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Il clacson in strada suonò troppo a lungo. A
esso riuscì di portare a termine il compito che la luce del mattino non era stata
in grado di ultimare: svegliare Jack.
Il ragazzo aprì gli
occhi nel chiarore del mattino. Intorno a lui, fra il bianco, non fu in grado
di riconoscere la camera da letto in cui si trovava. Aveva qualcosa di
famigliare, segno che ci era già stato. La cosa lo aiutò a tranquillizzarsi
quando tutto prese improvvisamente a vorticare. Il semplice giramento di testa
gli permise di capire che, la sera precedente, nulla più dell’alcol – e forse
neanche troppo di quello – era entrato nel suo corpo; altrimenti i postumi
sarebbero stati differenti e ben più pesanti. Si appoggiò sui gomiti, ancora
intontito. Le lenzuola di cotone gli scivolarono di dosso, fermandosi poco
sotto l’ombelico. In quei brevi istanti ogni parte del suo corpo venne
accarezzata dalla stoffa chiara e delicata, cosa che gli fece intendere che non
stava indossando niente sotto di essa. Per lui poteva significare una cosa
soltanto. Si voltò per vedere se, alla sua sinistra, l’altro ancora stava
dormendo. Il sorriso che gli si era dipinto in volto a quel pensiero, scomparve
improvvisamente.
La persona addormentata
accanto a lui gli dava le spalle. Le lenzuola seguivano fedelmente i contorni
del suo corpo: la vita sottile, i fianchi morbidi e le linee formose. Le spalle
scoperte permisero a Jack di vedere la pelle diafana in quei pochi centimetri
che introducevano la linea che scendeva lungo la schiena. I lunghi e setosi
capelli biondi erano sciolti e arruffati, liberi sul cuscino.
Il cuore del ragazzo
rallentò di colpo. Accanto a lui, nel letto, c’era una donna e non una
qualsiasi, bensì Riley.
Numerose domande
cominciarono a riempirgli la testa ma, sopra a tutte, la più insistente era una
soltanto: come era stata possibile una cosa simile?
Jack non riusciva a
staccare gli occhi dal corpo della ragazza accanto a lui. Contemporaneamente
costringeva il suo cervello a tentare di ricordare, a ripercorrere i minuti e
le ore precedenti. La testa continuava a
girargli; per colpa dello shock lo fece con forza maggiore. Tuttavia fra la
confusione ammassata dentro di lui – accresciuta ancora di più alla vista di Riley
– le cose cominciarono a delinearsi con lentezza e dolore. Aveva pensato bene,
pochi minuti prima. La sera precedente aveva, sì, bevuto, ma non troppo. Per
tale motivo dopo l’iniziale momento di smarrimento riuscì a ricordare tutto. I
ricordi riaffiorarono smossi nella sua testa. Andarono a riempirgli il
cervello, gli occhi; gli contorsero lo stomaco e fecero crescere in lui il
forte peso del rimorso.
*
Appartamento
N° 23 – La sera precedente.
Jack premette con una tale forza l’icona rossa
del telefonino che se lo schermo dello smartphone si fosse crepato non ne
sarebbe certo rimasto sorpreso. Come la chiamata venne chiusa il ragazzo, in
preda a un impeto di rabbia intenso come non gli succedeva da tempo, lanciò il
cellulare contro il divano, liberando insieme a quel gesto un verso d’ira. Si
portò le mani sul viso nel vano tentativo di riuscire a regolarizzare il
respiro. Era inutile. Aveva la mascella tesa per la rabbia che stava provando e
un tale senso di frustrazione dentro da non riuscire a trovare neanche con il
pensiero il modo migliore per sfogarsi.
Louis
lo aveva fatto di nuovo. Era riuscito a farlo sentire una nullità, il piacevole
diversivo con cui amava crogiolarsi di tanto in tanto, ma da tenere ben
nascosto alla vista del mondo. Da più di sei mesi la loro relazione andava
avanti, tuttavia lo faceva in modo strascicato, con continui alti e bassi e
sempre minacciata dalla luce della verità, che avrebbe potuto smascherarli da
un momento all’altro.
Louis
era sposato. Per un uomo di politica del suo calibro mostrare all’America la
sua famiglia perfetta – eterosessuale, felice e completa – era fondamentale.
Tuttavia, più di due anni prima, il politico non era riuscito a rimanere
indifferente davanti agli occhi grigio-azzurri di Jack già dal momento del loro
primo incontro a un brunch. Jack era là, all’epoca, sotto le sembianze di uno
dei due figli di Benjamin Miller – il Presidente degli Stati Uniti –,
dichiaratamente omosessuale e notevolmente annoiato. Ai due era bastato un
drink insieme e poche parole perché fosse evidente la complicità che, in
qualche modo, li avvicinava.
A
ogni loro incontro l’attrazione si rafforzava. Jack aveva cominciato a
considerare sempre meno irritanti le cene formali a cui era costretto ad andare
in quanto a figlio del Presidente. Erano il modo più efficace per interagire
con Louis, per conoscerlo meglio, per ammirarne l’innata bellezza, dai capelli
biondi ed elegantemente arruffati e dagli occhi azzurri che sembravano costantemente
alla ricerca di quelli di Jack.
Poi,
circa sette mesi prima, Louis si era lasciato andare. Jack lo aveva accolto ben
volentieri fra le proprie braccia, condividendo con lui il tempo, il letto, la
musica che amava suonare al pianoforte e la cocaina che sempre più spesso
acquistava a notte fonda.
Da
allora si vedevano con frequenza maggiore. Jack – ormai figlio dell’ ex Presidente – era diventato l’amante
di un politico in carriera, in ascesa. E se ne era innamorato. Dall’altra parte c’era Louis, che aveva sempre
sostenuto di ricambiare i sentimenti dell’altro e che si diceva pronto a
lasciare la moglie e la figlia per poter stare insieme a lui.
In
quei mesi, però, non lo aveva mai fatto. Aveva ripetuto a Jack che avrebbe
chiesto il divorzio a breve un’infinità di volte e quest’ultimo, come uno
stupido, ci credeva di continuo. Tuttavia Louis non aveva ancora lasciato la
moglie; non le aveva neanche accennato nulla riguardo la sua nuova storia.
Per
tale motivo, quel giorno, avevano litigato ancora. All’ennesima richiesta da
parte di Jack di poter rendere nota al pubblico la loro relazione, Louis aveva
risposto che gli serviva ancora tempo, che lui non avrebbe potuto capire, che
non sarebbe mai stato considerato normale
quello che avveniva fra loro. Lo screzio era degenerato in una violenta lite
telefonica, fatta di imprecazioni, di inesattezze e di continui scarichi di
colpa. Era poi sfociata nel silenzio quando Jack aveva chiuso la conversazione
con rabbia, lanciando il telefono contro il divano che aveva di fronte.
Frustrato,
fece scivolare le mani fino ai capelli corvini, spettinandosi più di quanto già
non fosse. Raggiunse il pianoforte e si sedette, convinto che la musica avrebbe
potuto aiutarlo. Non riuscì a decidere una canzone da suonare. Molte le aveva
dedicate a Louis ed era consapevole che non sarebbe riuscito a suonarle senza
finire con il pensare a lui. Decise di lasciar stare lo strumento. Con suo
rammarico la musica non avrebbe potuto aiutarlo, questa volta. Raggiunse di
fretta uno dei cassetti del mobile della camera da letto. Dentro cercò fino a
trovarlo un piccolo ovulo di pellicola trasparente, usato a protezione di una
soffice polvere bianca. Tornò in soggiorno con quello in mano, si sedette sul
divano – ignorando completamente il telefono cellulare – e dispose la poca
polvere che gli era rimasta in due strette file. Arrotolò una banconota da un
dollaro e si preparò a inspirare tutto.
Non
lo fece. Rimase fermo a guardare le due strisce di polvere in maniera assente,
la mascella ancora contratta per la rabbia. Con gesti nervosi delle dita
continuava a tormentare la banconota arrotolata che aveva in mano. Era troppo
arrabbiato, troppo nervoso. In un simile stato la cocaina avrebbe certo potuto
aiutarlo, ma un parte di lui si rifiutava di assumerla; semplicemente non la
voleva. Avrebbe dovuto trovare un altro modo per togliersi dalla mente Louis
per un po’ e in un improvviso momento di realismo si rese conto che, da solo,
non ci sarebbe mai riuscito.
Non
perse neanche tempo a infilarsi un paio di calze. Attraversò a piedinudi quel poco di strada che lo separava
dall’ingresso dell’appartamento che aveva di fronte. Bussò un paio di volte,
rimanendo in attesa. Quasi subito Riley comparve sulla porta. Indossava una
t-shirt bianca, larga e morbidi pantaloni da tuta. I capelli biondi erano
legati in un disordinato chignon che si ergeva sopra la sua testa. Come vide il
ragazzo sorrise, già perfettamente consapevole che a bussare era stato lui.
«Spero
di non disturbare» esordì Jack, abbozzando un sorriso. Trovarsi davanti la
ragazza lo aiutò notevolmente a sentirsi meglio.
Loro due si erano
conosciuti poco dopo l’arrivo del ragazzo nel condominio. Come per tutti i
vicini di casa, avevano iniziato salutandosi sulle scale quando si
incontravano. Erano poi passati a brevi conversazioni sul pianerottolo, davanti
ai reciproci ingressi, finché non ne erano scaturiti i primi inviti a bere
qualcosa, a prendere un caffè. Riley e Jack erano così diventati amici.
Lui si trovava
incredibilmente bene in sua compagnia. Stando con Riley non provava il minimo
bisogno di assumere qualche sostanza per rilassarsi; con lei non servivano
alcolici, cocaina o cose del genere. Riley aveva una tale naturalezza implicita
nei gesti che era più che sufficiente per stare bene insieme a lei.
I due per lo più
parlavano, guardavano film alla televisione, alle volte giocavano con la Playstation
della ragazza, mantenendo sul divano fra loro un pacchetto di marshmallow che,
quando veniva aperto, era predestinato a finire.
Riley sapeva
dell’omosessualità di Jack e a lui piaceva il fatto che era una delle poche persone
che non lo faceva sentire sbagliato
per questo. Perfino la sua famiglia, di tanto in tanto, lasciava trapelare di
non aver totalmente trovato una spiegazione alla situazione del figlio,
nonostante gli volessero veramente bene.
«Non disturbi tu, dovresti
saperlo.»
La ragazza aprì
maggiormente la porta, dando le spalle a Jack che lo prese come il giusto
invito a entrare. Casa di Riley profumava sempre e anche quella sera non era da
meno. Nel suo piccolo soggiorno – così uguale a quello del ragazzo – aleggiava
un leggero sentore di noci tostate. Lei si sistemò accanto al tavolo, a cui si
appoggiò leggermente con il fianco. Incrociò le braccia sotto i seni, rimanendo
a osservare l’amico. Non era solo dovuto al fatto che lo aveva sentito gridare
diversi minuti prima, le bastò poco per capire che in Jack qualcosa non andava.
Riley decise di affrontare la questione per gradi, di non essere schietta nel
chiedere al ragazzo cosa fosse successo e di farlo soltanto se si fosse
presentata l’occasione giusta.
Jack le offrì
quell’occasione praticamente subito. Alla ragazza non sfuggì il modo in cui si
guardava intorno, né l’incertezza di cui erano pieni i suoi occhi chiari mentre
evitava accuratamente il suo sguardo.
«Va tutto bene?» chiese,
semplicemente. Lui portò immediatamente gli occhi su di lei. Rimase a guardarla
come se si fosse ricordato solo in quel preciso istante il posto in cui si
trovava. Poi incurvò lentamente le labbra in un sorriso amaro e ferito:
«Abbiamo litigato di nuovo» mormorò.
Riley abbandonò le
braccia lungo i fianchi, senza rispondere. Jack aveva nuovamente allontanato lo
sguardo, puntandolo sul mobilio dell’angolo cottura alle spalle della ragazza.
«Vuoi sederti?»
Gli indicò con un cenno
del capo il divano. Lui si limitò ad annuire, andando a sistemarsi su una delle
due estremità. Il divano di ecopelle nera della ragazza era ormai rovinato e
sfondato dagli anni, ma ancora piuttosto comodo. Jack ci si sistemò e incrociò
le gambe sul cuscino. Riley lo raggiunse poco dopo. Posò una bottiglia di vino
e un paio di bicchieri sul tavolino che avevano davanti e si accoccolò accanto
al ragazzo, il corpo ruotato verso di lui. Jack afferrò la bottiglia e, per la
prima volta da quando era entrato nell’appartamento n° 24, parve rilassarsi veramente.
«Mi ricordo di questa»
disse, sorridendo. Aveva regalato lui quella bottiglia a Riley, diverse
settimane prima.
Lei estrasse dalla tasca
dei pantaloni il cavatappi e lo porse a Jack. Questi, senza troppi problemi,
stappò la bottiglia e versò generose quantità del liquido scuro nei due
bicchieri. Ne bevve un lungo sorso, preparandosi a ricevere il primo affondo
della ragazza. Non si fece attendere, infatti: «Cos’è successo questa volta?»
Lui si voltò a
guardarla. Riley teneva gli occhi sul bicchiere, muovendolo leggermente affinché
il vino potesse far arrivare al suo naso l’aroma.
«Non lo ha ancora
dettoa sua moglie. Comincio a
sospettare che non lo farà mai.»
Quell’ammissione lo fece
star male. Ingollò ciò che gli era rimasto nel bicchiere e si pulì la bocca con
il dorso della mano. La conversazione di poco prima con Louis gli tornò alla
mente, così come il forte senso di frustrazione che era stranamente scomparso
alla vista di Riley. Si versò un secondo bicchiere di vino.
«Jack ne abbiamo già
parlato. So che sei innamorato di Louis, ma forse è meglio lasciare perdere
questa storia, non credi?»
Lo costrinse a
guardarla: «Lui è un politico. È in un momento delicato della sua carriera.
Comincia a farsi un nome, a essere notato in giro. Porta avanti l’immagine
della famiglia modello, davvero pensi che metterebbe a rischio tutto per mostrare
alla luce del sole una relazione omosessuale?»
Jack rimase a guardarla
negli occhi. La disarmante verità che gli aveva appena raccontato non lo fece
arrabbiare quanto avrebbe potuto fare sentirla pronunciare dalla voce di sua
madre, di suo padre o di suo fratello. Quelle parole, dette da Riley, suonavano
come una realtà sconsolante, a cui non si sarebbe potuti sfuggire neanche
aggrappati alle fantasie o le illusioni più forti.
«Ma lui mi ama» provò a
replicare. Un tentativo debole che suonò tale anche a lui stesso. Si sentì
improvvisamente crollare. Un misto di rabbia e tristezza lo avvolsero. Rabbia
perché si trovava ad affrontare una storia male assortita, in cui si era buttato
convinto di compiere le scelte giuste ma che invece si dimostravano sempre più
sbagliate. E tristezza, perché tutto ciò lo faceva stare male.
Riley non rispose
all’affermazione instabile fatta da Jack poco prima. Terminò il suo bicchiere
di vino, mentre il ragazzo già si versava il terzo in preda alle sue angosce.
«Non riesco a mettere in
piedi una storia sincera» disse lui all’improvviso, finendo in fretta anche il
terzo bicchiere. Riley si voltò a guardarlo. Gli occhi grigio-azzurri erano
puntati sul tavolino che aveva davanti, le labbra incurvate in
un’incomprensibile smorfia. «Rovino sempre tutto. Mi illudo che le persone
siano sincere con me anche quando non è vero.»
D’improvviso guardò la
ragazza: «Sono solo un passatempo e io ogni volta mi convinco di non essere
tale. Come si può pensare che uno come Louis rinunci alla carriera per stare
con me? Sono il figlio gay dell’attuale Segretario di Stato e il nightclub che
voglio aprire è ancora solo un mucchio di carta e scarabocchi. Non potrei mai
essere alla sua altezza.»
La sua voce si fece
nervosa, irritata. Riley si accorse che tremava leggermente e che era
profondamente addolorata. Tuttavia Jack si sentiva sempre più nervoso e più
frustrato. Voleva solo dimenticarsi di ciò che gli era successo. Avrebbe dato
qualsiasi cosa per capovolgere le cose. In quel momento sentì che la cocaina
che aveva nell’appartamento gli sarebbe potuta essere utile. Non potendola
prendere, però, si limitò a versarsi un nuovo bicchiere di vino.
«Non è colpa tua.»
La voce di Riley sferzò
l’aria. Lui si voltò di scatto a guardarla, ma gli occhi della ragazza erano fissi
sul nulla di fronte a lei. Il verde acquoso di cui erano intrisi si era
appannato. Quando ricambiò lo sguardo di Jack ci mise un po’ a riprendere
parola: «Non è colpa tua se le persone ti trattano male, se non hanno il minimo
ritegno per i tuoi sentimenti.»
Si strinse nelle spalle
di fronte all’occhiata perplessa lanciatale dal ragazzo. «Credi di essere
l’unico a cui le cose vanno da schifo?»
«Io…» tentò di dire lui,
ma le parole gli morirono in gola. Riley gli si mostrò davanti più fragile di
come l’avesse mai vista, alle prese con tormenti invisibili ai suoi occhi.
Tuttavia Jack non riusciva a trovare pace.
«Non c’è niente di male
a lanciarsi in una storia, sai? A provare, sperando che le cose vadano per il
verso giusto. Il problema è che quando le cose non vanno bene si rimane
scottati.»
Gli occhi della ragazza
si allontanarono. Jack appoggiò i gomiti alle ginocchia e si protese verso di
lei. «Perché non me l’hai mai detto?» le chiese.
Riley sentì lo stomaco
stingersi tanto erano vicini gli occhi di Jack quando sollevò i suoi per
guardarlo. «Dirti che cosa?» mormorò.
«Che condividiamo la
stessa sorte. Che siamo entrambi innamorati di qualcuno che non ci ricambia
realmente.»
L’aroma di lamponi che
possedeva il vino si riusciva percepire leggero
nell’alito del ragazzo. Era troppo vicino per Riley e non riuscire a scomporsi
davanti a quella che per lei era assoluta perfezione fu impossibile.
Era Jack la persona di
cui Riley era innamorata. La loro amicizia si era trasformata ben presto in una
maledizione per la ragazza e lo aveva fatto nel momento esatto in cui la
consapevolezza che lui non avrebbe mai ricambiato i suoi sentimenti si era
annidata fra cervello e cuore. La cosa la faceva stare male, ma si era
ripromessa di non rovinare il legame che la univa a lui per un capriccio. Non
poteva contare neanche sull’attrazione fisica. Con Jack non aveva speranze per
il semplice fatto che lui non l’avrebbe mai guardata come un uomo guarda una
donna.
I quattro abbondanti
bicchieri di vino ingurgitati in fretta da Jack stavano già cominciando a
rendere le sue percezioni ovattate. La consapevolezza dei propri gesti era
allentata, i freni inibitori sciolti. Per questo motivo quando Riley schiuse le
labbra, facendo scivolare gli occhi verdi per un solo momento sulla bocca del
ragazzo, lui non fu in grado di bloccare il fremito che lo percosse.
Baciò Riley. Lo fece con
intenzione, con foga, come se lei fosse l’unica cosa in grado di permettergli
di dimenticarsi di Louis. La ragazza ricambiò senza esitazione quel bacio, che
si fece via via anticamera di qualcosa di ben più passionale. Jack la strinse a
sé; lei fece aderire con perfezione il corpo a quello del ragazzo. I primi
vestiti cominciarono a sfilarsi, i respiri, sempre più ansanti e sovrapposti,
divennero leggeri gemiti, strozzati fra le loro labbra. Il disordinato chignon
di Riley si sciolse e Jack ebbe modo di sentire i capelli, lisci e morbidi come
seta, colpire delicati la sua mano mentre questa scorreva lungo la schiena nuda
della ragazza.
Per lui era tutto
strano, diverso. Aveva la mente
completamente annebbiata e non gli riuscì – né gli andava – di fermarsi. Per la
prima volta in quella sera Jack non stava pensando assolutamente a niente.
Ciao
a tutti!
Innanzitutto
vi ringrazio per aver letto il primo capitolo di questa mia nuova long. È la prima
volta che scrivo una cosa del genere e spero che vi piaccia fino alla fine.
Ora,
ci tengo a fare una precisazione. Questa storia è fortemente ispirata a una
serie TV chiamata Political Animals, mai uscita in Italia.
Volevo
semplicemente farvi sapere che – ahimè – questo lavoro non è totalmente farina
del mio sacco, anche se ho cambiato cose a sufficienza perché non sia neanche
una fanfiction dedicata a quella serie TV.
È
una sorta di compromesso, diciamo così.
Spero
davvero che proseguiate nella lettura e, soprattutto, spero che questo lavoro
sia di vostro gradimento.
Non appena a Jack fu tornato alla mente ciò che
era accaduto la sera precedente si sentì orribile. Avrebbe potuto giurare di
provare un senso di nausea alla bocca dello stomaco. Come aveva potuto andare a
letto con Riley, la sua più cara amica e ancora di salvezza nei momenti
peggiori? Aveva rovinato tutto, ne era certo e lì, in camera della ragazza, con
la testa che vorticava e un senso di impotenza dentro, non sapeva come fare per
sperare di risolvere il guaio che aveva combinato.
Si sedette sul bordo del
letto, dando per la prima volta le spalle a Riley. Si accorse che, ai suoi
piedi, si trovavano i suoi jeans e i boxer. Tutto era cominciato sul divano di ecopelle
nera del soggiorno, ma era in quella camera che le cose erano proseguite fino a
concludersi, dove i loro corpi si erano cercati fino a trovarsi più volte.
Si mise in piedi per
potersi rivestire in fretta, tentando di fare meno rumore possibile.
Scappare. Non era così
che avrebbe risolto le cose, lo sapeva. Ma in quel momento non fu in grado di
ragionare con lucidità. Forse un goccetto, una veloce sniffata di coca
avrebbero potuto essergli di aiuto ad affrontare la situazione.
La fibbia della cintura
tintinnò un paio di volte mentre la chiudeva.
«Jack.»
Si voltò di scatto.
Riley era sveglia, seduta sul letto e avvolta dalle coperte di cotone. I
capelli erano scarmigliati sulle sue spalle, gli occhi, nonostante fossero
ancora assonnati, vigili. Jack non seppe cosa dire. Il senso di colpa lo
aggredì alle spalle, costringendolo alla resa dei conti prima ancora che lui
fosse pronto.
Sospirò: «Mi dispiace,
Riley. Questa notte non…»
Non sapeva come proseguire, che altro poter
dire. Si sentiva responsabile ed era perfettamente a conoscenza che niente
sarebbe potuto tornare come prima. Tuttavia una parte di lui ci sperava,
nonostante fosse, al tempo stesso, consapevole di illudersi e basta. Era stato
lui a baciare Riley. La ragazza si era lasciata andare e di certo una parte
della colpa era anche sua, ma tutto era partito da lui e lo sapeva. Perfino il
vino non ne aveva colpa.
Lei non disse nulla. La
sera precedente sapeva già perfettamente che, una volta sorto il sole, una
volta che Jack si fosse accorto di quello che era successo fra di loro, tutto
sarebbe svanito. Sapeva che il loro legame si sarebbe incrinato, forse
spezzato. Eppure non aveva compiuto la minima azione per evitare la cosa. Desiderava
da così tanto tempo sentire il sapore di Jack e inebriarsi del suo odore, che
era disposta a mettere a rischio ogni cosa. Si era lanciata fra le fiamme con
la consapevolezza che si sarebbe scottata, ma lo aveva fatto ugualmente.
Non riuscì a biasimare
il ragazzo quando lo vide piegarsi sotto il suo stesso peso, avvilito. Gli
occhi grigio-azzurri di Jack, ancora più chiari nella luce mattutina, erano
mortificati. Le si chiuse lo stomaco a quella vista. Distolse lo sguardo, non
riuscendo a reggere oltre. Lo fece vagare per la stanza con insicurezza sempre
maggiore. Quando tornò a puntare gli occhi su Jack fu perché lo sentì prendere
fiato. Era fermo nella posizione di prima, la stessa espressione dipinta in
volto. Per Riley fu un attimo ripensare a quella notte. Le sembrò di ricordare
ogni gesto, ogni tocco, ogni sospiro. Si rivedeva accoccolata accanto a Jack mentre
il suo petto si alzava e abbassava seguendo il suo lento respiro addormentato.
Quei ricordi si erano già trasformati in dolorosi errori, sbagli che lei stessa
aveva volontariamente commesso. Jack aveva cominciato tutto, senz’altro, ma lei
aveva impedito a quel tutto di arrestarsi.
«Non avrei dovuto.»
La voce di Jack suonava atterrata, una vittima
della realtà dei fatti. Riley si sistemò meglio sul letto, tirò maggiormente a
sé le coperte, fasciandosi il corpo. Quella di Jack era un’assunzione di colpa
e non seppe come replicare. Il loro legame si era appena, ufficialmente,
incrinato e se lei non avesse trovato le parole giuste da pronunciare si
sarebbe spezzato. Tuttavia dentro di sé sentì solo un orrendo nodo alla gola
formarsi. Continuava a guardare il ragazzo senza dire niente. La perfezione del
suo corpo, quella del suo viso, della sua anima tormentata, niente di tutto
quello era suo e aver ricevuto la conferma di ciò, in una soleggiata mattina
autunnale, la faceva stare male.
Jack si accorse che
Riley lo stava guardando, ma non vedendo. «Riley» la chiamò.
Un lampo di verde
liquido si posò nei suoi occhi. La ragazza schiuse le labbra ma non disse
nulla. Toccava a lui fare qualcosa e, in preda a un vortice di sensazioni
avvilenti, Jack fece il possibile per elaborare le proprie scuse: «Mi dispiace
così tanto.»
Prese a tormentarsi i
capelli corvini con la mano destra. Le corte ciocche scure si sottomettevano al
passaggio delle sue dita. «Non so che mi è preso. Non volevo arrivare a
questo.»
Portò entrambe le mani
sul viso. Riley lo vide mordersi il labbro inferiore con rabbia prima di
nascondersi il volto fra le mani. Rimase in quella posizione svariati secondi,
il respiro si fece più intenso. Buttò fuori tutta l’aria che aveva in corpo
prima di parlare, tornando ad abbandonare le braccia lungo i fianchi: «Non
capisco cosa c’è che non va in me. Sono completamente sbagliato.»
A quella esclamazione
Riley riconobbe il tono nervoso e frustrato che Jack aveva la sera prima,
mentre parlava della sua storia male assortita con Louis. Il ragazzo era
adirato con se stesso ed era evidente che si considerasse l’unico e solo
responsabile di quello che era avvenuto fra loro. Riley odiava vedere Jack in
quello stato; lui non si meritava di sentirsi in colpa, affranto e avvilito
solo perché si imbatteva di continuo nelle persone errate, persone di cui, in
quel momento, lei sentiva di fare parte.
Con un improvviso impeto
di odio verso se stessa la ragazza costrinse il nodo che aveva in gola a
sciogliersi, permettendo alla sua voce di irrompere nella stanza: «Per quale
motivo credi di essere l’unico responsabile di quello che è successo fra noi?»
domandò. Nel sul tono c’era una forte nota di sfida; una provocazione rivolta a
Jack affinché smettesse di sentirsi il solo colpevole.
Tuttavia il ragazzo
parve non afferrare la provocazione. Guardò Riley enigmatico, senza replicare.
La ragazza si morse il labbro inferiore, distogliendo lo sguardo prima di
riprendere parola: «Anche se ieri sera sei stato tu a baciarmi non significa
che tutto quello che è avvenuto dopo sia solo colpa tua. Io avrei dovuto
fermarti, farti notare cosa stava succedendo, chiederti se era quello che
volevi davvero. Ma non l’ho fatto.»
I brevi istanti di
silenzio, necessari a Riley per riprendere fiato, sembrarono durare un’eternità.«Non ho voluto farlo» concluse.
A Jack parve che il
mondo si fosse ribaltato a quelle parole. La ragazza non lo stava guardando, ma
lui riuscì a notare ugualmente che i suoi occhi erano diventati lucidi. Le
parole di Riley risuonarono come un’ammissione, una dichiarazione, come un
segreto tenuto nascosto troppo a lungo.
La ragazza si rifiutava
di guardarlo, soprattutto quando si rese conto di non riuscire a reggere oltre.
Le lacrime le pungevano gli occhi e la gola le si chiuse di nuovo, facendole
quasi male.
«Non sei tu, Jack »
riprese d’un tratto, sentendo il bisogno di sfogarsi. La voce le si era
spezzata e lei si era raggomitolata stretta, stringendo con rabbia il cotone
che le ricopriva il corpo. «È più facile che sia io il problema. Non sei il
primo con cui mi succede una cosa del genere. Ogni volta che mi innamoro di
qualcuno finisce in questo modo.»
Sorrise amaramente. «Mi
accantonano. Mi dicono che sono una bella persona, un’ottima ragazza. Niente di
più.»
Si strinse nelle spalle.
Alcune lacrime cominciarono a scendere, rigandole le guance. «È in me che
qualcosa non va. In me. Non c’è niente di sbagliato in te, Jack.»
Smise di parlare,
passandosi una mano sugli occhi per poterli asciugare. Jack rimase sorpreso da
quelle parole e vi ripensò mentre guardava la ragazza, che si era fatta
improvvisamente fragile. Vedere Riley in quello stato lo faceva star male. Non
se la sentiva più di scappare, di abbandonarsi ai suoi vizi e cercò dentro di
sé le parole migliori per aiutarla a sentirsi meglio. Tuttavia non riuscì a
trovarle. Si avvicinò al letto, sistemandosi accanto alla ragazza, prestando
particolare attenzione a non far scivolare le lenzuola che ancora coprivano il
corpo spoglio di lei. Jack si comportò nel modo che più gli venne naturale e
abbracciò Riley. Sentì la sua pelle fresca attraversata da leggeri brividi
sotto le sue mani, la consapevolezza della nudità di lei non gli trasmise
nulla. Dopo un primo momento di incertezza la ragazza si lasciò stringere fra
le braccia di Jack, scoppiando in un pianto avvilito.
Le ci volle un po’ per
placarsi. Il ragazzo non sapeva quanto tempo era trascorso, ma aspettò ogni
minuto, finché non sentì Riley allontanarsi da lui. I loro volti erano
nuovamente troppo vicini, ma questa volta nessun fremito percosse Jack.
«Tu sei meravigliosa,
Riley. Troverai l’uomo giusto molto presto, vedrai» Jack ruppe il silenzio.
Trovò le sue stesse parole banali, prevedibili, ma sentiva il bisogno di dirle
ugualmente.
Riley abbassò lo
sguardo. «Sai, io non ho mai pensato che la persona giusta sia costretta a
ricambiarci. Alle volte può darsi che colui con cui vogliamo condividere la
vita non pensi la stessa cosa. Dove sta scritto che quella persona debba
ricambiare il modo in cui la si ama?»
Jack allontanò lo
sguardo convinto che non sarebbe riuscito a reggere agli occhi di Riley se lei
lo avesse guardato. La situazione che stava vivendo si era fatta complicata e
difficile da gestire. Per Riley lui rappresentava più di un amico, molto di più
e finalmente lo aveva capito. Tuttavia Jack non avrebbe mai potuto ricambiarla.
Non ci sarebbe riuscito. Nonostante ciò che era accaduto quella notte e la sera
precedente, Jack non riusciva a togliersi dalla testa Louis. Inoltre non era in
grado di vedere Riley in modo diverso da quello che era: un’amica e una donna.
Una donna, ovvero un corpo, un odore e un sapore che non bramava di conoscere
ancora e il cui primo, profondo, incontro era avvenuto in un momento in cui
rabbia e frustrazione gli avevano completamente annebbiato la mente.
«Pensi…» esordì lui dopo
troppo silenzio. Gli occhi grigio-azzurri tornarono a posarsi sulla ragazza,
che già stava rispondendo a quello sguardo. «Pensi che fra noi le cose potranno
tornare quelle di prima?»
Sapeva la risposta, ma
una parte di lui sperava in maniera ottusa di essere a conoscenza della
risposta sbagliata. Il sorriso che si dipinse sulle labbra di Riley, però, era
così amaro da far capire a Jack che non si stava sbagliando. «Non lo so. Non
penso.»
Dopo un momento di
indecisione tornò a guardare il ragazzo. « Jack hai appena scoperto che sono
innamorata di te… Per quanto si possa fingere di ignorare la cosa è impossibile
che non influisca fra noi.»
Detto ciò si alzò dal
letto, trascinando dietro di sé le lenzuola che Jack era stato ben attento a non
calpestare. Il ragazzo rimase a guardarla finché non si chiuse la porta del
bagno alle spalle, dopodiché non seppe più cosa poter fare.
Il legame con Riley,
quell’amicizia perfetta che più e più volte gli aveva impedito di compiere i
gesti più insani, si era appena spezzato.
I
giorni successivi alla mattina in cui tutto si era distrutto fra lei e Jack,
Riley li passò piuttosto isolata dal resto del mondo. Fatta eccezione per il
lavoro, la ragazza tendeva a mantenere solo nella misura necessaria i rapporti
e i contatti con le altre persone. Non voleva che queste capissero che qualcosa
la preoccupava e non voleva neanche che le sue amiche le facessero domande a
cui non le andava di rispondere. Elizabeth – la sua amica più fidata – sarebbe
stata in grado di accorgersi che lei era turbata da qualcosa anche solo
guardandola al termine del loro saluto, per tale motivo, Riley, all’invito
dell’amica a bere qualcosa aveva risposto che non si sentiva molto bene.
I
giorni trascorsi da sola erano diventati cinque, poi una settimana, in tutta
fretta. Per quel lasso di tempo Riley aveva continuato a passare le serate in
solitudine, raggomitolata sul divano, alla ricerca di qualcosa alla televisione
che non la facesse pensare a niente, ma con l’orecchio sempre teso per vedere
se, dal pianerottolo, sentiva provenire qualche rumore riconducibile a Jack. Lo
sentiva solo entrare e uscire di casa. Sentiva il via vai che caratterizzava
spesso il suo appartamento, ma nient’altro. Non c’erano stati altri litigi
telefonici, né battibecchi di varia natura con qualcuno. Sembrava che le
giornate di Jack proseguissero nello stesso modo di sempre.
Riley
aveva ripensato spesso a quello che era accaduto, al modo in cui, in una sola
mattina, uno dei legami più belli che avesse mai stretto si era spezzato per
colpa sua. Le era impossibile non ripensare a quella notte continuamente, anche
se si sforzava in ogni modo possibile di concentrarsi su altro. Le ci sarebbe
voluto molto tempo per riuscire a superare l’ennesima delusione amorosa e certo
non si stava applicando per semplificarsi il lavoro. Continuava a cercarlo, a
sperare di sentirlo bussare alla sua porta come aveva fatto in molte occasioni.
Alle volte, quando sentiva provenire dei suoni dal pianerottolo, si avvicinava
all’ingresso di casa cercando di fare meno rumore possibile e sbirciava dallo
spioncino della porta. Dentro di sé si augurava sempre che Jack, mentre
passava, si fermasse e suonasse all’appartamento 24, ma non era mai accaduto.
Lui richiudeva la porta dietro di sé e si allontanava, imperscrutabile. Quando
accadeva, Riley si sentiva una stupida e tornava ad accucciarsi sul divano.
Non
aveva più pianto da quel giorno. Quando, quella mattina, aveva sentito Jack lasciare
il suo appartamento si era raggomitolata stretta sul pavimento del bagno e
aveva dato fondo a tutte le lacrime che possedeva. Poi non ne era scesa dai
suoi occhi una di più. Ripensare a Jack la faceva sentire avvilita e frustrata,
azzerata a tal punto da impedirle di piangere.
Avrebbe
voluto risolvere le cose e, conoscendosi, sapeva che se si fosse impegnata ci
sarebbe riuscita, ma non se la sentiva ancora. Sette giorni non erano
sufficienti affinché lei mettesse da parte frustrazione e sensi di colpa, anche
se farlo significava riconquistare – almeno in parte – un legame a cui
tenevafin troppo.
*
La
famiglia Miller aveva da sempre l’abitudine di consumare ogni pasto insieme. Jack
si presentava puntuale ogni giorno un’ora prima che la domestica portasse in tavola
le pietanze. Suo fratello Connor e la madre, Nicole, arrivavano insieme appena
uscivano dai loro uffici. In quell’ora di attesa Jack trascorreva i minuti
chiacchierando con sua nonna – una donna per cui aveva sempre nutrito un
profondo rispetto – sorseggiando insieme a lei un Martini, un bicchiere di
brandy o dedicandole qualche canzone suonata al pianoforte.
Quel
giorno, però, era evidente che in Nicole qualcosa non andava. Si era presentata
a casa trafelata, aveva stretto il figlio in un abbraccio sbrigativo e si era
sistemata a tavola continuando a sfogliare un grosso plico di carte stampate. Jack
era rimasto a guardarla in piedi, al lato opposto del tavolo, un bicchiere con
poche dita di brandy in mano.
Nei
giorni precedenti Nicole, a cui non sfuggiva nulla di quanto accadeva ai due
figli, non aveva dato segni di essersi accorta di ciò che era successo a Jack dopo
la sua rottura con Riley. Il giorno stesso in cui lui si era svegliato nella
camera della ragazza era stato assente e di poche parole, ma nessuna domanda
gli era stata rivolta. La cosa era sospetta, per tale motivo cominciò a credere
fortemente – soprattutto per via del comportamento attuale della madre – che
qualcosa turbasse fortemente la donna. Connor, invece era il solito, diviso fra
il telefono cellulare e la compagna, Amber.
«Mamma,
va tutto bene?»
Jack si
decise a chiedere quello che da un po’ voleva domandare. Nicole alzò lo sguardo
sul figlio, calando sul naso gli occhiali che le servivano per leggere.
«Potrebbe
andare meglio, Jack. Ultimamente hanno portato alla mia attenzione cose che mi
potrebbero creare non pochi problemi» detto ciò tornò a concentrarsi sulla
carta stampata.
Jack
lanciò un’occhiata perplessa verso Penelope, la nonna, la quale alzò il
bicchiere contenente il suo Martini e fece un cenno sbrigativo con la mano
libera. «Lasciala perdere, ragazzo mio. Tua madre è sempre preoccupata per
qualcosa. Ha scelto il lavoro sbagliato.»
Nicole
la fulminò con lo sguardo, ma Penelope non ci fece caso. Era abituata a simili
atteggiamenti da parte della figlia.
Il
pranzo si concluse nel solito modo. Chiacchiere di vario genere sulla
situazione politica americana e qualche piccolo pettegolezzo sui retro scena di
alcune figure altolocate. Alla fine di tutto, Jack si sentì piuttosto sollevato
all’idea di potersi alzare dal tavolo per poter uscire di casa.
Era nel
soggiorno, intento a sistemarsi la giacchetta in pelle prima di uscire, quando
sua madre lo raggiunse. Nicole si fermò nell’ingresso e guardò Jack con sguardo
grave, gli occhi castani che scrutavano da dietro le lenti degli occhiali. Lui
abbozzò un sorriso, non sapendo cosa aspettarsi. Dovette attendere diversi
secondi di silenzio da parte della madre, prima di sapere per quale motivo lo avesse
raggiunto lì.
«Da
quanto tempo va avanti?» chiese la donna, seria.
Jack non
capì di cosa stesse parlando. Aggrottò le sopracciglia, inclinando leggermente
la testa di lato. «A cosa ti riferisci?»
Nicole
sospirò, come se ciò che era in procinto di dire le facesse male. «Louis Walker. So che vi frequentate.»
Jack si
irrigidì improvvisamente. Distolse lo sguardo da quello severo della madre e si
appoggiò con le mani sul tavolo. Rimase a guardare il riflesso che gli veniva
restituito distorto dal legno chiaro tirato a lucido; il cuore aveva preso a
battere all’impazzata.
Come
fosse riuscita, sua madre, a sapere di lui e Louis era un mistero. Entrambi si
erano premurati bene di fare il possibile perché la loro relazione rimanesse
segreta alla massa. Louis non poteva permettersi che la cosa si venisse a
sapere e Jack, nonostante avesse da sempre voluto dirlo a tutti, sapeva che in
qualsiasi eventualità sua madre avrebbe ugualmente dovuto essere l’ultima a
venire a saperlo.
Il
ragazzo inspirò a fondo poi, mantenendo sempre gli occhi fissi sul tavolo,
rispose: «Sei mesi.»
«Sei
mesi?» gli fece eco Nicole, sconvolta. «Cosa ti passa per la testa, Jack?»
Lui
batté i palmi sul legno prima di voltarsi verso la madre, sentendo la rabbia
montare. «Se hai intenzione di farmi una predica puoi risparmiartela.»
La voce
gli si era involontariamente alzata a quella esclamazione. Voleva risparmiarsi
la morale di Nicole. Non sopportava di sentirla quando gli diceva che stava
sprecando la sua vita, che frequentava le persone sbagliate e che si sarebbe
rovinato con le proprie mani. Per Jack lei, che lavorava in uno degli ambienti
più corrotti e contorti che conoscesse, era la meno indicata a dirgli come
vivere le sue giornate, anche se era sua madre.
Nicole
rispose a tono all’esclamazione del figlio: «No, invece. Voglio capire a cosa
stavi pensando quando hai deciso di iniziare a uscire con Louis. Fra la miriade
di uomini che potevi scegliere, perché proprio lui?»
Jack si
passò le mani fra i capelli sempre più nervoso. «Si può sapere perché la cosa
ti crea tanti problemi?» domandò, i muscoli tesi per la rabbia.
«È un
repubblicano Jack. Concorre contro di me
per la carica di presidente. Davvero pensi che stia con te perché gli piaci? È
più facile che gli interessi informarsi per quanto riguarda i miei progetti.
Quante cose ti ha già chiesto sulla mia campagna elettorale?»
Le
parole di Nicole attraversarono Jack come lame, gelide e taglienti. Abbassò lo
sguardo, sentendosi colto in flagrante. Il suo respiro si fece improvvisamente
più rapido. Louis gli aveva posto più volte domande sulla campagna elettorale
della madre, era vero, ma Jack non vi aveva quasi mai risposto. Ciononostante Louis
continuava a cercarlo, segno che la politica era seconda alla loro storia.
Piuttosto
certo che quella fosse la realtà, il ragazzo scoccò un’occhiata furiosa alla
madre. «Non riesci a trovare una scusa migliore per convincermi a lasciarlo? Si
deve sempre parlare di te, vero?» ruggì.
Nicole
parve sorpresa dall’affondo del figlio, ma solo per un breve istante.
«D’accordo, vuoi una motivazione migliore e che non riguardi me? È un uomo
sposato.»
Le sue
labbra si erano fatte ancora più sottili di quanto fossero solitamente mentre
continuava a tenere gli occhi fissi su Jack, lo sguardo più severo che mai. Il
giovane ricambiò quello sguardo, dopodiché si sistemò meglio la giacca e
afferrò le sue cose – una borsina in plastica e una
serie di fogli stropicciati – e si voltò appena in direzione della porta. «Lui
mi ama. Sei libera di pensare quello che vuoi, ma puoi star certa che non lo
lascerò.»
Diede
le spalle a Nicole, senza la minima intenzione di ascoltare alcun tipo di
risposta da parte sua e uscì di casa a passo spedito.
Camminando
verso il suo appartamento finì con il ripensare alla breve diatriba avuta con
la madre. Con la scusa di volere il meglio per il figlio, Nicole aveva spesso
interferito con le scelte di Jack e lui ne era stanco. Anche se Louis in più
occasioni aveva fatto pensare il peggio sul loro futuro come coppia, il ragazzo
era convinto che si trattasse solo di tempo prima che Louis si lasciasse andare
completamente. Jack ne era sicuro. Louis non lo raggiungeva a casa sua quasi
ogni giorno per parlare della carriera politica di Nicole, lo faceva per stare
con lui, per sentirlo suonare il pianoforte, per averlo. Un giorno anche sua
madre lo avrebbe capito.
Quando
raggiunse il condominio in cui viveva, il nervosismo che aveva addosso non era
ancora passato del tutto. Salì in fretta le scale fino all’ingresso di casa;
raggiunto il pianerottolo si fermò, osservando la porta d’ingresso di Riley.
Lei non era in casa. Jack conosceva a menadito gli orari lavorativi della
ragazza, sapeva che fino alle sei di sera non sarebbe rientrata.
Estrasse
il contenuto dalla bustina in plastica. Era una confezione di marshmallow, una
di quelle che lui e la ragazza erano soliti consumare insieme di tanto in
tanto, quando Jack la raggiungeva nel suo appartamento. Lui era in debito di
una confezione ed era intenzionato a portare quella che aveva comprato a Riley
quella stessa sera, nella speranza di cominciare a ricostruire il loro legame a
una settimana di distanza da quella fatidica notte. Tuttavia sentì che non
sarebbe servito. Se avesse aspettato la sera e raggiunto Riley avrebbe
certamente mandato tutto all’aria sfogandosi con la ragazza di quello che era
accaduto fra lui e sua madre. Non poteva rischiare e preferì non farlo.
L’avrebbe cercata un altro giorno, quando sarebbe stato a mente lucida e senza
nulla di irritante a confondergli i pensieri.
*
Le
borse della spesa sbilanciarono non poco Riley mentre tentava di salire le
scale del condominio con il minore sforzo possibile. Il pacco da sei bottiglie
d’acqua le stava facendo male alla mano e quando terminò anche l’ultimo
gradino, raggiungendo il secondo piano, si sentì sollevata.
Era
piuttosto stanca. La giornata lavorativa l’aveva impegnata più del solito. Sei
ore in piedi erano pesanti, soprattutto quando la notte se ne era dormite sì e
no quattro. Percorse gli ultimi metri che la separavano dall’ingresso del suo
appartamento e appena lo raggiunse posò a terra le borse della spesa e il pacco
dell’acqua, sorpresa. Ad attenderla, appoggiato in equilibrio sulla maniglia della
porta c’era una confezione di marshmallow, intatta. Il sacchetto rosso e
trasparente che conteneva i gonfi cilindretti di zucchero era della marca
preferita da lei e Jack. Sopra la confezione era stato appoggiato un foglietto,
talmente in bilico che sembrava in procinto di cadere.
Riley
afferrò il pezzo di carta, riconoscendo immediatamente la calligrafia di Jack.
Ero in debito di uno.
La
ragazza rilesse quelle parole più volte, con un’espressione indecifrabile in
viso. Infine afferrò il pacchetto di marshmallow, lo tastò senza motivo,
sentendo i dolcetti morbidi anche attraverso la plastica della confezione. Si
voltò verso l’appartamento n°23, quello esattamente di fronte al suo dove,
quasi sicuramente, si trovava Jack.
Non
sapeva per quale motivo il ragazzo avesse preferito lasciarle sulla porta i
marshmallow con un biglietto, ma per quanto le sarebbe piaciuto chiederglielo,
non lo fece. Si limitò a puntare gli occhi verdi sullo spioncino della porta.
Alzò il biglietto per farlo vedere e sorrise, come se, da dietro alla porta,
qualcuno la stesse osservando. Dopodiché recuperò le sue borse ed entrò in
casa.
Oltre
la porta del proprio appartamento Jack si sentì improvvisamente più sollevato.
Se Riley gli aveva sorriso significava che c’era ancora una speranza.
Il venerdì
pomeriggio aveva sempre un sapore speciale per Jack. Era il giorno della settimana in cui gli
veniva più semplice rilassarsi, abbandonarsi ai piaceri più comuni delle
persone – come il cibo o il riposo – nella totale speranza di dimenticarsi completamente
del mondo che continuava a ruotare fuori dalla porta di casa. Probabilmente ciò
era anche legato al fatto che il giovane aveva l’abitudine di uscire il venerdì
sera, dando fondo a buona parte dei risparmi che racimolava nell’arco della
settimana e pregustarsi quella prospettiva non era niente male per uno che
amava i locali affollati, i drink e i flirt con gli estranei.
Alle 16:51 ilragazzo era seduto dietro al proprio
pianoforte verticale intento a suonare un pezzo di Erroll Garner.
La finestra che aveva alle sue spalle proponeva la vista della prima periferia
di Washington, appena fuori dal cuore della città. Il pomeriggio autunnale era
mite e la luce, resa ancora più viva dal cielo terso, piacevole: la giornata
ideale da trascorrere fuori casa.
Quando
Jack fu prossimo a raggiungere uno
dei passaggi più complessi della canzone qualcuno suonò alla porta. Il
campanello squillo frettoloso e fu subito seguito da una serie di colpi che
battevano insistentemente e rapidamente alla porta. Dato che non stava
aspettando visite, il ragazzo rimase interdetto un momento, infine si alzò
dalla sua postazione, attraversò il soggiorno e andò ad aprire.
Davanti
a sé si trovo Louis nel suo soprabito beige, la ventiquattrore in mano. I
capelli dell’uomo erano perfettamente scompigliati come al solito, corte
ciocche bionde indomabili. La bocca di Jack si
sciolse in un sorriso quando si rese conto di essere incredibilmente felice e
sorpreso di vedere che Louis lo aveva raggiunto a casa. Solitamente il venerdì
non si erano mai incontrati.
Tuttavia
si accorse che l’uomo era piuttosto nervoso. Il suo respiro era mozzato e lo
sguardo chiaramente nervoso: era agitato.
«Ciao»
disse Jack, facendosi da parte perché
l’altro potesse entrare in casa. Ignorò volontariamente l’espressione
irrequieta di Louis, pensando che probabilmente avesse incontrato qualcuno nel
tragitto che separava il suo studio dall’appartamento. Louis, infatti, era sempre
piuttosto vigile quando si trattava di raggiungere Jack a casa sua. Non volendo far
sapere a nessuno della loro relazione – che avrebbe comportato non pochi
problemi al politico – prestava particolare attenzione a non farsi notare da
nessuno né quando arrivava, né quando se ne andava.
L’uomo
entrò, chiudendosi in fretta la porta alle spalle. Non si tolse neanche il
soprabito ma si limitò a posare in terra la valigetta contenente tutte le sue
cose. Jack rimase a guardarlo,
affascinato dalla sua figura e felice di vederlo in casa propria anche quando
non avrebbe dovuto esserci.
Louis
era più grande di lui di otto anni, ma a trentasei conservava ancora fascino
sufficiente a conquistare chiunque. L’uomo aveva il dono della parola. Era
capace di dire la cosa giusta al momento opportuno, di comporre frasi capaci di
scuotere le membra e di sussurrarne altre in grado di aizzare il desiderio. La
sua voce era decisa e vibrante, capace di tenere incollate alle sua labbra le
masse. Jack lo sapeva ed era rimasto colpito
e rapito da quella figura. Il fatto che anche Louis non fosse riuscito a
resistere al fascino innegabile emanato da Jack era stata
la fortuna del più giovane, che era così stato in grado di portare il pesce
fino alla sua rete.
«Sono
contento di vederti qui. Stavo suonando una canzone di Erroll Garner.»
Garner era uno dei compositori che Jack aveva fatto conoscere a Louis.
Era sua la canzone che Jack aveva
suonato quattro giorni prima, quando Louis si era risvegliato sul divano del
ragazzo dopo la loro riappacificazione notturna. L’ennesimo screzio che si era
risolto nel solito modo. Louis aveva raggiunto il giovane e si era scusato per
le parole che gli aveva detto poche sere prima al telefono e Jack aveva ceduto in fretta,
permettendo al suo corpo di diventare ancora una volta il foglio bianco su cui firmare
una nuova pace. In quella notte la rottura con Riley era immediatamente passata
in secondo piano.
Louis
rimase a guardare Jack seduto
dietro al pianoforte. Non diede segno di volersi muovere dalla posizione in cui
stava, né di volersi spogliare. Le mani di Jack cominciarono
a suonare note che conosceva fin troppo bene e che riempirono il soggiorno in
una sequenza perfetta.
Sollevò
gli occhi sull’uomo, convinto di essere in procinto di vedere il suo sorriso
perfetto, ma non fu così. Louis era rigido, serio e l’espressione era nervosa e
agitata. Qualcosa non andava e Jack sentì
le spalle cedergli appena se ne rese effettivamente conto.
«È
tutto a posto?» chiese, smettendo subito di suonare e inclinando leggermente la
testa di lato.
Lo
sguardo che Louis gli scoccò lo fece innervosire. L’uomo era imperscrutabile e
per Jack non era affatto un buon
segnale. Allontanò le dita dai tasti del pianoforte, portandosele in grembo.
Louis
prese una lunga boccata d’aria. Posò in terra la ventiquattrore e si decise ad
aprire bocca: «Lei lo sa, non è vero?»
Jack si morse istintivamente il
labbro inferiore a quelle parole, guardando da un’altra parte. Non gli serviva
indagare riguardo ciò che l’altro aveva appena detto, sapeva perfettamente che
si riferiva a Nicole. Il giorno prima sua madre gli aveva detto di essere a
conoscenza della relazione fra loro due, tuttavia non avrebbe mai pensato che,
in poco più di ventiquattro ore, il fatto di essere stati scoperti sarebbe
giunto anche alle orecchie di Louis.
«Chi…
chi te lo ha detto?» mormorò Jack, lo
sguardo sempre tenuto basso.
Louis
avanzò di qualche passo, appoggiando con forza le mani sulla cassa del
pianoforte. «Questo non ha importanza» esclamò. «Lei lo sa Jack.»
L’uomo
cominciò a camminare nervosamente avanti e indietro per il soggiorno. Si
tormentava le mani, in preda alla rabbia. Jack continuava
a tenere gli occhi bassi, alzandoli appena solo quando sentì l’altro riprendere
parola: «Non capisco come tu riesca a rimanere tanto tranquillo, a suonare il
pianoforte.»
Si
voltò verso Jack, che
si strinse appena nelle spalle.
«Nicole
manderà tutto a puttane. La mia intera vita, il mio matrimonio, la mia
carriera!»
Riprese
a percorrere la piccola stanza a grandi passi. «Non avrei mai dovuto infilarmi
in una simile situazione.»
Louis
continuò a imprecare verso se stesso e Nicole per un po’, mentre Jack continuava a seguirlo con lo
sguardo sentendosi sempre più avvilito. La gioia comparsa alla vista di Louis
era svanita in fretta, evaporata dal suo corpo già dal momento in cui l’altro
aveva posto la prima domanda. Tuttavia più l’uomo parlava più Jack si sentiva peggio. Ciò che
stava dicendo sulla loro storia era diventata una tortura, una lama infilata
nella carne e affondata lentamente. Il ragazzo non aveva ribattuto mentre Louis
parlava di ciò che c’era fra loro definendo il tutto un grossolano errore, una debolezza
inspiegabile, uno sbaglio immotivato.
Nonostante
tutte le parole pronunciate dall’altro Jack si
sforzò di guardarlo, sentendosi confuso. Louis non poteva aver pronunciato
tutte quelle cose volutamente, era probabile che la preoccupazione di essere
scoperto lo avesse innervosito più del dovuto. Sei mesi non potevano essere uno
sbaglio, non da parte di qualcuno che diceva di ricambiare i sentimenti di Jack, i quali erano sinceri.
«Louis»
lo chiamò.
L’uomo
smise di parlare e si voltò verso il ragazzo, serio. Jack si alzò dallo sgabello posto
dietro al pianoforte e si avvicinò all’altro, sorridendo. «Andiamo, non
preoccuparti. Risolveremo questa cosa insieme.»
Portò
le mani al viso di Louis, come aveva fatto più volte. Non appena le sue dita sfiorarono
il volto dell’uomo, però, quest’ultimo si divincolò in fretta, respingendo con
un gesto deciso Jack.
«Non
toccarmi!» ruggì.
Jack rimase sconvolto. Puntò lo
sguardo sul nulla, proprio davanti a sé, gli occhi chiari divennero improvvisamente
inespressivi.
Louis
lo guardò con un misto di rabbia e disgusto. «Tu non capisci. Qui non si tratta
di tua madre e del fatto che sappia di noi.»
Aveva
un tono freddo e distaccato, una voce gelida che Jack non gli aveva mai sentito prima. Non osò alzare
gli occhi su di lui quando lo sentì riprendere parola: «Non voglio più vederti.
Voglio cancellare questi sei mesi dalla mia memoria. Si è trattato solo di
sesso, Jack, e nient’altro. E vuoi sapere
un’altra cosa? Mi fa schifo quello che c’è stato fra di noi e non avrei mai
dovuto permettere che accadesse.
«Mi
sentivo solo, stavo attraversando un periodo di crisi e non sapevo più da che
parte guardare quando ti ho incontrato. Quando poi ho riaperto gli occhi e ho
capito cosa stava succedendo ho provato il voltastomaco verso me stesso.»
«Non
puoi pensarlo veramente.»
La
frase uscì rotta dalle labbra di Jack, come
un mormorio incerto e spaventato. Si era sentito disintegrarsi pezzo dopo pezzo
a ogni singola parola pronunciata da Louis. La rabbia di cui l’uomo aveva
intriso le sue affermazioni era evidente e maledettamente dolorosa.
«No,
lo penso veramente, invece.»
Il
nuovo affondo di Louis fu quello letale. Jack sentì
la gola chiudersi e si scoprì incapace di replicare. Tuttavia l’altro non aveva
ancora terminato. Recuperò la sua ventiquattrore e diede l’ennesima occhiata
furente al giovane. «Tua madre non avrà bisogno di dire ai giornali di noi. Non
capisco come io abbia fatto a essere tanto stupido. Non vale la pena mettere a
rischio la mia famiglia e la mia carriera per uno come te. Se ti sei illuso che
lo avrei fatto hai chiaramente sbagliato. Una vita misera come la tua non fa
per me.»
Uscì
di casa, sbattendosi dietro la porta, lasciando nel soggiorno Jack, talmente atterrato da
apparire come l’ombra di se stesso.
*
Dopo il
terzo bicchiere il gusto secco della vodka perdeva di intensità. Bevendola
direttamente dalla bottiglia Jack non
sapeva l’equivalente in bicchieri di ciò che aveva ingurgitato, ma il terzo
doveva ormai essere passato. Seduto al bancone della cucina con penisola, nella
casa dei genitori, il ragazzo stava trascorrendo un lunedì sera tetro. Teneva
gli occhi fissi sul televisore, le immagini del notiziario delle 22.30
baluginavano sullo schermo. Il giornalista fece poi partire un servizio girato
quel pomeriggio. Il nome di Louis Walker comparve in
sovrimpressione, ma Jack non
fece una piega. Continuava a tenere lo sguardo sul televisore in maniera
assente, la bottiglia vuota per metà stretta in mano e un senso di
inadeguatezza dentro.
Le
parole che Louis gli aveva urlato contro il giorno in cui lo aveva lasciato
erano state un autentico tormento per il ragazzo. Gli avevano martellato il
cervello per tre giorni, rimbalzando da una parte all’altra della sua mente e
portando a galla ricordi che gli avevano impedito di dormire.
Non
poterne parlare con qualcuno era stato il colpo del KO, ciò che lo aveva
portato a preferire l’alcol e la droga alla compagnia delle altre persone,
anche se quelle persone erano i suoi famigliari. Tuttavia ogni volta che
l’effetto della cocaina svaniva o che i postumi dell’alcol erano scivolati via,
la realtà tornava a tormentare Jack e il
senso di fallimento si mescolava in lui con la frustrazione. Invece di calare,
il dolore per il modo in cui Louis se n’era andato faceva sempre più male.
Prestò
un momento attenzione allo schermo televisivo. Non aveva idea di ciò che il
giornalista avesse chiesto a Louis, ma quest’ultimo stava rispondendo con
grande trasporto, mettendo in mostra la sua dote migliore: la parola. Louis era
in grado di articolare e comporre frasi per riuscire ad assoggettare chiunque,
per conquistare le persone o per distruggerle
proprio come era riuscito a fare con Jack.
Al
ragazzo, però, mancava. Continuava a guardare la sua immagine sullo schermo con
un senso di malinconia crescente. Per sei mesi lo aveva avuto accanto e
nonostante non potesse far sapere a tutti della loro storia gli andava bene
ugualmente perché era convinto che si trattasse solo di tempo prima che Louis
capisse di non poter fare a meno di lui.
Si
sentì infinitamente stupido per essersi illuso fino a quel punto e cominciò a
domandarsi in cosa gli rimaneva da credere dopo gli avvenimenti delle ultime
settimane. Non aveva più Louis e, prima di lui, aveva perso Riley. I suoi
progetti per il futuro continuavano a essere un mucchio di fogli stropicciati,
idee e budget che non possedeva e la sua famiglia lo faceva sentire
perennemente fuori luogo.
Alla
televisione Louis cominciò a parlare della famiglia americana, il nucleo da
tutelare assolutamente, ciò che, a suo dire, rischiava di perdere la propria
identità a causa dei democratici. A quelle parole un forte senso di nausea
percosse Jack che
spense il televisore in preda a un nervosismo crescente.
Non
sapeva a cosa pensare. Si sentiva completamente atterrato e privo di punti
d’appoggio per poter risalire a galla. Gli occhi grigio-azzurri erano lucidi
per via della stanchezza ma privi dei loro consueti riflessi.
Un
solo pensiero si appropriò di lui, un’idea che non aveva mai preso in
considerazione ma che, nello stato in cui si trovava, sembrava essere l’unica
da riuscire a seguire. La sua mente si era offuscata per via di tutte le
sensazioni avvilenti che aveva amalgamato al suo interno e l’alcol aveva
contribuito ad appannarla ulteriormente.
Il
suo corpo parve muoversi da solo. Prese un ultimo, lungo, sorso dalla bottiglia
di vodka e si alzò dallo sgabello, dirigendosi verso il garage in cui sua madre
parcheggiava l’auto ogni sera. Sul mobiletto proprio accanto alla porta del
garage, le chiavi della macchina giacevano immobili, riflettendo lievemente i
bagliore della luce proveniente dalla cucina. Jack le afferrò, lasciando al loro posto la
bottiglia aperta e quasi vuota che gli aveva tenuto compagnia nelle ultime ore.
Sempre con sguardo vacuo aprì la porta del garage e se la richiuse alle spalle.
Rimase a guardare un momento la berlina scura ed elegante tirata a lucido, il
portone chiuso dietro di essa. Scese i pochi scalini che lo separavano dalla
vettura in modo quasi strascicato e vi salì, infilando le chiavi nella
serratura e avviando il motore, dopodiché abbasso il finestrino.
Fu
un attimo. Appena il finestrino venne abbassato completamente il poco
autocontrollo rimasto a Jack si
disintegrò. Lacrime di rabbia e tristezza cominciarono a scendere dai suoi
occhi e lui non fu in grado di trattenerle. Il respiro gli venne strozzato dai
singhiozzi e anche stringere con forza il volante dell’auto non lo aiutò in
alcun modo a sfogarsi. Si abbandonò completamente al pianto, sentendosi sempre
più senza via d’uscita.
Intorno a lui, intanto, la stanza cominciò a
riempirsi di gas.
Lo
sguardo di Riley continuava a seguire i capi di vestiario che venivano spinti
dall’acqua nel cestello della lavatrice in una spirale continua. Stava
aspettando che il lavaggio terminasse, così da recuperare gli indumenti puliti;
gli abiti colorati, la nota effervescente del suo guardaroba.
La
lavanderia comune del condominio era un luogo privo di interesse, per questo
gli occhi di Riley non si staccavano dai vestiti che roteavano nella lavatrice,
il muro di mattoni alle spalle di quest’ultima era decisamente più noioso. Vittima
dell’attesa la mente della ragazza prese a vagare e come le succedeva da troppi
giorni, ormai, Riley si ritrovò a pensare a Jack per l’ennesima volta.
Il
ragazzo mancava dal suo appartamento da più di quindici giorni. L’ultima volta
che Riley lo aveva sentito uscire di casa era stato il lunedì di quasi tre
settimane prima e poi non aveva più dato alcun segno della sua presenza. Quello
stesso week end Jack non si era visto, così come quello successivo e la ragazza
era ormai sicura che anche quel giorno – il sabato che anticipava il terzo week
end dopo la scomparsa del ragazzo – di lui non ci sarebbe stata alcuna traccia.
Una
simile assenza da parte di Jack era strana e la cosa agitava non poco la
ragazza. Capitava che lui sparisse, di tanto in tanto, ma mai per periodi così
lunghi. Più i giorni passavano più Riley temeva il peggio e non riusciva a
darsi pace. Avrebbe voluto cercarlo, ma non aveva idea da che parte cominciare.
Aveva addirittura pensato di raggiungere la casa della famiglia Miller e
chiedere loro se Jack si trovasse là e, in caso contrario, se sapessero dove
fosse andato a cacciarsi. Non lo aveva mai fatto perché le era mancata la forza
per imporsi una simile missione, perché ancora non aveva pensato a cosa dire se
si fosse trovata faccia a faccia con Jack. Dopo quel pacchetto di marshmallow
abbandonato davanti al suo ingresso di casa non aveva più avuto segnali da
parte del ragazzo. Se quello era un ramoscello d’ulivo offerto per la loro
riappacificazione, lei lo aveva accettato, ma non era riuscita ad andare oltre.
Sentiva che, alla vista di Jack, le sarebbero mancate le parole, l’intuizione
per articolare la frase giusta e la forza per non lasciarsi abbandonare ai
ricordi e cadere così preda del rimorso.
A
distanza di quattro settimane da quella fatidica notte, però, era certa che le
cose in lei erano cambiate e che possedeva nuovamente la forza necessaria per
ricostruire poco a poco il suo legame con Jack. Tuttavia del ragazzo non vi era
più traccia e questo era il nuovo problema affiorato a fermare tutto proprio quando
lei si sentiva pronta a cominciare.
La
lavatrice smise di vibrare con forza, terminando di scaricare l’acqua dopo la
centrifuga, il bucato era pronto. Riley inspirò il profumo di lavanda che tanto
le piaceva del suo detersivo e iniziò a prendere gli abiti puliti e a
ammonticchiarli nel cesto per poter così risalire in casa con il bucato fatto. Salì
i due piani di scale con calma, la mente che ripercorreva le strofe di una
canzone e arrivò all’appartamento 24. Estrasse le chiavi dalla tasca della
felpa, scostò i capelli che, sciolti, si ostinavano a ricaderle sul viso e
infilò la chiave nella serratura. Prima di farla scattare sentì dei rumori
provenire dalle scale e si voltò istintivamente a guardare di chi si trattava.
Dalla rampa, nascosta dietro la parete, comparve Jack.
Il
cesto del bucato per poco non cadde dalle mani di Riley appena vide il ragazzo.
Jack teneva gli occhi bassi, intento a cercare nel mazzo di chiavi quella che gli
avrebbe permesso di aprire la porta di casa. Si accorse di sfuggita della
presenza di qualcuno nel corridoio, proprio davanti a lui e come sollevò lo
sguardo vide Riley che lo stava osservando. Le labbra gli si incurvarono in un
sorriso e tutto il suo volto si distese.
«Riley,
ciao» disse, apparendo davvero felice di avere la ragazza davanti a sé.
Lei
era immobile a scrutare attentamente il ragazzo, come per accertarsi che fosse
veramente lui e non qualcuno con le sue sembianze. Lo trovò dimagrito, cosa che
risultava sospetta. Jack era già piuttosto magro, ma il suo viso era più
scavato di quanto lei ricordasse. Tuttavia le fu inevitabile trovarlo perfetto,
come era da sempre. I capelli corvini erano leggermente più lunghi e sempre
perfettamente scompigliati sopra la sua testa. Il suo sorriso era il migliore
che lei potesse sperare di vedere e gli occhi grigio-azzurri continuavano a
essere il coronamento di un viso impeccabile.
«Ciao»
rispose infine. Rimase sorpresa dalla sua voce, che le parve incerta. Non
sapeva esattamente come sentirsi, ma le fu innegabile essere sollevata e felice
del fatto di avere nuovamente Jack davanti agli occhi.
Il
ragazzo rimase a guardarla, il sorriso in volto, senza dire nulla. Continuava a
tenere la mano con le chiavi sollevata, ma il mazzo aveva perso ogni interesse.
Riley abbassò un momento gli occhi sulla cesta con i vestiti puliti, il suo
sguardò vagò da lì alla sua porta d’ingresso.
«Vuoi
venire a bere qualcosa?» chiese all’improvviso.
Un
lampo di luce attraversò rapido gli occhi di Jack. Quest’ultimo si esibì in un
nuovo sorriso, molto più amabile del precedente. Prima che potesse rispondere,
però, Riley riprese la parola: «Posso offrirti un caffè. O un thè. Ho anche
della cioccolata calda, se preferisci.»
«Un
caffè andrà benissimo, grazie.»
Fu il
turno di Riley di sorridere a Jack. Aprì la porta di casa e fece strada al
giovane, che seguì il piacevole profumo di lavanda fin dentro l’appartamento. Nella
casa di Riley nulla era cambiato e a Jack fece uno strano effetto rientrarvi
dopo un mese. Non si accomodò come era abituato a fare, aspettò che fosse lei a
dargli il permesso di farlo. Riley scomparve un momento nella sua camera e
ritornò quasi subito nel soggiorno con angolo cottura. Raggiunse i fornelli,
voltandosi verso Jack. «Siediti pure.»
Il
ragazzo si sistemò a un lato del tavolo, tamburellando leggermente sulla sua
superficie con le dita. Si sfilò la giacca e si tirò su le maniche del
maglione. Il caffè era già pronto. Riley lo fece scaldare per bene e ne riempì
due tazze, porgendo la propria a Jack. Si sedette al lato opposto rispetto a
quello in cui si trovava lui e lo guardò da dietro il fumo argentato che saliva
dalla sua tazza.
«Era
da un po’ che non ti vedevo» ammise.
Jack
si strinse nelle spalle, una leggera smorfia in viso. «Sono dovuto rimanere per
qualche giorno dai miei. Niente di che, solo questioni famigliari.»
«Ho
capito. Beh, mi… mi fa piacere rivederti.»
«Anche
a me. Volevo giusto passare a salutarti appena rientravo.»
A
Jack non sfuggì il sussulto leggero che Riley compì appena lui smise di parlare.
C’era ancora della tensione fra loro ed era abbastanza sicuro di sapere perché.
Probabilmente Riley era convinta che lui si sentisse a disagio avendola davanti
dopo aver scoperto che lei lo amava. Tuttavia per Jack la cosa era quasi priva
di importanza. Avrebbe fatto il possibile per riavere la sua amica e ci avrebbe
provato anche con la consapevolezza di quel sentimento troppo forte che non era
in grado di ricambiare. Ciò che complicava le cose era il senso di
inadeguatezza che quasi certamente provava Riley e che la faceva sentire in
imbarazzo come non era mai stata davanti a lui. C’era tanto su cui lavorare e
la parte più grossa del compito spettava proprio a lui.
«Cos’hai
fatto di bello nell’ultimo periodo?»
Jack
provò a tastare il terreno, per vedere quanto Riley avesse ancora voglia di
parlare di sé. La ragazza fece un gesto vago con la mano. «Niente di che a
essere onesti. Lavoro, film, Playstation. Questa è stata la mia routine.»
Si
sentiva stupida ad ammettere una cosa del genere, ma in fondo si trattava della
realtà. Fatta eccezione per qualche sporadica visita da parte di Elizabeth, a
Riley era tornata voglia di ricomparire in mezzo alle persone solo negli ultimi
giorni. Jack bevve un sorso di caffè, annuendo.
«Ho
visto che tua madre sta andando piuttosto bene nei sondaggi» riprese poi la
ragazza.
«Sì»
fu la risposta, una leggera risata ad anticiparla. «Siamo tutto molto felici
per lei, ovviamente. Anche se è ancora presto per cantare vittoria. Siamo a
malapena a metà della campagna elettorale. Ci sono diversi stati che non è
ancora riuscita a conquistare.»
Il
giovane parlava della campagna elettorale della madre con disinvoltura, ormai
troppo abituato ai rapporti fra la sua famiglia e la politica. Suo padre era stato
Presidente degli Stati Uniti due mandati prima e sua madre, che stava
concorrendo per quella carica alle prossime elezioni, era l’attuale Segretario
di Stato del governo. Anche suo fratello Connor avrebbe sicuramente seguito le
orme dei genitori. L’unico a cui di politica importava il minimo necessario era
proprio lui. A lui sarebbe bastato riuscire a portare a termine il suo progetto
per sentirsi realizzato, ovvero aprire, finalmente, il night club che aveva
sempre desiderato possedere. Una casa dei vizi – come suo padre lo aveva definito
– per cui non possedeva il denaro proprio perché i vizi di cui era prigioniero
gli portavano via i soldi a ogni fine settimana. Una situazione difficile la
sua che in pochi, davvero in pochi, conoscevano.
Come
se gli avesse letto nella mente, Riley domandò: «Il night invece, come
procede?»
Jack
si strinse nelle spalle, allontanando un momento lo sguardo chiaro dalla
ragazza. Inspirò a fondo prima di parlare: «Ah, a rilento, purtroppo. Non ho
ancora trovato un finanziamento. Vorrei evitare di indebitarmi con una banca.»
«I
tuoi genitori non sono disposti ad aiutarti?»
Scosse
la testa: «No. Mia madre mi ha detto che se mio padre fosse stato d’accordo mi
avrebbe dato i soldi. Ma, com’era prevedibile, mio padre non vuole
assolutamente che io apra il night.»
Pareva
essere più irritato che dispiaciuto per la cosa.
«Comunque
sia non mi arrendo. Da qualche parte ci sarà senz’altro qualcuno disposto a
mettersi in gioco con me.»
Sorrise,
con apparente sicurezza. Tuttavia Riley riuscì a notare la leggera incertezza che
trapelava ugualmente da quel gesto. Conosceva ormai troppo bene Jack e sapeva
che la paura di non riuscire a realizzare il proposito per il quale aveva perso
il sonno tante volte lo tormentava. Quel night club, che rimaneva solo un
progetto ambizioso e studiato fino ai minimi dettagli, restava una delle cose
che avrebbe permesso a Jack di dare un senso effettivo alla propria vita.
«Le
idee chiare le hai. Secondo me è solo questione di tempo.»
Riley
tentò di rincuorarlo così, con parole in cui credeva. Jack rispose sorridendole
e bevve un nuovo sorso del suo caffè, ormai prossimo a essere ultimato. Gli fece
piacere vedere che la ragazza avesse ancora voglia di spendere parole di
fiducia nei suoi confronti. Anche se sottile e fragilissimo c’era pur sempre
qualcosa che continuava a unirli. Era fondamentale evitare di compiere gesti
che avrebbero potuto rovinare tutto una seconda volta.
Prima
che Jack potesse ringraziare per quell’iniezione di fiducia il suo telefonino
squillò. Sospirò, cercando fra le tasche della sua giacca il cellulare, che
continuava ostinatamente a suonare. Quando lo ebbe finalmente trovato le sue
labbra si tirarono in una smorfia. Passò una mano fra i capelli scuri e lanciò
un’occhiata a Riley. «Scusami» le disse, apparendo davvero dispiaciuto. «È una
di quelle chiamate che non posso ignorare. E mi ha anche ricordato che ho un
impegno.»
Si
alzò in piedi, infilandosi in fretta la giacca. Il telefono, intanto, non ne
voleva sapere di zittirsi. «Grazie per il caffè. Ci vediamo presto.»
Riley
replicò al saluto con un gesto della mano e un sorriso appena abbozzato. Jack aspettò
quel cenno prima di regalare un nuovo sorriso alla ragazza e uscire dal suo
appartamento, rispondendo finalmente al cellulare.
Lei
rimase a sedere al tavolo, finendo il suo caffè, gli occhi sempre puntati sulla
porta chiusa. Jack aveva riportato il suo profumo in casa della ragazza. La
cosa portò una sorprendente ventata di speranza in Riley. Il ragazzo si era
comportato con lei come aveva sempre fatto e questo non poteva che farle
augurare che, con il tempo, le cose fra loro si sarebbero aggiustate.
Tuttavia
nel ragazzo c’era qualcosa che non andava. Il modo in cui lui aveva parlato del
night e dall’occhiata che aveva lanciato al cellulare appena letto il nome
sulla schermata, le avevano permesso di intuire che non era tutto così sotto
controllo come il tono usato da Jack voleva lasciar supporre. Con molta
probabilità qualcosa lo tormentava, oppure qualcosa gli era accaduto e
continuava a perseguitare il giovane a distanza di giorni.
Per Jack non era insolito aggirarsi per
Washington alle due di notte passate, il livello dell’alcol più alto del
normale e un corpo che seguiva gli ordini dati da una mente che ragionava con
confusa lucidità.
Connor
abitava piuttosto distante da casa di Jack. Il
giovane aveva camminato per una buona mezz’ora dopo essere uscito dal pub prima
di raggiungere il palazzo in cui il fratello aveva un ampio appartamento
condiviso con la compagna. Si era trovato davanti alla porta di casa senza
neanche rendersi conto che l’ingresso del condominio era aperto, tre piani più
in basso. Prese a bussare alla porta con insistenza, aspettando che qualcuno
gli aprisse.
Connor
spalancò la porta poco tempo dopo e Jack quasi
precipitò nella stanza.
«Oh,
ehi. Ciao» farfugliò, voltandosi per vedere in faccia il fratello. Quest’ultimo
richiuse la porta e incrociò le braccia sul petto, guardando Jack di sbieco; non sembrava
sorpreso di trovarselo davanti. Amber, la compagna di Connor, comparve sulla
soglia della camera da letto.
«Ciao»
disse Jack come la vide. «Non vi ho
disturbati, spero» chiese, rivolgendosi nuovamente al fratello.
Fu
Amber a rispondergli, gelida: «Sono quasi le tre di notte. Vedi tu se ci hai
disturbati o meno.»
Un
sorriso divertito si fece strada sulle labbra del ragazzo. «Scusate, sono
venuto qui senza pensarci. Devo parlarti, Connor.»
Connor
scoccò uno sguardo alla compagna, che subito capì e rientrò in camera da letto,
richiudendosi alle spalle la porta. Il ragazzo tornò a concentrarsi su Jack. «Che cosa c’è ora?» chiese
serio. Pareva essere abbastanza indispettito dall’improvvisata del fratello in
casa propria, nonostante non fosse la prima.
Jack non fece caso al tono usato da
Connor. «Si tratta del night. Non riesco a darmi pace» disse, passandosi le
mani fra i capelli.
«Beh,
forse dovresti. I nostri genitori sono stati piuttosto chiari. O trovi i soldi
da solo o rinunci al progetto. E conoscendoti puoi già rinunciare.»
Jack lo guardò, abbandonando le
braccia lungo i fianchi. «Perché tu non puoi aiutarmi?»
«Io?
Mi prendi in giro? Jack è un
investimento troppo importante. Non sono sicuro di volerlo fare. Senza contare
che nostro padre si infurierebbe con entrambi.»
Connor
cominciava a irritarsi. Avevano già parlato dell’argomento in un paio di
occasioni e lui aveva preso le distanze dal progetto del fratello, un po’
perché voleva che Jack se la
cavasse da solo e un po’ perché non era certo di volersi impegnare
nell’apertura di un night club, anche se si trattava solo di metterci i soldi.
Jack andò a sedersi sul divano, sistemandosi
sul bracciolo, il corpo rivolto al fratello che era ancora in piedi accanto
alla porta, con le braccia incrociate. Sospirò, scuotendo la testa. «Non mi
importa. Gli passerà quando vedrà che tengo davvero a quel posto. Senti, so di
essere un disastro per la maggior parte del tempo, ma voglio davvero fare
questa cosa.»
Continuava
a inumidirsi le labbra con la punta della lingua, le mani che si tormentava a
vicenda e lo sguardo lucido. D’improvviso, però, parve essere perfettamente
consapevole di ogni parola che usciva dalla sua bocca, come se il troppo alcol
che aveva bevuto nell’arco della sera fosse improvvisamente evaporato via. «È
la mia occasione, quella che mi permetterebbe di dare un senso alla mia vita,
di non sprecare le mie giornate a bere e a mandare a monte tutte le buone
intenzioni che ho sempre quando esco dalla comunità.»
Connor
inarcò le sopracciglia, una risata sarcastica uscì leggera. «E per fare questo
apriresti un night club? Ti rendi
conto di che controsenso stai parlando?»
«Vuoi
che apra una libreria? La farei morire dopo una settimana» fu la replica,
pronta e sincera, di Jack. «Un
night club è il mio ambiente, un posto in cui ci sto bene. Qualcosa a cui non
permetterei mai di andare in rovina. Voglio offrire un posto nuovo a questa
città e farei il possibile perché il nome della nostra famiglia figuri al
meglio.»
Distolse
lo sguardo un momento. «Mi serve qualcosa che mi permetta di mettermi in gioco
veramente. Qualcosa che mi tenga concentrato e determinato, che mi faccia capire
che posso riuscire in qualcosa. Che mi dia un senso.»
Connor
rimase a guardarlo, immobile. La determinazione di cui erano cariche le parole
che il fratello aveva appena pronunciato era evidente. Cominciò a chiedersi in
che modo lo avrebbe potuto aiutare che non fosse il finanziamento per il night
club e non trovò una risposta. Jack aveva
già avuto più occasioni di dare una svolta alla propria vita ma non ne aveva
mai usata seriamente nemmeno una. Più volte aveva mandato tutto all’aria
abbandonandosi ai vizi che, Connor, sapeva possedere. Tuttavia in tutte quelle
occasioni non aveva mai pronunciato parole simili, talmente sincere che
sembrava impossibile potessero essere uscite dalla bocca di Jack nello stato in cui si trovava
in quel momento.
Connor
prese una lunga boccata d’aria, ripensando a ciò che il fratello gli aveva
appena detto. Alla fine si decise a fidarsi di lui un’ultima volta. «D’accordo,
ti darò i soldi» disse.
Jack si alzò immediatamente dal
divano, un sorriso raggiante in volto, per poter andare ad abbracciare il
fratello. Quest’ultimo, però, lo fermò con un eloquente gesto della mano. «Non
fraintendere. È solo un prestito e fino a che non avrai ripagato il debito,
metà dell’incasso della serata rimane a me. E non diremo ai nostri genitori che
i soldi te li ho dati io, intesi?»
Jack annuì, il suo sorriso non ne
voleva sapere di spegnersi. Connor gli aveva appena spianato la strada.
Finalmente poteva dare vita concreta al suo progetto. La sua grande occasione
era arrivata. Andò ad abbracciare il fratello, infischiandosene delle leggere
proteste che si alzarono da parte di quest’ultimo. Connor si liberò dalla
stretta e guardò l’altro, severo. «Ho la tua parola che questo è ciò che vuoi
veramente?» domandò.
Il
ragazzo annuì, deciso. Connor gli scoccò un’ultima occhiata, più lunga e
inquisitoria delle precedenti, infine sospirò. «Va bene» concluse. Si passò una
mano sul viso, avvicinandosi al telefono. «Ora però è meglio se torni a casa.
Ti chiamo un taxi.»
*
Grazie
a Connor Jack poteva
finalmente concentrare buona parte delle sue giornate a perfezionare il
progetto del night club. Le carte su cui segnava nomi, appunti, fornitori e
dettagli continuavano ad aumentare. La cosa fu notevolmente d’aiuto al ragazzo,
che grazie a ciò aveva avuto la possibilità di concentrarsi su qualcosa in modo
da allontanare dalla mente il ricordo di Louis.
Il
modo in cui l’uomo se ne era andato continuava a essere un tormento. Jack non era ancora riuscito a
superare la cosa. Ogni volta che ci ripensava un forte senso di vuoto lo
invadeva e il ricordo del gesto che aveva compiuto con la speranza di risolvere
la sua situazione lo faceva sentire terribilmente sbagliato.
Quando
si rese conto di star pensando nuovamente a Louis, nonostante fosse piegato sui
suoi appunti per il night nel proprio appartamento, si sentì sopraffare da
un’irritazione crescente. Cercò di pensare ad altro, tornando a concentrarsi
sui suoi schemi, ma la penna prese a scorrere sulla carta con rabbia. Lasciò
perdere ciò che stava facendo e si alzò, prendendo a camminare nervosamente nel
soggiorno dell’appartamento, in quel momento fattosi improvvisamente troppo
piccolo. Odiava essere in quello stato, non riusciva a sopportarlo.
Afferrò
il cellulare, scorrendo la rubrica forsennatamente. Appena trovò il numero che
stava cercando si calmò un momento, dopodiché scrisse in fretta un messaggio,
inviandolo. Sapeva che gli sarebbe bastato aspettare un po’ prima di avere il
modo di levarsi dalla mente Louis, almeno per quella notte. Nathan stava
arrivando e Jack sapeva
che aspettava da tempo di poter diventare la persona in grado di fargli
dimenticare i problemi. Lo aveva capito già dal loro primo incontro nella
comunità in cui aveva trascorso le sue giornate mesi prima. Per uno abituato a
notare i dettagli come lui furono piuttosto evidenti le occhiate che Nathan gli
lanciava, così come il modo in cui non allontanava il suo sguardo ogni volta
che Jack cominciava a raccontare delle
sensazioni provate prima e dopo una ricaduta nell’abisso della droga. Era stato
proprio Nathan a trovarlo e contattarlo dopo che lui aveva smesso di
partecipare alle sedute ed era stato sempre Nathan a fargli capire che avrebbe
dato qualsiasi cosa per condividere con Jack i
piaceri di un rapporto. Poteva essere la sua metà o il suo diversivo e nello
stato in cui il ragazzo si trovava in quel momento ciò di cui aveva più bisogno
era proprio un diversivo.
I
minuti trascorsero lenti. Jack
continuava a cercare modi per allontanare i pensieri peggiori e più fastidiosi
e ci riuscì a malapena anche quando si sedette al pianoforte per suonare
qualcosa.
Finalmente
il campanello suonò. Il ragazzo si alzò rapidamente dalla sua postazione e andò
ad aprire. Si trovò davanti Nathan, concentrato a scorrere gli occhi sullo
schermo del suo smartphone. Era coetaneo di Jack e non
era cambiato affatto dal loro ultimo incontro. I capelli erano freschi di
rasatura, corti e castani e il volto coperto da una barba non troppo lunga e
perfettamente curata.
«Sono
venuto appena ho visto il messaggio» esordì Nathan, alzando solo in quel
momento lo sguardo. Quando i suoi occhi nocciola incontrarono lo sguardo
grigio-azzurro dell’altro – nervoso e risoluto – l’espressione di Nathan si
fece incredula. Non gli sembrava vero di avere davanti Jack in quelle fattezze perfette.
«Ti
stavo aspettando» fu la risposta di Jack, che
afferrò il ragazzo per la giacca e lo trascinò in casa, baciandolo prima ancora
di chiudergli la porta alle spalle.
Fu
immediatamente un cercarsi reciproco e febbrile. Complice l’incredulità che lo
stava ancora invadendo, Nathan finì in fretta vittima del desiderio. Non era
passato molto tempo dal primo contatto che già le labbra di entrambi si erano
schiuse per permettere alle loro lingue di incontrarsi. Fra i due quello che
pareva avere più fretta era Jack.
Trascinò Nathan fino al divano –da
sempre preferito al letto per un amplesso – impedendo al ragazzo di
interrompere il loro bacio, dopodiché gli bastò far scorrere verso il basso la
zip della giacca per lasciargli intendere che voleva andare fino in fondo.
Nathan
non avrebbe potuto chiedere altro. Lasciò cadere la giacca e subito la felpa la
seguì. Quando entrambi rimasero con indosso la t-shirt si sfilarono da soli
l’indumento, separandosi per la prima, vera, volta. Durò pochissimo. Tornarono
a baciarsi nuovamente. Nathan poteva sentire la pelle liscia e fresca di Jack sotto le proprie dita. Le fece
scorrere lungo la linea della schiena, a rincorrere le curve dei muscoli fino
all’addome piatto. L’eccitazione in lui continuava a salire, così come il
sospetto di stare semplicemente immaginando tutto. Si staccò da Jack un momento, ammirandone la
figura prima di parlare: «Davvero?» disse, molto semplicemente.
«Che
cosa?» domandò Jack,
guardandolo con un sopracciglio inarcato, la testa leggermente inclinata di
lato. Aveva un’espressione strafottente in viso ed era serio, quasi arrabbiato.
Nathan sorrise a quella visione, rendendosi conto di essere maledettamente attratto
da lui e finalmente in procinto di poterlo avere. Indicò Jack con un gesto della mano,
partendo dalla punta dei capelli arruffati e scendendo fino ai piedi. «Questo.
Lo stiamo davvero per fare?»
C’era
una sfumatura eccitata nella sua voce, proprio come se non vedesse l’ora di
iniziare, di avere la conferma che tutto era concreto e non una sottospecie di
illusione.
Jack rilassò le spalle, l’incavo
della clavicola si evidenziò. Schiuse le labbra, lo sguardo provocatorio sempre
accentuato dal sopracciglio inarcato. Non allontanò un solo istante lo sguardo
da quello di Nathan e quando prese parola per rispondere alla domanda del
ragazzo – a suo parere insensata – la sua voce era bassa e allettante: «Credi
che non abbia capito che vorresti venire a letto con me da quando ci siamo
conosciuti in comunità?» chiese.
Per
Nathan fu una sottile ed eccitante istigazione. Annuì ripetutamente con la
testa, un lieve e ancora incredulo sorriso sulle labbra. «Sì» confermò.
Jack si avvicinò di un passo, con
tutta la sicurezza che sapeva possedere. Nonostante fosse alto più di un metro
e ottanta dovette alzare lo sguardo un po’ per guardare bene Nathan. «Beh,
allora se ti tappi la bocca questa potrebbe essere la tua grande occasione.»
Quelle
parole fecero scattare immediatamente Nathan. Lasciò da parte ogni dubbio, ogni
sensazione con cui aveva raggiunto l’appartamento di Jack che non fosse il desiderio.
Spinse l’altro indietro, facendolo ricadere sul divano. Jack non si scompose, né cambiò
l’espressione che caratterizzava il suo viso in quel momento. Seguì con lo
sguardo Nathan che si piegava su di lui, facendo scorrere le mani per un breve
momento sulla sua vita così che potessero raggiungere in fretta il bottone
della patta dei jeans di Jack.Per quest’ultimo fu la cosa più semplice del
mondo lasciarsi andare.
Rabbia
e frustrazione lo avevano invaso rapidamente solo svariati minuti prima, mentre
il ricordo di Louis si era ripresentato per l’ennesima volta. Per uscire da
quel vortice di sensazioni avvilenti – mai uguali ma sempre molto simili – in
cui troppo spesso Jack si
trovava incastrato, la cosa migliore che poteva fare era annullarsi
completamente attraverso il piacere dato dai sensi o dai vizi. Quel pomeriggio
aveva deciso che il modo migliore per annebbiare la propria mente era Nathan.
Se
c’era una cosa in cui Jack sapeva di essere bravo, quella era la capacità di
organizzare party e feste a sorpresa. Probabilmente era in parte dovuta a
questa consapevolezza la scelta di aprire un night club, anche se era
sicuramente più legata al fatto di essere una persona che si trovava
incredibilmente a proprio agio in ambienti come quello di un night.
L’appartamento
di Connor non era mai stato tanto pieno. C’erano persone praticamente ovunque,
intente a bere, conversare e ballare.
Grazie
al finanziamento che il fratello gli aveva accordato sette giorni prima, il
night club di Jack non era più un sogno. Nell’ultima settimana il ragazzo aveva
lavorato parecchie ore per far sì che i suoi progetti – già ben strutturati da
prima – diventassero il perfetto programma di lavoro per dare vita alla sua
creazione. Lo stabile che aveva adocchiato da mesi era stato fermato e i lavori
erano cominciati e tutto solo per merito di Connor e dei soldi che aveva
anticipato a Jack.
Così,
per sdebitarsi – almeno simbolicamente – Jack aveva chiesto ad Amber di poter
organizzare nel loro appartamento una “piccola” festicciola a sorpresa in onore
del fratello, come modesto regalo. Amber, circospetta nel primo momento, aveva
dato la sua approvazione e nell’arco di un giorno Jack aveva trovato persone,
alcol e musica a sufficienza per tirare avanti una notte intera.
Stava
osservando compiaciuto quello che era riuscito a mettere in piedi e le
espressioni soddisfatte dei partecipanti quando Amber gli si avvicinò, posando
una mano sulla sua spalla e sovrastando il volume della musica. «Sta arrivando,
ho visto la sua macchina.»
Informato
dell’arrivo di Connor, Jack abbassò il volume dello stereo, sollevando proteste
da parte dei partecipanti. Li calmò con un sorriso e un ampio gesto delle
braccia: «Rilassatevi, riavrete la vostra musica. Mio fratello sta arrivando e
sapete tutti che questa festa è per lui.»
Bastarono
quelle poche parole per tranquillizzare i presenti. Amber abbassò le luci e le
voci si acquietarono. Jack si sistemò davanti alla porta, in attesa del
fratello.
Quando
Connor entrò in casa rimase interdetto solo un momento alla vista delle luci
spente, dopodiché la sua espressione si fece sorpresa quando un coro di grida
di benvenuto si alzarono dietro alla figura che riuscì a riconoscere come
quella di Jack. Si guardò intorno, incuriosito, mentre qualcuno tornava ad
alzare il volume della musica e le voci riprendevano a sovrastarsi a vicenda.
«Che
significa?» chiese Connor rivolto a Jack, il quale continuava a rimanere fermo
davanti al fratello, un sorriso radioso in volto.
«È
la tua festa» gli rispose. «Prendila come un semplice ringraziamento per il tuo
finanziamento» concluse, stringendosi brevemente nelle spalle.
Connor
lo squadrò per un lungo momento, un sorriso appena accennato in volto. Infine
puntò lo sguardo sul suo appartamento per valutare il tipo di persone presenti
alla “sua” festa. Riconobbe diversi volti, ma ne vide anche parecchi di
sconosciuti.
«Come
hai fatto a convincere Amber?» domandò poi, tornando a guardare Jack. Lui si
esibì in un’ espressione contrariata, come se fosse appena stato offeso da
quelle parole. «Le ho semplicemente chiesto il permesso e lei ha accettato.»
Connor
gli scoccò un’occhiata diffidente. «Ah sì? Curioso. Di solito le feste che dai
tu non sono fra le più tranquille e pulite.
Semplicemente per questo motivo mi stavo chiedendo come mai Amber non avesse
avuto problemi a lasciarti il nostro appartamento.»
Jack
sospirò, passandosi una mano fra i capelli, impaziente. «Oh, andiamo. Perché
per una volta tanto non ti rilassi e cerchi di divertirti? È la tua festa.»
«Festa
a cui, sono abbastanza sicuro, non sta circolando solo alcol e testosterone.»
Le
labbra di Jack si arricciarono, l’espressione di chi è appena stato colto in
flagrante. Estrasse dalla tasca interna del suo giacchino di pelle – che
portava sopra una camicia bianca in parte slacciata – una bustina trasparente,
un paio di piccole capsule bianche contenute al suo interno. «Non so gli altri,
io ho solo queste. E francamente stasera non ho voglia di usarle. Se non ti va
di fare il moralista rompicoglioni posso darne una a te.»
Connor
non reagì. Spostò lo sguardo alla sinistra di Jack dove era appena comparsa
Amber, sorridente. Il fisico asciutto della ragazza era ben evidente sotto il
vestito che indossava, i lunghi capelli neri le ricadevano morbidi fin sotto le
spalle.
Guardò
il compagno. «Stranamente sono d’accordo con Jack, dico sul serio. Non
prendiamo mai parte a questo genere di cose, per una volta potresti anche
lasciarti andare.»
La
vellutata voce di Amber sortì l’effetto desiderato. Connor rilassò visibilmente
le spalle, accontentandosi di ciò che la compagna gli aveva appena detto. Jack
non aggiunse altro. Fece scivolare una delle due capsule sul palmo della mano,
tendendola al fratello. «Se vuoi provare» gli disse.
Connor
guardò la piccola pillola bianca, dubbioso. «Quanto dura l’effetto?»
«Direi
tre ore. Al massimo quattro, ma è difficile» rispose, precedendo le parole da
un’alzata di spalle.
Il
fratello non si mosse, fu Amber a prendere l’iniziativa. Raccolse dal palmo di
Jack la capsula e la mise in bocca, ondeggiando fino alle braccia di Connor e
baciandolo immediatamente perché la pillola potesse passare dalla bocca di una
a quella dell’altro. Jack li guardò divertito scambiarsi quel bacio, dopodiché
si voltò verso il resto degli invitati così da poter finalmente prendere parte
alla festa.
*
Jack
cominciò a rivestirsi in piedi, leggermente instabile sulle proprie gambe, nel
buio della camera. La stanza era quella degli ospiti dell’appartamento di
Connor, sul letto alle sue spalle un ragazzo e una ragazza erano distesi
vicini, i respiri lenti e soffusi nel sonno. Jack rimase a guardarli, prima
spettinandosi i capelli, poi allacciandosi la camicia, lievemente sgualcita.
Aveva la testa ancora leggera per via del molto alcol ingerito durante la
serata, mentre l’eccitazione provata durante un rapporto a tre era prossima a
esaurirsi.
Si
avviò fuori dalla stanza, il passo trascinato e lo sguardo vacuo a scrutare
intorno. In casa di Connor erano rimaste davvero poche persone. Suo fratello e
Amber erano sicuramente chiusi nella loro camera da letto; nel soggiorno tre
persone erano sedute sul divano, profondamente addormentate. Jack diede una
rapida occhiata all’orologio posto sopra il televisore e si accorse che erano
le tre passate. Si sentiva stanco e voleva tornare a casa, nient’altro.
Uscì
dall’appartamento e si incamminò verso il suo quartiere lungo le strade quasi
deserte della notte di Washington. Qua e là gli capitava di imbattersi in
qualcuno, personaggi poco raccomandabili per lo più, a cui non prestava la
minima attenzione, limitandosi a continuare a camminare. Come vide un taxi
passargli accanto estrasse istintivamente la mano, facendolo fermare. Vi salì e
si sedette, dicendo il proprio indirizzo di casa con voce strascicata. Infine
appoggiò la testa contro il seggiolino e chiuse gli occhi.
Quando
il tassista gli disse che erano giunti a destinazione Jack sollevò la testa
troppo in fretta e si sentì sprofondare in un vortice.Cercò di ridestarsi in fretta, ignorando le
vertigini e, appena ebbe pagato, scese dalla vettura e raggiunse il portone d’ingresso
del condominio.
*
Riley
fu svegliata di soprassalto. Ci mise un po’ a capire cosa fossero i rumori che
stava sentendo, così ritmati e forti. Qualcuno stava bussando alla porta, con insistenza.
I colpi erano ripetuti in modo frettoloso, separati fra loro solo da pochi
istanti di silenzio. La ragazza controllò l’orario e notò che erano le quattro
del mattino. Non aveva idea di chi potesse essere a bussare alla porta a
quell’ora e un moto d’ansia l’assalì. Provò a ignorare i rumori provenienti dal
soggiorno, ma chiunque stesse bussando non era minimamente interessato a
smettere. Si alzò dal letto e afferrò la mazza da baseball che teneva accanto
al comodino; dopo la visita ricevuta in casa propria da parte dei ladri, Riley
aveva ben pensato che era meglio munirsi di qualcosa con cui difendersi nel
caso ce ne fosse stato bisogno. Attenta a non far rumore si avvicinò alla porta
d’ingresso, ancora percossa dai colpi. Sbirciò dallo spioncino con l’illusa
speranza di vedere il volto della persona oltre la porta, ma come prevedibile
le luci erano spente e lei riuscì solo a distinguere una confusa macchia scura.
Strinse con forza maggiore la mazza d’alluminio nella mano destra e cercando di
mantenere l’autocontrollo disse: «Chi è?»
La
risposta tardò di pochi secondi e sembrava provenire da dentro la porta stessa:
«Jack.»
Sorpresa,
Riley allentò la presa dalla mazza da baseball, accese la luce della sala e
aprì. Si trovò davanti il ragazzo, i capelli scompigliati, gli occhi lucidi dal
troppo alcol e dalla stanchezza, l’alito di chi aveva bevuto ben più di un
bicchiere di vino. Riley si scompose appena a quella vista. Jack aveva
l’aspetto di uno che si stava lentamente distruggendo con le proprie mani – e
la ragazza sapeva che, purtroppo, non si trattava solo di un’impressione – ma
le fu impossibile non trovarlo dannatamente bello anche in quello stato. Un
sorriso solcò il viso del ragazzo quando incontrò lo sguardo di Riley. «Non
volevo svegliarti, scusa» disse. Masticava le parole e aveva bisogno di
reggersi allo stipite della porta per evitare di perdere l’equilibrio, gli
abiti disordinati a coprire il suo corpo.
«Stai
bene?» gli chiese la ragazza, posando finalmente la mazza.
«Sì.
Io… sì» fu la risposta. «Sono appena venuto via da casa di Connor. Ho dato una
festa e, beh, credo sia andata piuttosto bene.»
Riley
sapeva ciò di cui stava parlando. Jack l’aveva invitata a quella festa a
sorpresa, ma lei aveva preferito non andare.
«Mi
aspettavo di vederti» ammise Jack.
Lei
abbassò lo sguardo. «Non sono il tipo da feste, dovresti saperlo. Avrei
annoiato tutti.»
Jack
la guardò, serio. Si avvicinò di un passo, fermandosi quasi a contatto con il
corpo della ragazza. Inclinò la testa di lato e sollevò appena le spalle. «Sai
che non è vero. Saresti sicuramente piaciuta.»
Riley
preferì non rispondere. Distolse lo sguardo, facendolo scorrere lungo la zip
aperta per metà della giacca del ragazzo. «Magari la prossima volta» mormorò.
Jack
annuì lievemente con la testa, rimanendo a guardare la ragazza. Quando lei
tornò a sollevare gli occhi per vederlo bene in faccia si aspettò una risposta
da parte sua che non arrivò mai. Lui continuò a guardarla, in silenzio e Riley
non poté fare a meno di notare i lineamenti sciupati dalla stanchezza. Con
tutta probabilità era in piedi da molte più ore di quelle che un corpo normale era
in grado di sopportare e la massiccia assunzione di alcol – e forse non
esclusivamente quello – aveva contribuito a consumarlo ulteriormente.
«Dovresti
andare a dormire. Mi sembri stanco» disse la ragazza a un certo punto.
Jack
parve sorpreso. Si guardò un momento intorno, infine si stropicciò gli occhi
con le dita e fece scorrere la mano fino al collo. «So che non sembra, ma non
ho sonno.»
Prima
che Riley potesse replicare il ragazzo riprese parola: «Ti andrebbe di farmi
compagnia per un po’? Non…»
Inspirò
a fondo: «Non ho molta voglia di stare da solo.»
Fu
Riley a sorprendersi questa volta. Guardò Jack in modo confuso, chiedendosi
quanto le convenisse seguire il ragazzo in quello stato. Tuttavia una parte di
lei le fece capire che lasciare da solo Jack quella sera sarebbe potuto essere
un grave errore. In fin dei conti si sentiva sveglia e aveva perso sonno per
molto meno nelle settimane precedenti.
«Va
bene» rispose alla fine. «Ti accompagno nel tuo appartamento?»
Jack
annuì, sollevato. Mentre lei si infilava una felpa e prendeva le proprie chiavi
di casa sentì il ragazzo aprire l’ingresso del suo appartamento. Entrandovi, Riley
lo trovò più ordinato di quanto non fosse stato in precedenza, fatta eccezione
per il tavolo, ingombro di carte, taccuini, penne e qualche bottiglia. Jack si
era già tolto la giacca e si era sistemato sul divano, una bottiglia d’acqua
stretta in una mano e l’altra sugli occhi. Sollevò lo sguardo su Riley quando
la sentì chiudere la porta. «Fai come se fossi a casa tua. Come sempre.»
Le
sorrise, un gesto che sembrò richiedergli un grande sforzo. Bevve un lungo
sorso d’acqua mentre Riley andava a sedersi accanto a lui. La ragazza fece
vagare lo sguardo per il soggiorno, soffermandolo nuovamente sul tavolo. Jack
se ne accorse. «Sono i progetti del night» le disse, prima ancora che lei
potesse pensare di chiederglielo.
«Come
sta andando?» domandò.
«Piuttosto
bene. Direi di essere a buon punto.»
Riley
annuì con la testa, debolmente. Non chiese altro, così come Jack non aggiunse
una parola a ciò che aveva appena detto. La ragazza continuava a sospettare che
fosse successo qualcosa a Jack e che non si trattasse di ciò che era avvenuto
fra loro. Si convinse che se non avesse voluto accontentarsi di supposizioni
avrebbe dovuto chiederlo direttamente a lui e che quello poteva essere il
momento migliore.
Sperando
di non essere in procinto di compiere un grave sbaglio, Riley prese una boccata
d’aria e disse: «Posso chiederti una cosa?»
Jack
si voltò leggermente verso di lei. «Certo» rispose.
La
ragazza impiegò un po’ a rispondere. Voleva trovare le parole più appropriate,
consapevole che stava quasi certamente andando a toccare un nervo scoperto. «Quando
sei dovuto rimanere dai tuoi, per quelle due settimane, hai presente? É
successo qualcosa di grave?»
Ascoltò
il silenzio grave che si era formato subito dopo le sue parole e si accorse che
Jack aveva trattenuto il respiro per un momento. Quest’ultimo abbassò lo
sguardo sulle proprie mani, stringendo la bottiglia d’acqua con forza maggiore.
Nonostante la mente annebbiata da alcol e stanchezza rifletté con lucidità su
quello che poteva fare. Era fortemente combattuto se dire o meno la verità a
Riley su ciò che lo aveva tenuto due settimane lontano da casa. Infine si rese
conto che per poter ricostruire il suo legame con la ragazza era necessario
riconquistare la sua fiducia e decise di dirle come stavano le cose. Tuttavia
non le disse esattamente tutto.
«Diciamo
che la mia famiglia ha preferito tenermi sotto controllo per un po’. Avevano
paura che potessi commettere qualche gesto piuttosto insano.»
Riley
lo sguardò, sorpresa: «Perché avresti dovuto?»
Jack
non ebbe la forza di alzare lo sguardo su di lei. Ricordare cosa gli era
accaduto continuava a infastidirlo e lo rendeva instabile e frustrato.
«Louis…
Beh, mi… mi ha lasciato. E i giorni successivi non sono stati molto semplici da
affrontare, non da solo. Adesso almeno c’è Nathan.»
Riley
non disse niente. Ripensò a quanto le era appena stato detto e si sentì
impotente. Fra di loro scese un silenzio che aveva dell’inverosimile e che durò
molto prima che la ragazza riprendesse a parlare: «Avevo intuito che tu e Louis
non vi vedeste più. Effettivamente avevo iniziato a incontrare qualcun altro
lungo i corridoi.»
Lo
disse mormorando, ancora incredula alle parole di Jack. Il ragazzo finalmente
sollevò lo sguardo dalle proprie mani e lo puntò sul soggiorno di casa sua, un
leggero sorriso abbozzato sulle labbra, come se gli fosse tornato alla mente un
dolce ricordo. «Sì, Nathan. È un bravo ragazzo, tiene veramente a me, a
differenza di Louis. É solo che… Non è semplice dimenticarsi di qualcuno.»
La
sua voce si era abbassata sul finire della frase e Riley poteva perfettamente
capire perché: faceva male. Lei ci era passata fin troppe volte ed era
consapevole che i ricordi riaffioravano ogni volta che ne avevano l’occasione e
che il dolore e la rabbia li accompagnavano sempre. Non era ancora passato un
mese da quanto Louis aveva piantato Jack e anche se, a sentire il ragazzo,
Nathan era una bella persona, era ancora troppo presto perché fosse in grado di
far dimenticare a Jack quel dolore.
«Lo
so» disse lei in risposta.
Il
ragazzo si voltò finalmente a guardarla. Riley teneva lo sguardo distante,
puntato su uno dei tanti punti in penombra dell’angolo cottura. Jack sentì lo
stomaco stringersi mentre osservava il profilo elegante di quella che per molto
tempo era stata la sua più cara amica e con cui avrebbe voluto sistemare tutto.
A quel pensiero si morse il labbro inferiore, rimanendo a guardarla. «Riley, mi
dispiace così tanto per quello che è successo fra noi. Vorrei davvero che le
cose tornassero come prima» disse in un sol fiato.
Lei
lo guardò. Le venne spontaneo stringersi nelle spalle mentre la risposta le
affiorava alle labbra con sorprendente sicurezza: «Ne abbiamo già parlato. Te
l’ho detto, è impossibile che ciò che provo per te non influisca fra noi, lo
sta già facendo.»
Quella
frase fu un colpo al cuore per Jack, soprattutto perché era consapevole che si
trattava della verità. Tuttavia Riley non aveva finito. Per lei il fatto che il
ragazzo continuasse a cercarla era il chiaro segnale che lui non era disposto a
perderla per colpa di una notte e lei aveva ormai superato una tale serie di
delusioni da sapere che per quanto potesse apparire difficile non era certo
mortale. Prima di essere l’uomo che amava, Jack era stato un caro amico e lei
avrebbe fatto il possibile per recuperare quel legame.
«Comunque
sia penso che riusciremo a sistemare le cose. Mi serve solo un po’ di tempo.»
Jack
abbozzò un sorriso, incerto e stanco. Si sentì sollevato da quanto Riley aveva
detto.
Lei
rimase a guardarlo, sentendosi però improvvisamente preoccupata. Che gesto
insano temevano che il ragazzo potesse compiere, i suoi genitori? Le venne un
sospetto, ma lo cacciò via subito convinta che Jack non potesse mai essere in
grado di compiere una simile follia.
Non
era solo colpa della stanchezza, Jack le parve davvero tormentato da qualcosa e
più intensamente del solito. Con molta probabilità Louis ne era la causa. Riley
si lasciò andare all’istinto. Continuando a guardare Jack negli occhi portò una
mano fra i suoi spettinati capelli corvini, facendo scorrere le dita fra le
corte ciocche scure.
«Louis
non ti meritava» dichiarò, con una sincerità tale da sorprendere perfino se
stessa.
Il
ragazzo rimase a guardarla. Inclinò leggermente la testa come un gatto che cerca
le carezze del padrone, senza dire nulla. Appoggiò il capo alla spalla della
ragazza e permise alla stanchezza di prendere il sopravvento. Si sentiva
esausto e confuso e tutto sarebbe potuto diventare letale se accanto a lui non
ci fosse stata Riley.
Con il
night club prossimo all’apertura l’umore di Jack era notevolmente migliorato.
Erano trascorsi cinque mesi da quando il fratello gli aveva concesso il
finanziamento per poter iniziare i lavori e questi erano proseguiti a ritmo
quasi forsennato ed erano prossimi a concludersi. Con il week end, Jack era
pronto all’inaugurazione.
Dedicando
anima e corpo ai progetti del night il ragazzo era riuscito a lasciare da parte
sensazioni avvilenti e necessità fisiche. DA cinque mesi non assumeva alcun
tipo di droga e non ne sentiva il bisogno. Inoltre anche il suo consumo di
alcol era calato e la compagnia di Nathan e la consapevolezza di avere ancora
Riley erano il perfetto coronamento di un percorso che stava tornando sui
giusti binari.
Come
faceva ormai da diversi giorni, quella mattina Jack si svegliò di buon ora. La
sera precedente era passato a ritirare gli inviti per l’inaugurazione di
sabato. Mentre aspettava che l’acqua per il caffè si scaldasse a dovere, il
ragazzo aprì con un taglierino la scatola in cui gli inviti erano contenuti e
ne afferrò uno per poterlo guardare attentamente, sedendosi sul pavimento.
Erano esattamente come li aveva immaginati; le scritte bianche, lineari,
risaltavano magnificamente sullo sfondo granata e la data indicata – che
distava solo tre giorni – riempì di euforia ulteriore Jack. Si sentiva una
persona nuova, finalmente; qualcuno a cui non sarebbe potuto andare storto
niente talmente bene aveva strutturato i propri piani.
Controllò
l’orologio e si alzò di scatto, raggiungendo il fornello e riempiendo
generosamente di caffè appena fatto due tazze. Le mise su un vassoio, vi
aggiunse il primo degli inviti che avrebbe distribuito e uscì sul pianerottolo.
Doveva ancora un caffè a Riley e ci teneva a saldare i debiti con lei. Sapeva
che prima delle nove la ragazza non sarebbe uscita per andare a lavorare ed era
piuttosto certo di trovarla ancora in casa. Bussò alla porta numero 24 un paio
di volte, rimanendo in attesa.
Come
Jack si aspettava, Riley aprì pochi attimi dopo. Appena vide il ragazzo
sorrise, appoggiandosi allo stipite della porta con il fianco.
«Mattiniero»
disse, il tono scherzoso.
«Ti
dovevo ancora un caffè» le rispose Jack.
Riley
sorrise nuovamente, dopodiché si spostò dall’ingresso e permise a Jack di
entrare in casa. Il ragazzo raggiunse il tavolo situato nell’angolo cottura e
posò il vassoio con le due tazze.
«E
non solo» esordì poi, prendendo insieme a una delle due tazze l’invito per
l’inaugurazione e porgendo entrambi a Riley. «Sono venuto anche per darti
questo.»
La
ragazza afferrò il cartoncino dell’invito e vi fece scorrere lo sguardo. Prima
che potesse porre qualche domanda, Jack riprese parola: «Sabato sera è il
grande giorno: inauguriamo. L’ingresso è solo su invito e questo è il tuo.»
Riley
sollevò gli occhi su Jack. Era euforico, felice come lei non lo vedeva da
tempo. Non solo; aveva un aspetto molto più curato rispetto a mesi prima. I
capelli scuri erano lucenti, la pelle sana, il sorriso radioso e gli occhi più
luminosi di quanto lei potesse ricordare. Le sembrava di avere davanti un uomo
nuovo, ancora più perfetto di quella che l’aveva fatta innamorare. Era
decisamente una strana sensazione.
A
quel pensiero si impuntò, ricordando a se stessa che si era ripromessa di non correre
il rischio di rovinare tutto con Jack solo perché averlo davanti le faceva
crollare addosso ogni volta tutta una serie di sensazioni contrastanti.
Rigirò
l’invito fra le mani, osservandolo con più attenzione. L’inaugurazione era
prevista per quel sabato – il 7 maggio – alle 22. Non capendo se era felice o
meno per la cosa, la ragazza si ricordò che quella sera aveva già un impegno
con Elizabeth. Non lo disse a Jack. Non voleva ferirlo e sapeva che lui ci
sarebbe rimasto male se lei non fosse riuscita ad andare.
Sorpreso
dal lungo silenzio di Riley, Jack decise di fare una precisazione,
perfettamente a conoscenza della scarsa passione nutrita dalla ragazza per i
locali notturni, le feste e i luoghi eccessivamente affollati: «So che non sei
il tipo da night club. Non sei obbligata a partecipare. Ma sai benissimo che mi
farebbe molto piacere se passassi, anche solo per un saluto veloce.»
Riley
annuì, sorridendo: «D’accordo. Lo faccio solo perché sei tu a chiedermelo»
disse, cominciando già a pensare quanto ci fosse di vero in ciò che aveva
appena pronunciato.
Il
sorriso che lui le regalò fece letteralmente perdere un colpo al suo cuore. Non
ricordava assolutamente quand’era stata l’ultima volta in cui aveva visto Jack
così felice e in forma. Si chiese addirittura se davvero lo avesse mai visto in
un simile stato prima di quel momento.
Come
per togliersi quelle domande dalla testa Riley andò ad appendere al frigorifero
l’invito con una calamita. Tornò a voltarsi verso Jack, bevendo finalmente il
caffè che lui le aveva portato.
«Quindi
cosa ti rimane da fare?» gli chiese.
Lui
capì che si stava riferendo al night. Sollevò le spalle, tranquillo. «Poco,
ormai. Oggi comincio a distribuire gli inviti e questo pomeriggio passo a
verificare di essere effettivamente in regola con i permessi.»
Riley
rimase felicemente sorpresa nel vedere come avesse tutto sotto controllo. Era
felice per lui e fiera del lavoro che il ragazzo aveva svolto.
«Sono
molto contenta per te, dico davvero» disse subito dopo.
Jack
le sorrise, illuminandosi ulteriormente. «Ti ringrazio. Sei una delle poche
persone che ha sempre creduto in me. Significa molto.»
Riley
si sentì lusingata da quella affermazione. Un leggero calore cominciò ad affiorarle
alle gote e lei distolse lo sguardo da Jack, sentendosi lievemente in
imbarazzo. Cercando di riprendere pieno controllo di tutte le sue sensazioni
bevve un nuovo sorso di caffè e diede brevemente un’occhiata all’orologio.
«È
meglio che finisca di prepararmi. Devo andare a lavorare» disse non appena si
rese conto che erano quasi le nove.
Jack
annuì con tranquillità. «Ti lascio, allora. Se non dovessimo incrociarci lungo
i corridoi nei prossimi giorni spero di vederti sabato.»
Anche
Riley fece segno di sì con la testa, ma parve decisamente più incerta di Jack.
«Farò il possibile per passare» rispose.
Il
ragazzo parve notevolmente rincuorato dalla frase pronunciata da Riley. Con un
nuovo e luminoso sorriso si avvicinò a lei e le scoccò un leggero bacio sulla
fronte, cosa che rese la ragazza improvvisamente instabile sulle gambe. Jack la
salutò e scomparve dalla porta d’ingresso dopo aver recuperato la sua tazza del
caffè, lasciando in mano a Riley l’altra. Strategia o sbadataggine che fosse, i
due avevano un’altra scusa per ricostruire il loro rapporto.
*
Essere un membro della famiglia Miller alle
volte aveva i suoi lati positivi. A Jack era bastato presentarsi alla reception
del City Hall, dire il proprio nome e l’ufficio dove voleva andare, che nessuna
domanda aggiuntiva gli era stata posta. Raggiunto il corridoio dove si trovava
l’ufficio in cui sentire se era in regola con i permessi, cercò un posto per
sedersi e si sistemò.
Probabilmente
avrebbe dovuto aspettare un po’, ma in quel momento la cosa non gli pesò
assolutamente.
Si
sentiva davvero bene, quasi leggero. Era da tanto tempo che le cose non andavano
così bene nella sua vita; finalmente cominciava a sentirsi orgoglioso di qualcosa
che stava facendo. In meno di una giornata aveva già distribuito un terzo degli
inviti che possedeva e il giorno seguente avrebbe ultimato le consegne. All’inaugurazione
ci sarebbero state quasi cinquecento persone se tutti gli inviti fossero stati
accettati e quasi non gli sembrava vero. Aveva lavorato duramente per mesi e
entro tre giorni i suoi sforzi sarebbero certamente stati ripagati.
Fu
proprio mentre si convinceva sempre più che le cose non sarebbero potute andare
per il verso sbagliato che sentì dei passi lungo il corridoio in cui era in
attesa. Distrattamente si voltò nella direzione da cui provenivano i rumori e
si sentì mancare il fiato.
Louis
Walker stava camminando verso di lui, lo sguardo
fisso davanti a sé, il trench blu aperto e la ventiquattrore in mano. Jack si
scoprì a osservarlo incredulo, non riuscendo a staccargli gli occhi di dosso.
L’uomo portò improvvisamente lo sguardo sul ragazzo, proprio quando era
prossimo a raggiungerlo e superarlo. Anche sul suo viso si dipinse
un’espressione stupita. Si fermò quasi davanti a Jack, rimanendo a guardarlo.
«Jack.
Che sorpresa vederti» disse infine.
Il
ragazzo lo squadrò da sotto in su, abbozzando un sorriso. Infine si alzò.
Era
strano avere Louis nuovamente davanti agli occhi dopo il modo doloroso in cui
se ne era andato. Jack aveva impiegato parecchio tempo per riuscire a non ripensare di continuo a tutte le parole
che lui gli aveva detto e a ciò che quelle stesse parole avevano portato. E ora
erano lì, a guardarsi in faccia – chiaramente a disagio – esattamente come due
partner che si rivedono dopo essersi lasciati una relazione alle spalle. Entrambi
titubanti, entrambi convinti di poter dire la cosa meno opportuna da un momento
all’altro.
«Sono
contento di vederti. Come stai?» chiese poi Jack.
Superato
il primo momento di confusione si sentì stranamente euforico all’idea di avere
nuovamente sotto gli occhi Louis. Era vero che l’uomo lo aveva ferito
profondamente, ma era anche vero che erano stati bene insieme in più occasioni.
Inoltre non poteva rimanere indifferente al fascino che Louis continuava ad
avere, che quasi sembrava essersi intensificato negli ultimi mesi. La verità
era che Jack non era riuscito a dimenticarsi di lui e il fatto che Louis si
fosse fermato per salutarlo e per scambiare almeno i convenevoli, lo illuse che
potesse esserci ancora una possibilità per loro.
«Io
sto bene, ti ringrazio» rispose Louis. Fece scorrere gli occhi su Jack, dallo
sguardo grigio-azzurro al completo nero con camicia bianca. «Ti trovo in gran
forma.»
Jack
sorrise. «Sì? Beh, me la sto passando piuttosto bene nell’ultimo periodo»
disse, portando una mano fra i capelli scuri, che si spettinarono con quel
gesto.
Nessuno
dei due disse nulla e fu nuovamente Jack a riprendere parola: «Sono venuto qui
per verificare di essere in regola con i permessi per il night club.»
Louis
ne fu sorpreso. «Night club? Quello di cui mi avevi parlato?»
«Sì,
esattamente. Sabato sera inauguriamo. Sono piuttosto eccitato all’idea.»
L’uomo
si mosse appena, nervoso. «Capisco» cominciò. «Beh, allora buona fortuna per il
tuo futuro.»
Jack
sorrise, senza aggiungere altro. Louis gli fece un cenno e riprese a camminare,
ma prima che si allontanasse troppo Jack lo fermò.
Il
ragazzo aveva seguito l’impulso, impedendo al suo autocontrollo di bloccarlo.
Si era detto che non poteva esserci niente di male a cercare di ricucire un
altro legame spezzato. Magari, come nel caso di Riley, tutto si sarebbe potuto
sistemare. Raggiunse Louis che ormai era avanti di alcuni metri rispetto a lui,
il quale rimase a guardarlo con un’espressione indecifrabile in volto.
«Senti,
stavo pensando…»
Jack
cercò di trovare le parole migliori, decidendo alla fine di non girare troppo
attorno al succo della situazione: «Ti andrebbe di venire all’inaugurazione?
Posso farti avere un invito per la serata.»
Louis
parve preso notevolmente alla sprovvista da una simile proposta. Sollevò le
sopracciglia, incredulo, rimanendo a fissare Jack per quello che, al ragazzo,
parve un tempo lunghissimo.
«Sabato
sera?» chiese conferma.
«Sì.
Se ne hai voglia, mi farebbe piacere che venissi.»
Era
tentato di aggiungere “In onore dei vecchi tempi” ma preferì fermarsi prima.
Louis continuava a guardarlo, infine il suo viso si distese e le labbra gli si
incurvarono in un sorriso, che però non si propagò fino agli occhi celesti.
«Potrebbe
essere interessante» fu la risposta.
Jack
sorrise, felice. Annuì ripetutamente con la testa e disse: «Bene. Allora faccio
tenere da parte un invito per te.»
Mimò
in aria il gesto di prendere appunti: «Me lo segno.»
Fece
l’occhiolino a Louis, che questa volta sorrise veramente. Dopodiché l’uomo
indicò verso la fine del corridoio: «Io, scusami, ma devo proprio andare»
disse.
«Ah,
sì, certo. Allora ci vediamo sabato» lo salutò Jack.
L’uomo
confermò con un gesto vago e una strana smorfia, ma Jack parve non notare nulla
di tutto ciò. Rivedere Louis gli aveva fatto provare emozioni contrastanti:
dolore, felicità, sorpresa e preoccupazione. Alla fine, però, le sensazioni
positive avevano prevalso, lo aveva capito dall’impulso di impedire all’uomo di
andarsene senza la certezza di poterlo rivedere. Jack stava così bene, in quel
preciso frangente della propria vita, che era fin troppo convinto che ogni cosa
sarebbe andata – e rimasta – al giusto posto.
Quel 7
maggio profumava di nuovo per Jack. Nonostante avesse dormito poco più di sei
ore – dato che la sera precedente aveva fatto tardi per accertarsi che tutto
fosse perfetto per l’inaugurazione – quella mattina si svegliò presto e con una
tale energia da risultare sorprendente.
Scese
dal letto e si vestì in fretta, raggiungendo subito dopo la cucina così da
poter fare una buona colazione. Sul tavolo del soggiorno aveva lasciato gli
ultimi inviti per l’inaugurazione, ovvero quelli dedicati alla sua famiglia.
Connor, Amber, Nicole, Penelope e addirittura sua padre Benjamin – con cui Jack
non aveva avuto un rapporto semplice dal giorno del suo coming
out da adolescente. Tutti i loro inviti erano posati su quel tavolo, in buste
bianche con il loro nome scritto sopra.
Jack
fece colazione con calma, ripercorrendo con la mente tutto ciò che avrebbe
dovuto fare in preparazione della serata. Terminato di bere il caffè il ragazzo
andò a farsi una doccia, passando accanto a cinque grossi secchi neri pieni di
calle. Ne aveva ordinate trecento. Trecento calle bianche che, quella sera, avrebbe
distribuito a ogni ragazza che fosse entrata dalla porta del suo nuovissimo
night club. Sapendo di averne ordinate in abbondanza era intenzionato a usarne
una parte anche per decorare l’interno del locale, come i tavoli, i banconi del
bar e gli specchi.
Poco
dopo che fu uscito dalla doccia – sentendosi ancora più sveglio e fresco di
prima – qualcuno bussò alla porta. Stava aspettando Nathan, perciò andò ad
aprire mentre ancora doveva infilarsi la t-shirt, i capelli scuri spettinati e
bagnati sopra la testa.
Dietro
la porta d’ingresso, quando aprì, non vi trovò Nathan, ma Riley. Jack notò che
la ragazza sussultò appena quando lo vide, il suo sguardò sfrecciò rapido fino
alla vita del ragazzo e tornò subito sui suoi occhi. Gli sorrise, sollevando davanti
al naso una tazza, che Jack riconobbe come quella che le aveva lasciato tre
giorni prima.
«Sono
venuta a riportarti questa» esordì Riley, tendendo la tazza a Jack, che l’afferrò.
«Ti
ringrazio» le rispose.
«Come
vanno gli ultimi preparativi per la serata?» chiese poi la ragazza, rimanendo
concentrata sugli occhi di Jack e decidendo di fare un po’ di conversazione
prima di andare. Erano quasi le nove e aveva pensato di restituire la tazza
poco prima di dover uscire per andare nel suo luogo di lavoro.
Il
ragazzo si strinse nelle spalle, l’ennesimo sorriso perfetto e radioso che,
nell’ultimo periodo, aveva spesso caratterizzato il suo viso. «Quasi ultimati.
Manca davvero pochissimo e sono terribilmente eccitato» esclamò, non riuscendo
a trattenere un gesto di esultanza.
Riley
fu felice di vederlo così, ma non sorrise: c’era altro che doveva dirgli.
Quando Jack si fu calmato tornò a puntare lo sguardo sull’amica, che prese una
lunga boccata d’aria prima di aprire bocca: «A proposito di stasera» cominciò.
Jack si rese conto che c’era qualcosa che, in qualche modo, la turbava e rimase
in attesa, lievemente preoccupato. Riley fece vagare lo sguardo oltre il
ragazzo mentre ricominciava a parlare: «Mi ero completamente dimenticata di
aver già preso un impegno con Elizabeth. Quindi… beh, non so quando riuscirò a
passare. Non so neanche se riuscirò a
passare.»
La
voce le si era abbassata sul finire della frase. Jack rimase deluso dalle
parole di Riley, non avrebbe certo potuto negarlo. Sapeva che alla ragazza
luoghi come i night club non piacevano minimamente, ma dopo quello che lei gli
aveva detto tre giorni prima si era illuso di poterla avere ad assistere
all’inizio della sua nuova vita, anche se per una mezz’ora solamente.
Riley
notò che le braccia del ragazzo abbandonarsi lungo i fianchi. Temeva quella
reazione; temeva di ferire Jack ed era l’ultima cosa che voleva.
«Mi
dispiace, davvero» si affrettò a dire. «Posso parlarne con Elizabeth e
chiederle di salutarci un po’ prima, così posso passare al night.»
Jack
non rispose subito. Rimase a guardare per un lungo momento Riley che teneva lo
sguardo basso. Per quanto l’avrebbe voluta vicino quella sera, di certo non
poteva costringerla. Sarebbe andato certamente tutto per il meglio anche senza
di lei.
Le
sorrise. La ragazza sollevò gli occhi e parve sorprendersi dalla reazione di
Jack.
«Non
preoccuparti. Non c’è problema se non riesci a venire» le disse, sincero.
«No,
beh… io… io posso» riprese lei, ostinata, ma Jack la fermò con un gesto.
«Davvero,
Riley, non preoccuparti. Potrai venire quando vuoi. Sarai sempre una di quelle
sulla lista.»
Le
sorrise ancora una volta. «Aspetta solo un momento.»
Entrò
in casa, posò la tazza sul tavolo e ricomparve davanti a Riley, una calla
bianca stretta in mano. «Questa è per te» disse porgendole il fiore. «So che
sono i tuoi fiori preferiti.»
La
ragazza si sentì lievemente arrossire. «Perché questo?» domandò titubante.
«Avevo
in programma di darne uno a ogni ragazza presente stasera, inclusa tu. Ma se
non riesci a passare allora ti do subito il tuo fiore.»
Riley
guardò la calla, dolcemente sorpresa dall’aver constatato che Jack ricordasse
quello che era il suo fiore preferito.
«Hai
davvero pensato proprio a tutto» gli disse poi, indicando la calla.
Il
ragazzo sorrise, annuendo. Riley rimase a guardarlo per un lungo momento, prima
di ricordarsi che ore erano. Tornò in sé con un fremito e si sbrigò a dire:
«Devo proprio andare, scusami.»
«Ok,
allora, buona giornata» le rispose Jack.
Lei
lo guardò nuovamente per un po’. «Farò il possibile per venire stasera» disse
poi.
«Riley,
non preoccuparti» tentò di tranquillizzarla lui.
«Sai
come sono» tagliò corto lei e dopo un rapido gesto in segno di saluto si avviò lungo
il corridoio.
*
Quando
l’una del pomeriggio era da poco scoccata sugli orologi, Jack varcò la soglia
della casa dei suoi genitori, al centro di Washington, in cui era cresciuto e
dove aveva trascorso venticinque anni della propria vita. Il ragazzo salutò gli
addetti alla sicurezza perennemente vigili alla porta d’ingresso, dopodiché si
chiuse quest’ultima alle spalle e raggiunse a grandi passi la cucina. Come si
aspettava vi trovò la famiglia riunita al completo; probabilmente si erano da
poco alzati da tavola dato che Nicole aveva appena cominciato a lavare i piatti
e il bicchiere del drink che Penelope era solita bere a fine pasti era ancora colmo.
Connor e Amber erano seduti sugli alti sgabelli davanti alla penisola della
cucina, intenti a portare avanti una fitta conversazione, mentre suo padre,
Benjamin, misurava la stanza camminando avanti e indietro, il telefono premuto
sull’orecchio.
Appena
Jack si fermò si voltarono tutti verso di lui. Sorrise, spalancò le braccia,
gli inviti imbustati stretti in mano e disse: «Buongiorno a tutti.»
«Non
ti sei fatto vedere a pranzo, oggi» gli fece notare Nicole.
«Vi
avevo detto che non sarei venuto. Non avrete cucinato anche per me spero.»
La
possibile risposta fu scavalcata da un’imprecazione di Benjamin, che chiuse la
telefonata e raggiunse il resto della famiglia attorno al bancone della cucina.
«Quel
figlio di…» borbottò fra sé, ma venne zittito da un’occhiata storta da parte
della moglie.
Jack
rimase a guardarlo un momento, un mezzo sorriso dipinto in volto, dopodiché
prese una generosa boccata d’aria e fece in modo che tutti gli occhi si
puntassero su di lui. Sollevò le buste per far sì che si vedessero
perfettamente. «Vi ho portato i vostri inviti per stasera. Li lascio qui»
disse, posandoli sulla penisola che aveva davanti, proprio fra suo padre e sua
nonna. Benjamin osservò le buste dubbioso, il viso lievemente contratto.
«Inviti?»
chiese infine.
«Sì,
per l’inaugurazione del night. È oggi» rispose Jack. Notando l’incomprensibile
espressione del padre si ritrovò a sorridere, non capendo esattamente perché.
«Anche se si tratta di voi ho espressamente detto che chiunque sia senza invito
non deve entrare» precisò, credendo che i dubbi del padre fossero legati a ciò.
Tuttavia
l’espressione di Benjamin non mutò.
«Per
quanto mi riguarda, il mio puoi anche tenerlo» disse poi.
Il
sorriso di Jack si spense. Corrugò la fronte, schiudendo le labbra in silenzio
per un momento prima di dire: «In che senso?»
«Nel
senso, Jack, che non penso proprio passerò questa sera.»
Il
tono asciutto con cui Benjamin gli aveva risposto lasciò Jack di stucco, che
non capì il motivo della scelta del padre. Sapeva che non aveva nulla in
programma per quella sera, lui stesso glielo aveva detto. Intorno a loro l’aria
si fece tesa, gli sguardi allarmati di tutti si puntarono esclusivamente sui
due.
«Ma…
è l’inaugurazione. Ho lavorato duramente per arrivare a questo giorno, non puoi
mancare.»
Benjamin
sollevò le sopracciglia, come a dire che non era a conoscenza di quanto Jack
gli aveva appena detto e, soprattutto, che non credeva a niente di tutto ciò.
Un moto di sdegno pervase il ragazzo, che sentì i muscoli irrigidirsi.
«Pensi
che non sia vero? Ho passato gli ultimi cinque mesi su questo progetto. Sono
andato in ogni ufficio possibile per ricevere i permessi. Ho contattato non so
quante persone fra operai, arredatori, designer, fornitori, personale e barman»
esplose.
La
replica del padre non si fece attendere: «Sì, ma non lo hai fatto con i tuoi
soldi.»
Jack
si bloccò a quelle parole, gli occhi saettarono veloci sul fratello, che
distolse lo sguardo.
«Credi
che non sappia che hai ricevuto il finanziamento da Connor?» domandò
retoricamente Benjamin.
A
quelle parole Nicole si avvicinò ai due uomini. Intuendo la lite imminente
sperò di riuscire a interrompere la cosa sul nascere, ma venne ignorata da
entrambi.
«Lo
ha fatto per aiutarmi a portare a termine ciò su cui avevo speso tanto tempo»
replicò Jack, il tono sempre più nervoso.
«No.
Lo ha fatto solo perché gli facevi pena. Perché sapeva che se non ti avesse
aiutato lui non lo avrebbe fatto nessuno.»
L’affermazione
del padre ferì nel profondo Jack. Cominciò a sentirsi irritato come non gli
capitava da tempo e riuscì a stento a mantenere lo sguardo saldo su Benjamin
quando quest’ultimo riprese a parlare, dando un nuovo affondo: «E forse aveva
anche ragione. Quando mai hai portato a termine qualcosa di buono tu?»
«Forse
ci sarei anche riuscito se tu avessi creduto in me» rispose Jack, la voce gli tremò
leggermente.
Benjamin
gonfiò il petto, come offeso dall’affermazione del figlio.
«Oh
ma io l’ho fatto. E più di una volta. Io e tua madre ti abbiamo sempre dato
tutto ciò di cui avevi bisogno ma non ne hai mai fatto buon uso.
«Ogni
volta che sparivi dovevamo venire a recuperarti in qualche sobborgo squallido e
ti trovavamo completamente distrutto dalla droga. E come se non bastasse
dovevamo anche fare del nostro meglio perché la tua ennesima permanenza in
comunità di recupero passasse sotto silenzio» disse con il tono di chi
conviveva con tutto ciò da una vita e che provava più fastidio che compassione
per la cosa.
Il
silenzio intorno a loro si fece gelido. Tutti i presenti avevano tolto gli
occhi da loro, eccetto Nicole, il cui sguardo era profondamente rammaricato e
si alternava confuso fra il figlio e il marito.
Jack
deglutì la poca saliva che gli era rimasta in bocca, avvertendola
improvvisamente asciutta. Si sentì terribilmente teso per colpa della rabbia
che era montata in fretta mentre le parole del padre si erano fatte via via più
pesanti e insopportabili, per quanto vere.
«Nessuno
ve lo ha mai chiesto» disse infine.
«Beh
allora devi esserci grato che lo abbiamo fatto ugualmente. Altrimenti stasera
non inaugureresti un bel niente e con molta probabilità non saresti neanche qui.»
Le
ultime parole pronunciate dal padre furono in grado di far scomparire
completamente ogni sensazione positiva dal corpo di Jack. Ogni minimo residuo
di soddisfazione e felicità scivolò via dal giovane che venne totalmente
sovrastato dalla rabbia. Teneva lo sguardo fisso su Benjamin, la mascella
contratta. Le sue mani erano chiuse a pugno mentre con tono tremante per
l’irritazione ormai al culmine dava voce a qualcosa che non avrebbe mai pensato
di poter dire: «Io credo di odiarti.»
Il
silenzio già calato nella stanza e fattosi gelido divenne ancora più tetro e
serrato. Jack sentiva l’aria riempirsi del suo respiro pesante e gli occhi di
tutti, sconvolti, puntati improvvisamente su di lui. Senza aggiungere altro si
voltò e si avviò verso l’ingresso, il passo affrettato.
Benjamin
non distolse lo sguardo dal punto in cui prima si trovava suo figlio e dove ora
non vi era più niente. Le parole che gli aveva appena pronunciato iniziarono a
rimbalzargli nella testa, presentandosi come l’inizio di un doloroso tormento,
a meno che non vi avesse posto subito rimedio. Fu per tale motivo che lo sguardò
dell’uomo si abbassò sulla penisola, su cui gli inviti per l’inaugurazione
erano fermi immobili, in attesa.
*
Che
l’inaugurazione del night club sarebbe stata un successo Jack lo capì appena
mise piede giù dall’auto in compagnia di Nathan quella stessa sera. L’autista
fermò la berlina nera proprio in corrispondenza del tappeto rosso che era stato
srotolato dal marciapiede all’ingresso, permettendo ai due giovani di scendere.
Come Jack posò piede in terra uno scroscio di applausi si sollevò fra le
persone presenti, in attesa in fila dietro a transenne e i fotografi presero a
scattare foto di colui che era il protagonista di quella serata.
«È
pazzesco!» esclamò Nathan appena si rese conto di quello che stava succedendo,
voltandosi verso Jack.
«Sì,
lo è» rispose l’altro, con tono disinvolto. «Ora, tu entra e, per favore, dai
poco nell’occhio. Io sistemo un paio di cose e ti raggiungo.»
Superarono
insieme l’ingresso principale, scomparendo alla vista dei fotografi e delle
centinaia di persone in attesa. Fatta eccezione per il limitato numero di individui
a cui Jack aveva dedicato un VIP pass – differente e più importante rispetto al
normale invito – il club non aveva ancora effettivamente aperto. Dentro ci
saranno state si e no settanta persone, distribuite su diversi tavoli e intente
a consumare la cena inaugurale del nuovo night – e ristorante – di Jack. Il
ragazzo si fermò al bancone della reception, proprio accanto all’ingresso,
mentre Nathan scostava la tenda di velluto blu ed entrava nella sala
principale.
Sul
bancone i VIP pass erano tutti finiti, fatta eccezione per due. Il primo di
quelli rimasti era di Riley, ma Jack non fu sorpreso di vederlo lì, nonostante
ne fosse dispiaciuto. Si ritrovò a sperare che la ragazza cambiasse idea o
programmi e che facesse la sua apparizione al night club, anche se per soli
cinque minuti. La sua mattina era iniziata bene e il pomeriggio aveva, invece,
stravolto tutto quanto. Per quanto fosse soddisfatto della quantità di presenti
all’inaugurazione non poté fare a meno di sentire nuovamente la rabbia montare
al pensiero della lite con suo padre e avrebbe voluto potersi sfogare
parlandone con qualcuno, magari proprio con Riley. Tuttavia lei non c’era.
Fece
scorrere gli occhi sul nome scritto in bianco sul secondo dei pass non ritirati
e lesse quello di Louis Walker. Un sapore amaro gli
invase la bocca immediatamente. Si sentì improvvisamente uno stupido. Stupido
per aver creduto che Louis sarebbe veramente venuto dopo tutto quello che era
accaduto e stupido perché si era illuso che tutto ciò che di spiacevole era avvenuto
fra loro si potesse rimediare con un invito a cena a seguito di una conversazione
nata per caso e chiaramente imbarazzata.
Un
senso di inadeguatezza cominciò a pervaderlo. La rabbia e la frustrazione
sopraggiunsero più vivide che mai. Due sensazioni che non provava da settimane
si ripresentarono roventi e corrosive dentro di lui, chiudendogli lo stomaco e
serrandogli la gola. Doveva sovrastarle subito prima che potessero rovinargli
la sua serata.
Sentì
qualcuno arrivare verso di lui. Sollevò gli occhi dal nome di Louis e vide Tony
sbucare da dietro la tenda di velluto, sorridendo nella sua direzione. Tony era
un uomo con cui conveniva non scherzare; grande e grosso, l’espressione
benevola dei suoi occhi scuri poteva diventare la più spaventosa che si potesse
incrociare se qualcuno gli faceva un torto. Un tranquillo impiegato di giorno,
il più efficace pusher che Jack avesse mai incontrato di notte.
«Come
va, amico?» chiese Jack, cercando di ricomporsi il più in fretta possibile.
«Benone.
Si preannuncia una gran serata» rispose Tony. «Grazie per i VIP pass. Io e i
ragazzi li abbiamo molto apprezzati.»
Un
sorriso incurvò un angolo della bocca di Jack. «Figurati. Ve li siete
meritati.»
Ai
due bastò uno scambio di sguardi. Tony capì subito cosa il più giovane stava
cercando da lui e non gli servì fare altre domande o cercare altri cenni. Con
una disinvoltura che aveva dell’incredibile perfino per Jack si avvicinò e
diede la mano al ragazzo, trasformando il gesto in un abbraccio piuttosto
sbrigativo.
«Sei
rimasto fuori dal giro per un po’, vacci piano» disse infine con una strizzata
d’occhio.
Jack
gli sorrise e lo guardò rientrare nella sala. Infine abbassò distrattamente lo
sguardo sulla mano, una smorfia incomprensibile a increspargli il viso. Fra le
dita stringeva un piccolo sacchetto trasparente appallottolato stretto e pieno
di una finissima polvere bianca.
Nel
salottino privato del primo piano la musica giungeva ovattata. Nella pista
centrale del night – proprio sotto quella stanza – i dj facevano del loro
meglio per offrire ai presenti una serata di puro divertimento, grazie alla
musica sparata a volumi altissimi. I barman stavano servendo cocktail a tutto
spiano e con molta probabilità anche gli addetti alla sicurezza erano piuttosto
impegnati. Il night club era pieno. Quasi ogni invito distribuito da Jack aveva
ottenuto riscontro positivo e fuori dall’ingresso c’erano addirittura altre
persone che chiedevano di poter entrare. Un autentico successo.
Tuttavia
Jack non si trovava nella sala principale del locale a ricevere i complimenti e
le congratulazioni da parte di tutti. Dopo la cena e qualche drink in
compagnia, proprio quando il night aveva cominciato a riempirsi, il ragazzo si
era alzato e aveva raggiunto la saletta del primo piano, quella privata
esclusivamente per lui. Si era seduto sul divano in pelle, le luci soffuse
intorno e vi era rimasto.
Per
quanto tutto stesse procedendo per il meglio, non lo stava facendo per lui.
Jack aveva ripensato tutta sera alla lite avuta con il padre e continuava a
pensarci anche in quel momento, isolato da tutto il resto. Gli tornarono ancora
alla mente le parole che Benjamin aveva detto e al tono con cui le aveva
pronunciate. Si chiese quanto ci fosse di vero e la risposta – anche se si
trattava più di una supposizione – lo fece innervosire ulteriormente. Ormai era
adirato; lo era verso la sua famiglia che aveva dubitato di lui, verso Louis e
Riley che non erano venuti a festeggiare quello che era il suo nuovo inizio e
verso se stesso. Jack era furente con sé proprio per il fatto di volere
ugualmente accanto tutte quelle persone in quel preciso momento, per un motivo
che non riusciva a capire ma che lo faceva innervosire sempre di più.
Smise
di giocherellare con la mezza cannuccia da cocktail che teneva in mano, gli
occhi fissi sul basso tavolino che aveva davanti. Le iridi grigio-azzurre erano
puntate da ormai diversi minuti su tre file simmetriche di leggera polvere
bianca, disposte ordinate sul piano del tavolo come in attesa.
Per
cinque mesi Jack non ne aveva sentito il bisogno; per tutto quel tempo era
riuscito a stare bene anche senza l’assunzione di cocaina. Tuttavia quella sera
sentì che da solo non avrebbe mai potuto farcela. Troppe erano le sensazioni
avvilenti e frustranti che si erano amalgamate in lui, troppo il tempo
trascorso dall’ultima volta che si era sentito tanto male e tanto solo. Non
conosceva altro modo per uscire da quella situazione che già più volte aveva
vissuto, se non quello di annullarsi completamente, costringendo la propria
mente a pensare a tutt’altro.
Buttò
fuori una lunga boccata d’aria e avvicinò la testa al piano del tavolino,
usando la cannuccia per poter inspirare in sequenza ciascuna delle tre strisce
di polvere bianca. Ritrasse indietro la testa e tirò su con il naso. Nel
sacchetto che Tony gli aveva dato c’era ancora della droga. Jack preparò altre
tre strisce, ma prima di poterle consumare sentì la porta aprirsi. Nathan entrò
sorridente, ricomponendo il nodo sfatto della cravatta.
«Si
può sapere perché te ne rimani chiuso qui? Di sotto è tutto pazzesco» disse il
ragazzo, richiudendosi la porta alle spalle. Come puntò lo sguardo su Jack,
notando lo stato in cui era e intuendo ciò che aveva appena fatto, si bloccò,
divenendo improvvisamente serio. Jack rimase a guardarlo, le labbra schiuse, le
sopracciglia alzate, lo sguardo puramente provocatorio. Nathan vide la camicia
sgualcita, le maniche arrotolate fino ai gomiti in maniera grossolana.Chiunque avrebbe potuto intuire che qualcosa non
andava in Jack; Nathan era stato tempo sufficiente in una comunità di recupero
per tossicodipendenti – dove, oltretutto, aveva incontrato proprio Jack – per
saper riconoscere lo sguardo di qualcuno che era in procinto di farsi del male.
«Che
stai facendo?» esplose, raggiungendo subito Jack e tentando di togliergli dalle
mani la cannuccia che l’altro aveva usato per dare la prima aspirata.
Jack
si liberò in fretta. Per quanto fosse magro le sue braccia erano comunque
forti. Si alzò e dopo aver afferrato Nathan per la giacca del completo lo
spinse indietro finché il ragazzo non inciampò contro uno dei divani, cadendovi
sopra. Jack allora lo lasciò andare e rimase a fissarlo, cominciando a sudare. La
sua fu una lunga e gelida occhiata. Si sistemò nuovamente al suo posto dopo che
il respiro – che si era fatto più ansante – fu tornato regolare. Guardò Nathan
negli occhi e con un’espressione beffarda sollevò davanti al volto la
cannuccia.
«Perché
non ci arrivi?» ringhiò in direzione dell’altro. Nathan si fece improvvisamente
piccolo sul divano, l’espressione insicura dipinta negli occhi.
«È
grazie a questo che siamo qui. Tutte le persone che sono di sotto, in quello
che tu definisci pazzesco, sono qui per questo.»
Continuava
ad agitare la cannuccia a mezz’aria, gli occhi gli si erano fatti
improvvisamente inespressivi. Nathan non aveva mai visto Jack in quello stato e
ne fu quasi spaventato.
Jack
riprese a parlare, inumidendosi le labbra e scorrendo sul divano così da
riuscire ad avvicinarsi all’altro. «Sappiamo benissimo entrambi che non si esce
da qui. Se ci sai convivere puoi controllare tutte le persone che sono di
sotto.
«E
io so che vorresti poterlo fare. Quanti uomini hai visto con cui ti piacerebbe
finire a letto, eh?»
Nathan
non riuscì a capire dove Jack volesse arrivare. L’espressione del ragazzo era
mutata ancora e i lineamenti perfetti del suo viso erano tirati e nervosi.
Parte del discorso sconclusionato che Jack aveva appena fatto era certamente
attribuibile alla droga. Tuttavia Nathan sentiva che l’altro aveva ragione. Era
più che probabile che la maggior parte delle persone nel night club avessero un
secondo fine oltre al fatto di passare una serata fuori, un fine che aveva a
che fare con vizi e piaceri artificiali. Nathan era convinto di esserne uscito,
ma vedendo Jack, vedendo quello che era in attesa sul tavolino che aveva
davanti, uno strano fremito percosse il ragazzo; un bisogno che non provava da
tempo si instillò in lui lentamente. Sollevò gli occhi su Jack, il cui viso era
increspato da un sorriso strafottente.
«Quando
questo posto sarà decollato, e credimi, lo farà, avrò bisogno solo della gente
migliore. Non di mammolette che scappano e si tirano indietro» disse poi Jack,
appena lo sguardo di Nathan si posò nel suo. Porse la cannuccia al ragazzo:
«Credi di essere uno dei migliori?»
Nathan
rimase a guardarlo per un lungo momento, infine accettò la sfida. Prese la
cannuccia dalle mani di Jack e si avvicinò a lui, chinandosi ad aspirare in un
colpo solo una delle strisce di polvere bianca. Subito dopo tornò a guardare
Jack e il sorriso trionfale che aveva. Quest’ultimo si protese verso di lui e
lo baciò, posando con forza le sue labbra a contatto di quelle dell’altro.
«Bravo
ragazzo. Non te ne pentirai, vedrai» disse infine.
*
Qualcosa
dentro Riley non la faceva sentire tranquilla. Aveva una strana sensazione alla
bocca dello stomaco e quando arrivò all’ingresso del night club e vide la gente
che premeva contro le transenne pregando di entrare, quella strana sensazione
si intensificò.
Mostrò
l’invito all’addetto alla sicurezza e questo la lasciò passare. La differenza
di temperatura del locale rispetto all’esterno era da star male. Riley si sentì
soffocare nello scialle che aveva preso per coprirsi le spalle. Lo fece
scivolare in gran fretta fino ai gomiti, avvolgendolo all’altezza della vita.
Si guardò intorno, fra la marea di persone presenti nel night. Si sentì
sollevata nel constatare di non essere quella vestita in modo più
elegante.Elizabeth le aveva detto che i
night club prevedevano l’abito per le donne.
L’amica
l’aveva convinta, quello stesso pomeriggio, a rinunciare a buona parte del loro
programma serale per partecipare all’inaugurazione a cui Jack l’aveva invitata.
In verità era stata Riley a far intendere che aveva pensato di andare e
Elizabeth non aveva fatto altro che darle la spinta finale. La ragazza si era
quindi sistemata nel pomeriggio e prima di uscire la sera aveva indossato il
suo vestito preferito – quello rosso con sottili spallini, stretto in vita a
dalla gonna ampia fin poco sopra le ginocchia – e aveva legato i lunghi capelli
biondi in uno stretto, quanto ordinato, chignon. Intorno alle undici e mezza si
era congedata da Elizabeth e aveva raggiunto il night club.
Cercò
di scorgere Jack fra le persone, ma la quantità di gente presente rendeva
l’operazione pressappoco impossibile. Non poteva certo negare che
l’inaugurazione era un successo e si sentì felice per il ragazzo nel vedere i
suoi sforzi ricompensati, tuttavia faticava a ignorare la strana sensazione che
ancora provava allo stomaco. Si fece largo fra le persone – il caldo e l’odore
di alcol e sudore sempre più intenso – continuando a guardarsi intorno. La
musica era troppo alta e assordante; le bastarono tutti questi fattori per
ricordarsi perfettamente per quale motivo i locali notturni non facevano per
lei.
Arrivò
fino al bancone di uno dei bar e si fermò. Non c’era traccia di Jack. Si ostinò
a scrutare fra le persone, desiderando sempre più intensamente di riuscire a
trovare il ragazzo.
«Ehi,
splendore. Che ne dici di bere qualcosa?»
Riley
si voltò in direzione di quella voce, scattando immediatamente sulla difensiva.
Davanti si trovò un ragazzo all’incirca della sua età, con capelli e vestiti
curati, ma con lo sguardo di chi aveva già bevuto fin troppo.
Gli
scoccò un’occhiata gelida. «Direi di no» rispose, andandosene subito dopo.
Cominciò
a sentirsi esasperata. Non c’era traccia di Jack e quel locale iniziava ad
andarle stretto. Tuttavia non si diede per vinta.
Improvvisamente,
vicino all’ingresso, cominciarono a sollevarsi svariate grida e applausi. Riley
si alzò in punta di piedi, cercando di capire a cosa fosse dovuto
quell’improvviso caos. Fra le teste riuscì a vedere di sfuggita un volto noto,
che avanzava a fatica fra la mare di persone che continuavano a rallentarlo per
tendergli la mano o dirgli qualcosa: era Benjamin Miller. Riley mantenne lo
sguardo su di lui mentre l’uomo le sfilava accanto e continuò a seguirlo.
Quando lo perse di vista si diresse nell’ultimo punto in cui lo aveva visto.
Non c’era più.
Spazientita,
la ragazza riprese a scrutare in tutto il locale. Finalmente, dopo quella che
le parve un’eternità, ritrovò l’uomo. Lo vide salire le scale di fretta,
seguito da una delle sue guardie del corpo e scomparire. Non sapendo che altro
poter fare, Riley mantenne gli occhi fissi sulla rampa nella speranza di vedere
tornare Benjamin in compagnia del figlio.
Rimase
in attesa per un lungo tempo. Arrivò a pensare che l’uomo non sarebbe più
tornato indietro, prima di rivederlo effettivamente sbucare da dietro la
parete; dovevano essere trascorsi almeno quindici-venti minuti. Benjamin
attraversò in fretta il corridoio in cima alle scale, sparendo nuovamente,
questa volta dietro la parete opposta.
Riley
intuì subito che qualcosa non andava. Il passo dell’uomo era frettoloso e
l’espressione, anche se vista solo di sfuggita, era tesa. La ragazza si sentì
divorare dalla spiacevole sensazione che l’aveva pervasa appena era giunta al
night club e qualcosa dentro di lei le disse che avrebbe fatto meglio a uscire
dal locale se sperava di scoprire ciò che di strano stava accadendo.
Assecondò
il suo pensiero. Si fece largo fra le persone presenti, spingendone anche
quando era necessario. Fece il possibile per raggiungere in fretta l’ingresso.
Appena fu fuori non perse neanche tempo a coprire le spalle con lo scialle.
Notando che all’entrata nulla sembrava diverso, Riley sgattaiolò nella stretta
via fra i due edifici, che sboccava nella strada in cui si apriva l’ingresso sul
retro del night club. Stette attenta a non dare nell’occhio, qualcosa le diceva
che era meglio non farsi notare.
Poi
la vide. Davanti all’uscita di sicurezza c’era un’ambulanza. I portelloni del
mezzo vennero chiusi in quel preciso momento, mentre la luce blu lampeggiava
insistente.Riley rimase immobile,
seminascosta nel buio. Sentì delle portiere di un’auto venire aperte e
istintivamente si voltò. Si accorse che Benjamin stava salendo sulla berlina
scura parcheggiata lì. Non si era sbagliata; il volto dell’uomo era teso e le
parve profondamente spaventato, addirittura terrorizzato. La sua mente si mosse
in fretta, collegando insieme i tasselli di quanto aveva visto e le sembrò che
il cuore le si fermasse. Un brivido gelido percosse la ragazza che si sentì
sbiancare in volto e la strana sensazione che aveva provato tutta sera la fece
sentire più oppressa che mai. Le mancò il respiro.
La
berlina partì, allontanandosi dal marciapiede e cominciando a seguire da vicino
l’ambulanza, la quale, svoltato l’angolo, azionò le sirene.
Riley
si appoggiò alla parete mentre continuava a seguire con lo sguardo il bagliore
blu che lampeggiava sempre più lontano fra gli edifici. Era convinta di aver
capito ciò che era successo. Su quell’ambulanza c’era sicuramente Jack e, con
molta probabilità, doveva essergli accaduto qualcosa di grave.
Davanti
al Washington Hospital Center Riley si fermò. Scrutò l’ingresso dell’edificio
per un lungo momento prima di avviarsi. Il taxi che l’aveva accompagnata fin lì
era già ripartito e l’idea di fare dietro fronte andarsene, venne allontanata solo grazie a una buona dose di
determinazione.
Riley
odiava gli ospedali; detestava tutto quello che vi era al loro interno: gli
odori, i rumori, i macchinari, le siringhe. Da adolescente aveva dovuto
trascorrervi dei mesi poiché la madre era in cura per una leucemia e quando la
donna era riuscita a guarire la ragazza aveva ripromesso a se stessa che non
avrebbe mai più messo piede in un ospedale se non strettamente necessario. Ogni
volta varcare la soglia le richiedeva un grande sforzo e quella sera non fu da
meno.
Davanti
alle porte scorrevoli dell’ingresso Riley fece mente locale. Le possibilità che
l’ambulanza che Benjamin aveva seguito fosse arrivata in quell’ospedale erano
molte. Trattandosi del figlio del Segretario di Stato e dell’ex Presidente
degli Stati Uniti, le procedure del pronto soccorso erano state certamente scavalcate
e con tutta probabilità Jack era già stato ricoverato in una delle
numerosissime stanze della struttura. Trovarlo era praticamente impossibile.
Eppure Riley non fece caso alle limitate possibilità che aveva di ottenere
informazioni sullo stato di Jack e, determinata, entrò nell’edificio.
Mentre
si avvicinava a passo sicuro verso la reception si rese conto di non sapere
cosa dire. Certamente Jack era stato registrato sotto un altro nome, era
impossibile che lo avessero ricoverato con quello vero; era uno scoop troppo
grande e i giornali di gossip non aspettavano altro se non sapere come mai
Logan Jackson Miller era stato portato via in ambulanza dal night club che
aveva appena inaugurato.
Arrivò
dalle addette alla reception. Entrambe si voltarono a guardarla.
«Buonasera»
disse la prima, dalla meravigliosa carnagione bruna.
Riley
costrinse il suo cervello a pensare in fretta, molto in fretta.
«Buonasera»
rispose.
Fece
quanti più collegamenti possibili, tutti nella speranza di riuscire a
indovinare il nome con cui probabilmente era stato registrato Jack appena
giunto in ospedale.
«Stavo
cercando una persona. È appena stata ricoverata qui» continuò, cercando di
prendere tempo.
Improvvisamente
la sua mente ebbe un’illuminazione. Una volta, tempo indietro, lei e Jack
avevano affrontato una strana conversazione sui nomi. Il ragazzo le aveva
rivelato di aver detto al padre che se mai avesse dovuto cambiare identità
avrebbe voluto essere Daniel Carter*, definendolo come “il nome giusto per non
essere più un Miller”.
«Di
chi si tratta?» domandò l’addetta.
«Daniel
Carter» rispose Riley, prontamente. Mantenne lo sguardo saldo, cercando di
apparire sicura. Non le sfuggì il leggero sussulto che la donna ebbe quando lei
smise di pronunciare il nome. Daniel Carter diceva loro qualcosa, lo intuì
dalla fugace occhiata che le due si scambiarono. Per quanto poteva sembrare
assurdo, Riley aveva fatto centro. Jack era lì come Daniel.
«Lei
chi sarebbe?» domandò l’altra addetta, guardandola con diffidenza.
«In
che senso?» chiese in risposta Riley, fingendosi ingenuamente colpita dalla
domanda.
«Non
possiamo dare informazioni sui pazienti se non ai parenti. E comunque qui non è
ricoverato nessun Daniel Carter» aggiunse in gran fretta.
Fu
la reazione che, al contrario, le diede la conferma di essere nel posto giusto.
Consapevole
che non sarebbe riuscita a ottenere informazioni precise, la ragazza sollevò le
sopracciglia, fingendosi sorpresa da ciò che le era appena stato detto. «Oh,
accidenti. Eppure mi avevano detto che si trovava qui. Proverò a fare una
chiamata. Grazie ugualmente.»
Si
accontentò del debole “Prego” che entrambe le addette le rivolsero, dopodiché
si diresse all’ingresso, fingendo di fare una telefonata. Dovette prestare
particolare attenzione, ma appena si accorse che le due erano di spalle,
intente a sistemare una voluminosa pila di carte, sgattaiolò in fretta e
imboccò il primo corridoio che si trovò davanti.
L’una
di notte era passata da un pezzo, ma svariati medici e infermieri incrociarono
la strada di Riley. Lei li salutò tutti educatamente, fingendo di essere nel
posto giusto e di sapere dove stava andando; se avesse dato nell’occhio poteva
scordarsi di proseguire la sua ricerca, l’avrebbero certamente allontanata se
avessero saputo chi stava cercando e dell’inesistente legame di parentela che
la univa a Jack.
Per
sua fortuna Riley conosceva quell’ospedale. I troppi giorni che vi aveva
trascorso anni prima, quando vagava per i corridoi nella speranza di distrarre
la mente dalla condizione fisica della madre, le avevano permesso di conoscere
le ali in cui l’edificio era suddiviso e dove fossero i vari reparti. Fece
mente locale senza fermarsi, sempre con lo sguardo alto e il passo sicuro. Salì
al terzo piano, quello in cui vi erano i ricoveri d’urgenza. La zona era più
trafficata e l’aria sapeva di sterile. Riley continuò a camminare, prestando
attenzione a ogni particolare che avrebbe potuto permetterle di identificare in
qualche modo la possibile presenza di Jack. Cercava il nome di Daniel Carter
ovunque, ascoltava i medici e gli infermieri quando passava loro accanto nella
speranza di sentirli pronunciare il suo nome, ma non ottenne nulla.
Le
parve di girare a vuoto da un’eternità quando la sua attenzione venne attratta
da due uomini, i completi scuri ed eleganti e lo sguardo imperscrutabile. La
ragazza aveva imparato a conoscerli proprio grazie a Jack: erano addetti alla
sicurezza. Sentendo un improvviso moto di gioia nascerle dentro, Riley osservò
i due uomini per un lungo momento, infine si avviò verso di loro con il solo
scopo di accertarsi con una fugace occhiata se era riuscita a trovare ciò che
stava cercando.
«Signorina.»
Qualcuno
la chiamò alle sue spalle, dal fondo del corridoio. Si voltò, notando un
infermiere che la guardava, parendo preoccupato. Gli occhi di Riley si mossero
in fretta, così come la sua mente, in cerca di qualche appiglio in grado di
fornirle una valida scusa.
«Dove
sta andando? Non può passare da questo corridoio.»
L’uomo
le si avvicinò. Riley cercò di non scomporsi. Notò l’indicazione per la
toilette proprio sul punto della parete accanto a cui era fermo l’infermiere e
abbozzando un sorriso disse: «Sto… sto solo andando al bagno» si finse
sorpresa.
Lui
arrossì lievemente. «Oh, mi scusi. È solo che sarebbe meglio non passare da qui.
Ma se deve andare solo al bagno faccia pure, mi scusi ancora.»
La
ragazza lo ringraziò e consapevole che avrebbe dovuto rendere credibile la sua
bugia, si avviò alla toilette. La porta del bagno era a metà del corridoio, ben
prima della porta che i due addetti alla sicurezza continuavano a sorvegliare.
Tuttavia Riley non ebbe più dubbi. Con il cuore che le martellava nel petto capì
di non essersi sbagliata in tutta la sera. Le sue supposizioni, per quanto
sarebbero potute apparire assurde e infondate, si erano rivelate vere. Una
parte di lei si ritrovò a sperare intensamente di essersi sbagliata; si ritrovò
a desiderare di aver pensato il peggio inutilmente, ma l’orrenda sensazione che
provava da tutta sera non era mai andata via e in quel momento la fece sentire
oppressa.
Uscì
dal bagno e si diresse nel corridoio che si intersecava con quello in cui si
trovava la stanza dove era ricoverato Jack. Prese posto su una delle panchine
sistemate apposta per le persone in attesa e si sciolse i capelli, appoggiando
la testa contro il muro. I liquidi occhi verdi si posarono sul pavimento,
sferzato di tanto in tanto da qualcuno del personale che lo attraversava.
Si
sentiva vuota e non aveva desiderato mai così intensamente come quella notte di
avere torto. Jack era stato ricoverato d’urgenza proprio la sera in cui la sua
nuova vita avrebbe dovuto avere inizio. Riley lo conosceva fin troppo bene e si
chiese come era stato possibile che dopo cinque mesi in cui lui sembrava
completamente cambiato, rinato e pulito,
il ragazzo fosse precipitato ancora in quel baratro che in più occasioni lo
aveva inghiottito, perché era certa che Jack si trovasse in quell’ospedale a
causa della droga. Respirò a fondo più volte, rendendosi conto di essere
impotente. Non poteva fare altro che aspettare e sperare con tutta se stessa
che Jack se la cavasse. I pensieri peggiori la invasero e le fu impossibile
scacciarli. Chiuse gli occhi nella speranza di riuscire ad alleviarli un po’ e
dopo molti e lunghi sospiri, si addormentò.
*
Il
sonno irrequieto di Riley venne interrotto dal rumore di numerosi passi che
rimbombavano, sopraggiungendo verso di lei lungo il corridoio. Si voltò in
quella direzione, sbattendo più volte le palpebre così da mettere a fuoco
perfettamente ogni cosa. Rimase stupita da quello che vide. Riconobbe subito la
donna che avanzava verso di lei; non ci riuscì solo grazie alle numerose
testate giornalistiche su cui il suo volto era spesso riprodotto, né
esclusivamente per via di tutte le volte in cui l’aveva vista in televisione
mentre la scritta Segretario di Stato
splendeva come un monito in sovrimpressione. Nicole Miller era la madre di Jack
e furono proprio queste sembianze che permisero a Riley di riconoscerla
immediatamente.
La
presenza della donna fu l’ennesima conferma del fatto che la ragazza si trovava
nel posto giusto al momento giusto e un ulteriore pensiero spiacevole si andò
ad accumulare a tutti gli altri che lei aveva raccolto nell’arco della sera e
della notte.
Rimase
a guardare Nicole sfilarle davanti, l’espressione risoluta, seguita da un uomo,
certamente la sua guardia del corpo.
Riley
si mosse istintivamente; scattò in piedi. «Signora Miller» disse.
La
guardia del corpo si voltò per prima, cominciando a fissare Riley con sospetto.
La ragazza notò che si era irrigidita, probabilmente pronta ad agire in caso di
necessità. Nicole si girò subito dopo, lo sguardo molto serio rivolto alla
ragazza. Riley si sentì a disagio, ma arrivata a quel punto non aveva nessuna
intenzione di demordere. Avrebbe saputo cos’era successo a Jack e, soprattutto,
come stava.
Distolse un momento lo sguardo da quello di
Nicole, facendolo vagare in fretta lungo il corridoio, infine riprese parola:
«Signora Segretario» disse insicura, come per correggersi per averla chiamata
con il proprio nome solo pochi attimi prima. «Mi scusi se la disturbo ma…
vorrei sapere come sta Jack.»
Il
cuore le premeva in gran fretta contro la gabbia toracica, come sul punto di
schizzar fuori. Riley mantenne gli occhi saldi su Nicole, ma non le sfuggì il
lampo che attraversò lo sguardo della donna. Era diffidente e continuava a
fissare la ragazza con occhi gravi, come disgustata dal fatto che Riley le
avesse rivolto la parola. Quest’ultima prese a tormentarsi le mani all’altezza
della vita, innervosita dall’improvviso silenzio.
«E
lei chi è?» domandò infine Nicole. Sembrava non avesse degnato di attenzione la
domanda di Riley e continuava a fissare la ragazza con sospetto in modo altezzoso.
«Mi
chiamo Riley. Non so se Jack le ha mai parlato di me, sono la sua vicina di
casa.»
Ciò
che aveva appena detto le suonò ridicolo. Si sentiva più di una semplice vicina
di casa, ma era improbabile che a Nicole importasse qualcosa. La donna
continuava a osservarla dall’alto, severa, con l’espressione di qualcuno che
non ha voglia di perdere tempo.
«Sì,
mio figlio me ne ha accennato» rispose Nicole, dopodiché indietreggiò di un
passo, cosa che fece intuire a Riley che era in procinto di andarsene.
«Aspetti,
la prego» la fermò la ragazza. Respirò a fondo cercando le parole migliori.
Doveva
far capire alla donna che lei sapeva ciò che era successo a Jack proprio perché
fra di loro c’era un legame molto più saldo di quello che condividono due
persone che abitano accanto. Sperò che, così facendo, le venisse permesso di
incontrare il ragazzo.
Riley
si sentì indagata da due paia di occhi severi, ma nonostante tutto fece il
possibile per apparire sicura. «Mi creda, conosco molto bene suo figlio. So
tante cose di Jack e conosco…» si interruppe, cercando le parole migliori,
infine abbassò lo sguardo. «Conosco quelli che sono i suoi sbagli. Voglio solo sapere come sta, dico davvero.»
Definire
sbagli la dipendenza da sostanze
stupefacenti le suonava strano, ma non aveva trovato termine migliore. Si morse
il labbro in attesa della replica da parte di Nicole, non sapendo che altro
aggiungere.
La
risposta della donna non si fece attendere. Nicole parlò con voce austera, come
Riley l’aveva sentita più volte fare in televisione o ai comizi; incuteva quasi
timore. «Mi creda, signorina. Anche ammesso che mio figlio si trovi in questa
struttura non permetterei mai a nessuno di vederlo o di sapere del suo stato di
salute. Soprattutto a chi dice di conoscerlo bene. Buona giornata.»
Girò
sui tacchi e si avviò senza aggiungere altro, seguita dalla sua guardia del
corpo. Riley la guardò allontanarsi, sentendo il respiro mozzato. Nicole
l’aveva trattata con una tale freddezza che non avrebbe creduto possibile e le
informazioni che aveva raccolto su Jack erano vaghe come fumo. Tornò a sedersi
sulla panchina, appoggiando nuovamente la testa contro la parete, un senso di
delusione e sconfitta brucianti dentro di sé. La sua mente cominciò a ricordare
le parole di una canzone a cui ripensava spesso e lei prese a mormorarne le
strofe, mentre gli occhi cominciavano a bruciare per via di lacrime che
pungevano sempre più insistenti.
«Ifyougave me a chance I wolud take it. It’s a shot
in the dark butI’llmakeit…»
Non
le importava se Nicole non le avrebbe permesso di vedere Jack, lei avrebbe
fatto qualsiasi cosa pur di sapere come stava, anche se ci sarebbero voluti dei
giorni. Avrebbe aspettato.
*
Riley
rimase in attesa sulla stessa panchina per tre giorni. Per tutte quelle ore non
aveva mai perso la determinazione, né tantomeno la voglia, di sapere come stava
Jack. Tuttavia, intorno alle sette di sera del terzo giorno, la sua fermezza
cominciò a vacillare.
Ogni
giorno era rimasta seduta su quella panchina, in quell’ospedale, uscendo solo
al mattina presto per andare a casa a cambiarsi d’abito, a fare colazione e per
prendere soldi a sufficienza per più caffè e due pasti alla caffetteria
dell’ospedale; dopodiché ripercorreva il tragitto fino alla panchina e vi
sistemava di nuovo, sempre in attesa.
Aveva
incontrato Nicole ancora. Più volte in una giornata la donna le passava davanti
senza degnarla di uno sguardo, mentre la guardia del corpo che la seguiva –
sempre la stessa – scrutava la ragazza con diffidenza. Anche Connor e Benjamin
passavano spesso, ma anche loro non parevano interessanti a sentire ciò che
Riley aveva da dire, né di informarla sullo stato di Jack – sempre ammesso che
fossero a conoscenza del perché la ragazza si trovasse lì.
A
parte tutto ciò, Riley era piuttosto sicura che Jack si fosse ripreso. Il
giorno prima il via vai di medici e infermieri intorno alla sua stanza si era
fatto più insistente e la ragazza era rimasta vigile per poter catturare quante
più informazioni possibili. Sentire una delle infermiere che diceva a un medico
“Si è svegliato. Sì, si è svegliato” le aveva permesso di capire che la
condizione di Jack doveva essere migliorata rispetto alla sera in cui lo
avevano ricoverato, ma non la tranquillizzò più di tanto.
Il
tempo che trascorreva sola, in un ambiente che non le aveva mai permesso di
fare pensieri felici, l’aveva portata a compiere supposizioni e teorie su come
potevano essere andate le cose prima che il ragazzo fosse portato via in
ambulanza. Le ipotesi plausibili, però, sfociavano tutte nella stessa
conclusione. Erano cinque mesi che Jack pareva rinato. Cinque mesi in cui,
Riley lo aveva capito, alcol e droga non avevano potuto scalfire e abbattere il
suo stato d’animo. La sera dell’inaugurazione, invece, le debolezze di Jack
dovevano aver preso il sopravvento. Il bisogno fisico – o più probabilmente
quello mentale – avevano impedito al
ragazzo di superare l’allontanamento dai suoi vizi e lo avevano portato al
confine fra la sopravvivenza e l’annullamento.
La
ragazza cercò per l’ennesima volta di scacciare quei pensieri, desiderando ardentemente,
ancora una volta, di essersi sbagliata. Poteva essere successo qualsiasi cosa a
Jack, anche un malessere improvviso, un incidente di qualche tipo. Tuttavia una
parte di lei continuava a ripeterle di non farsi illusioni e che quasi
certamente le sue ipotesi non erano campate in aria. Riley lo sapeva, lo aveva
sempre saputo che Jack era instabile, una figura che sarebbe potuta crollare da
un momento all’altro. Aveva sempre voluto fare qualcosa per lui ma, complice
anche quello che era avvenuto fra loro ormai mesi prima, non era mai riuscita a
fare niente se non dimostrargli la sua amicizia e vicinanza quando lui ne aveva
bisogno.
Si
strinse nelle spalle, raggomitolandosi per quanto le era possibile fare stando a
sedere sulla panchina in cui si trovava ancora. Dalle vetrate alle sue spalle
il cielo cominciava a virare, intensificando le sfumature arancioni del
tramonto imminente. Riley rimase a fissare il pavimento che aveva davanti nella
remota speranza di riuscire a pensare ad altro, ma la sua sicurezza era davvero
sul punto di scivolarle di dosso per separarsi definitivamente da lei. Sentì
gli occhi che le si riempivano di lacrime, il respiro sempre più corto. Non
voleva piangere. Non lo aveva fatto nei giorni precedenti, anche se era stata
in procinto più volte e non lo avrebbe fatto neanche quella sera.
Ignorò
completamente i passi lungo il corridoio, ormai ne sentiva così tanti che la
lasciavano indifferente. Un paio di eleganti scarpe nere senza tacco si fermò
sotto agli occhi della ragazza. Riley sollevò subito la testa, sorpresa.
Davanti a lei era ferma Nicole Miller intenta a osservarla severamente come
aveva fatto anche giorni prima. Questa volta era sola, non vi era traccia della
sua guardia del corpo.
Riley
resse lo sguardo, ma si convinse che, a breve, la donna l’avrebbe cacciata da
quel posto – anche se si chiese come mai, se lo avesse veramente fatto, aveva
aspettato tutto quel tempo. I secondi che rimasero a guardarsi rimbombarono
nella testa della ragazza, che non riuscì a muoversi o a dire qualsivoglia
cosa.
Nicole
non staccò mai lo sguardo grave da Riley; tuttavia, improvvisamente, alla ragazza
parve che una leggera sfumatura di tenerezza schiarì i suoi occhi castani. La
donna ispirò a fondo prima di parlare.
«Mio
figlio ha chiesto di te.»
*Daniel Carter : se alcuni di voi hanno già
letto altri miei lavori, sapranno certamente quanto io sia appassionata – se non
addirittura fissata – con il rugby. Lo sono a tal punto che mi piace “infilare”
qualche riferimento a questo sport anche quando non c’entra niente.
Nel caso
di questa storia, il riferimento al mondo rugbistico lo faccio attraverso il
nome di Daniel Carter, ovvero il mediano d’apertura degli All Blacks, la nazionale a XV della
Nuova Zelanda.
Davanti
alla porta della camera di Jack, Nicole si fermò. Si voltò verso Riley, che
l’aveva seguita in silenzio dopo che la donna le aveva rivelato che il ragazzo
voleva vederla.
Nicole
osservò per un lungo momento la ragazza, il suo sguardo non era più severo, né
diffidente. A Riley parve solo stanco.
«Vi
do dieci minuti. Mio figlio ha bisogno di molto riposo» disse la donna.
Riley
annuì con il capo, mormorando un leggero “Grazie” prima di superare Nicole ed
entrare nella stanza. Un forte senso di disagio la pervase come varcò la
soglia. Era già la seconda volta nell’arco di dieci anni che entrava in una camera
d’ospedale con la consapevolezza che, distesa sul letto, c’era una persona che
amava. Il silenzio era opprimente, interrotto soltanto dal suono del
cardiofrequenzimetro che monitorava il battito cardiaco di Jack. Riley sentì
Nicole chiuderle la porta alle spalle e con passo insicuro si avvicinò al letto
posto al centro della stanza. Notò diverse sedie lì intorno e dedusse che non
doveva certo essere l’unica ad aver aspettato seduta per giorni il risveglio di
Jack. In fin dei conti aveva visto più volte Nicole in ospedale e non solo lei,
ma anche Benjamin e Connor.
Jack
era disteso sul letto, avvolto in un bozzolo di morbide lenzuola bianche che
aveva però fatto scivolare fino al petto. Teneva il viso rivolto al soffitto e
appena sentì Riley si voltò verso di lei. La ragazza le parve una visione in
quei suoi vestiti leggermente larghi, i capelli raccolti in una lunga treccia
che le ricadeva sulla spalla e gli occhi verdi puntati su di lui. Si sentì
infinitamente grato ad averla lì ed era più che determinato a raccontarle la
verità.
«Ehi»
la salutò, la voce bassa e leggermente roca per via dalle troppe ore di sonno e
dal malessere fisico.
Riley
sorrise, una strana amalgama di emozioni a stravolgerla da dentro. Si sentiva
felice nel vedere Jack rivolgerle un sorriso – per quanto flebile – e fu vagamente
lusingata dalla consapevolezza che il ragazzo avesse espressamente chiesto di
lei. Tuttavia si sentì anche tremendamente impotente e amareggiata. Non poteva
sopportare di vedere Jack in quello stato, soprattutto con la consapevolezza
che si era fatto tutto quel male da solo.
«Ciao»
disse infine Riley, sistemandosi sulla sedia vuota accanto al letto. «Come ti
senti?» chiese poi, ricordandosi di avere solo una decina di minuti a
disposizione.
Un
altro leggero sorriso increspò le labbra del ragazzo. «Su un baratro. Ma i
medici dicono che mi riprenderò.»
Le
parole uscivano strascicate dalle sue labbra. Riley intuì che Jack doveva aver
portato il suo corpo davvero al limite se quelle erano le conseguenze. Dormiva
dadue giorni ma sembrava che non
chiudesse occhio da tempo e il battito del suo cuore – registrato attimo per
attimo – era lento, quasi stanco.
«Sono
contento di vederti» riprese a parlare lui. «Sei rimasta là fuori ad aspettare
per tre giorni» disse, gli occhi grigio-azzurri più spenti e opachi del solito.
Tuttavia il leggero sorriso che gli incurvava le labbra continuava a rimanere
al suo posto.
«Tu
hai dormito per due» rispose prontamente Riley, con dolcezza.
«Come
hai fatto a sapere che ero qui?»
Lei
si strinse appena nelle spalle, allontanando lo sguardo. «L’ho dedotto.»
Raccontò
a Jack di quello che era successo. Gli disse che, alla fine, era andata al
night club per poterlo incontrare e trascorrere un po’ di tempo con lui. Gli
raccontò di aver visto suo padre entrare nel locale e di averlo seguito quando
si era accorta che l’uomo era turbato da qualcosa. Infine gli disse di aver
raggiunto l’ospedale e di averlo trovato come Daniel Carter ricordandosi della
loro vecchia conversazione e di aver deciso di aspettare seduta fuori nel
corridoio pur di sapere come stava. Il suo racconto non durò a lungo. Riley
saltò ogni dettaglio nella speranza di guadagnare tempo così da conoscere cosa esattamente era successo a Jack. Era
questo che le premeva sapere più di ogni altra cosa.
Quando
lei si zittì, Jack dovette ammettere a se stesso di sentirsi colpito. Era
felice di sapere che Riley aveva fatto così tanto pur di sapere come stava. La
ragazza era una sorpresa continua.
«Quello
che hai fatto significa molto per me» le rivelò poco dopo, non trovando parole
migliori. Riley si limitò a sorridere e Jack trovò che fosse giusto, nei suoi
confronti, dirle cos’era successo. «Non volevo farmi del male l’altra notte,
devi credermi.»
Lei
abbassò lo sguardo sulle proprie mani, intente a tormentare il laccetto della
felpa. «Jack» esordì, dopo un lungo sospiro. «Io ti credo, sai che mi fido di
te. Ma come puoi dire che non volevi farti del male se ogni volta che assumi
droga te ne fai un po’?»
Era
una domanda retorica e colpì duramente il ragazzo. Jack non aveva mai detto a
Riley di fare uso di droghe e non avrebbe mai voluto farlo. Era una cosa di cui
non andava fiero e sapeva che avrebbe profondamente deluso la ragazza, cosa che
non voleva in alcun modo accadesse.
«Lo
sapevi?» le chiese, sconvolto. Il cardiofrequenzimetro registrò un picco più
intenso.
Riley
si morse il labbro inferiore, stringendosi nelle spalle e annuendo lievemente. «Lo
avevo capito da tempo. Dovresti saperlo che mi piace notare i particolari. E
quando tieni molto a qualcuno è come se i dettagli si intensificassero.
Ignorarli diventa impossibile.»
Jack
si portò le mani al volto, un gesto che parve richiedergli un grande sforzo.
Inspirò a fondo e, quando parlò, subito la sua voce parve incrinarsi: «Ho
provato a smettere. Ma ogni volta non ci riesco.»
Il
tono cominciò a caricarsi di rabbia e frustrazione: «Ogni volta che mi convinco
di aver superato la dipendenza, o almeno di averla arginata, combino qualcosa
che mi ci fa ricadere dentro e non riesco più a trovare la forza per impedirlo.»
Guardò
la ragazza, gli occhi chiari profondamente amareggiati. Era un discorso troppo
intenso, troppo profondo. Quel genere di discorsi che Jack non aveva mai
imparato veramente ad affrontare, ma che sembravano in qualche modo più
semplici, o meno difficili, se con lui c’era Riley.
«Gli
unici momenti in cui non ho bisogno di quella roba sono quando sto con te. Ma
dopo quello che ti ho fatto…» si interruppe.
«Non
mi hai fatto niente, Jack. Altrimenti non sarei qui» rispose lei con fermezza.
Sentiva di aver ormai superato quella notte che avevano trascorso insieme ormai
mesi prima e voleva che anche il ragazzo lo facesse. I sensi di colpa
rischiavano di rovinare un legame che con molta lentezza si stava ricucendo e
che quella sera – Riley se lo sentiva – avrebbe certamente risaldato insieme.
La
ragazza approfittò del silenzio che si era formato al termine della sua
affermazione per respirare a fondo, così da poter poi ricominciare a parlare: «Tu
pensi di non essere importante per qualcuno o che a nessuno interessi di te? È
questa tua convinzione che ti riporta nel vortice della droga ogni volta?
Perché se è per questo e ti basta sapere di importare veramente a qualcuno
perché tu la smetta di farti del male, beh… io tengo a te, tantissimo ed ero
veramente felice ogni volta che lo eri tu. Non voglio perderti per colpa della
droga. Solo che ho veramente paura che possa accadere un giorno.»
La
ragazza pronunciò ogni parola con voce ferma, senza però guardare negli occhi
Jack. Quello che aveva appena detto la fece imbarazzare, ma aveva sentito il
bisogno di dire al ragazzo ciò che sentiva.
Jack
rimase a fissarla, un vasto conflitto emotivo a scuoterlo dentro. Sapeva di
avere deluso Riley e di aver tradito la sua fiducia in qualche modo. Tuttavia
si sentiva anche profondamente felice e grato per quello che la ragazza aveva
detto. Posò la propria mano su quelle di Riley, che lei ancora teneva in
grembo. La ragazza fu attraversata da una leggera scossa quando sentì il tepore
della mano di Jack. Lo guardò subito.
«Mi
dispiace. Non mi sono comportato bene nei tuoi confronti. E pensare che tu per
me ci sei sempre stata» le disse il ragazzo, una nota di amarezza nella voce.
Riley
abbozzò un sorriso: «Non tormentarti per questo. Credo che tu abbia già pagato
le conseguenza della tua dipendenza.»
Jack
non replicò. Distolse leggermente lo sguardo. Tuttavia Riley era intenzionata a
sapere fino in fondo cos’era successo al ragazzo e, soprattutto, a capire
quella che era stata la causa della sua nuova ricaduta.
«Perché
lo hai fatto? Ero convinta che avere finalmente il tuo night club ti rendesse
felice.»
Non
le serviva specificare nulla. Era impossibile che il ragazzo non avesse inteso
ciò di cui stava parlando. Lui respirò a fondo, allontanando la mano da quelle
di Riley e prendendo a scrutare il soffitto.
«Mi
sentivo solo» ammise.
Cominciò
a raccontare alla ragazza tutto. Le disse dell’incontro con Louis e del fatto
di averlo invitato all’inaugurazione. Le raccontò della lite avuta con il padre
e di ogni cosa che si erano urlati contro; di come la sua assenza e quella di
Louis fossero stati per lui un colpo durissimo e di come la rabbia, la
frustrazione e la sua cocciutaggine avessero fatto il resto.
«Volevo
trovare un modo per non pensare più a niente. Avevo bisogno di distrarmi, di
annullarmi completamente. È sempre stato questo il motivo della mia dipendenza.
Ho sempre assunto droga per annullarmi. Non per sentirmi meglio, ma per non
sentire niente.
«Quando
ho cominciato l’ho fatto perché non sapevo cos’altro fare per evitare che la
realtà mi facesse troppo male. Cercavo in ogni modo di superare lo stress e le
tensioni a cui ero soggetto per via della situazione che avevamo in famiglia.
Essere un Miller ha sempre comportato degli oneri e delle etichette in cui non
mi riuscivo a immedesimare, ma che con l’uso di sostanze mi andavano un po’
meno strette.
«Più
i riflettori erano puntati su di noi, più sentivo il bisogno di assumere
qualche genere di droga per non scoppiare. Così facendo però aumentavano le
liti famigliari e di conseguenza i riflettori puntati sulle nostre vite. È un
circolo vizioso da cui non sono mai riuscito a uscire.»
La
dichiarazione di Jack impedì a Riley di replicare. Ripensò attentamente a
quello che le era stato detto prima di parlare. Sapeva già che il legame del
ragazzo con la sua famiglia non era dei più semplici, sapeva già che per lui
era complicato riuscire a sopportare le liti e le discussioni che spesso
nascevano a causa di una convivenza forzata che i membri della famiglia Miller
avevano con la stampa e i cacciatori di gossip. Da quando aveva intuito che
Jack assumeva droghe e conoscendolo come lo conosceva lei, aveva iniziato a
sospettare che tutto fosse cominciato proprio perché lui non riusciva a
sostenere, né a sopportare, di avere una vita perennemente giudicata da
estranei.
Con
la dolorosa ammissione che Jack le aveva appena fatto, Riley ebbe modo di
capire che i suoi sospetti erano sempre stati fondati.
«Sai,
ho visto famiglie in cui i membri non andavano affatto d’accordo, addirittura
si odiavano. E, credimi, sono famiglie decisamente diverse dalla tua. Non posso
immaginare come dev’essere, essere ilfiglio del ex Presidente degli Stati Uniti e dell’attuale Segretario di
Stato, anche se sospetto che per uno poco appassionato di politica come te
debba essere snervante.»
Prese
fiato un momento, puntando lo sguardo fuori dalla finestra, dove il cielo
cominciava a diventare più scuro. Jack non riuscì a capire cosa volesse dirgli
la ragazza con quelle parole, per tale motivo aspettò, così da vedere se avesse
altro da aggiungere. Riley, infatti, ricominciò a parlare: «Fatto sta che se
vuoi parlare con qualcuno di quello che ti tormenta, se vuoi sfogarti o vuoi
provare veramente a ripulirti dalla
tua dipendenza, io ci sono. Non so quanto aiuto possa dare, ma sono disposta a
provarci. In fin dei conti hai detto tu stesso che quando sei con me non hai
bisogno di assumere niente. Possiamo provare a partire da questo.»
«Perché
ti prenderesti un simile disturbo per me?» domandò lui, colpito dalle parole
della ragazza.
Lei
lo guardò interrogativa, dopodiché si strinse nelle spalle. «Perché non dovrei?
Nei tre giorni che sono rimasta ad aspettarti mi sono ritrovata a immaginare
come sarebbe la mia vita se dovessi perderti.»
Abbassò
la voce e quasi mormorò: «E non fa per me.»
Il
leggero sorriso che incurvò le labbra di Riley contagiò anche Jack. Prima che
potesse ringraziarla per tutto quello che aveva fatto e stava facendo per lui,
però, la porta della stanza si aprì e sulla soglia comparve Nicole. La ragazza
si voltò e vedendo la donna intuì che i minuti a disposizione erano scaduti. Si
alzò dalla sedia, ma subito Jack la fermò, afferrandole il polso con la mano. Riley
lo sguardò, stupita.
«Ti
ricordi quella volta che sono mancato da casa per due settimane?» le chiese il
ragazzo.
Lei
annuì semplicemente con la testa.
«Era
successo qualcosa di simile. Solo che al posto della cocaina c’era il monossido
di carbonio.»
Riley
sgranò gli occhi, incredula. Capì subito perché una volta aver rivisto Jack
dopo quelle due settimane, il ragazzo le era parso tanto turbato. Non si
trattava del night club o della semplice rottura con Louis. Jack aveva tentato
il suicidio. Aveva provato ad annullarsi fin quasi a raggiungere la morte.
La
ragazza non riuscì a dire nulla. Sentì solo una forte determinazione crescerle
dentro. Non sapeva di aver rischiato di perdere Jack ben prima
dell’inaugurazione del night club e non sapeva di averlo avuto vicino quando
lui aveva davvero bisogno di aiuto. Promise a se stessa che non avrebbe mai più
permesso al dolore di sopraffare Jack, non finché lei poteva in qualche modo
impedirglielo.
Nicole
li raggiunse.
«Sarebbe
meglio che ora riposassi» disse rivolta al figlio, la voce più insicura di
quanto Riley ricordasse.
Jack
parve non fare caso a quello che la madre gli aveva appena detto. Continuò a
guardare la ragazza, una supplica negli occhi chiari. «Scusa se non te l’ho mai
detto prima. Non sapevo come fare.»
Lei
si ricompose. «Lo hai fatto ora. Va bene ugualmente.»
«Vorrei
che uscissi.»
Nicole
alzò il tono di voce, interrompendo così lo scambio di sguardi fra i due
ragazzi. Riley si voltò verso di lei e fece segno di sì con il capo. Dopodiché tornò
a guardare Jack. «Per quanto tempo starai via di casa?» domandò.
«Il
tempo necessario» rispose Nicole per Jack.
Riley
non la degnò di uno sguardo nonostante avesse sentito la risposta.
«E
se in questo lasso di tempo io volessi vederti?»
Lui
sorrise, dolcemente. «Ti chiamo io» disse.
La
ragazza non disse altro. Si avvicinò al viso di Jack e gli diede un leggero
bacio sulla fronte. Lo salutò debolmente e dopo un ultimo sguardo si avviò
verso la soglia, seguita da Nicole. Come furono fuori la donna chiuse la porta
e si voltò verso la ragazza. Sembrava stanca e provata, l’aura austera era
scomparsa. Sospirò, alzando poi lo sguardo su Riley: «Ti pregherei di non dire
a nessuno di tutto ciò. Jack non ne ha bisogno.»
La
ragazza si sentì immediatamente offesa per quella frase. Tuttavia si rese conto
che quella davanti a lei era una madre che cercava di proteggere il proprio
figlio. Si sarebbe certamente comportata così anche lei se fosse stata al suo
posto.
«Non
ne ho nessuna intenzione. Solo vorrei che non mi toglieste dalla vita di vostro
figlio esclusivamente perché temete che possa fare qualcosa di sconveniente.»
La
voce di Riley suonò così sicura da cogliere Nicole impreparata. Tuttavia, dopo
un primo momento, la donna sorrise, colpita. «Abbiamo privato già troppe volte
Jack delle cose che ama. Temo che sia dovuto a questo nostro atteggiamento
sbagliato la sua presenza qui. Non commetteremo nuovamente lo stesso errore.»
Riley sorrise, pronunciando un veloce
ringraziamento. Augurò buona giornata a Nicole, dopodiché si avviò verso
l’uscita dell’ospedale. Dopo tre giorni trascorsi in quell’edificio poteva
finalmente uscirne con l’intenzione di non rimetterci piede tanto presto. Non
lo avrebbe fatto e non lo avrebbe permesso a nessuna delle persone che amava,
non se poteva impedirlo.
La casa
della famiglia Miller era illuminata da un sole tardo primaverile. A Jack parve
più silenziosa e ordinata di quanto ricordasse mentre vi entrava. Insieme a
Benjamin attraversò il soggiorno e si ritrovò a lanciare un’occhiata desiderosa
al pianoforte a coda che giaceva in silenzio sotto un’ampia finestra. Aveva una
gran voglia di suonare e si segnò nella mente di farlo appena ne avesse avuto
possibilità.
Era
stato dimesso dall’ospedale il giorno dopo aver incontrato Riley. Fisicamente
si sentiva molto meglio – anche se l’appetito non gli era tornato – ma il suo
umore era cupo. Venendo via dal Washington Hospital Center insieme al padre,
erano passati da casa sua a recuperare indumenti e quant’altro per permettergli
di rimanere almeno una dozzina di giorni lontano dal proprio appartamento.
Quando ne era uscito, con una valigia stipata, aveva involontariamente fatto
scivolare gli occhi sul numero 24 presente sull’ingresso della casa di Riley.
Lei era sicuramente a lavorare; aveva saltato un giorno pur di aspettare il
risveglio di Jack, ma certo non aveva motivo di perderne altri. L’occhiata
lanciata contro la porta era durata a lungo, dopodiché il ragazzo aveva seguito
il padre fino in macchina e, insieme, avevano raggiunto la casa in cui lui avrebbe
trascorso i giorni successivi.
Jack
trascinò la valigia fino in cucina dove la famiglia, al gran completo, lo
salutò dandogli il bentornato.
«Ti
abbiamo preparato la tua stanza» lo informò Penelope, accarezzandogli
dolcemente il braccio. «Dovresti trovartici bene.»
Jack
le sorrise debolmente. Se sentiva a disagio. Gli sembrava che i suoi famigliari
gli stessero rivolgendo delle premure di circostanza. Dentro di lui crebbe il
bisogno viscerale di stare da solo, così da evitare che la frustrazione che gli
stava montando si trasformasse in rabbia che non sapeva su chi sfogare.
«Se
non vi dispiace» esordì, ottenendo l’attenzione di tutti. «Penso che mi
ritirerò nella mia camera. Ci sono già passato in una situazione del genere e
credo di sapere cosa devo fare.»
L’espressione
di Nicole si fece subito dispiaciuta, ma capì di dover lasciare al figlio il
proprio spazio e acconsentì con un cenno.
Jack
afferrò la valigia e fece per avviarsi, ma il fratello si precipitò da lui.
«Lascia,
te la porto io» disse, prendendogli la valigia dalle mani. I due si scambiarono
uno sguardo d’intesa e senza aggiungere parola si avviarono.
La
stanza in cui il ragazzo avrebbe dovuto dormire era l’ultima porta sulla
sinistra, al primo piano. Ampia e luminosa, profumava di rose, addirittura
troppo. Connor entrò, ma Jack si fermò sulla soglia.
«A
ventotto anni torno a vivere da mia madre… di nuovo» disse con tono esasperato.
Il
fratello sorrise: «Sarebbe potuto andarti peggio.»
«Ti
sei mai chiesto com’è possibile che entrambi abbiamo più o meno gli stessi geni
ma che io sia uscito ben più problematico di te?»
Nel
porre la domanda Jack era entrato nella stanza, andando a sedersi sul letto, la
schiena appoggiata contro la testiera. Connor sogghignò, lasciandosi sfuggire
una leggera risata dalle labbra. «Non è vero. Ho fatto anche io dei gran bei
casini.»
Il
sopracciglio di Jack si incurvò alla perfezione. Schiuse le labbra e guardò il
fratello un momento prima di dire: «Tipo tentare il suicidio e poi rischiare di
morire per overdose solo sei mesi più tardi?»
L’altro
allargò le braccia. «Se la metti così deduco che tu voglia vincerla questa
sfida.»
Jack
scrollò le spalle, senza dire nulla. Fu nuovamente Connor a parlare: «Cosa
pensi di fare ora?»
Il
più giovane sospirò, ragionando sulla risposta. L’ultima volta che era rimasto
isolato in casa dei suoi genitori non era stato molto bene. Si era sentito in
trappola per tutto il tempo e aveva trascorso le sue giornate suonando il pianoforte
e facendo lunghe conversazioni con la nonna. Il risultato era stato che quando
gli venne dato il permesso di tornare al suo appartamento aveva accumulato una
tale quantità di nervosismo che si era subito buttato su alcole droga, i suoi vizi peggiori. Tuttavia non
voleva più ripetere quell’esperienza. La sua leggerezza nell’assumere certe
sostanze lo aveva portato a un passo dalla morte e, come se non bastasse, aveva
fatto preoccupare terribilmente perfino Riley. Non voleva accadesse ancora, non
più. Si era deciso a uscirne davvero questa volta. Avrebbe smesso di raccontare
menzogne a sé e agli altri e avrebbe preso veramente fra le mani la propria
vita. In fin dei conti aveva finalmente qualcosa che lo avrebbe aiutato in
tutto ciò. Il night club che aveva sempre sognato e che aveva progettato per
anni esisteva veramente e Riley si era detta disposta ad aiutarlo a liberarsi
dalla sua dipendenza facendo il possibile. Se si fosse impegnato a fondo e non
avesse ceduto agli stimoli sbagliati, sarebbe riuscito a risollevarsi.
«Ehi,
mi vuoi rispondere?»
Connor
incalzò così il fratello, sorpreso e leggermente infastidito per via del suo
lungo silenzio. Jack posò gli occhi su di lui, come se si fosse ricordato solo
in quel momento della sua presenza nella stanza. Appoggiò la testa contro alla
parete alle sue spalle e rispose: «Non penso che tornerò in comunità. Le ultime
volte che ci sono andato non è servito a molto.»
«Non
tornare in comunità significa che non farai niente per la tua dipendenza?»
domandò Connor, attonito.
Jack
sollevò le mani con l’intento di tranquillizzarlo. «Non mi fraintendere. Voglio
smettere di assumere droga, solo che non voglio più tornare in comunità. Gli
incontri, il dover raccontare la mia storia a degli sconosciuti per
“condividere” con loro le mie esperienze» esibì il segno di virgolette e sbuffò
una lunga boccata d’aria. «Non è così che ne uscirò» concluse.
Suo
fratello rimase a guardarlo a lungo, il dubbio perfettamente intuibile nella
sua espressione. «E come pensi di fare senza l’aiuto di professionisti? Non è
che stai prendendo la cosa un po’ troppo alla leggera?»
«No,
assolutamente. So che sarà parecchio complicato.»
Guardò
verso il tavolino accanto alla poltrona su cui era seduto Connor. Vi erano
sistemate tre cornici, ciascuna contenente una fotografia che raffigurava un
diverso momento dell’infanzia dei due fratelli Miller.
«Quello
che mi hanno sempre detto a quegli incontri» ricominciò Jack. «È di trovare
qualcosa per cui vale la pena smettere di rovinarsi la vita. Qualcosa che per
noi conti così tanto da non voler correre il rischio di perderla. Può essere
una persona, o anche una cosa, per ognuno è differente.»
«Ti
stai riferendo al tuo night club?» chiese Connor, che cominciava a capire il
discorso del fratello. Ogni volta che il giovane usciva dalla comunità di
recupero ricominciava a drogarsi perché non era riuscito a trovare qualcosa che
gli desse la forza di tirare avanti con le proprie forze. Gli era sempre
mancato ciò che gli avrebbe permesso di superare i momenti difficili grazie
alla sola consapevolezza di avere quel
qualcosa – o qualcuno.
Jack
scosse la testa: «No, non al night club. A Riley» disse.
Connor
spalancò gli occhi, sorpreso: «R-Riley? Parli della tua vicina di casa?»
«Sì,
esatto» Jack lo guardò come se non riuscisse a spiegarsi una simile reazione,
poi proseguì: «Può essere davvero il mio buon motivo per smetterla di rovinarmi
la vita. Così da evitare di fare del male anche a lei. Ho capito, finalmente.»
Il
fratello continuò a fissare perplesso Jack, dopodiché sorrise, sornione: «Ciò
che hai appena detto suona come una dichiarazione d’amore, ne sei consapevole?»
punzecchiò il più giovane.
«Nonostante
io sia gay?» fu la risposta, pronta.
Il
sorriso di Connor si ampliò ancora. «Cosa vuol dire? L’amore non guarda a
questi dettagli.»
Allargò
le braccia. «Potresti provare ad andare a letto con una donna, magari scopri
che ti piace.»
Jack
fece una smorfia, divertito dalla curiosa espressione del fratello. «L’ho già
fatto» confessò. «Un po’ di volte» concluse, senza soffermarsi sul numero
esatto.
Connor
rise, quasi estasiato. «E quindi?» spronò il fratello.
Il
più giovane ripropose la smorfia di pochi attimi prima. «Beh, non è male. Con
il senno di poi devo ammettere che mi è piaciuto.»
L’altro
rise nuovamente mentre Jack si alzava e si sistemava sulla poltrona libera di
fronte a quella dove si trovava Connor. Quest’ultimo si ricompose e guardò il fratello.
Dentro di lui qualcosa gli disse di fidarsi di Jack. Dopotutto perché non
credere al fatto che fosse veramente stanco di vivere una vita perennemente al
limite? Ora che Jack aveva trovato qualcosa – o meglio qualcuno – per cui
valeva la pena alzarsi alla mattina non c’era motivo di credere che avrebbe
mandato tutto all’aria.
Connor
si fece serio. Guardò Jack negli occhi e disse: «Penso che ci riuscirai questa
volta, dico davvero. Poi mi pare che l’idea di avere Riley sia per te uno
sprone ulteriore.»
«Sì,
sono… piuttosto fortunato ad averla» rispose Jack, pensando di non potersi
definire in maniera diversa, non dopo che Riley lo aveva cercato e aspettato
per tre giorni.
Connor
fece schioccare la lingua: «Sei sicuro che non sia più di un’amica?» domandò,
curioso.
Il
fratello distolse lo sguardo, pensando. Non si era mai chiesto cosa fosse
esattamente il legame che lo univa a Riley; quell’unione che aveva rischiato di
spezzarsi mesi prima per via di azioni errate, ma che si era ricucito insieme,
forse più saldo di prima.
Increspò
le labbra: «Non te lo saprei dire. Se vuoi ci penso» rispose, con una leggera
nota di sarcasmo sulla parte finale della frase. Connor lo guardò di traverso:
«Non si riesce mai a fare discorsi seri con te» lo bacchettò.
Jack
si finse offeso: «E tutta la confessione che ti ho fatto poco fa?»
Non
ricevette risposta. Suo fratello si alzò dalla poltrona emettendo un lieve
sbuffo divertito e si voltò a guardarlo senza dire nulla. Fu nuovamente Jack a
parlare: «Ti rendi conto che poco fa mi hai chiesto se mi piace una donna
nonostante abbia ammesso dodici anni fa di essere omosessuale?»
Connor
infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, un sorriso vagamente malizioso sulle
labbra. Abbassò la voce e guardò attentamente negli occhi grigio-azzurri del
fratello: «Non ti ho chiesto se ti piace “una donna” ti ho chiesto se ti piace
Riley.»
Detto
ciò si avviò fuori dalla camera, lasciando Jack solo, piuttosto basito, il
quale scosse la testa ridendo mentre ripensava alle ultime cose che gli aveva
appena detto Connor. Cercò di non soffermarsi più di tanto a pensare a Riley.
Non l’avrebbe rivista a breve, ne era consapevole – non gli avrebbero mai
permesso di incontrarla prima che potesse tornare al suo appartamento – perciò
decise di non spremersi troppo le meningi cercando di capire cosa esattamente
provasse per lei. Lo avrebbe scoperto con il tempo.
Iniziò
a disfare la valigia e, in fondo a essa, trovò il suo taccuino con tutte le
annotazioni e i numeri di telefono del personale e dei fornitori del night
club. Quella “reclusione” in casa Miller sarebbe stata diversa dalla
precedente. Aveva pur sempre un night da amministrare ed era una cosa che
poteva benissimo fare anche senza essere fisicamente sul posto. Era certo che
tenere la mente impegnata in qualcosa di produttivo gli avrebbe impedito di
impazzire.
*
Gli
occhi fissi sul televisore, le ginocchia strette al petto, Riley cercava in qualche
modo di portare a termine una partita alla Playstation iniziata ormai giorni
prima, ma che non era ancora riuscita a ultimare. Non riusciva più a
concentrarsi come faceva abitualmente quando iniziava a giocare. Le era
impossibile evitare che la sua mente divagasse e pensasse a tutt’altro anziché
concentrarsi sul rapporto tra tasti del joystick e i movimenti del personaggio.
Da
tempo non faceva altro che pensare a Jack. Erano passati venti giorni da quando
la ragazza lo aveva incontrato l’ultima volta al Washington Hospital Center;
maggio era agli sgoccioli e a lei pareva passata un’eternità da quell’incontro.
Il ragazzo non l’aveva chiamata come le aveva detto, ma Riley sospettava
fortemente che la cosa non fosse dovuta a una sua scelta. Nonostante quello che
le aveva detto Nicole al termine della visita a Jack, Riley sentiva che il
silenzio del ragazzo era in buona parte attribuibile a lei.
Sospirò,
guardando il personaggio del videogioco morire per l’ennesima volta. Avrebbe
fatto meglio a spegnere visto che non si stava minimamente concentrando su
quello che doveva fare, ma la Playstation era comunque un buon modo per
distrarsi – o meglio, provare a distrarsi.
Bussarono
alla porta. Lo sguardo di Riley si mosse svogliato dallo schermo televisivo
all’ingresso di casa. Mise in pausa e si alzò, certa che si trattasse
dell’inquilina del piano di sopra, tornata per restituirle il detersivo che lei
le aveva prestato alcune ore prima.
Quando
aprì la porta, però, davanti agli occhi non si trovò il volto della vicina, ma
il colletto di una t-shirt nera che sbucava da sotto una leggera giacca di
jeans. Alzò istintivamente lo sguardo, così da permettere a questo di
incrociare quello grigio-azzurro di Jack, più luminoso e splendido di quanto avesse
mai visto. Il ragazzo le sorrise; aveva la bocca impastata per via di un
marshmallow a cui non era riuscito a resistere mentre saliva le scale del
condominio. In una mano teneva il sacchetto di cilindretti di zucchero aperto –
la confezione rossa e trasparente – e alzò l’altra per salutare Riley mentre si
affrettava a masticare così da poterle dire finalmente qualcosa. Trovò che
nonostante i capelli arruffati e i vestiti sgualciti continuasse a essere
davvero graziosa. Tuttavia Jack rimase sorpreso dalla reazione della ragazza,
che non si era minimamente aspettato. Era immobile e continuava a guardarlo con
un’espressione indecifrabile in viso.
Riley
sentì gli occhi cominciare a bruciarle. Jack le era mancato terribilmente e
trovarselo davanti, quando lei davvero non se lo aspettava, le aveva fatto
nascere dentro una tale gioia da stordirla. Non stava reagendo come avrebbe
voluto, ma non riusciva a fare altro se non rimanere a fissare il ragazzo come
se la sua presenza in quel posto non fosse reale, mentre quest’ultimo terminava
di masticare guardandola confuso.
Jack
le sorrise, leggermente incerto e fece per dire qualcosa, tuttavia Riley non
gliene diede il tempo. Gli si avvicinò e lo abbracciò. Affondò la testa nella t-shirt
del ragazzo – così intrisa del suo inconfondibile profumo – cercando in ogni
modo di ricacciare indietro le lacrime. Non sapeva davvero spiegarsi perché si
stesse comportando in quel modo, ma non le importava più. Jack era tornato da
lei e non avrebbe potuto chiedere altro.
Il
ragazzo rimase sbalordito dal comportamento di Riley. Abbassò lo sguardo su di
lei, gli occhi ancora spalancati, e la sentì mentre stringeva forte la giacca
sulla sua schiena. Un dolce calore lo pervase insieme a una forte sensazione di
serenità. Era contento di riavere Riley, felice di vedere che lei lo aveva
aspettato.
Prestando
attenzione a non rovinare quel momento – che aveva in sé qualcosa di
sorprendentemente romantico – Jack chiuse con la mano il sacchetto di
marshmallow che aveva preso da condividere con Riley; dopodiché le diede un
bacio sulla testa e la strinse ancora di più a sé.