I ragazzi che volevano essere come il cielo

di GiuliaStark
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO ***
Capitolo 2: *** The Basket Cases of Brooklyn ***
Capitolo 3: *** The Same Old Bar, The Same Old Friends ***
Capitolo 4: *** On The Road of Nowhere ***
Capitolo 5: *** A Piece of Us ***



Capitolo 1
*** PROLOGO ***


 

E poi arriva il momento in cui non sai più chi sei.
Quando tutte le tue certezze crollano e tutto quello che hai costruito finora non ha più importanza.
Ti guardi intorno con lo sguardo perso, vuoto, nella speranza che prima o poi arrivi qualcosa ad indicarti la via, a dirti che andrà tutto bene e che il dolore che senti prima o poi scomparirà.
Ma non accade.
E tu soffri.
Continui a soffrire, a crogiolarti in un dolore che ormai è diventato così familiare che immaginarti senza è come pensare di non avere una parte del corpo.
Fa parte di te e forse, dopo tutto questo tempo, è diventato anche la tua ancora che ti fa ricordare chi sei.
Si, perché ti sei persa.
Persa in un mondo troppo grande e crudele che non bada alle persone sole come te, che non si ferma se lo fai anche tu perché non hai più la forza di guardare avanti.
No.
Continua a girare e tu non puoi far altro che rincorrerlo per cercare di stargli dietro, di respirare un po’ di quella vita che trasmette. Ma non ci riesci.
Fallisci come ogni volta, fallisci sempre in tutto che ormai non speri più che qualcosa possa andarti bene.
Vivi alla giornata perché non riesci a guardare più in là di oggi, non riesci ad immaginare un altro giorno in una vita come la tua. Non riesci e non vuoi.
Poi arriva il momento in cui pensi a tutti i progetti che avevi, alle sfide che volevi vincere e gli obbiettivi da raggiungere e ti dai della stupida da sola solo per aver pensato di farcela, di aver provato a sognare in un mondo dove i sognatori sono visti con occhi strani, quasi come dei pazzi.
E quando realizzi tutto questo semplicemente ti lasci andare, trasportata dal corso degli eventi verso la prossima delusione, la prossima sconfitta…

 

 

 

 

ANGOLO AUTRICE

Salve a tutti!! Sono Giulia e vorrei parlarvi un pò di questa storia. Premetto col dire che sarà un tantino diversa dal solito perchè sarà ambientata in una Brooklyn anni Novanta, un periodo ed una citta che amo. Ho preferito cambiare totalmente contesto perchè sento che le canzoni nuove dei ragazzi contenute nell'EP si adattino perettamente sia alla storia che al contesto del periodo. Detto questo spero vi piaccia e non aggiuno altro per fare spoile. Buona lettura e spero mi farete sapere cosa ne pensate.
Un bacio


GiuliaStark
 

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Capitolo 2
*** The Basket Cases of Brooklyn ***


Era il 1974 quando venni al mondo.
Non ringrazio particolarmente i miei per averlo fatto, ma ormai sono qua, che ci potevo fare? Non starò a dilungarmi sul fatto che la mia famiglia è un disastro, ormai tutte lo sono, non è così eclatante; anzi, è diventato quasi un obbligo, come se fosse un marchio di fabbrica.
L’unica cosa di cui ringrazio erano i miei amici.
Qui nei quartieri di Brooklyn ci conoscevamo più o meno tutti e loro erano i miei compagni d’avventura fin da quando ne ho memoria.
Ora siamo grandi, o almeno ci diverte pensarla così.
Diciamo che abbiamo tutti, più o meno, diciotto anni… ecco, così andava decisamente meglio.
Ne parliamo spesso tra noi quando la sera ci ritroviamo nel solito vecchio pub in fondo alla strada.
Quello con la porta rotta, la birra da due soldi ma con un jukebox da far invidia anche ai locali più esclusivi.
Non vogliamo diventar grandi.
Non vogliamo perdere quello spiraglio di vita vera che ti offre la nostra età, ma soprattutto non vogliamo dimenticare come siamo ora.
Passiamo qua la maggior parte delle giornate a parlare, bere e divertirci dimenticandoci dello schifo che ci circonda, dei problemi, di tutto… ci siamo solo noi ed i nostri sogni.
Noi e le nostre aspettative, le fantasie di partire tutti assieme ed andare lontano;di prendere un furgone e metterci su un’autostrada sconfinata senza avere una meta precisa con solo il cielo come limite.
La gente del quartiere, vedendoci assieme, pensa che siamo un gruppo di casi sociali, di disagiati e forse è vero. Dopotutto nessuno di noi può essere considerato normale.
C’è quel coglione di Michael ed i suoi capelli colorati, che sicuramente un giorno perderà, ma a lui piace e a noi piace lui, quindi è tutto normale; adora la pizza.
Ancora ricordo quella volta che scoppiò una litigata tra me e lui per l’ultima fetta.
Che idioti.
È un vero patito per i videogiochi, beh… in questo gruppo tutti lo siamo, forse l’unica eccezione è Joy che non sa tenere nemmeno un joystick in mano.
Credo che le piaccia Michael già da un po’ e penso che la cosa sia ricambiata, sarà interessante vedere come si svilupperanno le cose.
Ashton è il più grande, neanche tanto se ci pensiamo… alla fine è solo un anno, ma a lui piace badare a noi e noi lo lasciamo fare.
È nel suo istinto visto che ha due fratelli più piccoli e poi quando usciamo fuori a divertirci serve sempre qualcuno che rimanga sobrio, no? Gli piace suonare la batteria ed è anche bravo, ma delle volte ci viene voglia di rompergli uno dei tamburi in testa per il rumore che fa.
Diciamo che è il nostro modo per dirgli che gli vogliamo bene.
Elizabeth, chiamata da tutti Beth, è la sognatrice del gruppo.
Adora fare fantasie sui viaggi che faremo e che ci porteranno via da qua verso mille avventure.
La amiamo.
La amiamo perché ci fa sognare, ci fa sentire liberi e soprattutto ci permette di pensare ad una seconda occasione.
Calum è l’amante degli animali; ricordo che avrà chiesto almeno un centinaio di volte ai suoi di prendergli un cucciolo.
Purtroppo puntualmente gli dicevano sempre di no e per questo andava sempre a casa di Luke per giocare con la sua Molly.
Già Luke, o come lo chiamavo io, Lukey, il musicista, il bravo ragazzo che però sapeva come divertirsi.
Lui era l’anima sensibile del gruppo, tutto il contrario di Kayla.
La ribelle.
Sotto molti aspetti eravamo abbastanza simili.
Due anime libere, nere come l’inchiostro, sempre a far danni e con un bagaglio fin troppo pesante.
Il buio nella luce della nostra combriccola.
Eccomi qua alla fine del giro.
Ross Coleman.
Figlia problematica, scrittrice maledetta e fotografa dell’imperfezione.
Non mi piaceva stare al centro dell’attenzione quindi spesso mi rifugiavo nella mia stanza o nel pub al solito angolo e scrivevo.
Scrivevo tutto quello che mi passava per la testa: le avventure, le disavventure e le cazzate fatte assieme.
Gli altri lo chiamavano il ‘’Diario delle malefatte’’, un nome davvero cretino ma almeno faceva ridere ogni volta che lo si menzionava.
Eravamo un gruppo ben assortito, gli scarti della società, gli outsiders di un mondo che ci stava stretto e nel quale cercavamo di farci spazio a suon di gomitate.
La nostra era l’amicizia epica, quella viscerale che andava oltre i legami di sangue, oltre la comune definizione. Quella delle corse in macchina alle tre della mattina, con il vento tra i capelli, la radio ad alto volume con la musica di questi anni Novanta, le urla e le risate che si perdevano nel buio della notte che dormiva tra le braccia dell’alba.
Era quell’amicizia che ti faceva apprezzare la vita, che ti spingeva ad alzarti dal letto la mattina e ti dava la voglia di vivere.
Ovviamente non era sempre tutta unicorni ed arcobaleni colorati, niente di reale lo è; anche noi avevamo i nostri alti e bassi, le nostre liti, le risse tra quegli idioti dei ragazzi che giocavano a fare i duri, ma alla fine si risolveva sempre tutto.
Funzionava perché volevamo che andasse così, perché senza il gruppo non eravamo niente.
Noi eravamo il nostro mondo.
Nella nostra scuola c’erano due tipologie di persone: quelli che ci guardavano con invidia e quelli che invece ci odiavano.
A noi non importava, anzi, ci divertiva perché molti di loro non avrebbero mai capito ciò che ci legava.
Era soltanto una nostra esclusiva.
Per strada giravamo cantando, facendo baccano come se volessimo gridare la mondo e chi lo abitava che c’eravamo anche noi, che facevamo parte della vita e che avremmo lottato per lasciare il segno.
Erano le parole di Luke.
Lui desiderava fare qualcosa per cui fosse stato ricordato quando non ci sarebbe stato più.
Voleva lasciare un pezzetto di lui in questo mondo, come a dire ‘’Io c’ero’’.
Odiava il fatto di rimanere uno dei tanti di passaggio.
Ma alla fine non lo eravamo tutti? Tante anime che vagavano in cerca di un qualcosa che occupasse il loro tempo finché erano ancora su questa terra? Delle volte ci piaceva prenderlo in giro al riguardo, ma in realtà era quello che volevamo tutti: essere ricordati, lasciare il segno.
Lui ci credeva con tutto se stesso e questo spingeva, segretamente, anche noi a faro.
Eccoci qua, un gruppo di otto fuori di testa, ognuno con la propria identità le sue stranezze, passioni, i suoi pregi ed i suoi difetti ma ci amavamo così come eravamo: veri, sinceri, semplicemente noi.
I Basket Cases di Brooklyn.

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Capitolo 3
*** The Same Old Bar, The Same Old Friends ***


~~Brooklyn negli anni Novanta era come dire Parigi nel Seicento, o Londra nell’Ottocento. Aveva la sua particolarità, la sua magia, i suoi piccoli dettagli che la rendevano così speciale. Aveva il suo aspetto grigio, urbano con quello stile grunge che sembrava trasandato ed abbandonato a se stesso ma che invece rispecchiava completamente l’animo non solo del quartiere ma anche dei suoi abitanti. Aveva i murales delle periferie che esprimevano i disagi di questa gioventù bruciata; frammenti di persone spiattellati agli occhi di tutti sui muri a mattoncini dei palazzoni che oscuravano il cielo. Un cielo che ti guardava dall’alto con il suo occhio critico e delle volte benevolo, che poneva su questa città la sua ala protettiva. Un cielo così azzurro ma così distante che ti faceva desiderare di raggiungerlo ad ogni costo pur di stare lontano da questa terra intaccata dal male e dal veleno. Ti istigava quella voglia di fuggire via e lanciarti verso l’ignoto, verso un qualcosa che ti avrebbe dato la voglia di vivere. Via verso nuove esperienze, nuove vite da vivere. L’alba poi era qualcosa di spettacolare. Il sole nasceva timido all’orizzonte affacciandosi su una città così grande e scura dentro che ne aveva quasi il timore. Sorgeva lontano, verso l’isola di Manhattan. Il cielo di quelle prime ore era di una leggera e fredda sfumatura che ondeggiava tra il rosa pallido e l’azzurro. Con quei colori addolciva i profili imponenti e minacciosi dei grattacieli che si stagliavano contro il cielo quasi come a volerlo perforare. Ero di un’idea però: la vera magia di Brooklyn si mostrava al tramonto. Quando il sole all’orizzonte colorava il cielo di un arancio acceso gettando la sua ombra su tutta la città tingendola di colori caldi e forti. L’ombra aumentava incupendo la città intera mostrandone la sua vera faccia. Brooklyn era così. Innocente all’apparenza ma nera dentro. Una città con un’anima tutta sua, una personalità celata dalle ombre dei palazzi che la tenevano segreta come a proteggerne il male che racchiudeva. Quando le ombre calavano la magnificenza del ponte si mostrava, un ponte maestoso ma che sembrava volerci travolgere con la sua grandezza. Un ponte che riuscivi a vedere da ogni angolo della città come a volerti dire che se volevi eri libero di attraversarlo e scappar via, libero di respirare aria nuova. Libero e basta. Ma sapevi che era una trappola, un gioco a doppio fine, perché Brooklyn non ti lascia, non ti fa andar via così facilmente. No. Ti rimane dentro. Ti assorbe e tu assorbi lei. Si nutre si te, dei tuoi sogni, dei tuoi incubi e poi ti lascia senza niente. No. I ragazzi di questa qui non erano in grado di sfidare la suprema legge del ponte. E come quei ragazzi anche noi avevamo quella paura. Mi piaceva la notte a Brooklyn, aveva qualcosa di tremendamente oscuro ma rassicurante. Le ombre ti nascondevano, facevano ombra sulla tua di ombra, permettendoti così di camminare liberamente senza quel peso che ti portavi dietro durante il giorno quando eri esposto alla piena luce del sole. Forse era questo il motivo che ci spingeva a passare la maggior parte della notte fuori. Ci nascondeva, ci permetteva di girare liberi senza la paura che qualcuno notasse i nostri cuori infranti, le nostre cicatrici e le nostre battaglie perse. Eravamo figli del buio. Un gruppo di ragazzi alla deriva nell’ombra ancor più scura dei grattacieli. Sembrava che la notte ci riscoprissimo; come se durante il giorno fossimo in una specie di stato apatico solo per poi sbocciare alla sera consapevoli che in quel momento nessuno avrebbe fatto caso a noi. La cosa che amavo di più di questa città? Eravamo tanti. Tante piccole facce spente che si muovevano senza un’idea o una direzione precisa. Tipo dei robot. Era facile perderti nella massa, nasconderti, far finta che non esistevi, che, si, eri li ma che al tempo stesso non c’eri. Brooklyn era così affollata che bastava poco per scomparire: svoltare in una strada al posto di un’altra, tornare indietro invece di andare avanti. Un attimo e ti eri perso. Forse mi piaceva perdermi perché in primo luogo ero io a sentirmi così. Ma, ad essere sinceri, chi è che non ci si è mai sentito? Siamo tutti in balia di qualcosa più grande di noi, qualcosa al di fuori della nostra comprensione. Ci lasciamo trascinare dalla corrente e basta. E poi c’eravamo noi. Mi viene da ridere a pensarci. Noi volevamo fare la differenza, volevamo perderci a modo nostro. Sentirci smarriti ma completi quando eravamo insieme. Ecco perché decidiamo di perderci durante la notte. La sera precedente non era stato diverso, eravamo stati nel nostro solito pub a bere, ridere ed ascoltare musica. Io, Calum e Luke avevamo intrapreso perfino una bella discussione su quale gruppo fosse meglio tra i Nirvana ed i Pearl Jam. Ovviamente erano due grandi pilastri della musica di questo periodo ma non c’era storia, i Nirvana erano i migliori; Kurt Cobain sapeva esprimere alla perfezione i problemi della nostra generazione: il disagio, la sensazione di essere solo un rigetto della società, di sentirsi fuori posto e sbagliati. Era il mio idolo. Anche se questa parola svalutava completamente ciò che era, ma il concetto era molto simile. Protraemmo quella conversazione per delle ore probabilmente, il tutto incrementato dall’alcool, cercando di convincere Calum che aveva torto, ma quel ragazzo da ubriaco diventava estremamente cocciuto. Nel mentre noi eravamo nel mezzo di questa conversazione Ashton, Kayla, Joy, Elizabeth e Michael si stavano dimenando sulle note di Roadhouse Blues dei Doors. Ogni tanto lanciavo qualche occhiata nella loro direzione e li vedevo ridere, li vedevo vivere; era una sensazione magnifica vedere le persone a cui tieni di più al mondo respirare, ma respirare davvero, non solo aria, no, respirare la vita, la libertà, respirare se stessi. Mentre Luke e Calum continuavano a discutere presi la polaroid che tenevo sempre in borsa e scattai un paio di foto per ricordare sempre questi momenti. Gli altri delle volte odiavano questa mia fissazione nell’immortalare ogni nostro momento ma non sapevano che il tutto era spinto da una mia grande paura: ero terrorizzata di poter dimenticare tutto; di svegliarmi una mattina ed improvvisamente non ricordare più nulla di me, della mia vita, ma soprattutto di loro. Per questo facevo centinaia di foto. Non volevo dimenticare neanche un singolo istante, ancor di più se trascorso con questo gruppo di pazzi. Mi piaceva l’idea che un giorno, magari quando sarei cresciuta, invecchiata e con una vita completamente diversa, avrei ripreso quegli scatti e ricordato com’eravamo a quell’età, ricordare le serate come queste, le nostre infinite chiacchierate stracolme di stronzate ma che per noi erano colme di significato perché erano le nostre, le nostre parole, le nostre storie ed i pezzi di noi stessi. Ammiravo quel gruppetto di scalmanati e ridevo. Kayla si divertiva a saltare qua e là con sempre la sua amata sigaretta tra le dita mentre cantava ad alta voce sentendosi una rockstar; era stata sempre una ragazza che attirava l’attenzione, non importava dove andasse, tutti ne erano stregati. Non lo faceva apposta, anzi, neanche le piaceva essere costantemente notata, le veniva naturale, credo che fosse quello il motivo per cui piaceva a tutti. Non ricordo a che ora tornammo a casa, sicuramente perché eravamo letteralmente fuori di testa per l’alcool, né come riuscii ad entrare e salire le scale fino alla mia camera senza cadere e farmi male, ma c’ero arrivata ed ora, qualcosa, o qualcuno, stava disturbando il mio riposo post sbornia continuando a darmi dei colpetti sulla schiena:
- Sorgi e splendi dolcezza! – disse una voce fin troppo squillante per la mia povera testa dolorante.
- Va via Ash… – bofonchiai nel dormiveglia
- No, no, non ci penso proprio –
- Come cavolo hai fatto ad entrare? – chiesi confusa ed ancora tremendamente assonnata mentre continuavo sentirmi pulsare la testa in modo atroce.
- Le chiavi sotto il vaso – sbuffai sonoramente in risposta seppellendo di nuovo la testa nel cuscino mentre lui scoppiò in una risata.
- Cazzo… - borbottai con la voce mascherata dalla stoffa.
- Sinceramente tesoro, dovresti cambiargli posto – continuò a ridacchiare – Non lo sai che è il primo nascondiglio dove andrebbe a guardare un ladro? Dà tanto da film visto e rivisto – disse dandomi una leggera spinta.
- Oh fidati, è la prima cosa che farò appena te ne andrai – mi misi a sedere passandomi una mano tra i capelli arruffati.
- Già, come no, lo dici tutte le volte ma poi non lo fai –
Purtroppo aveva ragione. Dovevo piantarla di decidere di fare cose se poi non avevo la minima intenzione di completarle; era più forte di me. Accumulavo buoni propositi, idee, ma tutto finiva puntualmente nel cesso. Non portavo mai nulla a termine; non era per mancanza di voglia di fare, anzi, forse di quella ne avevo anche troppa. Sicuramente il problema risiedeva nel fatto che avevo paura nel finirle. Paura perché dopo ci sarebbe stata la sorpresa della vita nel presentarmi qualcosa di nuovo. Ed io odiavo le sorprese. Erano insidiose e l’idea di qualcosa che non mi aspettavo piombasse nella mia vita mi terrorizzava. Avevo ricevuto fin troppe sorprese da quando ero nata e tutte decisamente poco belle. Per questo mi piaceva rimanere nella mia solita e vecchia quotidianità; forse le uniche che riuscivo a tollerare erano quelle dei miei amici:
- Stavolta lo faccio veramente, non voglio che entri più in casa mia così di soppiatto – mi passai una mano sul volto – È inquietante –
- Tanto lo so che non lo farai mai – odiavo quando aveva ragione, per questo non volevo dargliela vinta troppo facilmente.
- Scommettiamo? – alzai le sopracciglia con un sorriso mentre incrociai le braccia la petto.
- Nah – scosse la testa – Tanto si sa che vincerei io – fece spallucce cercando di essere serio.
- Fanculo Ash… - borbottai di nuovo mentre lui riempiva ancora la stanza con la sua risata.
Mi piaceva quel suono. Credo fosse uno dei miei preferiti. Ashton aveva una risata pura e cristallina, metteva di buonumore, ti rallegrava e, si, delle volte ti strappava anche un sorriso. Per questo lo consideravamo il nostro angelo custode. Poi però c’erano i momenti come questo dove riusciva a farsi odiare alla perfezione:
- E anche se fosse, mi piazzerei sotto la tua finestra con la mia batteria – sorrise trionfante mentre alzava le sopracciglia in un’espressione vittoriosa.
- Prima o poi te la spacco in testa quella cosa infernale –
In realtà mi piaceva la batteria, anzi, mi piaceva come la suonava Ash, ma mi divertivo a fargli credere il contrario anche se credo l’abbia intuito:
- Sei la dolcezza in persona oggi – disse con evidente sarcasmo nella voce mentre cercava di nascondere una risatina.
- Chi io? Sempre – sorrisi imitando il suo stesso tono di voce.
- Dai, su, Ross – mi tolse le lenzuola di dosso gettandole ai piedi del letto facendomi sobbalzare al gesto repentino – Alzati e fatti una doccia che gli altri già ci aspettano al pub –
Mi alzai aggrottando la fronte e guardandolo con estrema curiosità mentre iniziai a prendere il cambio per uscire:
- Come hai fatto a convincere Bryan ad aprire il locale oggi? – domandai sbattendo le palpebre ancora attonita – Non doveva essere chiuso per qualche assurdo motivo? –
- Ho i miei metodi – fece di nuovo spallucce come per vantarsi di ciò che aveva appena detto.
- Per caso hai minacciato anche lui di svegliarlo con la tua batteria? – gli dissi sarcastica.
- Smettila e fila a fare la doccia – borbottò mentre mi spinse nel bagno – Io intanto ti prendo le pasticche per il mal di testa –
- Mio eroe! – esclamai in modo teatrale mentre lui chiudeva la porta scuotendo la testa ed avviandosi verso la cucina.
Attivai il getto d’acqua calda della doccia ed una volta tolta la maglietta, almeno larga il doppio di me, mi posizionai sotto il getto caldo rilassandomi all’istante. Tirai la testa all’indietro beandomi di quella sensazione; sembrava come se l’acqua stesse portando via con se non solo i residui del divertimento di ieri sera ma anche tutte le preoccupazioni che mi affollavano la mente portandomi sull’orlo della follia. L’acqua trascinava via tutto, mi rinnovava, mi curava, riparava la mia armatura contro il mondo ma soprattutto contro me stessa. Come se cambiassi pelle. Odiavo la situazione che mi portavo dietro ma soprattutto odiavo la mia vita dentro questa casa. Mia madre mi ignorava completamente e quelle poche volte che ci scambiavamo qualche parola non faceva che lanciarmi insulti umiliandomi con ogni parola; mentre mio padre era chissà dove. Avevo pochi ricordi di lui e per la maggiore non belli, più che altro riguardavano le litigare con mia madre. Ora lei aveva da qualche tempo aveva un compagno James credo si chiamasse, non che a me importava; l’avevo incrociato un paio di volte qui in casa ed ero sempre più convinta del fatto che non fosse una persona affidabile, ma con mia madre non si poteva ragionare. Così non le dissi più nulla a riguardo e la lasciai perdere. Dopotutto era la sua vita. Per questo spesso e volentieri mi ritrovavo Ashton per casa, voleva aiutarmi o salvarmi, si credo che quello fosse il termine adatto. Voleva salvarmi. In realtà lui voleva salvare tutti: partendo da sua madre, sua sorella e suo fratello; il padre li aveva abbandonati da piccoli ed Ash si era sobbarcato del peso dell’intera famiglia. Aveva solo un piccolo difetto quel ragazzo: voleva salvare tutti. Ma a lui chi lo avrebbe salvato? Per questo tutta la comitiva gli stava il più dietro possibile, avevamo paura che da un momento all’altro potesse cedere, spezzarsi e crollare nel baratro ma noi non lo avremmo permesso. Ci eravamo fatti una delle nostre solite promesse, quelle dove non servono le parole ma bastava uno sguardo per capirsi. Chiusi l’acqua e sospirai passandomi le mani tra i capelli bagnati, uscii dalla doccia ed una volta che mi avvolsi attorno un asciugamano aprii la porta del bagno trovandomi davanti Ashton con un bicchiere d’acqua e le pasticche per il mal di testa; quella vista inaspettata mi fece sobbalzare:
- Dio Santo, Ash! Vuoi farmi morire d’infarto? – esclamai portandomi una mano al petto come a cercar di fermare i battiti del cuore decisamente troppo accelerati.
- Non potrei mai – disse con fin troppa enfasi – E poi sfortunatamente mi servi – mi porse il bicchiere e le medicine.
- Che cosa vuoi dire con “sfortunatamente mi servi?” – domandai perplessa mentre presi la pasticca.
- Non fare troppe domande e vestiti, io ti aspetto di sotto –
- Lo sai che odio le sorprese! – gli gridai dietro ridacchiando - Traditore… – sbuffai scuotendo la testa.
Una volta indossati i miei shorts di jeans, una maglietta dei Ramones tutta strappata ed i miei inseparabili anfibi scesi di sotto dove trovai Ashton seduto comodamente sul divano con i piedi poggiati sul tavolino da caffè che c’era davanti:
- Ehi, giù i piedi da lì ed andiamo! –
Si alzò e venne verso di me con quell’espressione da furbo che lo contraddistingueva e che gli faceva brillare ancora di più gli occhi di un verde ancor più luminoso:
- Li do io gli ordini qui che sono il più grande – fece l’occhiolino e sorrise.
- Ma piantala – ridacchiai mentre gli diedi una leggera spinta per poi prendere le chiavi e dirigermi verso la porta – Sul serio Ash, dovresti smetterla con questa storia –
Il mio suonò come un avvertimento o almeno ci provai a farlo apparire tale, ma lui scoppiò ugualmente in una risata. Ero ammirata dalla sua forza. Anche se stava male e soffriva aveva sempre un sorriso per tutti. Uscimmo dalla porta e me la chiusi alle spalle per poi avviarci verso il pub alla fine della strada. Ogni tanto lo guardavo di sottecchi; c’era una cosa che mi premeva dirgli, una cosa che avevo notato ancora più evidente delle altre volte proprio ieri sera:
- Posso farti una domanda? –
- Vai, spara – disse continuando a guardare la strada davanti a se con le mani infilate nelle tasche.
- Tu e Kayla… che intenzioni avete? -  a quella domanda notai un leggero cambiamento nella sua espressione, perciò sorrisi tra me e me mentre gli diedi una leggera gomitata.
- Di cosa parli? – cercò di svagare inutilmente perché il tremolio della sua voce lo tradì.
- Oh, andiamo Ash! Lo sai benissimo di cosa parlo! – esclamai sbuffando – Ieri sera vi stavate divertendo molto –
- È quello che facciamo sempre, no? – fece spallucce con un vago sorriso sulle labbra.
- Si ma ieri sera era diverso, forse era dovuto al fatto che entrambi avevate bevuto, ma ho notato come la guardavi –
- La nostra osservatrice – disse quelle parole con tono affettuoso, poi si voltò e sorrise circondandomi le spalle con un braccio ed avvicinarmi un po’ – Sempre pronta ad indagare, eh? – ridacchiò – Ti basta uno sguardo per capire tutto di una persona –
Sorrisi tra me e me. Quello era un nomignolo che mi fu attribuito dall’intera compagnia quando un giorno, mentre eravamo nel nostro locale, mi misi a fare un gioco con Beth: dovevamo capire, attraverso le loro espressioni, cosa provavano gli altri ragazzi. Ad essere sincera non credevo che avessi detto qualcosa di sensato. Li osservavo per qualche secondo e dicevo quello che sentivo a pelle. Che poi fosse la verità mi sorprese. In realtà non facevo poi molto, erano le loro espressioni a parlarmi, i loro occhi ed i loro gesti. Io li leggevo solamente. Camminammo in silenzio per un altro paio di metri fino a raggiungere il pub: da fuori sembrava abbandonato, ma non lo era; forse aveva la porta rotta e cigolante o le finestre un po’ sporche ma noi lo amavamo ugualmente. Quando entrammo l’odore di sigaretta misto a quello di birra mi arrivò alle narici; era rassicurante, sembrava che qui dentro il tempo non si fermasse mai. Le assi del pavimento cigolavano e scricchiolavano ad ogni passo come se da un momento all’altro avrebbero ceduto sotto il nostro peso, le pareti invece erano in muratura, una volta sicuramente erano dipinte, ma con gli anni si ridussero a dei vecchi muri grigi sui quali erano appesi almeno un centinaio di vinili e qualche chitarra. In fondo al locale, proprio in parallelo con l’entrata, c’era un piccolo palco dove delle volte si esibiva qualche band di quartiere; a destra invece c’era il mio oggetto preferito qui dentro: il jukebox. Adoravo quell’affare. Racchiudeva la migliore musica che fosse stata creata a partire dagli anni 50 fino ad oggi. Bryan era un patito della musica, infatti usava la maggior parte degli incassi per tenere sempre aggiornato il suo adorato jukebox e noi lo ringraziavamo di questo; non ci importava dell’odore di legno vecchio o della birra scadente finché c’era musica: la nostra musica. Ormai avevamo una specie di colonna sonora tutta nostra. Infine, nell’angolo a sinistra, c’era il bancone: lungo ed interamente di legno, che mi ricordava quelli dei vecchi saloon che si vedevano nei film western. Era un po’ scorticato e decisamente molto vecchio, quasi una reliquia, ma si adattava alla perfezione con l’anima del posto. Eccola lì la combriccola al completo, già a sparare scemenze a quest’ora con le sigarette tra le dita e le facce ancora sbattute per la sera prima:
- Guardate un po’ chi si è degnato di raggiungerci! – esclamò Michael allargando le braccia – Signore e signori Ross ed Ash, un applauso prego – aggiunse in modo teatrale invitando gli altri ad applaudire.
- Sta zitto Clifford – gli risposi lanciandogli un occhiataccia aggiungendo un sorriso mentre mi avvicinavo a loro salutandoli.
- La colpa è sua – disse Ashton indicandomi con un cenno – Non voleva svegliarsi – ridacchiò.
- Ma come fate ad essere così attivi dopo ieri sera?! – esclamai sedendomi tra Luke e Beth – Fatico ancora a reggermi in piedi –
- Beh questo perché ieri sera ti sei divertita più del solito – disse Calum facendomi l’occhiolino.
- Come se voi vi foste comportati da Santi! – guardai verso Ashton e Kayla che distolsero lo sguardo dal mio.
- Wow ragazza mia che faccia! – esclamò Luke iniziando a ridacchiare.
- Tu pensa alla tua di faccia se non vuoi che ti ci stampi sopra un bel ceffone – sorrisi sarcastica mentre bevvi un sorso del suo caffè.
- Ma che amore di ragazza sei – scosse la testa Michael ridacchiando divertito.
- Visto?! – esclamò Ashton cercando di fare la vittima – Per non dire come mi ha trattato a me prima – scosse la testa ed incrociò le braccia al petto fingendosi indignato.
- Ma povero il nostro Ash – lo prese in giro Joy dandogli una leggera pacca sulla spalla.
- Ashton Fletcher Irwin oggi tu cerchi le botte – lo indicai mentre cercavo di trattenere una risata.
- Uh si si, vogliamo una bella rissa! – esclamò Calum battendo le mani sul bancone tutto eccitato.
- Io scommetto su Ross – disse Michael alzando la mano.
- Già anche io – annuì Calum– KO al primo colpo – guardò verso Ashton che gli riservò un’occhiataccia da farci scoppiare tutti a ridere.
- Secondo me neanche si presenterebbe sul ring – ridacchiò Kayla voltandosi verso di me e battendomi il cinque.
- Molto probabilmente – annuì Beth fingendosi seria mentre bevve dell’altro cappuccino.
- Beh ragazzi, grazie della fiducia insomma! – ridemmo nuovamente tutti assieme mentre lui cercava di mantenersi arrabbiato.
Adoravo questi momenti dove bastava una parola, una risata o un piccolo gesto a migliorarti la giornata. Ci comportavamo così la maggior parte del tempo, sempre a prenderci in giro, a punzecchiarci e ad amarci così come eravamo. Semplicemente noi stessi. Tralasciavamo le cose inutili, i contorni, e ci concentravamo sulla sostanza; non importava se uno di noi o tutti avevano una situazione orribile appena tornati a casa o se eravamo dei fuori di testa, dei psicopatici o sociopatici o qualunque altro disagio ci potevano attribuire. Tra noi eravamo sempre bene accetti. Le ferite venivano curate, i problemi accantonati ed i cuori aperti ed ascoltati; eravamo la famiglia di noi stessi, il rifugio, il ritrovo durante lo smarrimento e l’ancora alla quale attaccarci quando ci sentivamo trascinar via. Eravamo la nostra salvezza:
- Ma scusa come ha fatto ad entrarti in casa? – domandò Beth ridacchiando con quel suo sguardo illuminato dalla sua naturale luce interiore.
- Aspetta, fammi indovinare! – esclamò Luke scambiandosi uno sguardo complice con Michael.
- Le chiavi sotto il vaso! – terminò Clifford facendomi alzare gli occhi al cielo.
- Ma davvero tieni una copia delle chiavi sotto il vaso? – mi chiese Joy cercando di trattenere una risata.
- Uffaa – sbuffai – Se qualcuno tira nuovamente fuori la storia di quelle dannate chiavi finisce male! – una risata generale riempì il locale
- Ma come fai a dormire tranquilla! Quello è il primo posto dove un ladro andrebbe a guardare – ridacchiò Kayla mentre aspirava dell’altro fumo dalla sua sigaretta.
- È quello che ho detto io! – esclamò Ashton alzando le braccia in aria.
- Sta zitto a nessuno interessa – lo schernii con un sorriso.
- Io invece credo sia forte – disse Beth con un sorriso e la sua immancabile espressione emozionata – Da molto film americano, quelli in cui c’è la coppia che litiga e le si barrica in casa ma lui a quel punto si ricorda del nascondiglio segreto delle chiavi… -
- Va bene, va bene – la interruppe Calum con un sorriso – È una figata, ok – le fece l’occhiolino facendola arrossire.
- Finalmente una persona che la pensa come me! – mi rivolsi a Beth abbracciandola – Che bello avere qualcuno che ti capisce – ironizzai.
- Ed io? – chiese Luke con un mezzo sorriso alzando le sopracciglia – Pensavo fossi io quello che ti capiva meglio di tutti – si finse offeso.
- Tu sei un idiota patentato Lukey – scoppiai a ridere coinvolgendo il gruppo.
- Ehi! Fanculo a tutti – scosse la testa ridacchiando per poi riprendere a bere il suo caffè.
- Buongiorno ciurma! – esclamò una voce profonda.
Ci voltammo e davanti a noi comparve Bryan. Lui era il classico rockettaro in pensione: aveva lunghi capelli neri che gli arrivavano alle spalle che teneva per la maggior parte del tempo legati in un codino improvvisato, gli occhi erano azzurri, ma di un azzurro spento, stanco. Un azzurro vissuto com’era lui. Aveva sempre il sorriso stampato sul volto e quando rideva mostrava la sua intera dentatura dove facevano capolino due denti d’oro, una cosa alquanto bizzarra e decisamente appariscente ma così era lui. Portava sempre i suoi inseparabili pantaloni di pelle, inverno o estate che fosse, non se ne separava mai; diceva che era grazie a quelli che anni fa ottenne il primo provino assieme alla sua band ed ora per lui erano tipo un portafortuna. Aveva un carattere sempre allegro e non rifiutava mai una risata o una bevuta. Anzi, per lui quelle due cose, assieme alla musica, erano i suoi pilastri sacri. Ridere, bere ed ascoltare buona musica: era questa la sua filosofia di vita, una filosofia che noi approvavamo in pieno:
- Ehilà Bryan! – salutammo tutti in coro.
- Cos’è questo baccano, eh? – scherzò – Pensavo che dopo ieri sera non vi avrei visto almeno per un po’ – rise con la sua voce un po’ roca portandosi la mani sui fianchi.
- Ed invece eccoci qua a romperti le scatole come al solito! – esclamò Michael alzando la tazza di caffè.
- Già – scosse la testa – State diventando una spina nel fianco –
- Ah, sta zitto, sappiamo che in fondo in fondo senza di noi ti annoieresti a morte – ridacchiò Beth.
- Ssh  – si sporse verso di lei – È un segreto però, non dirlo in giro – disse strizzandole l’occhio.
- Puoi contare su di me – rispose ripetendo la sua azione.
- Bene – si voltò ed incrociò il mio sguardo – Guarda un po’ chi abbiamo qui, Ross, l’anima della festa – ridacchiai a quel soprannome – Come va piccola? – mi domandò con un sorriso arruffandomi un po’ i capelli.
- Distrutta – borbottai poggiando la fronte sul bancone – Ma ancora non credo di rendere appieno quanto sono devastata –
- Tieni tesoro, bevi – mi porse una tazza di caffè.
- Grazie mille – la presi ed iniziai a berlo.
- Allora, che programmi avete per oggi? –
- Non abbiamo mai programmi noi Bryan – ripose Luke alzando le sopracciglia come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
- Perdona la mia ignoranza – ironizzò.
- Andremo all’avventura! – esclamò Beth strappandoci un sorriso.
- Non fate troppi danni, mi raccomando –
- Ma noi siamo un danno vivente – disse Kayla a metà tra lo scherzo e la verità.
- E tu Bryan? – domandai attirando la sua attenzione – Come mai sei qui se ci avevi detto che non avresti aperto questa mattina? –
- Ringrazia il tuo amico Ashton, è lui che mi ha convinto –
- Ecco riguardo questa parte, vorrei sapere come ha fatto – dissi guardando di sbieco verso di lui.
- Uh prevedo una situazione interessante – Calum si sporse sul bancone appoggiando il mento sul palmo della mano e mi guardò divertito mentre io gli riservavo uno sguardo al dir poco confuso.
- Abbiamo fatto un accordo – guardò Ashton ed io alzai le sopracciglia.
- Che accordo? Voi due non me la raccontate giusta – iniziai a preoccuparmi alla vista dei loro sguardi d’intesa.
- Non credo ti piacerà – ridacchiò Joy scuotendo la testa.
- Ragazzi, ragazzi andiamo! – esclamò Bryan – Così me la spaventate! -
- Ok, ora inizio a preoccuparmi sul serio – incrociai le braccia al petto – Che avete combinato? –
- E fai bene – bofonchiò Beth.
- Il qui presente Ashton Irwin mi ha proposto un accordo, il quale è basato su uno scambio: io stamattina avrei aperto e loro – indicò Ashton, Calum, Luke e Michael – Si sarebbero esibiti qua una sera – terminò soddisfatto.
- E allora? – li guardai con sospetto - Cosa centro io in tutto questo? –
- Beh vedi, sempre il suddetto Ash, ha detto che tu – mi indicò – Avresti cantato con loro –
Ci mancò poco che il caffè mi andò di traverso a quell’affermazione, mi girai verso Ashton e lo guardai con gli occhi sgranati mentre lui invece con tutta la tranquillità mi fece un cenno con la mano. Se gli sguardi potessero uccidere quel ragazzo sarebbe morto da un pezzo, ma ahimè, dovevo accontentarmi di guardarlo male e tirargli dei buffetti ogni tanto. Ora se ne era uscito con quest’altra pazzia, delle volte mi chiedevo se gli venisse naturale o se le preparasse prima. Probabilmente la prima. Mi consideravo, a modo mio, una buona amica, una fotografa, ed una decente scrittrice ma decisamente non mi davo della cantante. Più di una volta, quei pochi che mi avevano sentita cantare, mi avevano detto che ero intonata ma l’essere intonata non ti faceva automaticamente una cantante. Sicuramente questo sfuggiva alla comprensione di Ashton:
- Voi siete fuori di testa – proclamai scuotendo la testa.
- Questo si sapeva già tesoro – Bryan mi fece l’occhiolino – Allora, ci stai? –
- Assolutamente no! – esclamai.
- Oh, andiamo Ross! Fallo per il tuo adorato Bryan, eh? –
- Io ti uccido – feci una risata secca.
- Ehi, guarda se proprio te la devi prendere con qualcuno fallo con il tuo amico, io non centro niente – alzò le spalle.
- Oh no, qui la colpa non è nemmeno tanto di Ash ma di qualcun’altro – mi voltai verso l’interessato. Avevo intuito dal primo istante chi aveva spinto Ashton a proporre una cosa del genere – Vero Lucas? – domandai retorica.
- Ok, ok beccato - il biondo alzò le mani in segno di resa – Chiedo venia – aggiunse con un piccolo sorriso mordendosi il lato del labbro dove aveva il piercing.
- Questa me la paghi! –
- Arrenditi, oggi ce l’hanno tutti con te – rise Joy.
- L’ho notato! –
- Dai Ross, su, non essere arrabbiata! – mi guardò con quegli occhi azzurri come l’oceano cercando di fare un’espressione innocente – Mi perdoni? –
- Idiota… - bofonchiai passandomi una mano sul viso esasperata.
- Ma sono il tuo idiota preferito, no? – sorrise coinvolgendo anche me.
- Non ti allargare adesso – scossi la testa mentre continuavo a sorridere.
- Allora tesoro, possiamo contare su di te una di queste sere? – mi domandò Bryan con serietà – Vi offro due settimane di bevute gratis -
- Bryan, sinceramente, io non credo che… -
- Dai su, accetta, accetta – mi interruppe Luke cominciando a cantilenare dandomi delle piccole spinte.
- Ti odio – scossi la testa con un sospiro.
- È un si? – domandò Bryan entusiasta.
- È un si, tranquillo – disse Kayla al posto mio.
- Kayla! – la rimproverai
- Che c’è? Hai intenzione di dire di no e negarci da bere gratis? – alzò le sopracciglia – Che stronza egoista sei! –
- Va bene, va bene – sbuffai – Non sia mai che rifiuti da bere gratis per due settimane – tutti esultarono ed io scoppiai a ridere.
- E detto questo, ora musica! –
Esclamò Kayla per poi dirigersi verso il jukebox e facendolo partire. Tutti si alzarono dagli sgabelli entusiasti, Ash mi guardò e sorrise per poi precipitarsi da Kayla. Rimasi seduta ad osservarli e risi. Ridevo perché ero contenta di averli nella mia vita, perché mi rendevano felice. Erano tutto per me. Michael si stava dimenando come un pazzo, tutto faceva tranne che seguire la musica e Calum lo seguì a ruota mentre Joy e Beth li guardavano esterrefatte ma con un sorriso divertito sul volto. Luke mi afferrò di colpo per una mano e mi fece andare nel mezzo del gruppo ed in quel momento spensi il cervello iniziandomi a scatenare sulle note di Smells Like Teen Spirit dei Nirvana. Quella canzone ci rappresentava nella sua pura essenza. Eravamo degli adolescenti, dei rifiuti ma soprattutto era così che ci sentivamo: degli spiriti.
 

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Capitolo 4
*** On The Road of Nowhere ***


Perdonate il clamoroso ritardo, ma gli impegni scolastici mi tolgono tutto il tempo libero. Per farmi perdonare ho scritto un capitolo abbastanza lungo, spero che vi piaccia e che non vi risulti pesante, ma le cose che ho scritto mi sono venute spontaneamente e servono a descrivere con maggior attenzione la vita di questi otto ragazzi. Spero rimarrete soddisfatti e che lascerete anche una piccola recensione.
Detto questo vi lascio alla lettura.
un bacio, a presto

GiuliaStark

~~
Brooklyn era una città molto grande, ma c’erano pochi luoghi che sentivamo veramente nostri come il pub. Uno di questi si trovava nei pressi dei vecchi attracchi dei battelli, proprio in prossimità del ponte. Quel grande gigante di ferro che da una parte ci faceva sentire protetti, mentre dall’altra ci incuteva un profondo timore. Una volta Calum mi disse che lui vedeva il ponte come un divisorio, come se volessero confinarci qua e separarci dal resto del mondo. Ero d’accordo. Questa città sembrava maledetta agli occhi di molti. Era come se fossimo confinati qua, come se non dovessimo provare a scappare perché altrimenti avremmo intaccato ogni cosa con la nostra oscurità. Ci sedevamo spesso quaggiù sui container una volta usati come alloggi per gli operai, ci fermavamo lì ed ammiravamo da lontano Manhattan. La città dello sfarzo, dei ricchi, di quelli che, apparentemente, stavano meglio di noi dei borghi ma che in realtà non avevano nulla. Loro non sapevano cosa voleva dire un’amicizia come la nostra, non sapevano come ci si sentiva ad essere se stessi. Anche noi portavamo una maschera delle volte, ma la loro era certamente più pesante. Il loro mondo non era reale. Non era la vera vita quella che respiravano, ma soltanto una farsa. Non conoscevano quel brivido di follia che ti prendeva dalle viscere e ti scuoteva fino al midollo, che ti faceva tremare di gioia. No. Vivevano in una bolla. Avevano una vita perfetta e programmata nei minimi dettagli; non erano ammessi fuori programma o colpi di testa. Loro non avevano nulla. A quest’ora della mattina la città si stava svegliando. I ragazzi come noi andavano a nascondersi nelle ombre, calavamo la maschera diventando sagome silenziose e lasciavamo il posto a chi sapeva come vivere sotto la luce del giorno senza rimanerne danneggiato. Loro andavano liberamente in giro per le strade, noi le evitavamo. I vecchi attracchi non erano un luogo frequentato e questo lo rendeva ancora più speciale perché lo vedevamo come un piccolo rifugio dal quale potevi ammirare da lontano la vita che andava avanti mentre la tua aveva deciso di fermarsi un po’. Le nostre erano perennemente arenate proprio come la vecchia carcassa del battello che giaceva ancorato qualche metro più in là, coperto di ruggine ed abbandonato da tutti. Un po’ come noi. Ovviamente avevamo le nostre scorrazzate, le nostre piccole avventure ed i nostri luoghi di ritrovo, ma in generale eravamo fermi. Ci muovevamo sempre nello stesso spazio, come un trenino che girava in tondo sulla ferrovia giocattolo dov’era posto. Non uscivamo mai dai nostri binari, ci sentivamo protetti ed al sicuro all’interno di essi, come se ci difendessero dalla crudeltà di quello che ci circondava. In realtà era la solita favoletta che ci raccontavamo per giustificare la paura che avevamo di andar via che faceva a pugni costantemente con la voglia di essere liberi. Dio mio che menti malate siamo. Eravamo complicati fuori misura e pieni di insicurezze a doppio senso che si scontravano con i nostri sogni. Sogni che tenevamo ben nascosti o, a seconda dell’umore, ben stretti nelle mani. I desideri di un gruppo di sognatori al quale era stato tolto questo privilegio molto tempo fa; ma la vita è così che ti tratta. O almeno tratta così quelli come noi. I ragazzi di Brooklyn non venivano trattati con i guanti. Delle volte sembrava di vivere in un grande riformatorio pieno di ragazzi tristi e dagli occhi spenti, ragazzi che gridano senza emettere un fiato, che chiedono aiuto senza essere ascoltati da nessuno, che cadono e non si rialzano. Noi eravamo fortunati. L’uno aveva l’altro, in questo modo sapevi che, almeno in parte, non eri solo, che c’era qualcuno pronto a prenderti se cadevi a terra, qualcuno che asciugava le tue lacrime se piangevi, ma soprattutto che ascoltava le tue urla se gridavi. Ed era questo che spesso e volentieri facevamo qui. Urlavamo. Liberavamo le nostre anime dal peso che ci portavamo dietro, davamo sfogo al nostro dolore gridando verso il cielo, verso il ponte, verso Manhattan e, soprattutto, verso il mondo intero. Sentivamo le nostre voci disperate riecheggiare fino perdersi in lontananza verso l’orizzonte, fin quasi ad arrivare dove la terra toccava il cielo. Il più delle volte facevamo a gara a chi urlava più forte. Ci sedevamo sul bordo del container e davamo sfogo a tutto ciò che avevamo dentro; ascoltavamo le urla l’uno dell’altro. Ne studiavamo la consistenza, controllavamo il grado di disperazione, ci perdevamo in quel suono straziante che esprimeva i nostri stati d’animo più di mille parole. Anche oggi eravamo seduti qui, accanto a me Kayla e vicino a lei l’immancabile Ashton. Chissà se lei si sarebbe mai accorta di cosa provava nei suoi confronti. Gli altri parlavano allegramente mentre io mi ero momentaneamente isolata. Vagavo con la mente in una specie di dimensione parallela che mi isolava da ciò che avevo intorno. La tranquillità che c’era qui era talmente appagante che era come se risanasse l’anima, anche quella più oscura e nera qui poteva trovare facilmente riposo. Perfino la mia taceva. Nulla, nemmeno un suono, perfino le grida nella mia testa sparivano magicamente:

- Ehi, terra chiama Ross, ci sei? – fu la voce di Joy a riportarmi alla realtà.

- Ehm… scusate – ridacchiai – Dicevate? – mi voltai a guardarla e notai il suo sorriso divertito.

- Che ti prende? – domandò Cal alzando le sopracciglia.

- Già, di solito sono io quella che ha la testa tra le nuvole – sorrise Beth.

- Tranquilla non ti ruberei mai il ruolo tesoro – le feci l’occhiolino mentre mi accendevo una sigaretta.

- Allora? – guardai verso Michael – Che ti prende? –

- Stavo pensando – feci spallucce.

Aspirai del fumo dalla sigaretta e lo buttai fuori guardando in alto verso il cielo godendomi la leggera brezza del fiume. Continuavo a guardare in alto e a lasciare in sospeso la domanda di Mike anche se sentivo letteralmente gli occhi di tutti su di me. Non è mai stato una novità per loro il mio strano carattere. Beh a dire la verità eravamo tutti strani, ma io lo ero in modo diverso. La mia stranezza era quella scura, quella che nei momenti più inaspettati ti metteva una nuvola grigia addosso rovinandoti anche i bei momenti come questo. Continuavo a guardare avanti a me verso l’orizzonte, guardavo Manhattan, il cielo, ammiravo ogni dettaglio, respiravo la vita degli altri per compensare l’assenza della mia. Mi piaceva nutrirmi della bellezza che avevo attorno, che fosse di una persona, un paesaggio, un oggetto o una foto, perfino una canzone; qualunque cosa contenesse bellezza la facevo mia. La immagazzinavo dentro di me come a voler coprire la mia aura scura, a volerla mascherare, nasconderla per paura che magari si vedesse troppo. Questo accadeva soprattutto nei momenti in cui mi sentivo forte e sicura di me, quando mi sentivo in grado di arrivare sul tetto del mondo e urlare per farmi sentire, per dire che c’ero; questi momenti, però, capitavano solo quando ero con i miei amici. Quando ero sola invece mi sentivo estremamente fragile, insicura, come se fossi scoperta e vulnerabile a qualsiasi colpo mi fosse stato inferto dalla vita; dovevo però ammettere che delle volte amavo sentirmi così. Mi piaceva percepire quella sensazione di estrema fragilità che mi pesava sulle spalle, mi piaceva crollare sotto il peso di essa per poi rimettere insieme i pezzi ricostruendo una nuova me più forte e scura dentro, ma anche più danneggiata:

- Ross? –

La voce di Luke mi riportò alla realtà ricordandomi che aspettavano ancora una mia risposta; lo guardai di sfuggita negli occhi e notai la sua espressione. Aveva lo sguardo puntato su di me, uno sguardo indagatore. Quando Luke ti osservava lo faceva con attenzione, come se volesse leggerti attraverso le barriere fino a toccarti l’anima; si fermava e stava in silenzio con le labbra leggermente dischiuse e si perdeva in te. Nei tuoi gesti, nelle tue parole e nei tuoi sguardi. Amava capire le persone, farle in qualche modo sue per poi trasformarle in testi di canzoni. Luke era il vero artista del gruppo. Sospirai e sorrisi nuovamente tra me e me mentre ripresi a guardare il fiume:

- In realtà stavo pensando di trasferirmi qua – dissi mentre aspiravo altro fumo dalla sigaretta.

Calò un leggero silenzio durante il quale si scambiarono degli sguardi confusi e delle risate divertite; Kayla si girò verso di me, e dopo aver aspirato del fumo dalla mia sigaretta, mi sorrise facendomi l’occhiolino:

- Ma sei seria? – domandò Joy con una risatina ed un’espressione abbastanza confusa.

- Serissima! – esclamai con un sorriso velato.

- Tu sei tutta strana – ridacchiò Calum scuotendo la testa mentre cacciava fuori una risata.

- Mi hanno fatto insulti peggiori – feci spallucce mentre facevo cadere un po’ di cenere dalla sigaretta – E poi senti chi ha parlato, Mister Normalità – lo imbruttii mentre lui alzava il dito medio verso di me; sgranai gli occhi fingendomi offesa e mi alzai leggermente per tirargli un buffetto dietro il collo.

- Io dico che non è una cattiva idea – disse Kayla mentre aspirava nuovamente dalla mia sigaretta.

- Grazie! – esclamai sollevata che qualcuno la pensasse come me.

- Beh si, ha il suo fascino vivere in stile eremita e contemplare ciò che ti circonda finché non diventerai pazza per il troppo silenzio – aggiunse Mike in tono sarcastico.

- Più o meno – ridacchiai.

- Io lo trovo un ottimo rifugio – aggiunse Beth mentre guardava il cielo sopra le nostre teste e fantasticava – Sapete quando non vuoi essere trovato e allora ti crei il tuo piccolo fortino? Beh, qui sarebbe perfetto – guardò di sfuggita verso di me per poi tornare a fissare le nuvole con un leggero sorriso sul volto, il sorriso da sognatrice che la rappresentava e che noi tutti amavamo – Potresti chiuderti qui nella tua piccola bolla felice e lasciarti tutto alle spalle, quaggiù nessuno verrebbe a cercarti, no? –

- Esatto… - sussurrai mentre mi osservavo le punte degli anfibi – Qui spariresti facilmente -

- E tu vuoi sparire? – domandò Luke inarcando le sopracciglia e dischiudendo leggermente le labbra rosee.

Sentivo lo sguardo di tutti puntato addosso; non era una novità per noi fare discorsi del genere, ma non sapevo perché ogni volta li tiravo in ballo io tutti diventavano più cauti, forse perché temevano che lo avessi fatto veramente prima o poi. Spesso mi chiedevo se ne avrei avuto veramente il coraggio, prendere il necessario e sparire. Nascondermi dal ponte, da Brooklyn, da quella che era la mia famiglia sfasciata e soprattutto dalla me stessa che mi sarei lasciata alle spalle. Partire mi avrebbe fatto bene. Respirare aria nuova, aria pulita che non sapesse di disperazione e prigionia era ciò che un giorno avrei sperato di fare; magari sarei potuta partire e creare una nuova Ross, cambiare nome, personalità. Spogliarmi della vecchia me e vestirmi di nuovo, di pulito, smacchiare la mia anima dal nero che l’aveva intaccata e semplicemente vivere ancora:

- Perché no? – sospirai seppur mantenendo un mezzo sorriso – Qui è tutto così tranquillo, tutto tace, perfino l’urlo di Brooklyn non arriva fin qui –

- Ross, sai cosa intendiamo per sparire – precisò Ash con sguardo serio.

Guardai Ashton negli occhi e in quell’istante notai una leggera preoccupazione. Lui era fatto così, al minimo segnale che qualcuno stava male scattava. Non importava il momento o l’ora, no. Per lui era importante aiutare gli altri prima di se stesso. Spostai lo sguardo anche sugli altri e piano piano vidi nascere sui loro volti la stessa espressione, così, per non affrontare l’argomento ora, sorrisi e scossi la testa. Non volevo allarmarli inutilmente, ma purtroppo ogni tanto la mia nuvoletta nera veniva a farmi ombra:

- Io, sparire? – inarcai le sopracciglia – Non vi libererete così facilmente di me –

- Meglio così – annuì Mike con un’espressione fin troppo seria sul volto.

- Ciò non toglie che non sarebbe affatto male vivere qui – ribattei mentre buttai la cicca a terra e la schiacciai con la suola della scarpa.

- Si ok, sarà pure fighissimo e tutto quello che volete, ma io lo trovo anche leggermente poco igienico – ribatté Joy mentre Calum annuiva d’accordo con lei.

- Ma perché dovete sempre smontarci tutto? – sbuffò Kayla – Non cogliete la bellezza e l’essenza di questo posto –

- Tesoro lo sai che ti vogliamo bene, ma ti prego, le frasi da filosofa non le sai fare –

- Fanculo Hood – rispose con un mezzo sorriso mentre si accendeva una sigaretta.

- E tu Lukey? Non dormiresti qui? – gli domandai con un sorriso furbo.

- Con te? – inarcò le sopracciglia.

- Oh, oh! – esclamò Michael scambiandosi uno sguardo d’intesa con Calum – Questo è un chiaro invito –

- Certo! Un invito a prenderle – risposi scuotendo la testa.

- Ma perché oggi vuoi solo picchiare la gente!? – esclamò il biondo gettando le braccia all’aria.

- Forse perché voi quattro idioti mi ispirate violenza? – risposi retorica.

- Sicura che ti ispiriamo solo quello? – domandò Calum con aria maliziosa facendo scoppiare tutti a ridere mentre io continuavo a guardarlo minacciosamente ma con pur sempre un leggero sorriso.

- Non credo che vorreste sapere la mia risposta – scossi la testa alzando lo sguardo al cielo.

- Andiamo Ross, sappiamo che siamo irresistibili – disse Mike facendo l’occhiolino.

- Oh si, si – esclamò Joy – Basta crederci ragazzi –

- Ahi – tutti e quattro contemporaneamente si misero una mano sul cuore fingendo un forte dolore – Così ci ferisci profondamente tesoro –

- Sopravvivrete – ridacchiò Kayla facendo spallucce.

- Senza le nostre ragazze preferite? Non credo – aggiunse Ashton scuotendo la testa.

- Dite così solo perché non avete uno straccio di ragazza – ridacchiò Beth mentre li prendeva in giro.

- Questo lo prendo come un insulto personale! – le disse Calum fingendosi offeso mentre le puntava il dito contro.

- Prendetelo come vi pare, ma è così – ridacchiai.

- Vi dimostreremo il contrario allora – rispose Luke guardando fisso verso di me e battendo il cinque a Cal.

Mi aprii in un leggero sorriso ed abbassai la testa distogliendo lo sguardo da lui. Erano solo un gruppo di quattro ragazzi idioti con gli ormoni in panne, pronti a fare qualunque cosa pur di mostrare che sapevano il fatto loro. Mentre gli altri continuavano a blaterare mi venne in mente quella volta che Calum e Michael fecero una scommessa. Era una di quelle cose stupide che si fanno tra maschi per farsi ‘’grandi’’ con gli amici. In poche parole quei due grandissimi idioti avevano scommesso a chi avrebbe invitato per primo ad uscire Sally Roseswitt, la ragazza più popolare della scuola nonché la più… beh mi verrebbe da dire idiota, ma poi risulterebbe poco carino, quindi mi limiterò a dire che non brillava per intelligenza quando si trattava di questioni morali. Sally era una di quelle ragazze che si sentivano il centro esatto dell’universo semplicemente perché aveva i soldi per poterselo permettere. Non era una cattiva ragazza, solo che basava esclusivamente la sua vita sull’apparire, un po’ come i ragazzi che vivevano a Manhattan. Lei non era stata intaccata dall’anima di Brooklyn e in un certo senso la invidiavo anche, mentre dall’altro non sapevo se mi incuteva una certa tenerezza o meno; io ero diventata così grazie a questa città ed alle sue strade, avevo permesso che mi entrassero dentro e mi plasmassero a loro piacimento come un pezzo d’argilla. Lei no. Lei era, in un certo senso, ‘’pura’’ dal nero, ma troppo bianca e luminosa per la gente come noi. La strada ti formava, ti induriva, ti aiutava a vedere le cose come stavano veramente e nascondersi per impedirlo non ti garantiva la sopravvivenza, anzi, era come se avessi firmato la tua condanna a morte. Tornando alla scommessa, beh ecco… diciamo che nessuno dei due era riuscito pienamente nell’intento visto che Sally, non solo aveva accettato entrambi gli inviti ma li aveva anche bidonati non presentandosi all’appuntamento. Le loro facce furono epiche, anche se credo che per loro fu tutt’altra storia vista l’umiliazione subita al loro inesistente, o quasi, orgoglio maschile. Una cosa che ogni volta che ero a scuola mi balzava in mente era che molto probabilmente Sally aveva una stratosferica cotta per Luke. Delle volte mi capitava di sorprenderla a guardarlo da lontano per i corridoi, in mensa, una volta perfino in classe, cosa rara per lei visto che teneva moltissimo al suo rendimento scolastico. Mi veniva da ridere: la ragazza super perfetta che si prendeva una sbandata per il ragazzo problematico… tipica storia da film sdolcinato. Peccato che Luke non la guardasse neanche e lei, abituata alla moltitudine di ragazzi che le morivano dietro, non accettava il fatto di essere ignorata. Tornai alla realtà per qualche secondo e mi voltai verso gli altri: Calum e Michael erano impegnati a fare gli idioti, come sempre del resto, in una sorta di gara a chi riusciva ad infilarsi più sigarette in bocca, cosa che fece letteralmente inorridire Ashton che alzò gli occhi al cielo in segno di disperazione e magari pregando anche qualche divinità che un po’ di intelligenza si fosse insinuata in quei due cervelli vuoti. Sorrisi leggermente e mi strinsi le gambe al petto poggiando la guancia sulle ginocchia e semplicemente godendomi lo spettacolo che avevo di fronte: quei due continuavano a riempirsi la bocca, Ash pregava ancora in tutte le lingue del mondo per fermarli ed evitare una corsa al pronto soccorso, Beth e Joy li guardavano allibite a metà tra l’ammirazione e lo spavento ma con sempre quel loro sorriso speciale che spuntava solo quando si trattava di Mike e Cal; Kayla… niente, lei rideva e basta, gettava la testa all’indietro e si lasciava andare in una risata di pura gioia regalandoci il privilegio di ascoltare la sua voce cristallina che riempiva l’aria. Quando rideva Kayla tutto si fermava, forse perché era quella che lo faceva di meno. Lei diceva lo stesso di me. Una volta mi fece notare che quando ridevo io tutti si fermavano a guardarmi, come se fosse uno spettacolo riservato a pochi; mi diceva che risate come le nostre erano speciali perché non si sentono spesso, sono come dei tesori nascosti che tutti cercano e che delle volte saltano fuori inaspettatamente. Aveva una visione completamente sua di ogni cosa, una visione artistica, da sognatrice silenziosa rispetto a Beth che, invece di mascherarlo, lo andava a sbandierare fiera davanti a tutti. Delle volte mi sorprendeva la mia somiglianza con Kayla, sembravamo due parti divise di un’unica cosa. Aveva la sua stramba teoria che ci vedeva come sorelle, ma che, per tragici motivi, furono separate alla nascita ed adottate da due famiglie diverse. Lei raccontava, io la ascoltavo e ridevo beandomi della sua esaltazione nel volermi assolutamente come parte di lei. Due anime buie e nere che in un modo malsano riuscivano ad amalgamarsi perfettamente alla luce brillante dei nostri compagni di malefatte. Improvvisamente mentre mi beavo della bellezza di quel momento, qualcosa di remoto bussò alla parte cosciente della mia testa portando a posarsi su di me nuovamente la mia solita nuvoletta: dovevo tornare a casa. Mi alzai dal tetto del container e mi tolsi la polvere dalle gambe, mi guardai intorno e con un sospiro mi voltai verso gli altri:

- Dove vai Ross? – mi domandò Michael.

- Devo tornare a casa – dissi sospirando mentre alzavo gli occhi al cielo.

- Sicura di voler andare? – mi domandò Ash con cautela.

Non appena avevo accennato al fatto che sarei tornata a casa tutti si erano zittiti, perfino l’ambiente attorno a noi sembrava essersi fermato e questo succedeva ogni volta. Tutti erano terrorizzati dal mio ‘’torno a casa’’. Forse perché non si sentivano tranquilli, soprattutto visti i precedenti con James, il compagno di mia madre:

- Devo per forza ragazzi, vorrei rimanere ma sapete la situazione –

- Tranquilla tesoro, ti capiamo perfettamente – sorrise leggermente Joy.

- Grazie – sussurrai.

- Ci vediamo dopo? – domandò Cal con una certa incertezza della voce.

- Che avete in mente di fare? –

- Volevamo andare allo skate park nel pomeriggio – fece spallucce.

- Ok, va bene – annuii mentre con la testa ero già proiettata verso quello che mi aspettava una volta tornata a casa.

- Sicura di star bene? – chiese Beth osservandomi con i suoi grandi occhioni scuri.

- Non lo so… - feci spallucce con un mezzo sorriso – Non credo che la parola ‘’bene’’ mi si addice molto -

- Siamo in due bambolina – mi fece l’occhiolino Kayla mentre ci scambiavamo un sorriso d’intesa.

- Sai che ci siamo per qualunque cosa, no? – ribadì Ash con la sua solita espressione seria che improvvisamente gli calava sul volto in questi casi.

- Lo so ragazzi, lo so – ridacchiai.

- Vuoi che ti accompagno? – mi chiese Luke con un filo di voce mentre mi guardava con attenzione.

- Tranquillo, non serve – sorrisi leggermente.

- Come vuoi – sospirò – Allora ti passo a prendere più tardi per andare allo skate park –

- Non ho bisogno della balia – ridacchiai scuotendo leggermente la testa ed incrociando le braccia al petto.

- Ma sta zitta – rise anche lui – Tu adori avermi intorno –

- Non contarci troppo Hemmings – sorrisi nuovamente, poi mi voltai verso gli altri – A dopo ragazzi –

- A dopo! – risposero tutti assieme.

Scesi dal tetto del container e con le mani nelle tasche mi diressi verso casa, anche se chiamare quelle quattro mura ‘’casa’’ era un parolone. Forse ero io che sbagliavo ed affibbiavo quella parola ad un luogo dove ti sentivi amata e protetta, ma non potevo farci niente… lì c’era tutto fuorché amore, anzi, regnava solo l’indifferenza. Un’indifferenza fredda e glaciale di chi ormai aveva privato se stesso dei sentimenti positivi che poteva provare e riempiendosi solo di freddezza. Eravamo agli inizi di agosto e faceva un caldo tremendo, quel caldo che ti mandava a fuoco la pelle anche se ti trovavi in ombra e che sembrava volerti sciogliere fino alle ossa per poi farti sparire. Delle volte credevo che sarei evaporata nel nulla. Le uniche cose positive dell’estate erano le vacanze e le lunghe nottate passate fuori a cantare in strada e guardare le stelle; per il resto preferivo di gran lunga l’inverno. Amavo avvolgermi nelle coperte e sentirmi circondata dal calore, una calore artificiale che sostituiva quello che non ricevevo dalla mia famiglia. Forse era questa la cosa che preferivo di più di quella stagione. Potevo facilmente sostituire le mancanze affettive semplicemente stringendomi nelle coperte o ad un qualche stupido peluche. Mi sentivo incredibilmente patetica. Ma cos’altro potevo fare? Dovevo tappare i buchi e quello era l’unico modo per farlo. Quello ed i miei amici. Di molte cose non avevo alcuna certezza, ma su una in particolare non avevo dubbi: la casa era dove si trovava il cuore. Non doveva trattarsi unicamente di un luogo preciso formato da un paio di muri, no, poteva benissimo essere un luogo comune come ad esempio il bar o gli attracchi, poteva trattarsi di un oggetto che ti dava familiarità o una persona. Per me il significato di casa era strettamente legato a quella banda di scalmanati che chiamavo amici. Loro sapevano sempre come accoglierti, come comportarsi, come farti sentire ben accetto e parte integrante di qualcosa. Eravamo l’uno la casa dell’altro. Non solo la forza, ma anche il rifugio. Per tornare indietro bisognava passare in mezzo ad una vecchia strada abbandonata ai cui lati si innalzavano dei grandi palazzoni in mattoni dal leggero color sabbia, come se chi li aveva costruiti, usando una tonalità più chiara, avesse voluto in qualche modo smorzare l’imponenza di quegli edifici. Questo vicolo era abbandonato da anni. I palazzi erano in rovina, le finestre sbarrate, altre rotte, graffiti e scritte varie comparivano sulle pareti come a testimoniare l’abbandono. La strada era qua e là ricoperta da fogliacci e pezzi di carta vari lasciati dai pochi che osavano avventurarsi fin qui per scendere fino agli attracchi, come a testimoniare il loro passaggio ed il coraggio di essersi spinti fin qua. Volevano lasciare un pezzetto di loro. Era una strada fantasma. Delle volte ai lati dei marciapiedi era parcheggiata qualche auto, sicuramente rubata, ma la cosa che faceva più impressione era il grande silenzio che c’era. Come se si entrasse in una specie di dimensione parallela fuori dal mondo dove i suoni non esistevano, nulla, tutto taceva e le orecchie ti scoppiavano per la troppa tranquillità paragonata con l’intenso cuore pulsante della città. La maggior parte delle volte che vi ci passavo alzavo lo sguardo e mi fermavo ad osservare quelle grandi costruzioni che avrebbero dovuto ospitare qualche casa, ufficio o fabbrica e mi perdevo nella loro maestosità ed inquietudine, nel loro abbandono al nulla. Era come se Brooklyn li avesse inghiottiti. Anche loro erano caduti sotto la rovina di questa città. Grandi ammassi di mattoni e cemento ridotti a degli scheletri, quasi spettri agli occhi della gente. Ombre che stavano ai lati della strada ed osservavano silenziose e pazienti, che ti squadravano, ti incutevano timore e nel frattempo aspettavano. Aspettavano di venir corrose dal tempo, aspettavano di vivere e nell’attesa osservavano la vita degli altri che gli scorreva intorno facendo di essa i propri ricordi ed il proprio vissuto. Vedevano generazione dopo generazione andar via, le vedevano trasformarsi in polvere mentre loro resistevano oltre lo spazio ed il tempo rendendosi immortali, invincibili. Rendendosi complici della maledizione di Brooklyn. Non appena mi ritrovai davanti la porta di casa fui subito invasa da un impulso che mi spingeva ad andarmene, fare marcia indietro e tornare dai ragazzi ma non potevo. Odiavo dover stare in questa casa ma non avevo scelta, l’unico luogo a darmi conforto lì dentro era la mia camera. Guardavo immobile quella costruzione a due piani e mi sentivo come imprigionata in una gabbia di filo spinato. Era una casa di periferia in mattoni rosso scuro e gli infissi bianchi sbiaditi dal tempo: aveva un’atmosfera cupa e sinistra, come a volermi ricordare la sofferenza che mi aspettava all’interno, anzi, sembrava che quella stessa sofferenza trasparisse in ogni dettaglio, come se volesse uscire fuori e scappare dalla sua stessa prigione. Tirai un lungo sospiro e mi avvicinai alla porta aprendola con le chiavi; appena misi piede all’interno un forte odore di alcool e fumo mi arrivò alle narici facendomi spuntare sul volto un’espressione di puro disgusto. In un paio d’ore che ero mancata la casa si era trasformata in un porcile e sapevo perfettamente a chi attribuire la colpa: James, il compagno di mia madre. Lo disprezzavo. Non poteva essere nemmeno considerato un uomo visto che era molto più giovane di lei; veniva qui quando gli faceva più comodo e tutto quello che sapeva fare era bere, fumare, svuotarci il frigo ed alla fine, come se non bastasse, mettere tutto a soqquadro. Mi chiusi la porta alle spalle e nel mentre mi uscì un altro sospiro; mi guardai attorno e già dal corridoio notai varie bottiglie mezze vuote sparse a terra ed alcune cicche vicino ad esse. Non sapevo perché mia madre gli dava il permesso di comportarsi così. Lo aveva fatto entrare con prepotenza non solo nella sua vita, ma anche nella mia; gli concedeva di dormire qui per giorni, di mangiare con noi, di rovistare in casa e rubarle i soldi che già di loro scarseggiavano. Stava sfruttando mia madre e lei non se rendeva conto, anzi, gli dava perfino il via libera per farlo; era come se non le importasse di altri che lui. Ciò che pensava, diceva o faceva per lei valevano oro, come se fossero vitali. Ogni volta che doveva prendere una decisione si rivolgeva sempre a lui. Sembrava quasi lo venerasse. All’inizio dello scorso anno quando tutto cominciò non dissi nulla perché capivo il suo bisogno di avere qualcuno accanto dopo anni; mio padre ci aveva lasciato quando ero piccola e non aveva dato più notizie di se. L’unica cosa che ricevetti da parte sua fu a tredici anni per Natale: era un piccolo pacchetto con dentro una miniatura del London Bridge direttamente dal suo ultimo viaggio e con esso una cartolina che riportava poche parole, perlopiù formali, e che in grandi linee dicevano che si era trasferito a New York. Mia madre non superò mai il divorzio e quando mi presentò James come suo nuovo compagno sperai veramente che l’avrebbe resa felice, poco importava se aveva 9 anni più di me, poco importava se non aveva un lavoro ed i suoi genitori lo buttavano fuori casa di tanto in tanto; l’unica cosa che contava era che alla fine di tutto mia madre sarebbe stata meglio. Ma questo non accadde. Lei credeva di essere felice. Non si rendeva conto di quello che le faceva James, delle liti da ubriachi, degli oggetti che volavano e delle nottate che trascorrevano fuori fino all’alba. Delle volte sparivano per giorni senza dare notizie ed al loro ritorno mia madre sembrava sempre più stanca, magra ed invecchiata. Non sapevo dove andavano e sinceramente nemmeno volevo saperlo, mi chiudevo nella mia camera lasciando tutto fuori dalla porta e mi perdevo a fissare il soffitto per ore finché la vista mi si offuscava o qualcuno dei miei amici veniva a bussarmi alla porta riportandomi alla realtà. Da un lato potevo anche capirla. Si sentiva desiderata dopo tempo, anche se era in modo malsano ed osceno, a lei non importava. Aveva James e sembrava che lui fosse tutto quello di cui aveva bisogno. Ero completamente sparita ai suoi occhi, mi considerava poco più di un’ombra che vagava per casa ed ogni tanto si degnava di sedersi con loro a tavola a giocare alla famiglia felice. James mi aveva tolto quella che una volta consideravo mia madre, l’aveva cambiata e riportata a me come una persona diversa. Non sprecherò tempo a dire che mi mancava la nostra vita a due senza nessun uomo intorno o che mi mancava il suo affetto perché anche quando eravamo solo noi sembrava una candela esposta al vento e che minacciava di spegnersi, no, non mi sarei abbandonata a quei ricordi. Dovevo rendermi forte, determinata e cercare di cacciare da questa casa quell’ammasso di immondizia che era James. Raccolsi con uno scatto di rabbia le bottiglie ed entrai a passo spedito in cucina, presi un sacchetto di plastica e le misi all’interno, poi iniziai a mettere in ordine il disastro che c’era in quella stanza. Era pieno di lattine di birra, bicchieri, altre bottiglie di alcolici, piatti sporchi, confezioni di biscotti e patatine, un cartone della pizza ed altre cicche. Delle volte avevo provato a non riordinare e far vedere a mia madre il disastro del suo compagno, ma lei sembrava come se avesse le bende sugli occhi. Era inutile parlarle e soprattutto parlar male di lui, non ascoltava, dava la colpa a me perché per lei era più semplice rinnegare me che il suo ‘’grande amore’’ come lo chiamava lei. Mentre ero indaffarata a sistemare sentii dei passi pesanti scendere giù dalle scale, segno che James era ancora qui ad appestare questa casa. Nonostante fossi in cucina riuscivo a sentire la puzza che si portava dietro; avevo i nervi a fior di pelle:

- James! – uscii a passo svelto dalla cucina e determinata andai verso di lui – Quante volte ti ho detto che non voglio sentire in casa mia la puzza del tuo alcool e delle tue sigarette da quattro soldi! –

Si voltò a guardarmi con quegli occhi verdi e acquosi per via dell’alcool e chissà quale delle altre sostanze di cui faceva uso; si vedeva lontano un miglio che era ubriaco fradicio e non erano nemmeno le tre del pomeriggio. Io non mi reputavo migliore di lui. Bevevo e fumavo anche io, ma lo facevo lontano da mia madre, lontano dalla mia casa e mai mi sarei presentata qui ubriaca fradicia quanto lui. Mi guardava dall’alto in basso con quell’espressione da malato di mente che aveva, come se avrebbe voluto da un momento all’altro saltarmi addosso. Si sentiva padrone di questa casa, di mia madre ma non riusciva ad avere anche me e questo lo infastidiva:

- Buongiorno anche a te tesoro – disse con un disgustoso sorriso mentre si poggiava alla ringhiera delle scale.

- Non chiamarmi tesoro – risposi la con solita espressione disgustata che gli riservavo – Ancora devo capire cosa ci trova mia madre in te – dissi a denti stretti mentre mi voltavo per tornare a sistemare la cucina.

Non appena mi voltai, James mi afferrò per un braccio e con forza mi spinse all’indietro finché non finii con le spalle al muro. Era davanti a me, pochi centimetri ci separavano; potevo sentire l’odore del suo alito appestato dall’alcool, la sua puzza di fumo e sudore e tutto ciò mi dava la nausea. Il solo contatto con la sua pelle mi faceva ribrezzo in un modo indicibile. Con la mano sinistra teneva ancora stretto il mio braccio impedendomi così ogni movimento, mentre la destra era poggiata sulla parete dietro di me. Ero bloccata lì, tra lui ed il muro. Mi continuava ad osservare in ogni minimo dettaglio, come se volesse farlo suo, assorbirlo. Voleva che mi sottomettessi come mia madre. Lo spazio tra noi era così ridotto che sentivo le punte dei suoi capelli sfiorarmi le guance facendomi rabbrividire dal ribrezzo e dalla paura. Cercai di divincolarmi ma nulla, nonostante fosse ubriaco continuava ad essere molto più forte di me; aumentò la stretta attorno al mio braccio facendomi leggermente male, mentre spostò l’altra mano dal muro al mio fianco direttamente sotto la maglietta. Rabbrividii nuovamente alla sensazione della sua mano calda e sudata a contatto diretto con la mia pelle e trattenni ancora una volta i conati di vomito; distolsi lo sguardo girando il volto verso sinistra e lo puntai verso la porta. Lui rise. Una roca e profonda risata che gli veniva direttamente da dentro e che non faceva che confermare la mia teoria che, oltre ad essere ubriaco, era decisamente pazzo:

- Vieni in camera da letto e te lo faccio vedere tesoro – mi sussurrò all’orecchio mentre continuava a strofinarmi il fianco.

Quando si avvicinò ancora di più mi irrigidii cercando in qualche modo di divincolarmi prima che riuscisse a fare qualunque cosa avesse in mente, così, presa da un impeto di rabbia, lo spinsi via con tutte le forze che avevo riuscendo finalmente a staccarmelo di dosso:

- Mi fai schifo – dissi a denti stretti mentre cercavo di trattenere il fiatone che avevo.

- Ah si? – sorrise leggermente – Io non credo proprio – disse mentre mi afferrava per i fianchi spingendomi ancora al muro.

- Toglimi le mani di dosso –

- Altrimenti cosa fai? – domandò retorico mentre mi prendeva il mento tra il pollice e l’indice avvicinando il mio viso al suo – Mi scateni contro uno dei tuoi amichetti disagiati come l’altra volta? – aveva ancora quel ghigno sulle labbra. Quanto avrei voluto stapparglielo via con un paio di sberle.

- Non scherzarci troppo su, potrei farlo –

- Non ho paura di loro – ridacchiò scuotendo la testa.

- Nemmeno loro di te –

- E tu piccola? – si avvicinò nuovamente – Tu hai paura di me? –

- No – risposi con decisione.

- Dovresti invece -

Lo vidi avvicinarsi nuovamente e, capite le sue intenzioni, agii prima di lui tirandogli uno schiaffo. Rimasi per qualche secondo a fissarlo mentre si massaggiava la guancia ed alla fine corsi su per le scale per poi chiudermi nella mia camera. Girai la chiave nella serratura e poggiai la schiena contro la porta socchiudendo gli occhi mentre lasciavo andare la testa all’indietro. Il respiro era leggermente affannato e tremavo; sentivo ancora le sue mani addosso che mi davano una sensazione di sporco, di impuro. Mi si appiccicava in profondità fino a rimanermi dentro. All’improvviso mi svegliai dal torpore e spalancai gli occhi: dovevo togliermi quell’orribile sensazione. Iniziai a spogliarmi in gran fretta e con anche una certa rabbia, gettai i vestiti a terra e raggiunsi la doccia; non appena fui sotto il getto caldo tutto quel sudiciume che sentivo addosso scomparve. James era scomparso. L’acqua curava le mie ferite e leniva il mio dolore, placava i miei demoni e mi rinnovava portandomi ad una specie di rinascita. Sentivo tutto scivolarmi addosso e nel mentre mi beavo di quella sensazione poggiai la fronte contro le piastrelle bianche e fredde della doccia socchiudendo gli occhi. Nonostante avessi le palpebre serrate ancora riuscivo a vedere il volto sogghignate di James: sapevo benissimo che il suo sguardo da pazzo non lo avrei dimenticato e che mi avrebbe tormentata mentre dormivo aggiungendo nuovi incubi a quelli che già avevo. Nella mia mente la scena di poco fa continuava a ripetersi. Sembrava che fossi finita in una dimensione infernale. Non mi erano affatto nuovi i comportamenti di James, ma odiavo non poter far nulla per fermarlo, odiavo non essere abbastanza forte. Diversi mesi fa successe che, durante uno dei nostri innumerevoli litigi, lui avesse alzato le mani; non era la prima volta che accadeva, ma prima non aveva mai lasciato alcun segno. Quella volta si. Mi ritrovai con un alone violaceo sulla guancia ed una contusione alla spalla per la violenza con cui mi aveva sbattuto al muro. Dopo la litigata ero corsa fuori da casa e senza prendere fiato o fermarmi feci la strada di corsa fino agli attracchi sedendomi sul tetto del solito container e cominciando ad urlare. Non sapevo per quanto tempo ero rimasta lì, ma doveva essere abbastanza perché quando alla fine mi vennero a cercare lì avevano tutti un viso preoccupato. Beth aveva perfino pianto. Joy mi abbracciò di getto mentre Kayla mi osservava e basta con la sua solita espressione vacua. Aveva capito tutto. Lei riusciva a leggermi dentro semplicemente perché la nostra situazione era simile. I ragazzi invece si guardavano con espressioni confuse e solo quando mi staccai dall’abbraccio notarono la leggera sfumatura violacea che avevo sullo zigomo. Calò un silenzio ancora più profondo del solito. Io ero ancora seduta a terra e loro mi guardavano dall’alto aspettando una parola, un gesto un segnale, qualunque cosa; ma io non sapevo cosa dire, fissavo il vuoto e basta. Mi ricordo ancora quando Ash si inginocchiò di fronte a me e mi prese il volto tra le mani costringendomi a guardarlo dritto nelle sue iridi verdi, mi chiese in un sussurro cosa era successo ma io continuavo a tacere. I ricordi di quell’episodio sono tutt’ora leggermente confusi dato che ero sotto shock, ma ricordo alla perfezione quando Luke mi prese in braccio e tutti insieme mi portarono a casa sua. In quel momento mi affidai completamente a loro. Mi curarono le ferite esterne, mi trattarono come fossi di porcellana; Cal mi tenne la mano tutto il tempo alternandosi con gli altri di tanto in tanto e solo nel momento in cui vidi i volti di tutti in procinto di crollare sotto i mille pensieri che gli frullavano in testa parlai. Inutile dire come reagirono quelle quattro teste calde di Luke, Calum, Michael ed Ashton. Già, perfino Ashton ci si era messo in mezzo. Quando mi videro ridotta in quel modo per colpa di James qualcosa in loro scattò, non li avevo mai visti così. Avevano i nervi a fior di pelle, si poteva percepire la rabbia che scorreva nei loro corpi. Le mani di Calum e Mike erano strette a pugno e tremavano scosse da spasmi incontrollabili; la tensione era talmente densa in quella stanza che si poteva addirittura tagliare con un coltello, si percepiva a pelle, impregnava ogni cosa e racchiudeva tutti quanti in una bolla statica, elettrica come se da un momento all’altro qualcuno fosse saltato e scoppiato per il nervosismo. Nei giorni successivi le cose non migliorarono, anzi, qualcosa iniziò a cambiare, i ragazzi cambiarono. Quei quattro divennero sfuggenti nel giro di pochi giorni, ci davano buca ed erano completamente assenti. Una settimana dopo capii perché. Era una sera normale, beh l’aggettivo normale era fuori luogo in casa mia ma sorvoliamo; comunque quando rientrò James a casa, dopo una lunga e pesante giornata a girovagare per i bar di Brooklyn ad ubriacarsi, era completamente ricoperto di lividi e sangue rappreso che gli usciva dal naso e dal labbro inferiore decisamente spaccato. Non mi servivano conferme, sapevo perfettamente chi era stato, anzi, chi erano stati. Il giorno dopo quando ci incontrammo tutti al bar non dissi nulla, non c’erano bisogno di parole bastavano gli sguardi che ci eravamo scambiati e la vista delle loro nocche arrossate e leggermente scorticate. Settimane dopo Mike mi disse che fu Luke a proporre ed organizzare il tutto, ecco perché aveva le mani messe peggio degli altri. Uscii dalla doccia con un asciugamano ben stretto attorno al corpo e mi sentii subito più rilassata sapendo che qui dentro ero finalmente al sicuro. Tra queste mura niente poteva farmi male, ero irraggiungibile. La mia camera era la mia fortezza. Non riuscivo a spiegare appieno la sensazione che avevo ogni volta che ero chiusa qui, ma era qualcosa di molto simile al concetto di casa. Ero sempre stata dell’idea che la camera di qualcuno fosse qualcosa di estremamente personale ed espressivo, come se fosse una bacheca dove esporre se stessi. Ti rappresentava, eri tu sotto forma di oggetti e colori, era la tua anima, la tua essenza; parlava di te a chi era bravo non solo ad osservare, ma anche ad ascoltare, non con le orecchie ma con l’anima. Ascoltare le vibrazioni e le storie nascoste in ogni singola cosa presente all’interno della stanza. Un piccolo spazio solo tuo dove potevi esprimere te stesso. La mia non era affatto diversa. Ovunque ti voltavi si poteva leggere la mia firma sopra, la mia personalità. Tutto ciò che nascondevo, qui veniva a galla sotto forma di un poster, una foto, qualunque cosa. La mia anima faceva sede qui. Sapevo che sarebbe stata più al sicuro tra queste mura che fuori in strada con me, almeno qui nessuno l’avrebbe calpestata. Le anime della gente dovrebbero essere tutte lasciate nelle proprie camere da letto e non portate in giro. Amavo far mie queste mura e ritrovarmi in esse ogni volta che mi perdevo. Erano la mia mappa, la mia storia, semplicemente me in ogni mia sfumatura. I muri erano di un bianco leggermente sbiadito per via degli anni, ma non si notava più di tanto visto che erano completamente, o quasi, tappezzato di poster soprattutto nello spazio sopra il letto. Di fronte la porta si trovava una piccola finestra rettangolare, di fianco ad essa, nell’angolo, c’era appunto il letto con di fianco un comodino con una lampada che accendendola faceva una sfocata luce rossa; di fronte trovava posto un armadio e di fianco ad esso la mia scrivania sempre invasa dal disordine. C’era un piccolo spazio, sulla parete nel lato sinistro dell’armadio, che era letteralmente tappezzato di foto di tutti noi assieme: erano la nostra storia ed il nostro percorso. Le avevo scattate tutte io con la mia polaroid. Io e la mia dannata ossessione del ricordare ogni secondo passato con loro. In quel pezzo di muro era collocata la parte più profonda della mia anima. Loro erano parte di me. Parte integrante della mia essenza, della mia vita e della mia anima… erano la mia salvezza. Mi avvicinai e notai una foto in particolare che mi fece sorridere. Ritraeva tutti noi assieme seduti al bancone del bar e ridevamo; l’aveva scattata Bryan ed io l’avevo adorata da subito semplicemente perché ritraeva un momento della nostra vita, un piccolo dettaglio di una lunga storia insieme ma che valeva come oro perché ci raffigurava sotto gli occhi di una persona esterna. La cosa bella? Apparivamo proprio come eravamo e ci sentivamo di essere. Noi e stessi. Senza nessuna maschera, nessun filtro, nulla che potesse ingannarti e farti pensare che la nostra era solo una facciata. Eravamo lì, ritratti nella realtà, in un minuscolo istante che raccoglieva le risate di un passato ed un futuro ancora insieme, ritraeva otto ragazzi che amavano la vita solo nei momenti in cui la passavano uniti. Sorrisi tra me e me mentre ne sfioravo leggermente i contorni; alzai lo sguardo sulla mensola poco più su ed accesi lo stereo facendo partire la cassetta che c’era al suo interno. Era una compilation che avevamo fatto io, Michael, Luke, Joy, Ash e Kayla per la festa a sorpresa organizzata per il compleanno di Cal. La consideravamo un po’ come la nostra colonna sonora. In realtà ne avevamo diverse a seconda dell’umore o del momento, ma ci rappresentavano alla perfezione. Mi distesi sul letto ed ascoltai venir fuori dalle casse l’inconfondibile voce di Sid Vicious che cantava Anarchy in the U.K, uno dei capolavori assoluti dei Sex Pistols. Ashton mi aveva perfino regalato il disco originale per il compleanno circa quattro anni fa, cosa dire? Gli saltai al collo dalla felicità e divenne il mio idolo della settimana. Mentre la canzone continuava ad andare, io ero impegnata a fissare il soffitto e perdermi nei miei pensieri soprattutto quelli che riguardavano quella fottutissima esibizione che avremmo dovuto fare nel pub. Cantare non faceva per me. Si ok, mi piaceva ed ero un po’ intonata; ma i veri artisti erano quei quattro idioti, non io e l’idea malsana di Luke di farmi cantare con loro era decisamente la cosa più assurda del secolo. Non sapevo cosa lo aveva spinto a spararla tanto grossa e, ad essere sincera, non ci tenevo nemmeno molto a saperlo visto che quasi sicuramente mi prenderebbe l’impulso omicida. Ormai però era fatta e la scommessa lanciata. Che situazione. In fondo, in fondo mi fidavo di Luke e di come la pensava in fatto musicale; era stato lui a partire con l’idea della band e tutto il resto, a scrivere i primi testi e dilettarsi in qualche cover ma ancora non capivo come potesse riporre la sua fiducia in me riguardo qualcosa di così importante per tutti. L’esibizione di quella sera non sarà solo la messa in atto di una scommessa tra un gruppo di ragazzi ed un barista, ma segnava il loro primo concerto in assoluto come band e che li avrebbe portati a farsi conoscere pian piano. Ed io ero fuori luogo. Personalmente odiavo il mondo dello spettacolo. Odiavo come ti sfatava i miti con estrema semplicità. Troppi erano stati abbagliati dalle luci della ribalta, dai riflettori puntati solo su di te a farti sentire speciale quando invece eri solo un comune mortale se non di meno. Ti illudevano facendoti pensare che potevi avere il mondo nelle tue mani, ma era tutto il contrario. Era il mondo che ti aveva catturato, eri tu ad essere nelle mani di milioni di persone. Eri schiavo: soddisfare gli altri prima di te stesso. Fingere che andasse bene e continuare a venire illuminato, finché non si rimane acciecati definitivamente e quando accadeva voleva dire che avevi perso. Avevi venduto la tua anima, la tua morale e la tua mente agli altri; ti controllavano e ti lasciavi controllare. Non eri più in te e l’unica cosa di cui ti importava era di rimanere sempre in cima al mondo, nell’Olimpo degli Dei maledetti, sempre in mezzo a quelle stelle che brillavano incandescenti di vita fino a morire. Perché era quella la loro fine: tante stelle destinate a spegnersi lentamente. La cosa più inquietante? Tutti lo sapevano, compresi gli artisti stessi, ma questo non li fermava; anzi, li spingeva a vivere sempre sul filo del rasoio al limite della follia, abusando di tutto ciò di cui potevano abusare. Era sempre la stessa cosa… in tanti ci erano passati e continuano a passarci. Era come un contratto, un patto con il diavolo. Dopotutto era meglio così. Come dice Kurt Cobain: è meglio bruciare in fretta, che dissolversi lentamente. Quando Luke venne a prendermi erano più o meno le sei del pomeriggio e, fortunatamente, James era uscito per andare ad ubriacarsi da qualche parte. Non appena aprii la porta mi trovai subito sotto il suo sguardo indagatore; quei due fari azzurri come il cielo d’estate osservavano tutto in silenzio e comprendevano l’essenza delle cose, delle persone. Con lui non c’era bisogno di spiegare, ti capiva con un solo sguardo. Mi sorrise leggermente poggiandosi allo stipite della porta:

- Ciao straniero – lo salutai con un leggero sorriso mentre cacciavo fuori un sospiro.

- Ciao anche a te – si guardò attorno – Potresti anche far finta di essere contenta di vedermi – ridacchiò.

- Sai che sono sempre contenta di vederti, anche se sei una spina nel fianco – lo guardai di sbieco.

- Senti chi parla – borbottò – Oggi non fai che minacciarmi di morte –

- Ma lo sai che lo faccio con amore – ironizzai – E poi te lo meriti – lo guardai di sbieco.

- Ce l’hai ancora con me per la scommessa di stamattina? – disse con un mezzo sorriso mentre infilava le mani in tasca e mi guardava mentre facevo avanti e indietro finendo di sistemare il disastro di James.

- Puoi giurarci Hemmings – lo sentii ridere e mi strappò un sorriso involontario anche a me.

- Hai finito di andare avanti e indietro? –

- Si eccomi, andiamo –

Sorrise e si staccò dallo stipite, aprii la porta ed una volta uscita me la richiusi alle spalle. Iniziammo ad incamminarci verso lo skate park non molto distante e nel mentre continuavo a sentire il suo sguardo puntato su di me. Mi fermai e mi voltai a guardarlo. Si bloccò anche lui di colpo e sollevò le sopracciglia come a cercare di mascherare con lo stupore della mia mossa il fatto che mi stesse osservando. Incrociai le braccia al petto e sospirai mentre aspettavo che parlasse. Aveva sicuramente qualcosa che gli girava per la testa; mille pensieri che formavano un turbine aggrovigliato di idee, pensieri e parole. Il miglior modo in cui sapeva esprimere il caos che aveva in testa era cantando:

- Che hai per la testa Luke? –

- Come va? – domandò dopo qualche istante di silenzio.

- Bene, perché? – risposi facendo spallucce mentre sul volto mi spuntava un leggero sorriso confuso.

- Oh andiamo, Ross! – esclamò – Non dirmi cazzate, ok? – mi guardò dritto negli occhi avvicinandosi leggermente.

- Cosa vuoi che ti dica allora? – sbuffai – Lo sai già che la mia vita dentro quella casa fa schifo, perché continuare a ricordarlo? –

- Perché ci tengo a te e a sapere come stai – disse con quasi un sospiro.

- Lo so… - sussurrai mentre infilavo le mani in tasca ed abbassavo lo sguardo.

- Ti ha toccato ancora? –

- No, no… - alzai lo sguardo senza incontrare il suo, non riuscivo a sostenerlo, era come guardare dritto in faccia il sole – Su, andiamo adesso –

Mi voltai ad affrettai il passo, come se camminando più in fretta sarei riuscita a seminare ciò che mi spaventava. Non potevo dire a Luke o agli altri cosa era successo oggi con James, lo avrebbero pestato a sangue peggio della scorsa volta e si sarebbero cacciati sicuramente in grossi guai e quella era l’ultima cosa che avrei voluto accadesse. Purtroppo per me Luke era fin troppo intelligente e sensibile e capiva alla perfezione quando qualcuno mentiva o aveva qualcosa che non andava; mi afferrò per un braccio costringendomi a guardarlo ancora negli occhi. Mi osservava. Cercava qualcosa all’interno scavando nei più remoti e bui angoli di me. Sinceramente avevo paura di lui quando lo faceva, ma era quella paura buona, quella che ti fa sentire piacevolmente scoperto agli occhi di chi tiene a te con tutto se stesso. Ecco perché con i miei amici stavo bene:

- Ross – mi guardò ancora più intensamente negli occhi – Dimmi la verità, ti ha fatto ancora del male? –

- Ci ha provato, ma non è successo nulla – socchiusi lo sguardo mentre cedevo.

- Cosa è successo? – domandò con cautela mentre fece scorrere lentamente la mano he ancora teneva il mio braccio giù fino alla mano.

Quando raccontai l’accaduto di qualche ora fa notai che cambiò subito espressione. Guardava fisso davanti a se e lì capii che avevo sbagliato a parlare. Stavolta ero io che mi ero fermata a guardarlo: aveva gli occhi leggermente sgranati mentre continuava a tenerli inchiodati a terra, le labbra dischiuse e le mani strette in due pugni. Il sole che aveva in se era stato offuscato. Mi avvicinai lentamente e gli poggiai una mano sul braccio; a quel contatto fu come se si svegliò dalla trance in cui era caduto, si voltò verso di me e mi osservò attentamente facendo vagare il suo sguardo osservandomi in ogni singola sfaccettatura e cercando chissà cosa:

- Se sono dei segni che stai cercando, tranquillo, non ne troverai – dissi piano.

- Questo non cambia ciò che penso di quell’essere – esclamò con un evidente nota di disgusto nella voce mentre distoglieva lo sguardo dal mio.

- Lo so Luke – sospirai mentre ripresi a camminare – Ma cosa posso fare? Sono intrappolata in quella casa… -

- Potresti andartene – mi voltai a guardarlo con le sopracciglia inarcate dallo stupore.

- Luke evitiamo di parlarne ok? –

- Va bene, come vuoi – sospirò mentre si passava una mano tra i capelli – È solo che nessuno deve permettersi di toccarti – sussurrò.

Mi voltai a guardarlo addolcendo lo sguardo e con un leggero sorriso sul volto. Amavo l’anima di Luke. Amavo la sua innata dolcezza che faceva da contrasto alla sua determinazione per le cose e le persone a cui teneva. Aveva questo istinto protettivo nei confronti di tutti da sempre; Luke fin da piccolo era stato sempre un bambino abbastanza solitario e taciturno, era come se si sentisse ovunque fuori posto. Anche con noi all’inizio stava sempre un po’ sulle sue, ma poi è bastato un sorriso per farlo sentire parte del gruppo. Poi arrivò la musica e la sua prima chitarra che, a detta sua, riuscirono a farlo sentire finalmente parte di qualcosa di grande. Era come se attraverso quello strumento avesse ritrovato la parte perduta di se. Mi avvicinai e lo abbracciai forte. Dall’alto del suo metro e novantadue, Luke poggiò il mento sulla mia testa e mi strinse a se come faceva spesso. Era fuori discussione, lui dava in assoluto i migliori abbracci di sempre. Quando arrivammo allo skate park, qualche minuto dopo, il cielo aveva iniziato a tingersi delle sue tipiche sfumature arancioni che annunciavano l’arrivo del tramonto; l’aria non era più calda e afosa come stamattina, ma iniziava a farsi leggermente umida. I ragazzi erano tutti là, o quasi, dato che mancavano solo Cal e Mike. Si erano seduti su una vecchia panchina ai piedi della rampa da skate e ridevano e chiacchieravano tra loro:

- Ehilà – ci salutò Ash con un cenno della testa.

- Dove sono Cal e Michael? – domandò Luke guardandosi attorno.

- Al chiosco a prendere qualcosa da bere –

Questo posto, a differenza degli attracchi, era decisamente molto più frequentato visto che si trovava in una zona centrale di Brooklyn. Qui si radunavano la maggior parte dei giovani, trovavi di tutto e di più. Non importava da dove venivi, come ti chiamavi o chi eri. Nulla. Chiunque veniva qui sapeva che in qualunque caso non sarebbe stato disturbato, che sarebbe passato inosservato e che poteva essere chi voleva e fare tutto ciò che gli piaceva. Eravamo talmente simili e prevedibili che ormai risultavi completamente trasparente e privo di significato. Ti mimetizzavi facilmente tra tutte queste maschere; tante piccole sfaccettature di un’unica grande opera d’arte che andava a creare il grande mosaico della gioventù bruciata di Brooklyn. Questo posto era molto grezzo e cupo, come se fosse perennemente in ombra e nascosto agli occhi di molti; forse perché era proprio qui dove si riunivano tutti i casi disperati della città, ognuno con la propria nuvoletta grigia, come la sottoscritta, che, unita a quella degli altri andavano a creare un enorme e perenne temporale che sostava in questo luogo abbandonato. Sinceramente non sapevo spiegare perché tutti si ritrovavano qui, forse perché la loro anima era strettamente legata all’aspetto del posto o forse era come un richiamo. Già, un richiamo del pezzo di te che si era fuso nel cemento delle rampe da skate e nel legno delle panchine e dei tavoli da picnic; il richiamo del te stesso più profondo e nascosto che ti pregava di venirlo a prendere, di non abbandonarlo in quel luogo cupo e perennemente buio. Nonostante il richiamo però tu non lo portavi via, tornavi a vedere come stava, rimanevi un po’ con lui ma poi andavi via lasciandolo nuovamente lì, incapace di fare altro. Incapace di privarti del richiamo che ti avrebbe riportato nuovamente lì. Mi sedetti accanto a Joy, alle spalle, seduta sullo schienale della panchina c’era Kayla che si fumava beatamente una sigaretta ed ascoltava distrattamente i discorsi di Beth e Joy su un film che avevano intenzione di vedere assieme; accanto a lei ovviamente Ashton che ogni tanto, con molta poca disinvoltura, si voltava leggermente verso di lei facendole scorrere addosso il suo sguardo. Kayla ovviamente se ne accorgeva e cercava di nascondere il sorriso tra un’aspirata e l’altra della sigaretta. Sarebbero stati benissimo insieme; Kayla aveva bisogno di qualcuno che si prendesse cura di lei ed Ashton di qualcuno di cui prendersi cura. Sorrisi tra me e me ed osservai attentamente Luke mentre era in piedi accanto a me e guardava in direzione del chiosco in cerca di Calum e Michael; i raggi del sole che si andava man mano inabissando nella fitta coltre di grattacieli gli illuminavano il volto dando una sfumatura più scura al biondo dei suoi capelli e trasformando i suoi occhi non più in cielo, ma in oceano:

- Siete in ritardo – disse Calum mentre tornava verso di noi e allungava una birra a Luke.

- Scusate, lo so, è colpa mia – alzai la mano facendo un piccolo cenno.

- Ma che ti prende oggi? – ridacchiò Mike – Non è proprio la tua giornata, eh? -

- Decisamente no – bofonchiai amaramente mentre lo sguardo si perdeva nel vuoto.

- È successo qualcosa a casa? – chiese Beth con un filo di voce.

- Va tutto bene, tranquilla -

Sentii lo sguardo di Luke su di me mentre mi si sedeva accanto cacciando fuori un lungo sospiro di rimprovero mirato alla sottoscritta. Voleva che parlassi, che mi sfogassi con gli altri condividendo il dramma che mi stava tormentando. Ma come potevo rovinare sempre le loro giornate con i miei problemi? :

- Visto che lei non ha intenzione di parlarne lo farò io – disse Luke.

Le sue parole mi fecero voltare di scatto a guardarlo con un’espressione mista tra sorpresa e incredulità. Un’altra delle sue caratteristiche era la testardaggine e poco si poteva fare quando si metteva in testa qualcosa:

- Luke, smettila – lo rimproverai.

- No che non la smetto! –

- Luke… - mi voltai verso di lui guardandolo con severità - Smettila –

- Ragazzi, che diamine sta succedendo? – domandò Ashton corrugando la fronte.

- Allora? – Luke inarcò le sopracciglia – Parli tu o parlo io? –

- Va bene, va bene… - sospirai passandomi una mano nei capelli – Parlo io –

- Cosa devi raccontarci? – domandò Joy.

Presi coraggio e raccontai nuovamente l’accaduto a tutti i presenti. Ancora una volta cadde il silenzio più totale mentre mettevo una parola dietro l’altra torturandomi le dita delle mani e tenendo ancora lo sguardo basso. Tutti mi guardavano con attenzione, il tempo si era fermato e per il silenzio che sembrava essersi creato riuscivo perfino a sentire il battito del mio cuore. Quando finii di parlare e capirono che fortunatamente non successe come la scorsa volta tirarono un sospiro di sollievo; improvvisamente un rumore di vetro che si frantumava attirò la mia attenzione facendomi alzare la testa di scatto. Ashton aveva lanciato la bottiglia di birra contro il muretto alla sua destra, rompendola in tanti piccoli frammenti che potevano rappresentare alla perfezione il mio stato d’animo del momento:

- Ash… - sussurrai.

- Non è nulla, tranquilla, solo uno sfogo –

- Ok… - annuii.

- Dovresti andartene da lì – disse Kayla.

- È quello che le ho detto anche io prima, ma è testarda, non ascolta! – esclamò Luke.

- E dove dovrei andare a vivere, eh? Sentiamo! –

- Non ti piacevano tanto gli attracchi? – rise Mike mentre sorseggiava altra birra in un pessimo tentativo di allentare la tensione.

- Gordon! – esclamò Joy rimproverandolo.

- Non chiamarmi Gordon – disse con un’espressione contrariata sul volto.

- E tu non fare l’idiota –

- Era solo per sdrammatizzare – sbuffò.

- Non era il caso – aggiunse Ashton.

- Tranquilli ragazzi, non importa – feci un leggero sorriso.

- Però sono d’accordo con Luke, dovresti andar via da quella casa – disse Beth.

- Ragazzi, ho capito, ma non saprei dove andare – sbuffai – E poi non posso lasciare mia madre sola con quello –

- Mi dispiace dirtelo tesoro, ma lei ha fatto la sua scelta… - sussurrò Calum guardando verso di me.

- Lo so – abbassai lo sguardo – E la sua scelta non sono io… -

- Ci dispiace Ross… - disse Kayla con un filo di voce mentre mi abbracciava da dietro lasciandomi un bacio sulla testa.

- Ma, ehi – iniziò Luke – Hai sempre noi piccola – mi fece l’occhiolino regalandomi uno dei suoi sorrisi.

- Lucas ha ragione, noi ci siamo sempre – confermò Mike con l’appoggio di tutti.

- Lo so ragazzi, lo so – sorrisi leggermente.

- Potresti anche venire a stare a turno da noi – suggerì Ash.

- E bravo Irwin – esclamò Joy dandogli una pacca sulla spalla – Ogni tanto hai delle buone idee –

- Mi rendo utile quando posso – ridacchiò facendo spallucce.

- Grazie, ma non voglio essere un peso – abbassai lo sguardo iniziando a fissare l’asfalto irregolare.

- Non sei affatto un peso – disse Luke quasi in un sussurrò mentre mi sfiorava leggermente il braccio ed aveva il suo solito sguardo serio.

- Pensaci su, ok? – disse Calum.

- Va bene, ci penserò su – sospirai.

- Brava ragazza –

Ash si alzò e mi abbracciò facendomi apparire sul volto un sorriso spontaneo. Mi avevano guarita. Erano bastate poche semplici parole per mettere un nuovo cerotto sulla ferita che si era formata oggi:

- Non sono una brava ragazza Irwin – mi staccai dall’abbraccio con ancora il sorriso – E a confermare la mia tesi, vorrei sapere perché nessuno di voi maledetti bastardi mi ha portato una birra – esclamai.

- Oh, perdonate la nostra dimenticanza vostra eccellenza – disse Mike facendomi la riverenza mentre tratteneva le risate.

- Ma quanto puoi essere coglione tu Clifford? – scossi la testa con un vacuo sorriso sul volto.

- Credo che non sia quantificabile – ridacchiò Joy.

- Ahimè, purtroppo devo darti ragione – annuì Calum con fare rassegnato.

- Ma state zitti poveri plebei, è inutile negarlo, voi mi amate – ci indicò con l’indice mentre ci guardava con il suo sguardo di ironica superiorità.

- Nei tuoi sogni forse – gli urlò Kayla facendoci scoppiare tutti a ridere.

- Puoi star certa che nei miei sogni c’è ben altro – affermò con uno sguardo che faceva intendere molto.

- Sei un pervertito – lo imbruttii mentre rubavo un sorso di birra dalla bottiglia di Luke.

- Alle ragazze piace – fece spallucce.

- Oh si, convinto tu – lo prese in giro Joy.

- Le ragazze cadono ai miei piedi, siete solo invidiose – aggiunse con un sorrisetto.

- Io non ne vedo nessuna qui in terra – dissi mentre facevo finta di cercare sotto la panchina.

- Trovato qualcosa? – chiese Beth tra una risata e l’altra.

- Decisamente no, peccato – mi alzai facendo spallucce.

- Siete delle stronze – ci indicò a tutte e quattro – E voi – si rivolse ai ragazzi – Non siete da meno –

- Sei tu che ti metti nei guai da solo – disse Ashton.

- Lo sai che quelle là sono terribili – aggiunse Calum mentre finiva la sua birra.

- Che razza di amici – scosse la testa fingendosi indignato mentre continuava a sorseggiare dalla bottiglia.

- Parlando di cose più serie – iniziò Luke – Dobbiamo iniziare a decidere per la serata al pub –

- Giusto – annuì Ashton.

- Avete già qualche idea? – domandò Kayla mentre si accendeva l’ennesima sigaretta.

- Io qualcuna ne avrei – disse Luke mentre si grattava la nuca con fare nervoso.

- Bene – annuì Mike.

- Non vi serve un posto per provare? – chiese Joy.

- Beh in teoria si – annuì Cal – Il problema è trovarlo – sospirò.

- Non potete chiedere a Bryan di tenervi il locale aperto dopo l’orario? – disse Beth – Magari in cambio vi offrite di mettere a posto e chiudere –

- Non è male come idea – fece spallucce Mike – Voi che ne dite? –

Mentre loro parlavano io ero intenta ad ascoltarli. Mi piaceva quando parlavano della musica e della loro voglia di mettere su, in maniera concreta, una band. Erano bravi e sapevano ciò che facevano; gli auguravo ogni bene ed ogni tipo di fortuna ma speravo veramente che l’Olimpo dei Dannati non reclamasse anche loro:

- Secondo me vi serve un posto tutto vostro – dissi – Un posto dove potete sedervi con calma e far nascere qualcosa di sensato – mi accesi una sigaretta e continuai – Magari anche un po’ più piccolo del bar, lì è troppo dispersivo e rischiate di perdere le idee – aspirai e buttai fuori il fumo – Vi serve qualcosa di raccolto, magari da personalizzare con qualcosa di vostro – mi voltai a guardarli – Come una specie di rifugio sicuro dove nascondere le vostre anime – calò il silenzio e mentre li guardavo uno ad uno notai delle strane espressioni dipinte sui loro volti – Ehi? – li chiamai – Guardate che era solo un’idea, non c’è bisogno di scandalizzarsi tanto – ridacchiai leggermente nervosa.

- Hai detto una cosa davvero bellissima – sussurrò Luke con le labbra dischiuse mentre mi osservava con attenzione.

- Luke ha ragione – annuì Calum.

- Ok – ridacchiai un po’ perplessa – Se lo dite voi – scossi la testa ancora imbarazzata.

- Posso chiedere a mia madre di lasciarci il garage, tanto non lo usiamo più – fece spallucce Ashton.

- Oggi è la giornata delle tue buone idee – ridacchiò Joy.

- Probabile – rise anche lui.

- Io avrei dei dubbi riguardo questa esibizione – dissi mordicchiandomi il labbro inferiore.

- Perché tesoro? – mi domandò Kayla.

- Perché mi avete trascinato in questa storia a mia insaputa e per di più nemmeno me la cavo a cantare – sbuffai.

- Andrai alla grande, fidati – mi fece l’occhiolino Ash.

- No che non mi fido! – esclamai – So quanto ci tenete a questa esibizione – sospirai – Mettere su una band è il vostro sogno e non capisco cosa c’entro io e come se non bastasse potrei anche rovinarlo –

- Ross, credi un po’ più in te, ok? – sorrise dolcemente Beth.

- Non lo so ragazzi, veramente, mi avete dato una grande responsabilità – scossi la testa.

- Lo abbiamo fatto perché ci fidiamo – disse Mike.

- Che poi non capisco nemmeno il motivo di aggiungere me – borbottai – Avete delle voci magnifiche ragazzi, davvero, nemmeno vi rendete conto di quanto sono belle – aggiunsi con un leggero sorriso.

Le loro voci erano qualcosa di meraviglioso, quasi surreale. Potevi percepire benissimo ogni emozione che si nascondeva dietro ad una parola o al testo in se. Credo che se ci fosse della musica di sottofondo quando ti accolgono in paradiso sarebbe sicuramente la loro. Non c’erano parole per descriverli. Come puoi attribuire a qualcosa di ultraterreno un aggettivo? Era impossibile. Amavo ascoltarli cantare, che fosse una specie di piccola sessione tra noi o mentre canticchiavano per strada non importava. Amavo perdermi nella loro anima sapendo che ognuno di noi aveva contribuito a costruirla e renderla forte, amavo rivedermi e ritrovarmi in essa, riconoscermi e poter dire ‘’questa anima è diventata così anche grazie a me, a quel piccolo contributo che si rispecchia nei loro testi e nelle loro voci’’. L’anima di uno era l’anima di tutti:

- Ti ringraziamo del complimento tesoro, ma c’è un motivo ben preciso per cui ti abbiamo messa in mezzo – disse Cal.

- Ah si? – inarcai le sopracciglia - E quale sarebbe? –

- Non è ancora il momento di dirtelo –

- E perché no? –

- Lo saprai presto, tranquilla – aggiunse Mike mentre si scambiava un’occhiata complice prima con Cal ed Ash e poi con Luke.

- Cosa mi nascondete? – dissi voltandomi verso il biondo.

- Assolutamente nulla – ridacchiò lui facendo spallucce.

- Non mi fido –

- Aspetta ancora un po’ e lo saprai –

- Continuo a non fidarmi – lo guardai di sottecchi mentre lui continuava a ridere.

- Perché? – domandò lui tra le risate.

- Perché nascondi qualcosa – incrociai le braccia al petto e lo osservai con attenzione.

- Come puoi esserne sicura, eh? –

- Perché ti conosco bene Hemmings –

- Nah, non mi conosci così bene – ridacchiò.

- Oh si invece! – esclamai.

- Ok allora se ne sei proprio così sicura indovina quale paio di boxer indosso – disse tutto fiero della sua domanda al dir poco assurda.

- Ma che cazzo di domanda è questa? – disse Joy tra le risate.

- Ricorda – iniziò Calum mettendo su una voce da finto saggio – Una donna conosce alla perfezione un uomo solo quando sa che boxer indossa – quando terminò scoppiammo tutti a ridere, Cal compreso.

- Ma che problemi vi affliggono? No, seriamente, mi preoccupate! -

- Shh – la zittì Luke con un gesto della mano – Lasciami divertire – si girò nuovamente verso di me – Allora? – alzò le sopracciglia.

- Sono più che sicura che addosso hai di tutto tranne che i tuoi di boxer – mi voltai pienamente verso di lui per osservare meglio la sua espressione – E secondo quello che hai detto la settimana scorsa, cioè che i boxer di Ash ti andavano troppo stretti per via dei suoi fianchi da donna – mi voltai verso Ashton che strabuzzò gli occhi – Sono parole sue Irwin – ridacchiai.

- Sei morto Lucas! – lo minacciò.

- Poi – ripresi – so per certo che quelli di Cal sono troppo normali per uno come te, quindi per concludere avrai sicuramente quelli di Mike – sorrisi soddisfatta data la sua espressione – Allora? Ho indovinato? –

- Sta zitta Ross – sorrise Luke mentre scuoteva la testa distogliendo lo sguardo dal mio.

- Ha indovinato – dissero tutti in coro vedendo la reazione del biondino.

- Ora che ci penso – iniziò Mike – Come diamine fai ad avere i miei boxer, si può sapere? –

- Già come fai Luke? – domandò Beth ridacchiando e facendo il gomito a Joy mentre entrambe ricevevano uno sguardo di fuoco da Mike – Non è che ci nascondete qualcosa voi due? –

- E che ne so io – fece spallucce Luke.

- Non sarà mica quella volte che… -

- Che ci siamo imbucati a quella festa e siamo finiti nudi ed ubriachi a correre per il giardino? – continuò Luke pensandoci su - Probabile – fece spallucce.

- L’avevo rimosso –

- È stato imbarazzante –

- No, è stato epico – dissi tra le risate.

- Eravate blu alla fine – aggiunse Kayla.

- Che scena memorabile – sorrise Calum mentre stava sicuramente ripetendo l’accaduto nella sua mente.

- Non per noi, fidati – disse Luke.

- Nessuno vi ha costretto a farlo – disse Joy.

Mentre ridevamo e scherzavamo ad un certo punto qualcuno si mise di fronte a noi oscurando i pochi raggi di sole che erano rimasti, mi voltai e quattro ragazzi vestiti interamente di pelle erano lì di fronte a noi con la faccia di chi cercava guai e le mani nelle tasche dei pantaloni. Sapevamo molto bene chi erano; anzi, qui a Brooklyn erano conosciuti proprio da tutti. Erano una banda di teppistelli che si divertivano ad andare in giro a far danni e a dar fastidio in sella alle loro moto; avevano un brutto giro e alcuni furono arrestati anche più di una volta. Ecco come ti riduceva Brooklyn se non avevi la compagnia adatta accanto; ti succhiava via il buono che c’era in te lasciando solo una grande oscurità, ma non quella artistica e mistica, no, quella disperata in modo talmente sbagliato che ti riduceva ad essere un burattino nelle sue mani. Quei quattro erano più grandi di noi di soli due anni per questo li conoscevamo molto bene fin da piccoli e dire che erano cambiati era assai riduttivo. Logan era sempre stato un ragazzo timido e solare, ma da quando Brooklyn lo aveva maledetto sembrava essersi completamente spento, come una lampadina rotta. Lo stesso valeva per John, Steve ed Alex. Bravi ragazzi di buona famiglia trasformati in quattro delinquenti dall’anima oscura di questa città. Era inquietante come cosa. Ti faceva pensare e rabbrividire; poteva essere perfino raccontata come storiella ai bambini per invogliarli a mangiare le verdure. Il peggiore, quello che era cambiato di più ed era diventato davvero molto pericoloso era Alex. Alto, capelli neri, occhi verdi ed un fisico ben strutturato. Tante ragazze gli morivano letteralmente dietro ed avrebbero fatto carte false anche solo per una notte insieme a lui; ma Alex non si accontentava, non le guardava, lui quando mirava qualcuna non la lasciava finché non diventava sua, finché anche lei non veniva consumata e si trasformava in una persona molto simile a lui. Certe volte lo faceva solo per divertimento, per rovinare altre vite gratuitamente. Come lo conoscevo così bene? Lunga storia. Per farla breve l’anno scorso ero diventata la sua ossessione ed io, presa dalla voglia di essere amata anche se in modo malsano, caddi nella sua trappola. Durammo qualche mese, il tempo di farmi accorgere di quanto Alex e James fossero simili, e tutto finì. Io ero andata avanti con la mia vita, lui no. A distanza di quasi più di un anno io rimanevo ancora il suo bersaglio:

- Ciao Ross – mi salutò con un cenno del capo.

- Guarda chi si rivede – borbottò Cal alzando gli occhi al cielo.

- Cosa vuoi Alex? – risposi sbuffando mentre mi alzavo in piedi.

- Il solito piccola – gli apparve sul volto un ghigno.

- Oh si, certo, continua pure a sperarci – risi in modo sarcastico.

- Non fare la preziosa – mi fece l’occhiolino – Non ti si addice –

- Fammi un favore e vattene –

- Non senza di te tesoro –

- È più di un anno che va avanti questa storia – sbuffai – Quale parola di ‘’è finita’’ non ti è chiara? –

- Lo so che ancora mi vuoi – si avvicinò ancora di più squadrandomi con attenzione.

- Certo! - esclamai - Fuori dalla mia vita –

- Ne sei proprio sicura? – sussurrò mentre leggevo molto chiaramente nei suoi occhi le cose che gli passavano per la testa.

- Sicurissima – risposi duramente.

- Vuoi che ti ricordo com’era quando stavi con me? – mi avvicinò di scatto a se cercando di baciarmi.

- Ross! – esclamò Luke balzando in piedi.

- Sta buono Lucas – dissi voltandomi verso di lui.

- Già, sta al tuo posto biondino, non sono affari tuoi – ridacchiò.

Luke scattò in avanti ma fortunatamente Ashton e Calum lo fermarono in tempo, l’ultima cosa che ci voleva era una rissa:

- Me la cavo da sola -

- Allora tesoro – mi voltai nuovamente verso Alex – Ti va di andare a casa mia e fare un po’ di movimento, uhm? –

- Mi fai schifo – lo spinsi via lontano da me mentre gli riservavo uno sguardo di disprezzo. Era impressionante quanto lui e James si somigliassero e come questa scena mi ricordava quello successo a casa. Probabilmente perché quando Brooklyn ti privava di tutto lasciava tante ombre uguali

- Non mi sembrava ti facessi schifo quando ci divertivamo nel mio letto –

Sentii un vociare alle mie spalle e mi voltai in tempo per vedere Luke che si liberava dalla presa di Ash e Cal per dirigersi a passo spedito verso Alex con le mani chiuse a pugno e l’espressione furiosa. Era davvero raro vederlo così aggressivo e quelle poche volte che accadeva perdeva letteralmente il controllo; ma Alex era pericoloso, molto pericoloso e non avrei permesso a Luke di farsi del male. Fortunatamente riuscii a fermarlo in tempo trattenendolo per un braccio mentre gli poggiavo una mano sul petto in modo di fermarlo dall’avanzare ancora:

- Luke, no, fermo – dissi con determinazione – Non ne vale la pena –

- Già Hemmings – Alex aveva nuovamente quel sorriso sornione che non mi piaceva affatto – Non ne vale la pena di prendersi un pugno per una puttanella come lei –

Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Luke si liberò dalla mia stretta e si precipitò addosso ad Alex tirandogli prima una spinta e poi due pugni: uno allo stomaco, che evitò, e l’altro sul naso che andò a segno. Alex però era molto forte e rispose ai colpi con estrema velocità che Luke nemmeno li vide arrivare ed in poco tempo si ritrovò a terra con un labbro spaccato ed una mano sul ventre. Corsi da lui senza perdere tempo e mentre mi accertavo che stesse bene arrivarono anche gli altri che lo tirarono su in piedi e lo tenevano chi per un braccio, chi per l’altro. Mi alzai anche io e mi voltai verso Alex urlandogli in faccia:

- Va via da qui e non farti più vedere! –

- Alla prossima piccola – mi fece l’occhiolino e girò i tacchi assieme ai suoi amici mentre tutti e quattro se la ridevano.

Mi voltai verso Luke e mi avvicinai a lui osservandolo con attenzione: aveva un labbro spaccato e sanguinante, un livido sullo zigomo ed in più si teneva una mano sullo stomaco. Dire che lo aveva conciato male era riduttivo. Non doveva affatto mettersi in mezzo:

- Portiamolo a casa mia, meglio che la madre non lo veda in queste condizioni – disse Mike.

- Sto bene ragazzi – bofonchiò mentre tossiva e si teneva l’addome dal dolore e per lo sforzo di mettere un piede davanti l’altro.

- Ma sta zitto, idiota – lo rimproverò Joy.

- Andiamo su – disse Ashton mentre lo prendeva con maggior fermezza.

Fortunatamente la casa di Michael non era molto lontana e a quest’ora i suoi erano a lavoro, quindi fu facile passare inosservati. Ash e Cal sorreggevano Luke, Mike faceva strada con le chiavi già in mano, Beth e Joy lo rimproveravano ed io e Kayla eravamo dietro di loro a qualche metro di distanza. Continuavo a pensare che Luke avesse fatto la mossa più stupida della sua vita. Non aveva speranza di battere Alex, lui era un professionista di pugilato e Luke… era semplicemente Luke. Un ragazzo troppo dolce e sensibile per queste cose. Non sopportavo che facessero del male ai miei amici, ma lui, mi dispiaceva dirlo, se l’era cercata; lo avevo avvertito e conosceva anche bene il temperamento di Alex, ma lui no, era testardo e doveva a tutti i costi difendermi quando sapeva bene che potevo benissimo cavarmela da sola. Quando Mike aprì la porta di casa portarono il biondo al secondo piano nel bagno per medicarlo:

- Faccio io – dissi con una voce che dava sicuramente a vedere il mio disapprovo verso Luke mentre mi appoggiavo allo stipite della porta.

- Sicura? – mi domandò Joy.

- Si – sospirai staccandomi da dove ero appoggiata ed entrando – Voi scendete pure –

- Va bene –

- Chiama se serve qualcosa – si raccomandò Calum ed io annuii.

Quando furono usciti tutti accostai la porta e sospirai nuovamente, poi mi voltai verso Luke. Aveva una mano poggiata sul lavandino e l’altra ancora sullo stomaco, si stava osservando allo specchio come se non fosse successo nulla ma la sua espressione dolorante diceva il contrario. In questo momento lo avrei preso io volentieri a calci, ma non dissi e non feci nulla:

- Siediti sul bordo della vasca – la indicai con un cenno mentre iniziavo ad aprire vari sportelli per cercare l’occorrente per medicarlo.

Quando trovai il necessario mi avvicinai a lui ed iniziai ad esaminare il danno di Alex: il taglio che aveva sul labbro inferiore non era molto profondo ma continuava a sanguinare anche se di meno rispetto a prima; il contrario invece era il livido che diventava sempre più viola. Sentivo il suo sguardo addosso ma non sapevo giudicare quale fosse l’emozione o lo stato d’animo nascosto in quel cielo estivo, così lasciai stare e mi concentrai maggiormente a curare le sue ferite e non di procurargliene altre, anche se dovevo ammettere che la tentazione era molto, molto forte. Appena gli tamponai il labbro con il disinfettante sobbalzò appena e socchiuse gli occhi per il dolore e il bruciore dell’alcool; sospirai nuovamente e mi trattenni dall’esplodere e dirgliene quattro:

- Forza, parla, so che muori dalla voglia di sgridarmi –

- Sta zitto Lucas – risposi mentre ero ancora impegnata a tamponare.

Ci furono pochi minuti di silenzio durante i quali continuavo ad avere lo sguardo di Luke puntato su di me. Che voglia che avevo di colpirlo anche io:

- Ross – mi chiamò con la voce ridotta ad un sussurro.

- Cosa? –

- Lo sai – disse mentre cercava il mio sguardo.

- No Luke, non lo so! – esclamai mentre mi voltavo per buttare l’ovatta nel cestino accanto al lavandino.

- Ross… - ripeté ancora con lo stesso tono di prima.

A quel punto scoppiai veramente. Tutto il disappunto e la preoccupazione aggiunte alla tensione avevano avuto la meglio:

- Ma diamine Lucas! – esclamai voltandomi nuovamente a guardarlo – Che ti è saltato in mente? Fare a botte con Alex! – gli diedi nuovamente le spalle mentre rimettevo tutto apposto – Potevi farti davvero male –

- So cavarmela benissimo da solo – ridacchiò – E poi picchia come una femminuccia –

- Luke! – mi voltai di scatto – Sono seria! –

- Anche io Ross – ancora non si toglieva quel sorriso sfacciato dal volto – È solo un’idiota – fece spallucce.

- Si, un’idiota che poteva ammazzarti di botte! – alzai la voce.

- E tu credi che abbia il coraggio di farlo? – domandò inarcando le sopracciglia.

- Certo! – alzai gli occhi al cielo – Non sai le voci che girano su di lui nell’ultimo periodo?! –

- Sono tutte stronzate – disse mentre distoglieva lo sguardo dal mio e lo puntava sulle piastrelle del bagno.

- No Luke – mi avvicinai – Lo sappiamo bene entrambi che non lo sono – sospirai cercando di calmarmi – È stato lui a ridurre in quel modo Sam del corso di chimica prima che finisse la scuola –

- Se permetti so difendermi a differenza di Sam – ribatté.

- Non è questo il punto Lucas! – urlai.

- Te l’ho detto, ok!? – alzò la voce per un attimo, per poi ridurla ad un sussurro subito dopo – Nessuno deve toccarti – disse mentre mi guardava dritta negli occhi.

Le parole di Luke non mi sorpresero più di tanto, sapevo che avrebbe fatto la stessa cosa per Joy, Beth e Kayla ma proprio non voleva capire quanto Alex sapeva essere pericoloso. Mentre stavo per rispondergli la porta del bagno si aprì lentamente mostrando un Ashton alquanto confuso che non faceva altro che spostare lo sguardo tra me e Luke:

- Tutto bene voi due? Si sentono le urla fin da giù –

- Si, tranquillo Ash – sospirai.

- Ok – annuì – Forza scendiamo che Calum ha ordinato la pizza –

- Arriviamo –

Dopo che Ashton fu andato via mi voltai verso Luke e scossi la testa. Volevo troppo bene ad ognuno di loro per rimanere troppo tempo arrabbiata, stavolta era un caso diverso ma era comunque Luke e, per quanto la mossa sia stata stupida e lui incosciente, dopotutto voleva solo cercare di proteggere una sua amica. Mi avvicinai a lui e lo tirai per un braccio facendolo alzare dal bordo della vasca:

- Dai, andiamo di sotto a mangiare qualcosa e dimenticarci di questa storia – sorrisi leggermente – Che ne dici? –

- Dico che è perfetto perché sto morendo di fame – annuì lui con vigore mentre sulle labbra gli compariva il suo solito sorriso.

- E quando mai tu non hai fame? – ridacchiai fingendomi esasperata mentre gli diedi una spintarella per farlo uscire dal bagno.

Non appena scendemmo nel salotto trovammo tutti indaffarati a spartirsi la pizza davanti alla televisione, ma quando io e Luke entrammo si fermarono per pochi secondi osservandoci attentamente, poi Joy parlò:

- Beh io non vedo lividi nuovi, quindi deduco che è finita bene no? –

- Diciamo di si – ridacchiai mentre mi sedevo sul bracciolo della poltrona dov’era semi sdraiato Calum.

- Abbiamo temuto per la tua vita amico, sappilo – disse Mike mentre dava un morso alla sua fetta di pizza con i peperoni.

- Già – ridacchiò Cal – Si sentivano le urla fin qui –

- Se l’è cercata – feci spallucce mentre guardai Luke sedersi a terra di fronte a me e Cal.

- Assolutamente – annuì Beth.

- Non era chiuso il discorso? – domandò il biondo con un mezzo sorriso.

- Va bene, va bene – alzai le mani in segno di resa – Avete lasciato qualcosa o vi siete già mangiati tutto? –

- Giudica tu – Kayla indicò un paio di cartoni già vuoti.

- Lasciatevelo dire ragazzi, fate proprio schifo – ridacchiai scuotendo la testa.

- Ehi! – si lamentò Ash mentre finiva di masticare quello che aveva in bocca.

- Attento a non soffocarti Irwin – lo imbruttì Joy.

- Avevamo fame – fece spallucce Calum fingendosi innocente.

- E poi non è colpa nostra se voi eravate impegnati a farvi la guerra – ironizzò Mike.

- Non ci stavamo facendo la guerra – bofonchiai.

- Ross – mi richiamò Kayla.

- Ok, ok forse un pochino – sbuffai – Ma non è colpa mia se il biondino qua le prende –

- Fate l’amore – urlò Michael mentre alzava in aria la bottiglia di birra.

- Non fate la guerra – finì Luke al posto suo imitando il suo gesto.

Risi mentre scuotevo la testa e mi beavo del suono delle loro risate, della loro felicità. Amavo osservarli. Guardare ogni loro piccolo dettaglio, espressione, gesto ed emozione. Guardare le loro anime leggere che si spogliavano del peso di Brooklyn quando eravamo insieme chiusi in quattro mura. Passammo gran parte della serata tra risate, musica e televisione ridendo di quanto eravamo stupidi e immaturi delle volte; Calum era sicuramente ubriaco, aveva iniziato a sparlare già da un po’ su come continuava a chiedere ai suoi genitori di prendergli un cane. Il che era piuttosto normale, la cosa che ci faceva pensare il contrario e ridere come dei pazzi era il fatto che Cal non stava parlando con nessuno di noi, ma bensì con il tizio della televendita che c’era in tv arrabbiandosi anche quando questo non rispondeva alle sue domande. Una cosa simile successe una volta a Mike, circa due anni fa a Capodanno. Aveva bevuto così tanto da essere pienamente convinto che l’albero del giardino di casa sua fosse un unicorno, ma la cosa non finiva qui. Il bello venne quando tentò di cavalcarlo e finì letteralmente faccia a terra perché era troppo ubriaco da tenersi a cavalcioni di un albero. Non avevo mai passato un Capodanno così bello prima di quella sera. Il tempo passò in fretta e in men che non si dica arrivarono le due della mattina, ciò significava che tra poco saremmo usciti:

- Ragazzi, vado a prendere la macchina – annunciò Ash mentre si alzava dal divano – Mettete in ordine questo disastro e fatevi trovare fuori la porta –

Non c’era bisogno di chiedere dove saremmo andati perché tutti lo sapevamo fin troppo bene. C’era un posto molto speciale per noi appena fuori Brooklyn, si trovava nella zona residenziale vicino l’autostrada dove di case ce ne erano poche ed i grattacieli si facevano sempre più assenti fino a scomparire lasciando piede alle sterpaglie. Lì, in mezzo al nulla più totale, c’era una piccola costruzione in mattoni quasi sicuramente disabitata e circondata da una rete metallica alta si e no 3 metri; proprio in quel luogo abbandonato da tutti c’era una visuale al dir poco magnifica sul cielo di Brooklyn. Nessun grattacielo, nessun rumore, nulla. Solo tu e le stelle. Venti minuti dopo la casa di Mike era in ordine e noi eravamo saliti sul Pick up di Ashton con direzione il cielo. Ash guidava, accanto a lui era seduta Beth con vicino Calum, e noi altri ci eravamo semi sdraiati nel retro del furgoncino con una cassetta di birra vicino e la musica a palla che usciva dalla radio. Era un momento impagabile. La musica, il vento nei capelli, il cielo scuro sopra di noi, le nostre grida e le risate. Era tutto perfetto. Tutto combaciava come piccoli tasselli del nostro grande puzzle e ci faceva sentire completi, felici, ci faceva sentire di esistere. Delle volte mi piaceva alzarmi in piedi e gridare ed anche stavolta non era diverso. Presi fiato e gridai. Gridai sovrastando la radio, il Pick up ed il rumore del mondo. Ma non erano le grida disperate che riservavamo agli attracchi, no. Erano grida di sfida, di vendetta verso il cielo di Brooklyn che voleva opprimerci, verso il mondo che non ci considerava, verso le persone come James ed Alex e verso il vento. Si, il vento. Quello che ti scompigliava non solo i capelli, ma che ti scuoteva l’anima, ti mescolava le idee facendo nascere qualcosa di immensamente poetico e nero, qualcosa di strettamente legato a queste ore tarde e che rimaneva imprigionato nel limbo tra notte ed alba, celato agli occhi di chi non era abbastanza attento per coglierle. Il vento ci avvolgeva, ci rappresentava e soprattutto ci spingeva verso la vita; ci faceva sentire incredibilmente liberi e potenti, come se avessimo il mondo intero nelle nostre mani. La libertà aveva il sapore dell’infinito. Non potevi legarla a nessuna cosa esistente e materiale, essa navigava fuori da ogni vincolo, fuori dal tempo, perdurava quando tutto si trasformava in polvere. Un po’ come i grattacieli abbandonati vicino gli attracchi. Era pura essenza, pura vita ed essere visto come esistenza stessa, come presenza. Era forte e potente, dominante, sfuggente. Era la forza che muoveva il mondo, che muoveva le anime ed i cuori dei coraggiosi. Sentirsi liberi, ma liberi davvero, era un dono, un piccolo privilegio che ti veniva offerto una sola volta nella vita per farti assaporare la vera essenza del mondo. La notte ti rendeva libera, coraggiosa di rischiare di sentirti così, senza legami, semplicemente un piccolo frammento nella potenza del vento che sembrava volerti lanciare verso l’ignoto. Era una sensazione impagabile. La libertà che si trasformava in adrenalina man mano che il piede veniva schiacciato sull’acceleratore e ti scuoteva il corpo fino all’anima, sentirla vibrare, sentire che c’era, che era lì, presente e viva dentro di te, che ti permetteva di percepire le cose attorno a te. L’essenza di ogni momento, respirare, si, soprattutto respirare. Sentire l’aria entrarti dentro gridandoti che sei vivo, che ti sfiorava la pelle accarezzandola con il suo tocco leggero ma fermo. Sembrava come di rinascere. Quando Ash svoltò prendendo la vietta sterrata sulla sinistra ci tirammo su a sedere ed io raccolsi la birra ed una volta fermi balzammo giù dal Pick up lasciando il motore acceso in modo tale che la radio continuasse a suonare; ci avvicinammo alla rete metallica e dopo esserci guardati attorno iniziammo a scavalcare uno ciascuno atterrando poi dall’altra parte. Scoprimmo questo posto un po’ per caso durante una serata dedicata interamente alle nostre scorribande, avevamo sbagliato a svoltare e ci eravamo ritrovati semplicemente qui:

- Ce la fai Lucas? – gli domandai con una risata mentre cominciavo ad arrampicarmi fino ad arrivare in cima e saltare dall’altra parte.

- Pensa per te piccoletta – sorrise mentre anche lui cominciò a salire.

Una volta che tutti avevano superato la recinzione ci sdraiammo a terra sull’erba e cominciammo a fissare il cielo. Stanotte le stelle erano ancora di più. Serate con un cielo così bello e luminoso non capitavano spesso. Appena ti allontanavi da Brooklyn tutto sembrava acquistare una bellezza diversa, perfino i colori erano più brillanti, più vivi; questo dimostrava che effetto offuscante aveva quella città su di noi e le nostre povere anime sottomesse. Ma qui no. Qui eravamo liberi, il cielo ci osservava e non sembrava più volerci schiacciare, ma accogliere. Sembrava che Brooklyn avesse un cielo tutto suo e completamente diverso da quello che vedevamo ora. Due facce della stessa medaglia che a modo loro si completavano. C’eravamo solo noi, il cielo ed una moltitudine di stelle. Piccoli puntini di luce e vita che, assieme alla luna, illuminavano del loro chiarore la terra. Mi piaceva stare al buio, non solo di notte, ma anche in pieno giorno. C’erano delle volte che mi chiudevo in camera, tiravo giù le persiane, chiudevo le tende e me ne stavo semplicemente lì, seduta sul letto, a contemplare l’oscurità che mi circondava. Mi avvolgeva nella sua morsa densa ed oscura. Ne ero attratta. Come un insetto è attirato dai colori brillanti, io ero attratta dal nero più profondo. Mi ci perdevo e mi ci ritrovavo, lo guardavo, lo sfidavo e mi lasciavo sussurrare i suoi segreti. Era incredibile la sicurezza che mi dava. Là dentro non esistevano colori, diversità, paure o angosce; tutto veniva assorbito dall’oscurità. Veniva celato. Se tutti vivessimo al buio ci sarebbero più possibilità che ognuno si senta libero di non nascondersi più, di voler essere qualunque cosa voglia essere; di ridere, piangere, urlare o stare zitti ed il tutto senza occhi puntati contro. Liberi. Nel buio che creavo appositamente nella mia mia stanza o in quello della notte, sentivo come se tornasse il Principio, quando il mondo era solo una landa buia e desolata, quando a regnare non era la luce ma il nero. Il nero della notte, il nero della vita, di Brooklyn, il nero della nostra anima. Attorno a noi c’era un gran silenzio, tutto sembrava come essersi messo in pausa. I rumori della città e delle vite indaffarate della gente non arrivavano fin qui. Potevi sentirti incredibilmente solo o incredibilmente infinito, era una tua scelta. Noi sceglievamo di essere entrambe le cose. Per il silenzio che c’era, se eri abbastanza attento, riuscivi a captare perfino il rumore della tua anima che si svegliava e si muoveva dentro di te. Solo noi e le nostre ombre sotto un cielo infinito:

- Quante credete che siano – domandò Beth ad un tratto.

- Cosa? – le domandò Calum.

- Le stelle –

- Un paio di migliaia credo –

- Aggiungi altri migliaia di migliaia e non ti ci avvicinerai neanche lontanamente – ridacchiò Ash.

- Sarebbe bello poter vedere tutto dall’alto come loro – sospirai mentre continuavo a fissarle con un leggero sorriso sulle labbra – Lasciare tutte le pene e le sofferenze a questo mondo ed essere semplicemente un piccolo puntino luminoso nel cielo –

- Beh se questo può consolarti tesoro tra un paio d’anni saremo tutti puntini in cielo o polvere sotto terra – disse Mike con un velo d’amarezza nella voce – Dipende dai punti di vista – aggiunse mentre apriva una lattina di birra e ne beveva un sorso.

- Clifford, non ti facevo così poeticamente intelligente – ridacchiò Kayla.

- Che posso dire ragazzi, sono un mare di scoperte – face spallucce scherzosamente.

- Non hai tutti i torti però – sussurrai continuando a fissare il cielo e nel mentre giocherellavo con qualche ciuffetto d’erba.

- Che intendi? – domandò Joy.

- Beh se ci pensiamo bene alla fine non sappiamo se ci sia o meno un qualcosa dopo questa vita; in qualunque caso però agli occhi di chi è rimasto al mondo siamo semplicemente scomparsi, dissolti nel nulla – feci una pausa, poi ripresi – Come se non fossimo mai esistiti –

- Non sarà il nostro caso – disse Luke.

- Ah no? – domandò Cal – E cosa hai intenzione di fare? Sentiamo – aveva un tono quasi scettico, come di sfida.

- Lasciare il segno – rispose in un sussurro; mi voltai a guardarlo e lo trovai a fissare attentamente il cielo, con le braccia dietro la testa, un leggero sorriso e lo sguardo da sognatore.

- Come? – gli domandò Beth.

- Qualcosa ci inventeremo – fece spallucce.

- Perché questa cosa ti preme così tanto? –

- Perché non voglio essere dimenticato – sussurrò – Non voglio essere solo un altro puntino nel cielo –

- Beh allora spero che ci riuscirai sul serio – gli disse Joy con un leggero sorriso.

- Ci riusciremo tutti assieme – ridacchiò lui – Altrimenti che senso ha essere ricordati da soli? Almeno si potrà dire che avevo degli amici sfigati quanto me, se non di più – concluse con una risata.

- Hey Hemmings! – esclamò Ash – Bada a ciò che dici o ti prendo a calci – sorrise tra se e se.

- Taci Irwin, tu ed i tuoi fianchi da donna non avete il coraggio – scoppiamo tutti a ridere, ovviamente tutti tranne Ash che continuava a fingersi arrabbiato.

- Giuro che se mi fai incazzare ancora ti castro – lo minacciò borbottando.

- Il mondo femminile subirebbe una grossa perdita, ne sei consapevole? – rispose il biondo con un sorriso malizioso sul volto.

- Continua a crederci Lucas – ridacchiò Kayla.

- Io mi domando perché continuo ad essere vostro amico – borbottò tra se e se mentre scuoteva la testa fingendosi indignato.

- Perché altrimenti saresti tutto solo e depresso sdraiato sul letto della tua cameretta a fissare il soffitto chiedendoti che senso ha la tua vita – ironizzai.

- Uhm, però – disse Mike – Descrizione accurata –

- Grazie – ridacchiai.

- E poi in fondo in fondo sappiamo che in realtà tu ci ami – disse Beth.

- Si, come no, basta crederci – ridacchiò Luke.

- Bastardo – sussurrai scuotendo la testa mentre il sorriso che avevo sulle labbra diventava sempre più grande.

- Siete solo… - iniziò Luke, ma fu interrotto da Mike che finì la frase al posto suo.

- Una massa di idioti? – ridacchiò – Si, lo sappiamo –

- Ma che carini, è tutta la giornata che finite l’uno le frasi dell’altro – dissi – A quando il matrimonio? –

- Traditore! – urlò Calum puntando il dito verso Luke – Credevo che tra di noi ci fosse qualcosa di speciale – scosse la testa amareggiato e contrariato.

- Io, Beth, Joy e Ross facciamo le damigelle – disse Kayla alzando la mano.

- E noi i testimoni – aggiunse Ashton indicando lui e Calum.

- Chi farà la sposa? – domandò Joy ridacchiando.

- Luke ovviamente – rispose Michael – Che domande! – fece spallucce.

- Ma ce lo vedete Luke vestito da sposa? – disse Beth tra le risate facendo scoppiare tutti a ridere.

- Ovviamente sarei comunque bellissimo – rispose il biondo fingendo di vantarsi.

- Oh, si, come no! – ridacchiò Ash – Pagherei oro per vederti in tacchi e vestito – rise ancora più forte e noi lo seguimmo a ruota immaginandoci la scena.

- Inizia a pagare allora – rispose alzando le sopracciglia in tono di sfida.

- Secondo me cade subito – ridacchiai io.

- Poco ma sicuro – annuì Kayla.

- Siete tutti invidiosi della nostra felicità – disse Mike mettendo un braccio sulle spalle di Luke.

- Ehi, ehi… le mani a posto però – esclamò il biondo rimproverandolo – Non siamo ancora sposati –

- Ma che bella coppietta siete – dissi cercando di coprire la mia risata.

- Gelosa? – mi sussurrò Luke.

- Da morire guarda! – esclamai con evidente sarcasmo.

- Perché devi sempre essere così cattiva con me? – incrociò le braccia al petto fingendosi offeso.

- Povero Lucas, ci è rimasto male – ridacchiò Beth.

- Non ti basta più il caro Mikey? – aggiunse Calum.

- Fottiti Calum – borbottò il biondo.

- Ehi, nemmeno siamo sposati e già mi vuoi tradire?! – domandò Michael fingendosi sconcertato.

- È la vita Clifford –

- Fanculo Hemmings –

- Idioti – sussurrai io mentre scuotevo la testa e ridacchiavo.

Dopo un altro po’ di risate calò nuovamente il silenzio su di noi, l’unico suono udibile era lo stereo del Pick up di Ashton che stava trasmettendo Born to Run di Bruce Springsteen. Quella canzone ci rispecchiava alla perfezione; come noi, anche quei ragazzi di giorno si nascondevano e la notte davano sfogo alla loro anima correndo per le strade, liberandosi del peso sulla schiena che era la loro città da suicidio e semplicemente prendere coraggio e fuggire. Andare via verso l’autostrada sconfinata inseguendo quello che era ‘’il sogno Americano’’. Mentre la radio suonava noi cantavamo a squarciagola fondendoci con quella melodia di perduta nostalgia e spirito di rinascita che viveva anche in noi. Continuavo a stare distesa lì su quell’erba bagnata di rugiada e fissavo il cielo e la grande sfera bianca che si faceva spazio tra la moltitudine di stelle; essa regnava nella notte più profonda rendendosi Regina indiscussa dell’oscurità e delle ombre, lì, proprio in quel momento e con ancora quella canzone di sottofondo, pensai nuovamente ai ragazzi di Manhattan. Non avrebbero mai scoperto cosa voleva dire lasciarsi intaccare dall’oscurità, quella buia e profonda. Quella che si fonde con la tua anima e la rende grezza, che si impadronisce di te gettandoti nell’oblio, ma che al tempo stesso ti urla che sei vivo. Finché soffri vivi. Ed io ringraziavo con tutta me stessa ogni giorno che continuavo a sentire il mio pezzo di oscurità pesarmi sul cuore, perché allora voleva dire che ero ancora viva e presente. Che ero qui e adesso, pronta a vivere, a riempirmi di oscurità ogni giorno e vivere ancora di più; rinascere, risvegliarmi dal torpore, dalla cenere, rialzarmi dalle macerie e vivere sempre più forte, sempre più intensamente fino a dove potevo spingermi, fino a dove il cuore riusciva a portarmi. Fino alla fine del mondo

 

 

 

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Capitolo 5
*** A Piece of Us ***


~~


Avevo passato tutta la notte sveglia, non perché non avessi sonno, ma c'era qualcosa di gran lunga più interessante da fare. Quella notte il cielo era completamente ricoperto di stelle. Tanti piccoli puntini luminosi che si affacciavano nell'oscurità e guardavano da lassù noi povere anime bloccate sulla terra. Ero salita sul tetto della casa passando dalla finestra della mia camera e sedendomi in prossimità del tubo della grondaia ammirai la volta stellata, solo guardare. Niente pensieri, niente sentimenti, niente di niente, solo la pace dei sensi. Io ed il cielo. In alcuni momenti era così vicino che sembrava mi bastasse allungare la mano per toccarlo. Mi stendevo sulle tegole con la sigaretta tra le dita e la birra accanto e rimanevo lì anche per delle ore persa nell'immensità del cielo scuro. Delle volte rimanevo fino al mattino dopo appositamente per vedere lo spettacolo dell'alba che rompeva le catene del buio e si liberava delle tenebre mostrandosi in tutta la sua innocenza e luminosità. Sembrava quasi una rinascita. Come se, giorno dopo giorno, il cielo di Brooklyn si rigenerasse lavandosi dallo sporco che, durante la giornata, questa città gli aveva tirato addosso andando ad intaccare la sua purezza. Era un pensiero fuori dalla concezione umana quanto fosse immenso il cielo. Non aveva una fine, per questo lo amavo. Era come se si estendesse anche oltre i suoi stessi confini, fino ad arrivare dove nessun'altro poteva; oltre ed ancora oltre all'infinito in qualunque direzione. Era la cosa più spaventosa e magnifica che esistesse; pensare che c'era un qualcosa talmente tanto grande e potente che ci sovrastava e che non aveva confini, né limiti. Era perfino più grande del mondo stesso. Tutto questo ti faceva sentire estremamente piccolo ed insignificante di fronte ad un immensità del genere. C'era un'unica cosa che la scorsa notte era cambiata rispetto al solito. Generalmente ero sola, ma ieri sera, mentre ero a casa e, per l'ennesima volta mia madre e James erano fuori, qualcuno aveva bussato alla mia porta. Inizialmente credevo fossero tornati, anche se le due del mattino per loro era come dire le quattro di pomeriggio; ma quando aprii la porta e trovai quella testa bionda di Luke rimasi piacevolmente sorpresa. Non era una novità trovare sulla mia soglia qualcuno di quegli idioti a quell'ora della notte, quindi lasciai la porta spalancata e lo invitai ad entrare con un sorriso ed un cenno della testa. Luke non sapeva di quella mia abitudine, l'unica ad esserne a conoscenza era Beth visto che molte volte ci eravamo ritrovate a guardare le stelle assieme. Fatto sta che non appena il biondo mi vide mettere un piede fuori dalla finestra sbiancò a tal punto che i suoi occhi azzurri risaltarono come due fari. Io invece scoppiai a ridere e, solo dopo essermi beata della sua espressione perplessa gli spiegai le mie vere intenzioni. Ci fu solo un piccolo particolare che non avevo calcolato: l'esagerata altezza di Luke. Per farla breve, era talmente tanto alto che fece una gran fatica ad uscire dalla finestra ed in seguito ad arrampicarsi sul tetto che, a fine impresa, avevo le lacrime agli occhi per quanto avevo riso di lui che, invece, continuava a guardarmi con quel sorriso vago e pensieroso che lo contraddistingueva. Passammo tutta la notte lì sul tetto a fumare, bere birra, ammirare il cielo e ridere. Ci furono anche momenti di silenzio, ma non quelli in cui diventava pesante fino all'imbarazzo, anzi, sembrava quasi come dovuto; come se in quei precisi istanti dovevamo concentrarci solamente su noi stessi e lo spettacolo che avevamo di fronte. Luke era la persona perfetta con cui condividere momenti simili, non che gli altri non lo fossero, solo che lui capiva il senso profondo delle cose. L'unica pecca era che alternava momenti di genialità a momenti di pura idiozia, ma purtroppo nessuno è perfetto no? E a dirla tutta mi piaceva così com'era, semplicemente lui. La mattina dopo, appena vista l'alba, rientrammo nella mia camera e, appena accertata che Luke non era scivolato e caduto di sotto, ci stendemmo sul letto e in poco tempo ci addormentammo. Il risveglio purtroppo non fu affatto piacevole, visto che, senza avere nemmeno il tempo di accorgermene, finii direttamente a baciare il pavimento per colpa di un certo gigante che mi aveva letteralmente buttato di sotto per prendersi tutto il letto. Dalla bocca mi uscì un verso di pura disapprovazione e, a metà tra l'arrabbiata e il divertita, mi tirai su in ginocchio ed afferrai il cuscino che andai a scagliare direttamente sul viso di Luke con tutta la forza che a quell'ora della mattina avevo facendolo svegliare di soprassalto:

- E questo per cos'era? - sbuffò lui mentre si passava una mano tra i capelli arruffati.

- Grazie del bel risveglio Hemmings - borbottai mentre ero ancora seduta a terra.

- Che ci fai sul pavimento? - domandò aggrottando le sopracciglia.

- È una storia alquanto buffa - iniziai con sarcasmo ed incrociando le braccia al petto - Sai, stavo dormendo beatamente finché qualcuno - marcai abbastanza la parola per fargli intendere di chi stessi parlando - Non mi ha svegliata bruscamente facendomi cadere dal letto -

- E questo qualcuno sarei io? - disse lui con un leggero sorriso divertito.

- Beh vedi qualcun altro qui dentro alto quanto una giraffa e che si è brutalmente impossessato del mio letto? - Luke cominciò a guardarsi intorno con aria pensierosa ed un sorriso che minacciava di scoppiare in una fragorosa risata; alzai gli occhi al cielo e sbuffai. Era sempre il solito idiota - Lucas - lo richiamai da ancora seduta sul pavimento.

- Cosa c'è? Controllavo se magari c'era il tizio che hai descritto, sai, non si è mai troppo prudenti - sbuffai sonoramente e lui scoppiò a ridere aprendosi in un enorme sorriso.

- Ti odio Hemmings - borbottai mentre mi rimettevo lentamente in piedi.

- Tu non puoi odiarmi, mi vuoi troppo bene - ridacchiò mentre si metteva a sedere con le spalle poggiate alla testiera del letto e sorrideva leggermente.

- Fanculo - lo guardai storto e lui in tutta risposta sorrise ancora di più sapendo che aveva ragione. Delle volte lo odiavo davvero quel ragazzo.

- Visto? - alzò le sopracciglia - Non puoi resistermi - disse iniziando a sistemarsi il ciuffo che durante la notte gli era ricaduto su un lato del viso.

- Convinto tu - alzai nuovamente gli occhi al cielo - Questo non giustifica il fatto che mi hai letteralmente sfrattato dal mio letto - lo guardai di sbieco avvicinandomi al suo lato.

- Chiedo venia, ma non posso farci nulla se il tuo letto è molto comodo - ridacchiò ed io per l'ennesima volta alzai gli occhi al cielo.

- La prossima volata ti faccio dormire a terra - dissi con una mezza risata.

- Non lo faresti mai - scosse la testa con ancora quel sorriso sul volto.

- Non provocarmi Hemmings - lo guardai storto.

- Altrimenti? - domandò assumendo un'espressione abbastanza provocatoria - Che hai intenzione di fare? -

- Questo - mi avvicinai a presi nuovamente il cuscino e glielo sbattei ancora sul volto con espressione soddisfatta al sentire il suo mugolio di disapprovazione - Ed ora fuori dal mio letto -

- E va bene - sbuffò mentre si alzava con estrema lentezza.

- Vado a farmi una doccia -

- Vengo anche io - sorrise mettendo su la stessa espressione di prima.

- Non ci provare nemmeno Lucas - lo avvertii puntandogli il dito contro - Tu la mia doccia non la usi, mi è bastata quella volta che hai allagato il bagno -

- Ma non l'ho fatto apposta - sbuffò alzando gli occhi al cielo - Non è colpa mia se sono alto - fece spallucce.

- Non è una scusante - incrociai le braccia al petto e sorrisi tra me e me.

- E poi sarei io quello insopportabile - bofonchiò sbuffando nuovamente facendomi scoppiare a ridere.

Mi guardò per qualche secondo, poi anche lui si unì alla risata. Era bello per una mattina svegliarmi spensierata e con il sorriso sulle labbra, senza niente a cui pensare, senza i problemi di mia madre e del suo compagno che mi gravavano sulle spalle. Una mattinata qualunque, di una persona qualunque. Lasciai Luke a vagare per casa con sempre una certa preoccupazione per quello che avrebbe potuto fare, e andai a farmi una doccia veloce per togliermi di dosso gli ultimi residui di stanchezza della notte precedente e, una volta pronta, scesi giù trovando il biondo seduto sul divano del mio soggiorno con le gambe poggiate sul tavolinetto basso di fronte:

- Togli i piedi da lì sopra - gli dissi mentre entravo in cucina ed iniziavo a preparare la colazione.

Lui lanciò un sonoro sbuffo e si tirò su a sedere per seguirmi in cucina con ancora i capelli arruffati; iniziai a tirar fuori gli ingredienti per fare i pancake mettendomi all'opera mentre lui si sedette sul ripiano della cucina e mi osservava in un modo alquanto inquietante. Mentre mi affaccendavo per preparare la colazione sentivo lo sguardo insistente di Luke addosso, all'inizio cercai di ignorarlo, ma alla fine cedetti e mi voltai guardandolo con aria interrogativa:

- Cosa c'è? -

- Da quanto manca tua madre? - mi domandò in un sussurro e diventando improvvisamente serio.

- Da ieri sera - risposi in modo evasivo mentre mi tenevo impegnata con i pancake.

- È uscita con James? -

Sospirai ed annuii:

- Come ogni sera - sussurrai.

- Mi dispiace, lo sai - disse anche lui a voce bassa mentre poggiò una mano sulla mia.

- Lo so - mi lasciai andare in un altro sospiro - Ma non posso farci nulla, è la sua vita -

- Hai pensato a quello che ti abbiamo detto la scorsa settimana? -

- Si, ci ho pensato - risposi mentre mettevo i pancake a cuocere.

- E? - mi invitò a continuare.

- Non lo so Lucas, non lo so... -

- Non puoi rimanere qui sola -

Alzai lo sguardo su di lui e lo guardai negli occhi, era evidentemente preoccupato. Mi osservava con quell'espressione angosciata che mi riservava ogni volta che veniva fuori questo discorso; apprezzavo veramente tanto il fatto che si preoccupasse, ma delle volte esagerava. Non ero più una bambina, avevo imparato a cavarmela e rimanere qualche sera da sola era il minimo che mi fosse successo:

- Sto bene, davvero - feci un piccolo sorriso.

- Sai che non ti credo, vero? - sospirò ed io annuii leggermente con lo sguardo basso.

- Beh, c'è da dire che almeno ieri sera ero in tua compagnia - sorrisi appena cercando di risollevare l'umore della situazione.

- Se vuoi posso anche trasferirmi qui - disse ridendo leggermente.

- Non esageriamo ora - risi - Finirei per odiarti davvero Hemmings -

- Te lo ripeterò fino allo sfinimento, tu non mi odierai mai - incrociò le braccia al petto facendomi l'occhiolino.

Nel mentre di questa piccola discussione suonò il campanello e per un momento credetti che mia madre e James fossero tornati, sperai vivamente di no. Guardai di sfuggita Lucas e notai la mia stessa preoccupazione nel suo sguardo. Afferrai lo strofinaccio e mi pulii le mani:

- Aspetta qui - gli dissi mentre uscivo dalla cucina.

Arrivai davanti la porta d'ingresso e, ancor prima di aprire, un gran vociare mi rivelò chi c'era lì dietro. Sorrisi tra me e me sollevata ed aprii trovandomi davanti l'intera banda di scalmanati che chiamavo amici:

- Ma guarda un po' chi si vede - sorrisi poggiandomi alla porta.

- Buongiorno bellezza - mi sorrise Kayla mentre schiacciava con la suola degli anfibi la sigaretta.

- Buongiorno a te - poi mi rivolsi agli altri - Cosa ci fate qui a quest'ora? Credevo che almeno oggi non vi avrei dovuto sopportare tutta la giornata - ridacchiai.

- Ce lo chiediamo anche noi visto che Irwin ci è venuto a buttare giù dal letto - rispose Beth guardandolo storto, ma con un piccolo sorriso.

- In realtà sappiamo che non potete vivere senza di noi - disse Calum con un sorriso sghembo.

- Ma perché ne siete così convinti? - sbuffò Joy.

- Perché senza di noi vi annoiereste a morte - rispose Mike.

- Quanto siete presuntuosi - borbottò Beth tra se e se.

- Diciamo solo la verità - rise.

- Modestia portami via - alzai gli occhi al cielo.

- Bando alle ciance - esordì Ash - Siamo qui per un motivo ben preciso -

- E quale sarebbe di grazia? - chiese Beth.

- Lo saprete presto - sorrise in un modo che non mi piaceva molto. Cosa passava in quella testa vuota?

- A proposito - Cal si voltò verso di me - Hai notizie di Lucas? Siamo passati a casa sua ma Jack ci ha detto che non ha dormito lì -

- Te l'ho detto - intervenne Mike - Sarà sicuramente a scaldare il letto di qualche ragazza - disse stampandosi un sorriso furbo sul volto.

- Ross, si può sapere...? Oh, ciao ragazzi - ecco, parli del diavolo e spuntano le corna.

Nel giro di qualche secondo vidi le espressioni di tutti e sei variare dalla più assurda, alla più buffa. Sgranai subito gli occhi al pensiero di ciò che poteva passare per le menti malate di Ash, Cal e Mike e subito misi le mani avanti per evitare ogni tipo di fraintendimento, anche se ero più che sicura che avrebbero preso al volo l'occasione per torturami tutto il giorno da bravi amici che erano:

- Non è come sembra - dissi tappando la bocca a Cal e Mike ancor prima che potessero parlare.

- Ah no? - domandò Michael stampandosi un sorrisetto poco casto sul volto.

Entrò in casa seguito da tutti gli altri, e nel mentre io ero impegnata a guardarlo male per evitargli di sparare una delle sue solite cazzate, gli altri avevano cominciato a parlare uno sopra all'altro facendo un chiasso assurdo. Se prima mi lamentavo di quel rompiscatole di Luke, ora avevo tutta la banda al completo. Addio mattinata tranquilla. Cal si precipitò dal biondo e gli mise un braccio attorno alle spalle con un ghigno stampato sul volto e, mentre percorreva il corridoio, parlottava con lui:

- Allora, racconta Hemmings, com'è andata la serata? - capii di essere fottuta nel momento in cui anche Luke si stampò la stessa espressione sul volto. Prima o poi li avrei uccisi sul serio.

- Ross, spiega, ora - Joy mi afferrò per un braccio facendomi voltare verso di lei, aveva gli occhi sbarrati che trapelavano curiosità.

- Non c'è nulla da spiegare - sbuffai - Non è successo nulla -

- Nulla... ne sei sicura mia cara? - domandò Ash comparendo alle mie spalle facendomi sobbalzare leggermente.

- Si, Irwin, si! - sbuffai nuovamente lasciandomi andare in un verso di pura disapprovazione.

- Tu non ce la racconti giusta - iniziò Mike - Sicuramente voi due ve la intendete da un po' e ci tenete tutto nascosto e... - all'improvviso si fermò come se qualcos'altro avesse improvvisamente attirato la sua attenzione - Ma questo è odore di pancake! - esclamò peggio di una ragazzina che aveva appena visto il suo idolo.

In men che non si dica si precipitò verso la cucina richiamato dall'odore e dalla presenza di cibo, cosa sacra per lui, e come se non bastasse, anche gli altri gli si affilarono dietro come una mandria di bufali impazziti. Erano esasperanti delle volte, ma adoravo sverli intorno e soprattutto adoravo momenti come questi. Si, ok, potevano essere banali, ma per me contavano veramente molto perché rispecchiavano quel piccolo stralcio di normalità che era praticamente assente nella mia vita famigliare e che solo loro sapevano darmi. Li amavo davvero tantissimo:

- Michael Gordon Clifford, se ti azzardi ti taglio le mani! - gli urlai mentre cominciai a rincorrerlo.

- Ma ho fame! - si lamentò.

- Anche noi - dissero all'unisono Luke, Cal ed Ash alzando la mano

- E quando mai non ne avete? - alzai gli occhi al cielo esasperata.

- Ehm, Ross? - Beth richiamò la mia attenzione.

- Cosa c'è? - sospirai mentre davo un buffetto sulla spalla di Ash che aveva cercato di rubare uno dei pancake.

- Ecco, in teoria avremmo fame anche noi - sorrise timidamente mentre si lasciava andare in una risata seguita da Joy e Kayla.

- Non posso crederci - sbuffai - Io mi arrendo, siete peggio di un invasione di cavallette - mi infilai le mani nei capelli esasperata.

- Lo sappiamo - annuì Cal - Ora ci dai da mangiare? - sorrise mostrando le fossette e fingendosi un bambino innocente.

- E va bene - sospirai e loro esultarono - Vi odio tutti - borbottai mentre mi voltavo verso la credenza e prendevo i piatti per ciascuno di loro.

- Noi invece ti amiamo - sorrise Ash.

- Ci mancava solo il contrario - bofonchiai e nel mentre iniziai a servire i pancake sui piatti.

- Ehi, non è colpa nostra se quel cretino di Fletcher ci ha buttati giù dal letto e non abbiamo fatto colazione - disse Kayla mentre rideva e si metteva in bocca un pezzo di pancake.

- A proposito di letti - iniziò Mike con nuovamente la sua espressione furbetta - Com'è il letto di Ross, eh Lucas? -

- Molto comodo a dire il vero - sorrise sornione mentre mi lanciava uno sguardo.

- Si, talmente comodo che lo voleva tutto per se tanto da farmi cadere - borbottai facendo scoppiare tutti a ridere - Hood, invece di rubare dal frigo vieni qui ed aiutami - si avvicinò con le mani in tasca - Prendimi il caffè, su, renditi utile - annuì e si allontanò.

- Su Lucas, vogliamo i dettagli - lo incitò il tinto.

- Mike, smettila - lo richiamai mentre continuavo ad affaccendarmi in cucina.

- Beh - iniziò il biondo lanciandomi uno sguardo malizioso - Ci siamo divertiti parecchio - fece spallucce mentre io sbuffai sonoramente.

- Ne siamo certi - disse Ashton dandogli una gomitata amichevole.

Mentre loro erano impegnati a fare gli idioti, come sempre, io continuavo a farmi in quattro per preparare la colazione a quella massa di gente che mi era piombata in casa senza il minimo preavviso. Presi la caffettiera e la riempii con il caffè che mi aveva appena portato Calum:

- Allora, cosa è successo? - mi sussurrò mentre richiudeva il barattolo per rimetterlo a posto.

- Nulla Calum, nulla - sbuffai accendendo il fuoco, lui mi guardò di sbieco non soddisfatto ed io alzai gli occhi al cielo.

- Quindi, fammi capire, ti è saltata praticamente addosso appena hai varcato la soglia? - domandò Ash al biondo attirando la mia attenzione - Beh, complimenti Ross - mi fece l'occhiolino.

- Luke Robert Hemmings, finiscila! - mi lamentai lanciandogli un'occhiataccia senza però riuscire a trattenere un sorriso.

- Cosa c'è? Sto solo raccontando la nostra bellissima serata - fece un sorriso sghembo mentre alzava le sopracciglia.

- Ti piacerebbe Hemmings - mi voltai - E tu Hood, prendi la marmellata e smettila di ridere - gli dissi mentre versavo il caffè nelle tazze ed aggiungevo del latte.

- Non ho mai detto il contrario -

Quelle parole gli uscirono ridotte ad un sussurro, come se nessuno doveva sentirle; mi fermai, distraendomi da ciò che stavo facendo, e mi voltai a guardarlo per qualche secondo con un'espressione alquanto incuriosita sul volto. Non ebbi il tempo di approfondire la cosa perché, ovviamente, le lamentele degli altri mi riportarono ad affaccendarmi in cucina, così misi da parte le parole ambigue di Lucas e presi il coltello ed il pane. Mentre tagliavo qualche fetta, Cal si avvicinò nuovamente posando la marmellata sul ripiano della cucina, poi silenziosamente fece ancora qualche passo e, giunto abbastanza vicino, mi domandò nuovamente:

- Ma sei proprio sicura che non sia successo nulla? -

- Calum! - esclamai esasperata - Smettila ok? In quale lingua devo dirtelo? - dissi mentre iniziai a gesticolare e ripetergli all'infinito che non era successo assolutamente niente.

- Ehm, ok, ma, Ross, calma - disse mentre metteva le mani avanti ed aveva un'espressione leggermente terrorizzata sul volto.

- No, non mi calmo - gli puntai il dito contro e lui indietreggiò di scatto - Mi state facendo esasperare oggi, siete delle spine nel fianco! - alzai gli occhi al cielo.

- Ok, ok ma ehm... - si schiarì la voce.

- Cosa Cal, cosa?! - esclamai continuando a gesticolare.

- Quello - indicò la mia mano destra.

Abbassai lo sguardo sulla mano e solo in quel momento mi accorsi che mentre gesticolavo tenevo ancora stretto il coltello, il che mi fece scoppiare a ridere mentre mi rivolsi a lui con aria di sfida:

- Non farmi arrabbiare ok? -

- Perché, altrimenti mi uccidi? - disse con un mezzo sorriso continuando a guardare preoccupato la lama.

- Non tentarmi Hood - feci un sorriso ed alzai le sopracciglia divertita.

- Ehi, ehi, frena tesoro, ci sono troppi testimoni - mise le mani avanti cercando di difendersi.

- Chi, noi? - intervenne Ash mentre sorseggiava il suo caffè - Nah, fai pure, siamo impegnati in altro - e tornò a mangiare e parlare con gli altri.

- Oh bene, molte grazie - esclamò fingendo di essersi arrabbiato.

- Figurati - fece spallucce Joy mentre prendeva una fetta di pane e marmellata dal piatto che avevo appena messo in tavola.

- Forza Hood, per oggi ti risparmio, va a mangiare anche tu - sbuffai.

- Ti adoro - sorrise lasciandomi un bacio sulla tempia e correndo a prendere il cibo in tavola.

- Si, si ok - alzai gli occhi al cielo.

- Se continui così ti rimarranno incastrati gli occhi prima o poi - ridacchiò Luke.

- Non è colpa mia se mi avete già esasperato e non è nemmeno mezzogiorno -

Scoppiarono tutti a ridere ed io scossi la testa prima di unirmi a loro ed iniziare a mangiare qualcosa. Era passata più di una settimana dalla nostra folle corsa in auto e da quel giorno avevamo passato ogni momento a pensare a come organizzare la famosa esibizione della band e nel convincere la madre di Ashton a lasciarci il garage per riorganizzarlo a ''posto speciale'' non solo per le prove, ma anche per un ritrovo tra noi. Inizialmente quando proponemmo ad Anne la cosa lei rimase palesemente perplessa e di certo non potevamo darle torto visti i precedenti, ma Ash disse che alla fine era riuscito a convincerla ed era quello il motivo per il quale oggi aveva buttato tutti giù dal letto. Quattro anni prima, o giù di lì, le avevamo promesso di ripulire l'intero garage per raccogliere qualche soldo per organizzare la festa a sorpresa per il compleanno di Beth; beh ecco, diciamo che a fine giornata avevamo fatto tutto tranne che pulire. Non fu colpa nostra, o meglio, si, ma nel mentre eravamo lì a sistemare ci eravamo lasciati prendere un po' troppo la mano dalle cianfrusaglie che c'erano al suo interno e passammo tutta la giornata a divertirci come dei pazzi. Come finì? La madre di Ash si accorse che avevamo creato più disastri che altro e, dopo un'alzata di occhi al cielo ed un paio di sgridate, ci mandò via e lasciò tutto com'era. Per noi non fu una delusione, anzi, alla fine ci aiutò Bryan a mettere insieme la somma che ci serviva per il compleanno della nostra amica. Ci eravamo divertiti come dei pazzi. Fu uno dei pomeriggi più belli di quell'anno; ricordo ancora il momento in cui trovammo uno scatolone pieno di parrucche, provenienti da chissà dove, ed i ragazzi cominciarono a provarsele una dopo l'altra atteggiandosi come se fossero delle ragazze. Credo che fu in quel preciso istante che a Mike saltò in testa l'idea di cominciare a tingersi i capelli, infatti galeotta fu la parrucca azzurra che, credendo che nessuno se ne sarebbe accorto, si nascose nello zaino e si portò a casa. Dopo aver finito la colazione e fumato una sigaretta tutti assieme, ci incamminammo verso casa di Ash per cominciare a sistemare quel garage che non veniva aperto da anni. Mi piaceva frugare tra le cose vecchie che appartenevano ad altri, era come fare un tuffo nel loro passato, assorbire la loro memoria e diventare parte anche tu di quel ricordo. Quando arrivammo trovammo Anne sulla soglia del garage ad aspettarci:

- Buongiorno ragazzi -

- Buongiorno Anne - rispondemmo tutti all'unisono.

- Allora, vi lascio lavorare, queste sono le chiavi - le porse a Joy - Io, Harry e Lauren staremo fuori tutta la giornata così potete sistemare tutto e, mi raccomando, non fate danni - terminò con un sorriso mentre riservava un'occhiata ai ragazzi.

- Non preoccuparti Anne, badiamo noi a loro - ricambiai il sorriso.

- Bene - ridacchiò - Almeno non dovrò più sentire quella batteria infernale tutto il giorno in casa -

- Mamma - borbottò Ash - Credevo fossimo d'accordo a non mettere la questione in mezzo - sbuffò leggermente.

- Hai ragione, ma per quanto tu possa essere davvero bravo, fai un rumore assordante - scoppiammo tutti a ridere ed Ash alzò gli occhi al cielo esasperato.

- Forza, cominciamo, altrimenti non finiremo mai - sbuffò Cal mentre faceva vagare lo sguardo all'interno del garage.

Anne, Harry e Lauren si allontanarono e noi ci scambiammo un'occhiata veloce come per incoraggiarci ad iniziare quella faticaccia. Entrammo nel box ed iniziammo a guardarci attorno incerti da dove iniziare. C'era talmente tanta roba lì dentro che sicuramente ci avremmo messo una vita, ma eravamo certi che una volta finito sarebbe venuto fuori qualcosa di veramente speciale, qualcosa di solo ed esclusivamente nostro. Visto che sarebbe stata una lunga giornata ci organizzammo per rendere il lavoro il più piacevole possibile. Salimmo in camera di Ash e prendemmo lo stereo e tutte le sue cassette. Non potevamo vivere senza musica, era quella che ci rendeva quello che eravamo, che ci permetteva di creare nuovi ricordi. Trovare la canzone perfetta, la melodia adatta per ogni ricordo, ogni momento, parola o gesto. La colonna sonora delle nostre vite. Ogni canzone racchiudeva un ricordo, così se volevamo ripercorrere i nostri momenti migliori, ci bastava metter su quella determinata canzone e lasciarci trasportare dalle immagini che quelle note ci riportavano alla mente. La musica era la nostra memoria. Cosa c'era di meglio che affidare un ricordo per te importante ad una canzone? La musica era immortale, sarebbe rimasta anche dopo la nostra scomparsa e, in certo senso, anche noi saremmo continuati a vivere con lei. Ecco perché Luke teneva tantissimo alla band. Voleva continuare a vivere attraverso le canzoni e le note della sua chitarra. In questo modo non sarebbe mai stato dimenticato completamente perché, chissà, magari un giorno qualcuno, rovistando in qualche vecchio garage come stavamo facendo noi, avrebbe ritrovato un loro disco e, come per magia, sarebbero tornati nuovamente a vivere. Mentre Kayla frugava tra le cassette di Ash in cerca della musica adatta, noi ci stavamo organizzando per iniziare a svuotare il garage. I ragazzi si presero l'incarico di spostare le cose più pesanti come vecchi mobili o enormi scatoloni, il che poteva essere considerato un gesto carino da parte loro se non si badava al fatto che le loro facce erano incredibilmente rosse per lo sforzo immane che stavano facendo:

- Siete inutili - ridacchiò Beth mentre si copriva la bocca con la mano per non dar troppo a vedere la sua risata.

- Fate tanto i duri e poi non riuscite a sollevare nemmeno un comodino in due - dissi mentre prendevo uno scatolone da uno scaffale e lo poggiavo a terra.

- Ehi! - esclamarono all'unisono i ragazzi sentendosi offesi nel loro ''orgoglio maschile''.

- È inutile che fate tanto gli offesi - disse Joy - Si vede lontano un miglio che vi manca poco per collassare -

- Ed il bello è che abbiamo appena cominciato - aggiunse Kayla ancora tutta concentrata nello scegliere la musica.

- State sempre a prenderci in giro - borbottò Cal mentre assieme a Mike posavano un enorme scatolone a terra.

- Lo facciamo per dimostrarvi quanto vi vogliamo bene - rispose Joy con una piccola risata e aprendo lo scatolone per guardarci dentro.

- Mi immagino cosa avrebbero fatto se ci odiavano - disse Ash rivolgendosi a Lucas che era pericolosamente in bilico su uno sgabello per prendere altre scatole.

- Luke, ti prego, fa attenzione - gli lanciai qualche sguardo mentre continuavo a svuotare lo scatolone e dividere le cose da buttare con quelle da tenere.

- Stai tranquilla - ridacchiò lui rivolgendomi un'occhiata fugace.

- Non preoccuparti, il tuo amico di letto ha la pelle dura - ridacchiò Mike lanciandomi una frecciatina.

- Clifford, taci - lo rimproverai mentre gli tiravo un pallone sgonfio che avevo trovato sotto lo scaffale e che lui evitò per poco.

- Volevi uccidermi per caso?! - esclamò mettendo in atto le sue pessime doti recitative.

- Non oserei mai - alzai le mani ridacchiando.

- Peccato - bofonchiò Beth fingendosi rammaricata.

Sorrisi e prima di tornare a sistemare lo scatolone che conteneva un sacco di cianfrusaglie, appartenute a chissà chi, lanciai nuovamente uno sguardo a Luke che stava passando un paio di grandi contenitori di plastica a Cal. Feci un piccolo sorriso che scomparve subito nel momento in cui mi accorsi che il biondo stava per perdere l'equilibrio, ma fortunatamente riuscì ad aggrapparsi in tempo al bordo del mobile e non cadere. Mi lasciai andare ad un sospiro di sollievo e scossi la testa; delle volte sembrava di avere a che fare con dei bambini, dovevi sempre controllarli ed accertarti che non si fossero spaccati la testa nel mentre tu guardavi altrove. Povere noi:

- Te la sei vista brutta amico - ridacchiò Ash mettendosi in spalla due sacchi neri pieni di cose di cui disfarsi.

- Già - rispose Luke con una risata alquanto nervosa.

- Te l'avevo detto - cantilenai sollevando la scatola che avevo appena richiuso e messo in un angolo assieme a quello che bisognava spostare in soffitta.

- Voi quattro ci farete morire un giorno di questi - sospirò Joy scuotendo la testa.

- Decisamente - annuì Beth impegnata a rovistare in un contenitore più grande di lei.

Mi voltai verso Kayla e la trovai ancora lì a rovistare tra le cassette. Sorrisi tra me e me e mi fermai un secondo ad osservarla. Era persa nel suo mondo e nei suoi pensieri, tanto da risultare affascinante e piena di mistero anche se non stava facendo nulla di particolare. Delle volte avrei voluto avere anche io quel suo dono. Continuando a guardarla però, mi accorsi che aveva qualcosa di strano. Non sapevo come spiegarlo, ma quando qualcuno del gruppo era sotto l'effetto della propria nuvoletta grigia ero la prima che se ne accorgeva. Questo ovviamente non voleva dire che agli altri non saltasse all'occhio o non importasse, ma io generalmente non lo percepivo con gli occhi, ma con l'anima. Con Kayla la cosa era più accentuata. Probabilmente il tutto dipendeva dal fatto che io e lei eravamo praticamente identiche caratterialmente e quindi era come guardarsi allo specchio, come se la mia anima fosse strettamente legata alla sua. Un'altra cosa di cui ero certa era che non aveva affatto voglia di parlare di ciò che la rendeva così assente, altrimenti, come ogni volta, mi avrebbe trascinato via assieme a Joy e Beth per raccontarci tutto. Sospirai e mi promisi che se entro fine giornata non si fosse aperta spontaneamente sarei andata io da lei. Non volevo forzarla, ma sapevo fin troppo bene gli effetti di qualcosa che ti fa male, ma che continui a tenerti dentro. Ti logora. Giorno dopo giorno si nutre di te finché non ti riduce al fantasma di te stessa. Tu ti indebolivi ed il dolore cresceva. Non lo avrei augurato nemmeno al mio peggior nemico. Quando mi voltai per continuare a sistemare le varie scatole mi accorsi degli sguardi fugaci che Ash, di tanto in tanto, le riserbava. Sorrisi quasi involontariamente. Era strano vedere come qualcuno che conoscevi da praticamente una vita si innamorava, ancor più strano era quando la persona che gli aveva fatto nascere tali sentimenti apparteneva alla cerchia di amici. Kayla ed Ashton sarebbero stati perfetti assieme. L'unica piccola preoccupazione che veniva a bussare nell'angolo remoto della mia testa di tanto in tanto, era la paura che magari si fosse rotto un equilibrio e di certo non avrei accettato in alcun modo di perdere uno dei due. In quel preciso istante il batterista si voltò verso di me e si accorse del mio sguardo; inarcò le sopracciglia e mi osservò in modo interrogativo invitandomi a parlare con un accenno di sorriso, in tutta risposta scossi leggermente la testa e mi voltai a prendere l'ennesimo scatolone. Proprio nel momento in cui lo aprii un sorriso comparve nuovamente sul mio volto a sentire le note che cominciarono ad uscire della radio. Kayla aveva finalmente scelto la playlist di tutta la giornata e non avrebbe potuto far di meglio. Quando le note di Smoke on the Water dei Deep Purple cominciarono a risuonare dalla radio ed espandersi per tutto il garage esultammo tutti e cantando e scatenandoci continuammo con il nostro lavoro. Avevamo preso talmente a cuore e seriamente la cosa che quando arrivò l'ora di pranzo ci fermammo per appena dieci minuti, il tempo di mandar giù un pezzo di pizza ed una birra e poi ricominciare. Dopotutto eravamo una bella squadra, i ragazzi si erano disfatti dei mobili inutilizzabili ed avevano invece accantonato in un angolo quelli che avremmo potuto usare noi, mentre io e le altre avevamo già controllato una ventina di scatoloni e riempito un bel po' di sacchi neri con le cose da buttare. Un po' mi dispiaceva disfarmi di quelle cose, anche se non erano appartenute a me e non avevo nessun legame con esse. Un tempo, però, erano appartenute a qualcuno, erano state parte della vita e dei ricordi di una persona prima di finire in uno scatolone e successivamente in un secchio dell'immondizia. Disfarsi dei ricordi, anche di quelli più brutti, era come liberarti di una parte di te e negare che fosse mai esistita. Non amavo particolarmente affezionarmi agli oggetti, erano veramente pochi quelli a cui tenevo e questo era uno dei motivi. Un giorno sarebbero finiti anche loro in qualche cassonetto e avrebbero semplicemente cessato di esistere, come se non ci fossero mai realmente stati. Ecco perché preferivo affidare i ricordi ai luoghi, alla musica ed alle foto. Nessuno si disfava delle foto. Anche se erano appartenute a persone a te pressoché sconosciute. Una foto era un qualcosa di troppo commemorativo da finire in un cestino. C'erano delle eccezioni ovviamente, come quella volta che mia madre buttò via tutte le foto di mio padre per <> come disse lei, ma questo era un altro discorso:

- Ross? -

- Dimmi - mi voltai verso Ash.

- Abbiamo finito i sacchi, mi accompagni in casa a prenderne alcuni? -

- Certo - annuii mentre passavo a Mike la scatola che avevo in mano.

Varcai la soglia della cucina assieme a lui e lo seguii fino in cucina dove prendemmo ciò che ci serviva, ma prima che potessimo uscire nuovamente Ash cacciò un sospiro e si poggiò al tavolo della cucina. Sapevo che la sua era solo una scusa per parlarmi, lo vedevo nel suo sguardo che aveva qualcosa che gli ronzava in testa. Mi avvicinai e gli misi un braccio attorno alle spalle strappandogli un piccolo sorriso:

- Cosa c'è? Sputa il rospo -

- So che anche tu hai notato che oggi Kayla è assente -

Si voltò a guardarmi e sospirai. Ci teneva davvero tantissimo a lei e si vedeva. I suoi occhi verdi erano leggermente offuscati da una nube di malinconia e preoccupazione che li resero di una sfumatura leggermente più scura; non sopportavo di vederlo così. Sospirai nuovamente ed annuii:

- Si, l'ho notato, ma se mi vuoi chiedere di cosa si tratta mi dispiace, non so nulla - scossi la testa.

- Pensi sia successo qualcosa a casa sua? - la preoccupazione nei suoi occhi per un istante divenne puro terrore.

- Spero vivamente di no - sussurrai mentre gli passai una mano tra i capelli.

Kayla aveva una situazione alquanto complicata in famiglia. Non ne parlava molto perché odiava caricarci dei suoi problemi, altra cosa in cui eravamo molto simili, ma noi sapevamo perfettamente ciò che accadeva all'interno di quelle mura. La madre ed il padre erano due ex tossici convertiti in alcolisti. Molto spesso mia madre e quella di Kayla erano state ad ubriacarsi nello stesso bar prima che James irrompesse nelle nostre vite e sconvolgesse tutto. Purtroppo quello era il male minore. Delle volte mi chiedevo se il destino non ci avesse uniti apposta per ripagarci dei disastri che avevamo all'interno delle nostre famiglie. Ash sospirò ancora e si passò una mano sul viso mentre si staccava dal tavolino ed iniziava a vagare per la cucina:

- Non so cosa fare - sussurrò ad un certo punto fermandosi e guardandomi negli occhi per un breve istante per poi ricominciare a far su e giù.

- Lo sai invece - sospirai.

- No - scosse la testa - Non è una cosa fattibile -

- Ash - esordii con determinazione - Sei suo amico, puoi benissimo andare da lei e chiederle cosa la preoccupa - feci un passo verso di lui.

- Il problema è che non voglio essere solo suo amico - disse in tono straziante.

Mi avvicinai e lo abbracciai forte cercando di dargli un po' di sostegno e rendermi utile:

- Lo so - sussurrai, poi mi staccai leggermente per guardarlo negli occhi - E cosa ti dice che non sia solo tu a volere di più? -

- Oh Ross, andiamo! - esclamò - Cosa potrebbe mai vedere Kayla in me? - sospirò nuovamente.

- Tante cose - risposi facendogli un piccolo sorriso che ricambiò a malapena - Ascoltami bene - gli presi il volto tra le mani e lo costrinsi a guardarmi negli occhi - Kayla ti conosce molto bene, come ognuno di noi. Conosce i tuoi pregi ed i tuoi difetti da una vita, a modo suo è come se ti avesse amato da sempre, quindi non venirmi a dire cosa potrebbe vedere in te perché lo sai bene tu, come lo so io ed anche lei cosa c'è qui dentro - indicai il suo cuore e lui annuì leggermente.

- Ho solo il terrore di combinare un disastro e rovinare il gruppo - distolse lo sguardo.

- Lo capisco e ad essere sincera spaventa anche me, ma non puoi tenerti il dubbio per sempre -

- Mi mangerebbe vivo - sussurrò.

Lo abbracciai nuovamente e questa volta ricambiò l'abbraccio con ancora più forza. Avrei voluto che tutti loro fossero felici, Kayla soprattutto, ed Ash era il ragazzo adatto per far si che ciò accada. Era tutto nelle sue mani, spettava a lui decidere se farsi avanti o meno anche se sapevo molto bene quanto costava soffocare i propri sentimenti per qualcuno. Quando ci staccammo dall'abbraccio e tornammo nel garage lo spettacolo che ci trovammo di fronte fu l'ultima cosa che ci saremmo aspettati. Calum era in piedi su un tavolino, a parer mio molto pericolante, con al collo quello che era una specie di boa di piume e ballava, dire che stava ballando era un parolone, ma ok, sorvoliamo, sulle note di You Can Leave Your Hat On di Joe Cocker. Mi guardai attorno e notai le facce divertite degli altri e quella leggermente rossa di Beth:

- Cosa diamine succede qui dentro? - domandò Ash alquanto sconvolto.

- Hai intenzione di farci uno spogliarello Hood? - dissi alquanto perplessa.

- Come se ti dispiacesse se mi spogliassi - alzò le sopracciglia e si aprì in un sorriso provocatorio.

- No grazie, stavolta passo - risposi facendo un movimento con la mano per poi dirigermi verso la catasta di scatoloni ancora da controllare.

- Fidati Cal, a noi dispiacerebbe - aggiunse Michael con l'approvazione di Ash e Luke che finsero di rabbrividire inorriditi.

- Siete solo invidiosi - disse mentre continuava a fare qualche mossa e roteare il boa come fosse un laccio per prendere il bestiame.

- Di cosa dovremmo essere invidiosi? Sentiamo - domandò Lucas aggrottando le sopracciglia ed incrociando le braccia al petto.

- Del mio bellissimo fisico e - si interruppe per guardare i tre con un'espressione fin troppo da furbo ed in quel momento capii dove voleva andare a parare.

- E cosa? - domandò Ash avvicinandosi al tavolino guardando Cal.

- Delle dimensioni ovviamente -

Sospirai esasperata tra me e me e mi battei il palmo sulla fronte scuotendo leggermente la testa. Non era possibile che ora si mettessero a fare anche loro questi paragoni:

- Sarà meglio che ti rimangi quello che hai detto finto cinese - gli disse Mike con un'espressione piuttosto ''seria'' sul volto.

- Non chiamarmi così fata turchina - rispose Cal riferendosi ai capelli azzurri del tinto.

- Ragazzi, ragazzi basta - si intromise Joy - Per quanto vi vogliamo bene preferiamo che certi discorsi ve li tenete per voi, ok? - disse con un'espressione alquanto supplicante ma anche abbastanza comica.

- Dobbiamo difendere la nostra mascolinità - borbottò Ash.

- Non ora, non vogliamo sapere certi dettagli - aggiunse Beth.

- Non fate le modeste ora, nessuna di voi è una verginella - ridacchiò Mike.

- Sono affari vostri le vostre misure - dissi alzando gli occhi al cielo.

- Tu dovresti sapere quelle di Luke dopo ieri sera, no? - ridacchiò Cal rivolgendosi a me.

- Calum tu scherzi con il fuoco - mi avvicinai - Stamattina ti ho risparmiato una coltellata, ma ora niente mi ferma dal buttarti giù da questo tavolino o impiccarti con quel coso che hai addosso - mi finsi arrabbiata anche se sotto sotto stavo trattenendo le risate.

- Noiosa - borbottò mentre scese dal tavolo e rimise il boa dove lo aveva trovato.

- Ecco, bravo, ed ora rimettetevi al lavoro - ridacchiai.

Il tempo passò in fretta e in poco tempo, mentre la radio continuava a cambiare canzone una dopo l'altra, avevamo liberato gran parte delle pareti principali del garage. Trovammo un sacco di cose. Alcune di esse appartenevano anche ad Ash quando era piccolo. Sembrava fossero passati secoli, invece erano solo diciotto anni. Era strano come il tempo delle volte ti ingannava, come ti faceva credere che le cose sarebbero durate per sempre e non sarebbero cambiate mai. Un crudele gioco che ti ricordava che anche tu eri solo una piccola ombra di passaggio su questa Terra. Ritrovammo la sua vecchia bici di quando aveva più o meno sei anni e che Luke aveva rotto dopo essere andato a sbattere contro il palo della luce alla fine dell'isolato, la foto di quando andammo tutti assieme in gita a New York con la classe del primo liceo e talmente tante altre cose che non sarebbe bastata una sera intera per rivangare tutto. Sorrisi leggermente quando tirai fuori dalla scatola una foto di Ash con in braccio la sorellina Lauren appena nata e gliela porsi, lui l'afferrò e la guardò con estrema malinconia. Nemmeno Ash aveva ricordi felici della sua infanzia, ma di una cosa ero più che sicura: amava la sua famiglia davvero tanto. Chiudemmo lo scatolone e lo mettemmo da parte. Continuammo a spostare scatoloni, gettare cianfrusaglie e togliere scaffali man mano che liberavamo i ripiani dove erano precedentemente riposti. Il tempo passò così, tra una canzone cantata, una ballata, una addirittura urlata perché la amavamo particolarmente, ma soprattutto tra tante risate. Tanti altri piccoli momenti da aggiungere alla moltitudine di ricordi che erano il nostro bagaglio. Trovammo perfino le parrucche di quattro anni fa e, naturalmente, non potemmo evitare di mettercele e comportarci come la massa di idioti che eravamo. Io e Cal ci eravamo anche litigati quella blu elettrico, ma alla fine, ovviamente, vinsi io quando, per l'ennesima volta, lo minacciai di morte. Lui sorrise, uno di quei sorrisi veri e puri che il suo spirito schivo e misterioso gli faceva tirar fuori non tanto spesso quanto avrei voluto. Calum era un ragazzo davvero particolare. Non parlava quasi mai di se stesso e raramente sorrideva quando non era con noi e per questo molto spesso veniva scambiato per uno stronzo ed il combina guai di turno. A scuola in molti lo evitavano per paura delle voci che avevano messo in giro su di lui alcune sue vecchie conoscenze. Odiavamo quel posto e pensare che tra meno di un mese ci saremmo dovuti tornare ci faceva sentire ancor più in trappola. Quando fuori si fece buio ci accorgemmo che avevamo finalmente finito di sistemare tutto. Le cose da portare in soffitta erano state messe in un angolo e quello che avevamo potuto tenere era stato sistemato. Nell'angolo in fondo a destra avevamo tenuto un paio di scaffali, il tavolino traballante era stato riparato da Luke e messo accanto al muro di sinistra in attesa di essere completato da qualche sedia e il piccolo divano che avevamo trovato in un angolo fu sistemato nel mezzo. Non era molto per ora, ma presto sarebbe diventato il nostro rifugio, un pezzo di noi:

- Beh - disse Beth poggiando le mani sui fianchi e guardandosi attorno - Direi che abbiamo finito -

- Finalmente - Mike si asciugò la fronte - Sembrava che quei scatoloni non finissero mai -

- Già - ridacchiai.

- Ehm, ragazzi? - ci richiamò Cal mettendo su un tono terrorizzato - Vedete quello che vedo io? -

- Cosa vedi Hood? - ridacchiò Joy - La stanchezza e la fame ti hanno fatto venire le visioni? -

- Lo spero, perché lì vedo un altro scatolone - esclamò fingendo di sentirsi male.

- Si, purtroppo lo vediamo anche noi - sbuffò Kayla

Luke si avvicinò prendendolo da sotto lo scaffale dove era nascosto e lo posò sul tavolino, quando lo aprì aggrottò le sopracciglia e cercò di trattenere una risata guardando al suo interno:

- Cosa c'è lì dentro di tanto divertente? - domandò Mike leggermente confuso mentre si avvicinava allo scatolone sospetto.

- Non ho la più pallida idea di cosa possa essere - Luke scoppiò a ridere ed una volta che Mike vide di cosa si trattava guardò l'amico e si unì alla sua risata lasciando tutti noi abbastanza perplessi al riguardo.

- Possiamo ridere anche noi o no? - domandai alzando un sopracciglio.

Luke annuì e tirò fuori un enorme massa informe rossa e blu che, a primo impatto sembrava un enorme sacco colorato, ma non appena fu per intero fuori dal suo contenitore lo riconobbi come una specie di costume da supereroe con tanto di imbottitura in gommapiuma che creava l'effetto dei muscoli. Scoppiammo tutti a ridere soprattutto notando che Ash era leggermente arrossito:

- Vuoi darci una spiegazione Irwin? - disse Cal ancora tra le risate mentre indicava il costume.

- Non ho nulla da dire - borbottò distogliendo lo sguardo.

- No, sinceramente, di cosa te ne fai di questo? - continuò a Mike non riuscendo a trattenere le risate.

- Ti prego, dicci che non è tuo - Beth scoppiò a ridere non riuscendo a mantenersi seria.

- Infatti non lo è - bofonchiò mentre guardò Luke e Mike che continuavano a tenere in mano quel buffo costume.

- Sicuro? - ridacchiò Kayla e lui annuì lanciandole uno sguardo veloce.

- Peccato che sopra lo scatolone ci sia scritto il tuo nome a caratteri cubitali - disse Luke con la sua solita espressione da furbetto e girando lo scatolone mostrando il nome di Ash. Scoppiammo tutti in una sonora risata ed il povero batterista arrossì ancora di più, ma sapevamo che stava cercando di trattenersi anche lui dal ridere.

- Oh mio Dio! - esclamò Joy all'improvviso mettendosi una mano sulla bocca per soffocare la risata che le fece uscire qualche lacrima.

- Cosa c'è? - le chiese Mike con un sorriso perplesso.

- Ho capito da dove viene quel costume - rise ancora.

- Ah, si? - balbettò Ash che sembrava diventare sempre più rosso.

- Oh si Irwin, sei fottuto ora -

- Bene, ti dispiacerebbe illuminarci? - rise Cal.

- No, ti prego no! - Ashton alzò gli occhi al cielo e si lasciò andare ad un verso di esasperazione.

- Perdonami Ash, tanto so che mi amerai comunque anche dopo che l'avrò detto -

- Non ne sarei così sicura - borbottò incrociando le braccia al petto.

- Sopravvivrò - fece spallucce.

- Su forza, dicci - la incitò Beth con sguardo curioso.

- Vi ricordate quando in primo liceo ci beccarono a fumare sul tetto della scuola? - annuimmo con un leggero sorriso sul volto al ricordo- Il preside disse che lo avrebbe riferito ai nostri genitori - annuimmo nuovamente - Mi ricordo che quella settimana era il compleanno del cuginetto di Ash e mi ricordo anche che la madre gli aveva chiesto di animare la festa, mostrandogli quel costume lì - lo indicò - Ma tu caro Irwin ha detto, testuali parole ,"Neanche morto" ma a giudicare dalla presenza del tuo nome sullo scatolone intuisco che non hai avuto scelta - terminò con una risata.

- Lasciamo perdere, ti prego, è stato traumatizzante - scosse la testa - Quelli non erano bambini, ma dei piccoli diavoletti -

- Oh povero Irwin - disse Beth con fare retorico arruffandogli i capelli già mossi.

- Mi hanno assalito, letteralmente! - esclamò cercando di difendersi.

- Si, si come no - rise Luke.

- Cosa dobbiamo farci allora? - domandò Cal alzando un sopracciglio.

- Potete anche incenerirlo per me - ridacchiò Ash.

- No, teniamolo dai, dopotutto è una parte di te, un tuo ricordo - sorrise Kayla; Ash la guardò per qualche istante, poi si aprì anche lui in un sorriso ed annuì.

Riponemmo il costume nello scatolone e lo chiudemmo nuovamente. I ragazzi erano tutti affamati dopo una faticaccia simile, così Joy e Beth passarono in pizzeria e Luke, Cal ed Ash al bar di Bryan per prendere le birre. Rimanemmo sole io e Kayla. Era seduta sul divanetto e si guardava attentamente le punte rovinate degli anfibi; sapevo che era persa in qualcuno dei suoi mille pensieri ma, a differenza delle altre volte, qualcosa mi diceva che non era nulla di buono. Sospirai e mi sedetti di peso vicino a lei, alzò la testa e mi guardò facendo un piccolo sorriso per poi tornare nella posizione di prima; mi avvicinai e le poggiai una mano sul ginocchio:

- Cos'hai tesoro? - le chiesi a voce bassa.

- Nulla - fece spallucce mentre si voltò nuovamente verso di me con quel sorrisino per nulla convincente.

- Kay, ti conosco troppo bene e so che mi stai dicendo una cazzata -

- Già - sospirò facendo una piccola smorfia e prendendo la mia mano per stringerla nella sua - Mi prometti che non ti arrabbierai? -

- Mi stai preoccupando seriamente -

- Credo di essermi innamorata -

Sbattei le palpebre un paio di volte e la osservai, sentii il peso sul petto diminuire ma, quasi automaticamente, ne comparve uno sul cuore che non mi spiegavo. Kayla si era innamorata e detta così poteva sembrare tutto fuorché una cattiva notizia, ma qualcosa in me mi spingeva ad aver paura di chi fosse questo ragazzo:

- Lui chi è? - domandai scrutandola e pregando che dalle sue labbra uscisse il nome di Ash.

- Promettimi che non mi farai una sfuriata, ti prego - disse nuovamente con più decisione rispetto a prima.

- Farò del mio meglio - sospirai.

- È Logan - disse in un sussurro.

Sgranai gli occhi a sentire quel nome. Di tutta Brooklyn, lei doveva innamorarsi proprio di uno della combriccola di teppisti di Alex. Scossi la testa e mi passai una mano tra i capelli, conoscevo fin troppo bene i ragazzi come lui e sapevo perfettamente a cosa ti avrebbero ridotta se non scappavi in tempo. Come potevo biasimarla dopotutto se anche io avevo fatto la stessa cosa lo scorso anno permettendo ad Alex di avvicinarsi a me? Non dovevo aprir bocca, anzi, non ne avevo affatto il diritto, ma ci tenevo davvero troppo a lei e la sua vita, detta in modo brutale, già faceva schifo di suo. Di certo uno come Logan non le serviva affatto:

- Kayla, ti prego, tiratene fuori finché sei in tempo - la supplicai.

- No Ross, so che sei preoccupata e lo apprezzo davvero molto, ma Logan non è come Alex - fece una pausa per poi riprendere - Lui mi tratta bene, mi ama -

- No Kay - scossi la testa - Anche Alex all'inizio era così! - mi alzai - Carino e tante parole dolci, tante promesse, tanti sogni - mi voltai e mi avvicinai a lei - E lo sai alla fine cosa è successo? Te lo ricordi? - annuì ed abbassò la testa.

- Lo so - sussurrò - Lo so che è pericoloso, che è uno stronzo, ma non mi importa - si alzò anche lei - Ora è quello di cui ho bisogno -

- Non hai bisogno di una persona come lui -alzai un po' la voce - Hai me, hai noi, hai Ash! - mi passai le mani nei capelli per la frustrazione - Tu non sai quanto tiene a te quel ragazzo, pensi gli farà piacere vederti ridotta nel modo in cui farà Logan? -

- È questo il punto - disse lei con un filo di voce - Non credi che sappia che Ash prova qualcosa per me? - mi guardò di sfuggita per poi rivolgere lo sguardo verso il muro bianco. In quel piccolo attimo notai l'amarezza che c'era nei suoi occhi e la paura, tanta paura e rassegnazione - Credi che non mi sia accorta come mi guarda quando mi crede distratta? - sospirò socchiudendo gli occhi - Lui non deve perdere tempo con una come me -

- Kayla... - sussurrai.

- Tu mi capisci Ross, lo sai cosa intendo - mi guardò - Ragazze come me e te non sono fatte per la luce, la rovineremo soltanto - terminò in un sussurro.

Mi avvicinai e la abbracciai. Capivo perfettamente cosa intendeva, anche troppo bene. Persone come noi avevano sempre paura di intaccare con la propria oscurità le persone luminose come Ash; per questo cadevamo sempre tra le braccia di ragazzi come Alex, Logan o, nel caso si mia madre, James. A loro non potevi rubar nulla, non potevi cambiarli in peggio, perché erano già peggiori di quanto io e Kayla potremmo mai essere. Oscurità che cerca altra oscurità. Buio su buio. La luce, quando si trattava di amare, ma amare sul serio, ci faceva paura e così ne stavamo il più lontano possibile. Dovevamo odiarci davvero tanto per punirci così. Continuavo a stringerla e prima di lasciarla andare le diedi un bacio sulla fronte:

- Ti voglio bene - le sussurrai mentre le sistemavo una ciocca ribelle.

- Anche io bellezza - sorrise e mi lasciò un bacio sulla guancia.

Poco dopo arrivarono gli altri con la pizza e le birre ed iniziammo a mangiare. Io, Kayla, Cal e Joy ci sedemmo sul divano, Mike e Beth sui braccioli ed Ash e Luke sullo schienale malandato. La radio ricominciò a suonare e noi mentre mangiavamo ci divertivamo ad indovinare le canzoni che passavano su quella stazione. Eravamo tutti molto stanchi, quindi non ci comportammo completamente da idioti come qualche ora fa, semplicemente eravamo seduti lì ad ascoltare quelle melodie e rilassarci. Nonostante avessi saputo ciò che frullava per la testa di Kayla non mi sentivo affatto sollevata, anzi, dovevo assolutamente trovare un modo per proteggerla e prendermi cura di lei senza opprimerla. Avevo paura di vedere in lei la me stessa di un anno fa, di vedere in Kayla come Alex mi aveva ridotto e come Logan farà con lei semplicemente perché lo divertiva. E lei se lo lasciava fare perché credeva di meritarlo. Quando Ash finì di mangiare la sua fetta di pizza si alzò e si diresse verso il cumulo di scatoloni che avrebbe dovuto spostare in soffitta, ma quando mi accorsi che stava per prendere quello in cui c'erano le sue cose di quando era piccolo all'improvviso mi venne un'idea:

- Non portarlo in soffitta quello -

- Perché? - domandò incuriosito.

- Ho avuto un'idea su come arredare questo posto - risposi stringendomi nelle spalle.

- Cosa è uscito da quella testolina? - ridacchiò Kayla mentre si poggiava allo schienale del divano.

- Portiamo qui dentro le nostre anime, i pezzi di noi - iniziai - I nostri ricordi passati e le cose che hanno un significato particolare per noi. Rendiamo questo garage non solo un posto qualunque in cui far musica e sparare cazzate, ma un pezzo di noi -

Sentii gli sguardi di tutti addosso e notai i sorrisi che man mano apparvero sui loro volti e gli sguardi incuriositi; Luke, che era seduto dietro di me, mi scompigliò i capelli sussurrando:

- Bella idea piccola -

- Sicuri? -

- Si - annuì Ash - Mi piace davvero -

- Potremmo tappezzare uno dei muri con le nostre foto, ne abbiamo tantissime - suggerì Beth entusiasta.

- Esatto - sorrise Mike - Potremmo fare anche una specie di murales, o inventarci un logo per la band e disegnarlo sul muro -

- Perché non usarlo come fabbrica di sogni? - suggerì Luke.

- Spiegati meglio amico - lo incitò Cal.

- Beh - iniziò lui arrossendo leggermente - È molto spazioso, potremmo adibirlo a più che quartier generale delle prove per la band - scese dallo schienale e mi fece cennò di alzarmi per poi mettermi in braccio a lui; poi continuò - Si può adibire a studio fotografico per Ross - mi guardò di sfuggita e mi sorrise - I muri possono diventare la tela di Kayla, il tavolo lo scrittoio di Beth e si, nuovamente di Ross perché è così testarda da averne due di sogni - mi strappò un sorriso - E per finire una tela bianca, una possibilità per Joy che ancora deve capire la sua strada - le sorrise e lei ricambiò - Allora, che ne dite? - disse infine ancor più rosso sentendo gli sguardi di tutti su di lui.

Mi scambiai un'occhiata fugace con gli altri e notai sui loro volti la mia stessa espressione:

- Diciamo che sei un fottuto genio Luke Robert Hemmings - dissi lasciandogli un bacio sulla fronte ed abbracciandolo.

Iniziarono a venirci idee su idee e mentre loro si elettrizzavano sempre di più all'idea, io sorrisi tra me e me e li ascoltai in silenzio. Da oggi iniziava ufficialmente una nuova pagina del nostro diario, oggi avevamo creato un punto di riferimento solo nostro diverso dal bar, gli attracchi o lo skate park. Oggi avevamo costruito qualcosa di ancor più profondo: una casa. Queste quattro mura sbiadite sarebbero diventate il rifugio dei nostri cuori solitari, le barriere che avrebbero difeso le nostre anime, che avrebbero racchiuso i nostri ricordi, che avrebbero racchiuso noi. Questo garage era diventato l'inizio ufficiale dei nostri sogni. Era il nostro riscatto contro il mondo, contro Brooklyn, contro le nostre vite schifose, ma soprattutto contro noi stessi. All'una del mattino Ash chiuse a chiave il garage e ci salutammo tornando ognuno a casa propria. Io e Kayla andammo assieme, ma non parlammo, non ce n'era bisogno. Solo una volta giunte davanti la porta di casa mia lei mi fermò con una semplice domanda:

- Mi resterai accanto vero? -

- Sempre tesoro - feci un piccolo sorriso che lei ricambiò.

- Grazie -

- Non devi ringraziarmi - scossi la testa e facendole una carezza sulla guancia.

- So che mi sto cacciando in un guaio, ma - la interruppi.

- Ti proteggerò io, tranquilla -

- Come? - aggrottò le sopracciglia perplessa.

- Lascia fare a me -

Annuì semplicemente con ancora quell'espressione sul volto e dopo averle rivolto un altro piccolo sorriso entrai in casa e mi chiusi la porta alle spalle. Avrei sempre protetto i miei amici ed ora toccava a Kayla. Sapevo quale sarebbe stato il prezzo da pagare e soprattutto sapevo a cosa stavo andando incontro; salii in camera chiudendomi a chiave nella stanza poggiandomi poi allo stipite della porta. Scivolai giù fino a terra passandomi una mano nei capelli. Era vero, con il passato non si chiudeva mai ed ora stavo per riaprire una porta che, un anno fa, pensavo di aver chiuso definitivamente.

 

 

SPAZIO AUTRICE

Chiedo umilmente perdono per la lunga assenza, ma purtroppo ho avuto per un bel pò un blocco ed ogni cosa che scrivevo mi sembrava insensata. Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che mi farete sapere cosa ne pensate e se avete già idee su cosa succederà in seguito. Ringrazio chiunque legga e recensisca la storia, prometto che ci vedremo presto con un nuovo capitolo.
un bacio

GiuliaStark

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