Rain of Guilt

di AlexisRendell
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Keep Yourself Alive ***
Capitolo 2: *** Awe of She ***
Capitolo 3: *** Faith Shall Save Thee ***
Capitolo 4: *** Holy Orders ***



Capitolo 1
*** Keep Yourself Alive ***


𝓒𝔥𝔞𝔭𝔱𝔢𝔯 𝔒𝔫𝔢: 𝔎𝔢𝔢𝔭 𝔜𝔬𝔲𝔯𝔰𝔢𝔩𝔣 𝔄𝔩𝔦𝔳𝔢.


Non si poteva dire che lui fosse un tipo religioso, o che credesse in dio, ma quel giorno qualche dio di sorta sembrava averlo preso particolarmente in simpatia.
Due cervi. Giovani maschi probabilmente troppo poco furbi per rendersi conto che avvicinarsi al confine della riserva era un suicidio…
Un po’ come lui.
Sapeva benissimo che sconfinare dalle terre libere ed addentrarsi nel territorio dei Nobili, per cacciare di frodo, gli sarebbe costato la testa… ma la fame, spesso e volentieri, sa essere più forte della prudenza.
 
Sollevò lo sguardo dalla tenera carne impregnata di liquido purpureo, ignorando lo stomaco che reclamava a gran voce parte del cacciato.
Non ora, e non li. L’odore del sangue e delle prede appena uccise avrebbe potuto attirare ospiti indesiderati, e nonostante una parte di lui gli sussurrava suadente che avrebbe potuto nutrirsene lui, li in quel bosco… la sua coscienza lo manteneva lucido sul suo obiettivo.
Doveva rientrare.
Afferrò i due animali per le lunghe corna, cominciando a trascinarli lungo il sottobosco. Erano troppo ingombranti per trasportarli a spalla, e farli a pezzi li era troppo rischioso.
Tuttavia… la striscia di sangue che il cacciatore lasciava dietro di sé era fin troppo chiara.
 
Se ne accorse che era già troppo tardi.
Inebriato dal profumo metallico che risvegliava in lui desideri primordiali, e stordito dalla fame, si bloccò in mezzo alle fronde, ascoltandone l’ondeggiante suono.

‘Non ora….’ Pensò. ‘Per favore.’

Era andato tutto fin troppo bene.
Lasciò cadere il frutto della sua caccia, portando  una mano alla particolare spada che portava sulla schiena, sguainandola appena in tempo ed illuminandola di innumerevoli lingue di fuoco, che strinarono il pelo della creatura,  costringendola ad allontanarsi per studiare meglio l’avversario. Non era un boccone facile quanto pensava.
 
“Oh, andiamo. Non dirmi che sei qui da solo.”
 
Il cacciatore chiuse gli occhi. La bestia ringhiò, ed a quel gutturale suono ne seguirono parecchi altri.
 Due… quattro…. Sei. Sei Gear, classe piccola. I bastardi si muovono sempre in branchi per cacciare…
Non poteva biasimarli, la fame colpiva anche quegli esseri ripugnanti.
Ma non si sarebbero mangiati lui, né le sue prede.
Ringhiò con loro, gli occhi color del sole che bramavano la battaglia.
 
 
Lo chiamavano Sol. Nessuno sapeva chi fosse, o da dove arrivasse, né quale fosse il suo vero nome.
Anche sulla sua età circolavano varie leggende…
Così ad occhio e croce non ne mostrava più di venticinque. Ventisette al massimo.
Ma c’era chi, fra gli emarginati, sosteneva che fosse sempre stato li. Eterno, silenzioso, immutabile.
L’unico fra i reietti a saper utilizzare la magia.
Stava sempre in disparte, parlava poco. Non cercava compagnia, ma c’era sempre quando si aveva bisogno di lui.
Per questo gli avevano conferito quel nome. Come il Sole che illumina il giorno, lui era la loro guida. La loro luce nella disperazione di quella vita che pareva non avere senso, destinata solo ad una fine per mano degli stenti. Come il Sole che viaggia silenzioso oltre le nubi, Sol era sempre li, giorno dopo giorno.
Non dispensava parole di conforto, né cercava di sollevare il morale. Ma era sempre lui che, a fine giornata, portava il fuoco, o divideva con loro i frutti della magra caccia.
Era l’unico che fosse mai entrato nella foresta, uscendone indenne. Sembrava non conoscere la paura, spesso e volentieri lo vedevano camminare trascinando la testa di qualche Gear, per consegnarla ai nobili e ritirare la ricompensa. Una ricompensa che non si era mai tenuto per sé, nonostante tutto.
 
Nessuno sapeva chi fosse, o perché lo facesse. Era uno di loro, e per loro lottava incessantemente…
Anche i più curiosi, alla fine, avevano smesso di fare domande, limitandosi a mostrare la loro gratitudine a quella figura avvolta nel mistero, ma che era al loro fianco da anni.
 
 

I denti della bestia si chiusero sul piatto della spada, ritraendosi con un guaito di dolore quando questa si fece incandescente.  Non abbastanza in fretta per evitare un pugno in pieno muso, che la mandò a ruzzolare con svariate zanne spezzate pochi metri più avanti.
Si rialzò subito, solo per ritrovarsi circondata da lingue di fuoco, che lentamente la bruciarono fra strazianti versi di dolore.
Non perse tempo a prestare attenzione a quella, che andò presto ad unirsi alle altre due che aveva fatto fuori. Le altre sembravano aver capito l’antifona, ed indietreggiarono nel bosco, prima di darsela a gambe levate.
 
Con ancora il braccio avvolto dalle fiamme, rimase immobile ad osservare il punto dove gli occhi sanguigni delle bestie erano scomparsi, per assicurarsi che non sarebbero tornate.
Era stato troppo facile…
Troppo. On erano solite arrendersi così facilmente, a meno che-
Si voltò di scatto, tornando al punto dove aveva lasciato i due cervi, solo per ritrovarsene uno solo.
I bastardi erano riusciti a distrarlo, procurarsi la cena e scappare.

Maledizione…’

Un solo cervo non sarebbe bastato nemmeno a sfamare metà della gente.. ma era pur sempre meglio di nulla.
Caricò in spalla l’ungulato rimasto, fermandosi ad osservare per qualche secondo i corpi delle bestie intorno a lui.
Avrebbe dovuto bruciarli, ma forse poteva ricavarci qualcosa. Non era comune trovare Gears con la pelliccia, e non semplici rettili…
 
Rientrò al villaggio, se così si poteva definire quella desolata landa di detriti e scheletri di edifici crollati, con un cervo sulla spalla e trascinando le carcasse di due delle tre bestie uccise.
Una l’aveva già carbonizzata sul posto.. non aveva potuto recuperare nulla.
 
Portò  i due corpi da un uomo. Come chiunque, in quel posto, era stanco, magro, ingrigito dal peso di quell’esistenza.
Ma quando vide Sol, puntò su di lui uno sguardo vivo, ricolmo di domande e dubbi.

“Avevi detto che questi affari non possono essere mangiati.”

“Infatti è così. Ma l’inverno è freddo, e per quanto la loro pelliccia sembri ispida, è sufficientemente calda.”

Solo in quel momento l’uomo si rese conto di quale valore davvero avessero quei due corpi sanguinolenti. Conciarne la pelle e bruciare il resto. Il cacciatore aveva sempre specificato che i resti dovevano essere bruciati, per evitare che le cellule finissero ingerite da altri animali, infettandoli.

“Sol, io… non ho di che pagarti…”

“Non ho mai preteso pagamenti.”

Non voleva nulla in cambio. Quell’uomo aveva una famiglia, una moglie, dei figli ancora piccoli.
Non avrebbero superato l’inverno senza qualcosa con cui scaldarsi, ed oltre al fuoco, questo era il massimo che Sol poteva offrire loro.

“Riportami solo le loro zanne.”

Si avvolse nel logoro mantello e si allontanò, evitando gli sguardi pieni di gratitudine di quell’uomo, del quale mai si era preso la briga di conoscere il nome.
 
Quegli sguardi non facevano altro che far accrescere il senso di colpa che si annidava nel suo petto, divorandolo  passo dopo passo.
 
 
 
 
 
 Accese il fuoco che il sole era appena tramontato.
Ogni volta che l’astro calava, era lui a dover illuminare e scaldare quella povera gente.
Stavano quasi tutti vicini, uniti a piccoli gruppi, preparandosi  ad affrontare il gelo, e pazientemente Sol accendeva i vari fuochi. In molti avevano chiesto dove avesse imparato a manipolare quell’elemento, ma non avevano ottenuto risposta, se non un eloquente invito a tapparsi la bocca, silenziosamente proferito dagli occhi da rettile del cacciatore.
Altri misteri.. che alimentavano altrettante dicerie sul suo conto. Non ne aveva mai smentita nessuna, e nemmeno sembrava interessato ad esse.
 
Divise la carne del cervo in piccole parti, cercando di fare economia affinché tutti potessero averne.
Ma le bocche da sfamare erano sempre troppe, e la fame ancora di più.
Come molte altre volte, rinunciò alla sua parte, riservando però un pezzo della carne, più grosso degli altri, per una persona in particolare.
Erano abituati a quei gesti.. nessuno fece domande, e lui ringraziò mentalmente per quel silenzio.
 
Per ultimo, si avviò verso quella che, un tempo, poteva essere stata una piccola e graziosa casetta, magari appartenuta ad una giovane coppia appena sposata. Tracce di vernice gialla ancora si potevano intravedere fra i pochi mattoni che non erano crollati, e che sostenevano a malapena un rozzo tetto di assi di legno marcito dalla pioggia e dal freddo.
Sotto di esso, una figura minuta sembrava quasi attenderlo. Avvolta in uno spesso cappuccio nero, ed un mantello dello steso colore che le copriva il corpo, una voce femminile lo accolse con una frase ormai familiare. Poco più matura della voce di una bambina.

“E tu, non ne mangi?”

La ragazza sollevò lo sguardo sulla parte di carne che Sol le stava offrendo, accennando un sorriso quando lo vide andare a sedersi in un angolo dopo che lei ebbe accettato il pasto.

“Non puoi continuare così… Quanto tempo è che non mangi?”

“Non ha importanza.”

“Sol… E’ più di una settimana che non ti vedo toccare cibo.”

Non ebbe altre risposte. Il cacciatore si era messo ad ammucchiare rami di legna secca vicino a lei, per accendere l’ultimo fuoco della giornata.
Lei mangiò in silenzio. Era una battaglia persa in principio, la testardaggine di quell’uomo le era ormai nota.

“Questo non è cervo selvatico. E’ allevato.”

Ancora nulla. Sol fece apparire un piccolo globo di fiamme fra le sue mani, per poi posarle sulla legna, attendendo che questa cominciasse ad ardere. Dopo poco, il fuoco circondò le sue braccia, senza ferirlo.

“Sei andato di nuovo nel loro territorio, ver-“

“Ed anche se fosse?”

Questa volta, la voce di lui mostrava una nota di rabbia repressa a stento, nonostante fosse sempre controllato. La ragazza alzò lo sguardo in quello di lui, e parte del cappuccio scivolò indietro sul capo, mostrando i lunghi capelli blu e scoprendo quegli occhi che l’avevano portata ad essere la ‘protetta’ del cacciatore. Occhi inconfondibili, un segno che la avrebbe obbligata a rimanere sempre nascosta dietro lo spesso cappuccio, e che solo Sol poteva dire di aver davvero ammirato, nella loro inquietante bellezza.

“Lo sai che… che non possiamo spingerci così oltre.”

“E tu sai benissimo che quei fottuti bastardi si prendono tutto.  Non c’è vita nella nostra parte di foresta, se non quegli esseri, Dizzy.”

Il sorriso che lei gli riservò questa volta fu amaro. Aveva ragione.  Lasciò cadere l’argomento.

“Sei sicuro che sia meglio cruda?”

Osservò il pezzo di carne fra le sue mani, scottato appena sulla fiamma, e Sol annuì.

“A voi piace così.”

Voi. La ragazza mangiò in silenzio, posando poi le mani sull’appena evidente rigonfiamento allo stomaco.
Calò la notte senza che nessuno dei due proferisse ulteriori parole. Sol badava al fuoco, e lei cercava di dormire, rannicchiata vicino alle pietre, tremante. Faceva dannatamente freddo.
Sol le gettò una rapida occhiata, lasciandosi sfuggire un sospiro mentre si toglieva il pesante mantello dalle spalle, per posarlo su quelle di lei. Per quanto macchiato e logoro fosse, faceva ancora il suo dovere. I tremiti della ragazza si affievolirono, per poi fermarsi del tutto.




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Capitolo 2
*** Awe of She ***


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“Avrei voluto avere più tempo.” La voce di Justice risuonò nella stanza, ma via via che le forze la abbandonavano, si affievoliva sempre più. “Parlare ancora… una volta. Tutti e tre insieme…”
Non per questo, risultava meno spaventosa. Forse era proprio il sentore della morte in quel timbro vocale distorto e metallico a farlo rabbrividire, a fargli capire la gravità di quello che aveva appena fatto.
“Frederick….”
 
 
Il mattino seguente, dopo aver dormito qualche ora appoggiato ad una delle pareti meno diroccate, Sol riaprì gli occhi, disturbato da una voce. 
“Non volevo- pensavo fossi sveglio.”
 
L’uomo a cui aveva regalato i due Gear. ‘Cosa cristo pensavi che stessi facendo, appoggiato ad una parete ad occhi chiusi?’ pensò, tentato di rivolgergli quella domanda con voce carica d’astio, ma non emise fiato. Detestava venire svegliato.
 
“Ti ho portato ciò che hai chiesto…”
 
Gli consegnò le zanne delle bestie, ripulite e lucide come avorio, avvolte in un pezzetto di stoffa. Si alzò e le accettò, andando a riporle in una delle bisacce che teneva appese alla cintura.
Ignorò poi l’uomo, allontanandosi per le strade polverose, godendosi la brezza fredda che scompigliava i lunghi capelli marroni ad ogni suo passo. Risentiva poco delle temperature, ma il vento.. quello era sempre piacevole, lo aiutava a schiarirsi le idee, così come ripuliva il cielo dalle nuvole grigie.
Era tempo di tornare in città. Magari avevano appeso qualche nuova taglia..Non poteva sempre rischiare la vita andando a caccia nel territorio dei nobili. Aveva rimandato troppo a lungo dopo l’ultima volta, ma aveva bisogno di soldi, ora.
 
 
Mentre rifletteva, la ragazza avvolta nel nero mantello lo raggiunse, camminando leggera nonostante gli spessi strati di stoffa nei quali era racchiusa.
 
“Mi accompagneresti alla fonte?”
 
La sua voce, in quel momento, sembrava più quella di una bambina che di una donna. Sol continuò a guardare dinanzi a sé, oltre le cime degli alberi, per poi spostare lo sguardo su di lei.
 
“Perché mai?”
 
“Vorrei farmi un bagno…”
 
L’uomo sospirò. Detestava l’acqua, e tutto ciò che la riguardava. Il solo pensiero di fare il bagno, per lui, era una vera tortura…
E per arrivare alla fonte da lei nominata si sarebbero dovuti bagnare parecchio.
Digrignò i denti, sbuffando irritato.
 
“E sia.”
 
Sapeva che se avesse rifiutato lei sarebbe andata da sola, ma nella condizione in cui era non se la sentiva di lasciarla andare.
Lei reagì con un risolino divertito.
 
Si incamminarono subito, lei allegra e solare, che saltellava di pietra in pietra, mentre costeggiavano il fiume, e lui stoico e impassibile come sempre. Solo un velato stupore sembrava farsi strada sul suo volto, nel guardare quella figura minuta e avvolta da quei vestiti che, di tanto in tanto, sembravano impedirle i movimenti. Dopo tutto quello che aveva passato, sembrava mantenere la sua allegria e la sua purezza, anche se questi particolari stati d’animo li mostrava a lui soltanto.
 
Come lui, anche lei sembrava essere avvolta nel mistero. Era con loro da poco, solo qualche settimana, ed ancora non era vista di buon occhio.
Ma Sol sembrava averla a cuore, quindi tutti la trattavano con gentilezza, nonostante nessuno 
conoscesse il suo vero aspetto.
Non toglieva mai il cappuccio, se non quando era alla fonte. Così lei chiamava un piccolo lago di acqua calda circondato da soffice erba e un paio di alberi, nascosto in mezzo alle rocce di una cascata. La cascata stessa era l’unico modo di accedere a quel piccolo angolo di natura incontaminata, che lei ragazza gli aveva fatto, involontariamente, conoscere.
 
 Aveva faticato parecchio per trovarla. Le tracce erano poche, si era dovuto basare su qualcosa che poche volte aveva dovuto utilizzare.. il suo olfatto.
E l’ultima traccia portava li, dietro a quella cascata, quindi si era tuffato. Era riemerso, bagnato fradicio ed incazzato, in una grotta interna, illuminata da una soffusa luce azzurra che proveniva dall’esterno, pronto ad estrarre Fuuenken e far fuori qualche pezzo di merda.
Ma non avrebbe mai alzato un dito su una creatura simile.
 
Una bambina nel corpo di un’adulta. Non aveva dubbi, non poteva sbagliarsi.
Quegli occhi color del rubino che infestavano i suoi incubi con la loro malvagità, ora si riversavano in lui in tutta la loro innocenza.
 
“C-chi sei?”
 
Aveva chiesto la piccola, spaurita, le braccia avvolte intorno alla pancia, forse per cercare un po’ di calore, o nel tentativo di proteggere quella vita che cresceva in lei contro la sua volontà.
Non era questo ciò che si aspettava. No.
 
Era un Commander, gli avevano detto. Un pericoloso Commander Gear, la progenie di Justice.
Ma in quel momento non era un Commander che vedeva dinanzi a sé, e la cosa lo atterriva, attanagliandogli lo stomaco in una morsa che lo stringeva.
Era una dannata bambina. non doveva avere più di otto anni, ma i Gear crescono in fretta. Il corpo era già quello di una ragazza matura e prosperosa.
Ma non era l’aspetto fisico a turbarlo. Era il fatto che quella ragazza, la figlia di Justice, per la quale gli avevano promesso una grossa somma in cambio della sua testa, lo stesse guardando con gli occhi di qualcuno che ha visto troppe cose, e che vuole solo la pace. Non vi era cattiveria in essi, e per la prima volta da quando aveva fatto voto di sterminare tutte quelle creature, Sol aveva esitato.
 
“V-vattene….”
 
In un vago tentativo di apparire una minaccia, aveva spalancato le ali eterocromatiche. L’una bianca come la neve, l’atra nera come la notte. Da entrambe erano spuntati dei volti, che a differenza della ragazzina, emanavano quell’aria di paura e minaccia tipica dei Gear.
 
Infisse Fuuenken a terra, per mostrare di non avere intenzioni ostili, ma quell’aver abbassato la guardia gli costò caro.
Una delle entità che possedevano le ali della ragazza sembrò avere il sopravvento sulla coscienza della stessa, e se la ritrovò addosso. Gli occhi lampeggiavano di un rosso ricolmo d’odio, e la figura di lei sembrava essersi distorta, incupita, ora avvolta nell’oscurità. Una reazione che conosceva bene ma che, fin’ora, non aveva mai potuto osservare se non su sé stesso.
Aveva dovuto ricorrere ad una parte di sé che faceva di tutto per reprimere per riuscire a contrastare la forza di quella creatura, e nonostante fosse restio a farle del male, alla fine riuscì a salvare la pelle e far perdere i sensi a lei, stremandola dopo una lunga battaglia.
 
Rimase a guardare quel corpo di nuovo innocente e pallido respirare debolmente sul bordo di un laghetto, formatosi all’interno della cascata, incerto sul da farsi. La bandana che portava in fronte gli era scivolata sul collo, dove poggiava mollemente in attesa di tornare ad adempiere al suo compito di limitatore, e nascondere il simbolo rosso sulla fronte del cacciatore.
Non era cattiva. Era solo spaventata.
 
Attese. La avvolse nel suo mantello ed attese il suo risveglio, finché gli occhi rubini della Gear non si posero nei suoi in una muta richiesta di aiuto.
E lui l’avrebbe aiutata.
 
“Come ti chiami?”
 
“D-Dizzy….”
 
“Raccontami tutto.”
 
La piccola tremò impercettibilmente, per poi afferrargli i vestiti con le dita e scoppiare in un pianto dirotto sul suo petto. Lo travolse con le sue parole come poco prima l’aveva travolto con la sua furia, e lui ascoltò.
Le ali sembravano di nuovo quiete, per ora.
 
La portò con sé al villaggio, avvolta nel mantello, suscitando un’ondata di curiosità. Sol, il sole freddo e solitario, che parte per uccidere i Gear e torna con una bambina.
Qualcuno aveva forse mormorato che fosse sua figlia, e nonostante lui avesse prontamente smentito quella diceria sostenendo che fosse solo ‘la figlia di una mia conoscente’, il dubbio serpeggia ancora.
E, anche se non lo ammetterà mai, il dubbio si era insinuato anche in lui.
Dopotutto, era la figlia di Justice…
 
 
Ci volle loro poco tempo per raggiungere la cascata. Anni di guerra, battaglie e incursioni da parte dei Gear non avessero reso il terreno in quella zona arido e sterile, nonostante l’acqua sgorgasse cristallina.
Non vi era erba intorno agli argini, solo secca terra dalle sfumature grigiastre e rocce. I pochi alberi alzavano i scheletrici rami verso il cielo, privi di vita.
Il ritratto stesso della desolazione, se non fosse stato per quel piccolo segreto custodito gelosamente dai due.
 
Le tracce della Gear non erano l’unica cosa che aveva attirato Sol verso quel posto, la prima volta. C’era stato altro.. qualcosa che non riusciva ancora a comprendere, ma lo chiamava verso quella cascata, verso ciò che nascondeva al suo interno.  Lo chiamava, ma al tempo stesso lo ripugnava, e gli faceva sentire ostile quel luogo.
 
“Dobbiamo proprio?”
 
Guardò la ragazza, che annuì con un dolce sorriso, non ricambiato, per poi tuffarsi. L’uomo alzò lo sguardo al cielo, guardando l’acqua richiudersi sopra Dizzy come se quel chiaro e limpido elemento gli avesse fatto un chissà quale torto personale, ma poi si buttò dietro di lei.
 
Lo scroscio della cascata risuonava quasi attutito, li sotto. Il cacciatore chiuse gli occhi, toccando il punto più basso del fondale per risentire in modo più lieve dell’impatto con la parete d’acqua, e si spinse in avanti.
Litri e litri d’acqua si riversarono sopra di lui, ma a malapena li sentì.  Riusciva reggere bene il peso dell’elemento che sembrava volerlo schiacciare per tenerlo lontano da quel luogo, ma poteva dirci di essere abituato, grazie a tutte le incursioni a cui Dizzy lo obbligava.
 
La cosa a cui non era mai riuscito ad abituarsi, era proprio l’acqua stessa. Era un maestro del fuoco, e nonostante il liquido non gli facesse fisicamente del male, si sentiva sempre asfissiato, non solo per la mancanza d’ossigeno.
Si sentiva vulnerabile, scoperto. Senza il potere del fuoco, cosa lo distingueva da un normale essere umano?
 
Riemerse, finalmente, respirando a pieni polmoni l’umida aria della grotta, e posò le mani sulla roccia per issarsi su essa, ed abbandonare finalmente quel regno troppo bagnato per i suoi gusti con un grugnito di disapprovazione.
Dizzy lo aveva già preceduto, e si stava pettinando i lunghi capelli azzurri seduta su una roccia.
 
“Quante storie per un bagno.”
 
Come unica risposta ebbe un altro grugnito, che le strappò una risatina.
Abbandonati  i mantelli che la costringevano a nascondersi, spiegò le ali, finalmente libere di prendere un po’ d’aria, e si avviò scalza verso ciò che rendeva quella grotta così speciale.
 
Il piccolo lago non sembrava avere una sorgente. Non vi era luce solare diretta che poteva aver consentito la crescita della vegetazione, se non la poca che filtrava dall’acqua, appena sufficiente a rischiarare l’ambiente e colorarlo di innaturali riflessi azzurri. Era ovvio che quel luogo fosse stato creato dalla magia, ma a quale scopo? E da chi?
Quella visione riusciva a turbarlo ogni volta, ma nonostante tutto, una strana sensazione di appartenenza gli riscaldava il petto, facendolo sentire a casa. Ma non era una sensazione piacevole.
Un po’ come la voce dentro di lui che gli sussurrava invitante di lasciar perdere tutto, di smetterla di darsi da fare ed accettare la sua vera natura. Allettante, si…
Ma spiacevole. C’era qualcosa di tremendamente sbagliato in quel luogo.
 
Il suo turbamento sembrava estraneo a Dizzy. Lei non si chiedeva perché quel posto esistesse, o chi lo avesse creato. Con la mente semplice dei bambini, le importava soltanto che il suo piccolo segreto fosse li ad aspettarla ogni volta che aveva bisogno di sentirsi purificata.
 
Posò i piedi nell’acqua tiepida, sempre della temperatura ideale, non troppo calda, non troppo fredda. Sembrava quasi adattarsi al corpo della giovane Gear, come fosse stata li solo per compiacere lei.
 
“Vuoi unirti a me?”
 
Unica risposta, il rumore delle fiamme che divampavano allegre, per poi scomparire.
Sol si era sciugato nell’unica maniera in cui sapeva asciugarsi.
Dandosi fuoco.
 
“Non ci contare.”
 
Un'altra risatina, quella di lei, che risuonò fra le rocce come un tintinnio di argentee campanelle.
Lasciò Sol ai suoi borbottii sul ‘fare troppa strada’ e soprattutto sul ‘bagnarsi troppo’ per giungere in quel luogo, liberandosi dei pochi indumenti che indossava per poter immergere tutto il corpo nell’acqua scura.
Ci era venuta spesso, dopo ciò che era successo. Era l’unico posto che la faceva sentire nuovamente pura, pulita, ma soprattutto, che riusciva a calmare la paura che la attanagliava quando ripensava a quel giorno.
 
Si immerse fino a sentire l’acqua lambirle le labbra, e chiuse gli occhi, abbandonandosi alla tranquilla pace, interrotta solo dalle imprecazioni solitarie di Sol, che aveva avuto la brutta idea di sciogliersi i capelli e cercare di pettinarli.
 
 
Una cascata di capelli dorati, e due occhi azzurri che sembravano riflettere l’essenza stessa del cielo.
Il volto di un ragazzo, i lineamenti  poco chiari che non bastavano a mascherare la sua bellezza.
E poi lei, urlante, qualcosa che la bloccava, e le lacrime, il dolore.
 
“Un Commander, un Commander!” ripeteva una voce, ridendo. Una risata che non scorderà mai. “E tu te la stai fott-“
 
Sussultò, riaprendo gli occhi. Non doveva ricordare. Doveva dimenticare. Voleva dimenticare…
Si strinse istintivamente fra le braccia rabbrividendo nonostante il calore dell’acqua sembrasse essere aumentato.
Gli unici rumori, ora, erano lo scroscio della cascata e il gentile muoversi delle acque della fonte.
Nemmeno le tiepide acque, questa volta, riuscivano ad allontanare i fantasmi di quel giorno.
 
“Sol…” mormorò. “Sol…?”
 
Per un attimo, temette di essere rimasta sola.
La paura la attanagliò, assurdamente insensata. Sapeva di essere al sicuro, ma non riusciva a dominare il terrore. I ricordi si sovrapposero alla realtà, mischiandosi in essa, e provò dolore, sentiva le risate cattive di quei ragazzi, le loro mani che le stringevano le ali, le tiravano i capelli.
Urlò, mentre  le candide piume di Undine, l’ala chiara, l’avvolgevano in un abbraccio, per proteggerla.
 
“Ragazzina.”
 
Una mano calda le si posò sulla spalla, e la paura lentamente svanì.  Smise di urlare, voltandosi per affondare il viso sul petto dell’uomo, come settimane prima aveva fatto, affidandosi a lui.
 
“E’ tornato… E’ tornato! Vuole-“
 
“Ci sono solo io qui. Calmati.”
 
Afferrò il mantello, coprendo il corpo della ragazza, per tenerla al caldo e coprirne le forme, dopo che l’ebbe estratta dall’acqua.
Lei gli si strinse fra le braccia, cercando di calmare i battiti del cuore, che per la paura sembrava voler schizzarle fuori dal petto fuggire da qualche parte, per nascondersi.
 
Non era la prima volta che accadeva, e Sol non poteva biasimarla.
Quel trauma non sarebbe passato presto.
 
“Torniamo indietro.”

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Capitolo 3
*** Faith Shall Save Thee ***


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Nonostante la lezione fosse ormai una storiella trita e ritrita, il giovane rampollo della casata Kiske ascoltava con attenzione le parole del suo anziano maestro, prendendo appunti su un foglio in un’elegante ed elaborata grafia.
Amava quelle vecchie storie, che raccontavano di una civiltà esistita appena duecento anni prima di loro.
Erano rimaste poche documentazioni, spesso vaghe e contraddittorie, su ciò che aveva portato la loro società ad evolversi grazie alla magia, ma la sua sete di conoscenza lo portava a bramare informazioni.
 
Mentre scriveva, qualcosa lo colpì in testa, dolorosamente. Si massaggiò la zona colpita con un flebile gemito, lanciando una distratta occhiata verso la finestra, aperta.
Dovette abbassarsi appena in tempo per evitare un secondo sasso, lanciato da qualcuno con precisione, che andò a centrare in pieno l’anziano maestro, avvicinatosi anch’esso alla finestra per scoprire l’origine del baccano.
 
“Per Dio!” esclamò il vecchietto, barcollando sulle già precarie gambe, colpito in piena fronte. Ky dovette afferrarlo appena in tempo per non farlo finire a terra.
 
“Penso che per oggi basti così, Signorino Ky.  Quel rozzo selvaggio del vostro amico vi sta aspettando.”
 
“Provvederò io stesso a rimproverarlo per questo suo comportamento sconveniente.”
 
Mormorò il ragazzo, dispiaciuto, aiutando il maestro a sedersi su un’elegante poltroncina foderata in velluto, e dopo aver chiuso la finestra  per scongiurare ulteriori attacchi alla salute dell’anziano, si congedò con un elegante inchino.
 
Chiuse la porta della stanza alle sue spalle, avviandosi per il corridoio, illuminato dalle colorate vetrate che rendevano il castello dove abitava più simile ad una cattedrale che ad un castello. I lunghi capelli biondi racchiusi in un’alta coda di cavallo gli sfioravano con gentilezza le spalle, mentre da un piccolo guardaroba posto nel corridoio traeva il suo mantello da passeggio.
 
“State uscendo?”
 
Non fece in tempo a posare le dita sul velluto blu che il suo tutore fece la sua apparizione.
 
“Signorino.” La voce di Bernard aveva un tono dolce, nonostante lo stesse rimproverando. “Sapete benissimo che la vostra agenda è fitta d’impegni, per quest’oggi. “
 
“Ne sono conscio.” Rispose il giovane, chiudendosi la fibbia dorata dalla forma di una croce sul petto, e sistemandosi il mantello sulle spalle. “Come sono conscio del fatto che, se non vado subito a sapere cosa ha Leo di così importante da dirmi, vi saranno altre vittime dei suoi discutibili metodi di attirare la mia attenzione.”
Bernard sospirò. Sapeva perfettamente di cosa Ky stava parlando, e sapeva anche che quando questi aveva preso una decisione, era impossibile smuoverlo.
 
“Avete qualche ora libera, prima del thé.” Lo ammonì. “Il nostro ospite ha espresso il desiderio di incontrarvi personalmente, e temo che la compagnia di un vecchio cameriere non sarebbe altrettanto interessante.”
 
“Ti sottovaluti.” Sorrise il biondo. “Avresti sicuramente molte più cose da raccontare di quante non ne avrei io.”
 
“Temo che il Nobile Baldias non sarebbe d’accordo. Ed ora andate, prima che Lord Whitefang decida di buttare giù il portone per venire a reclamare la vostra pelle.” Il vecchio domestico, che Ky aveva preso a considerare più una figura paterna che un domestico, chinò il capo in segno di approvazione per quell’uscita non programmata, ed il sorriso di Ky si allargò. Gli occhi, che parevano aver strappato il loro azzurro al cielo estivo, si illuminavano ogni qualvolta sorrideva.
Ringraziò calorosamente Bernard, affrettando poi il passo verso l’uscita.
 
 
 

“Sei in ritardo, dannato Bambino.”
 
“Non è un ritardo, se l’appuntamento non era programmato.”
 
Leo Whitefang era l’unica persona che il giovane erede dei Kiske poteva dire di considerare un amico, nonostante fosse il suo esatto contrario.
Erano entrambi biondi e portavano i capelli lunghi, ma Ky era di statura minuta, magro, e dal viso gentile di un bambino costretto a crescere troppo in fretta, con un carattere pacato e dolce. Spesso, in molti si erano fatti beffe di lui chiedendo se i suoi genitori non avessero, magari, desiderato una femminuccia e l’avessero cresciuto come tale.
Alto, grosso e arrogante, Leo era stato forse uno dei primi a prenderlo in giro, fin da quando erano poco più che bambini. Ma nonostante le loro differenze ed i loro attriti, ora erano come fratelli.
 
“Potresti lasciar perdere una volta per tutte le tue stupide fesserie da verginella e venire con me a vedere cosa significa davvero essere un regnante.”
 
“Nessuno di noi due è un regnante.” Lo corresse il più giovane.
 
“A breve.” Sorrise l’altro, mostrando i canini affilati come zanne di una bestia. “A breve.”
 
Ky sospirò. Era un discordo che non aveva intenzione di assecondare.
Da quando il loro vecchio Re era morto, l’atteggiamento di Leo si era fatto più impaziente ed arrogante.
Con un posto da Re libero, erano molti i giovani rampolli delle famiglie nobili che si aspettavano di venire eletti come futuri regnanti della società.
Non Ky. A lui non interessava quel posto, nonostante fosse il favorito per quella carica. Era minuto, si, ma dotato di un’intelligenza straordinaria e un’attitudine al comando che a molti giovani mancavano, per non dire a tutti.
Compreso il rozzo energumeno impellicciato che aveva davanti. Era un valido combattente, e non si poteva dire che fosse uno stupido, ma non era ai livelli del minore.
Neanche con la spada era mai riuscito a batterlo, e la cosa gli bruciava.
 
“Posso ardire di chiedere il motivo per il quale hai interrotto le mie lezioni?”
 
“Certamente, Miss Kiske. Mi aggraderebbe la vostra presenza al mio fianco per un particolare evento.” Il ghigno di Leo si allargò, impregnando quella frase di sarcasmo.
Ky roteò gli occhi, pizzicandosi il naso con un tocco leggero della mano. Lo detestava quando faceva così.
 
“Che diavolo vuoi, Leo?”
 
“Per prima cosa, sarebbe davvero fantastico se tu la finissi con le tue frociate da principessina. Secondo, vieni. Dicono che il Cacciatore sia in città.”
 
“Intendi dire..” ignorò la prima parte della frase dell’amico. “Badguy?”
 
“Lui.” Leo decise che aveva pazientato abbastanza, ed impegnò la strada di mattoni bianchi che conduceva al centro della città. Aveva un’ossessione strana per quel tizio.
 
“Pensi che abbia portato qualche Gear?”
 
“C’è un solo modo per scoprirlo.” Il maggiore affrettò il passo, spazientito. “Muovi quel culetto da signorina che ti ritrovi.”
 
Ky avrebbe voluto davvero fargli notare che per sapere che aveva un ‘sedere femminile’ Leo glielo doveva aver guardato parecchio a lungo, ma preferì pizzicarsi una seconda volta il naso e seguirlo in silenzio verso il centro.
 
 
 
Dopo aver riportato Dizzy al villaggio ed essersi assicurato che stesse bene, Sol si era messo in cammino per andare in città.
Doveva attraversare tutta la foresta per raggiungerlo, e ad un comune essere umano quel semplice viaggio avrebbe portato via mezza giornata.
Non a lui. Era veloce, e non sembrava provare mai fatica.
In poco meno di un paio d’ore gli alberi avevano cominciato a diradarsi, mostrando il cielo plumbeo, e le alte mura che  circondavano  Illyria erano apparse ai suoi occhi.
 
Odiava quel posto. Come se non bastasse il dover attraversare l’intera foresta con il rischio di venire sbranati o perdersi, c’era un altro ulteriore pegno da pagare per riuscire ad entrare.
 
“Fermo.” Due guardie in armatura lo bloccarono prima che potesse anche solo avvicinarsi al portone d’ingresso. “Ti è vietato andare oltre. Conosci le regole.”
 
“Suppongo” rispose pacato Sol, abbassandosi il cappuccio sulle spalle per rivelare il suo aspetto alle due guardie. “Che per me potreste fare un’eccezione.”
Subito, quelle si ricomposero. Avevano avuto espliciti ordini dall’alto. Sol poteva entrare, se…  poteva permettersi il dazio d’entrata.
Nessuno poteva uscire od entrare da quelle porte senza versare un piccolo ‘contributo’.
Solitamente il mostrare i corpi dei Gear che ammazzava per i nobili bastava, ma questa volta non portava nulla con sé.
 
“Non ci pare che la tua caccia abbia dato i frutti sperati. A meno che i Gear non abbiano trovato il modo di diventare invisibili.”
 
 Una risata intrisa di scherno, ma Sol non si scompose. Non sprecava energie a litigare con degli idioti.
 
“Chi lo sa. Quelle dannate bestie hanno abilità che vanno oltre la vostra immaginazione. Potrebbero esserne in grado. Ed essere già fra di voi.”
 
L’espressione di una delle guardie mutò impercettibilmente, ma la paura che le aveva attraversato lo sguardo non era sfuggita al cacciatore. C’era tanta disinformazione su cosa realmente potessero fare quelle creature.. e troppa era la paura che circondava il loro nome.
Sol amava giocare su quel piccolo fattore.
 
“Temo non sia questo il caso.  Ho qualcosa di più fisico per pagare l’entrata nella vostra schifosa città.” Si ritrovò le lance puntate al collo.
 
“Attento a come parli, bastardo.”
 
Sol alzò le mani in segno di resa, con un mezzo sorrisetto sarcastico sul viso. Tirò poi fuori da una bisaccia due paia di zanne, consegnandole alle guardie. Avevano un valore ben superiore rispetto alla cifra richiesta per passare.
 
“Vi frutteranno più di un centinaio di World Dollars ciascuna. Mi sembra un’offerta ragionevole.”
 
Detestava abbassarsi a quei livelli… ma non poteva fare altro. Doveva entrare ad Illyria, o niente lavoro. E niente cibo per i suoi.
Lo sapeva perfettamente, come lo sapevano le due guardie. Avrebbe volentieri spaccato la faccia ad entrambe, ma ammansirle era l’unico modo di garantirsi il passaggio.
Le due lance si abbassarono.
 
“Per questa volta puoi andare.” Si scostarono per farlo passare, prendendo la loro ricompensa.  Senza più degnarle di uno sguardo, Sol oltrepassò l’arco di rocce che fungeva da entrata, e le pesanti porte di legno si chiusero dietro di lui.
 
 
La città era l’unica parte di quel mondo dove la gente riusciva ancora a vivere una vita serena. Non vi erano case, la ‘gente comune’ non era la benvenuta, li. I domestici e le varie persone  utili a tenere in piedi i castelli abitavano con i loro padroni.
Gli edifici ammassati l’uno vicino agli altri erano i castelli della nobiltà, un’inutile sfoggio di sfarzo gettato alla rinfusa in mezzo all’abbraccio di alte mura in pietra, che sembravano voler difendere la città dal decadimento all’infuori di essa.
Al centro di Illyria svettava un edificio diverso dagli altri. Nessun colore sgargiante, nessuno sfoggio d’eleganza inutile. Era interamente costruito in pietra scura, e veniva chiamato il Palazzo del Conclave.
Erano loro  i silenziosi ed invisibili burattinai che tiravano i fili di quella società marcia.
 
Le strade erano ben battute, costellate di mattoni candidi e tirati a lucido a tal da farli parere quasi di marmo o, nei casi delle strade non principali, di pietre ben levigate.
Su una di quelle camminava Sol, ignorando gli sguardi di fuoco che gli altezzosi abitanti di Illyria gli riservavano. Era una presenza scomoda per loro, con quel logoro mantello, i vestiti semplici e i lunghi capelli poco curati.
Ma dovevano tenerselo buono. Nessuno di quegli spaventapasseri imbellettati sarebbe riuscito a scalfire un singolo Gear. 
Avevano addestrato schiere di cavalieri a farlo, ma quei pochi che erano tornati avevano rinunciato.
 
Servivano i Gear per uccidere i Gear, dicevano.  E le alte sfere avevano silenziosamente accettato Sol come loro ‘spazzino’ personale, custodendo il suo segreto dietro le maschere ornate di numeri romani che portavano a celare il volto.
 
 
Si diresse verso uno degli edifici più bassi e semplici della città, quello che avrebbe dovuto fungere da caserma per un esercito. Ma quale esercito poteva servire, quando le uniche minacce erano  persone che a stento rimediavano qualcosa per mangiare, ed i Gear si tenevano ben lontani dalle mura, preferendo prede più facili?
Veniva utilizzato dal capo della polizia, incaricato di mantenere l’ordine interno. Nonostante l’apparente sfarzo della città, i disordini erano all’ordine del giorno.
Era li che Sol si dirigeva alla ricerca di nuove taglie, o per consegnare le prede non commissionate da spocchiosi signorotti che si prendevano la gloria delle sue fatiche.
 
Quando l’uomo in divisa vide entrare Sol, spostò i piedi dalla scrivania, attorcigliando su un dito i lunghi baffi e squadrandolo con un aria di superiorità che il cacciatore fece finta di non notare.
 
“La Ragazza della Foresta.” Quello era il nomignolo che avevano affibbiato a Dizzy, ignorando il vero nome della ragazza. “Non vedo la sua testa.”
 
Una luce carica d’odio attraversò gli occhi del cacciatore. Sapeva che tornare senza di lei avrebbe significato ‘missione fallita’ e niente compenso, ma per nessuna ragione al mondo l’avrebbe consegnata.
“Non è una preda facile quanto sembri. Le tracce portano lontano. Sono venuto in cerca di nuovo lavoro.”
 
“E’ un Commander Gear, deve avere la precedenza.”
 
“E’ abbastanza lontana da non costituire una minaccia, ed io non ho intenzione di abbandonare il mio territorio per le vostre stupide paure.”
 
“Non abbiamo interesse a servirci di un cacciatore incompetente. “
 
“Come io non ho interesse a tenere quegli affari lontani da questo posto.  Quindi fai ciò per cui sei stato pagato e dammi la lista, se non vuoi che io inizi a patteggiare  per il nemico e li attiri qui.”
 
Qualcosa che spesso aveva sognato di fare. Usarsi come esca per attrarre un gruppo di Gear, per poi lasciar loro la città da distruggere.
 
Il commissario smise di tormentarsi i baffi, frugando in un cassetto per estrarne un plico di fogli, e buttarlo sulla scrivania, affinché Sol se ne servisse.
Al suo interno, vari fascicoli, molti dei quali barrati da una ‘X’. I lavori già svolti.
 
Scartabellò impazientemente, soffermandosi per una frazione di secondo sulla foto di Dizzy, e sulla cifra esorbitante che promettevano in cambio. Ma voltò pagina.
 
“Hanno avvistato un Megadeath.”  Il commissario interruppe la sua lettura, posando una mano sui fascicoli.  “Classe Velenosa. Forse vorresti darci un’occhiata.”
 
Sol sollevò lo sguardo. “Quanto vale?”
 
Attese che l’uomo estrasse dal plico il foglio interessato, mostrandoglielo.  Ad occhio e croce si trattava di una bestia di quattro, forse cinque metri d’altezza. Aveva visto di peggio, ma era il veleno la parte scomoda.
 
“250 mila, se ce la porti entro una settimana. Viva.”
 
Inarcò un sopracciglio. Era una cifra esorbitante, ma… Viva? Per che diavolo gli serviva una simile bestia viva?
 
“A che vi serve?” Provò ad indagare.
 
“Il prezzo non copre informazioni extra.” Sorrise l’altro.
Sol digrignò i denti, ma prese il foglio, infilandoselo nella tasca interna della giacca.
Le sue dita sfiorarono i bordi sdruciti di una foto, e la accarezzò distrattamente, prima di avvolgersi nel mantello ed uscire.
Aveva bisogno di bere qualcosa.. qualcosa di forte.
Si diresse verso l’unico bar della città, mentre il sole cominciava a discendere.
 
 
 
 
“Leo.” Ky cercò di attirare l’attenzione dell’amico, faticando quasi a stare dietro alla sua falcata. “Si sta facendo tardi. Devo-“
 
“Taci, non sono nemmeno le cinque. Il sole non tramonterà ancora per parecchie ore.”
 
Entrambi lanciarono un’occhiata alla torre campanaria dell’orologio. Le quattro e trentacinque. Poteva attardarsi ancora una decina di minuti.
 
“Ce lo siamo perso, hai sentito il commissario. E’ passato da li poco prima che arrivassimo, e sai che se ne va subito.”
Un verso di stizza fuggì dalle labbra di Leo. Ci teneva a vedere di persona quelle bestiacce, che fra i più giovani erano quasi leggendarie. Quando i figli dei nobili prossimi a succedere ai proprio genitori si incontravano per svagarsi o discutere, spesso fantasticavano su chi di loro sarebbe mai riuscito ad ucciderne uno ed appendere la sua testa come trofeo.
Ogni volta, tutte le scommesse si riversavano su Leo, mentre Ky rimaneva in silenzio.
 
Aveva compiuto diciotto anni da poco, e presto sarebbe stato investito con il titolo nobiliare appartenuto ai suoi genitori, morti quando lui era ancora piccolo proprio a causa dei Gear. Odiava quelle creature e provava un forte desiderio di vendicare i genitori.. ma le sue mani non bramavano il loro sangue come quelle di Leo.
 
“Allora andiamo a bere qualcosa.”
 
Ky lo seguì senza discutere. Avrebbe voluto dirgli che aveva il thé a casa, da bere, ma gli avrebbe strappato solo una grassa risata e lo avrebbe costretto a bere con lui per mostrare che è un vero uomo.
E, dopo la volta del suo compleanno, aveva giurato che non si sarebbe più ubriacato, né toccato bevande alcoliche.
Ancora faticava a ricordare cosa fosse successo, durante quella serata...
 
Il bar era gremito di gente seduta ai tavoli. Donne con i loro figli che ciarlavano allegre, uomini che ridevano seduti al loro fianco tracannando boccali di birra, e qualche ragazza in età da marito che nel vedere entrare i due giovani trattenne il fiato, tirando i vestiti delle amiche per mostrare loro chi aveva appena messo piede nella locanda.
Leo ammiccò a loro, scatenando un’ondata di risolini e sorrisi, ma Ky non ci diede peso. Non provava interesse verso le femmine, né desideri carnali.
Era cresciuto credendo nel nome di un Dio che professava l’amore eterno, e aveva fatto voto di non interessarsi a qualcuna a meno che di amarla davvero, ed essere pronto a sposarla. Fino ad allora, non era ancora successo, nonostante Bernard e qualche domestico insistesse sul fatto che ormai era maturo, che presto avrebbe ereditato la fortuna dei suoi genitori e sarebbe stato investito Lord, proprio come Leo.
Il suo amico era di tutt’altro avviso. Sembrava amare il mettersi in mostra per far breccia nel cuore delle fanciulle, e programmava già di passare uno splendido fine pomeriggio a raccontare loro le sue immaginarie imprese, a mostrare quanto efficienti fossero i suoi muscoli ed a godersi attenzioni di loro e delle loro madri, che si prodigavano a mettere in mostra le figliolette sperando si accaparrassero un buon marito.
Ky e Leo erano i favoriti come novelli re, quindi ricevevano particolari attenzioni, soprattutto il primo.
 
In quel momento, però, Ky non le ignorò per abitudine.
Una spettinatissima e disordinata capigliatura bruna, stretta in una lunga coda che sfiorava il pavimento, attirò la sua attenzione, così come la numerosa foresta di bottiglie posata sul bancone davanti ad essa.
 
“Un altro.” Sol posò la bottiglia di Gin vuota sul legno smaltato. Era ormai la sesta, ma non si sentiva ancora soddisfatto.
Dio, da quanti anni non beveva roba di quella qualità? ‘Ogni tanto uno sfizio bisogna levarselo.’ Pensò.
La sua coscienza gli ricordò anche che probabilmente ingurgitare una tale quantità d’alcohol a stomaco vuoto era una follia, ma lui la soffocò sotto altro liquido trasparente.
 
“Non vi sembra di aver esagerato?” Chiese il barista, lanciando al cacciatore uno sguardo ricolmo di preoccupazione e disprezzo. Non voleva gente ubriaca, soprattutto non feccia come Sol.
Ma l’uomo era ben lungi dall’ubriacarsi.
 
“Ho detto un altro.” Trasse dalla bisaccia due zanne, infiggendole violentemente nel legno.  “la prima per le bottiglie, la seconda per pagarti un bancone nuovo.”
Non voleva discussioni… voleva solo bere.
In quel momento anche Leo, giratosi a controllare perché Ky come lui non era entrato in modalità ‘predatore’, notò la sua presenza.
 
“Che mi venga un colpo.” Mormorò impercettibilmente, ridestando Ky dal suo torpore. Non  avevano mai visto quel tizio da così vicino… quelle poche volte che lo avevano beccato, si erano tenuti a debita distanza.
L’odore di sangue e morte che emanava era troppo forte da sopportare, e sapevano quanto odiasse avere intorno troppa gente.
Ma quella sera sembrava stranamente tranquillo e pulito. Non aveva riportato alcuna taglia, per questo probabilmente pagava con le zanne dei suoi trofei.
 
Ky ebbe la fastidiosa sensazione che Leo avrebbe fatto qualcosa di estremamente stupido, e si girò verso di lui per fermarlo. Ma quello era sfortunatamente già partito, aveva preso posto accanto a Sol, e aveva vociato al barista di portare del gin anche a lui.
Sol si limitò a bere, di nuovo silenzioso, e ad ignorarlo, ma essere ignorato non era qualcosa che piaceva a Leo.
“Badguy!” disse, a voce alta. Troppo.
Calò il silenzio tutto intorno a loro, e Sol si voltò, piantando il suo sguardo impenetrabile negli occhi arancioni del Lord.
“Solo i cani mangiano da soli.” Prese la bottiglia che il barista gli aveva posato di fronte, e la portò alle labbra, prendendo un grande sorso.
Svariate paia di occhi si erano voltati ad osservare quella scena, e la tensione nell’aria era palpabile. Nessuno aveva mai osato rivolgere la parola a quell’uomo se non coloro a cui lui era interessato, e Leo aveva oltrepassato quel sottile confine che rendeva tollerabile la sua presenza li.
 
Una terza zanna andò a far compagnia alle altre due, e la bottiglia mezza piena di Sol rimase sul bancone.
“Questa è per il disturbo.”
Si alzò, avvolgendosi il mantello intorno al collo ed abbandonando lo sgabello sul quale era seduto.
Quel suo ostinato ignorare il biondo dalla criniera leonina sembrò scalfire l’onore del ragazzo con la pelliccia, che afferrò il cacciatore per il mantello e con uno scatto secco del braccio lo tirò indietro.
 
“Non dovresti voltare le spalle ad un Lord che ti chiede di bere con lui.”
 
Fu un attimo.
Leo si ritrovò con la giugulare a pochi millimetri dal freddo metallo di Fuuenken, che in meno di un istante Sol aveva estratto, e puntato alla gola di quello che doveva essere un uomo di fronte al quale poteva solo inchinarsi. Ma aveva scelto la persona sbagliata per imporre la sua volontà.
 
Ky sussultò, molte voci trattennero il fiato, e poi il silenzio si fece di nuovo assordante. Leo aveva sgranato gli occhi, ma poi sorrise.
 
“Cosa diavolo credi di fare?”
 
“Solo mostrarsi quanta distanza devi tenere da me se non vuoi ritrovarti a soffocare nel tuo stesso sangue.” Rispose Sol, calmo, prima di abbassare la spada. Non poteva attaccare impunemente uno di loro, non con tutti quei testimoni pronti a fargli lo scalpo.
 
“Leo.” Ky si frappose fra di loro. Sapeva benissimo che far arrabbiare qualcuno che viveva di pelli e zanne di Gear non era una buona idea, e per quando grosso Leo fosse, probabilmente non sarebbe durato dieci secondo contro uno come Sol Badguy.  “Adesso basta. Andiamo a casa.”
 
Sol accennò un ironico sorrisetto, che gli scoprì i canini affilati, al pari di quelli del Lord. “Forza, dai retta alla tua fidanzata.” Eccolo, l’alcohol che si fa sentire.
 
Ky chiuse per un attimo gli occhi. Farsi prendere in giro dai suoi amici era un conto. Gli scherzi degli altri nobili li accoglieva con una risata leggera ed educata, e scherzava con loro. Erano suoi pari.
Ed anche se era troppo gentile per far notare a quell’uomo che non era altro che una zecca sulla loro schiena,  non poteva tollerare una simile mancanza di rispetto nei suoi confronti.
 
“Mister Badguy.” Per quanto cercasse di utilizzare un linguaggio educato, la rabbia traspariva dalla sua voce e dal suo sguardo. “Temo che non abbiate idea di chi vi trovate di fronte.”
 
Scusarsi, chinare il capo ed andarsene. Tornare a casa in pace, ecco cosa doveva fare. E probabilmente è quello che avrebbe fatto, se non fosse stato per le sei bottiglie di gin che aveva appena ingurgitato, dopo aver digiunato per una settimana.
“Vediamo un po’.” Posò due dita sul mento, scrutando dall’alto quel biondino che lo aveva appena chiamato con uno dei nomi appartenuti al grande Freddie Mercury, e poi il suo amico con il mantello di pelliccia. “Lady Oscar, e un animale scampato alla distruzione dello Zoo di New York?”
 
Aveva osato troppo. Leo e Ky estrassero quasi all’unisono le loro spade, semplici stuzzicadenti d’acciaio se paragonate a Fuuenken, con la quale si erano appena incrociate.
 
“Potremmo insegnarti a rispettare i superiori, selvaggio.” Ringhiò Leo, sicuro di sé. Erano i due migliori spadaccini del regno,  non avrebbero avuto problemi a far capire chi comanda a quell’uomo. Ky non poteva dire di essere sicuro di riuscire a sconfiggerlo, ma erano in due, contro un uomo probabilmente brillo, e con una spada ridicola.
Potevano farcela. La sorte era dalla loro.
 
“Sono selvaggio, non stupido.” Sorrise Sol. “E di certo, non voglio ritrovarmi una taglia sulla testa solo perché ho fatto fuori due giovani idioti. Però, forse, potrei darvi quei due schiaffi che i vostri genitori hanno più volte evitato di darvi,  troppo impegnati a viziarvi.”
Nessuno dei due ebbe il tempo di ribattere. Leo sentì qualcosa afferrarlo per la giacca e si ritrovò violentemente sbattuto per terra. Ky finì contro la parete, con un mugolo di dolore strozzato, e si accasciò  a terra, un leggero rivolo di sangue che scendeva dal capo. Nessuno dei due era riuscito a vedere l cacciatore muoversi o anticipare le sue mosse.
Sollevò lo sguardo solo per ritrovarsi quella che poco prima aveva considerato una spada ridicola di fronte, a scalfire il pavimento, e un fiotto di fiamme dirigersi verso di lui. Chiuse gli occhi, urlando, e portò le braccia a coprire il viso, in un inutile tentativo di difenderlo dalle fiamme.
Vento. La sensazione del vento che ti accarezza gentile, e nient’altro.
Riaprì gli occhi solo per vedere il fuoco divampare qualche secondo intorno a lui, per poi spegnersi, senza ferirlo né bruciargli i vestiti.
 
Una quarta e una quinta zanna andarono ad adornare il bordo nel bancone, mentre Sol scavalcava un Leo terrorizzato e si avviava verso la porta.
 
“Queste sono per i danni.”
 
Silenzioso come era arrivato, se né andò, accompagnato da una miriade di sguardi attoniti e lasciando dietro di sé due futuri principi terrorizzati e pieni di vergogna.

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Capitolo 4
*** Holy Orders ***


𝓒𝔥𝔞𝔭𝔱𝔢𝔯 𝔉𝔬𝔲𝔯: 𝓗𝔬𝔩𝑦 𝔒𝔯𝔡𝔢𝔯𝔰
 
Era in ritardo. Parecchio in ritardo. Si era attardato più di mezz’ora oltre l’orario stabilito in quel dannato bar. Convincere Leo a tornare a casa senza inseguire l’uomo per mettere in atto un’inutile vendetta era stata un’impresa tutt’altro che facile.
Orgoglioso come l’animale del quale portava il nome, il giovane Lord non voleva saperne di lasciar perdere quell’inutile faccenda e semplicemente ringraziare che il Cacciatore non ci fosse andato troppo pesante, e stava tirando troppo la corda che reggeva la pazienza di Ky.
 
“Non hai un briciolo di orgoglio, Bambino?!” Gli aveva urlato, rifiutando l’aiuto dell’amico per rimettersi in piedi, ed il giovane aveva faticato parecchio a trattenere la voglia di lasciarlo cadere di nuovo a terra ed andarsene. L’orgoglio lo aveva anche lui, e sanguinava quanto il suo.
 
“E tu, non hai un briciolo di cervello?” I suoi occhi azzurri si erano fatti seri, e nonostante lo smacco subito puntavano dritti e determinati in quelli arancioni del Lord. “Se vuoi andare a farti ammazzare per la tua stupidità, fai pure.  Io me ne torno a casa.”
Si era avvolto nel pesante mantello azzurro, irato, ed aveva lasciato il locale. Nessuno oltre ai due giovani aveva ancora proferito parola, e forse era meglio così. Non avrebbe esitato a sguainare la spada contro chiunque avesse tentato di consolarlo, o prenderlo in giro.
 
Percorse la distanza che lo separava dal suo castello a grandi falcate, lo sguardo basso sui ciottoli della strada, e un forte dolore alla testa che sembrava non volersene andare.
Portò una mano dietro la nuca, aspettandosi di sentire sotto le dita la forma di un bernoccolo, ma le ritrasse fradice e vermiglie… sangue.
Il colpo era stato più forte di quanto si aspettava…
Senza pensarsi, si ripulì la mano sui vestiti, macchiando di rosso la stoffa candida, e posò le mani sul portone d’ingresso. Voleva solo tornarsene nella sua stanza,  farsi una rapida doccia e infilarsi a letto, cancellare i ricordi di quel pomeriggio, e soprattutto di quegli occhi color del fuoco che lo avevano umiliato in così pochi istanti.
 
“Siete in ritardo, signori- Signorino Ky? Quello è sangue?!”
 
La voce acuta di una giovane domestica lo ridestò dai suoi pensieri, procurandogli in compenso un’ulteriore fitta alla testa. Ritardo….?
Le concesse un’occhiata perplessa, senza fornire spiegazioni sul perché fosse ridotto in quello stato pietoso.
 
“Il Nobile Baldias vi sta aspettando… Ma forse sarebbe meglio- H-hey?”
 
dannazione’, fu tutto ciò che pensò. Si tolse il mantello, usandolo per ripulirsi frettolosamente il sangue dal collo e dai capelli,  e poi lo consegnò alla giovane. “Portatelo a lavare. Andrò ad incontrare Sir Baldias immediatamente.”
 
“Signorino, non mi sembrate nelle condizioni-“
 
“E’ un ordine.” La sua voce era stata ferma, ma un leggero sorriso scaldò il cuore della ragazza, che si inchinò e corse via con il mantello fra le braccia.
 

Ky si diresse vero la sala adibita a stanza del thé, dove era solito incontrare gli ospiti importanti, e bussò nervosamente.
Era sempre calmo  e calcolato, ma i membri del Conclave raramente si mostravano all’infuori del loro palazzo… averne uno nel proprio salotto non era di buon auspicio, e soprattutto… era in ritardo.
Bernard aprì la posta, facendo per chiedere cosa fosse successo, ma Ky alzò la mano, zittendolo, ed entrò.
Avvolto in un semplice capotto beige, e con cappello dello stesso colore calato sopra la maschera,  Baldias lo attendeva.
 
“Chiedo umilmente scusa per il ritardo, e per il mio aspetto.” Ky si avvicinò a lui, piegando poi un ginocchio a terra, con una posata in diagonale contro il petto. Così era solito prostrarsi davanti ai superiori.
“Ho avuto un contrattempo.”
 
La voce calma, quasi divertita, del membro del Conclave lo richiamò. “Ky Kiske. Sedetevi.”
 
Il ragazzo si alzò, sotto lo sguardo preoccupato del suo tutore, e prese posto dinanzi all’uomo mascherato, in una postura elegante e raffinata, nonostante il dolore alla schiena. Con le mani posate sulle ginocchia, attese che Bernard versasse loro due tazze di thé.
Una mera formalità. Baldias non avrebbe mai tolto la maschera, stranamente lunga, che gli copriva il viso, e Ky sentiva lo stomaco chiuso. Non solo per la sconfitta appena subita, ma anche per una strana paura che gli attraversava le ossa, nell’osservare quell’uomo che aveva di fronte. Aveva qualcosa di strano… innaturale, che non riusciva a capire.
 
“Sono qui perché ho qualcosa da riferirvi.” L’uomo spostò lo sguardo da Ky al suo domestico. “Desidererei farlo in privato.”
 
Ky si irrigidì lievemente. “Qualunque cosa abbiate da dire, potete dirlo dinanzi a Bernard. Affiderei a lui la mia stessa vita, e la fiducia che in lui ripongo è assoluta.” Il tono con cui pronunciò quelle parole fece trasalire leggermente il domestico. Nessuno discuteva gli ordini di un membro del Conclave.
 
Nuovamente, la voce dell’uomo mascherato si fece velata di un sottile divertimento, che Ky non poté non notare. La rendeva ancora più spaventosa di quanto già non fosse. “Il vostro affetto per quest’uomo è certamente degno d’ammirazione, ma nonostante ciò, vorrei parlare da solo con voi.”
 
Il biondo abbassò lo sguardo, stringendo le dita. Non poteva mettersi a discutere… ma Bernard gli dava sicurezza, in quel momento. Annuì, tuttavia, in segno di condiscendenza. “Bernard, vorresti scusarci…?”
 
“Certamente, signorino.” L’anziano domestico posò la teiera sul tavolino e si congedò con un inchino, lasciando i due soli.
Dopo qualche minuto di silenzio, durante i quali Ky fissò il liquido scuro nella tazzina in porcellana finemente lavorata, Baldias si alzò, camminando per la stanza, ed osservando i titoli dei libri posti sugli scaffali, senza però leggerli. Le braccia posavano, incrociate, dietro la schiena.
 
Erano stranamente lunghe, come tutta la figura di quell’uomo. Come se fosse stato preso e tirato per le estremità.
 
“Ky Kiske.” Ripeté il suo nome, e Ky tornò ad alzare lo sguardo. “Siete ancora giovane, e la gioventù è un periodo breve della vita, che va vissuto appieno. Solo per questo sorvolerò sul vostro aspetto attuale, e non vi rimprovererò di esservi presentato dinanzi a me in ritardo. Posso solo augurarmi che non accadrà più, in futuro.”
 
“Chiedo nuovamente perdono. E’stata-…”
 
“Sicuramente una fatalità. Non sono qui per interrogarvi sulle vostre scorribande.”
 
‘Beh, tanto meglio così.’ Pensò il biondo. Nel tentativo di rilassarsi almeno un po’, prese la tazza sorseggiando la bevanda zuccherina, mantenendo un rispettoso silenzio.
 
“Immagino sappiate che il nostro Re è, sfortunatamente, passato a miglior vita da poche settimane.” L’uomo in maschera ricominciò a camminare per la stanza, lentamente. “E che, dunque, necessitiamo di un successore.”
 
Nuovamente, Ky si irrigidì. Aveva già capito, e forse aveva dovuto capirlo già da prima di entrare in quella stanza.
 
“Mi sono consultato a lungo con i membri del Conclave, ed all’unanimità abbiamo ristretto il campo di scelta a tre elementi, tutti molto validi.
La scelta finale non è stata semplice… Ma voi, Ky Kiske, nonostante la maggiore età compiuta da poco, sembrate svettare sopra i vostri compagni.”
 
Questo lo sapeva. Spesso e volentieri i giovani primogeniti dei nobili avevano dovuto affrontare svariate prove, come tornei e duelli amichevoli fra loro, per mostrare le loro abilità e compiacere il loro re.
Sotto quell’aspetto, la loro società sembrava regredita ai tempi del medioevo.
Ky aveva sempre partecipato, e solo rare volte non ne era uscito vincitore.
Questa cosa non doveva essere sfuggita né al re, né ai suoi compagni… né ai silenziosi burattinai che dominavano nell’ombra sopra tutti loro.
 
“Voi mi lusingate.” Si schermì.  Sapeva dove sarebbe finito quel discorso, e molti dei suoi compagni e coetanei avrebbero ucciso per essere al suo posto… ma lui non era a quello che aspirava.
Da dopo la morte dei suoi genitori, non voleva altro che rimanere in pace, nella casa che loro gli avevano lasciato. “Ma sono certo che Lord Whitefang sarebbe un Regnante di gran lunga-“
 
“Lord Whitefang avrà anche lui la sua carica, Kiske.” Baldias non lo lasciò terminare la frase. “Vista la vostra giovane età, non troviamo saggio affidare il comando ad una sola persona. In via del tutto eccezionale, i re che governeranno questo posto saranno tre.”
 
Quell’affermazione lo lasciò stranito. Tre re?  Fece per chiedere, ma Baldias lo anticipò.
 
“Voi ed il vostro amico Leo Whitefang verrete investiti Re al sorgere della prossima settimana.” Per la prima volta da quando quella conversazione era iniziata, l’uomo si voltò a fissare il giovane, ancora seduto sulla poltroncina, con la tazza di thé mezza vuota in mano.
 
“Nobile Baldias.” Ky posò la tazza sul piattino, osservando quegli occhi gialli privi di sentimento. “Avete accennato ad un terzo-“
 
“Tutto a suo tempo, Kiske.” Non poté vederlo, da dietro la maschera… ma poteva quasi percepire l’uomo sorridere. “Quello che mi preme ora, è avere una vostra risposta.”
 
Una risposta. Se fosse stato per lui, Ky avrebbe rifiutato immediatamente.. ma aveva il fondato timore che un rifiuto non sarebbe piaciuto ai suoi superiori.
Chi non andava loro a genio perdeva tutto, veniva cacciato dalla città e mandato a vivere con i reietti.
Selvaggi, li chiamava il suo maestro. Ma apostrofava così anche Leo, a volte…
Circolavano storie orribili sul loro conto.
C’era chi diceva che i Gear avessero distrutto ogni forma di vita animale fuori dalle riserve, e quindi i reietti, per non morire di fame, cacciavano quel che potevano. A volte di frodo… a volte i loro stessi compagni.
Ky rabbrividì al pensiero.
 
“Sono indubbiamente onorato per la vostra proposta.” Proferì, con voce bassa ed educata. “Ma è una decisione così improvvisa…”
 
“Vi lasceremo qualche giorno per decidere. Ma confidiamo in una risposta positiva.” L’uomo mascherato posò gli occhi gialli sulla giovane figura che presto sarebbe divenuto l’uomo più importante della città, e brillarono cupi un ultima volta. “Ora, vogliate scusarmi, altri impegni richiedono la mia presenza.”
 
“Certamente.” Ky si affrettò ad alzarsi, sistemandosi brevemente i vestiti prima di inchinarsi una seconda volta dinanzi a Baldias. “Mi permettiate di accompagnarvi-“
 
“Conosco la strada.” Tagliò corto l’altro. “Inoltre, suppongo desidererete un po’ di tempo per riflettere, ora… e, soprattutto, darvi una ripulita.”
Gettò un’occhiata ai capelli del giovane, ancora colorati di sangue secco, che donava ad essi un’insolita tonalità arancione.
Ky lo ringraziò, aprendogli poi la porta per farlo passare.
 
Seguì con lo sguardo l’allampanata figura avvolta nel cappotto percorrere il corridoio che lo separava dal portone, poi uscire e scomparire alla vista.
 
“Bernard.” Chiamò il maggiordomo, che aveva atteso paziente li vicino, e prontamente gli si avvicinò. “Fammi preparare un bagno caldo, e cancella tutti i miei impegni per domani. Non voglio essere disturbato.”
 
“Signorino…”
 
“Te ne prego. Desidero rimanere nelle mie stanze fino a che non sarò io stesso a farmi vivo.” La voce del ragazzo era insolitamente stanca, il viso pallido. “Confido nella tua comprensione.”
 
Il maggiordomo non poté fare a meno di annuire, ed obbedire.
 
 
Saltò la cena, sentendo lo stomaco chiuso, e lasciò che i pensieri sfumassero insieme ai vapori dell’acqua calda che lambiva il corpo magro, ma ben allenato e tonico, nella vasca. Aveva bisogno di rilassarsi, e niente funzionava meglio di un bel bagno fra oli profumati e musica leggera, che riempiva la stanza di note classiche di un tempo passato tramite un vecchio giradischi.
 
Vi rimase immerso più a lungo del solito, ed una volta uscito si gettò esausto sul letto dopo essersi infilato una semplice vestaglia bianca, abbandonandosi all’abbraccio delle morbide coperte.
Ma, per quanto morbido e caldo fosse il suo rifugio, i pensieri non smisero di tormentarlo nemmeno quando, alla fine riuscì ad addormentarsi.
 
I sogni si susseguivano tormentati, vedeva scene di guerra, sangue, i suoi genitori che gli urlavano di correre.. e lui correva, e correva. Si agitava fra le lenzuola, e forse fu per quello che non si accorse del rumore del vetro infranto, né della figura che era appena entrata dalla porta finestra che dava sull’ampio balcone.
Nemmeno delle tende di velluto del baldacchino che venivano di scatto tirate.
 
Si accorse però della mano che si pose sulla sua bocca, svegliandolo di colpo e soffocando un urlo, mentre con gli occhi sgranati per il terrore fissava quella figura che aveva appena bloccato ogni sua possibilità di chiedere aiuto.
 
“Non pensare nemmeno di mordermi, Bambino.” Nel sentire la voce di Leo, non seppe nemmeno lui se tirare un sospiro di sollievo o un calcio ben assestato all’inguine dell’amico.
“Vestiti, ora.” Il suo sorriso non prometteva nulla di buono.
“Andiamo a caccia.”

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