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di MadAka
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno ***
Capitolo 2: *** Due ***
Capitolo 3: *** Tre ***
Capitolo 4: *** Quattro ***
Capitolo 5: *** Cinque ***
Capitolo 6: *** Sei ***
Capitolo 7: *** Sette ***
Capitolo 8: *** Otto ***
Capitolo 9: *** Nove ***
Capitolo 10: *** Dieci ***
Capitolo 11: *** Undici ***
Capitolo 12: *** Dodici ***
Capitolo 13: *** Tredici ***



Capitolo 1
*** Uno ***


Il clacson in strada suonò troppo a lungo. A esso riuscì di portare a termine il compito che la luce del mattino non era stata in grado di ultimare: svegliare Jack.

Il ragazzo aprì gli occhi nel chiarore del mattino. Intorno a lui, fra il bianco, non fu in grado di riconoscere la camera da letto in cui si trovava. Aveva qualcosa di famigliare, segno che ci era già stato. La cosa lo aiutò a tranquillizzarsi quando tutto prese improvvisamente a vorticare. Il semplice giramento di testa gli permise di capire che, la sera precedente, nulla più dell’alcol – e forse neanche troppo di quello – era entrato nel suo corpo; altrimenti i postumi sarebbero stati differenti e ben più pesanti. Si appoggiò sui gomiti, ancora intontito. Le lenzuola di cotone gli scivolarono di dosso, fermandosi poco sotto l’ombelico. In quei brevi istanti ogni parte del suo corpo venne accarezzata dalla stoffa chiara e delicata, cosa che gli fece intendere che non stava indossando niente sotto di essa. Per lui poteva significare una cosa soltanto. Si voltò per vedere se, alla sua sinistra, l’altro ancora stava dormendo. Il sorriso che gli si era dipinto in volto a quel pensiero, scomparve improvvisamente.

La persona addormentata accanto a lui gli dava le spalle. Le lenzuola seguivano fedelmente i contorni del suo corpo: la vita sottile, i fianchi morbidi e le linee formose. Le spalle scoperte permisero a Jack di vedere la pelle diafana in quei pochi centimetri che introducevano la linea che scendeva lungo la schiena. I lunghi e setosi capelli biondi erano sciolti e arruffati, liberi sul cuscino.

Il cuore del ragazzo rallentò di colpo. Accanto a lui, nel letto, c’era una donna e non una qualsiasi, bensì Riley.

Numerose domande cominciarono a riempirgli la testa ma, sopra a tutte, la più insistente era una soltanto: come era stata possibile una cosa simile?

Jack non riusciva a staccare gli occhi dal corpo della ragazza accanto a lui. Contemporaneamente costringeva il suo cervello a tentare di ricordare, a ripercorrere i minuti e le ore precedenti. La testa continuava a girargli; per colpa dello shock lo fece con forza maggiore. Tuttavia fra la confusione ammassata dentro di lui – accresciuta ancora di più alla vista di Riley – le cose cominciarono a delinearsi con lentezza e dolore. Aveva pensato bene, pochi minuti prima. La sera precedente aveva, sì, bevuto, ma non troppo. Per tale motivo dopo l’iniziale momento di smarrimento riuscì a ricordare tutto. I ricordi riaffiorarono smossi nella sua testa. Andarono a riempirgli il cervello, gli occhi; gli contorsero lo stomaco e fecero crescere in lui il forte peso del rimorso.

 

*

 

Appartamento N° 23 – La sera precedente.

 

Jack premette con una tale forza l’icona rossa del telefonino che se lo schermo dello smartphone si fosse crepato non ne sarebbe certo rimasto sorpreso. Come la chiamata venne chiusa il ragazzo, in preda a un impeto di rabbia intenso come non gli succedeva da tempo, lanciò il cellulare contro il divano, liberando insieme a quel gesto un verso d’ira. Si portò le mani sul viso nel vano tentativo di riuscire a regolarizzare il respiro. Era inutile. Aveva la mascella tesa per la rabbia che stava provando e un tale senso di frustrazione dentro da non riuscire a trovare neanche con il pensiero il modo migliore per sfogarsi.

Louis lo aveva fatto di nuovo. Era riuscito a farlo sentire una nullità, il piacevole diversivo con cui amava crogiolarsi di tanto in tanto, ma da tenere ben nascosto alla vista del mondo. Da più di sei mesi la loro relazione andava avanti, tuttavia lo faceva in modo strascicato, con continui alti e bassi e sempre minacciata dalla luce della verità, che avrebbe potuto smascherarli da un momento all’altro.

Louis era sposato. Per un uomo di politica del suo calibro mostrare all’America la sua famiglia perfetta – eterosessuale, felice e completa – era fondamentale. Tuttavia, più di due anni prima, il politico non era riuscito a rimanere indifferente davanti agli occhi grigio-azzurri di Jack già dal momento del loro primo incontro a un brunch. Jack era là, all’epoca, sotto le sembianze di uno dei due figli di Benjamin Miller – il Presidente degli Stati Uniti –, dichiaratamente omosessuale e notevolmente annoiato. Ai due era bastato un drink insieme e poche parole perché fosse evidente la complicità che, in qualche modo, li avvicinava.

A ogni loro incontro l’attrazione si rafforzava. Jack aveva cominciato a considerare sempre meno irritanti le cene formali a cui era costretto ad andare in quanto a figlio del Presidente. Erano il modo più efficace per interagire con Louis, per conoscerlo meglio, per ammirarne l’innata bellezza, dai capelli biondi ed elegantemente arruffati e dagli occhi azzurri che sembravano costantemente alla ricerca di quelli di Jack.

Poi, circa sette mesi prima, Louis si era lasciato andare. Jack lo aveva accolto ben volentieri fra le proprie braccia, condividendo con lui il tempo, il letto, la musica che amava suonare al pianoforte e la cocaina che sempre più spesso acquistava a notte fonda.

Da allora si vedevano con frequenza maggiore. Jack – ormai figlio dell’ ex Presidente – era diventato l’amante di un politico in carriera, in ascesa. E se ne era innamorato. Dall’altra parte c’era Louis, che aveva sempre sostenuto di ricambiare i sentimenti dell’altro e che si diceva pronto a lasciare la moglie e la figlia per poter stare insieme a lui.

In quei mesi, però, non lo aveva mai fatto. Aveva ripetuto a Jack che avrebbe chiesto il divorzio a breve un’infinità di volte e quest’ultimo, come uno stupido, ci credeva di continuo. Tuttavia Louis non aveva ancora lasciato la moglie; non le aveva neanche accennato nulla riguardo la sua nuova storia.

Per tale motivo, quel giorno, avevano litigato ancora. All’ennesima richiesta da parte di Jack di poter rendere nota al pubblico la loro relazione, Louis aveva risposto che gli serviva ancora tempo, che lui non avrebbe potuto capire, che non sarebbe mai stato considerato normale quello che avveniva fra loro. Lo screzio era degenerato in una violenta lite telefonica, fatta di imprecazioni, di inesattezze e di continui scarichi di colpa. Era poi sfociata nel silenzio quando Jack aveva chiuso la conversazione con rabbia, lanciando il telefono contro il divano che aveva di fronte.

Frustrato, fece scivolare le mani fino ai capelli corvini, spettinandosi più di quanto già non fosse. Raggiunse il pianoforte e si sedette, convinto che la musica avrebbe potuto aiutarlo. Non riuscì a decidere una canzone da suonare. Molte le aveva dedicate a Louis ed era consapevole che non sarebbe riuscito a suonarle senza finire con il pensare a lui. Decise di lasciar stare lo strumento. Con suo rammarico la musica non avrebbe potuto aiutarlo, questa volta. Raggiunse di fretta uno dei cassetti del mobile della camera da letto. Dentro cercò fino a trovarlo un piccolo ovulo di pellicola trasparente, usato a protezione di una soffice polvere bianca. Tornò in soggiorno con quello in mano, si sedette sul divano – ignorando completamente il telefono cellulare – e dispose la poca polvere che gli era rimasta in due strette file. Arrotolò una banconota da un dollaro e si preparò a inspirare tutto.

Non lo fece. Rimase fermo a guardare le due strisce di polvere in maniera assente, la mascella ancora contratta per la rabbia. Con gesti nervosi delle dita continuava a tormentare la banconota arrotolata che aveva in mano. Era troppo arrabbiato, troppo nervoso. In un simile stato la cocaina avrebbe certo potuto aiutarlo, ma un parte di lui si rifiutava di assumerla; semplicemente non la voleva. Avrebbe dovuto trovare un altro modo per togliersi dalla mente Louis per un po’ e in un improvviso momento di realismo si rese conto che, da solo, non ci sarebbe mai riuscito.

Non perse neanche tempo a infilarsi un paio di calze. Attraversò a piedi nudi quel poco di strada che lo separava dall’ingresso dell’appartamento che aveva di fronte. Bussò un paio di volte, rimanendo in attesa. Quasi subito Riley comparve sulla porta. Indossava una t-shirt bianca, larga e morbidi pantaloni da tuta. I capelli biondi erano legati in un disordinato chignon che si ergeva sopra la sua testa. Come vide il ragazzo sorrise, già perfettamente consapevole che a bussare era stato lui.

«Spero di non disturbare» esordì Jack, abbozzando un sorriso. Trovarsi davanti la ragazza lo aiutò notevolmente a sentirsi meglio.

Loro due si erano conosciuti poco dopo l’arrivo del ragazzo nel condominio. Come per tutti i vicini di casa, avevano iniziato salutandosi sulle scale quando si incontravano. Erano poi passati a brevi conversazioni sul pianerottolo, davanti ai reciproci ingressi, finché non ne erano scaturiti i primi inviti a bere qualcosa, a prendere un caffè. Riley e Jack erano così diventati amici.

Lui si trovava incredibilmente bene in sua compagnia. Stando con Riley non provava il minimo bisogno di assumere qualche sostanza per rilassarsi; con lei non servivano alcolici, cocaina o cose del genere. Riley aveva una tale naturalezza implicita nei gesti che era più che sufficiente per stare bene insieme a lei.

I due per lo più parlavano, guardavano film alla televisione, alle volte giocavano con la Playstation della ragazza, mantenendo sul divano fra loro un pacchetto di marshmallow che, quando veniva aperto, era predestinato a finire.

Riley sapeva dell’omosessualità di Jack e a lui piaceva il fatto che era una delle poche persone che non lo faceva sentire sbagliato per questo. Perfino la sua famiglia, di tanto in tanto, lasciava trapelare di non aver totalmente trovato una spiegazione alla situazione del figlio, nonostante gli volessero veramente bene.

«Non disturbi tu, dovresti saperlo.»

La ragazza aprì maggiormente la porta, dando le spalle a Jack che lo prese come il giusto invito a entrare. Casa di Riley profumava sempre e anche quella sera non era da meno. Nel suo piccolo soggiorno – così uguale a quello del ragazzo – aleggiava un leggero sentore di noci tostate. Lei si sistemò accanto al tavolo, a cui si appoggiò leggermente con il fianco. Incrociò le braccia sotto i seni, rimanendo a osservare l’amico. Non era solo dovuto al fatto che lo aveva sentito gridare diversi minuti prima, le bastò poco per capire che in Jack qualcosa non andava. Riley decise di affrontare la questione per gradi, di non essere schietta nel chiedere al ragazzo cosa fosse successo e di farlo soltanto se si fosse presentata l’occasione giusta.

Jack le offrì quell’occasione praticamente subito. Alla ragazza non sfuggì il modo in cui si guardava intorno, né l’incertezza di cui erano pieni i suoi occhi chiari mentre evitava accuratamente il suo sguardo.

«Va tutto bene?» chiese, semplicemente. Lui portò immediatamente gli occhi su di lei. Rimase a guardarla come se si fosse ricordato solo in quel preciso istante il posto in cui si trovava. Poi incurvò lentamente le labbra in un sorriso amaro e ferito: «Abbiamo litigato di nuovo» mormorò.

Riley abbandonò le braccia lungo i fianchi, senza rispondere. Jack aveva nuovamente allontanato lo sguardo, puntandolo sul mobilio dell’angolo cottura alle spalle della ragazza.

«Vuoi sederti?»

Gli indicò con un cenno del capo il divano. Lui si limitò ad annuire, andando a sistemarsi su una delle due estremità. Il divano di ecopelle nera della ragazza era ormai rovinato e sfondato dagli anni, ma ancora piuttosto comodo. Jack ci si sistemò e incrociò le gambe sul cuscino. Riley lo raggiunse poco dopo. Posò una bottiglia di vino e un paio di bicchieri sul tavolino che avevano davanti e si accoccolò accanto al ragazzo, il corpo ruotato verso di lui. Jack afferrò la bottiglia e, per la prima volta da quando era entrato nell’appartamento n° 24, parve rilassarsi veramente.

«Mi ricordo di questa» disse, sorridendo. Aveva regalato lui quella bottiglia a Riley, diverse settimane prima.

Lei estrasse dalla tasca dei pantaloni il cavatappi e lo porse a Jack. Questi, senza troppi problemi, stappò la bottiglia e versò generose quantità del liquido scuro nei due bicchieri. Ne bevve un lungo sorso, preparandosi a ricevere il primo affondo della ragazza. Non si fece attendere, infatti: «Cos’è successo questa volta?»

Lui si voltò a guardarla. Riley teneva gli occhi sul bicchiere, muovendolo leggermente affinché il vino potesse far arrivare al suo naso l’aroma.

«Non lo ha ancora detto a sua moglie. Comincio a sospettare che non lo farà mai.»

Quell’ammissione lo fece star male. Ingollò ciò che gli era rimasto nel bicchiere e si pulì la bocca con il dorso della mano. La conversazione di poco prima con Louis gli tornò alla mente, così come il forte senso di frustrazione che era stranamente scomparso alla vista di Riley. Si versò un secondo bicchiere di vino.

«Jack ne abbiamo già parlato. So che sei innamorato di Louis, ma forse è meglio lasciare perdere questa storia, non credi?»

Lo costrinse a guardarla: «Lui è un politico. È in un momento delicato della sua carriera. Comincia a farsi un nome, a essere notato in giro. Porta avanti l’immagine della famiglia modello, davvero pensi che metterebbe a rischio tutto per mostrare alla luce del sole una relazione omosessuale?»

Jack rimase a guardarla negli occhi. La disarmante verità che gli aveva appena raccontato non lo fece arrabbiare quanto avrebbe potuto fare sentirla pronunciare dalla voce di sua madre, di suo padre o di suo fratello. Quelle parole, dette da Riley, suonavano come una realtà sconsolante, a cui non si sarebbe potuti sfuggire neanche aggrappati alle fantasie o le illusioni più forti.

«Ma lui mi ama» provò a replicare. Un tentativo debole che suonò tale anche a lui stesso. Si sentì improvvisamente crollare. Un misto di rabbia e tristezza lo avvolsero. Rabbia perché si trovava ad affrontare una storia male assortita, in cui si era buttato convinto di compiere le scelte giuste ma che invece si dimostravano sempre più sbagliate. E tristezza, perché tutto ciò lo faceva stare male.

Riley non rispose all’affermazione instabile fatta da Jack poco prima. Terminò il suo bicchiere di vino, mentre il ragazzo già si versava il terzo in preda alle sue angosce.

«Non riesco a mettere in piedi una storia sincera» disse lui all’improvviso, finendo in fretta anche il terzo bicchiere. Riley si voltò a guardarlo. Gli occhi grigio-azzurri erano puntati sul tavolino che aveva davanti, le labbra incurvate in un’incomprensibile smorfia. «Rovino sempre tutto. Mi illudo che le persone siano sincere con me anche quando non è vero.»

D’improvviso guardò la ragazza: «Sono solo un passatempo e io ogni volta mi convinco di non essere tale. Come si può pensare che uno come Louis rinunci alla carriera per stare con me? Sono il figlio gay dell’attuale Segretario di Stato e il nightclub che voglio aprire è ancora solo un mucchio di carta e scarabocchi. Non potrei mai essere alla sua altezza.»

La sua voce si fece nervosa, irritata. Riley si accorse che tremava leggermente e che era profondamente addolorata. Tuttavia Jack si sentiva sempre più nervoso e più frustrato. Voleva solo dimenticarsi di ciò che gli era successo. Avrebbe dato qualsiasi cosa per capovolgere le cose. In quel momento sentì che la cocaina che aveva nell’appartamento gli sarebbe potuta essere utile. Non potendola prendere, però, si limitò a versarsi un nuovo bicchiere di vino.

«Non è colpa tua.»

La voce di Riley sferzò l’aria. Lui si voltò di scatto a guardarla, ma gli occhi della ragazza erano fissi sul nulla di fronte a lei. Il verde acquoso di cui erano intrisi si era appannato. Quando ricambiò lo sguardo di Jack ci mise un po’ a riprendere parola: «Non è colpa tua se le persone ti trattano male, se non hanno il minimo ritegno per i tuoi sentimenti.»

Si strinse nelle spalle di fronte all’occhiata perplessa lanciatale dal ragazzo. «Credi di essere l’unico a cui le cose vanno da schifo?»

«Io…» tentò di dire lui, ma le parole gli morirono in gola. Riley gli si mostrò davanti più fragile di come l’avesse mai vista, alle prese con tormenti invisibili ai suoi occhi. Tuttavia Jack non riusciva a trovare pace.

«Non c’è niente di male a lanciarsi in una storia, sai? A provare, sperando che le cose vadano per il verso giusto. Il problema è che quando le cose non vanno bene si rimane scottati.»

Gli occhi della ragazza si allontanarono. Jack appoggiò i gomiti alle ginocchia e si protese verso di lei. «Perché non me l’hai mai detto?» le chiese.

Riley sentì lo stomaco stingersi tanto erano vicini gli occhi di Jack quando sollevò i suoi per guardarlo. «Dirti che cosa?» mormorò.

«Che condividiamo la stessa sorte. Che siamo entrambi innamorati di qualcuno che non ci ricambia realmente.»

L’aroma di lamponi che possedeva il vino si riusciva percepire leggero nell’alito del ragazzo. Era troppo vicino per Riley e non riuscire a scomporsi davanti a quella che per lei era assoluta perfezione fu impossibile.

Era Jack la persona di cui Riley era innamorata. La loro amicizia si era trasformata ben presto in una maledizione per la ragazza e lo aveva fatto nel momento esatto in cui la consapevolezza che lui non avrebbe mai ricambiato i suoi sentimenti si era annidata fra cervello e cuore. La cosa la faceva stare male, ma si era ripromessa di non rovinare il legame che la univa a lui per un capriccio. Non poteva contare neanche sull’attrazione fisica. Con Jack non aveva speranze per il semplice fatto che lui non l’avrebbe mai guardata come un uomo guarda una donna.

I quattro abbondanti bicchieri di vino ingurgitati in fretta da Jack stavano già cominciando a rendere le sue percezioni ovattate. La consapevolezza dei propri gesti era allentata, i freni inibitori sciolti. Per questo motivo quando Riley schiuse le labbra, facendo scivolare gli occhi verdi per un solo momento sulla bocca del ragazzo, lui non fu in grado di bloccare il fremito che lo percosse.

Baciò Riley. Lo fece con intenzione, con foga, come se lei fosse l’unica cosa in grado di permettergli di dimenticarsi di Louis. La ragazza ricambiò senza esitazione quel bacio, che si fece via via anticamera di qualcosa di ben più passionale. Jack la strinse a sé; lei fece aderire con perfezione il corpo a quello del ragazzo. I primi vestiti cominciarono a sfilarsi, i respiri, sempre più ansanti e sovrapposti, divennero leggeri gemiti, strozzati fra le loro labbra. Il disordinato chignon di Riley si sciolse e Jack ebbe modo di sentire i capelli, lisci e morbidi come seta, colpire delicati la sua mano mentre questa scorreva lungo la schiena nuda della ragazza.

Per lui era tutto strano, diverso. Aveva la mente completamente annebbiata e non gli riuscì – né gli andava – di fermarsi. Per la prima volta in quella sera Jack non stava pensando assolutamente a niente.

 

 

 

 

 

 

 

 

Ciao a tutti!

Innanzitutto vi ringrazio per aver letto il primo capitolo di questa mia nuova long. È la prima volta che scrivo una cosa del genere e spero che vi piaccia fino alla fine.

Ora, ci tengo a fare una precisazione. Questa storia è fortemente ispirata a una serie TV chiamata Political Animals, mai uscita in Italia.

Volevo semplicemente farvi sapere che – ahimè – questo lavoro non è totalmente farina del mio sacco, anche se ho cambiato cose a sufficienza perché non sia neanche una fanfiction dedicata a quella serie TV.

È una sorta di compromesso, diciamo così.

Spero davvero che proseguiate nella lettura e, soprattutto, spero che questo lavoro sia di vostro gradimento.

Grazie!

MadAka

 

 

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Capitolo 2
*** Due ***


Non appena a Jack fu tornato alla mente ciò che era accaduto la sera precedente si sentì orribile. Avrebbe potuto giurare di provare un senso di nausea alla bocca dello stomaco. Come aveva potuto andare a letto con Riley, la sua più cara amica e ancora di salvezza nei momenti peggiori? Aveva rovinato tutto, ne era certo e lì, in camera della ragazza, con la testa che vorticava e un senso di impotenza dentro, non sapeva come fare per sperare di risolvere il guaio che aveva combinato.

Si sedette sul bordo del letto, dando per la prima volta le spalle a Riley. Si accorse che, ai suoi piedi, si trovavano i suoi jeans e i boxer. Tutto era cominciato sul divano di ecopelle nera del soggiorno, ma era in quella camera che le cose erano proseguite fino a concludersi, dove i loro corpi si erano cercati fino a trovarsi più volte.

Si mise in piedi per potersi rivestire in fretta, tentando di fare meno rumore possibile.

Scappare. Non era così che avrebbe risolto le cose, lo sapeva. Ma in quel momento non fu in grado di ragionare con lucidità. Forse un goccetto, una veloce sniffata di coca avrebbero potuto essergli di aiuto ad affrontare la situazione.

La fibbia della cintura tintinnò un paio di volte mentre la chiudeva.

«Jack.»

Si voltò di scatto. Riley era sveglia, seduta sul letto e avvolta dalle coperte di cotone. I capelli erano scarmigliati sulle sue spalle, gli occhi, nonostante fossero ancora assonnati, vigili. Jack non seppe cosa dire. Il senso di colpa lo aggredì alle spalle, costringendolo alla resa dei conti prima ancora che lui fosse pronto.

Sospirò: «Mi dispiace, Riley. Questa notte non…»

Non sapeva come proseguire, che altro poter dire. Si sentiva responsabile ed era perfettamente a conoscenza che niente sarebbe potuto tornare come prima. Tuttavia una parte di lui ci sperava, nonostante fosse, al tempo stesso, consapevole di illudersi e basta. Era stato lui a baciare Riley. La ragazza si era lasciata andare e di certo una parte della colpa era anche sua, ma tutto era partito da lui e lo sapeva. Perfino il vino non ne aveva colpa.

Lei non disse nulla. La sera precedente sapeva già perfettamente che, una volta sorto il sole, una volta che Jack si fosse accorto di quello che era successo fra di loro, tutto sarebbe svanito. Sapeva che il loro legame si sarebbe incrinato, forse spezzato. Eppure non aveva compiuto la minima azione per evitare la cosa. Desiderava da così tanto tempo sentire il sapore di Jack e inebriarsi del suo odore, che era disposta a mettere a rischio ogni cosa. Si era lanciata fra le fiamme con la consapevolezza che si sarebbe scottata, ma lo aveva fatto ugualmente.

Non riuscì a biasimare il ragazzo quando lo vide piegarsi sotto il suo stesso peso, avvilito. Gli occhi grigio-azzurri di Jack, ancora più chiari nella luce mattutina, erano mortificati. Le si chiuse lo stomaco a quella vista. Distolse lo sguardo, non riuscendo a reggere oltre. Lo fece vagare per la stanza con insicurezza sempre maggiore. Quando tornò a puntare gli occhi su Jack fu perché lo sentì prendere fiato. Era fermo nella posizione di prima, la stessa espressione dipinta in volto. Per Riley fu un attimo ripensare a quella notte. Le sembrò di ricordare ogni gesto, ogni tocco, ogni sospiro. Si rivedeva accoccolata accanto a Jack mentre il suo petto si alzava e abbassava seguendo il suo lento respiro addormentato. Quei ricordi si erano già trasformati in dolorosi errori, sbagli che lei stessa aveva volontariamente commesso. Jack aveva cominciato tutto, senz’altro, ma lei aveva impedito a quel tutto di arrestarsi.

«Non avrei dovuto.»

La voce di Jack suonava atterrata, una vittima della realtà dei fatti. Riley si sistemò meglio sul letto, tirò maggiormente a sé le coperte, fasciandosi il corpo. Quella di Jack era un’assunzione di colpa e non seppe come replicare. Il loro legame si era appena, ufficialmente, incrinato e se lei non avesse trovato le parole giuste da pronunciare si sarebbe spezzato. Tuttavia dentro di sé sentì solo un orrendo nodo alla gola formarsi. Continuava a guardare il ragazzo senza dire niente. La perfezione del suo corpo, quella del suo viso, della sua anima tormentata, niente di tutto quello era suo e aver ricevuto la conferma di ciò, in una soleggiata mattina autunnale, la faceva stare male.

Jack si accorse che Riley lo stava guardando, ma non vedendo. «Riley» la chiamò.

Un lampo di verde liquido si posò nei suoi occhi. La ragazza schiuse le labbra ma non disse nulla. Toccava a lui fare qualcosa e, in preda a un vortice di sensazioni avvilenti, Jack fece il possibile per elaborare le proprie scuse: «Mi dispiace così tanto.»

Prese a tormentarsi i capelli corvini con la mano destra. Le corte ciocche scure si sottomettevano al passaggio delle sue dita. «Non so che mi è preso. Non volevo arrivare a questo.»

Portò entrambe le mani sul viso. Riley lo vide mordersi il labbro inferiore con rabbia prima di nascondersi il volto fra le mani. Rimase in quella posizione svariati secondi, il respiro si fece più intenso. Buttò fuori tutta l’aria che aveva in corpo prima di parlare, tornando ad abbandonare le braccia lungo i fianchi: «Non capisco cosa c’è che non va in me. Sono completamente sbagliato.»

A quella esclamazione Riley riconobbe il tono nervoso e frustrato che Jack aveva la sera prima, mentre parlava della sua storia male assortita con Louis. Il ragazzo era adirato con se stesso ed era evidente che si considerasse l’unico e solo responsabile di quello che era avvenuto fra loro. Riley odiava vedere Jack in quello stato; lui non si meritava di sentirsi in colpa, affranto e avvilito solo perché si imbatteva di continuo nelle persone errate, persone di cui, in quel momento, lei sentiva di fare parte.

Con un improvviso impeto di odio verso se stessa la ragazza costrinse il nodo che aveva in gola a sciogliersi, permettendo alla sua voce di irrompere nella stanza: «Per quale motivo credi di essere l’unico responsabile di quello che è successo fra noi?» domandò. Nel sul tono c’era una forte nota di sfida; una provocazione rivolta a Jack affinché smettesse di sentirsi il solo colpevole.

Tuttavia il ragazzo parve non afferrare la provocazione. Guardò Riley enigmatico, senza replicare. La ragazza si morse il labbro inferiore, distogliendo lo sguardo prima di riprendere parola: «Anche se ieri sera sei stato tu a baciarmi non significa che tutto quello che è avvenuto dopo sia solo colpa tua. Io avrei dovuto fermarti, farti notare cosa stava succedendo, chiederti se era quello che volevi davvero. Ma non l’ho fatto.»

I brevi istanti di silenzio, necessari a Riley per riprendere fiato, sembrarono durare un’eternità. «Non ho voluto farlo» concluse.

A Jack parve che il mondo si fosse ribaltato a quelle parole. La ragazza non lo stava guardando, ma lui riuscì a notare ugualmente che i suoi occhi erano diventati lucidi. Le parole di Riley risuonarono come un’ammissione, una dichiarazione, come un segreto tenuto nascosto troppo a lungo.

La ragazza si rifiutava di guardarlo, soprattutto quando si rese conto di non riuscire a reggere oltre. Le lacrime le pungevano gli occhi e la gola le si chiuse di nuovo, facendole quasi male.

«Non sei tu, Jack » riprese d’un tratto, sentendo il bisogno di sfogarsi. La voce le si era spezzata e lei si era raggomitolata stretta, stringendo con rabbia il cotone che le ricopriva il corpo. «È più facile che sia io il problema. Non sei il primo con cui mi succede una cosa del genere. Ogni volta che mi innamoro di qualcuno finisce in questo modo.»

Sorrise amaramente. «Mi accantonano. Mi dicono che sono una bella persona, un’ottima ragazza. Niente di più.»

Si strinse nelle spalle. Alcune lacrime cominciarono a scendere, rigandole le guance. «È in me che qualcosa non va. In me. Non c’è niente di sbagliato in te, Jack.»

Smise di parlare, passandosi una mano sugli occhi per poterli asciugare. Jack rimase sorpreso da quelle parole e vi ripensò mentre guardava la ragazza, che si era fatta improvvisamente fragile. Vedere Riley in quello stato lo faceva star male. Non se la sentiva più di scappare, di abbandonarsi ai suoi vizi e cercò dentro di sé le parole migliori per aiutarla a sentirsi meglio. Tuttavia non riuscì a trovarle. Si avvicinò al letto, sistemandosi accanto alla ragazza, prestando particolare attenzione a non far scivolare le lenzuola che ancora coprivano il corpo spoglio di lei. Jack si comportò nel modo che più gli venne naturale e abbracciò Riley. Sentì la sua pelle fresca attraversata da leggeri brividi sotto le sue mani, la consapevolezza della nudità di lei non gli trasmise nulla. Dopo un primo momento di incertezza la ragazza si lasciò stringere fra le braccia di Jack, scoppiando in un pianto avvilito.

Le ci volle un po’ per placarsi. Il ragazzo non sapeva quanto tempo era trascorso, ma aspettò ogni minuto, finché non sentì Riley allontanarsi da lui. I loro volti erano nuovamente troppo vicini, ma questa volta nessun fremito percosse Jack.

«Tu sei meravigliosa, Riley. Troverai l’uomo giusto molto presto, vedrai» Jack ruppe il silenzio. Trovò le sue stesse parole banali, prevedibili, ma sentiva il bisogno di dirle ugualmente.

Riley abbassò lo sguardo. «Sai, io non ho mai pensato che la persona giusta sia costretta a ricambiarci. Alle volte può darsi che colui con cui vogliamo condividere la vita non pensi la stessa cosa. Dove sta scritto che quella persona debba ricambiare il modo in cui la si ama?»

Jack allontanò lo sguardo convinto che non sarebbe riuscito a reggere agli occhi di Riley se lei lo avesse guardato. La situazione che stava vivendo si era fatta complicata e difficile da gestire. Per Riley lui rappresentava più di un amico, molto di più e finalmente lo aveva capito. Tuttavia Jack non avrebbe mai potuto ricambiarla. Non ci sarebbe riuscito. Nonostante ciò che era accaduto quella notte e la sera precedente, Jack non riusciva a togliersi dalla testa Louis. Inoltre non era in grado di vedere Riley in modo diverso da quello che era: un’amica e una donna. Una donna, ovvero un corpo, un odore e un sapore che non bramava di conoscere ancora e il cui primo, profondo, incontro era avvenuto in un momento in cui rabbia e frustrazione gli avevano completamente annebbiato la mente.

«Pensi…» esordì lui dopo troppo silenzio. Gli occhi grigio-azzurri tornarono a posarsi sulla ragazza, che già stava rispondendo a quello sguardo. «Pensi che fra noi le cose potranno tornare quelle di prima?»

Sapeva la risposta, ma una parte di lui sperava in maniera ottusa di essere a conoscenza della risposta sbagliata. Il sorriso che si dipinse sulle labbra di Riley, però, era così amaro da far capire a Jack che non si stava sbagliando. «Non lo so. Non penso.»

Dopo un momento di indecisione tornò a guardare il ragazzo. « Jack hai appena scoperto che sono innamorata di te… Per quanto si possa fingere di ignorare la cosa è impossibile che non influisca fra noi.»

Detto ciò si alzò dal letto, trascinando dietro di sé le lenzuola che Jack era stato ben attento a non calpestare. Il ragazzo rimase a guardarla finché non si chiuse la porta del bagno alle spalle, dopodiché non seppe più cosa poter fare.

Il legame con Riley, quell’amicizia perfetta che più e più volte gli aveva impedito di compiere i gesti più insani, si era appena spezzato.

 

 

 

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Capitolo 3
*** Tre ***


I giorni successivi alla mattina in cui tutto si era distrutto fra lei e Jack, Riley li passò piuttosto isolata dal resto del mondo. Fatta eccezione per il lavoro, la ragazza tendeva a mantenere solo nella misura necessaria i rapporti e i contatti con le altre persone. Non voleva che queste capissero che qualcosa la preoccupava e non voleva neanche che le sue amiche le facessero domande a cui non le andava di rispondere. Elizabeth – la sua amica più fidata – sarebbe stata in grado di accorgersi che lei era turbata da qualcosa anche solo guardandola al termine del loro saluto, per tale motivo, Riley, all’invito dell’amica a bere qualcosa aveva risposto che non si sentiva molto bene.

I giorni trascorsi da sola erano diventati cinque, poi una settimana, in tutta fretta. Per quel lasso di tempo Riley aveva continuato a passare le serate in solitudine, raggomitolata sul divano, alla ricerca di qualcosa alla televisione che non la facesse pensare a niente, ma con l’orecchio sempre teso per vedere se, dal pianerottolo, sentiva provenire qualche rumore riconducibile a Jack. Lo sentiva solo entrare e uscire di casa. Sentiva il via vai che caratterizzava spesso il suo appartamento, ma nient’altro. Non c’erano stati altri litigi telefonici, né battibecchi di varia natura con qualcuno. Sembrava che le giornate di Jack proseguissero nello stesso modo di sempre.

Riley aveva ripensato spesso a quello che era accaduto, al modo in cui, in una sola mattina, uno dei legami più belli che avesse mai stretto si era spezzato per colpa sua. Le era impossibile non ripensare a quella notte continuamente, anche se si sforzava in ogni modo possibile di concentrarsi su altro. Le ci sarebbe voluto molto tempo per riuscire a superare l’ennesima delusione amorosa e certo non si stava applicando per semplificarsi il lavoro. Continuava a cercarlo, a sperare di sentirlo bussare alla sua porta come aveva fatto in molte occasioni. Alle volte, quando sentiva provenire dei suoni dal pianerottolo, si avvicinava all’ingresso di casa cercando di fare meno rumore possibile e sbirciava dallo spioncino della porta. Dentro di sé si augurava sempre che Jack, mentre passava, si fermasse e suonasse all’appartamento 24, ma non era mai accaduto. Lui richiudeva la porta dietro di sé e si allontanava, imperscrutabile. Quando accadeva, Riley si sentiva una stupida e tornava ad accucciarsi sul divano.

Non aveva più pianto da quel giorno. Quando, quella mattina, aveva sentito Jack lasciare il suo appartamento si era raggomitolata stretta sul pavimento del bagno e aveva dato fondo a tutte le lacrime che possedeva. Poi non ne era scesa dai suoi occhi una di più. Ripensare a Jack la faceva sentire avvilita e frustrata, azzerata a tal punto da impedirle di piangere.

Avrebbe voluto risolvere le cose e, conoscendosi, sapeva che se si fosse impegnata ci sarebbe riuscita, ma non se la sentiva ancora. Sette giorni non erano sufficienti affinché lei mettesse da parte frustrazione e sensi di colpa, anche se farlo significava riconquistare – almeno in parte – un legame a cui teneva fin troppo.

 

*

 

La famiglia Miller aveva da sempre l’abitudine di consumare ogni pasto insieme. Jack si presentava puntuale ogni giorno un’ora prima che la domestica portasse in tavola le pietanze. Suo fratello Connor e la madre, Nicole, arrivavano insieme appena uscivano dai loro uffici. In quell’ora di attesa Jack trascorreva i minuti chiacchierando con sua nonna – una donna per cui aveva sempre nutrito un profondo rispetto – sorseggiando insieme a lei un Martini, un bicchiere di brandy o dedicandole qualche canzone suonata al pianoforte.

Quel giorno, però, era evidente che in Nicole qualcosa non andava. Si era presentata a casa trafelata, aveva stretto il figlio in un abbraccio sbrigativo e si era sistemata a tavola continuando a sfogliare un grosso plico di carte stampate. Jack era rimasto a guardarla in piedi, al lato opposto del tavolo, un bicchiere con poche dita di brandy in mano.

Nei giorni precedenti Nicole, a cui non sfuggiva nulla di quanto accadeva ai due figli, non aveva dato segni di essersi accorta di ciò che era successo a Jack dopo la sua rottura con Riley. Il giorno stesso in cui lui si era svegliato nella camera della ragazza era stato assente e di poche parole, ma nessuna domanda gli era stata rivolta. La cosa era sospetta, per tale motivo cominciò a credere fortemente – soprattutto per via del comportamento attuale della madre – che qualcosa turbasse fortemente la donna. Connor, invece era il solito, diviso fra il telefono cellulare e la compagna, Amber.

«Mamma, va tutto bene?»

Jack si decise a chiedere quello che da un po’ voleva domandare. Nicole alzò lo sguardo sul figlio, calando sul naso gli occhiali che le servivano per leggere.

«Potrebbe andare meglio, Jack. Ultimamente hanno portato alla mia attenzione cose che mi potrebbero creare non pochi problemi» detto ciò tornò a concentrarsi sulla carta stampata.

Jack lanciò un’occhiata perplessa verso Penelope, la nonna, la quale alzò il bicchiere contenente il suo Martini e fece un cenno sbrigativo con la mano libera. «Lasciala perdere, ragazzo mio. Tua madre è sempre preoccupata per qualcosa. Ha scelto il lavoro sbagliato.»

Nicole la fulminò con lo sguardo, ma Penelope non ci fece caso. Era abituata a simili atteggiamenti da parte della figlia.

Il pranzo si concluse nel solito modo. Chiacchiere di vario genere sulla situazione politica americana e qualche piccolo pettegolezzo sui retro scena di alcune figure altolocate. Alla fine di tutto, Jack si sentì piuttosto sollevato all’idea di potersi alzare dal tavolo per poter uscire di casa.

Era nel soggiorno, intento a sistemarsi la giacchetta in pelle prima di uscire, quando sua madre lo raggiunse. Nicole si fermò nell’ingresso e guardò Jack con sguardo grave, gli occhi castani che scrutavano da dietro le lenti degli occhiali. Lui abbozzò un sorriso, non sapendo cosa aspettarsi. Dovette attendere diversi secondi di silenzio da parte della madre, prima di sapere per quale motivo lo avesse raggiunto lì.

«Da quanto tempo va avanti?» chiese la donna, seria.

Jack non capì di cosa stesse parlando. Aggrottò le sopracciglia, inclinando leggermente la testa di lato. «A cosa ti riferisci?»

Nicole sospirò, come se ciò che era in procinto di dire le facesse male. «Louis Walker. So che vi frequentate.»

Jack si irrigidì improvvisamente. Distolse lo sguardo da quello severo della madre e si appoggiò con le mani sul tavolo. Rimase a guardare il riflesso che gli veniva restituito distorto dal legno chiaro tirato a lucido; il cuore aveva preso a battere all’impazzata.

Come fosse riuscita, sua madre, a sapere di lui e Louis era un mistero. Entrambi si erano premurati bene di fare il possibile perché la loro relazione rimanesse segreta alla massa. Louis non poteva permettersi che la cosa si venisse a sapere e Jack, nonostante avesse da sempre voluto dirlo a tutti, sapeva che in qualsiasi eventualità sua madre avrebbe ugualmente dovuto essere l’ultima a venire a saperlo.

Il ragazzo inspirò a fondo poi, mantenendo sempre gli occhi fissi sul tavolo, rispose: «Sei mesi.»

«Sei mesi?» gli fece eco Nicole, sconvolta. «Cosa ti passa per la testa, Jack?»

Lui batté i palmi sul legno prima di voltarsi verso la madre, sentendo la rabbia montare. «Se hai intenzione di farmi una predica puoi risparmiartela.»

La voce gli si era involontariamente alzata a quella esclamazione. Voleva risparmiarsi la morale di Nicole. Non sopportava di sentirla quando gli diceva che stava sprecando la sua vita, che frequentava le persone sbagliate e che si sarebbe rovinato con le proprie mani. Per Jack lei, che lavorava in uno degli ambienti più corrotti e contorti che conoscesse, era la meno indicata a dirgli come vivere le sue giornate, anche se era sua madre.

Nicole rispose a tono all’esclamazione del figlio: «No, invece. Voglio capire a cosa stavi pensando quando hai deciso di iniziare a uscire con Louis. Fra la miriade di uomini che potevi scegliere, perché proprio lui?»

Jack si passò le mani fra i capelli sempre più nervoso. «Si può sapere perché la cosa ti crea tanti problemi?» domandò, i muscoli tesi per la rabbia.

«È un repubblicano Jack. Concorre contro di me per la carica di presidente. Davvero pensi che stia con te perché gli piaci? È più facile che gli interessi informarsi per quanto riguarda i miei progetti. Quante cose ti ha già chiesto sulla mia campagna elettorale?»

Le parole di Nicole attraversarono Jack come lame, gelide e taglienti. Abbassò lo sguardo, sentendosi colto in flagrante. Il suo respiro si fece improvvisamente più rapido. Louis gli aveva posto più volte domande sulla campagna elettorale della madre, era vero, ma Jack non vi aveva quasi mai risposto. Ciononostante Louis continuava a cercarlo, segno che la politica era seconda alla loro storia.

Piuttosto certo che quella fosse la realtà, il ragazzo scoccò un’occhiata furiosa alla madre. «Non riesci a trovare una scusa migliore per convincermi a lasciarlo? Si deve sempre parlare di te, vero?» ruggì.

Nicole parve sorpresa dall’affondo del figlio, ma solo per un breve istante. «D’accordo, vuoi una motivazione migliore e che non riguardi me? È un uomo sposato.»

Le sue labbra si erano fatte ancora più sottili di quanto fossero solitamente mentre continuava a tenere gli occhi fissi su Jack, lo sguardo più severo che mai. Il giovane ricambiò quello sguardo, dopodiché si sistemò meglio la giacca e afferrò le sue cose – una borsina in plastica e una serie di fogli stropicciati – e si voltò appena in direzione della porta. «Lui mi ama. Sei libera di pensare quello che vuoi, ma puoi star certa che non lo lascerò.»

Diede le spalle a Nicole, senza la minima intenzione di ascoltare alcun tipo di risposta da parte sua e uscì di casa a passo spedito.

Camminando verso il suo appartamento finì con il ripensare alla breve diatriba avuta con la madre. Con la scusa di volere il meglio per il figlio, Nicole aveva spesso interferito con le scelte di Jack e lui ne era stanco. Anche se Louis in più occasioni aveva fatto pensare il peggio sul loro futuro come coppia, il ragazzo era convinto che si trattasse solo di tempo prima che Louis si lasciasse andare completamente. Jack ne era sicuro. Louis non lo raggiungeva a casa sua quasi ogni giorno per parlare della carriera politica di Nicole, lo faceva per stare con lui, per sentirlo suonare il pianoforte, per averlo. Un giorno anche sua madre lo avrebbe capito.

Quando raggiunse il condominio in cui viveva, il nervosismo che aveva addosso non era ancora passato del tutto. Salì in fretta le scale fino all’ingresso di casa; raggiunto il pianerottolo si fermò, osservando la porta d’ingresso di Riley. Lei non era in casa. Jack conosceva a menadito gli orari lavorativi della ragazza, sapeva che fino alle sei di sera non sarebbe rientrata.

Estrasse il contenuto dalla bustina in plastica. Era una confezione di marshmallow, una di quelle che lui e la ragazza erano soliti consumare insieme di tanto in tanto, quando Jack la raggiungeva nel suo appartamento. Lui era in debito di una confezione ed era intenzionato a portare quella che aveva comprato a Riley quella stessa sera, nella speranza di cominciare a ricostruire il loro legame a una settimana di distanza da quella fatidica notte. Tuttavia sentì che non sarebbe servito. Se avesse aspettato la sera e raggiunto Riley avrebbe certamente mandato tutto all’aria sfogandosi con la ragazza di quello che era accaduto fra lui e sua madre. Non poteva rischiare e preferì non farlo. L’avrebbe cercata un altro giorno, quando sarebbe stato a mente lucida e senza nulla di irritante a confondergli i pensieri.

 

*

 

Le borse della spesa sbilanciarono non poco Riley mentre tentava di salire le scale del condominio con il minore sforzo possibile. Il pacco da sei bottiglie d’acqua le stava facendo male alla mano e quando terminò anche l’ultimo gradino, raggiungendo il secondo piano, si sentì sollevata.

Era piuttosto stanca. La giornata lavorativa l’aveva impegnata più del solito. Sei ore in piedi erano pesanti, soprattutto quando la notte se ne era dormite sì e no quattro. Percorse gli ultimi metri che la separavano dall’ingresso del suo appartamento e appena lo raggiunse posò a terra le borse della spesa e il pacco dell’acqua, sorpresa. Ad attenderla, appoggiato in equilibrio sulla maniglia della porta c’era una confezione di marshmallow, intatta. Il sacchetto rosso e trasparente che conteneva i gonfi cilindretti di zucchero era della marca preferita da lei e Jack. Sopra la confezione era stato appoggiato un foglietto, talmente in bilico che sembrava in procinto di cadere.

Riley afferrò il pezzo di carta, riconoscendo immediatamente la calligrafia di Jack.

Ero in debito di uno.

La ragazza rilesse quelle parole più volte, con un’espressione indecifrabile in viso. Infine afferrò il pacchetto di marshmallow, lo tastò senza motivo, sentendo i dolcetti morbidi anche attraverso la plastica della confezione. Si voltò verso l’appartamento n°23, quello esattamente di fronte al suo dove, quasi sicuramente, si trovava Jack.

Non sapeva per quale motivo il ragazzo avesse preferito lasciarle sulla porta i marshmallow con un biglietto, ma per quanto le sarebbe piaciuto chiederglielo, non lo fece. Si limitò a puntare gli occhi verdi sullo spioncino della porta. Alzò il biglietto per farlo vedere e sorrise, come se, da dietro alla porta, qualcuno la stesse osservando. Dopodiché recuperò le sue borse ed entrò in casa.

Oltre la porta del proprio appartamento Jack si sentì improvvisamente più sollevato. Se Riley gli aveva sorriso significava che c’era ancora una speranza.

 

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Capitolo 4
*** Quattro ***


Il venerdì pomeriggio aveva sempre un sapore speciale per Jack. Era il giorno della settimana in cui gli veniva più semplice rilassarsi, abbandonarsi ai piaceri più comuni delle persone – come il cibo o il riposo – nella totale speranza di dimenticarsi completamente del mondo che continuava a ruotare fuori dalla porta di casa. Probabilmente ciò era anche legato al fatto che il giovane aveva l’abitudine di uscire il venerdì sera, dando fondo a buona parte dei risparmi che racimolava nell’arco della settimana e pregustarsi quella prospettiva non era niente male per uno che amava i locali affollati, i drink e i flirt con gli estranei.

Alle 16:51 il ragazzo era seduto dietro al proprio pianoforte verticale intento a suonare un pezzo di Erroll Garner. La finestra che aveva alle sue spalle proponeva la vista della prima periferia di Washington, appena fuori dal cuore della città. Il pomeriggio autunnale era mite e la luce, resa ancora più viva dal cielo terso, piacevole: la giornata ideale da trascorrere fuori casa.

Quando Jack fu prossimo a raggiungere uno dei passaggi più complessi della canzone qualcuno suonò alla porta. Il campanello squillo frettoloso e fu subito seguito da una serie di colpi che battevano insistentemente e rapidamente alla porta. Dato che non stava aspettando visite, il ragazzo rimase interdetto un momento, infine si alzò dalla sua postazione, attraversò il soggiorno e andò ad aprire.

Davanti a sé si trovo Louis nel suo soprabito beige, la ventiquattrore in mano. I capelli dell’uomo erano perfettamente scompigliati come al solito, corte ciocche bionde indomabili. La bocca di Jack si sciolse in un sorriso quando si rese conto di essere incredibilmente felice e sorpreso di vedere che Louis lo aveva raggiunto a casa. Solitamente il venerdì non si erano mai incontrati.

Tuttavia si accorse che l’uomo era piuttosto nervoso. Il suo respiro era mozzato e lo sguardo chiaramente nervoso: era agitato.

«Ciao» disse Jack, facendosi da parte perché l’altro potesse entrare in casa. Ignorò volontariamente l’espressione irrequieta di Louis, pensando che probabilmente avesse incontrato qualcuno nel tragitto che separava il suo studio dall’appartamento. Louis, infatti, era sempre piuttosto vigile quando si trattava di raggiungere Jack a casa sua. Non volendo far sapere a nessuno della loro relazione – che avrebbe comportato non pochi problemi al politico – prestava particolare attenzione a non farsi notare da nessuno né quando arrivava, né quando se ne andava.

L’uomo entrò, chiudendosi in fretta la porta alle spalle. Non si tolse neanche il soprabito ma si limitò a posare in terra la valigetta contenente tutte le sue cose. Jack rimase a guardarlo, affascinato dalla sua figura e felice di vederlo in casa propria anche quando non avrebbe dovuto esserci.

Louis era più grande di lui di otto anni, ma a trentasei conservava ancora fascino sufficiente a conquistare chiunque. L’uomo aveva il dono della parola. Era capace di dire la cosa giusta al momento opportuno, di comporre frasi capaci di scuotere le membra e di sussurrarne altre in grado di aizzare il desiderio. La sua voce era decisa e vibrante, capace di tenere incollate alle sua labbra le masse. Jack lo sapeva ed era rimasto colpito e rapito da quella figura. Il fatto che anche Louis non fosse riuscito a resistere al fascino innegabile emanato da Jack era stata la fortuna del più giovane, che era così stato in grado di portare il pesce fino alla sua rete.

«Sono contento di vederti qui. Stavo suonando una canzone di Erroll Garner

Garner era uno dei compositori che Jack aveva fatto conoscere a Louis. Era sua la canzone che Jack aveva suonato quattro giorni prima, quando Louis si era risvegliato sul divano del ragazzo dopo la loro riappacificazione notturna. L’ennesimo screzio che si era risolto nel solito modo. Louis aveva raggiunto il giovane e si era scusato per le parole che gli aveva detto poche sere prima al telefono e Jack aveva ceduto in fretta, permettendo al suo corpo di diventare ancora una volta il foglio bianco su cui firmare una nuova pace. In quella notte la rottura con Riley era immediatamente passata in secondo piano.

Louis rimase a guardare Jack seduto dietro al pianoforte. Non diede segno di volersi muovere dalla posizione in cui stava, né di volersi spogliare. Le mani di Jack cominciarono a suonare note che conosceva fin troppo bene e che riempirono il soggiorno in una sequenza perfetta.

Sollevò gli occhi sull’uomo, convinto di essere in procinto di vedere il suo sorriso perfetto, ma non fu così. Louis era rigido, serio e l’espressione era nervosa e agitata. Qualcosa non andava e Jack sentì le spalle cedergli appena se ne rese effettivamente conto.

«È tutto a posto?» chiese, smettendo subito di suonare e inclinando leggermente la testa di lato.

Lo sguardo che Louis gli scoccò lo fece innervosire. L’uomo era imperscrutabile e per Jack non era affatto un buon segnale. Allontanò le dita dai tasti del pianoforte, portandosele in grembo.

Louis prese una lunga boccata d’aria. Posò in terra la ventiquattrore e si decise ad aprire bocca: «Lei lo sa, non è vero?»

Jack si morse istintivamente il labbro inferiore a quelle parole, guardando da un’altra parte. Non gli serviva indagare riguardo ciò che l’altro aveva appena detto, sapeva perfettamente che si riferiva a Nicole. Il giorno prima sua madre gli aveva detto di essere a conoscenza della relazione fra loro due, tuttavia non avrebbe mai pensato che, in poco più di ventiquattro ore, il fatto di essere stati scoperti sarebbe giunto anche alle orecchie di Louis.

«Chi… chi te lo ha detto?» mormorò Jack, lo sguardo sempre tenuto basso.

Louis avanzò di qualche passo, appoggiando con forza le mani sulla cassa del pianoforte. «Questo non ha importanza» esclamò. «Lei lo sa Jack

L’uomo cominciò a camminare nervosamente avanti e indietro per il soggiorno. Si tormentava le mani, in preda alla rabbia. Jack continuava a tenere gli occhi bassi, alzandoli appena solo quando sentì l’altro riprendere parola: «Non capisco come tu riesca a rimanere tanto tranquillo, a suonare il pianoforte.»

Si voltò verso Jack, che si strinse appena nelle spalle.

«Nicole manderà tutto a puttane. La mia intera vita, il mio matrimonio, la mia carriera!»

Riprese a percorrere la piccola stanza a grandi passi. «Non avrei mai dovuto infilarmi in una simile situazione.»

Louis continuò a imprecare verso se stesso e Nicole per un po’, mentre Jack continuava a seguirlo con lo sguardo sentendosi sempre più avvilito. La gioia comparsa alla vista di Louis era svanita in fretta, evaporata dal suo corpo già dal momento in cui l’altro aveva posto la prima domanda. Tuttavia più l’uomo parlava più Jack si sentiva peggio. Ciò che stava dicendo sulla loro storia era diventata una tortura, una lama infilata nella carne e affondata lentamente. Il ragazzo non aveva ribattuto mentre Louis parlava di ciò che c’era fra loro definendo il tutto un grossolano errore, una debolezza inspiegabile, uno sbaglio immotivato.

Nonostante tutte le parole pronunciate dall’altro Jack si sforzò di guardarlo, sentendosi confuso. Louis non poteva aver pronunciato tutte quelle cose volutamente, era probabile che la preoccupazione di essere scoperto lo avesse innervosito più del dovuto. Sei mesi non potevano essere uno sbaglio, non da parte di qualcuno che diceva di ricambiare i sentimenti di Jack, i quali erano sinceri.

«Louis» lo chiamò.

L’uomo smise di parlare e si voltò verso il ragazzo, serio. Jack si alzò dallo sgabello posto dietro al pianoforte e si avvicinò all’altro, sorridendo. «Andiamo, non preoccuparti. Risolveremo questa cosa insieme.»

Portò le mani al viso di Louis, come aveva fatto più volte. Non appena le sue dita sfiorarono il volto dell’uomo, però, quest’ultimo si divincolò in fretta, respingendo con un gesto deciso Jack.

«Non toccarmi!» ruggì.

Jack rimase sconvolto. Puntò lo sguardo sul nulla, proprio davanti a sé, gli occhi chiari divennero improvvisamente inespressivi.

Louis lo guardò con un misto di rabbia e disgusto. «Tu non capisci. Qui non si tratta di tua madre e del fatto che sappia di noi.»

Aveva un tono freddo e distaccato, una voce gelida che Jack non gli aveva mai sentito prima. Non osò alzare gli occhi su di lui quando lo sentì riprendere parola: «Non voglio più vederti. Voglio cancellare questi sei mesi dalla mia memoria. Si è trattato solo di sesso, Jack, e nient’altro. E vuoi sapere un’altra cosa? Mi fa schifo quello che c’è stato fra di noi e non avrei mai dovuto permettere che accadesse.

«Mi sentivo solo, stavo attraversando un periodo di crisi e non sapevo più da che parte guardare quando ti ho incontrato. Quando poi ho riaperto gli occhi e ho capito cosa stava succedendo ho provato il voltastomaco verso me stesso.»

«Non puoi pensarlo veramente.»

La frase uscì rotta dalle labbra di Jack, come un mormorio incerto e spaventato. Si era sentito disintegrarsi pezzo dopo pezzo a ogni singola parola pronunciata da Louis. La rabbia di cui l’uomo aveva intriso le sue affermazioni era evidente e maledettamente dolorosa.

«No, lo penso veramente, invece.»

Il nuovo affondo di Louis fu quello letale. Jack sentì la gola chiudersi e si scoprì incapace di replicare. Tuttavia l’altro non aveva ancora terminato. Recuperò la sua ventiquattrore e diede l’ennesima occhiata furente al giovane. «Tua madre non avrà bisogno di dire ai giornali di noi. Non capisco come io abbia fatto a essere tanto stupido. Non vale la pena mettere a rischio la mia famiglia e la mia carriera per uno come te. Se ti sei illuso che lo avrei fatto hai chiaramente sbagliato. Una vita misera come la tua non fa per me.»

Uscì di casa, sbattendosi dietro la porta, lasciando nel soggiorno Jack, talmente atterrato da apparire come l’ombra di se stesso.

 

*

 

Dopo il terzo bicchiere il gusto secco della vodka perdeva di intensità. Bevendola direttamente dalla bottiglia Jack non sapeva l’equivalente in bicchieri di ciò che aveva ingurgitato, ma il terzo doveva ormai essere passato. Seduto al bancone della cucina con penisola, nella casa dei genitori, il ragazzo stava trascorrendo un lunedì sera tetro. Teneva gli occhi fissi sul televisore, le immagini del notiziario delle 22.30 baluginavano sullo schermo. Il giornalista fece poi partire un servizio girato quel pomeriggio. Il nome di Louis Walker comparve in sovrimpressione, ma Jack non fece una piega. Continuava a tenere lo sguardo sul televisore in maniera assente, la bottiglia vuota per metà stretta in mano e un senso di inadeguatezza dentro.

Le parole che Louis gli aveva urlato contro il giorno in cui lo aveva lasciato erano state un autentico tormento per il ragazzo. Gli avevano martellato il cervello per tre giorni, rimbalzando da una parte all’altra della sua mente e portando a galla ricordi che gli avevano impedito di dormire.

Non poterne parlare con qualcuno era stato il colpo del KO, ciò che lo aveva portato a preferire l’alcol e la droga alla compagnia delle altre persone, anche se quelle persone erano i suoi famigliari. Tuttavia ogni volta che l’effetto della cocaina svaniva o che i postumi dell’alcol erano scivolati via, la realtà tornava a tormentare Jack e il senso di fallimento si mescolava in lui con la frustrazione. Invece di calare, il dolore per il modo in cui Louis se n’era andato faceva sempre più male.

Prestò un momento attenzione allo schermo televisivo. Non aveva idea di ciò che il giornalista avesse chiesto a Louis, ma quest’ultimo stava rispondendo con grande trasporto, mettendo in mostra la sua dote migliore: la parola. Louis era in grado di articolare e comporre frasi per riuscire ad assoggettare chiunque, per conquistare le persone o per distruggerle proprio come era riuscito a fare con Jack.

Al ragazzo, però, mancava. Continuava a guardare la sua immagine sullo schermo con un senso di malinconia crescente. Per sei mesi lo aveva avuto accanto e nonostante non potesse far sapere a tutti della loro storia gli andava bene ugualmente perché era convinto che si trattasse solo di tempo prima che Louis capisse di non poter fare a meno di lui.

Si sentì infinitamente stupido per essersi illuso fino a quel punto e cominciò a domandarsi in cosa gli rimaneva da credere dopo gli avvenimenti delle ultime settimane. Non aveva più Louis e, prima di lui, aveva perso Riley. I suoi progetti per il futuro continuavano a essere un mucchio di fogli stropicciati, idee e budget che non possedeva e la sua famiglia lo faceva sentire perennemente fuori luogo.

Alla televisione Louis cominciò a parlare della famiglia americana, il nucleo da tutelare assolutamente, ciò che, a suo dire, rischiava di perdere la propria identità a causa dei democratici. A quelle parole un forte senso di nausea percosse Jack che spense il televisore in preda a un nervosismo crescente.

Non sapeva a cosa pensare. Si sentiva completamente atterrato e privo di punti d’appoggio per poter risalire a galla. Gli occhi grigio-azzurri erano lucidi per via della stanchezza ma privi dei loro consueti riflessi.

Un solo pensiero si appropriò di lui, un’idea che non aveva mai preso in considerazione ma che, nello stato in cui si trovava, sembrava essere l’unica da riuscire a seguire. La sua mente si era offuscata per via di tutte le sensazioni avvilenti che aveva amalgamato al suo interno e l’alcol aveva contribuito ad appannarla ulteriormente.

Il suo corpo parve muoversi da solo. Prese un ultimo, lungo, sorso dalla bottiglia di vodka e si alzò dallo sgabello, dirigendosi verso il garage in cui sua madre parcheggiava l’auto ogni sera. Sul mobiletto proprio accanto alla porta del garage, le chiavi della macchina giacevano immobili, riflettendo lievemente i bagliore della luce proveniente dalla cucina. Jack le afferrò, lasciando al loro posto la bottiglia aperta e quasi vuota che gli aveva tenuto compagnia nelle ultime ore. Sempre con sguardo vacuo aprì la porta del garage e se la richiuse alle spalle. Rimase a guardare un momento la berlina scura ed elegante tirata a lucido, il portone chiuso dietro di essa. Scese i pochi scalini che lo separavano dalla vettura in modo quasi strascicato e vi salì, infilando le chiavi nella serratura e avviando il motore, dopodiché abbasso il finestrino.

Fu un attimo. Appena il finestrino venne abbassato completamente il poco autocontrollo rimasto a Jack si disintegrò. Lacrime di rabbia e tristezza cominciarono a scendere dai suoi occhi e lui non fu in grado di trattenerle. Il respiro gli venne strozzato dai singhiozzi e anche stringere con forza il volante dell’auto non lo aiutò in alcun modo a sfogarsi. Si abbandonò completamente al pianto, sentendosi sempre più senza via d’uscita.

Intorno a lui, intanto, la stanza cominciò a riempirsi di gas.

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Capitolo 5
*** Cinque ***


Lo sguardo di Riley continuava a seguire i capi di vestiario che venivano spinti dall’acqua nel cestello della lavatrice in una spirale continua. Stava aspettando che il lavaggio terminasse, così da recuperare gli indumenti puliti; gli abiti colorati, la nota effervescente del suo guardaroba.

La lavanderia comune del condominio era un luogo privo di interesse, per questo gli occhi di Riley non si staccavano dai vestiti che roteavano nella lavatrice, il muro di mattoni alle spalle di quest’ultima era decisamente più noioso. Vittima dell’attesa la mente della ragazza prese a vagare e come le succedeva da troppi giorni, ormai, Riley si ritrovò a pensare a Jack per l’ennesima volta.

Il ragazzo mancava dal suo appartamento da più di quindici giorni. L’ultima volta che Riley lo aveva sentito uscire di casa era stato il lunedì di quasi tre settimane prima e poi non aveva più dato alcun segno della sua presenza. Quello stesso week end Jack non si era visto, così come quello successivo e la ragazza era ormai sicura che anche quel giorno – il sabato che anticipava il terzo week end dopo la scomparsa del ragazzo – di lui non ci sarebbe stata alcuna traccia.

Una simile assenza da parte di Jack era strana e la cosa agitava non poco la ragazza. Capitava che lui sparisse, di tanto in tanto, ma mai per periodi così lunghi. Più i giorni passavano più Riley temeva il peggio e non riusciva a darsi pace. Avrebbe voluto cercarlo, ma non aveva idea da che parte cominciare. Aveva addirittura pensato di raggiungere la casa della famiglia Miller e chiedere loro se Jack si trovasse là e, in caso contrario, se sapessero dove fosse andato a cacciarsi. Non lo aveva mai fatto perché le era mancata la forza per imporsi una simile missione, perché ancora non aveva pensato a cosa dire se si fosse trovata faccia a faccia con Jack. Dopo quel pacchetto di marshmallow abbandonato davanti al suo ingresso di casa non aveva più avuto segnali da parte del ragazzo. Se quello era un ramoscello d’ulivo offerto per la loro riappacificazione, lei lo aveva accettato, ma non era riuscita ad andare oltre. Sentiva che, alla vista di Jack, le sarebbero mancate le parole, l’intuizione per articolare la frase giusta e la forza per non lasciarsi abbandonare ai ricordi e cadere così preda del rimorso.

A distanza di quattro settimane da quella fatidica notte, però, era certa che le cose in lei erano cambiate e che possedeva nuovamente la forza necessaria per ricostruire poco a poco il suo legame con Jack. Tuttavia del ragazzo non vi era più traccia e questo era il nuovo problema affiorato a fermare tutto proprio quando lei si sentiva pronta a cominciare.

La lavatrice smise di vibrare con forza, terminando di scaricare l’acqua dopo la centrifuga, il bucato era pronto. Riley inspirò il profumo di lavanda che tanto le piaceva del suo detersivo e iniziò a prendere gli abiti puliti e a ammonticchiarli nel cesto per poter così risalire in casa con il bucato fatto. Salì i due piani di scale con calma, la mente che ripercorreva le strofe di una canzone e arrivò all’appartamento 24. Estrasse le chiavi dalla tasca della felpa, scostò i capelli che, sciolti, si ostinavano a ricaderle sul viso e infilò la chiave nella serratura. Prima di farla scattare sentì dei rumori provenire dalle scale e si voltò istintivamente a guardare di chi si trattava. Dalla rampa, nascosta dietro la parete, comparve Jack.

Il cesto del bucato per poco non cadde dalle mani di Riley appena vide il ragazzo. Jack teneva gli occhi bassi, intento a cercare nel mazzo di chiavi quella che gli avrebbe permesso di aprire la porta di casa. Si accorse di sfuggita della presenza di qualcuno nel corridoio, proprio davanti a lui e come sollevò lo sguardo vide Riley che lo stava osservando. Le labbra gli si incurvarono in un sorriso e tutto il suo volto si distese.

«Riley, ciao» disse, apparendo davvero felice di avere la ragazza davanti a sé.

Lei era immobile a scrutare attentamente il ragazzo, come per accertarsi che fosse veramente lui e non qualcuno con le sue sembianze. Lo trovò dimagrito, cosa che risultava sospetta. Jack era già piuttosto magro, ma il suo viso era più scavato di quanto lei ricordasse. Tuttavia le fu inevitabile trovarlo perfetto, come era da sempre. I capelli corvini erano leggermente più lunghi e sempre perfettamente scompigliati sopra la sua testa. Il suo sorriso era il migliore che lei potesse sperare di vedere e gli occhi grigio-azzurri continuavano a essere il coronamento di un viso impeccabile.

«Ciao» rispose infine. Rimase sorpresa dalla sua voce, che le parve incerta. Non sapeva esattamente come sentirsi, ma le fu innegabile essere sollevata e felice del fatto di avere nuovamente Jack davanti agli occhi.

Il ragazzo rimase a guardarla, il sorriso in volto, senza dire nulla. Continuava a tenere la mano con le chiavi sollevata, ma il mazzo aveva perso ogni interesse. Riley abbassò un momento gli occhi sulla cesta con i vestiti puliti, il suo sguardò vagò da lì alla sua porta d’ingresso.

«Vuoi venire a bere qualcosa?» chiese all’improvviso.

Un lampo di luce attraversò rapido gli occhi di Jack. Quest’ultimo si esibì in un nuovo sorriso, molto più amabile del precedente. Prima che potesse rispondere, però, Riley riprese la parola: «Posso offrirti un caffè. O un thè. Ho anche della cioccolata calda, se preferisci.»

«Un caffè andrà benissimo, grazie.»

Fu il turno di Riley di sorridere a Jack. Aprì la porta di casa e fece strada al giovane, che seguì il piacevole profumo di lavanda fin dentro l’appartamento. Nella casa di Riley nulla era cambiato e a Jack fece uno strano effetto rientrarvi dopo un mese. Non si accomodò come era abituato a fare, aspettò che fosse lei a dargli il permesso di farlo. Riley scomparve un momento nella sua camera e ritornò quasi subito nel soggiorno con angolo cottura. Raggiunse i fornelli, voltandosi verso Jack. «Siediti pure.»

Il ragazzo si sistemò a un lato del tavolo, tamburellando leggermente sulla sua superficie con le dita. Si sfilò la giacca e si tirò su le maniche del maglione. Il caffè era già pronto. Riley lo fece scaldare per bene e ne riempì due tazze, porgendo la propria a Jack. Si sedette al lato opposto rispetto a quello in cui si trovava lui e lo guardò da dietro il fumo argentato che saliva dalla sua tazza.

«Era da un po’ che non ti vedevo» ammise.

Jack si strinse nelle spalle, una leggera smorfia in viso. «Sono dovuto rimanere per qualche giorno dai miei. Niente di che, solo questioni famigliari.»

«Ho capito. Beh, mi… mi fa piacere rivederti.»

«Anche a me. Volevo giusto passare a salutarti appena rientravo.»

A Jack non sfuggì il sussulto leggero che Riley compì appena lui smise di parlare. C’era ancora della tensione fra loro ed era abbastanza sicuro di sapere perché. Probabilmente Riley era convinta che lui si sentisse a disagio avendola davanti dopo aver scoperto che lei lo amava. Tuttavia per Jack la cosa era quasi priva di importanza. Avrebbe fatto il possibile per riavere la sua amica e ci avrebbe provato anche con la consapevolezza di quel sentimento troppo forte che non era in grado di ricambiare. Ciò che complicava le cose era il senso di inadeguatezza che quasi certamente provava Riley e che la faceva sentire in imbarazzo come non era mai stata davanti a lui. C’era tanto su cui lavorare e la parte più grossa del compito spettava proprio a lui.

«Cos’hai fatto di bello nell’ultimo periodo?»

Jack provò a tastare il terreno, per vedere quanto Riley avesse ancora voglia di parlare di sé. La ragazza fece un gesto vago con la mano. «Niente di che a essere onesti. Lavoro, film, Playstation. Questa è stata la mia routine.»

Si sentiva stupida ad ammettere una cosa del genere, ma in fondo si trattava della realtà. Fatta eccezione per qualche sporadica visita da parte di Elizabeth, a Riley era tornata voglia di ricomparire in mezzo alle persone solo negli ultimi giorni. Jack bevve un sorso di caffè, annuendo.

«Ho visto che tua madre sta andando piuttosto bene nei sondaggi» riprese poi la ragazza.

«Sì» fu la risposta, una leggera risata ad anticiparla. «Siamo tutto molto felici per lei, ovviamente. Anche se è ancora presto per cantare vittoria. Siamo a malapena a metà della campagna elettorale. Ci sono diversi stati che non è ancora riuscita a conquistare.»

Il giovane parlava della campagna elettorale della madre con disinvoltura, ormai troppo abituato ai rapporti fra la sua famiglia e la politica. Suo padre era stato Presidente degli Stati Uniti due mandati prima e sua madre, che stava concorrendo per quella carica alle prossime elezioni, era l’attuale Segretario di Stato del governo. Anche suo fratello Connor avrebbe sicuramente seguito le orme dei genitori. L’unico a cui di politica importava il minimo necessario era proprio lui. A lui sarebbe bastato riuscire a portare a termine il suo progetto per sentirsi realizzato, ovvero aprire, finalmente, il night club che aveva sempre desiderato possedere. Una casa dei vizi – come suo padre lo aveva definito – per cui non possedeva il denaro proprio perché i vizi di cui era prigioniero gli portavano via i soldi a ogni fine settimana. Una situazione difficile la sua che in pochi, davvero in pochi, conoscevano.

Come se gli avesse letto nella mente, Riley domandò: «Il night invece, come procede?»

Jack si strinse nelle spalle, allontanando un momento lo sguardo chiaro dalla ragazza. Inspirò a fondo prima di parlare: «Ah, a rilento, purtroppo. Non ho ancora trovato un finanziamento. Vorrei evitare di indebitarmi con una banca.»

«I tuoi genitori non sono disposti ad aiutarti?»

Scosse la testa: «No. Mia madre mi ha detto che se mio padre fosse stato d’accordo mi avrebbe dato i soldi. Ma, com’era prevedibile, mio padre non vuole assolutamente che io apra il night.»

Pareva essere più irritato che dispiaciuto per la cosa.

«Comunque sia non mi arrendo. Da qualche parte ci sarà senz’altro qualcuno disposto a mettersi in gioco con me.»

Sorrise, con apparente sicurezza. Tuttavia Riley riuscì a notare la leggera incertezza che trapelava ugualmente da quel gesto. Conosceva ormai troppo bene Jack e sapeva che la paura di non riuscire a realizzare il proposito per il quale aveva perso il sonno tante volte lo tormentava. Quel night club, che rimaneva solo un progetto ambizioso e studiato fino ai minimi dettagli, restava una delle cose che avrebbe permesso a Jack di dare un senso effettivo alla propria vita.

«Le idee chiare le hai. Secondo me è solo questione di tempo.»

Riley tentò di rincuorarlo così, con parole in cui credeva. Jack rispose sorridendole e bevve un nuovo sorso del suo caffè, ormai prossimo a essere ultimato. Gli fece piacere vedere che la ragazza avesse ancora voglia di spendere parole di fiducia nei suoi confronti. Anche se sottile e fragilissimo c’era pur sempre qualcosa che continuava a unirli. Era fondamentale evitare di compiere gesti che avrebbero potuto rovinare tutto una seconda volta.

Prima che Jack potesse ringraziare per quell’iniezione di fiducia il suo telefonino squillò. Sospirò, cercando fra le tasche della sua giacca il cellulare, che continuava ostinatamente a suonare. Quando lo ebbe finalmente trovato le sue labbra si tirarono in una smorfia. Passò una mano fra i capelli scuri e lanciò un’occhiata a Riley. «Scusami» le disse, apparendo davvero dispiaciuto. «È una di quelle chiamate che non posso ignorare. E mi ha anche ricordato che ho un impegno.»

Si alzò in piedi, infilandosi in fretta la giacca. Il telefono, intanto, non ne voleva sapere di zittirsi. «Grazie per il caffè. Ci vediamo presto.»

Riley replicò al saluto con un gesto della mano e un sorriso appena abbozzato. Jack aspettò quel cenno prima di regalare un nuovo sorriso alla ragazza e uscire dal suo appartamento, rispondendo finalmente al cellulare.

Lei rimase a sedere al tavolo, finendo il suo caffè, gli occhi sempre puntati sulla porta chiusa. Jack aveva riportato il suo profumo in casa della ragazza. La cosa portò una sorprendente ventata di speranza in Riley. Il ragazzo si era comportato con lei come aveva sempre fatto e questo non poteva che farle augurare che, con il tempo, le cose fra loro si sarebbero aggiustate.

Tuttavia nel ragazzo c’era qualcosa che non andava. Il modo in cui lui aveva parlato del night e dall’occhiata che aveva lanciato al cellulare appena letto il nome sulla schermata, le avevano permesso di intuire che non era tutto così sotto controllo come il tono usato da Jack voleva lasciar supporre. Con molta probabilità qualcosa lo tormentava, oppure qualcosa gli era accaduto e continuava a perseguitare il giovane a distanza di giorni.

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Capitolo 6
*** Sei ***


Per Jack non era insolito aggirarsi per Washington alle due di notte passate, il livello dell’alcol più alto del normale e un corpo che seguiva gli ordini dati da una mente che ragionava con confusa lucidità.

Connor abitava piuttosto distante da casa di Jack. Il giovane aveva camminato per una buona mezz’ora dopo essere uscito dal pub prima di raggiungere il palazzo in cui il fratello aveva un ampio appartamento condiviso con la compagna. Si era trovato davanti alla porta di casa senza neanche rendersi conto che l’ingresso del condominio era aperto, tre piani più in basso. Prese a bussare alla porta con insistenza, aspettando che qualcuno gli aprisse.

Connor spalancò la porta poco tempo dopo e Jack quasi precipitò nella stanza.

«Oh, ehi. Ciao» farfugliò, voltandosi per vedere in faccia il fratello. Quest’ultimo richiuse la porta e incrociò le braccia sul petto, guardando Jack di sbieco; non sembrava sorpreso di trovarselo davanti. Amber, la compagna di Connor, comparve sulla soglia della camera da letto.

«Ciao» disse Jack come la vide. «Non vi ho disturbati, spero» chiese, rivolgendosi nuovamente al fratello.

Fu Amber a rispondergli, gelida: «Sono quasi le tre di notte. Vedi tu se ci hai disturbati o meno.»

Un sorriso divertito si fece strada sulle labbra del ragazzo. «Scusate, sono venuto qui senza pensarci. Devo parlarti, Connor.»

Connor scoccò uno sguardo alla compagna, che subito capì e rientrò in camera da letto, richiudendosi alle spalle la porta. Il ragazzo tornò a concentrarsi su Jack. «Che cosa c’è ora?» chiese serio. Pareva essere abbastanza indispettito dall’improvvisata del fratello in casa propria, nonostante non fosse la prima.

Jack non fece caso al tono usato da Connor. «Si tratta del night. Non riesco a darmi pace» disse, passandosi le mani fra i capelli.

«Beh, forse dovresti. I nostri genitori sono stati piuttosto chiari. O trovi i soldi da solo o rinunci al progetto. E conoscendoti puoi già rinunciare.»

Jack lo guardò, abbandonando le braccia lungo i fianchi. «Perché tu non puoi aiutarmi?»

«Io? Mi prendi in giro? Jack è un investimento troppo importante. Non sono sicuro di volerlo fare. Senza contare che nostro padre si infurierebbe con entrambi.»

Connor cominciava a irritarsi. Avevano già parlato dell’argomento in un paio di occasioni e lui aveva preso le distanze dal progetto del fratello, un po’ perché voleva che Jack se la cavasse da solo e un po’ perché non era certo di volersi impegnare nell’apertura di un night club, anche se si trattava solo di metterci i soldi.

Jack andò a sedersi sul divano, sistemandosi sul bracciolo, il corpo rivolto al fratello che era ancora in piedi accanto alla porta, con le braccia incrociate. Sospirò, scuotendo la testa. «Non mi importa. Gli passerà quando vedrà che tengo davvero a quel posto. Senti, so di essere un disastro per la maggior parte del tempo, ma voglio davvero fare questa cosa.»

Continuava a inumidirsi le labbra con la punta della lingua, le mani che si tormentava a vicenda e lo sguardo lucido. D’improvviso, però, parve essere perfettamente consapevole di ogni parola che usciva dalla sua bocca, come se il troppo alcol che aveva bevuto nell’arco della sera fosse improvvisamente evaporato via. «È la mia occasione, quella che mi permetterebbe di dare un senso alla mia vita, di non sprecare le mie giornate a bere e a mandare a monte tutte le buone intenzioni che ho sempre quando esco dalla comunità.»

Connor inarcò le sopracciglia, una risata sarcastica uscì leggera. «E per fare questo apriresti un night club? Ti rendi conto di che controsenso stai parlando?»

«Vuoi che apra una libreria? La farei morire dopo una settimana» fu la replica, pronta e sincera, di Jack. «Un night club è il mio ambiente, un posto in cui ci sto bene. Qualcosa a cui non permetterei mai di andare in rovina. Voglio offrire un posto nuovo a questa città e farei il possibile perché il nome della nostra famiglia figuri al meglio.»

Distolse lo sguardo un momento. «Mi serve qualcosa che mi permetta di mettermi in gioco veramente. Qualcosa che mi tenga concentrato e determinato, che mi faccia capire che posso riuscire in qualcosa. Che mi dia un senso.»

Connor rimase a guardarlo, immobile. La determinazione di cui erano cariche le parole che il fratello aveva appena pronunciato era evidente. Cominciò a chiedersi in che modo lo avrebbe potuto aiutare che non fosse il finanziamento per il night club e non trovò una risposta. Jack aveva già avuto più occasioni di dare una svolta alla propria vita ma non ne aveva mai usata seriamente nemmeno una. Più volte aveva mandato tutto all’aria abbandonandosi ai vizi che, Connor, sapeva possedere. Tuttavia in tutte quelle occasioni non aveva mai pronunciato parole simili, talmente sincere che sembrava impossibile potessero essere uscite dalla bocca di Jack nello stato in cui si trovava in quel momento.

Connor prese una lunga boccata d’aria, ripensando a ciò che il fratello gli aveva appena detto. Alla fine si decise a fidarsi di lui un’ultima volta. «D’accordo, ti darò i soldi» disse.

Jack si alzò immediatamente dal divano, un sorriso raggiante in volto, per poter andare ad abbracciare il fratello. Quest’ultimo, però, lo fermò con un eloquente gesto della mano. «Non fraintendere. È solo un prestito e fino a che non avrai ripagato il debito, metà dell’incasso della serata rimane a me. E non diremo ai nostri genitori che i soldi te li ho dati io, intesi?»

Jack annuì, il suo sorriso non ne voleva sapere di spegnersi. Connor gli aveva appena spianato la strada. Finalmente poteva dare vita concreta al suo progetto. La sua grande occasione era arrivata. Andò ad abbracciare il fratello, infischiandosene delle leggere proteste che si alzarono da parte di quest’ultimo. Connor si liberò dalla stretta e guardò l’altro, severo. «Ho la tua parola che questo è ciò che vuoi veramente?» domandò.

Il ragazzo annuì, deciso. Connor gli scoccò un’ultima occhiata, più lunga e inquisitoria delle precedenti, infine sospirò. «Va bene» concluse. Si passò una mano sul viso, avvicinandosi al telefono. «Ora però è meglio se torni a casa. Ti chiamo un taxi.»

 

*

 

Grazie a Connor Jack poteva finalmente concentrare buona parte delle sue giornate a perfezionare il progetto del night club. Le carte su cui segnava nomi, appunti, fornitori e dettagli continuavano ad aumentare. La cosa fu notevolmente d’aiuto al ragazzo, che grazie a ciò aveva avuto la possibilità di concentrarsi su qualcosa in modo da allontanare dalla mente il ricordo di Louis.

Il modo in cui l’uomo se ne era andato continuava a essere un tormento. Jack non era ancora riuscito a superare la cosa. Ogni volta che ci ripensava un forte senso di vuoto lo invadeva e il ricordo del gesto che aveva compiuto con la speranza di risolvere la sua situazione lo faceva sentire terribilmente sbagliato.

Quando si rese conto di star pensando nuovamente a Louis, nonostante fosse piegato sui suoi appunti per il night nel proprio appartamento, si sentì sopraffare da un’irritazione crescente. Cercò di pensare ad altro, tornando a concentrarsi sui suoi schemi, ma la penna prese a scorrere sulla carta con rabbia. Lasciò perdere ciò che stava facendo e si alzò, prendendo a camminare nervosamente nel soggiorno dell’appartamento, in quel momento fattosi improvvisamente troppo piccolo. Odiava essere in quello stato, non riusciva a sopportarlo.

Afferrò il cellulare, scorrendo la rubrica forsennatamente. Appena trovò il numero che stava cercando si calmò un momento, dopodiché scrisse in fretta un messaggio, inviandolo. Sapeva che gli sarebbe bastato aspettare un po’ prima di avere il modo di levarsi dalla mente Louis, almeno per quella notte. Nathan stava arrivando e Jack sapeva che aspettava da tempo di poter diventare la persona in grado di fargli dimenticare i problemi. Lo aveva capito già dal loro primo incontro nella comunità in cui aveva trascorso le sue giornate mesi prima. Per uno abituato a notare i dettagli come lui furono piuttosto evidenti le occhiate che Nathan gli lanciava, così come il modo in cui non allontanava il suo sguardo ogni volta che Jack cominciava a raccontare delle sensazioni provate prima e dopo una ricaduta nell’abisso della droga. Era stato proprio Nathan a trovarlo e contattarlo dopo che lui aveva smesso di partecipare alle sedute ed era stato sempre Nathan a fargli capire che avrebbe dato qualsiasi cosa per condividere con Jack i piaceri di un rapporto. Poteva essere la sua metà o il suo diversivo e nello stato in cui il ragazzo si trovava in quel momento ciò di cui aveva più bisogno era proprio un diversivo.

I minuti trascorsero lenti. Jack continuava a cercare modi per allontanare i pensieri peggiori e più fastidiosi e ci riuscì a malapena anche quando si sedette al pianoforte per suonare qualcosa.

Finalmente il campanello suonò. Il ragazzo si alzò rapidamente dalla sua postazione e andò ad aprire. Si trovò davanti Nathan, concentrato a scorrere gli occhi sullo schermo del suo smartphone. Era coetaneo di Jack e non era cambiato affatto dal loro ultimo incontro. I capelli erano freschi di rasatura, corti e castani e il volto coperto da una barba non troppo lunga e perfettamente curata.

«Sono venuto appena ho visto il messaggio» esordì Nathan, alzando solo in quel momento lo sguardo. Quando i suoi occhi nocciola incontrarono lo sguardo grigio-azzurro dell’altro – nervoso e risoluto – l’espressione di Nathan si fece incredula. Non gli sembrava vero di avere davanti Jack in quelle fattezze perfette.

«Ti stavo aspettando» fu la risposta di Jack, che afferrò il ragazzo per la giacca e lo trascinò in casa, baciandolo prima ancora di chiudergli la porta alle spalle.

Fu immediatamente un cercarsi reciproco e febbrile. Complice l’incredulità che lo stava ancora invadendo, Nathan finì in fretta vittima del desiderio. Non era passato molto tempo dal primo contatto che già le labbra di entrambi si erano schiuse per permettere alle loro lingue di incontrarsi. Fra i due quello che pareva avere più fretta era Jack. Trascinò Nathan fino al divano – da sempre preferito al letto per un amplesso – impedendo al ragazzo di interrompere il loro bacio, dopodiché gli bastò far scorrere verso il basso la zip della giacca per lasciargli intendere che voleva andare fino in fondo.

Nathan non avrebbe potuto chiedere altro. Lasciò cadere la giacca e subito la felpa la seguì. Quando entrambi rimasero con indosso la t-shirt si sfilarono da soli l’indumento, separandosi per la prima, vera, volta. Durò pochissimo. Tornarono a baciarsi nuovamente. Nathan poteva sentire la pelle liscia e fresca di Jack sotto le proprie dita. Le fece scorrere lungo la linea della schiena, a rincorrere le curve dei muscoli fino all’addome piatto. L’eccitazione in lui continuava a salire, così come il sospetto di stare semplicemente immaginando tutto. Si staccò da Jack un momento, ammirandone la figura prima di parlare: «Davvero?» disse, molto semplicemente.

«Che cosa?» domandò Jack, guardandolo con un sopracciglio inarcato, la testa leggermente inclinata di lato. Aveva un’espressione strafottente in viso ed era serio, quasi arrabbiato. Nathan sorrise a quella visione, rendendosi conto di essere maledettamente attratto da lui e finalmente in procinto di poterlo avere. Indicò Jack con un gesto della mano, partendo dalla punta dei capelli arruffati e scendendo fino ai piedi. «Questo. Lo stiamo davvero per fare?»

C’era una sfumatura eccitata nella sua voce, proprio come se non vedesse l’ora di iniziare, di avere la conferma che tutto era concreto e non una sottospecie di illusione.

Jack rilassò le spalle, l’incavo della clavicola si evidenziò. Schiuse le labbra, lo sguardo provocatorio sempre accentuato dal sopracciglio inarcato. Non allontanò un solo istante lo sguardo da quello di Nathan e quando prese parola per rispondere alla domanda del ragazzo – a suo parere insensata – la sua voce era bassa e allettante: «Credi che non abbia capito che vorresti venire a letto con me da quando ci siamo conosciuti in comunità?» chiese.

Per Nathan fu una sottile ed eccitante istigazione. Annuì ripetutamente con la testa, un lieve e ancora incredulo sorriso sulle labbra. «Sì» confermò.

Jack si avvicinò di un passo, con tutta la sicurezza che sapeva possedere. Nonostante fosse alto più di un metro e ottanta dovette alzare lo sguardo un po’ per guardare bene Nathan. «Beh, allora se ti tappi la bocca questa potrebbe essere la tua grande occasione.»

Quelle parole fecero scattare immediatamente Nathan. Lasciò da parte ogni dubbio, ogni sensazione con cui aveva raggiunto l’appartamento di Jack che non fosse il desiderio. Spinse l’altro indietro, facendolo ricadere sul divano. Jack non si scompose, né cambiò l’espressione che caratterizzava il suo viso in quel momento. Seguì con lo sguardo Nathan che si piegava su di lui, facendo scorrere le mani per un breve momento sulla sua vita così che potessero raggiungere in fretta il bottone della patta dei jeans di Jack. Per quest’ultimo fu la cosa più semplice del mondo lasciarsi andare.

Rabbia e frustrazione lo avevano invaso rapidamente solo svariati minuti prima, mentre il ricordo di Louis si era ripresentato per l’ennesima volta. Per uscire da quel vortice di sensazioni avvilenti – mai uguali ma sempre molto simili – in cui troppo spesso Jack si trovava incastrato, la cosa migliore che poteva fare era annullarsi completamente attraverso il piacere dato dai sensi o dai vizi. Quel pomeriggio aveva deciso che il modo migliore per annebbiare la propria mente era Nathan.

 

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Capitolo 7
*** Sette ***


Se c’era una cosa in cui Jack sapeva di essere bravo, quella era la capacità di organizzare party e feste a sorpresa. Probabilmente era in parte dovuta a questa consapevolezza la scelta di aprire un night club, anche se era sicuramente più legata al fatto di essere una persona che si trovava incredibilmente a proprio agio in ambienti come quello di un night.

L’appartamento di Connor non era mai stato tanto pieno. C’erano persone praticamente ovunque, intente a bere, conversare e ballare.

Grazie al finanziamento che il fratello gli aveva accordato sette giorni prima, il night club di Jack non era più un sogno. Nell’ultima settimana il ragazzo aveva lavorato parecchie ore per far sì che i suoi progetti – già ben strutturati da prima – diventassero il perfetto programma di lavoro per dare vita alla sua creazione. Lo stabile che aveva adocchiato da mesi era stato fermato e i lavori erano cominciati e tutto solo per merito di Connor e dei soldi che aveva anticipato a Jack.

Così, per sdebitarsi – almeno simbolicamente – Jack aveva chiesto ad Amber di poter organizzare nel loro appartamento una “piccola” festicciola a sorpresa in onore del fratello, come modesto regalo. Amber, circospetta nel primo momento, aveva dato la sua approvazione e nell’arco di un giorno Jack aveva trovato persone, alcol e musica a sufficienza per tirare avanti una notte intera.

Stava osservando compiaciuto quello che era riuscito a mettere in piedi e le espressioni soddisfatte dei partecipanti quando Amber gli si avvicinò, posando una mano sulla sua spalla e sovrastando il volume della musica. «Sta arrivando, ho visto la sua macchina.»

Informato dell’arrivo di Connor, Jack abbassò il volume dello stereo, sollevando proteste da parte dei partecipanti. Li calmò con un sorriso e un ampio gesto delle braccia: «Rilassatevi, riavrete la vostra musica. Mio fratello sta arrivando e sapete tutti che questa festa è per lui.»

Bastarono quelle poche parole per tranquillizzare i presenti. Amber abbassò le luci e le voci si acquietarono. Jack si sistemò davanti alla porta, in attesa del fratello.

Quando Connor entrò in casa rimase interdetto solo un momento alla vista delle luci spente, dopodiché la sua espressione si fece sorpresa quando un coro di grida di benvenuto si alzarono dietro alla figura che riuscì a riconoscere come quella di Jack. Si guardò intorno, incuriosito, mentre qualcuno tornava ad alzare il volume della musica e le voci riprendevano a sovrastarsi a vicenda.

«Che significa?» chiese Connor rivolto a Jack, il quale continuava a rimanere fermo davanti al fratello, un sorriso radioso in volto.

«È la tua festa» gli rispose. «Prendila come un semplice ringraziamento per il tuo finanziamento» concluse, stringendosi brevemente nelle spalle.

Connor lo squadrò per un lungo momento, un sorriso appena accennato in volto. Infine puntò lo sguardo sul suo appartamento per valutare il tipo di persone presenti alla “sua” festa. Riconobbe diversi volti, ma ne vide anche parecchi di sconosciuti.

«Come hai fatto a convincere Amber?» domandò poi, tornando a guardare Jack. Lui si esibì in un’ espressione contrariata, come se fosse appena stato offeso da quelle parole. «Le ho semplicemente chiesto il permesso e lei ha accettato.»

Connor gli scoccò un’occhiata diffidente. «Ah sì? Curioso. Di solito le feste che dai tu non sono fra le più tranquille e pulite. Semplicemente per questo motivo mi stavo chiedendo come mai Amber non avesse avuto problemi a lasciarti il nostro appartamento.»

Jack sospirò, passandosi una mano fra i capelli, impaziente. «Oh, andiamo. Perché per una volta tanto non ti rilassi e cerchi di divertirti? È la tua festa.»

«Festa a cui, sono abbastanza sicuro, non sta circolando solo alcol e testosterone.»

Le labbra di Jack si arricciarono, l’espressione di chi è appena stato colto in flagrante. Estrasse dalla tasca interna del suo giacchino di pelle – che portava sopra una camicia bianca in parte slacciata – una bustina trasparente, un paio di piccole capsule bianche contenute al suo interno. «Non so gli altri, io ho solo queste. E francamente stasera non ho voglia di usarle. Se non ti va di fare il moralista rompicoglioni posso darne una a te.»

Connor non reagì. Spostò lo sguardo alla sinistra di Jack dove era appena comparsa Amber, sorridente. Il fisico asciutto della ragazza era ben evidente sotto il vestito che indossava, i lunghi capelli neri le ricadevano morbidi fin sotto le spalle.

Guardò il compagno. «Stranamente sono d’accordo con Jack, dico sul serio. Non prendiamo mai parte a questo genere di cose, per una volta potresti anche lasciarti andare.»

La vellutata voce di Amber sortì l’effetto desiderato. Connor rilassò visibilmente le spalle, accontentandosi di ciò che la compagna gli aveva appena detto. Jack non aggiunse altro. Fece scivolare una delle due capsule sul palmo della mano, tendendola al fratello. «Se vuoi provare» gli disse.

Connor guardò la piccola pillola bianca, dubbioso. «Quanto dura l’effetto?»

«Direi tre ore. Al massimo quattro, ma è difficile» rispose, precedendo le parole da un’alzata di spalle.

Il fratello non si mosse, fu Amber a prendere l’iniziativa. Raccolse dal palmo di Jack la capsula e la mise in bocca, ondeggiando fino alle braccia di Connor e baciandolo immediatamente perché la pillola potesse passare dalla bocca di una a quella dell’altro. Jack li guardò divertito scambiarsi quel bacio, dopodiché si voltò verso il resto degli invitati così da poter finalmente prendere parte alla festa.

 

*

 

Jack cominciò a rivestirsi in piedi, leggermente instabile sulle proprie gambe, nel buio della camera. La stanza era quella degli ospiti dell’appartamento di Connor, sul letto alle sue spalle un ragazzo e una ragazza erano distesi vicini, i respiri lenti e soffusi nel sonno. Jack rimase a guardarli, prima spettinandosi i capelli, poi allacciandosi la camicia, lievemente sgualcita. Aveva la testa ancora leggera per via del molto alcol ingerito durante la serata, mentre l’eccitazione provata durante un rapporto a tre era prossima a esaurirsi.

Si avviò fuori dalla stanza, il passo trascinato e lo sguardo vacuo a scrutare intorno. In casa di Connor erano rimaste davvero poche persone. Suo fratello e Amber erano sicuramente chiusi nella loro camera da letto; nel soggiorno tre persone erano sedute sul divano, profondamente addormentate. Jack diede una rapida occhiata all’orologio posto sopra il televisore e si accorse che erano le tre passate. Si sentiva stanco e voleva tornare a casa, nient’altro.

Uscì dall’appartamento e si incamminò verso il suo quartiere lungo le strade quasi deserte della notte di Washington. Qua e là gli capitava di imbattersi in qualcuno, personaggi poco raccomandabili per lo più, a cui non prestava la minima attenzione, limitandosi a continuare a camminare. Come vide un taxi passargli accanto estrasse istintivamente la mano, facendolo fermare. Vi salì e si sedette, dicendo il proprio indirizzo di casa con voce strascicata. Infine appoggiò la testa contro il seggiolino e chiuse gli occhi.

Quando il tassista gli disse che erano giunti a destinazione Jack sollevò la testa troppo in fretta e si sentì sprofondare in un vortice. Cercò di ridestarsi in fretta, ignorando le vertigini e, appena ebbe pagato, scese dalla vettura e raggiunse il portone d’ingresso del condominio.

 

*

Riley fu svegliata di soprassalto. Ci mise un po’ a capire cosa fossero i rumori che stava sentendo, così ritmati e forti. Qualcuno stava bussando alla porta, con insistenza. I colpi erano ripetuti in modo frettoloso, separati fra loro solo da pochi istanti di silenzio. La ragazza controllò l’orario e notò che erano le quattro del mattino. Non aveva idea di chi potesse essere a bussare alla porta a quell’ora e un moto d’ansia l’assalì. Provò a ignorare i rumori provenienti dal soggiorno, ma chiunque stesse bussando non era minimamente interessato a smettere. Si alzò dal letto e afferrò la mazza da baseball che teneva accanto al comodino; dopo la visita ricevuta in casa propria da parte dei ladri, Riley aveva ben pensato che era meglio munirsi di qualcosa con cui difendersi nel caso ce ne fosse stato bisogno. Attenta a non far rumore si avvicinò alla porta d’ingresso, ancora percossa dai colpi. Sbirciò dallo spioncino con l’illusa speranza di vedere il volto della persona oltre la porta, ma come prevedibile le luci erano spente e lei riuscì solo a distinguere una confusa macchia scura. Strinse con forza maggiore la mazza d’alluminio nella mano destra e cercando di mantenere l’autocontrollo disse: «Chi è?»

La risposta tardò di pochi secondi e sembrava provenire da dentro la porta stessa: «Jack.»

Sorpresa, Riley allentò la presa dalla mazza da baseball, accese la luce della sala e aprì. Si trovò davanti il ragazzo, i capelli scompigliati, gli occhi lucidi dal troppo alcol e dalla stanchezza, l’alito di chi aveva bevuto ben più di un bicchiere di vino. Riley si scompose appena a quella vista. Jack aveva l’aspetto di uno che si stava lentamente distruggendo con le proprie mani – e la ragazza sapeva che, purtroppo, non si trattava solo di un’impressione – ma le fu impossibile non trovarlo dannatamente bello anche in quello stato. Un sorriso solcò il viso del ragazzo quando incontrò lo sguardo di Riley. «Non volevo svegliarti, scusa» disse. Masticava le parole e aveva bisogno di reggersi allo stipite della porta per evitare di perdere l’equilibrio, gli abiti disordinati a coprire il suo corpo.

«Stai bene?» gli chiese la ragazza, posando finalmente la mazza.

«Sì. Io… sì» fu la risposta. «Sono appena venuto via da casa di Connor. Ho dato una festa e, beh, credo sia andata piuttosto bene.»

Riley sapeva ciò di cui stava parlando. Jack l’aveva invitata a quella festa a sorpresa, ma lei aveva preferito non andare.

«Mi aspettavo di vederti» ammise Jack.

Lei abbassò lo sguardo. «Non sono il tipo da feste, dovresti saperlo. Avrei annoiato tutti.»

Jack la guardò, serio. Si avvicinò di un passo, fermandosi quasi a contatto con il corpo della ragazza. Inclinò la testa di lato e sollevò appena le spalle. «Sai che non è vero. Saresti sicuramente piaciuta.»

Riley preferì non rispondere. Distolse lo sguardo, facendolo scorrere lungo la zip aperta per metà della giacca del ragazzo. «Magari la prossima volta» mormorò.

Jack annuì lievemente con la testa, rimanendo a guardare la ragazza. Quando lei tornò a sollevare gli occhi per vederlo bene in faccia si aspettò una risposta da parte sua che non arrivò mai. Lui continuò a guardarla, in silenzio e Riley non poté fare a meno di notare i lineamenti sciupati dalla stanchezza. Con tutta probabilità era in piedi da molte più ore di quelle che un corpo normale era in grado di sopportare e la massiccia assunzione di alcol – e forse non esclusivamente quello – aveva contribuito a consumarlo ulteriormente.

«Dovresti andare a dormire. Mi sembri stanco» disse la ragazza a un certo punto.

Jack parve sorpreso. Si guardò un momento intorno, infine si stropicciò gli occhi con le dita e fece scorrere la mano fino al collo. «So che non sembra, ma non ho sonno.»

Prima che Riley potesse replicare il ragazzo riprese parola: «Ti andrebbe di farmi compagnia per un po’? Non…»

Inspirò a fondo: «Non ho molta voglia di stare da solo.»

Fu Riley a sorprendersi questa volta. Guardò Jack in modo confuso, chiedendosi quanto le convenisse seguire il ragazzo in quello stato. Tuttavia una parte di lei le fece capire che lasciare da solo Jack quella sera sarebbe potuto essere un grave errore. In fin dei conti si sentiva sveglia e aveva perso sonno per molto meno nelle settimane precedenti.

«Va bene» rispose alla fine. «Ti accompagno nel tuo appartamento?»

Jack annuì, sollevato. Mentre lei si infilava una felpa e prendeva le proprie chiavi di casa sentì il ragazzo aprire l’ingresso del suo appartamento. Entrandovi, Riley lo trovò più ordinato di quanto non fosse stato in precedenza, fatta eccezione per il tavolo, ingombro di carte, taccuini, penne e qualche bottiglia. Jack si era già tolto la giacca e si era sistemato sul divano, una bottiglia d’acqua stretta in una mano e l’altra sugli occhi. Sollevò lo sguardo su Riley quando la sentì chiudere la porta. «Fai come se fossi a casa tua. Come sempre.»

Le sorrise, un gesto che sembrò richiedergli un grande sforzo. Bevve un lungo sorso d’acqua mentre Riley andava a sedersi accanto a lui. La ragazza fece vagare lo sguardo per il soggiorno, soffermandolo nuovamente sul tavolo. Jack se ne accorse. «Sono i progetti del night» le disse, prima ancora che lei potesse pensare di chiederglielo.

«Come sta andando?» domandò.

«Piuttosto bene. Direi di essere a buon punto.»

Riley annuì con la testa, debolmente. Non chiese altro, così come Jack non aggiunse una parola a ciò che aveva appena detto. La ragazza continuava a sospettare che fosse successo qualcosa a Jack e che non si trattasse di ciò che era avvenuto fra loro. Si convinse che se non avesse voluto accontentarsi di supposizioni avrebbe dovuto chiederlo direttamente a lui e che quello poteva essere il momento migliore.

Sperando di non essere in procinto di compiere un grave sbaglio, Riley prese una boccata d’aria e disse: «Posso chiederti una cosa?»

Jack si voltò leggermente verso di lei. «Certo» rispose.

La ragazza impiegò un po’ a rispondere. Voleva trovare le parole più appropriate, consapevole che stava quasi certamente andando a toccare un nervo scoperto. «Quando sei dovuto rimanere dai tuoi, per quelle due settimane, hai presente? É successo qualcosa di grave?»

Ascoltò il silenzio grave che si era formato subito dopo le sue parole e si accorse che Jack aveva trattenuto il respiro per un momento. Quest’ultimo abbassò lo sguardo sulle proprie mani, stringendo la bottiglia d’acqua con forza maggiore. Nonostante la mente annebbiata da alcol e stanchezza rifletté con lucidità su quello che poteva fare. Era fortemente combattuto se dire o meno la verità a Riley su ciò che lo aveva tenuto due settimane lontano da casa. Infine si rese conto che per poter ricostruire il suo legame con la ragazza era necessario riconquistare la sua fiducia e decise di dirle come stavano le cose. Tuttavia non le disse esattamente tutto.

«Diciamo che la mia famiglia ha preferito tenermi sotto controllo per un po’. Avevano paura che potessi commettere qualche gesto piuttosto insano.»

Riley lo sguardò, sorpresa: «Perché avresti dovuto?»

Jack non ebbe la forza di alzare lo sguardo su di lei. Ricordare cosa gli era accaduto continuava a infastidirlo e lo rendeva instabile e frustrato.

«Louis… Beh, mi… mi ha lasciato. E i giorni successivi non sono stati molto semplici da affrontare, non da solo. Adesso almeno c’è Nathan.»

Riley non disse niente. Ripensò a quanto le era appena stato detto e si sentì impotente. Fra di loro scese un silenzio che aveva dell’inverosimile e che durò molto prima che la ragazza riprendesse a parlare: «Avevo intuito che tu e Louis non vi vedeste più. Effettivamente avevo iniziato a incontrare qualcun altro lungo i corridoi.»

Lo disse mormorando, ancora incredula alle parole di Jack. Il ragazzo finalmente sollevò lo sguardo dalle proprie mani e lo puntò sul soggiorno di casa sua, un leggero sorriso abbozzato sulle labbra, come se gli fosse tornato alla mente un dolce ricordo. «Sì, Nathan. È un bravo ragazzo, tiene veramente a me, a differenza di Louis. É solo che… Non è semplice dimenticarsi di qualcuno.»

La sua voce si era abbassata sul finire della frase e Riley poteva perfettamente capire perché: faceva male. Lei ci era passata fin troppe volte ed era consapevole che i ricordi riaffioravano ogni volta che ne avevano l’occasione e che il dolore e la rabbia li accompagnavano sempre. Non era ancora passato un mese da quanto Louis aveva piantato Jack e anche se, a sentire il ragazzo, Nathan era una bella persona, era ancora troppo presto perché fosse in grado di far dimenticare a Jack quel dolore.

«Lo so» disse lei in risposta.

Il ragazzo si voltò finalmente a guardarla. Riley teneva lo sguardo distante, puntato su uno dei tanti punti in penombra dell’angolo cottura. Jack sentì lo stomaco stringersi mentre osservava il profilo elegante di quella che per molto tempo era stata la sua più cara amica e con cui avrebbe voluto sistemare tutto. A quel pensiero si morse il labbro inferiore, rimanendo a guardarla. «Riley, mi dispiace così tanto per quello che è successo fra noi. Vorrei davvero che le cose tornassero come prima» disse in un sol fiato.

Lei lo guardò. Le venne spontaneo stringersi nelle spalle mentre la risposta le affiorava alle labbra con sorprendente sicurezza: «Ne abbiamo già parlato. Te l’ho detto, è impossibile che ciò che provo per te non influisca fra noi, lo sta già facendo.»

Quella frase fu un colpo al cuore per Jack, soprattutto perché era consapevole che si trattava della verità. Tuttavia Riley non aveva finito. Per lei il fatto che il ragazzo continuasse a cercarla era il chiaro segnale che lui non era disposto a perderla per colpa di una notte e lei aveva ormai superato una tale serie di delusioni da sapere che per quanto potesse apparire difficile non era certo mortale. Prima di essere l’uomo che amava, Jack era stato un caro amico e lei avrebbe fatto il possibile per recuperare quel legame.

«Comunque sia penso che riusciremo a sistemare le cose. Mi serve solo un po’ di tempo.»

Jack abbozzò un sorriso, incerto e stanco. Si sentì sollevato da quanto Riley aveva detto.

Lei rimase a guardarlo, sentendosi però improvvisamente preoccupata. Che gesto insano temevano che il ragazzo potesse compiere, i suoi genitori? Le venne un sospetto, ma lo cacciò via subito convinta che Jack non potesse mai essere in grado di compiere una simile follia.

Non era solo colpa della stanchezza, Jack le parve davvero tormentato da qualcosa e più intensamente del solito. Con molta probabilità Louis ne era la causa. Riley si lasciò andare all’istinto. Continuando a guardare Jack negli occhi portò una mano fra i suoi spettinati capelli corvini, facendo scorrere le dita fra le corte ciocche scure.

«Louis non ti meritava» dichiarò, con una sincerità tale da sorprendere perfino se stessa.

Il ragazzo rimase a guardarla. Inclinò leggermente la testa come un gatto che cerca le carezze del padrone, senza dire nulla. Appoggiò il capo alla spalla della ragazza e permise alla stanchezza di prendere il sopravvento. Si sentiva esausto e confuso e tutto sarebbe potuto diventare letale se accanto a lui non ci fosse stata Riley.

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Capitolo 8
*** Otto ***


Con il night club prossimo all’apertura l’umore di Jack era notevolmente migliorato. Erano trascorsi cinque mesi da quando il fratello gli aveva concesso il finanziamento per poter iniziare i lavori e questi erano proseguiti a ritmo quasi forsennato ed erano prossimi a concludersi. Con il week end, Jack era pronto all’inaugurazione.

Dedicando anima e corpo ai progetti del night il ragazzo era riuscito a lasciare da parte sensazioni avvilenti e necessità fisiche. DA cinque mesi non assumeva alcun tipo di droga e non ne sentiva il bisogno. Inoltre anche il suo consumo di alcol era calato e la compagnia di Nathan e la consapevolezza di avere ancora Riley erano il perfetto coronamento di un percorso che stava tornando sui giusti binari.

Come faceva ormai da diversi giorni, quella mattina Jack si svegliò di buon ora. La sera precedente era passato a ritirare gli inviti per l’inaugurazione di sabato. Mentre aspettava che l’acqua per il caffè si scaldasse a dovere, il ragazzo aprì con un taglierino la scatola in cui gli inviti erano contenuti e ne afferrò uno per poterlo guardare attentamente, sedendosi sul pavimento. Erano esattamente come li aveva immaginati; le scritte bianche, lineari, risaltavano magnificamente sullo sfondo granata e la data indicata – che distava solo tre giorni – riempì di euforia ulteriore Jack. Si sentiva una persona nuova, finalmente; qualcuno a cui non sarebbe potuto andare storto niente talmente bene aveva strutturato i propri piani.

Controllò l’orologio e si alzò di scatto, raggiungendo il fornello e riempiendo generosamente di caffè appena fatto due tazze. Le mise su un vassoio, vi aggiunse il primo degli inviti che avrebbe distribuito e uscì sul pianerottolo. Doveva ancora un caffè a Riley e ci teneva a saldare i debiti con lei. Sapeva che prima delle nove la ragazza non sarebbe uscita per andare a lavorare ed era piuttosto certo di trovarla ancora in casa. Bussò alla porta numero 24 un paio di volte, rimanendo in attesa.

Come Jack si aspettava, Riley aprì pochi attimi dopo. Appena vide il ragazzo sorrise, appoggiandosi allo stipite della porta con il fianco.

«Mattiniero» disse, il tono scherzoso.

«Ti dovevo ancora un caffè» le rispose Jack.

Riley sorrise nuovamente, dopodiché si spostò dall’ingresso e permise a Jack di entrare in casa. Il ragazzo raggiunse il tavolo situato nell’angolo cottura e posò il vassoio con le due tazze.

«E non solo» esordì poi, prendendo insieme a una delle due tazze l’invito per l’inaugurazione e porgendo entrambi a Riley. «Sono venuto anche per darti questo.»

La ragazza afferrò il cartoncino dell’invito e vi fece scorrere lo sguardo. Prima che potesse porre qualche domanda, Jack riprese parola: «Sabato sera è il grande giorno: inauguriamo. L’ingresso è solo su invito e questo è il tuo.»

Riley sollevò gli occhi su Jack. Era euforico, felice come lei non lo vedeva da tempo. Non solo; aveva un aspetto molto più curato rispetto a mesi prima. I capelli scuri erano lucenti, la pelle sana, il sorriso radioso e gli occhi più luminosi di quanto lei potesse ricordare. Le sembrava di avere davanti un uomo nuovo, ancora più perfetto di quella che l’aveva fatta innamorare. Era decisamente una strana sensazione.

A quel pensiero si impuntò, ricordando a se stessa che si era ripromessa di non correre il rischio di rovinare tutto con Jack solo perché averlo davanti le faceva crollare addosso ogni volta tutta una serie di sensazioni contrastanti.

Rigirò l’invito fra le mani, osservandolo con più attenzione. L’inaugurazione era prevista per quel sabato – il 7 maggio – alle 22. Non capendo se era felice o meno per la cosa, la ragazza si ricordò che quella sera aveva già un impegno con Elizabeth. Non lo disse a Jack. Non voleva ferirlo e sapeva che lui ci sarebbe rimasto male se lei non fosse riuscita ad andare.

Sorpreso dal lungo silenzio di Riley, Jack decise di fare una precisazione, perfettamente a conoscenza della scarsa passione nutrita dalla ragazza per i locali notturni, le feste e i luoghi eccessivamente affollati: «So che non sei il tipo da night club. Non sei obbligata a partecipare. Ma sai benissimo che mi farebbe molto piacere se passassi, anche solo per un saluto veloce.»

Riley annuì, sorridendo: «D’accordo. Lo faccio solo perché sei tu a chiedermelo» disse, cominciando già a pensare quanto ci fosse di vero in ciò che aveva appena pronunciato.

Il sorriso che lui le regalò fece letteralmente perdere un colpo al suo cuore. Non ricordava assolutamente quand’era stata l’ultima volta in cui aveva visto Jack così felice e in forma. Si chiese addirittura se davvero lo avesse mai visto in un simile stato prima di quel momento.

Come per togliersi quelle domande dalla testa Riley andò ad appendere al frigorifero l’invito con una calamita. Tornò a voltarsi verso Jack, bevendo finalmente il caffè che lui le aveva portato.

«Quindi cosa ti rimane da fare?» gli chiese.

Lui capì che si stava riferendo al night. Sollevò le spalle, tranquillo. «Poco, ormai. Oggi comincio a distribuire gli inviti e questo pomeriggio passo a verificare di essere effettivamente in regola con i permessi.»

Riley rimase felicemente sorpresa nel vedere come avesse tutto sotto controllo. Era felice per lui e fiera del lavoro che il ragazzo aveva svolto.

«Sono molto contenta per te, dico davvero» disse subito dopo.

Jack le sorrise, illuminandosi ulteriormente. «Ti ringrazio. Sei una delle poche persone che ha sempre creduto in me. Significa molto.»

Riley si sentì lusingata da quella affermazione. Un leggero calore cominciò ad affiorarle alle gote e lei distolse lo sguardo da Jack, sentendosi lievemente in imbarazzo. Cercando di riprendere pieno controllo di tutte le sue sensazioni bevve un nuovo sorso di caffè e diede brevemente un’occhiata all’orologio.

«È meglio che finisca di prepararmi. Devo andare a lavorare» disse non appena si rese conto che erano quasi le nove.

Jack annuì con tranquillità. «Ti lascio, allora. Se non dovessimo incrociarci lungo i corridoi nei prossimi giorni spero di vederti sabato.»

Anche Riley fece segno di sì con la testa, ma parve decisamente più incerta di Jack. «Farò il possibile per passare» rispose.

Il ragazzo parve notevolmente rincuorato dalla frase pronunciata da Riley. Con un nuovo e luminoso sorriso si avvicinò a lei e le scoccò un leggero bacio sulla fronte, cosa che rese la ragazza improvvisamente instabile sulle gambe. Jack la salutò e scomparve dalla porta d’ingresso dopo aver recuperato la sua tazza del caffè, lasciando in mano a Riley l’altra. Strategia o sbadataggine che fosse, i due avevano un’altra scusa per ricostruire il loro rapporto.

 

*

 

Essere un membro della famiglia Miller alle volte aveva i suoi lati positivi. A Jack era bastato presentarsi alla reception del City Hall, dire il proprio nome e l’ufficio dove voleva andare, che nessuna domanda aggiuntiva gli era stata posta. Raggiunto il corridoio dove si trovava l’ufficio in cui sentire se era in regola con i permessi, cercò un posto per sedersi e si sistemò.

Probabilmente avrebbe dovuto aspettare un po’, ma in quel momento la cosa non gli pesò assolutamente.

Si sentiva davvero bene, quasi leggero. Era da tanto tempo che le cose non andavano così bene nella sua vita; finalmente cominciava a sentirsi orgoglioso di qualcosa che stava facendo. In meno di una giornata aveva già distribuito un terzo degli inviti che possedeva e il giorno seguente avrebbe ultimato le consegne. All’inaugurazione ci sarebbero state quasi cinquecento persone se tutti gli inviti fossero stati accettati e quasi non gli sembrava vero. Aveva lavorato duramente per mesi e entro tre giorni i suoi sforzi sarebbero certamente stati ripagati.

Fu proprio mentre si convinceva sempre più che le cose non sarebbero potute andare per il verso sbagliato che sentì dei passi lungo il corridoio in cui era in attesa. Distrattamente si voltò nella direzione da cui provenivano i rumori e si sentì mancare il fiato.

Louis Walker stava camminando verso di lui, lo sguardo fisso davanti a sé, il trench blu aperto e la ventiquattrore in mano. Jack si scoprì a osservarlo incredulo, non riuscendo a staccargli gli occhi di dosso. L’uomo portò improvvisamente lo sguardo sul ragazzo, proprio quando era prossimo a raggiungerlo e superarlo. Anche sul suo viso si dipinse un’espressione stupita. Si fermò quasi davanti a Jack, rimanendo a guardarlo.

«Jack. Che sorpresa vederti» disse infine.

Il ragazzo lo squadrò da sotto in su, abbozzando un sorriso. Infine si alzò.

Era strano avere Louis nuovamente davanti agli occhi dopo il modo doloroso in cui se ne era andato. Jack aveva impiegato parecchio tempo per riuscire a non ripensare di continuo a tutte le parole che lui gli aveva detto e a ciò che quelle stesse parole avevano portato. E ora erano lì, a guardarsi in faccia – chiaramente a disagio – esattamente come due partner che si rivedono dopo essersi lasciati una relazione alle spalle. Entrambi titubanti, entrambi convinti di poter dire la cosa meno opportuna da un momento all’altro.

«Sono contento di vederti. Come stai?» chiese poi Jack.

Superato il primo momento di confusione si sentì stranamente euforico all’idea di avere nuovamente sotto gli occhi Louis. Era vero che l’uomo lo aveva ferito profondamente, ma era anche vero che erano stati bene insieme in più occasioni. Inoltre non poteva rimanere indifferente al fascino che Louis continuava ad avere, che quasi sembrava essersi intensificato negli ultimi mesi. La verità era che Jack non era riuscito a dimenticarsi di lui e il fatto che Louis si fosse fermato per salutarlo e per scambiare almeno i convenevoli, lo illuse che potesse esserci ancora una possibilità per loro.

«Io sto bene, ti ringrazio» rispose Louis. Fece scorrere gli occhi su Jack, dallo sguardo grigio-azzurro al completo nero con camicia bianca. «Ti trovo in gran forma.»

Jack sorrise. «Sì? Beh, me la sto passando piuttosto bene nell’ultimo periodo» disse, portando una mano fra i capelli scuri, che si spettinarono con quel gesto.

Nessuno dei due disse nulla e fu nuovamente Jack a riprendere parola: «Sono venuto qui per verificare di essere in regola con i permessi per il night club.»

Louis ne fu sorpreso. «Night club? Quello di cui mi avevi parlato?»

«Sì, esattamente. Sabato sera inauguriamo. Sono piuttosto eccitato all’idea.»

L’uomo si mosse appena, nervoso. «Capisco» cominciò. «Beh, allora buona fortuna per il tuo futuro.»

Jack sorrise, senza aggiungere altro. Louis gli fece un cenno e riprese a camminare, ma prima che si allontanasse troppo Jack lo fermò.

Il ragazzo aveva seguito l’impulso, impedendo al suo autocontrollo di bloccarlo. Si era detto che non poteva esserci niente di male a cercare di ricucire un altro legame spezzato. Magari, come nel caso di Riley, tutto si sarebbe potuto sistemare. Raggiunse Louis che ormai era avanti di alcuni metri rispetto a lui, il quale rimase a guardarlo con un’espressione indecifrabile in volto.

«Senti, stavo pensando…»

Jack cercò di trovare le parole migliori, decidendo alla fine di non girare troppo attorno al succo della situazione: «Ti andrebbe di venire all’inaugurazione? Posso farti avere un invito per la serata.»

Louis parve preso notevolmente alla sprovvista da una simile proposta. Sollevò le sopracciglia, incredulo, rimanendo a fissare Jack per quello che, al ragazzo, parve un tempo lunghissimo.

«Sabato sera?» chiese conferma.

«Sì. Se ne hai voglia, mi farebbe piacere che venissi.»

Era tentato di aggiungere “In onore dei vecchi tempi” ma preferì fermarsi prima. Louis continuava a guardarlo, infine il suo viso si distese e le labbra gli si incurvarono in un sorriso, che però non si propagò fino agli occhi celesti.

«Potrebbe essere interessante» fu la risposta.

Jack sorrise, felice. Annuì ripetutamente con la testa e disse: «Bene. Allora faccio tenere da parte un invito per te.»

Mimò in aria il gesto di prendere appunti: «Me lo segno.»

Fece l’occhiolino a Louis, che questa volta sorrise veramente. Dopodiché l’uomo indicò verso la fine del corridoio: «Io, scusami, ma devo proprio andare» disse.

«Ah, sì, certo. Allora ci vediamo sabato» lo salutò Jack.

L’uomo confermò con un gesto vago e una strana smorfia, ma Jack parve non notare nulla di tutto ciò. Rivedere Louis gli aveva fatto provare emozioni contrastanti: dolore, felicità, sorpresa e preoccupazione. Alla fine, però, le sensazioni positive avevano prevalso, lo aveva capito dall’impulso di impedire all’uomo di andarsene senza la certezza di poterlo rivedere. Jack stava così bene, in quel preciso frangente della propria vita, che era fin troppo convinto che ogni cosa sarebbe andata – e rimasta – al giusto posto.

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Capitolo 9
*** Nove ***


Quel 7 maggio profumava di nuovo per Jack. Nonostante avesse dormito poco più di sei ore – dato che la sera precedente aveva fatto tardi per accertarsi che tutto fosse perfetto per l’inaugurazione – quella mattina si svegliò presto e con una tale energia da risultare sorprendente.

Scese dal letto e si vestì in fretta, raggiungendo subito dopo la cucina così da poter fare una buona colazione. Sul tavolo del soggiorno aveva lasciato gli ultimi inviti per l’inaugurazione, ovvero quelli dedicati alla sua famiglia. Connor, Amber, Nicole, Penelope e addirittura sua padre Benjamin – con cui Jack non aveva avuto un rapporto semplice dal giorno del suo coming out da adolescente. Tutti i loro inviti erano posati su quel tavolo, in buste bianche con il loro nome scritto sopra.

Jack fece colazione con calma, ripercorrendo con la mente tutto ciò che avrebbe dovuto fare in preparazione della serata. Terminato di bere il caffè il ragazzo andò a farsi una doccia, passando accanto a cinque grossi secchi neri pieni di calle. Ne aveva ordinate trecento. Trecento calle bianche che, quella sera, avrebbe distribuito a ogni ragazza che fosse entrata dalla porta del suo nuovissimo night club. Sapendo di averne ordinate in abbondanza era intenzionato a usarne una parte anche per decorare l’interno del locale, come i tavoli, i banconi del bar e gli specchi.

Poco dopo che fu uscito dalla doccia – sentendosi ancora più sveglio e fresco di prima – qualcuno bussò alla porta. Stava aspettando Nathan, perciò andò ad aprire mentre ancora doveva infilarsi la t-shirt, i capelli scuri spettinati e bagnati sopra la testa.

Dietro la porta d’ingresso, quando aprì, non vi trovò Nathan, ma Riley. Jack notò che la ragazza sussultò appena quando lo vide, il suo sguardò sfrecciò rapido fino alla vita del ragazzo e tornò subito sui suoi occhi. Gli sorrise, sollevando davanti al naso una tazza, che Jack riconobbe come quella che le aveva lasciato tre giorni prima.

«Sono venuta a riportarti questa» esordì Riley, tendendo la tazza a Jack, che l’afferrò.

«Ti ringrazio» le rispose.

«Come vanno gli ultimi preparativi per la serata?» chiese poi la ragazza, rimanendo concentrata sugli occhi di Jack e decidendo di fare un po’ di conversazione prima di andare. Erano quasi le nove e aveva pensato di restituire la tazza poco prima di dover uscire per andare nel suo luogo di lavoro.

Il ragazzo si strinse nelle spalle, l’ennesimo sorriso perfetto e radioso che, nell’ultimo periodo, aveva spesso caratterizzato il suo viso. «Quasi ultimati. Manca davvero pochissimo e sono terribilmente eccitato» esclamò, non riuscendo a trattenere un gesto di esultanza.

Riley fu felice di vederlo così, ma non sorrise: c’era altro che doveva dirgli. Quando Jack si fu calmato tornò a puntare lo sguardo sull’amica, che prese una lunga boccata d’aria prima di aprire bocca: «A proposito di stasera» cominciò. Jack si rese conto che c’era qualcosa che, in qualche modo, la turbava e rimase in attesa, lievemente preoccupato. Riley fece vagare lo sguardo oltre il ragazzo mentre ricominciava a parlare: «Mi ero completamente dimenticata di aver già preso un impegno con Elizabeth. Quindi… beh, non so quando riuscirò a passare. Non so neanche se riuscirò a passare.»

La voce le si era abbassata sul finire della frase. Jack rimase deluso dalle parole di Riley, non avrebbe certo potuto negarlo. Sapeva che alla ragazza luoghi come i night club non piacevano minimamente, ma dopo quello che lei gli aveva detto tre giorni prima si era illuso di poterla avere ad assistere all’inizio della sua nuova vita, anche se per una mezz’ora solamente.

Riley notò che le braccia del ragazzo abbandonarsi lungo i fianchi. Temeva quella reazione; temeva di ferire Jack ed era l’ultima cosa che voleva.

«Mi dispiace, davvero» si affrettò a dire. «Posso parlarne con Elizabeth e chiederle di salutarci un po’ prima, così posso passare al night.»

Jack non rispose subito. Rimase a guardare per un lungo momento Riley che teneva lo sguardo basso. Per quanto l’avrebbe voluta vicino quella sera, di certo non poteva costringerla. Sarebbe andato certamente tutto per il meglio anche senza di lei.

Le sorrise. La ragazza sollevò gli occhi e parve sorprendersi dalla reazione di Jack.

«Non preoccuparti. Non c’è problema se non riesci a venire» le disse, sincero.

«No, beh… io… io posso» riprese lei, ostinata, ma Jack la fermò con un gesto.

«Davvero, Riley, non preoccuparti. Potrai venire quando vuoi. Sarai sempre una di quelle sulla lista.»

Le sorrise ancora una volta. «Aspetta solo un momento.»

Entrò in casa, posò la tazza sul tavolo e ricomparve davanti a Riley, una calla bianca stretta in mano. «Questa è per te» disse porgendole il fiore. «So che sono i tuoi fiori preferiti.»

La ragazza si sentì lievemente arrossire. «Perché questo?» domandò titubante.

«Avevo in programma di darne uno a ogni ragazza presente stasera, inclusa tu. Ma se non riesci a passare allora ti do subito il tuo fiore.»

Riley guardò la calla, dolcemente sorpresa dall’aver constatato che Jack ricordasse quello che era il suo fiore preferito.

«Hai davvero pensato proprio a tutto» gli disse poi, indicando la calla.

Il ragazzo sorrise, annuendo. Riley rimase a guardarlo per un lungo momento, prima di ricordarsi che ore erano. Tornò in sé con un fremito e si sbrigò a dire: «Devo proprio andare, scusami.»

«Ok, allora, buona giornata» le rispose Jack.

Lei lo guardò nuovamente per un po’. «Farò il possibile per venire stasera» disse poi.

«Riley, non preoccuparti» tentò di tranquillizzarla lui.

«Sai come sono» tagliò corto lei e dopo un rapido gesto in segno di saluto si avviò lungo il corridoio.

 

*

 

Quando l’una del pomeriggio era da poco scoccata sugli orologi, Jack varcò la soglia della casa dei suoi genitori, al centro di Washington, in cui era cresciuto e dove aveva trascorso venticinque anni della propria vita. Il ragazzo salutò gli addetti alla sicurezza perennemente vigili alla porta d’ingresso, dopodiché si chiuse quest’ultima alle spalle e raggiunse a grandi passi la cucina. Come si aspettava vi trovò la famiglia riunita al completo; probabilmente si erano da poco alzati da tavola dato che Nicole aveva appena cominciato a lavare i piatti e il bicchiere del drink che Penelope era solita bere a fine pasti era ancora colmo. Connor e Amber erano seduti sugli alti sgabelli davanti alla penisola della cucina, intenti a portare avanti una fitta conversazione, mentre suo padre, Benjamin, misurava la stanza camminando avanti e indietro, il telefono premuto sull’orecchio.

Appena Jack si fermò si voltarono tutti verso di lui. Sorrise, spalancò le braccia, gli inviti imbustati stretti in mano e disse: «Buongiorno a tutti.»

«Non ti sei fatto vedere a pranzo, oggi» gli fece notare Nicole.

«Vi avevo detto che non sarei venuto. Non avrete cucinato anche per me spero.»

La possibile risposta fu scavalcata da un’imprecazione di Benjamin, che chiuse la telefonata e raggiunse il resto della famiglia attorno al bancone della cucina.

«Quel figlio di…» borbottò fra sé, ma venne zittito da un’occhiata storta da parte della moglie.

Jack rimase a guardarlo un momento, un mezzo sorriso dipinto in volto, dopodiché prese una generosa boccata d’aria e fece in modo che tutti gli occhi si puntassero su di lui. Sollevò le buste per far sì che si vedessero perfettamente. «Vi ho portato i vostri inviti per stasera. Li lascio qui» disse, posandoli sulla penisola che aveva davanti, proprio fra suo padre e sua nonna. Benjamin osservò le buste dubbioso, il viso lievemente contratto.

«Inviti?» chiese infine.

«Sì, per l’inaugurazione del night. È oggi» rispose Jack. Notando l’incomprensibile espressione del padre si ritrovò a sorridere, non capendo esattamente perché. «Anche se si tratta di voi ho espressamente detto che chiunque sia senza invito non deve entrare» precisò, credendo che i dubbi del padre fossero legati a ciò.

Tuttavia l’espressione di Benjamin non mutò.

«Per quanto mi riguarda, il mio puoi anche tenerlo» disse poi.

Il sorriso di Jack si spense. Corrugò la fronte, schiudendo le labbra in silenzio per un momento prima di dire: «In che senso?»

«Nel senso, Jack, che non penso proprio passerò questa sera.»

Il tono asciutto con cui Benjamin gli aveva risposto lasciò Jack di stucco, che non capì il motivo della scelta del padre. Sapeva che non aveva nulla in programma per quella sera, lui stesso glielo aveva detto. Intorno a loro l’aria si fece tesa, gli sguardi allarmati di tutti si puntarono esclusivamente sui due.

«Ma… è l’inaugurazione. Ho lavorato duramente per arrivare a questo giorno, non puoi mancare.»

Benjamin sollevò le sopracciglia, come a dire che non era a conoscenza di quanto Jack gli aveva appena detto e, soprattutto, che non credeva a niente di tutto ciò. Un moto di sdegno pervase il ragazzo, che sentì i muscoli irrigidirsi.

«Pensi che non sia vero? Ho passato gli ultimi cinque mesi su questo progetto. Sono andato in ogni ufficio possibile per ricevere i permessi. Ho contattato non so quante persone fra operai, arredatori, designer, fornitori, personale e barman» esplose.

La replica del padre non si fece attendere: «Sì, ma non lo hai fatto con i tuoi soldi.»

Jack si bloccò a quelle parole, gli occhi saettarono veloci sul fratello, che distolse lo sguardo.

«Credi che non sappia che hai ricevuto il finanziamento da Connor?» domandò retoricamente Benjamin.

A quelle parole Nicole si avvicinò ai due uomini. Intuendo la lite imminente sperò di riuscire a interrompere la cosa sul nascere, ma venne ignorata da entrambi.

«Lo ha fatto per aiutarmi a portare a termine ciò su cui avevo speso tanto tempo» replicò Jack, il tono sempre più nervoso.

«No. Lo ha fatto solo perché gli facevi pena. Perché sapeva che se non ti avesse aiutato lui non lo avrebbe fatto nessuno.»

L’affermazione del padre ferì nel profondo Jack. Cominciò a sentirsi irritato come non gli capitava da tempo e riuscì a stento a mantenere lo sguardo saldo su Benjamin quando quest’ultimo riprese a parlare, dando un nuovo affondo: «E forse aveva anche ragione. Quando mai hai portato a termine qualcosa di buono tu?»

«Forse ci sarei anche riuscito se tu avessi creduto in me» rispose Jack, la voce gli tremò leggermente.

Benjamin gonfiò il petto, come offeso dall’affermazione del figlio.

«Oh ma io l’ho fatto. E più di una volta. Io e tua madre ti abbiamo sempre dato tutto ciò di cui avevi bisogno ma non ne hai mai fatto buon uso.

«Ogni volta che sparivi dovevamo venire a recuperarti in qualche sobborgo squallido e ti trovavamo completamente distrutto dalla droga. E come se non bastasse dovevamo anche fare del nostro meglio perché la tua ennesima permanenza in comunità di recupero passasse sotto silenzio» disse con il tono di chi conviveva con tutto ciò da una vita e che provava più fastidio che compassione per la cosa.

Il silenzio intorno a loro si fece gelido. Tutti i presenti avevano tolto gli occhi da loro, eccetto Nicole, il cui sguardo era profondamente rammaricato e si alternava confuso fra il figlio e il marito.

Jack deglutì la poca saliva che gli era rimasta in bocca, avvertendola improvvisamente asciutta. Si sentì terribilmente teso per colpa della rabbia che era montata in fretta mentre le parole del padre si erano fatte via via più pesanti e insopportabili, per quanto vere.

«Nessuno ve lo ha mai chiesto» disse infine.

«Beh allora devi esserci grato che lo abbiamo fatto ugualmente. Altrimenti stasera non inaugureresti un bel niente e con molta probabilità non saresti neanche qui.»

Le ultime parole pronunciate dal padre furono in grado di far scomparire completamente ogni sensazione positiva dal corpo di Jack. Ogni minimo residuo di soddisfazione e felicità scivolò via dal giovane che venne totalmente sovrastato dalla rabbia. Teneva lo sguardo fisso su Benjamin, la mascella contratta. Le sue mani erano chiuse a pugno mentre con tono tremante per l’irritazione ormai al culmine dava voce a qualcosa che non avrebbe mai pensato di poter dire: «Io credo di odiarti.»

Il silenzio già calato nella stanza e fattosi gelido divenne ancora più tetro e serrato. Jack sentiva l’aria riempirsi del suo respiro pesante e gli occhi di tutti, sconvolti, puntati improvvisamente su di lui. Senza aggiungere altro si voltò e si avviò verso l’ingresso, il passo affrettato.

Benjamin non distolse lo sguardo dal punto in cui prima si trovava suo figlio e dove ora non vi era più niente. Le parole che gli aveva appena pronunciato iniziarono a rimbalzargli nella testa, presentandosi come l’inizio di un doloroso tormento, a meno che non vi avesse posto subito rimedio. Fu per tale motivo che lo sguardò dell’uomo si abbassò sulla penisola, su cui gli inviti per l’inaugurazione erano fermi immobili, in attesa.

 

*

 

Che l’inaugurazione del night club sarebbe stata un successo Jack lo capì appena mise piede giù dall’auto in compagnia di Nathan quella stessa sera. L’autista fermò la berlina nera proprio in corrispondenza del tappeto rosso che era stato srotolato dal marciapiede all’ingresso, permettendo ai due giovani di scendere. Come Jack posò piede in terra uno scroscio di applausi si sollevò fra le persone presenti, in attesa in fila dietro a transenne e i fotografi presero a scattare foto di colui che era il protagonista di quella serata.

«È pazzesco!» esclamò Nathan appena si rese conto di quello che stava succedendo, voltandosi verso Jack.

«Sì, lo è» rispose l’altro, con tono disinvolto. «Ora, tu entra e, per favore, dai poco nell’occhio. Io sistemo un paio di cose e ti raggiungo.»

Superarono insieme l’ingresso principale, scomparendo alla vista dei fotografi e delle centinaia di persone in attesa. Fatta eccezione per il limitato numero di individui a cui Jack aveva dedicato un VIP pass – differente e più importante rispetto al normale invito – il club non aveva ancora effettivamente aperto. Dentro ci saranno state si e no settanta persone, distribuite su diversi tavoli e intente a consumare la cena inaugurale del nuovo night – e ristorante – di Jack. Il ragazzo si fermò al bancone della reception, proprio accanto all’ingresso, mentre Nathan scostava la tenda di velluto blu ed entrava nella sala principale.

Sul bancone i VIP pass erano tutti finiti, fatta eccezione per due. Il primo di quelli rimasti era di Riley, ma Jack non fu sorpreso di vederlo lì, nonostante ne fosse dispiaciuto. Si ritrovò a sperare che la ragazza cambiasse idea o programmi e che facesse la sua apparizione al night club, anche se per soli cinque minuti. La sua mattina era iniziata bene e il pomeriggio aveva, invece, stravolto tutto quanto. Per quanto fosse soddisfatto della quantità di presenti all’inaugurazione non poté fare a meno di sentire nuovamente la rabbia montare al pensiero della lite con suo padre e avrebbe voluto potersi sfogare parlandone con qualcuno, magari proprio con Riley. Tuttavia lei non c’era.

Fece scorrere gli occhi sul nome scritto in bianco sul secondo dei pass non ritirati e lesse quello di Louis Walker. Un sapore amaro gli invase la bocca immediatamente. Si sentì improvvisamente uno stupido. Stupido per aver creduto che Louis sarebbe veramente venuto dopo tutto quello che era accaduto e stupido perché si era illuso che tutto ciò che di spiacevole era avvenuto fra loro si potesse rimediare con un invito a cena a seguito di una conversazione nata per caso e chiaramente imbarazzata.

Un senso di inadeguatezza cominciò a pervaderlo. La rabbia e la frustrazione sopraggiunsero più vivide che mai. Due sensazioni che non provava da settimane si ripresentarono roventi e corrosive dentro di lui, chiudendogli lo stomaco e serrandogli la gola. Doveva sovrastarle subito prima che potessero rovinargli la sua serata.

Sentì qualcuno arrivare verso di lui. Sollevò gli occhi dal nome di Louis e vide Tony sbucare da dietro la tenda di velluto, sorridendo nella sua direzione. Tony era un uomo con cui conveniva non scherzare; grande e grosso, l’espressione benevola dei suoi occhi scuri poteva diventare la più spaventosa che si potesse incrociare se qualcuno gli faceva un torto. Un tranquillo impiegato di giorno, il più efficace pusher che Jack avesse mai incontrato di notte.

«Come va, amico?» chiese Jack, cercando di ricomporsi il più in fretta possibile.

«Benone. Si preannuncia una gran serata» rispose Tony. «Grazie per i VIP pass. Io e i ragazzi li abbiamo molto apprezzati.»

Un sorriso incurvò un angolo della bocca di Jack. «Figurati. Ve li siete meritati.»

Ai due bastò uno scambio di sguardi. Tony capì subito cosa il più giovane stava cercando da lui e non gli servì fare altre domande o cercare altri cenni. Con una disinvoltura che aveva dell’incredibile perfino per Jack si avvicinò e diede la mano al ragazzo, trasformando il gesto in un abbraccio piuttosto sbrigativo.

«Sei rimasto fuori dal giro per un po’, vacci piano» disse infine con una strizzata d’occhio.

Jack gli sorrise e lo guardò rientrare nella sala. Infine abbassò distrattamente lo sguardo sulla mano, una smorfia incomprensibile a increspargli il viso. Fra le dita stringeva un piccolo sacchetto trasparente appallottolato stretto e pieno di una finissima polvere bianca.

 

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Capitolo 10
*** Dieci ***


Nel salottino privato del primo piano la musica giungeva ovattata. Nella pista centrale del night – proprio sotto quella stanza – i dj facevano del loro meglio per offrire ai presenti una serata di puro divertimento, grazie alla musica sparata a volumi altissimi. I barman stavano servendo cocktail a tutto spiano e con molta probabilità anche gli addetti alla sicurezza erano piuttosto impegnati. Il night club era pieno. Quasi ogni invito distribuito da Jack aveva ottenuto riscontro positivo e fuori dall’ingresso c’erano addirittura altre persone che chiedevano di poter entrare. Un autentico successo.

Tuttavia Jack non si trovava nella sala principale del locale a ricevere i complimenti e le congratulazioni da parte di tutti. Dopo la cena e qualche drink in compagnia, proprio quando il night aveva cominciato a riempirsi, il ragazzo si era alzato e aveva raggiunto la saletta del primo piano, quella privata esclusivamente per lui. Si era seduto sul divano in pelle, le luci soffuse intorno e vi era rimasto.

Per quanto tutto stesse procedendo per il meglio, non lo stava facendo per lui. Jack aveva ripensato tutta sera alla lite avuta con il padre e continuava a pensarci anche in quel momento, isolato da tutto il resto. Gli tornarono ancora alla mente le parole che Benjamin aveva detto e al tono con cui le aveva pronunciate. Si chiese quanto ci fosse di vero e la risposta – anche se si trattava più di una supposizione – lo fece innervosire ulteriormente. Ormai era adirato; lo era verso la sua famiglia che aveva dubitato di lui, verso Louis e Riley che non erano venuti a festeggiare quello che era il suo nuovo inizio e verso se stesso. Jack era furente con sé proprio per il fatto di volere ugualmente accanto tutte quelle persone in quel preciso momento, per un motivo che non riusciva a capire ma che lo faceva innervosire sempre di più.

Smise di giocherellare con la mezza cannuccia da cocktail che teneva in mano, gli occhi fissi sul basso tavolino che aveva davanti. Le iridi grigio-azzurre erano puntate da ormai diversi minuti su tre file simmetriche di leggera polvere bianca, disposte ordinate sul piano del tavolo come in attesa.

Per cinque mesi Jack non ne aveva sentito il bisogno; per tutto quel tempo era riuscito a stare bene anche senza l’assunzione di cocaina. Tuttavia quella sera sentì che da solo non avrebbe mai potuto farcela. Troppe erano le sensazioni avvilenti e frustranti che si erano amalgamate in lui, troppo il tempo trascorso dall’ultima volta che si era sentito tanto male e tanto solo. Non conosceva altro modo per uscire da quella situazione che già più volte aveva vissuto, se non quello di annullarsi completamente, costringendo la propria mente a pensare a tutt’altro.

Buttò fuori una lunga boccata d’aria e avvicinò la testa al piano del tavolino, usando la cannuccia per poter inspirare in sequenza ciascuna delle tre strisce di polvere bianca. Ritrasse indietro la testa e tirò su con il naso. Nel sacchetto che Tony gli aveva dato c’era ancora della droga. Jack preparò altre tre strisce, ma prima di poterle consumare sentì la porta aprirsi. Nathan entrò sorridente, ricomponendo il nodo sfatto della cravatta.

«Si può sapere perché te ne rimani chiuso qui? Di sotto è tutto pazzesco» disse il ragazzo, richiudendosi la porta alle spalle. Come puntò lo sguardo su Jack, notando lo stato in cui era e intuendo ciò che aveva appena fatto, si bloccò, divenendo improvvisamente serio. Jack rimase a guardarlo, le labbra schiuse, le sopracciglia alzate, lo sguardo puramente provocatorio. Nathan vide la camicia sgualcita, le maniche arrotolate fino ai gomiti in maniera grossolana. Chiunque avrebbe potuto intuire che qualcosa non andava in Jack; Nathan era stato tempo sufficiente in una comunità di recupero per tossicodipendenti – dove, oltretutto, aveva incontrato proprio Jack – per saper riconoscere lo sguardo di qualcuno che era in procinto di farsi del male.

«Che stai facendo?» esplose, raggiungendo subito Jack e tentando di togliergli dalle mani la cannuccia che l’altro aveva usato per dare la prima aspirata.

Jack si liberò in fretta. Per quanto fosse magro le sue braccia erano comunque forti. Si alzò e dopo aver afferrato Nathan per la giacca del completo lo spinse indietro finché il ragazzo non inciampò contro uno dei divani, cadendovi sopra. Jack allora lo lasciò andare e rimase a fissarlo, cominciando a sudare. La sua fu una lunga e gelida occhiata. Si sistemò nuovamente al suo posto dopo che il respiro – che si era fatto più ansante – fu tornato regolare. Guardò Nathan negli occhi e con un’espressione beffarda sollevò davanti al volto la cannuccia.

«Perché non ci arrivi?» ringhiò in direzione dell’altro. Nathan si fece improvvisamente piccolo sul divano, l’espressione insicura dipinta negli occhi.

«È grazie a questo che siamo qui. Tutte le persone che sono di sotto, in quello che tu definisci pazzesco, sono qui per questo.»

Continuava ad agitare la cannuccia a mezz’aria, gli occhi gli si erano fatti improvvisamente inespressivi. Nathan non aveva mai visto Jack in quello stato e ne fu quasi spaventato.

Jack riprese a parlare, inumidendosi le labbra e scorrendo sul divano così da riuscire ad avvicinarsi all’altro. «Sappiamo benissimo entrambi che non si esce da qui. Se ci sai convivere puoi controllare tutte le persone che sono di sotto.

«E io so che vorresti poterlo fare. Quanti uomini hai visto con cui ti piacerebbe finire a letto, eh?»

Nathan non riuscì a capire dove Jack volesse arrivare. L’espressione del ragazzo era mutata ancora e i lineamenti perfetti del suo viso erano tirati e nervosi. Parte del discorso sconclusionato che Jack aveva appena fatto era certamente attribuibile alla droga. Tuttavia Nathan sentiva che l’altro aveva ragione. Era più che probabile che la maggior parte delle persone nel night club avessero un secondo fine oltre al fatto di passare una serata fuori, un fine che aveva a che fare con vizi e piaceri artificiali. Nathan era convinto di esserne uscito, ma vedendo Jack, vedendo quello che era in attesa sul tavolino che aveva davanti, uno strano fremito percosse il ragazzo; un bisogno che non provava da tempo si instillò in lui lentamente. Sollevò gli occhi su Jack, il cui viso era increspato da un sorriso strafottente.

«Quando questo posto sarà decollato, e credimi, lo farà, avrò bisogno solo della gente migliore. Non di mammolette che scappano e si tirano indietro» disse poi Jack, appena lo sguardo di Nathan si posò nel suo. Porse la cannuccia al ragazzo: «Credi di essere uno dei migliori?»

Nathan rimase a guardarlo per un lungo momento, infine accettò la sfida. Prese la cannuccia dalle mani di Jack e si avvicinò a lui, chinandosi ad aspirare in un colpo solo una delle strisce di polvere bianca. Subito dopo tornò a guardare Jack e il sorriso trionfale che aveva. Quest’ultimo si protese verso di lui e lo baciò, posando con forza le sue labbra a contatto di quelle dell’altro.

«Bravo ragazzo. Non te ne pentirai, vedrai» disse infine.

 

*

 

Qualcosa dentro Riley non la faceva sentire tranquilla. Aveva una strana sensazione alla bocca dello stomaco e quando arrivò all’ingresso del night club e vide la gente che premeva contro le transenne pregando di entrare, quella strana sensazione si intensificò.

Mostrò l’invito all’addetto alla sicurezza e questo la lasciò passare. La differenza di temperatura del locale rispetto all’esterno era da star male. Riley si sentì soffocare nello scialle che aveva preso per coprirsi le spalle. Lo fece scivolare in gran fretta fino ai gomiti, avvolgendolo all’altezza della vita. Si guardò intorno, fra la marea di persone presenti nel night. Si sentì sollevata nel constatare di non essere quella vestita in modo più elegante. Elizabeth le aveva detto che i night club prevedevano l’abito per le donne.

L’amica l’aveva convinta, quello stesso pomeriggio, a rinunciare a buona parte del loro programma serale per partecipare all’inaugurazione a cui Jack l’aveva invitata. In verità era stata Riley a far intendere che aveva pensato di andare e Elizabeth non aveva fatto altro che darle la spinta finale. La ragazza si era quindi sistemata nel pomeriggio e prima di uscire la sera aveva indossato il suo vestito preferito – quello rosso con sottili spallini, stretto in vita a dalla gonna ampia fin poco sopra le ginocchia – e aveva legato i lunghi capelli biondi in uno stretto, quanto ordinato, chignon. Intorno alle undici e mezza si era congedata da Elizabeth e aveva raggiunto il night club.

Cercò di scorgere Jack fra le persone, ma la quantità di gente presente rendeva l’operazione pressappoco impossibile. Non poteva certo negare che l’inaugurazione era un successo e si sentì felice per il ragazzo nel vedere i suoi sforzi ricompensati, tuttavia faticava a ignorare la strana sensazione che ancora provava allo stomaco. Si fece largo fra le persone – il caldo e l’odore di alcol e sudore sempre più intenso – continuando a guardarsi intorno. La musica era troppo alta e assordante; le bastarono tutti questi fattori per ricordarsi perfettamente per quale motivo i locali notturni non facevano per lei.

Arrivò fino al bancone di uno dei bar e si fermò. Non c’era traccia di Jack. Si ostinò a scrutare fra le persone, desiderando sempre più intensamente di riuscire a trovare il ragazzo.

«Ehi, splendore. Che ne dici di bere qualcosa?»

Riley si voltò in direzione di quella voce, scattando immediatamente sulla difensiva. Davanti si trovò un ragazzo all’incirca della sua età, con capelli e vestiti curati, ma con lo sguardo di chi aveva già bevuto fin troppo.

Gli scoccò un’occhiata gelida. «Direi di no» rispose, andandosene subito dopo.

Cominciò a sentirsi esasperata. Non c’era traccia di Jack e quel locale iniziava ad andarle stretto. Tuttavia non si diede per vinta.

Improvvisamente, vicino all’ingresso, cominciarono a sollevarsi svariate grida e applausi. Riley si alzò in punta di piedi, cercando di capire a cosa fosse dovuto quell’improvviso caos. Fra le teste riuscì a vedere di sfuggita un volto noto, che avanzava a fatica fra la mare di persone che continuavano a rallentarlo per tendergli la mano o dirgli qualcosa: era Benjamin Miller. Riley mantenne lo sguardo su di lui mentre l’uomo le sfilava accanto e continuò a seguirlo. Quando lo perse di vista si diresse nell’ultimo punto in cui lo aveva visto. Non c’era più.

Spazientita, la ragazza riprese a scrutare in tutto il locale. Finalmente, dopo quella che le parve un’eternità, ritrovò l’uomo. Lo vide salire le scale di fretta, seguito da una delle sue guardie del corpo e scomparire. Non sapendo che altro poter fare, Riley mantenne gli occhi fissi sulla rampa nella speranza di vedere tornare Benjamin in compagnia del figlio.

Rimase in attesa per un lungo tempo. Arrivò a pensare che l’uomo non sarebbe più tornato indietro, prima di rivederlo effettivamente sbucare da dietro la parete; dovevano essere trascorsi almeno quindici-venti minuti. Benjamin attraversò in fretta il corridoio in cima alle scale, sparendo nuovamente, questa volta dietro la parete opposta.

Riley intuì subito che qualcosa non andava. Il passo dell’uomo era frettoloso e l’espressione, anche se vista solo di sfuggita, era tesa. La ragazza si sentì divorare dalla spiacevole sensazione che l’aveva pervasa appena era giunta al night club e qualcosa dentro di lei le disse che avrebbe fatto meglio a uscire dal locale se sperava di scoprire ciò che di strano stava accadendo.

Assecondò il suo pensiero. Si fece largo fra le persone presenti, spingendone anche quando era necessario. Fece il possibile per raggiungere in fretta l’ingresso. Appena fu fuori non perse neanche tempo a coprire le spalle con lo scialle. Notando che all’entrata nulla sembrava diverso, Riley sgattaiolò nella stretta via fra i due edifici, che sboccava nella strada in cui si apriva l’ingresso sul retro del night club. Stette attenta a non dare nell’occhio, qualcosa le diceva che era meglio non farsi notare.

Poi la vide. Davanti all’uscita di sicurezza c’era un’ambulanza. I portelloni del mezzo vennero chiusi in quel preciso momento, mentre la luce blu lampeggiava insistente. Riley rimase immobile, seminascosta nel buio. Sentì delle portiere di un’auto venire aperte e istintivamente si voltò. Si accorse che Benjamin stava salendo sulla berlina scura parcheggiata lì. Non si era sbagliata; il volto dell’uomo era teso e le parve profondamente spaventato, addirittura terrorizzato. La sua mente si mosse in fretta, collegando insieme i tasselli di quanto aveva visto e le sembrò che il cuore le si fermasse. Un brivido gelido percosse la ragazza che si sentì sbiancare in volto e la strana sensazione che aveva provato tutta sera la fece sentire più oppressa che mai. Le mancò il respiro.

La berlina partì, allontanandosi dal marciapiede e cominciando a seguire da vicino l’ambulanza, la quale, svoltato l’angolo, azionò le sirene.

Riley si appoggiò alla parete mentre continuava a seguire con lo sguardo il bagliore blu che lampeggiava sempre più lontano fra gli edifici. Era convinta di aver capito ciò che era successo. Su quell’ambulanza c’era sicuramente Jack e, con molta probabilità, doveva essergli accaduto qualcosa di grave.

 

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Capitolo 11
*** Undici ***


Davanti al Washington Hospital Center Riley si fermò. Scrutò l’ingresso dell’edificio per un lungo momento prima di avviarsi. Il taxi che l’aveva accompagnata fin lì era già ripartito e l’idea di fare dietro front e andarsene, venne allontanata solo grazie a una buona dose di determinazione.

Riley odiava gli ospedali; detestava tutto quello che vi era al loro interno: gli odori, i rumori, i macchinari, le siringhe. Da adolescente aveva dovuto trascorrervi dei mesi poiché la madre era in cura per una leucemia e quando la donna era riuscita a guarire la ragazza aveva ripromesso a se stessa che non avrebbe mai più messo piede in un ospedale se non strettamente necessario. Ogni volta varcare la soglia le richiedeva un grande sforzo e quella sera non fu da meno.

Davanti alle porte scorrevoli dell’ingresso Riley fece mente locale. Le possibilità che l’ambulanza che Benjamin aveva seguito fosse arrivata in quell’ospedale erano molte. Trattandosi del figlio del Segretario di Stato e dell’ex Presidente degli Stati Uniti, le procedure del pronto soccorso erano state certamente scavalcate e con tutta probabilità Jack era già stato ricoverato in una delle numerosissime stanze della struttura. Trovarlo era praticamente impossibile. Eppure Riley non fece caso alle limitate possibilità che aveva di ottenere informazioni sullo stato di Jack e, determinata, entrò nell’edificio.

Mentre si avvicinava a passo sicuro verso la reception si rese conto di non sapere cosa dire. Certamente Jack era stato registrato sotto un altro nome, era impossibile che lo avessero ricoverato con quello vero; era uno scoop troppo grande e i giornali di gossip non aspettavano altro se non sapere come mai Logan Jackson Miller era stato portato via in ambulanza dal night club che aveva appena inaugurato.

Arrivò dalle addette alla reception. Entrambe si voltarono a guardarla.

«Buonasera» disse la prima, dalla meravigliosa carnagione bruna.

Riley costrinse il suo cervello a pensare in fretta, molto in fretta.

«Buonasera» rispose.

Fece quanti più collegamenti possibili, tutti nella speranza di riuscire a indovinare il nome con cui probabilmente era stato registrato Jack appena giunto in ospedale.

«Stavo cercando una persona. È appena stata ricoverata qui» continuò, cercando di prendere tempo.

Improvvisamente la sua mente ebbe un’illuminazione. Una volta, tempo indietro, lei e Jack avevano affrontato una strana conversazione sui nomi. Il ragazzo le aveva rivelato di aver detto al padre che se mai avesse dovuto cambiare identità avrebbe voluto essere Daniel Carter*, definendolo come “il nome giusto per non essere più un Miller”.

«Di chi si tratta?» domandò l’addetta.

«Daniel Carter» rispose Riley, prontamente. Mantenne lo sguardo saldo, cercando di apparire sicura. Non le sfuggì il leggero sussulto che la donna ebbe quando lei smise di pronunciare il nome. Daniel Carter diceva loro qualcosa, lo intuì dalla fugace occhiata che le due si scambiarono. Per quanto poteva sembrare assurdo, Riley aveva fatto centro. Jack era lì come Daniel.

«Lei chi sarebbe?» domandò l’altra addetta, guardandola con diffidenza.

«In che senso?» chiese in risposta Riley, fingendosi ingenuamente colpita dalla domanda.

«Non possiamo dare informazioni sui pazienti se non ai parenti. E comunque qui non è ricoverato nessun Daniel Carter» aggiunse in gran fretta.

Fu la reazione che, al contrario, le diede la conferma di essere nel posto giusto.

Consapevole che non sarebbe riuscita a ottenere informazioni precise, la ragazza sollevò le sopracciglia, fingendosi sorpresa da ciò che le era appena stato detto. «Oh, accidenti. Eppure mi avevano detto che si trovava qui. Proverò a fare una chiamata. Grazie ugualmente.»

Si accontentò del debole “Prego” che entrambe le addette le rivolsero, dopodiché si diresse all’ingresso, fingendo di fare una telefonata. Dovette prestare particolare attenzione, ma appena si accorse che le due erano di spalle, intente a sistemare una voluminosa pila di carte, sgattaiolò in fretta e imboccò il primo corridoio che si trovò davanti.

L’una di notte era passata da un pezzo, ma svariati medici e infermieri incrociarono la strada di Riley. Lei li salutò tutti educatamente, fingendo di essere nel posto giusto e di sapere dove stava andando; se avesse dato nell’occhio poteva scordarsi di proseguire la sua ricerca, l’avrebbero certamente allontanata se avessero saputo chi stava cercando e dell’inesistente legame di parentela che la univa a Jack.

Per sua fortuna Riley conosceva quell’ospedale. I troppi giorni che vi aveva trascorso anni prima, quando vagava per i corridoi nella speranza di distrarre la mente dalla condizione fisica della madre, le avevano permesso di conoscere le ali in cui l’edificio era suddiviso e dove fossero i vari reparti. Fece mente locale senza fermarsi, sempre con lo sguardo alto e il passo sicuro. Salì al terzo piano, quello in cui vi erano i ricoveri d’urgenza. La zona era più trafficata e l’aria sapeva di sterile. Riley continuò a camminare, prestando attenzione a ogni particolare che avrebbe potuto permetterle di identificare in qualche modo la possibile presenza di Jack. Cercava il nome di Daniel Carter ovunque, ascoltava i medici e gli infermieri quando passava loro accanto nella speranza di sentirli pronunciare il suo nome, ma non ottenne nulla.

Le parve di girare a vuoto da un’eternità quando la sua attenzione venne attratta da due uomini, i completi scuri ed eleganti e lo sguardo imperscrutabile. La ragazza aveva imparato a conoscerli proprio grazie a Jack: erano addetti alla sicurezza. Sentendo un improvviso moto di gioia nascerle dentro, Riley osservò i due uomini per un lungo momento, infine si avviò verso di loro con il solo scopo di accertarsi con una fugace occhiata se era riuscita a trovare ciò che stava cercando.

«Signorina.»

Qualcuno la chiamò alle sue spalle, dal fondo del corridoio. Si voltò, notando un infermiere che la guardava, parendo preoccupato. Gli occhi di Riley si mossero in fretta, così come la sua mente, in cerca di qualche appiglio in grado di fornirle una valida scusa.

«Dove sta andando? Non può passare da questo corridoio.»

L’uomo le si avvicinò. Riley cercò di non scomporsi. Notò l’indicazione per la toilette proprio sul punto della parete accanto a cui era fermo l’infermiere e abbozzando un sorriso disse: «Sto… sto solo andando al bagno» si finse sorpresa.

Lui arrossì lievemente. «Oh, mi scusi. È solo che sarebbe meglio non passare da qui. Ma se deve andare solo al bagno faccia pure, mi scusi ancora.»

La ragazza lo ringraziò e consapevole che avrebbe dovuto rendere credibile la sua bugia, si avviò alla toilette. La porta del bagno era a metà del corridoio, ben prima della porta che i due addetti alla sicurezza continuavano a sorvegliare. Tuttavia Riley non ebbe più dubbi. Con il cuore che le martellava nel petto capì di non essersi sbagliata in tutta la sera. Le sue supposizioni, per quanto sarebbero potute apparire assurde e infondate, si erano rivelate vere. Una parte di lei si ritrovò a sperare intensamente di essersi sbagliata; si ritrovò a desiderare di aver pensato il peggio inutilmente, ma l’orrenda sensazione che provava da tutta sera non era mai andata via e in quel momento la fece sentire oppressa.

Uscì dal bagno e si diresse nel corridoio che si intersecava con quello in cui si trovava la stanza dove era ricoverato Jack. Prese posto su una delle panchine sistemate apposta per le persone in attesa e si sciolse i capelli, appoggiando la testa contro il muro. I liquidi occhi verdi si posarono sul pavimento, sferzato di tanto in tanto da qualcuno del personale che lo attraversava.

Si sentiva vuota e non aveva desiderato mai così intensamente come quella notte di avere torto. Jack era stato ricoverato d’urgenza proprio la sera in cui la sua nuova vita avrebbe dovuto avere inizio. Riley lo conosceva fin troppo bene e si chiese come era stato possibile che dopo cinque mesi in cui lui sembrava completamente cambiato, rinato e pulito, il ragazzo fosse precipitato ancora in quel baratro che in più occasioni lo aveva inghiottito, perché era certa che Jack si trovasse in quell’ospedale a causa della droga. Respirò a fondo più volte, rendendosi conto di essere impotente. Non poteva fare altro che aspettare e sperare con tutta se stessa che Jack se la cavasse. I pensieri peggiori la invasero e le fu impossibile scacciarli. Chiuse gli occhi nella speranza di riuscire ad alleviarli un po’ e dopo molti e lunghi sospiri, si addormentò.

 

*

Il sonno irrequieto di Riley venne interrotto dal rumore di numerosi passi che rimbombavano, sopraggiungendo verso di lei lungo il corridoio. Si voltò in quella direzione, sbattendo più volte le palpebre così da mettere a fuoco perfettamente ogni cosa. Rimase stupita da quello che vide. Riconobbe subito la donna che avanzava verso di lei; non ci riuscì solo grazie alle numerose testate giornalistiche su cui il suo volto era spesso riprodotto, né esclusivamente per via di tutte le volte in cui l’aveva vista in televisione mentre la scritta Segretario di Stato splendeva come un monito in sovrimpressione. Nicole Miller era la madre di Jack e furono proprio queste sembianze che permisero a Riley di riconoscerla immediatamente.

La presenza della donna fu l’ennesima conferma del fatto che la ragazza si trovava nel posto giusto al momento giusto e un ulteriore pensiero spiacevole si andò ad accumulare a tutti gli altri che lei aveva raccolto nell’arco della sera e della notte.

Rimase a guardare Nicole sfilarle davanti, l’espressione risoluta, seguita da un uomo, certamente la sua guardia del corpo.

Riley si mosse istintivamente; scattò in piedi. «Signora Miller» disse.

La guardia del corpo si voltò per prima, cominciando a fissare Riley con sospetto. La ragazza notò che si era irrigidita, probabilmente pronta ad agire in caso di necessità. Nicole si girò subito dopo, lo sguardo molto serio rivolto alla ragazza. Riley si sentì a disagio, ma arrivata a quel punto non aveva nessuna intenzione di demordere. Avrebbe saputo cos’era successo a Jack e, soprattutto, come stava.

Distolse un momento lo sguardo da quello di Nicole, facendolo vagare in fretta lungo il corridoio, infine riprese parola: «Signora Segretario» disse insicura, come per correggersi per averla chiamata con il proprio nome solo pochi attimi prima. «Mi scusi se la disturbo ma… vorrei sapere come sta Jack.»

Il cuore le premeva in gran fretta contro la gabbia toracica, come sul punto di schizzar fuori. Riley mantenne gli occhi saldi su Nicole, ma non le sfuggì il lampo che attraversò lo sguardo della donna. Era diffidente e continuava a fissare la ragazza con occhi gravi, come disgustata dal fatto che Riley le avesse rivolto la parola. Quest’ultima prese a tormentarsi le mani all’altezza della vita, innervosita dall’improvviso silenzio.

«E lei chi è?» domandò infine Nicole. Sembrava non avesse degnato di attenzione la domanda di Riley e continuava a fissare la ragazza con sospetto in modo altezzoso.

«Mi chiamo Riley. Non so se Jack le ha mai parlato di me, sono la sua vicina di casa.»

Ciò che aveva appena detto le suonò ridicolo. Si sentiva più di una semplice vicina di casa, ma era improbabile che a Nicole importasse qualcosa. La donna continuava a osservarla dall’alto, severa, con l’espressione di qualcuno che non ha voglia di perdere tempo.

«Sì, mio figlio me ne ha accennato» rispose Nicole, dopodiché indietreggiò di un passo, cosa che fece intuire a Riley che era in procinto di andarsene.

«Aspetti, la prego» la fermò la ragazza. Respirò a fondo cercando le parole migliori.

Doveva far capire alla donna che lei sapeva ciò che era successo a Jack proprio perché fra di loro c’era un legame molto più saldo di quello che condividono due persone che abitano accanto. Sperò che, così facendo, le venisse permesso di incontrare il ragazzo.

Riley si sentì indagata da due paia di occhi severi, ma nonostante tutto fece il possibile per apparire sicura. «Mi creda, conosco molto bene suo figlio. So tante cose di Jack e conosco…» si interruppe, cercando le parole migliori, infine abbassò lo sguardo. «Conosco quelli che sono i suoi sbagli. Voglio solo sapere come sta, dico davvero.»

Definire sbagli la dipendenza da sostanze stupefacenti le suonava strano, ma non aveva trovato termine migliore. Si morse il labbro in attesa della replica da parte di Nicole, non sapendo che altro aggiungere.

La risposta della donna non si fece attendere. Nicole parlò con voce austera, come Riley l’aveva sentita più volte fare in televisione o ai comizi; incuteva quasi timore. «Mi creda, signorina. Anche ammesso che mio figlio si trovi in questa struttura non permetterei mai a nessuno di vederlo o di sapere del suo stato di salute. Soprattutto a chi dice di conoscerlo bene. Buona giornata.»

Girò sui tacchi e si avviò senza aggiungere altro, seguita dalla sua guardia del corpo. Riley la guardò allontanarsi, sentendo il respiro mozzato. Nicole l’aveva trattata con una tale freddezza che non avrebbe creduto possibile e le informazioni che aveva raccolto su Jack erano vaghe come fumo. Tornò a sedersi sulla panchina, appoggiando nuovamente la testa contro la parete, un senso di delusione e sconfitta brucianti dentro di sé. La sua mente cominciò a ricordare le parole di una canzone a cui ripensava spesso e lei prese a mormorarne le strofe, mentre gli occhi cominciavano a bruciare per via di lacrime che pungevano sempre più insistenti.

«If you gave me a chance I wolud take it. It’s a shot in the dark but I’ll make it»

Non le importava se Nicole non le avrebbe permesso di vedere Jack, lei avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di sapere come stava, anche se ci sarebbero voluti dei giorni. Avrebbe aspettato.

 

*

 

Riley rimase in attesa sulla stessa panchina per tre giorni. Per tutte quelle ore non aveva mai perso la determinazione, né tantomeno la voglia, di sapere come stava Jack. Tuttavia, intorno alle sette di sera del terzo giorno, la sua fermezza cominciò a vacillare.

Ogni giorno era rimasta seduta su quella panchina, in quell’ospedale, uscendo solo al mattina presto per andare a casa a cambiarsi d’abito, a fare colazione e per prendere soldi a sufficienza per più caffè e due pasti alla caffetteria dell’ospedale; dopodiché ripercorreva il tragitto fino alla panchina e vi sistemava di nuovo, sempre in attesa.

Aveva incontrato Nicole ancora. Più volte in una giornata la donna le passava davanti senza degnarla di uno sguardo, mentre la guardia del corpo che la seguiva – sempre la stessa – scrutava la ragazza con diffidenza. Anche Connor e Benjamin passavano spesso, ma anche loro non parevano interessanti a sentire ciò che Riley aveva da dire, né di informarla sullo stato di Jack – sempre ammesso che fossero a conoscenza del perché la ragazza si trovasse lì.

A parte tutto ciò, Riley era piuttosto sicura che Jack si fosse ripreso. Il giorno prima il via vai di medici e infermieri intorno alla sua stanza si era fatto più insistente e la ragazza era rimasta vigile per poter catturare quante più informazioni possibili. Sentire una delle infermiere che diceva a un medico “Si è svegliato. Sì, si è svegliato” le aveva permesso di capire che la condizione di Jack doveva essere migliorata rispetto alla sera in cui lo avevano ricoverato, ma non la tranquillizzò più di tanto.

Il tempo che trascorreva sola, in un ambiente che non le aveva mai permesso di fare pensieri felici, l’aveva portata a compiere supposizioni e teorie su come potevano essere andate le cose prima che il ragazzo fosse portato via in ambulanza. Le ipotesi plausibili, però, sfociavano tutte nella stessa conclusione. Erano cinque mesi che Jack pareva rinato. Cinque mesi in cui, Riley lo aveva capito, alcol e droga non avevano potuto scalfire e abbattere il suo stato d’animo. La sera dell’inaugurazione, invece, le debolezze di Jack dovevano aver preso il sopravvento. Il bisogno fisico – o più probabilmente quello mentale – avevano impedito al ragazzo di superare l’allontanamento dai suoi vizi e lo avevano portato al confine fra la sopravvivenza e l’annullamento.

La ragazza cercò per l’ennesima volta di scacciare quei pensieri, desiderando ardentemente, ancora una volta, di essersi sbagliata. Poteva essere successo qualsiasi cosa a Jack, anche un malessere improvviso, un incidente di qualche tipo. Tuttavia una parte di lei continuava a ripeterle di non farsi illusioni e che quasi certamente le sue ipotesi non erano campate in aria. Riley lo sapeva, lo aveva sempre saputo che Jack era instabile, una figura che sarebbe potuta crollare da un momento all’altro. Aveva sempre voluto fare qualcosa per lui ma, complice anche quello che era avvenuto fra loro ormai mesi prima, non era mai riuscita a fare niente se non dimostrargli la sua amicizia e vicinanza quando lui ne aveva bisogno.

Si strinse nelle spalle, raggomitolandosi per quanto le era possibile fare stando a sedere sulla panchina in cui si trovava ancora. Dalle vetrate alle sue spalle il cielo cominciava a virare, intensificando le sfumature arancioni del tramonto imminente. Riley rimase a fissare il pavimento che aveva davanti nella remota speranza di riuscire a pensare ad altro, ma la sua sicurezza era davvero sul punto di scivolarle di dosso per separarsi definitivamente da lei. Sentì gli occhi che le si riempivano di lacrime, il respiro sempre più corto. Non voleva piangere. Non lo aveva fatto nei giorni precedenti, anche se era stata in procinto più volte e non lo avrebbe fatto neanche quella sera.

Ignorò completamente i passi lungo il corridoio, ormai ne sentiva così tanti che la lasciavano indifferente. Un paio di eleganti scarpe nere senza tacco si fermò sotto agli occhi della ragazza. Riley sollevò subito la testa, sorpresa. Davanti a lei era ferma Nicole Miller intenta a osservarla severamente come aveva fatto anche giorni prima. Questa volta era sola, non vi era traccia della sua guardia del corpo.

Riley resse lo sguardo, ma si convinse che, a breve, la donna l’avrebbe cacciata da quel posto – anche se si chiese come mai, se lo avesse veramente fatto, aveva aspettato tutto quel tempo. I secondi che rimasero a guardarsi rimbombarono nella testa della ragazza, che non riuscì a muoversi o a dire qualsivoglia cosa.

Nicole non staccò mai lo sguardo grave da Riley; tuttavia, improvvisamente, alla ragazza parve che una leggera sfumatura di tenerezza schiarì i suoi occhi castani. La donna ispirò a fondo prima di parlare.

«Mio figlio ha chiesto di te.»

 

 

 

 

 

*Daniel Carter : se alcuni di voi hanno già letto altri miei lavori, sapranno certamente quanto io sia appassionata – se non addirittura fissata – con il rugby. Lo sono a tal punto che mi piace “infilare” qualche riferimento a questo sport anche quando non c’entra niente.

Nel caso di questa storia, il riferimento al mondo rugbistico lo faccio attraverso il nome di Daniel Carter, ovvero il mediano d’apertura degli All Blacks, la nazionale a XV della Nuova Zelanda.

 

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Capitolo 12
*** Dodici ***


Davanti alla porta della camera di Jack, Nicole si fermò. Si voltò verso Riley, che l’aveva seguita in silenzio dopo che la donna le aveva rivelato che il ragazzo voleva vederla.

Nicole osservò per un lungo momento la ragazza, il suo sguardo non era più severo, né diffidente. A Riley parve solo stanco.

«Vi do dieci minuti. Mio figlio ha bisogno di molto riposo» disse la donna.

Riley annuì con il capo, mormorando un leggero “Grazie” prima di superare Nicole ed entrare nella stanza. Un forte senso di disagio la pervase come varcò la soglia. Era già la seconda volta nell’arco di dieci anni che entrava in una camera d’ospedale con la consapevolezza che, distesa sul letto, c’era una persona che amava. Il silenzio era opprimente, interrotto soltanto dal suono del cardiofrequenzimetro che monitorava il battito cardiaco di Jack. Riley sentì Nicole chiuderle la porta alle spalle e con passo insicuro si avvicinò al letto posto al centro della stanza. Notò diverse sedie lì intorno e dedusse che non doveva certo essere l’unica ad aver aspettato seduta per giorni il risveglio di Jack. In fin dei conti aveva visto più volte Nicole in ospedale e non solo lei, ma anche Benjamin e Connor.

Jack era disteso sul letto, avvolto in un bozzolo di morbide lenzuola bianche che aveva però fatto scivolare fino al petto. Teneva il viso rivolto al soffitto e appena sentì Riley si voltò verso di lei. La ragazza le parve una visione in quei suoi vestiti leggermente larghi, i capelli raccolti in una lunga treccia che le ricadeva sulla spalla e gli occhi verdi puntati su di lui. Si sentì infinitamente grato ad averla lì ed era più che determinato a raccontarle la verità.

«Ehi» la salutò, la voce bassa e leggermente roca per via dalle troppe ore di sonno e dal malessere fisico.

Riley sorrise, una strana amalgama di emozioni a stravolgerla da dentro. Si sentiva felice nel vedere Jack rivolgerle un sorriso – per quanto flebile – e fu vagamente lusingata dalla consapevolezza che il ragazzo avesse espressamente chiesto di lei. Tuttavia si sentì anche tremendamente impotente e amareggiata. Non poteva sopportare di vedere Jack in quello stato, soprattutto con la consapevolezza che si era fatto tutto quel male da solo.

«Ciao» disse infine Riley, sistemandosi sulla sedia vuota accanto al letto. «Come ti senti?» chiese poi, ricordandosi di avere solo una decina di minuti a disposizione.

Un altro leggero sorriso increspò le labbra del ragazzo. «Su un baratro. Ma i medici dicono che mi riprenderò.»

Le parole uscivano strascicate dalle sue labbra. Riley intuì che Jack doveva aver portato il suo corpo davvero al limite se quelle erano le conseguenze. Dormiva da due giorni ma sembrava che non chiudesse occhio da tempo e il battito del suo cuore – registrato attimo per attimo – era lento, quasi stanco.

«Sono contento di vederti» riprese a parlare lui. «Sei rimasta là fuori ad aspettare per tre giorni» disse, gli occhi grigio-azzurri più spenti e opachi del solito. Tuttavia il leggero sorriso che gli incurvava le labbra continuava a rimanere al suo posto.

«Tu hai dormito per due» rispose prontamente Riley, con dolcezza.

«Come hai fatto a sapere che ero qui?»

Lei si strinse appena nelle spalle, allontanando lo sguardo. «L’ho dedotto.»

Raccontò a Jack di quello che era successo. Gli disse che, alla fine, era andata al night club per poterlo incontrare e trascorrere un po’ di tempo con lui. Gli raccontò di aver visto suo padre entrare nel locale e di averlo seguito quando si era accorta che l’uomo era turbato da qualcosa. Infine gli disse di aver raggiunto l’ospedale e di averlo trovato come Daniel Carter ricordandosi della loro vecchia conversazione e di aver deciso di aspettare seduta fuori nel corridoio pur di sapere come stava. Il suo racconto non durò a lungo. Riley saltò ogni dettaglio nella speranza di guadagnare tempo così da conoscere cosa esattamente era successo a Jack. Era questo che le premeva sapere più di ogni altra cosa.

Quando lei si zittì, Jack dovette ammettere a se stesso di sentirsi colpito. Era felice di sapere che Riley aveva fatto così tanto pur di sapere come stava. La ragazza era una sorpresa continua.

«Quello che hai fatto significa molto per me» le rivelò poco dopo, non trovando parole migliori. Riley si limitò a sorridere e Jack trovò che fosse giusto, nei suoi confronti, dirle cos’era successo. «Non volevo farmi del male l’altra notte, devi credermi.»

Lei abbassò lo sguardo sulle proprie mani, intente a tormentare il laccetto della felpa. «Jack» esordì, dopo un lungo sospiro. «Io ti credo, sai che mi fido di te. Ma come puoi dire che non volevi farti del male se ogni volta che assumi droga te ne fai un po’?»

Era una domanda retorica e colpì duramente il ragazzo. Jack non aveva mai detto a Riley di fare uso di droghe e non avrebbe mai voluto farlo. Era una cosa di cui non andava fiero e sapeva che avrebbe profondamente deluso la ragazza, cosa che non voleva in alcun modo accadesse.

«Lo sapevi?» le chiese, sconvolto. Il cardiofrequenzimetro registrò un picco più intenso.

Riley si morse il labbro inferiore, stringendosi nelle spalle e annuendo lievemente. «Lo avevo capito da tempo. Dovresti saperlo che mi piace notare i particolari. E quando tieni molto a qualcuno è come se i dettagli si intensificassero. Ignorarli diventa impossibile.»

Jack si portò le mani al volto, un gesto che parve richiedergli un grande sforzo. Inspirò a fondo e, quando parlò, subito la sua voce parve incrinarsi: «Ho provato a smettere. Ma ogni volta non ci riesco.»

Il tono cominciò a caricarsi di rabbia e frustrazione: «Ogni volta che mi convinco di aver superato la dipendenza, o almeno di averla arginata, combino qualcosa che mi ci fa ricadere dentro e non riesco più a trovare la forza per impedirlo.»

Guardò la ragazza, gli occhi chiari profondamente amareggiati. Era un discorso troppo intenso, troppo profondo. Quel genere di discorsi che Jack non aveva mai imparato veramente ad affrontare, ma che sembravano in qualche modo più semplici, o meno difficili, se con lui c’era Riley.

«Gli unici momenti in cui non ho bisogno di quella roba sono quando sto con te. Ma dopo quello che ti ho fatto…» si interruppe.

«Non mi hai fatto niente, Jack. Altrimenti non sarei qui» rispose lei con fermezza. Sentiva di aver ormai superato quella notte che avevano trascorso insieme ormai mesi prima e voleva che anche il ragazzo lo facesse. I sensi di colpa rischiavano di rovinare un legame che con molta lentezza si stava ricucendo e che quella sera – Riley se lo sentiva – avrebbe certamente risaldato insieme.

La ragazza approfittò del silenzio che si era formato al termine della sua affermazione per respirare a fondo, così da poter poi ricominciare a parlare: «Tu pensi di non essere importante per qualcuno o che a nessuno interessi di te? È questa tua convinzione che ti riporta nel vortice della droga ogni volta? Perché se è per questo e ti basta sapere di importare veramente a qualcuno perché tu la smetta di farti del male, beh… io tengo a te, tantissimo ed ero veramente felice ogni volta che lo eri tu. Non voglio perderti per colpa della droga. Solo che ho veramente paura che possa accadere un giorno.»

La ragazza pronunciò ogni parola con voce ferma, senza però guardare negli occhi Jack. Quello che aveva appena detto la fece imbarazzare, ma aveva sentito il bisogno di dire al ragazzo ciò che sentiva.

Jack rimase a fissarla, un vasto conflitto emotivo a scuoterlo dentro. Sapeva di avere deluso Riley e di aver tradito la sua fiducia in qualche modo. Tuttavia si sentiva anche profondamente felice e grato per quello che la ragazza aveva detto. Posò la propria mano su quelle di Riley, che lei ancora teneva in grembo. La ragazza fu attraversata da una leggera scossa quando sentì il tepore della mano di Jack. Lo guardò subito.

«Mi dispiace. Non mi sono comportato bene nei tuoi confronti. E pensare che tu per me ci sei sempre stata» le disse il ragazzo, una nota di amarezza nella voce.

Riley abbozzò un sorriso: «Non tormentarti per questo. Credo che tu abbia già pagato le conseguenza della tua dipendenza.»

Jack non replicò. Distolse leggermente lo sguardo. Tuttavia Riley era intenzionata a sapere fino in fondo cos’era successo al ragazzo e, soprattutto, a capire quella che era stata la causa della sua nuova ricaduta.

«Perché lo hai fatto? Ero convinta che avere finalmente il tuo night club ti rendesse felice.»

Non le serviva specificare nulla. Era impossibile che il ragazzo non avesse inteso ciò di cui stava parlando. Lui respirò a fondo, allontanando la mano da quelle di Riley e prendendo a scrutare il soffitto.

«Mi sentivo solo» ammise.

Cominciò a raccontare alla ragazza tutto. Le disse dell’incontro con Louis e del fatto di averlo invitato all’inaugurazione. Le raccontò della lite avuta con il padre e di ogni cosa che si erano urlati contro; di come la sua assenza e quella di Louis fossero stati per lui un colpo durissimo e di come la rabbia, la frustrazione e la sua cocciutaggine avessero fatto il resto.

«Volevo trovare un modo per non pensare più a niente. Avevo bisogno di distrarmi, di annullarmi completamente. È sempre stato questo il motivo della mia dipendenza. Ho sempre assunto droga per annullarmi. Non per sentirmi meglio, ma per non sentire niente.

«Quando ho cominciato l’ho fatto perché non sapevo cos’altro fare per evitare che la realtà mi facesse troppo male. Cercavo in ogni modo di superare lo stress e le tensioni a cui ero soggetto per via della situazione che avevamo in famiglia. Essere un Miller ha sempre comportato degli oneri e delle etichette in cui non mi riuscivo a immedesimare, ma che con l’uso di sostanze mi andavano un po’ meno strette.

«Più i riflettori erano puntati su di noi, più sentivo il bisogno di assumere qualche genere di droga per non scoppiare. Così facendo però aumentavano le liti famigliari e di conseguenza i riflettori puntati sulle nostre vite. È un circolo vizioso da cui non sono mai riuscito a uscire.»

La dichiarazione di Jack impedì a Riley di replicare. Ripensò attentamente a quello che le era stato detto prima di parlare. Sapeva già che il legame del ragazzo con la sua famiglia non era dei più semplici, sapeva già che per lui era complicato riuscire a sopportare le liti e le discussioni che spesso nascevano a causa di una convivenza forzata che i membri della famiglia Miller avevano con la stampa e i cacciatori di gossip. Da quando aveva intuito che Jack assumeva droghe e conoscendolo come lo conosceva lei, aveva iniziato a sospettare che tutto fosse cominciato proprio perché lui non riusciva a sostenere, né a sopportare, di avere una vita perennemente giudicata da estranei.

Con la dolorosa ammissione che Jack le aveva appena fatto, Riley ebbe modo di capire che i suoi sospetti erano sempre stati fondati.

«Sai, ho visto famiglie in cui i membri non andavano affatto d’accordo, addirittura si odiavano. E, credimi, sono famiglie decisamente diverse dalla tua. Non posso immaginare come dev’essere, essere il figlio del ex Presidente degli Stati Uniti e dell’attuale Segretario di Stato, anche se sospetto che per uno poco appassionato di politica come te debba essere snervante.»

Prese fiato un momento, puntando lo sguardo fuori dalla finestra, dove il cielo cominciava a diventare più scuro. Jack non riuscì a capire cosa volesse dirgli la ragazza con quelle parole, per tale motivo aspettò, così da vedere se avesse altro da aggiungere. Riley, infatti, ricominciò a parlare: «Fatto sta che se vuoi parlare con qualcuno di quello che ti tormenta, se vuoi sfogarti o vuoi provare veramente a ripulirti dalla tua dipendenza, io ci sono. Non so quanto aiuto possa dare, ma sono disposta a provarci. In fin dei conti hai detto tu stesso che quando sei con me non hai bisogno di assumere niente. Possiamo provare a partire da questo.»

«Perché ti prenderesti un simile disturbo per me?» domandò lui, colpito dalle parole della ragazza.

Lei lo guardò interrogativa, dopodiché si strinse nelle spalle. «Perché non dovrei? Nei tre giorni che sono rimasta ad aspettarti mi sono ritrovata a immaginare come sarebbe la mia vita se dovessi perderti.»

Abbassò la voce e quasi mormorò: «E non fa per me.»

Il leggero sorriso che incurvò le labbra di Riley contagiò anche Jack. Prima che potesse ringraziarla per tutto quello che aveva fatto e stava facendo per lui, però, la porta della stanza si aprì e sulla soglia comparve Nicole. La ragazza si voltò e vedendo la donna intuì che i minuti a disposizione erano scaduti. Si alzò dalla sedia, ma subito Jack la fermò, afferrandole il polso con la mano. Riley lo sguardò, stupita.

«Ti ricordi quella volta che sono mancato da casa per due settimane?» le chiese il ragazzo.

Lei annuì semplicemente con la testa.

«Era successo qualcosa di simile. Solo che al posto della cocaina c’era il monossido di carbonio.»

Riley sgranò gli occhi, incredula. Capì subito perché una volta aver rivisto Jack dopo quelle due settimane, il ragazzo le era parso tanto turbato. Non si trattava del night club o della semplice rottura con Louis. Jack aveva tentato il suicidio. Aveva provato ad annullarsi fin quasi a raggiungere la morte.

La ragazza non riuscì a dire nulla. Sentì solo una forte determinazione crescerle dentro. Non sapeva di aver rischiato di perdere Jack ben prima dell’inaugurazione del night club e non sapeva di averlo avuto vicino quando lui aveva davvero bisogno di aiuto. Promise a se stessa che non avrebbe mai più permesso al dolore di sopraffare Jack, non finché lei poteva in qualche modo impedirglielo.

Nicole li raggiunse.

«Sarebbe meglio che ora riposassi» disse rivolta al figlio, la voce più insicura di quanto Riley ricordasse.

Jack parve non fare caso a quello che la madre gli aveva appena detto. Continuò a guardare la ragazza, una supplica negli occhi chiari. «Scusa se non te l’ho mai detto prima. Non sapevo come fare.»

Lei si ricompose. «Lo hai fatto ora. Va bene ugualmente.»

«Vorrei che uscissi.»

Nicole alzò il tono di voce, interrompendo così lo scambio di sguardi fra i due ragazzi. Riley si voltò verso di lei e fece segno di sì con il capo. Dopodiché tornò a guardare Jack. «Per quanto tempo starai via di casa?» domandò.

«Il tempo necessario» rispose Nicole per Jack.

Riley non la degnò di uno sguardo nonostante avesse sentito la risposta.

«E se in questo lasso di tempo io volessi vederti?»

Lui sorrise, dolcemente. «Ti chiamo io» disse.

La ragazza non disse altro. Si avvicinò al viso di Jack e gli diede un leggero bacio sulla fronte. Lo salutò debolmente e dopo un ultimo sguardo si avviò verso la soglia, seguita da Nicole. Come furono fuori la donna chiuse la porta e si voltò verso la ragazza. Sembrava stanca e provata, l’aura austera era scomparsa. Sospirò, alzando poi lo sguardo su Riley: «Ti pregherei di non dire a nessuno di tutto ciò. Jack non ne ha bisogno.»

La ragazza si sentì immediatamente offesa per quella frase. Tuttavia si rese conto che quella davanti a lei era una madre che cercava di proteggere il proprio figlio. Si sarebbe certamente comportata così anche lei se fosse stata al suo posto.

«Non ne ho nessuna intenzione. Solo vorrei che non mi toglieste dalla vita di vostro figlio esclusivamente perché temete che possa fare qualcosa di sconveniente.»

La voce di Riley suonò così sicura da cogliere Nicole impreparata. Tuttavia, dopo un primo momento, la donna sorrise, colpita. «Abbiamo privato già troppe volte Jack delle cose che ama. Temo che sia dovuto a questo nostro atteggiamento sbagliato la sua presenza qui. Non commetteremo nuovamente lo stesso errore.»

Riley sorrise, pronunciando un veloce ringraziamento. Augurò buona giornata a Nicole, dopodiché si avviò verso l’uscita dell’ospedale. Dopo tre giorni trascorsi in quell’edificio poteva finalmente uscirne con l’intenzione di non rimetterci piede tanto presto. Non lo avrebbe fatto e non lo avrebbe permesso a nessuna delle persone che amava, non se poteva impedirlo.

 

 

 

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Capitolo 13
*** Tredici ***


La casa della famiglia Miller era illuminata da un sole tardo primaverile. A Jack parve più silenziosa e ordinata di quanto ricordasse mentre vi entrava. Insieme a Benjamin attraversò il soggiorno e si ritrovò a lanciare un’occhiata desiderosa al pianoforte a coda che giaceva in silenzio sotto un’ampia finestra. Aveva una gran voglia di suonare e si segnò nella mente di farlo appena ne avesse avuto possibilità.

Era stato dimesso dall’ospedale il giorno dopo aver incontrato Riley. Fisicamente si sentiva molto meglio – anche se l’appetito non gli era tornato – ma il suo umore era cupo. Venendo via dal Washington Hospital Center insieme al padre, erano passati da casa sua a recuperare indumenti e quant’altro per permettergli di rimanere almeno una dozzina di giorni lontano dal proprio appartamento. Quando ne era uscito, con una valigia stipata, aveva involontariamente fatto scivolare gli occhi sul numero 24 presente sull’ingresso della casa di Riley. Lei era sicuramente a lavorare; aveva saltato un giorno pur di aspettare il risveglio di Jack, ma certo non aveva motivo di perderne altri. L’occhiata lanciata contro la porta era durata a lungo, dopodiché il ragazzo aveva seguito il padre fino in macchina e, insieme, avevano raggiunto la casa in cui lui avrebbe trascorso i giorni successivi.

Jack trascinò la valigia fino in cucina dove la famiglia, al gran completo, lo salutò dandogli il bentornato.

«Ti abbiamo preparato la tua stanza» lo informò Penelope, accarezzandogli dolcemente il braccio. «Dovresti trovartici bene.»

Jack le sorrise debolmente. Se sentiva a disagio. Gli sembrava che i suoi famigliari gli stessero rivolgendo delle premure di circostanza. Dentro di lui crebbe il bisogno viscerale di stare da solo, così da evitare che la frustrazione che gli stava montando si trasformasse in rabbia che non sapeva su chi sfogare.

«Se non vi dispiace» esordì, ottenendo l’attenzione di tutti. «Penso che mi ritirerò nella mia camera. Ci sono già passato in una situazione del genere e credo di sapere cosa devo fare.»

L’espressione di Nicole si fece subito dispiaciuta, ma capì di dover lasciare al figlio il proprio spazio e acconsentì con un cenno.

Jack afferrò la valigia e fece per avviarsi, ma il fratello si precipitò da lui.

«Lascia, te la porto io» disse, prendendogli la valigia dalle mani. I due si scambiarono uno sguardo d’intesa e senza aggiungere parola si avviarono.

La stanza in cui il ragazzo avrebbe dovuto dormire era l’ultima porta sulla sinistra, al primo piano. Ampia e luminosa, profumava di rose, addirittura troppo. Connor entrò, ma Jack si fermò sulla soglia.

«A ventotto anni torno a vivere da mia madre… di nuovo» disse con tono esasperato.

Il fratello sorrise: «Sarebbe potuto andarti peggio.»

«Ti sei mai chiesto com’è possibile che entrambi abbiamo più o meno gli stessi geni ma che io sia uscito ben più problematico di te?»

Nel porre la domanda Jack era entrato nella stanza, andando a sedersi sul letto, la schiena appoggiata contro la testiera. Connor sogghignò, lasciandosi sfuggire una leggera risata dalle labbra. «Non è vero. Ho fatto anche io dei gran bei casini.»

Il sopracciglio di Jack si incurvò alla perfezione. Schiuse le labbra e guardò il fratello un momento prima di dire: «Tipo tentare il suicidio e poi rischiare di morire per overdose solo sei mesi più tardi?»

L’altro allargò le braccia. «Se la metti così deduco che tu voglia vincerla questa sfida.»

Jack scrollò le spalle, senza dire nulla. Fu nuovamente Connor a parlare: «Cosa pensi di fare ora?»

Il più giovane sospirò, ragionando sulla risposta. L’ultima volta che era rimasto isolato in casa dei suoi genitori non era stato molto bene. Si era sentito in trappola per tutto il tempo e aveva trascorso le sue giornate suonando il pianoforte e facendo lunghe conversazioni con la nonna. Il risultato era stato che quando gli venne dato il permesso di tornare al suo appartamento aveva accumulato una tale quantità di nervosismo che si era subito buttato su alcol e droga, i suoi vizi peggiori. Tuttavia non voleva più ripetere quell’esperienza. La sua leggerezza nell’assumere certe sostanze lo aveva portato a un passo dalla morte e, come se non bastasse, aveva fatto preoccupare terribilmente perfino Riley. Non voleva accadesse ancora, non più. Si era deciso a uscirne davvero questa volta. Avrebbe smesso di raccontare menzogne a sé e agli altri e avrebbe preso veramente fra le mani la propria vita. In fin dei conti aveva finalmente qualcosa che lo avrebbe aiutato in tutto ciò. Il night club che aveva sempre sognato e che aveva progettato per anni esisteva veramente e Riley si era detta disposta ad aiutarlo a liberarsi dalla sua dipendenza facendo il possibile. Se si fosse impegnato a fondo e non avesse ceduto agli stimoli sbagliati, sarebbe riuscito a risollevarsi.

«Ehi, mi vuoi rispondere?»

Connor incalzò così il fratello, sorpreso e leggermente infastidito per via del suo lungo silenzio. Jack posò gli occhi su di lui, come se si fosse ricordato solo in quel momento della sua presenza nella stanza. Appoggiò la testa contro alla parete alle sue spalle e rispose: «Non penso che tornerò in comunità. Le ultime volte che ci sono andato non è servito a molto.»

«Non tornare in comunità significa che non farai niente per la tua dipendenza?» domandò Connor, attonito.

Jack sollevò le mani con l’intento di tranquillizzarlo. «Non mi fraintendere. Voglio smettere di assumere droga, solo che non voglio più tornare in comunità. Gli incontri, il dover raccontare la mia storia a degli sconosciuti per “condividere” con loro le mie esperienze» esibì il segno di virgolette e sbuffò una lunga boccata d’aria. «Non è così che ne uscirò» concluse.

Suo fratello rimase a guardarlo a lungo, il dubbio perfettamente intuibile nella sua espressione. «E come pensi di fare senza l’aiuto di professionisti? Non è che stai prendendo la cosa un po’ troppo alla leggera?»

«No, assolutamente. So che sarà parecchio complicato.»

Guardò verso il tavolino accanto alla poltrona su cui era seduto Connor. Vi erano sistemate tre cornici, ciascuna contenente una fotografia che raffigurava un diverso momento dell’infanzia dei due fratelli Miller.

«Quello che mi hanno sempre detto a quegli incontri» ricominciò Jack. «È di trovare qualcosa per cui vale la pena smettere di rovinarsi la vita. Qualcosa che per noi conti così tanto da non voler correre il rischio di perderla. Può essere una persona, o anche una cosa, per ognuno è differente.»

«Ti stai riferendo al tuo night club?» chiese Connor, che cominciava a capire il discorso del fratello. Ogni volta che il giovane usciva dalla comunità di recupero ricominciava a drogarsi perché non era riuscito a trovare qualcosa che gli desse la forza di tirare avanti con le proprie forze. Gli era sempre mancato ciò che gli avrebbe permesso di superare i momenti difficili grazie alla sola consapevolezza di avere quel qualcosa – o qualcuno.

Jack scosse la testa: «No, non al night club. A Riley» disse.

Connor spalancò gli occhi, sorpreso: «R-Riley? Parli della tua vicina di casa?»

«Sì, esatto» Jack lo guardò come se non riuscisse a spiegarsi una simile reazione, poi proseguì: «Può essere davvero il mio buon motivo per smetterla di rovinarmi la vita. Così da evitare di fare del male anche a lei. Ho capito, finalmente.»

Il fratello continuò a fissare perplesso Jack, dopodiché sorrise, sornione: «Ciò che hai appena detto suona come una dichiarazione d’amore, ne sei consapevole?» punzecchiò il più giovane.

«Nonostante io sia gay?» fu la risposta, pronta.

Il sorriso di Connor si ampliò ancora. «Cosa vuol dire? L’amore non guarda a questi dettagli.»

Allargò le braccia. «Potresti provare ad andare a letto con una donna, magari scopri che ti piace.»

Jack fece una smorfia, divertito dalla curiosa espressione del fratello. «L’ho già fatto» confessò. «Un po’ di volte» concluse, senza soffermarsi sul numero esatto.

Connor rise, quasi estasiato. «E quindi?» spronò il fratello.

Il più giovane ripropose la smorfia di pochi attimi prima. «Beh, non è male. Con il senno di poi devo ammettere che mi è piaciuto.»

L’altro rise nuovamente mentre Jack si alzava e si sistemava sulla poltrona libera di fronte a quella dove si trovava Connor. Quest’ultimo si ricompose e guardò il fratello. Dentro di lui qualcosa gli disse di fidarsi di Jack. Dopotutto perché non credere al fatto che fosse veramente stanco di vivere una vita perennemente al limite? Ora che Jack aveva trovato qualcosa – o meglio qualcuno – per cui valeva la pena alzarsi alla mattina non c’era motivo di credere che avrebbe mandato tutto all’aria.

Connor si fece serio. Guardò Jack negli occhi e disse: «Penso che ci riuscirai questa volta, dico davvero. Poi mi pare che l’idea di avere Riley sia per te uno sprone ulteriore.»

«Sì, sono… piuttosto fortunato ad averla» rispose Jack, pensando di non potersi definire in maniera diversa, non dopo che Riley lo aveva cercato e aspettato per tre giorni.

Connor fece schioccare la lingua: «Sei sicuro che non sia più di un’amica?» domandò, curioso.

Il fratello distolse lo sguardo, pensando. Non si era mai chiesto cosa fosse esattamente il legame che lo univa a Riley; quell’unione che aveva rischiato di spezzarsi mesi prima per via di azioni errate, ma che si era ricucito insieme, forse più saldo di prima.

Increspò le labbra: «Non te lo saprei dire. Se vuoi ci penso» rispose, con una leggera nota di sarcasmo sulla parte finale della frase. Connor lo guardò di traverso: «Non si riesce mai a fare discorsi seri con te» lo bacchettò.

Jack si finse offeso: «E tutta la confessione che ti ho fatto poco fa?»

Non ricevette risposta. Suo fratello si alzò dalla poltrona emettendo un lieve sbuffo divertito e si voltò a guardarlo senza dire nulla. Fu nuovamente Jack a parlare: «Ti rendi conto che poco fa mi hai chiesto se mi piace una donna nonostante abbia ammesso dodici anni fa di essere omosessuale?»

Connor infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, un sorriso vagamente malizioso sulle labbra. Abbassò la voce e guardò attentamente negli occhi grigio-azzurri del fratello: «Non ti ho chiesto se ti piace “una donna” ti ho chiesto se ti piace Riley.»

Detto ciò si avviò fuori dalla camera, lasciando Jack solo, piuttosto basito, il quale scosse la testa ridendo mentre ripensava alle ultime cose che gli aveva appena detto Connor. Cercò di non soffermarsi più di tanto a pensare a Riley. Non l’avrebbe rivista a breve, ne era consapevole – non gli avrebbero mai permesso di incontrarla prima che potesse tornare al suo appartamento – perciò decise di non spremersi troppo le meningi cercando di capire cosa esattamente provasse per lei. Lo avrebbe scoperto con il tempo.

Iniziò a disfare la valigia e, in fondo a essa, trovò il suo taccuino con tutte le annotazioni e i numeri di telefono del personale e dei fornitori del night club. Quella “reclusione” in casa Miller sarebbe stata diversa dalla precedente. Aveva pur sempre un night da amministrare ed era una cosa che poteva benissimo fare anche senza essere fisicamente sul posto. Era certo che tenere la mente impegnata in qualcosa di produttivo gli avrebbe impedito di impazzire.

 

*

 

Gli occhi fissi sul televisore, le ginocchia strette al petto, Riley cercava in qualche modo di portare a termine una partita alla Playstation iniziata ormai giorni prima, ma che non era ancora riuscita a ultimare. Non riusciva più a concentrarsi come faceva abitualmente quando iniziava a giocare. Le era impossibile evitare che la sua mente divagasse e pensasse a tutt’altro anziché concentrarsi sul rapporto tra tasti del joystick e i movimenti del personaggio.

Da tempo non faceva altro che pensare a Jack. Erano passati venti giorni da quando la ragazza lo aveva incontrato l’ultima volta al Washington Hospital Center; maggio era agli sgoccioli e a lei pareva passata un’eternità da quell’incontro. Il ragazzo non l’aveva chiamata come le aveva detto, ma Riley sospettava fortemente che la cosa non fosse dovuta a una sua scelta. Nonostante quello che le aveva detto Nicole al termine della visita a Jack, Riley sentiva che il silenzio del ragazzo era in buona parte attribuibile a lei.

Sospirò, guardando il personaggio del videogioco morire per l’ennesima volta. Avrebbe fatto meglio a spegnere visto che non si stava minimamente concentrando su quello che doveva fare, ma la Playstation era comunque un buon modo per distrarsi – o meglio, provare a distrarsi.

Bussarono alla porta. Lo sguardo di Riley si mosse svogliato dallo schermo televisivo all’ingresso di casa. Mise in pausa e si alzò, certa che si trattasse dell’inquilina del piano di sopra, tornata per restituirle il detersivo che lei le aveva prestato alcune ore prima.

Quando aprì la porta, però, davanti agli occhi non si trovò il volto della vicina, ma il colletto di una t-shirt nera che sbucava da sotto una leggera giacca di jeans. Alzò istintivamente lo sguardo, così da permettere a questo di incrociare quello grigio-azzurro di Jack, più luminoso e splendido di quanto avesse mai visto. Il ragazzo le sorrise; aveva la bocca impastata per via di un marshmallow a cui non era riuscito a resistere mentre saliva le scale del condominio. In una mano teneva il sacchetto di cilindretti di zucchero aperto – la confezione rossa e trasparente – e alzò l’altra per salutare Riley mentre si affrettava a masticare così da poterle dire finalmente qualcosa. Trovò che nonostante i capelli arruffati e i vestiti sgualciti continuasse a essere davvero graziosa. Tuttavia Jack rimase sorpreso dalla reazione della ragazza, che non si era minimamente aspettato. Era immobile e continuava a guardarlo con un’espressione indecifrabile in viso.

Riley sentì gli occhi cominciare a bruciarle. Jack le era mancato terribilmente e trovarselo davanti, quando lei davvero non se lo aspettava, le aveva fatto nascere dentro una tale gioia da stordirla. Non stava reagendo come avrebbe voluto, ma non riusciva a fare altro se non rimanere a fissare il ragazzo come se la sua presenza in quel posto non fosse reale, mentre quest’ultimo terminava di masticare guardandola confuso.

Jack le sorrise, leggermente incerto e fece per dire qualcosa, tuttavia Riley non gliene diede il tempo. Gli si avvicinò e lo abbracciò. Affondò la testa nella t-shirt del ragazzo – così intrisa del suo inconfondibile profumo – cercando in ogni modo di ricacciare indietro le lacrime. Non sapeva davvero spiegarsi perché si stesse comportando in quel modo, ma non le importava più. Jack era tornato da lei e non avrebbe potuto chiedere altro.

Il ragazzo rimase sbalordito dal comportamento di Riley. Abbassò lo sguardo su di lei, gli occhi ancora spalancati, e la sentì mentre stringeva forte la giacca sulla sua schiena. Un dolce calore lo pervase insieme a una forte sensazione di serenità. Era contento di riavere Riley, felice di vedere che lei lo aveva aspettato.

Prestando attenzione a non rovinare quel momento – che aveva in sé qualcosa di sorprendentemente romantico – Jack chiuse con la mano il sacchetto di marshmallow che aveva preso da condividere con Riley; dopodiché le diede un bacio sulla testa e la strinse ancora di più a sé.

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