mano si posa sulla mia guancia e lei sorride mentre due perle le scivolano ai lati degli occhi.
- Sono tua, Gajeel – mi sussurra, accarezzandomi lo zigomo con il pollice. – Sono tua.
La paura mi assale come durante la nostra prima volta, così mi sdraio di fianco a lei e poso la testa sul suo petto, lì dove batte il cuore.
- La mia vita ti appartiene Gajeel. La metto nelle tue mani – mi promette mentre mi accarezza i capelli, prima di posarmi un bacio sulla testa.
Sentire il suo respiro, i suoi battiti di vita, il suo calore, il suo profumo, mi calma, e quando lei volta la testa verso di me, chiedendomi se sono pronto, non sono più il ragazzo inesperto che ha paura di ferirla.
Sono l’adulto che vuole guarirla del tutto, che vuole renderla parte di sé, sotto ogni aspetto.
E lo faccio.
Lo facciamo.
Lo facciamo per ore, fino al tramonto, fino a che Lily inizia a reclamare il suo cibo, insieme ad Happy e Charle, e ci rendiamo conto che il nostro pranzo ancora intatto in realtà sarà la nostra cena.
Quando mi alzo per nutrire i gatti, Levy mi sorride, e io capisco che in realtà è stata lei a guarire me. Come sempre.
Nei suoi occhi leggo anche la tacita promessa che dopo continueremo ancora, ancora e ancora per recuperare il tempo perso, oggi, domani e dopodomani, finché potremo farlo.
Poi lei mi invita con il capo ad andare a sbrigare le mie faccende. – Sarò qui al tuo ritorno. Sempre.
Io ghigno e le rubo un ultimo bacio prima di scendere al piano di sotto.
Senza di lei non ho uno scopo nella vita.
Perché è lei la mia ragione di vita.
Questo mi rende vulnerabile, ma so che mi darà la forza di vivere al meglio ogni giorno, perché lei sarà con me.
Sì, ci sarà.
 
Mentre mangiamo in silenzio, a letto, Levy inizia a parlare di sua spontanea volontà.
Risponde a domande che mi sono fatto per mesi, dopo averla salvata, ma che non ho mai avuto l’occasione di porle, dal momento che non ricordava.
- Io ricordo tutto.
La fisso, smettendo di masticare, e blocco Lily che ha deciso di venire a mangiare nel mio piatto. Come se non gli fosse bastata la sua, di cena. – Lo so che ricordi. Nel senso, sì, che hai recuperato i ricordi questa mattina, però…
Non so più cosa dire. Capisco allora che è uno di quei momenti in cui devo tacere e basta, starmene al mio posto. Come abbiamo sempre fatto quando lei aveva bisogno di sfogarsi e io l’ascoltavo senza emettere un suono. Lei mi ringraziava sempre con un bacio alla fine, e nei suoi occhi leggevo la sua gratitudine per non essermi stancato di ascoltarla.
- Ricordo il mio passato, ma ricordo anche gli anni passati insieme a… ad Acnologia.
Non mi sorprende che lei sappia il nome di quell’essere infame, dal momento che ha condiviso con lui il corpo.
- Sono stati due anni logoranti. All’inizio, quando l’ho relegato dentro di me, ho semplicemente dormito. Prima di entrare in quella specie di coma, ho portato te in ospedale. Più o meno. Sanguinavo tanto e mi chiedevo come il cuore potesse continuare a battere. Però batteva. Ero tanto stanca, ma sono riuscita a portarti sul ciglio della strada, fuori dal bosco. Poi ho chiamato l’ambulanza con un numero privato e non ho più saputo nulla di te.
Relego il piatto sul comodino e mi sdraio posando la testa sul ventre di Levy. Lei inizia a giocare distrattamente con i miei capelli e io chiudo gli occhi, rilassandomi grazie al suo tocco.
- Tornata a casa ho iniziato a sentire male, tanto, al cuore. Ho fatto in tempo a raggiungere l’armeria e sono crollata sul tavolo di cemento, prigioniera di me stessa. Però tu eri salvo. I ragazzi, poco dopo, hanno scoperto di essere fantasmi. Li percepivo, ma non li vedevo. Mi hanno trovata e mi hanno sistemata sul tavolo di cemento. Hanno vegliato su di me, ma non c’era niente che loro potessero fare. Intanto, all’ospedale c’era Mest, il vecchio avvocato di Makarov, che ti ha riconosciuto. Hanno scoperto i cadaveri e la voce di un castello infestato da fantasmi ha fatto il giro della città. Le indagini non hanno condotto a nulla, e anche i più cinici alla fine hanno abbandonato la città. Magnolia era diventata una città fantasma. Non so per quale motivo, non so come, ma nessuno è mai entrato nell’armeria. Nessuno ha mai visto il mio corpo morente e allo stesso tempo vivo. È forse l’unica cosa che non so spiegarmi, questa.
La mia bocca ha uno spasmo, ma Levy non se ne accorge.
Qualcosa mi dice che la protettrice del castello ci ha messo lo zampino.
Qualcosa mi dice che Mavis ha salvato Levy dallo scoop e dagli esperimenti scientifici.
Mavis.
- Gli altri hanno iniziato a manifestarsi dopo che le autorità hanno seppellito i loro cadaveri nel cimitero di famiglia, nella cappella dietro la villa, nel bosco. Erano sconvolti, ma con il tempo hanno capito cosa stava succedendo. Penso che nessuno, però, lo abbia accettato del tutto. Io non potevo manifestarmi come gli altri, non ero mica morta. Però poi Acnologia ha iniziato ad agitarsi e a valutare i confini del mio corpo, della sua gabbia. Ho lottato per settimane per tenerlo a bada, ma la sua rabbia e la sua follia erano un pozzo senza fondo, e non ho potuto nulla contro la sua sete di vendetta. Debole com’ero, mentalmente e fisicamente, lui ha cominciato a fare pressione su di me. Ha forzato qualche meccanismo, non lo so, ma è riuscito a prendere forma di spirito come gli altri. È così che ha potuto nascondere la Spada, la sua unica minaccia, nel bosco, dove tu l’hai trovata. Solo che non ha contato che io ero con lui, e non gli volevo certo lasciare carta bianca. Lottavamo, le nostre battaglie mentali sono state laceranti, ma fuori dal mio corpo Acnologia era più forte. Mi prosciugava lentamente. Fu allora che mi relegò in un cantuccio della mia coscienza, annichilendomi. O così gli feci credere.
- I sogni – mormoro io.
- I sogni – conferma lei. – In qualche modo sono riuscita a raggiungere la tua coscienza e ad avvertirti. Ma era tanto difficile, Gajeel. Eravamo lontani, io ero tenuta al guinzaglio da Acnologia, e tu non ti ricordavi più di me.
- Mi sei arrivata forte e chiara – bisbiglio io mentre le sue dita leggere tracciano il contorno del mio viso, dalle palpebre, al naso fino alle labbra, che arriccio per baciarle i polpastrelli.
Non apro gli occhi, ma so che sta sorridendo.
- Per due anni ho vissuto nei tuoi sogni, anche se non sempre al mattino li ricordavi. E poi sei arrivato qui. Acnologia si è agitato perché finalmente aveva la possibilità di ucciderci tutti. Tu eri la sua occasione. Io ho lottato con tutte le mie forze e per un po’ sono riuscita ad evitare che si manifestasse a te. Ma non l’ho bloccato a lungo, e lui mi ha confinata per sempre in me stessa, sfruttando i miei ricordi per essere credibile. Non ti ha rivelato nulla di ciò che era successo alla fine perché nemmeno gli altri fantasmi sapevano di com’era andata a finire la storia, e per far sì che il teatrino reggesse ti ha logorato fino all’ultimo, nascondendoti le cose.
Mi scappa una smorfia: - Ho baciato e abbracciato Acnologia? Vado a vomitare.
Levy ridacchia, e poi mi posa un bacio in fronte: - Mi sento tradita.
Un gemito frustrato mi fuoriesce dalle labbra. Non posso crederci.
- Se può consolarti, io le ho sentite. Mi sono arrivati, i tuoi tocchi. Eravamo due spiriti fusi insieme, più densi degli altri, e ho sentito ogni tuo tocco. Grazie.
- Ho sempre saputo che non eri tu. Dentro di me lo sapevo, ma averti davanti mi disorientava.
- Posso capirlo. Inoltre Acnologia poteva accedere a tutti i miei ricordi, era difficile quindi capire che non ero davvero io.
Io annuisco, ricordando quanto il suo fantasma mi sembrasse turbato ogni volta che accennavo ai sogni su Levy.
Ho ancora gli occhi chiusi, ma li spalanco quando sento i capelli morbidi di Levy solleticarmi il viso. Giusto in tempo per vederla mentre si china su di me per baciarmi.
Io rispondo al bacio con calma, e le accarezzo una guancia. Sento di nuovo le lacrime che le solcano il viso, e mi chiedo se questa storia non abbia aperto in lei una ferita che non si potrà mai più rimarginare.
In questo caso, toccherà a me tenere insieme i pezzi di Levy. I nostri pezzi.
- Ti amo – le bisbiglio. Gliel’ho detto troppe poche volte, così direttamente. Anche se gliel’ho fatto capire in tanti modi diversi.
La sento sorridere sulle mie labbra e baciarmi più volte la guancia. – Ti amo anche io.
Non dovrò tenere insieme i pezzi della sua anima. Perché Levy è la donna più forte che io conosca.
E sarà lei a tenere in piedi me.
 
~~~~~~~~~~○~~~~~~~~~~
 
Con il tempo, arrivò anche il dolore per la perdita delle persone che Levy aveva amato. La verità la colpì come una fucilata, quando si rese conto che i ricordi di cui era rientrata in possesso non riguardavano solo la sua idilliaca storia d’amore con me, il nostro sogno.
E questo la devastò.
Per una settimana mangiò poco quanto un uccellino, perse interesse per tutto e rimase insensibile a qualsiasi cosa io le proponessi. Era così assente da non poter rispondere nemmeno ai miei baci o alle mie carezze, facendomi temere che il peggio dovesse ancora arrivare. Guardava le foto del passato, con Lucy, Kana, Mirajane, Erza e Juvia, e tutte le altre, e piangeva.
Un giorno, stanco di quel suo stato catatonico, le presi dalle mani gli album di foto e me la caricai in spalla, portandola in camera. La chiusi a chiave dentro, sordo alle sue proteste e ai suoi pugni contro la porta, e la lasciai lì un’ora.
Quando andai a liberarla, avevo ottenuto l’effetto desiderato: Levy era così arrabbiata da non riuscire a esprimersi a parole. Poche volte l’avevo vista così irata, così incapace di mettere insieme un pensiero razionale.
Nel momento in cui si avvicinò a me per spingermi via, lo sguardo carico di rabbia, la bloccai per i polsi e la baciai, stringendola a me.
Nelle ore successive, stretti a letto l’una all’altro, le mormorai a tratti parole di conforto che l’aiutarono a calmarsi.
Il giorno dopo facemmo visita alla cappella con le tombe dei membri della nostra famiglia, e versammo lacrime silenziose per coloro che erano morti precocemente e ingiustamente.
Levy si sostenne a me come ad un’ancora di salvezza, e questo mi impedì di crollare come una casa che viene demolita.
Con la coda dell’occhio vidi un lampo biondo e uno svolazzo di un vestito leggero, ma quando alzai lo sguardo non c’era nessuno.
Mavis c’era, però.
Ne sono certo ancora oggi.
 
Levy si riprese, dopo la visita al cimitero. Accettò gradualmente la morte della sua vita precedente e cominciò a guardare al futuro insieme a me. Con i fondi del Master finanziammo la ricostruzione di parte della città di Magnolia, che si ripopolò e divenne una delle mete più ambite come quartiere residenziale: poca criminalità e case pressoché nuove grazie alle ristrutturazioni.
In breve, gli affitti iniziarono a fruttare e io e Levy divenimmo i nuovi magnati della città.
Ma ci mancava qualcosa e la mia donna, come sempre, se ne rese conto prima di me. – Questa casa è troppo grande per me e te da soli – mi disse una sera, accoccolata a me sul divano.
- Non scordare Lily, Happy e Charle – le feci notare, scherzando.
Ma avevo capito benissimo cosa voleva dire. – Potremmo seguire le orme del Master e rifondare l’orfanotrofio – mi suggerì lei, seppellendo il naso nel mio collo.
Ci avevo pensato, ma temevo che lei non fosse ancora pronta.
- Vuoi rifondare Fairy Tail?
La sentii annuire contro la mia spalla.
- Che ne dici di sposarmi, prima?
Levy sollevò la testa di scatto, senza riuscire a capire se ero serio o se la prendevo in giro.
Non era una proposta romantica, non c’era l’atmosfera giusta e l’anello era ancora in camera, seppellito sotto le felpe nel nostro armadio.
Ma forse questa storia melensa dell’atmosfera giusta per fare una proposta di matrimonio è solo un cliché per ragazzine delle elementari.
Levy non avrebbe voluto una proposta diversa, e io non gliel’avrei fatta diversamente da quella. Semplice e diretta.
Come il bacio che lei mi diede dopo.
 
Ci sposammo due anni dopo la morte di Acnologia, circa cinque anni e mezzo dopo lo sterminio della Fairy Tail originale. Non avevamo nessuno con cui condividere la nostra gioia, così organizzammo una festa cittadina per inaugurare la nuova Magnolia e la riapertura dell’orfanotrofio.
I giornali parlarono per giorni di quell’evento di cui eravamo protagonisti, e le procedure burocratiche di cui Levy si occupò per la riapertura della nostra villa furono molto più veloci del previsto.
Subito dopo la nostra luna di miele, al castello vivevamo io, Levy, i nostri tre gatti e tre piccoli orfani di tre e quattro anni, due femminucce e un maschietto.
Non fu facile all’inizio, ma tre mesi dopo avevamo con noi dieci bimbi e due donne delle pulizie assunte a tempo pieno. Levy faceva l’insegnante e io ero il cuoco, e i bambini si affezionarono a noi nel giro di poco. A volte erano discoli e disobbedienti, ma non abbiamo mai dubitato del loro amore nei nostri confronti. Non espressero mai il desiderio di andarsene o di avere una mamma. Levy era perfetta in quel ruolo, e insieme a quei ragazzini la vidi diventare sempre più felice e serena.
Restò incinta sei mesi dopo il matrimonio. Emma fu un fulmine a ciel sereno, perché venne al primo colpo. Avevamo già parlato di avere dei figli, ma volevamo aspettare ancora qualche mese per permettere ai nostri orfanelli di ambientarsi. Per permettere a noi di abituarci.
Invece, per una mia svista, Levy restò incinta.
Nove mesi dopo io divenni padre, e i bambini che per noi erano come dei figli accolsero la nuova arrivata senza un briciolo di invidia per la sua situazione: lei non era orfana.
Tutti volevano vederla e i più grandicelli volevano tenerla in braccio, dato che i bambini che arrivavano erano tutti abbastanza grandini. Non avevano mai visto un neonato.
La loro gioia e il loro stupore di fronte all’arrivo di una nuova sorellina commossero profondamente me e Levy: li stavamo facendo sentire parte di una famiglia, dove nessuno era invidioso di nessuno.
Perché anche loro avevano due genitori che si occupavano di loro.
 
Levy se ne rese conto quando Emma era ancora un fagiolino di tre mesi nella sua pancia.
Una notte la sentii svegliarsi e divincolarsi dalle mie mani, avidamente posate sul suo ventre morbido e appena tondo. La seguii in silenzio mentre scendeva le scale per andare in sala giochi, e capii cosa stava facendo solo quando si fermò davanti al punto in cui, un tempo, c’era stata la porta dell’armeria.
- Gajeel, cosa…?
Lì dove un tempo c’era stata la porta, ora capeggiava un quadro di Mavis.
- Chi è questa bambina? Dov’è l’entrata dell’armeria, Gajeel? Mi è venuto in mente che per i bambini potrebbe essere pericoloso entrare qui, ma…
Fu allora che mi resi conto di non aver parlato a Levy di Mavis.
La protettrice del castello. Stava svolgendo il suo lavoro davvero egregiamente.
Levy si avvicinò al quadro e lesse la targhetta dorata appesa sotto al quadro: - ‘Per non ripetere ancora gli errori del passato’. Chi ha messo qui il quadro, Gajeel?
Levy mi vide sorridere, mentre lei, in preda alla confusione, si chiedeva cosa diavolo fosse successo.
- Levy, ti va di sentire una storia?
Lei aggrottò le sopracciglia. – No! Voglio solo sapere dov’è l’entrata dell’armeria. E la Spada dello Spirito? Io…
Mi chinai per essere alla sua stessa altezza e guardarla negli occhi, e la vidi lentamente calmarsi. – Vieni a letto con me, ti racconto una storia che parla di una bambina che protegge un castello maledetto.
Levy sembrò capire, e allora mi precedette in silenzio verso camera nostra.
Prima di seguirla osservai il quadro, e me ne andai sorridendo.
Mavis, la protettrice del castello, aveva reso invisibile l’entrata dell’armeria. La Spada avrebbe protetto per sempre il castello, nessuno avrebbe più portato l’arma al di fuori delle sue mura.
“Per non ripetere ancora gli errori del passato”.
Il quadro di Mavis mi aveva fatto l’occhiolino.
 
 ~~~~~~~~~~○~~~~~~~~~~
 
- Buonanotte Shutora – disse Levy posando un bacio sulla fronte della figlia.
- ‘Notte mammina – mormorò la piccola, ormai partita per il mondo dei sogni.
- Buonanotte mamma – bisbigliò Emma, gettandole braccia al collo quando questa le si avvicinò.
Levy cadde sul letto ridendo.
- ‘Notte piccola mia – rispose, baciandole la guancia con degli schiocchi sonori.
Fece per alzarsi e andare a salutare Yaje, nel letto lì vicino, ma Emma la trattenne per il braccio: - Mi giuri che è vera la storia che ci avete raccontato?
Levy la osservò a lungo, scrutando nei suoi occhi così simili ai suoi e a quelli di suo marito. – Te lo giuro. Un giorno ti farò vedere il cimitero che c’è dietro il castello, così conoscerai i nostri amici.
Emma annuì e strinse la mano della mamma, prima di lasciarla andare e seppellirsi sotto le coperte.
Quando si avvicinò a Yaje, il bimbo le strinse forte forte il collo, abbracciandola. – Non morire, mammina.
- No che non muoio, tesoro mio – mormorò Levy accarezzandogli i moribidi capelli celesti.
I tratti del viso erano quelli del marito, ma gli occhi e i capelli erano i suoi. Chissà come sarebbe diventato da grande, il suo piccolo Gajeel.
- Ora dormi, domani mattina è domenica e mi verrai a svegliare come sempre.
Il piccolo annuì e si accertò della presenza della gemella nel letto accanto al suo.
I tre fratelli dormivano insieme nella vecchia stanza di Gajeel, mentre gli altri bambini erano in camere singole o doppie.
Quando Levy finì di fare il giro della buonanotte in tutte le stanze, si rese conto che la storia aveva toccato profondamente i bambini. Alcuni, pensando di non essere sentiti, volevano anche organizzare squadre di investigazione per trovare l’armeria.
Ma Levy era tranquilla, perché Mavis non avrebbe mai permesso che la Spada venisse trovata.
- Ce ne hai messo di tempo – la sgridò Gajeel una volta che vide entrare la moglie in camera.
Levy sorrise tristemente e, dopo che si fu spogliata, lui aprì le braccia per accoglierla contro il suo petto.
Non glielo aveva mai chiesto, ma sapeva che condividere anima e corpo con un mostro fatto di vendetta e omicidio le aveva tolto parte della sua spensieratezza passata. Rispetto a quando era giovane e vedeva il mondo con occhi innocenti, la sua Levy rifletteva molto di più e ogni tanto si incantava a fissare il vuoto con occhi lucidi. In quei momenti, con il tempo, aveva imparato a rifugiarsi tra le braccia del suo unico punto fisso: Gajeel.
Levy, sdraiata di fianco a lui, alzò il viso per baciarlo. – Non ti sei ancora stancato di me? – chiese ironicamente quando sentì le sue mani mapparle tutto il corpo.
- Nah. Con tutta la fatica che ho fatto per tenerti in vita, sarei proprio stupido a stancarmi.
Levy ridacchiò e si mise a cavalcioni su di lui con un movimento rapido e fluido.
Gajeel sospirò, beato, e mise le mani dietro la testa, osservando il corpo della moglie. Quel corpo che conosceva a memoria eppure riscopriva sempre, ad ogni carezza. Ogni volta era come la prima, il desiderio e la necessità non erano cambiate con il tempo.
- Che ne dici se mi metto quel vestitino rosso che mi avevi comprato per Natale? Quello pieno di pelo? Alla fine non l’abbiamo mai usato. Sono sicura che sia qui da qualche parte…
Gajeel ghignò e le mise le mani sui fianchi. – Magari lo cerchi domani e te lo metti per farmi una sorpresa Ora non posso aspett…
Un timido bussare alla porta lo bloccò, e i suoi occhi cercarono subito quelli di Levy, spaventati. Lei scese subito dal ventre del marito e si infilò sotto le coperte, coprendosi.
- Avanti – ordinò poi Gajeel, appoggiandosi ad un gomito per vedere chi era.
Sulla soglia della camera, Emma, Yaje e Shutora fissavano i genitori, agitati.
Qualcosa suggeriva a Gajeel che non fossero soli.
- Mamma, papà, vorremmo venire a dormire con voi.
Levy scambiò un’occhiata con Gajeel. Non era la prima volta che si trovavano in cinque in quel letto. Più Lily, quando Levy lo aiutava a salire sul letto a causa della sua artrite alle zampe. Era diventato vecchietto, il loro gatto.
- Va bene – farfugliò Gajeel, buttando la testa sul cuscino.
E ora come faceva a stare solo con sua moglie?
- Però… anche gli altri vorrebbero dormire con voi, ma nel letto non ci stiamo tutti… - rivelò Emma.
Levy, confusa, fece per alzarsi, ma Gajeel la bloccò in tempo perché non uscisse allo scoperto: si era scordata di essere mezza nuda.
La donna ringraziò il marito con lo sguardo mentre quest’ultimo si dirigeva alla porta con addosso i pantaloncini da notte.
Levy lo vide sgranare gli occhi: tutti i bambini di Fairy Tail erano ammassati sulla soglia della loro camera.
Gajeel grugnì e si passò le mani sul volto. – Ho capito, tutti a dormire in mansarda. Prendete coperte, cuscini e quello che vi pare e filate di sopra. Arriviamo subito.
Gajeel guardò la moglie eloquentemente: un’altra sveltina. Del resto, il rischio che li beccassero era sempre alto.
- Noi vi aiutiamo a prendere le vostre cose – annunciò Emma entrando nella stanza insieme a Yaje e Shutora.
Levy vide Gajeel sbiancare, mettere il broncio e assumere un’espressione sconsolata. Niente poté impedirle di scoppiare a ridere.
- Porta pazienza – gli bisbigliò all’orecchio quando Gajeel le passò di nascosto una sua vecchia felpa. – Lunedì sono tutti a scuola e noi abbiamo la casa per noi.
Per quanto la proposta lo allettasse, Gajeel non poté fare a meno di pensare a quanto avrebbe voluto starsene abbracciato a sua moglie quella notte.
Quando la sua famiglia si allontanò nel corridoio, lui rimase indietro a osservare la scena che gli si presentava davanti: Levy teneva per mano Yaje e Shutora, mentre la dolce e responsabile Emma raggiungeva gli altri bambini ai piedi della scala per la mansarda. Levy accarezzò le testoline di alcuni bambini spaventati prima di iniziare a farli andare su per le scale.
Quando si girò verso di lui in cerca dei suoi occhi, la delusione svanì dal volto di Gajeel, che si godette la vista dei suoi trenta bambini che salivano le scale per dormire tutti insieme.
Come anni prima, sorrise e guardando il soffitto bisbigliò: - Grazie Mavis.
Poi si avvicinò a sua moglie e se la caricò in spalla, gridando ai bambini: - Via, fate largo! Sto passando con un tricheco sulla spalla.
- Gajeel! – sbottò lei, pugnandogli la schiena.
I bambini urlarono e corsero su insieme a loro, ridendo per quella scenetta.
Quando fu arrivato in cima, Gajeel depositò Levy per terra e le rubò un bacio a cui lei si sottrasse, irritata.
Lui ridacchiò: - Senza di me non vivresti.
Quella frase era tremendamente vera, perché senza di lui Levy non sarebbe sopravvissuta.
Ma era anche vero che lui non avrebbe tollerato una vita senza Levy.
E non avevano bisogno di dirselo: nel momento in cui si strinsero la mano e si sdraiarono per terra, circondati dai loro tre figli e dagli altri trenta bambini, Gajeel e Levy si comunicarono tutto quello che non potevano esprimere a parole.
E ringraziarono ancora una volta per il futuro che avevano avuto.
Nonostante tutto.
 
 


 
Una fine è solo un nuovo inizio, non importa quanto disastrosa e definitiva possa essere la fine.
Guarda avanti.
In ogni giornata che vivrai ci sarà un sorriso ad aspettarti dietro l’angolo.
A volte sarà effimero e immediato, durerà un secondo e si spegnerà subito. A volte sarà un sorriso stentato in mezzo a lacrime di disperazione e profondo nero.
Ma ci sarà quel sorriso.
Ci sarà ogni giorno, per quanto siano gravi e irreparabili i tuoi problemi.
È questo il bello della vita.
È questo che la rende degna di essere vissuta.

Cerca il tuo sorriso di ogni giorno, che sarà diverso da tutti gli altri.
Sarà unico.
E sarà speciale.
Non stancarti mai di cercarlo, perché dietro l’angolo ti attende quello definitivo.
Quello che ringrazierai di aver trovato.
 
Quello che, fidati, ti ripagherà di tutto.
 
 



MaxB
Vi supplico di non odiarmi.
Sono in montagna e ho passato giorni a girare con in mano l’hotspot per cercare una o due tacche di connessione che, ovviamente, non ho trovato.
Mi hanno persino chiesto se ero a caccia di Pokemon. Invece ero a caccia di tacche di Internet.
A parte questo, sono commossa e mi batte il cuoricino per aver messo quella spunta su Completa.
Ho finito The Ghost.
Non ci credo.
Ringrazio tutti quelli che hanno letto in silenzio e hanno messo la storia tra le preferite, seguite e/o ricordate, ma soprattutto coloro che hanno lasciato un commento e hanno speso parte del loro prezioso tempo per farmi sapere cosa ne pensavano di questo mio esperimento.
In particolare ringrazio (il mio) Angelo Nero, Kounchan, (il mio fanboy preferito) Gallade, C63 (per i suoi commenti su uozzap) che mi hanno seguita assiduamente, e ovviamente la mia musa ispiratrice EbiBeatrizP.
Grazie di essere nella mia vita, e cerca sempre il tuo sorriso, piccola mia.
Non mi resta che salutarvi, se avete piacere fatemi sapere se ho risposto a tutto o avete dei dubbi irrisolti riguardo alla storia, ditemi magari se vi è piaciuta o avrei potuto farla meglio.
GRAZIE ANCORA E BUONANOTTE MONDO *piange*
MaxB
 
…ovviamento non potevo far finire male Gajeel e Levy.
Mai e poi mai.
Maissimo.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3416289