Somebody To Love

di saitou catcher
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Attrazione ***
Capitolo 2: *** ... che come vedi ancor non m'abbandona ***
Capitolo 3: *** L'odio non muore mai ***
Capitolo 4: *** Sirius Black vuole solo quello che non può avere ***
Capitolo 5: *** Va tutto bene ***
Capitolo 6: *** Invito ***
Capitolo 7: *** L'amore è essere cretini insieme ***



Capitolo 1
*** Attrazione ***


Buongiorno, o folle popolo di EFP!
Una sera, mentre cercava di addormentarsi, a Saitou è venuta un'idea: perché non unire gli universi di Harry Potter e dei Miserabili, tirando a sorte per creare delle ship- crossover senza capo ne' coda? Nel momento in cui questa ispirazione l'ha folgorata, Saitou l'ha subito comunicata a Catcher, la quale, invece di chiamare il manicomio più vicino, l'ha subito appoggiata (per la serie Dio le fa e poi le accoppia). Quindi, abbiamo scritto su due fogli un elenco dei personaggi di Harry Potter e dei Miserabili,e abbiamo diviso i maschi e le femmine (senza distinzioni di fandom) in due capelli diversi.
Per le coppie, ci siamo date dei criteri: niente Slash o Femslash, e niente miscuglio di generazioni (della serie, coppie come James/Cosette o Javert/Hermione erano escluse per principio). Fatto ciò, ci siamo sedute sul letto coi nostri bei capellini, ci siamo votate al santo protettore delle ship perché ci salvasse da cose troppo oscene e abbiamo iniziato l'estrazione. Cosa ci è capitato? Spetta a voi scoprirlo, leggendo e recensendo!
Buona lettura!
Saitou Cacther

 


Non esiste salvaguardia contro
il senso naturale dell'attrazione”

-Ti stai annoiando, principino?

Draco Malfoy chiuse gli occhi e s'impose di non voltarsi, le dita lunghe e pallide convulsamente strette attorno al manico della bacchetta. Del resto, non avrebbe avuto bisogno di farlo: nella sua mente, poteva figurarsi in ogni particolare la ragazza che, in piedi alle sue spalle, pigramente appoggiata contro una delle colonne, gli aveva appena rivolto quelle parole irriverenti. Alta, snella, con i fianchi stretti e le gambe lunghe, il viso leggermente ovale circondato da una folta massa di capelli neri che scendevano disordinatamente fin sotto la schiena, e gli occhi grandi, neri, ombreggiati da folte ciglia. Più di tutto, Draco Malfoy riusciva a raffigurare nella sua mente con estrema chiarezza le labbra piene sollevate nel suo solito sorrisetto beffardo. Quelle stesse labbra che lui sognava ogni notte di divorare.

-Non finché non sei arrivata tu- rispose col suo tono più annoiato, lasciando vagare lo sguardo lungo i ritratti che ricoprivano per intero la parete.

-Oh oh- ribatté lei- quindi mi stai facendo intendere che la mia compagnia non ti è gradita?

Imponendosi di controllarsi, di non lasciar trasparire in nessun modo il miscuglio di emozioni che in quel momento lo agitava, Malfoy si volse a fronteggiare la sua interlocutrice. Eponine Thénardier ricambiò il suo sguardo, in piedi di fronte a lui con la schiena indolentemente abbandonata contro la parete. I lunghi capelli neri erano legati in una coda che per metà si era sciolta, spargendosi in ciocche ondulate sulle spalle e sulla schiena, alcune delle quali cadevano ad ombreggiarle il viso. Malfoy non la sopportava quando aveva un aspetto così selvaggio, così trasandato... e così irresistibile.

-Non mi è gradita la compagnia di nessun Mezzosangue- le sibilò con cattiveria.

Un lampo di rabbia brillò negli occhi di Eponine, e Malfoy ne godette, come ogni volta che riusciva a ferirla: l'aveva detestata sin dal primo istante, sin da quel giorno in cui, dopo lo Smistamento che aveva condotto lui in Serpeverde e lei in Grifondoro, lei gli era passata di fronte, lanciandogli quel suo tipico sguardo che era in parte disprezzo, in parte noncuranza, in parte divertimento, come se, in qualche angolo nemmeno troppo recondito della sua mente, Eponine Thénardier ridesse di lui. Da allora, nulla, nulla di quello che Malfoy aveva tentato o ideato era riuscito a toccarla: era una lupa, Eponine, una lupa che lottava con le unghie e con i denti, una belva che le sue meschinità non potevano scalfire. E dallo Smistamento di sei anni prima, perfino adesso, lo sguardo che Eponine gli rivolgeva non era cambiato: era sempre lì, ardente nelle profondità delle sue iridi nere, carico di odio, di disprezzo, e sopratutto, di derisione.

-Non sarò certo io a importi il disturbo della mia compagnia- ribatté Eponine. Si staccò dal muro, passandosi una mano tra i capelli per scioglierli definitivamente dalla coda in cui li aveva costretti. -Ma si da' il caso, principino, che questo sia il mio angolo di riflessione, quindi tu sei pregato di andartene.

-Io non mi faccio dare ordini da te- replicò lui tra i denti.

-Davvero?- Eponine sorrise, avvicinandoglisi fino a che tra loro non ci furono che pochi centimetri, gli occhi neri affondati in quelli grigi di lui- Ma io non te lo stavo ordinando, Malfoy. Te lo stavo chiedendo. Ma, nel caso tu preferisca maniere più forti- la sua voce si abbassò fino a diventare un ringhio cupo e ferino- sarò lieta di accontentarti.

Malfoy aprì la bocca, ma non riuscì a formulare nessuna risposta tagliente: lei gli era troppo vicina, adesso, e lui poteva sentire il suo profumo riempirgli le narici, poteva sentire il suo respiro sfiorargli la gola, e i suoi occhi scivolavano sulle labbra di lei, piene, morbide, quelle stesse labbra che per notti intere avevano popolato i suoi sogni. In quel momento, l'unica cosa cui Malfoy riusciva a pensare era il desiderio bruciante, impellente, di attirare ogni centimetro di quel corpo perfetto contro di lui, e farla sua.

Non aveva idea di quando fosse incominciata quella scandalosa ed incontrollabile attrazione nei suoi confronti. Per molto tempo, per lei non aveva provato altro che disprezzo. All'epoca in cui l'aveva conosciuta, quel giorno lontano dello Smistamento, Eponine non era bella; Malfoy la ricordava bene, una ragazzina tutta pelle e ossa, affondata in una veste di seconda mano troppo grande per lei. L'aveva odiata con la stessa viscerale intensità che riservava a Potter e alla Granger, forse persino più di loro, perché lei era passata per esperienze che lui non poteva neanche immaginare, e nulla di quello che faceva avrebbe mai potuto toccarla.

Poi, il primo giorno del sesto anno, Eponine aveva fatto il suo ingresso nella Sala Grande, e Malfoy non aveva potuto distoglierne lo sguardo: non aveva idea di quello che le era successo, ma la ragazzina pelle e ossa che aveva conosciuto si era trasformata tutta d'un colpo in una donna... la più bella che Malfoy avesse mai visto.

Era cambiata, lui era cambiato nel modo in cui si comportava nei suoi confronti, ma lo sguardo di lei, quello sguardo che Malfoy avrebbe voluto cancellare da quelle iridi nere che lo tormentavano in sogno non era cambiato; perfino adesso, gli occhi di lei lo squadravano con noncurante disprezzo.

-Non minacciarmi, Mezzosangue- le parole fuoriuscirono a fatica dalla sua gola improvvisamente in fiamme.

Gli occhi di Eponine si ridussero a due fessure. -E tu smettila di chiamarmi in quel modo- sibilò, facendosi ancora più vicina.

Troppo, troppo vicina; i loro nasi quasi si sfioravano. Malfoy strinse i pugni, si costrinse a rimanere immobile al suo posto, ma percepiva che i suoi sforzi per mantenere un'espressione impassibile stavano perdendo la loro utilità. Il desiderio lo scuoteva, un fuoco violento che bruciava poco sotto la pelle, si espandeva ai polmoni e poi agli occhi, nascondendo il mondo circostante al di là di un velo rosso.

-Io ti chiamo come mi pare- udì la sua voce come se provenisse da una grande distanza. -E adesso sparisci, lurida Mezzosangue.

Il pugno lo colpì sulla bocca, con tanta forza da fargli perdere l'equilibrio; Malfoy barcollò all'indietro, la parte inferiore del viso che si trasformava in un'unica pulsazione di dolore. Rabbia e umiliazione strisciarono ad annodargli le viscere, e d'un tratto Malfoy desiderò di annientarla come mai aveva voluto in vita sua. L'avrebbe uccisa, l'avrebbe lacerata con le unghie e con i denti, l'avrebbe distrutta fino a costringerla ad implorare pietà.

Si raddrizzò, ansimando, il sangue che dal labbro colava lungo il mento, cercando di ignorare il dolore e la stretta alle viscere.

-Vattene, prima che ti faccia del male- la sua voce suonò debole e stridula persino alle sue stesse orecchie.

Eponine inarcò gli angoli delle labbra in un sorrisetto beffardo. -Come desidera il mio principino- ribatté, la voce che trasudava disprezzo da ogni singola sillaba. Si voltò e si allontanò a testa alta, i lunghi capelli che le ondeggiavano sulla schiena.

A metà strada si voltò di scatto, la chioma che le si allargava intorno in un ventaglio di seta nera. Si voltò, e da sopra la spalla gli lanciò quello sguardo, quell'indicibile miscuglio di odio, disprezzo, rabbia e derisione.

Fu più di quanto potesse sopportare.

Guidato da un impulso di cui nemmeno lui comprendeva l'origine, ma di cui avvertiva solo l'irrefrenabile urgenza, divorò in pochi passi il tratto di corridoio che lo separava da lei e le afferrò il polso, stringendo con tutta la forza di cui disponeva, strattonandola perché si voltasse a guardarlo. Eponine barcollò, sorpresa, un lampo di timore le attraversò per un attimo lo sguardo, ma Malfoy non le diede il tempo di reagire: le afferrò anche l'altro polso, le spinse la schiena contro il muro e la baciò.

Fu un bacio violento, animale, senza nessuna traccia di dolcezza: Malfoy le aprì le labbra, divorandole, con tutta la violenza del fuoco che si sentiva dentro. Spinse ogni centimetro del suo corpo contro di lei, desideroso di scomparire nel desiderio che finalmente soddisfava, e allo stesso tempo aspettando: che lei lo mordesse, lo graffiasse, lo riducesse in pezzi, tutto, pur di cancellare dai suoi occhi quello sguardo che gli bruciava addosso come acido. Avere il viso ridotto in una poltiglia sanguinante dai suoi graffi sarebbe stato un mero prezzo da pagare per questo.

Non si era aspettato che Eponine ricambiasse il bacio.

Nel momento stesso in cui se ne rese conto Malfoy quasi si staccò, sconcertato, ma lei gli fu subito addosso: anche le sue labbra bruciavano, e le mani di lei gli serravano le spalle affondando le unghie nella carne, anche lei lo mordeva, nell'impellenza di un desiderio troppo urgente da negare.

Malfoy lasciò che lo sovrastasse, lasciò che lo possedesse in ogni singola fibra del suo corpo, ed entrambi si lasciarono annegare, in una nebbia rossa in cui presto i baci non bastarono più.

 

Quella sera, nella Sala Grande, lei gli passò accanto mentre si dirigeva verso il suo tavolo. Lo prese per il braccio e lo costrinse a girarsi. Lo fissava, e il suo sguardo era lo stesso di sempre, solo appena acceso da una scintilla di rabbia.

-Non deve succedere mai più- gli ringhiò.

Successe di nuovo, naturalmente. Una, due, tre volte. Ma lo sguardo di lei non cambiò. Mai. E ogni volta che la incrociava nei corridoi, ogni volta che i suoi occhi neri si soffermavano a fissarlo, Malfoy pensava che tutti i baci che lei avrebbe potuto dargli in quegli sporadici momenti di attrazione non erano un prezzo abbastanza equo per ripagare questo.

Questa è stata la prima coppia ad essere estratta, e devo dire che non è poi così male (anche se altro non è che una versione cross-over della Dramione, che peraltro io non amo).
Piccola precisazione: i capitoli saranno dodici, come le coppie estratte, sei scritta da Saitou e sei di Catcher, e si alterneranno. La prima coppia, ovvero Malfoy/Eponine se l'è aggiudicata Saitou (ovvero io!)
Spero vi sia piaciuta! Se avete critiche da muovere, non esitate!
Un bacio,
Saitou

Ps Perché insisto a chiamare Malfoy per cognome? Perché lo odio, ecco perché.

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** ... che come vedi ancor non m'abbandona ***


Scordatevi che l'aggiornamento sia sempre così celere: questa congiunzione è dovuta al fatto che avevamo iniziato a scrivere i capitoli contemporaneamente.
Il capitolo è di Catcher, speriamo che vi piaccia. Non lesinate sui commenti!

Continuiamo a vivere nel ricordo di chi ci ama”.

 

Javert era stato sorpreso, a quindici anni, di scoprire che l'Amortentia sapeva per lui di qualcosa.

 

Javert lasciò scorrere lo sguardo immobile sul silenzio cristallizzato del cimitero di Godric's Hollow, senza vedere la sagoma chiara delle lapidi squadrate nella bruma invernale, e senza udire l'odore intenso del terreno che l'inverno aveva soffocato sotto una patina di ghiaccio scintillante.

 

Aveva trasalito, quindi gli avevano passato la boccetta per annusarla e aveva odiato l'atmosfera fumosa della segreta e il riso soffocato dei suoi compagni e quel che di compiaciuto nel sorriso del professor Lumacorno; non gli piaceva quell'uomo, aveva un'aria ambigua, così grosso e falsamente innocuo, nelle sue vestaglie di lillà e i baffi sporchi di ananas candito, e se c'era una cosa che odiava, tra le tante che lo lasciavano indifferente, era l'ambiguità. Già a quindici anni, aveva le idee molto chiare su come funzionasse il mondo.Aveva irrigidito i lineamenti nella sua solita espressione granitica e aveva posato la boccetta istoriata senza una parola.

 

Spinse via il cancello, che scivolò cigolando sul terreno gelato, e avanzò a passi lenti e circospetti, la mano chiusa sulla bacchetta nascosta sotto il mantello, più per abitudine che per reale minaccia; legno di ebano, undici pollici, rigida, fibra di cuore di drago, ripassarne le caratteristiche e mormorare tra sè le formule di protezione lo aiutava a concentrarsi, quando, immobile in qualche cantuccio, aspettava di uscire allo scoperto e catturare qualche Mangiamorte in fuga. Ma qui non serviva: qui, tra i rami carichi di neve che si piegavano a terra, e il sinistro beccheggiare di un corvo in cerca di cibo, e i morti che dormivano sottoterra, non servivano protezioni.

 

Javert aveva quindici anni e già credeva di sapere tutto su sè stesso e sulla vita. Sapeva di essere un Mezzosangue, di essere stato Smistato nella casa di Corvonero, che suo padre era uno di quelli che si divertono a infastidire i Babbani quando li incontrano per strada, che sua madre truffava la gente per strada vendendo amuleti falsi contro i vampiri e i lupi mannari, di essere estremamente impopolare e di essere definito, dalla maggioranza dei suoi coetanei, un “emerito bastardo leccapiedi”.

Sapeva che era nato ad Azkaban e che sua madre (quella donna, come la chiamava lui, parlandone a sè stesso e non lo faceva molte volte) era ancora là. Sapeva che ladro una volta, ladro per sempre, che se cadi come cadde Lucifero cadrai nelle fiamme, che la società tiene irremediabilmente lontane da sè due classi di uomini: quelli che la difendono e quelli che l'attaccano. Sapeva che sarebbe diventato un Auror (o meglio, sapeva di volerlo) e sapeva usare gli incantesimi non verbali, benché non fossero inclusi nel programma; sapeva Schiantare, Appellare, sapeva usare sia la Legilimanzia che l'Occlumanzia, conosceva tutte e cinque le leggi di Gamp sulla Trasfigurazione degli Elementi, ed eccelleva in tutte le materie, eccetto Divinazione. L'unica cosa che non sapeva fare era evocare un Patronus*, ma questo perché non aveva molti ricordi felici a cui appellarsi.

Ma c'era una cosa che Javert non sapeva e cosa fosse lo scoprì quel giorno lontano di settembre, quando gli passarono la boccetta contenente l'Amortentia e lui ne sentì per la prima volta l'odore.

 

Camminò a lungo in silenzio, facendo scivolare gli occhi sulle file di tombe e sui nomi incisi su di essa, finché non trovò quella che cercava; quando l'ebbe trovata, si fermò, rigido come avrebbe fatto davanti a un superiore al Ministero, e con un movimento appena accennato della bacchetta, fece sparire lo strato di neve che ricopriva la lapide.

L'ultimo nemico che sarà sconfitto è la morte.

 

L'Amortentia aveva l'odore del sole; l'odore dell'estate, quando ancora giace sotto il manto gentile della primavera, e sta per esplodere, in tutto il suo tripudio di vita e calore. Aveva l'odore dei fiori che si schiudono al sole,aveva

l'odore delle nocciole e dell'erba appena tagliata; e infine c'era qualcos'altro, qualcosa che Javert non era riuscito chiaramente a definire, che aveva la dolcezza densa della vaniglia con una punta di aspro che sembrava limone, ma che lo aveva portato, ancor prima che la sua mente ne fosse consapevole, a collegare quell'odore a un'immagine: a lunghi capelli rosso scuro e occhi verdi a mandorla.

Lily Evans.

 

Prese un profondo respiro, stringendo la mascella e finalmente abbassò lo sguardo sulla lapide. Gli risposero lo sguardo di un uomo dai capelli arruffati e gli occhiali, e quello di una donna dal viso dolce e gli occhi verdi, il cui colore vitreo, il solo che lo scatto avesse saputo restituire, non avevano nulla del lampo che li aveva illuminati, quando la proprietaria di quegli occhi rideva e respirava e aveva toccato il cuore di un quindicenne che credeva di averlo di pietra.

 

Lily Evans. L'altra prefetto di Grifondoro**, una ragazza vivace, un'alunna modello, una delle cocche del professor Lumacorno, una ragazza che conosceva il valore delle regole e sapeva rispettarle, una ragazza per cui, all'indifferenza che Javert tributava al resto del genere umano, si mischiava una punta di rispetto e una vaga ammirazione.Ma nulla di tutto questo aveva preparato Javert all'effetto dell'Amortentia, e nulla di tutto questo l'aveva preparato a quello che sarebbe successo dopo.

Aveva allontanato di scatto il naso dalla boccetta, e alla domanda maliziosa di Horace Lumacorno su cosa potesse aver scatenato tale reazione, aveva risposto “Niente”. Ed era tornata marciando al suo banco, cercando di non guardarla e senza riuscirci.

 

Che cos'era venuto a fare qui? Che cosa aveva da dire a una tomba?

Niente. Javert non aveva mai avuto nulla da dire per tutta la vita, se non giudizi e condanne, e ora si trovava impreparato e quasi intimorito di fronte a quel sorriso congelato sul marmo, che sembrava invitarlo ad aprire il suo cuore, a rendere carne la pietra e a far scorrere il sangue nelle sue vene congelate.

Lily Potter gli sorrideva dalla tomba, con quel sorrio dolce e coraggioso che l'aveva illuminata in vita, e quel sorriso avrebbe intenerito un cuore di pietra.

Ma un cuore di legno non s'intenerisce.

 

Da quel giorno l'aveva osservata senza volerlo, quasi la forza di quella scoperta fatta nella segreta l'avesse trasformata per lui in una calamita irresistibile, e si era scoperto a spiarla, ogni giorno, rubando qualche pezzetto di lei per poterlo tenere dentro di sè. Aveva preso nota della sua risata calda e piena come il miele, dei suoi denti bianchi come perle, che sembravano fatti apposta per ridere, del lampo dorato che il sole accendeva nei suoi occhi verdi, e ogni volta che per caso gli era passata accanto, Javert aveva trasalito, nel sentir sprigionare dai suoi capelli quel profumo di vento e di fiori che l'aveva catturato al primo istante senza che lui se ne accorgesse.

 

Ma l'estate si era decomposta, il fiore era appassito, e di lei non rimaneva altro che cenere e polvere vuota, sotto tre metri di terra gelata; e la morte le era arrivata addosso così, senza gloria e senza onore, sotto forma di un lampo verde brandito da lunghe dita bianche.

Javert si chiese se si poteva amare un ricordo.

Sì, se per tutta la vita si è amato un fantasma.

 

E un fantasma lo era stata davvero lei, per lui, prima un fantasma di grazia e di luce, e poi un bagliore lontano,perso nel fragore della lotta contro Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato (Javert non temeva il suo nome, ma gli sembrava sciocco pronunciarlo, quando poteva irritare i superiori), perso nel turbine, di condanne, appelli, processi, e Javert l'aveva osservata da lontano,senza mai avvicinarla, e si era accontetato di amarla così, senza gelosia e senza rimpianto, senza mai dare sostanza al suo cuore, finché non gli era arrivata addosso la notizia della sua morte, e Javert si era reso conto che qualcosa in lui si era frantumato alle fondamenta, che la bacchetta di Lord Voldemort gli aveva tolto tutto quel che di umano gli restava. Tutto quel che di umano c'era in quella ragazza viva e vivente e inafferrabile come la luce, e che aveva in qualche modo illuminato la vita di un quindicenne solo e consapevole di esserlo, che aveva assopito per qualche anno il fantasma irremovibile del bambino che si addormentava piangendo tra le pareti di una squallida cella, unica ninna nanna il sussuro mortifero dei Dissennatori, ma come poteva dire di aver perso qualcosa, se non l'aveva mai avuto?

 

Javert prese un altro profondo respiro, il secondo, e cercò di mettere ordine nei suoi pensieri, solitamente così dritti e schematici. Era venuto lì senza riflettere, e la cosa lo turbava, perché pur riflettendo poco, non aveva mai agito d'istinto. Che cosa ci faceva lì?

A che serve dire ora ciò che non le ho detto in vita?

Un' altro profondo respiro.

Sapeva perché era venuto lì.

Estrasse lentamente la bacchetta da sotto il mantello, e la puntò contro la lapide liscia e bianca. Nel grigiore uniforme della sua indifferenza, trapelò una traccia di nervosismo. Non era portato per quel genere d'incantesimi, Valjean forse lo era, ma lui era sempre stato bravo con le formule per interrogare, catturare, ferire. Le formule da Auror, insomma.

Mormorò la formula sottovoce, gli occhi appena socchiusi e un lieve sospiro di sopresa che gli sfuggì dalle lebbra, quando dalla punta della bacchetta sprizzarono scintille e sulla lapide apparve un semplice ramo di rosmarino, verde scuro contro il marmo color avorio.

Ricordo.

Un'altro sospiro, di nuovo la formula e accanto al verde del rosmarino spiccò il rosso acceso di un fiore di garofano.

Ti ho amato a tua insaputa.

Chinandosi sulla ginocchia, Javert intrecciò tra loro i gambi dei fiori come meglio poté, e vi pose accanto la semplice medaglietta argentea che decorava l'uniforme, l'unico riconoscimento mai accettato per il suo servizio come Auror. Fatto questo, si alzò. L'inverno era arrivato e aveva soffocato nella sua morsa brinata tutte le piante, ma queste non sarebbero appassite. Era stata Fantine*** a insegnarglielo, tanto tempo prima, e Javert la ringraziò silenziosamente.

“Ti ricorderò sempre” disse semplicemente alla tomba.

E se ne andò.

 

Javert non era stato sorpreso, a distanza di anni, di scoprire che l'Amortentia sapeva ancora di lei.

 

Salve, o folle popolo di EFP!

Tutto sommato, il santo protettore delle ship ha guidato la nostra mano, visto che mi è toccato il pairing a mio avviso più interessante (non ti è toccato, te lo sei preso, brutta imbrogliona! Saitou). Quando ho letto Javert, e Saitou ha estratto Lily, ho esclamato “Oh, grande!” e mi ci sono subito fiondata.

Non sono soddisfatta del tutto, ho il terrore folle di aver reso Javert OOC come mai in vita mia, per quanto mi sia sforzata di non snaturarlo troppo. Ed ora alcune precisazioni, per rendere la storia più chiara:

*Ho sempre avuto quest'idea che Javert non sapesse evocare un Patronus, in parte perché la felicità sembra piuttosto estranea alla sua natura, in parte perché, sopratutto da giovane, non aveva molti motivi di essere felice.

**Ho dato per scontato l'idea che Lily fosse prefetto di Grifondoro, insieme a Lupin.

***Il perché di questo accenno a Fantine lo capirete tra qualche capitolo.

Nota: nel linguaggio dei fiori, il rosmarino vuol dire “ricordo” e il garofano “ti ho amato a tua insaputa”, ecco perché Javert li mette sulla tomba di Lily. Il titolo è un verso della Divina Commedia.

Sayonara!

Catcher

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Capitolo 3
*** L'odio non muore mai ***


“Odierò, se potrò, altrimenti amerò, controvoglia.”
Ovidio

L'ennesimo grido squarciò il silenzio immobile della stanza, e la figura del prigioniero si contorse sul tavolo a cui l'avevano legato, per poi ricadere con un ringhio strozzato sulla dura superficie di legno.

Bellatrix Lestrange sorrise, il sorriso sadico e perverso di una bambina che tortura il suo giocattolo, e mosse di nuovo la bacchetta, quasi sprezzantemente. Un altro grido proruppe dalla sua vittima inerme. Sotto di lui, una piccola pozza di sangue si allargava e colava sul pavimento con un lento gocciolio.

-Allora?- domandò- Non sei stanco? Non sarebbe migliore se tutto questo strazio finisse?

Dal tavolo a cui l'avevano incatenato, perché lei potesse impunemente torturarlo, Jean Valjean alzò lentamente la testa e la fissò. Ansimava, un rivolo di sangue gli scendeva dalla bocca, e tutto il suo corpo fremeva in reazione alle maledizioni che lei gli aveva scagliato. Ma nei suoi occhi non c'era una sola scintilla di odio.

Non una.

Bellatrix storse la bocca. -Si può sapere cosa speri di ottenere? Non potrai salvarli, nessuno di loro. I tuoi amici dell'Ordine, il tuo amico Ispettore, la tua disgustosa, preziosissima figlia. Moriranno tutti. Provvederò personalmente. Ma dammi un'indirizzo, dimmi dove posso trovarli, e ti garantisco che la tua piccoletta avrà una morte rapida e indolore.

Nulla cambiò, nel viso di Jean Valjean. Aveva sempre dipinta sul volto quell'espressione stoica ed impassibile che Bellatrix Lestrange aveva imparato a conoscere e a disprezzare. Quando parlò, la sua voce era calma.

-Stai perdendo il tuo tempo- disse.

Bellatrix storse di nuovo la bocca. -Che vuoi dire?

Valjean si sollevò un poco dal tavolo. -Semplicemente questo: se credi di poter farmi scrivere quello che non voglio scrivere, di farmi dire quello che non voglio dire, ebbene...

I muscoli del braccio sinistro ebbero una contrazione improvvisa, e poi Valjean urlò, un grido orribile che sembrava più un ruggito, mentre con uno strattone violento faceva scivolare il polso e la mano attraverso l'anello di ferro che lo assicurava al tavolo della tortura.

L'uomo ricadde sul piano di legno, ansimando pesantemente, il viso solcato da lacrime di dolore; poi, lentamente, alzò il braccio. E persino Bellatrix Lestrange distolse lo sguardo con un moto di disgusto: la pelle sul polso era rivoltata come un guanto, attraverso il rosso sanguinolento della carne s'intravedeva il bianco delle ossa.

-Guarda- sussurrò con un filo di voce.

In quel momento Bellatrix lo odiò, lo odiò più di quanto lo avesse mai odiato da che lo conosceva: odiò la sua incrollabile forza di volontà, il suo disgustoso spirito di sacrificio, la sua fede cieca ed iremovibile in un Dio pietoso e bugiardo. Lo odiò più di quanto lo avesse mai odiato... se si eccettuava il giorno in cui lo aveva conosciuto.

 

“Gli sciocchi che portano il proprio cuore con orgoglio sul bavero, che non riescono a controllare le emozioni, che si crogiolano nei ricordi tristi e si lasciano provocare così facilmente... gente debole, in altre parole... non hanno alcuna possibilità contro l'Oscuro Signore!”*

Se quello che diceva Piton era vero, allora, Jean Valjean non avrebbe potuto definirsi altro che uno sciocco e un debole.

Eppure, a vederlo non sembrava. E non perché fosse più grosso e più forte di chiunque altro Bellatrix avesse mai conosciuto. C'era qualcosa, nei suoi occhi, che parlava di un animo che non si sarebbe piegato facilmente, anzi, che non si sarebbe piegato mai.

Bellatrix ricordava bene il giorno in cui se n'era resa conto per la prima volta.

Lei e il suo gruppo di futuri Mangiamorte avevano preso di mira una ragazza. All'epoca Bellatrix non aveva idea di come si chiamasse, anche se negli anni a seguire avrebbe ricordato con astio il suo nome: era una ragazza di Grifondoro del quarto anno, e si chiamava Fantine.

Non ricordava più che cosa le avessero detto, ricordava solo che Jean Valjean si era messo di mezzo.

-Che cosa sta succedendo qui?

Si era frapposto fra loro e la ragazza, gli occhi fissi sul loro gruppetto senza traccia di paura, e Bellatrix l'aveva guardato, affondando lo sguardo nelle iridi nocciola di lui. Gli occhi di Valjean avevano ricambiato il suo sguardo, senza paura ne' disprezzo.

Non sapeva bene cosa l'avesse colpita in lui; solo molti anni dopo, ripensandoci, se ne sarebbe resa conto con chiarezza. Le avevano sempre insegnato a credere che una caratteristica imprescindibile del bene fosse la debolezza, e lei ci aveva sempre creduto: negli anni a venire ne avrebbe visti tanti, dei cosidetti “buoni” perdere il controllo, prostarsi ai loro piedi privi di ogni difesa e piagnucolare per la loro salvezza, ed era giusto che fosse così, perché la pietà, l'amore,la misericordia ti creavano nuovi nemici, nemici che un giorno o l'altro avrebbero potuto colpirti alle spalle; meglio, allora, eliminare subito chi avrebbe potuto nuocerti, e indurire il proprio cuore, trasformarlo in un mero strumento di sopravvivenza, perché così nulla avrebbe potuto ferirti, nulla avrebbe potuto farti vacillare.Ma in Valjean non aveva visto nulla di tutto questo. In piedi di fronte a lei, quel giorno lontano, non aveva mostrato ne' paura ne' esitazione, semplicemente il desiderio di difendere la ragazza che si rifugiava, tremante ma spavalda, dietro le sue spalle. Nel petto di Bellatrix si era agitato uno strano impeto di ammirazione, e sì, anche di qualcos'altro: qualcosa che sulle prime non era riuscito a definire, ma che col tempo aveva acquistato un nome e un peso preciso: desiderio.

In quel momento, mentre era in piedi di fronte a lei, con le iridi nocciola tranquillamente fisse nelle sue, Bellatrix Black l'aveva desiderato.

-Levati dai piedi, lurido Mezzosangue- aveva sibilato Lucius Malfoy con tutto il disprezzo che era riuscito a caricare nella sua voce calda e modulata.

Bellatrix osservò Valjean, incuriosita, chiedendosi come avrebbe reagito. Non reagì. Si limitò a scrollare le spalle.

-Ho detto levati dai piedi, oppure provvederemo a farti sloggiare- quello di Lucius era stato un ringhio.

Altra scrollata di spalle. -Fate pure.

-Che spavalderia- aveva riso allora Avery- E come pensi di affrontarci, tutto da solo?

-Non è da solo- aveva risposto Javert, sbucando alle sue spalle e mettendosi al suo fianco.**

Bellatrix non gli prestò attenzione. I suoi occhi erano fissi sul Valjean, in un'avida attesa della sua reazione. Non sembrava cercare la lotta, ma nemmeno temerla. Semplicemente, attendeva.

Le bacchette eranio state sfoderate, tutti si erano messi in posizione, e già l'aria vibrava della caratteristica tensione che precede la battaglia, quando la Professoressa McGranitt era sopraggiunta, ponendo bruscamente fine al loro confronto. Era stato in quel momento, o meglio, pochi secondi dopo, che il desiderio di Bellatrix Black nei confronti di Jean Valjean si era tinto della sanguigna sfumatura dell'odio. Bellatrix non l'avrebbe mai dimenticato.

Nel seguire i suoi compagni che battevano in ritirata si era voltata a guardare, per un istante, il loro avversario. Valjean era vicino a Fantine e le chiedeva come stesse. E in quel momento, mentre gli occhi di lui erano fissi su quell'insopportabile bambolina bionda, il sorriso che gli sollevava le labbra era così sincero, così vero, che sarebbe stato praticamente impossibile dubitare di quanto il suo animo fosse profondamente, innatamente buono.

In quel momento, Bellatrix Black l'aveva odiato.

 

Nei mesi seguenti, lo aveva osservato. Lo aveva studiato, e credeva di essere riuscita, almeno in parte a comprenderlo. Non era un compito così facile come poteva sembrare: Javert era facile da inquadrare, spietato ed impersonale come la Legge che credeva di rappresentare, e Fantine era immersa in un suo mondo in cui l'amore esisteva, e il lieto fine era sempre presente. Valjean non era così ingenuo, eppure si avvertiva in lui un candore che sconcertava. Ad Hogwarts si era guadagnato la nomea di difensore degli oppressi,e tutti tra le Case lo avevano in simpatia, esattamente per quelle qualità di lealtà, bontà, onestà che gli avevano guadagnato un posto nella casa di Tassorosso. Persino attraverso la barriera dei suoi modi bruschi, si avvertiva un animo gentile e un incrollabile spirito di sacrificio. Jean Valjean non mentiva, non rubava, non faceva del male. Era semplicemente se stesso.

Quel che era ancora più sconcertante era il fatto che lui non fosse minimante consapevole di tutto questo. Era come se non si accorgesse di emanare luce e calore, di infondere in chiunque lo osservasse un immediato senso di protezione. Lui era puro, ma ne era ignaro, e questo fatto in qualche modo lo elevava ancora di più. C'era in lui una semplice dignità che annullava l'umiliazione.

Jean Valjean emanava luce, e Bellatrix Black era attratta da quella luce in un modo peverso, alla stessa stregua di una falena che anelasse la fiamma di una lucerna. La desiderava, la contemplava, anelava di stringerla tra le sue mani e di vederla palpitare tra le dita, debole e calda come la fiamma di una candela. E, nelle profondità più segrete del suo animo, lì dove custodiva i pensieri che non potevano essere rivelati, Bellatrix nutriva la sua fantasia più profonda e segreta, il sogno delirante che l'avrebbe tormentata persino nelle fredde notti di Azkaban.

Sognava di stringere la luce di Valjean e di sporcarla, di macchiare il candore di quell'anima con le spirali rosse e nere del sangue e dell'odio. Sognava di corrompere quell'anima che di corrotto non aveva nulla, di veder lentamente appassire e morire quell'impronta di santità che si scorgeva attraverso le chiare iridi nocciola di lui. Sognava di marchiare a fuoco sulla sua anima il simbolo di ogni possibile peccato, di donare tutta quella forza e quella volontà alla causa che serviva.

In un angolo del suo cuore, Bellatrix era perfettamente cosciente del fatto che corrompere Valjean avrebbe rappresentato per lei l'unica possibilità di possederlo veramente. Solo se fosse riuscita a spingerlo oltre il segno di quella sottile linea al di là della quale non c'è redenzione lui sarebbe potuto essere veramente suo. Perché finché Bellatrix fosse stata Bellatrix e Valjean fosse stato Valjean, lei non avrebbe mai potuto amarlo. Erano troppo diversi, percorrevano sentieri opposti, e Bellatrix non poteva accettare di provare una simile attrazione per un essere che rappresentava tutto ciò che lei detestava.

Così lo odiò, perché non aveva scelto.

Lo odiò con la stessa intensità con cui l'avrebbe amato se avesse potuto farlo.

Lo odiò perché non voleva amare.

 

A distanza di anni da quel giorno, Bellatrix Lestrange scoppiò a ridere.

-Non male, come giochetto di prestigio- sibilò, sprezzante- Ma dimmi, conserveresti ancora la tua ferrea determinazione, se legata su quel tavolo ci fosse tua figlia?

Lo sguardo di Valjean rimase tranquillo e limpido come un lago di montagna. -Non arriverai mai a lei.

Bellatrix rise di nuovo, una risata malvagia, strozzata, e si avvicinò al tavolo, chinandosi sul prigioniero fino a che tra i loro visi non vi furono che pochi millimetri d'aria. Delicatamente, quasi come se non volesse fargli male, sfiorò con la punta delle dita le labbra insanguinate di lui.

-E chi me lo impedirà?- sussurrò, e la sua voce era quasi gentile- Il tuo Dio, forse? Se ti amasse quanto dici, non ti avrebbe abbandonato qui, o sbaglio? La tua adorata figlioletta? Non durerà nemmeno un secondo, il giorno in cui me la troverò davanti. Il tuo amico Ispettore? È mille miglia lontano da qui, e non potrà salvarti. Chi ci è rimasto? Mmmh, vediamo... ah, sì, la tua amatissima moglie! Me la stavo quasi dimenticando! Che dici, Valjean? Sarà lei a proteggere te e tua figlia, dalla tomba?

Nel momento in cui nominò Fantine, sentì Valjean sussultare, la mascella stringersi fino a far scricchiolare i denti.

-Oh, poverino, ho toccato un tasto dolente?- mormorò Bellatrix. -Ti manca molto, non è vero? Chissà come devi sentirti solo, la notte, mentre dormi in un letto vuoto senza la tua sposa accanto. Ma se è di una donna che hai bisogno, posso essere io a rimediare...

Lo baciò. Lentamente e a lungo, godendosi il sapore del sangue sulle sue labbra. Valjean era immobile sotto di lei, e Bellatrix riusciva quasi a percepire il disgusto che lo agitava, e qualcosa in lei ne godette. Indugiò a lungo sul labbro inferiore,quasi illudendosi di potergli in qualche modo trasmettere l'oscurità che si sentiva dentro.

Quando si sollevò, gli occhi di lui la fissarono, pieni di ribrezzo, e Bellatrix rise, leccando via il sangue che aveva assaggiato dalla sua bocca. E mentre rideva, ricordò l'unica altra volta in cui Valjean l'aveva fissata con quella luce omicida negli occhi.

 

Era riuscito a penetrare nel loro rifugio, a giungere alla cella che cercava facendosi largo tra i Mangiamorte solo per vedersi morire tra le braccia la moglie. La disperazione che emanava era una sensazione quasi fisica, una carezza che Bellatrix sentiva su ogni centimetro della proprio pelle. Valjean era in piedi di fronte a lei, il volto rigato di lacrime e la guardava, e c'era odio nel suo sguardo. Sì, proprio odio, un odio puro, illimitato, distruttivo. Gli occhi che la fissavano ardevano di una fiamma che sembrava in grado di bruciarla viva, e quella fiamma era la cosa più bella che Bellatrix Lestrange avrebbe mai visto. Rise, sentendosi vicina alla vittoria.

In mezzo a loro, il cadavere di Fantine giaceva abbandonato come una bambola rotta. Persino lei, la sognatrice, ingenua Fantine si era rivelata di una tempra più forte di quanto Bellatrix avesse previsto. Aveva deciso di rapire lei, in modo che potessero estorcerle l'ubicazione dell'Ordine della Fenice proprio perché la riteneva più debole degli altri, ma Fantine non aveva ceduto. Mai. Nemmeno quando le avevano tagliato i capelli, quei suoi bei capelli che un tempo erano stati per Bellatrix motivo d'invidia. E aveva riso, Bellatrix, mentre una ad una le ciocche d'oro cadevano sul pavimento, aveva riso con lo stesso godimento di una bambina maligna che sfregia la sua bambola.E ad ogni sfregio che le faceva aveva provato un oscuro piacere, perché sapeva che ogni ferita inflitta a lei sarebbe stato un marchio a fuoco sull'anima di Valjean.

Ma Fantine non aveva ceduto. Nemmeno quando le avevano strappato i denti. Esattamente come avrebbe fatto suo marito diciassette anni dopo di lei, Fantine non aveva rivelato nulla.

E ora, in piedi di fronte a lei, Valjean la fissava, il volto trasfigurato da una smorfia di furia omicida,

-L'hai uccisa- mormorò. La sua voce era calma, ma nel suo sguardo l'incendio infuriava.

-SÌ!- rise Bellatrix, quasi piegata in due- Sì, l'ho uccisa, la tua bella mogliettina, ma non è più tanto bella, adesso, vero? Guardala, guardala adesso, senza più tutti quei capelli, e senza più i suoi bei dentini, è bella adesso, vero?

-Stupeficium.

Valjean mosse appena le labbra,la voce mortalmente piatta, e l'incantesimo colpì Bellatrix in pieno petto, mandandola a sbattere contro la parete. Un “Expelliarmus” appena mormorato, e la bacchetta le volò dalla mano.

-Incarceramus- sussurrò Valjean, e Bellatrix si sentì mozzare il respiro, tutto il suo corpo serrato da legami invisibili.

Lui era di fronte a lei, adesso, la sovrastava, la bacchetta levata sopra la sua testa come una sentenza di morte. Continuava a piangere.

-L'hai uccisa- sussurrò.

Bellatrix lo fissò, e i battiti del suo cuore accellerarono, mentre una strana estasi sembrava riempirla. Finalmente erano giunti al momento che sognava da anni, l'anima di Valjean brillava negli occhi che la fissavano, corrotta dall'odio e dal desiderio di vendetta. E nel momento in cui la sua bacchetta si sarebbe mossa e le sue labbra avrebbero pronunciato le parole che segnavano la sua dannazione, Bellatrix avrebbe saputo di aver vinto. Aveva rubato la sua anima a Dio. E macchiandosi le mani col suo sangue, Valjean si sarebbe reso definitivamente, irrevocabilmente suo.

-Uccidimi, allora- ringhiò- Che aspetti? È quello che vuoi, vero?

Tutto il suo corpo si tese, preparandosi al colpo.

Che non arrivò.

Sotto gli occhi stupefatti di Bellatrix, Valjean abbassò la bacchetta. -No.-replicò- Non è quello che voglio.

Bellatrix lo fissò, sbattendo le palpebre.-Cosa stai dicendo?

Valjean abbassò lentamente la testa per fissarla. Nei suoi occhi non c'era più odio. Solo lacrime.

 

 

Diciassette anni dopo, negli occhi di Valjean non c'era odio.

Bellatrix si staccò da lui, alzò la bacchetta per colpirlo di nuovo. Nel momento in cui preparava il colpo, i suoi occhi e quelli di Valjean s'incontrarono.

E, incredibilmente, Valjean sorrise.

Bellatrix arretrò di scatto, abbassando il braccio come se si fosse scottata. -Che cosa hai da ridere?!

-Tu non puoi vincere- ribatté semplicemente Valjean- Tu e il tuo signore disprezzate tanto l'amore, ma è l'amore che da' la forza di resistere a tutte le torture che una mente ristretta come la tua potrebbe inventare. Se io non voglio, tu non riuscirai mai a farmi dire quello che speri di sentire. Persino adesso, persino mentre mi torturi, sono più forte di te.

Bellatrix lo colpì sulla bocca con tutta la forza che aveva.

-Questo è quel che vedremo-sibilò, prima di lasciare la sala.

 

Quando seppe che Jean Valjean era fuggito, circa tre ore dopo, Bellatrix Lestrange urlò con tutto il fiato che aveva. Urlò tutta la sua frustrazione, la sua rabbia, il suo odio. Ma quando l'urlo le si spense in gola, i suoi occhi erano più determinati che mai.

Non avrebbe ceduto.

Alla fine, in quella partita per l'anima di Valjean, sarebbe stata lei la vincitrice.

 

-Mia figlia no, cagna!

Attorno a lei, la battaglia infuriava; Silente giaceva ai piedi della Torre di Astronomia, inerme e spezzato come una bambola rotta, sotto un cielo dominato dal Marchio Nero, ma a Bellatrix Lestrange non importava; in quel momento, contavano solo gli occhi di Jean Valjean, fissi su di lei, di nuovo carichi di quella furia omicida che lei ben ricordava.

Si preparò allo scontro, mentre Valjean si faceva avanti scostando sua figlia, la piccola, inerme Cosette, che Bellatrix avrebbe ucciso, se non fosse stato per il suo intervento.

Ancora una volta si affrontarono, ancora una volta furono maledizioni che volavano e s'infrangevano intorno a loro; ancora una volta, Bellatrix finì a terra.

Valjean incombeva su di lei, esattamente come quel giorno di diciassette anni prima, e Bellatrix fu certa che questa volta l'avrebbe uccisa, che doveva ucciderla, perché solo così si sarebbe concluso la guerra che dal quel lontano in cui i loro sguardi si erano incontrati per la prima volta, infuriava tra loro.

Ma ancora una volta, Valjean la sorprese.

-Non ti ucciderò- disse.

Bellatrix lo fissò con tutto l'odio del mondo.

L'uomo si accovacciò di fronte a lei, inclinando il volto in modo che fossero alla stessa altezza. -Non riuscirai a farmelo fare- disse infine- La mia anima non vale la pena di essere salvata, ma non la spingerò tanto a fondo; io sono migliore di così.

Sotto gli occhi stupefatti di lei, si alzò e le voltò le spalle,allontanandosi da lei.

Mentre fuggivano da Hogwarts, come quel lontano giorno di trent'anni prima, Bellatrix si voltò a guardarlo; come quel lontano giorno di trent'anni prima, lo vide, mentre stringeva tra le braccia la figlia, mentre gli occhi gli risplendevano di quella luce calma e gentile.

In quel momento, Bellatrix Lestrange comprese di avere perso, e in quel momento, per la prima volta nella sua vita, comprese che, forse, tutto l'odio del mondo non era sufficiente per sconfiggere l'amore di un singolo uomo.

 

* Parole di Severus Piton quando parla ad Harry dell'Occlumanzia.

**Il perché Valjean e Javert girano insieme verrà spiegato nel prossimo capitolo.

Per chi non l'avesse capito, il finale è ambientato nella notte della morte di Silente, e le parole che Valjean grida all'inizio dell'ultimo paragrafo sono le stesse che la signora Weasley rivolge a Bellatrix prima di ammazzarla (finalmente!).

 

Nel momento in cui è uscita questa coppia, ho pensato che sarebbe stato interessante scriverci sopra. Di due universi narrativi differenti, i personaggi che rispettivamente amo e odio di più: voglio dire, Valjean è l'emblema della santità e della fighezza, Bellatrix è un'assassina psicopatica che ha avuto una morte infinite volte meno dolorosa di quello che meritava. Ho il leggero dubbio di aver calcato troppo la mano... ma questo dovrete essere voi a dirvelo! Spero che il capitolo vi sia piaciuto, perché sinceramente questa è una delle poche volt in cui sono soddisfatta di quello che scrivo.

Un bacio, Saitou

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** Sirius Black vuole solo quello che non può avere ***




 

 

 

Nota: le storie seguono tutte più o meno una stessa linea temporale e abbiamo deciso di pubblicare due capitoli alla volta.
Buona lettura!
Saitou Catcher

Don't wish

don't start

Wishing only wounds

the heart

I wasn't born for the rose

and the pearl

Sirius Black si fermò all'improvviso nel bel mezzo del corridoio, chiuse gli occhi e cominciò a contare lentamente con aria annoiata: “Uno...due...”.

Si spostò di lato con un movimento elegante e fece un mezzo giro su stesso, finendo di contare con aria noncurante : “Tre”.

James Potter, che per poco non era ruzzolato giù per le scale, nel tentativo di coglierlo di sorpresa, gli lanciò uno sguardo rovente da dietro le lenti degli occhiali e si raddrizzò. “Come hai fatto a sentirmi arrivare?”

“Non è proprio difficile, sai, con quel tuo passo da bisonte” sogghignò Sirius. Toccò con la punta del piede l'angolo di un logoro libro che era uscito dalla borsa di James. “E' tuo questo?”.

L'altro gli restituì il ghigno. “Ti pare? E' il libro di Pozioni di Snivellius, gliel'ho fregato a lezione. Guarda un po'...” Chinandosi, prese a sfogliarlo con aria grottescamente concentrata. “ E' pieno di scarabocchi, ma c'è qualcosa d'interessante...ehi, guarda! Levicorpus... potrei sperimentarlo su di lui alla prossima lezione, che dici?”.

“Che torturare Snivellius alla lunga risulta un po' stantio” replicò Sirius, sbadigliando. “Non abbiamo niente di meglio da fare? A proposito, dove sono Lunastorta e Codaliscia?”

“Ancora in infermeria. Coda non si è ripreso dall'attacco di quella mandragora, e Remus ha voluto restargli vicino...” James incontrò lo sguardo del compagno e sbuffò. “Ho capito, non mi stai ascoltando.”.

E in effetti era vero. In quel momento gli occhi di Sirius erano fissi su una ragazza che camminava a passo svelto nella loro direzione, sbuffando per allontanarsi dagli occhi una lunga ciocca bionda. Nel momento in cui la ragazza urtò un altro studente, e i libri le si rovesciavano a terra, Sirius si mosse nella sua direzione come un automa, mentre James si appoggiava al muro, con un sopracciglio inarcato e l'aria di chi aspetta di divertirsi molto.

“Lascia, non ti disturbare” protestò la ragazza, vedendo Sirius che si chinava a raccoglierle i libri. Lui ne fece una pila e glieli porse. “Nessun disturbo. Dove andavi così di fretta?”

Lei scrollò le spalle, e il movimento leggero della chioma che le si agitava sulla schiena attirò i riflessi del sole, circondandola in un bagliore d'oro. “Esco da Pozioni. Tu?”.

“Incantesimi.” Sirius parlò con nonchalance, cercando d'ignorare quella sensazione piacevolmente fastidiosa alla bocca dello stomaco. Fece scorrere lo sguardo sui suoi lineamenti delicati, sulla bocca ben disegnata, in cui i denti bianchissimi risplendevano in un sorriso abbagliante. “Come ti senti all'idea del G.U.F.O.?”

Altra scrollata di spalle e altro sbuffo, mentre Sirius intrecciava dietro la schiena le mani improvvisamente sudate. “Non mi sentirò mai pronta, quindi è inutile che mi ci stresso. Tu?”.

“Calmissimo” replicò Sirius, con quell'aria di noncuranza ,addirittura di leggero disprezzo, che aveva imparato a mostrare di fronte alle sfide. Sulle ragazze funzionava sempre. Dava un'impressione di virilità che non guastava mai. “Del resto, Pasqua è vicina, manca ancora un po'. Non ha senso preouccuparsi ora.”

Lei sorrise, un sorriso leggero, distratto, e Sirius avvertì il suo stomaco sprofondare all'altezza dei piedi. Ricambiò il sorriso meglio che poté.

Sirius non aveva mai avuto problemi a trattare con le ragazze e, in generale, a conquistarle. Ma Fantine era un'altro paio di maniche. Sirius ricordava la prima volta che si era accorto di lei (l'osservava da tempo, perché era una splendida ragazza, e lui ci teneva a non lasciarsi sfuggire neppure una possibile occasione), durante la lezione di Cura delle Creature Magiche. Si era inchinata davanti all'Ippogrifo, guardandolo fisso negli occhi, e Sirius, semplicemente, come semplicemente accade di respirare, si era innamorato.Si era innamorato di quei meravigliosi occhi azzurri, che avevano tutte le sfumature del blu, dal celeste più cristallino al cobalto, si era innamorato nel vederla così dritta e fiera, eppure così delicata e aggraziata, una creatura dei boschi dall'animo d'acciaio temprato. E si era innamorato di lei nel sentirla ridere, quella risata fresca e piena, di chi ancora non conosce il male, ancora non conosce l'odio, e si era innamorato di lei nel vederla con quell'espressione seria, quasi austera, che la coglieva in certi momenti.

Si era innamorato.

Si era innamorato. E con quella sicurezza di poter avere tutto e subito, che è tipica dei ragazzi viziati, aveva dato quasi per scontato che lei fosse innamorata di lui. Dopotutto, lui era Sirius Black, e non c'era ragazza a Hogwarst che non non avrebbe venduto l'anima per essere invitata a uscire da lui. E Sirius ricordava ancora la prima volta che le aveva chiesto di uscire a San Valentino, certo, matematicamente certo, che la risposta sarebbe stata sì.

La risposta era stata no.

Gli aveva sorriso, quel sorriso leggero e distratto, maledizione, così distratto, e gli aveva detto che no, mi dispiace, me l'ha già chiesto un altro e io gli ho detto sì. E Sirius l'aveva guardata, senza trovare nulla da dire. Non ti dispiace, vero? No, certo che non mi dispiace, vorrei solo fare una fattura al bastardo che mi ha preceduto. Ma era passato un anno da quel giorno, e se anche Sirius avesse potuto dimenticarlo, a ricordarglielo ci avrebbe pensato quell'accenno di sorriso vago e distratto.

“Oh!” esclamò Fantine improvvisamente, e questo bastò per riportare Sirius alla realtà. Gli voltò le spalle, facendogli arrivare una zaffata del suo profumo in faccia, e corse a gettarsi al collo di un ragazzo che era appena uscito dall'aula alle sue spalle. Sirius provò a ignorare la mano gelida che gli stava contorcendo le viscere, ma invano.

Vorrei tanto, tanto sapere, cos'ha di speciale, perché stia con lui, e non con me.

Sirius Black aveva sempre avuto solo sporadici contatti con Jean Valjean.Era un ragazzo del suo anno, di Tassorosso, spesso sulle sue, che dava l'impressione di volersi sottrarre il più possibile agli sguardi. Era gentile, di quella gentilezza rude, che tiene a distanza e allo stesso tempo suscita la simpatia. Più che con lui, Sirius e gli altri Malandrini avevano avuto a che fare con Javert, che quell'anno era diventato il nuovo prefetto di Corvonero, che era appena spuntato alle spalle di Valjean, gettando attorno a sè uno sguardo gelido e stranamente impersonale per un ragazzo così giovane. Sarebbe stato difficile trovare due persone che si somigliassero meno, eppure Valjean e Javert erano amici dal loro primo anno e Sirius non si era mai particolarmente curato di loro.

Fino a quando lui e Fantine non si erano messi insieme.

Rimase a osservarli, in piedi, con le mani che stringevano i lacci della borsa, mentre parlavano. Lui la superava di tutta testa, e a vedere quella ragazzina minuta appendersi a quel braccio muscoloso, sembrava di osservare una farfalla posarsi sopra un ramo di quercia.

“Lascia perdere, amico”. Sentì sulla spalla la mano di James. “E' una causa persa”.

Sirius sbuffò. “Odio perdere. E nessuna causa è persa, se si ha voglia di vincerla”.

“Lascia perdere, ti dico. Non è roba per te, quella”.

“La lascierò perdere” replicò bellicoso Sirius, lanciandogli un'occhiataccia “quando tu lascerai perdere Lily Evans”.

“Ma là la cosa è diversa, amico. Lei è segretamente innamorata di me”.

Sirius sbuffò“Continua a sognare”.

“E tu continua a inseguire le chimere” ribatté James. “ E se vuoi sapere il mio parere...”.

“Non lo voglio sapere!” scattò Sirius, girandosi verso di lui. “Lasciami in pace!”

James spalancò la bocca, offeso e stupito da quella dichiarazione, e stava per ribattere,quando la mano di Remus Lupin sulla spalla lo interruppe.

“Oh, Lunastorta!” fece James. “E' un piacere vederti. Come sta Coda?”.

“Dovrà magiare omogenizzati per un mese. A parte quello bene.” Remus gettò un'occhiata a Sirius, ancora scuro in volto. “Che sta succedendo?”

“La solita storia”. Rispose James con un mezzo sorriso. “Sirius Black vuole solo quello che non può avere”.

***

 

 

Il secco pop prodotto dalla sua Materializzazione riempì improvviso il silenzio e Sirius Black trasalì quando, insieme alle pareti beige di quella che era la cucina dell'attuale sede dell'Ordine, i suoi occhi inquadrarono una figura bionda e a lui familiare, che si affacendava ai fornelli.

“Fantine!” esclamò, sorpreso, e tentando di nascondere il balzo che aveva fatto il suo cuore nel vederla “Che piacevole sorpresa!”

Lei trasalì appena voltandosi e un sorriso di sincero piacere le illuminò il volto, facendole risplendere i bei denti bianchi come perle “Sirius!” esclamò a sua volta, e andandogli incontro, scostò una sedia per offrirgliela, mentre sui fornelli soffriggeva un uovo e un coltello incantato tagliava velocemente le fette di bacon “Finalmente sei arrivato! Il professor Silente ne sarà felice...” mentre lei parlava Sirius prese posto accanto al piccolo tavolo. I suoi occhi vagarono sul piatto di ceramica, e le posate scintillanti nella penombra della piccola cucina.

“Mi aspettavate?” domandò con un leggero accento ironico.

“Oh, sì” e a quelle parole il suo cuore (il suo stupido, stupido cuore) prese a battere appena più velocemente “Il professore mi aveva detto che saresti arrivato prima degli altri. Quindi ho pensato che, beh, non era il caso di farti aspettare a stomaco vuoto”.

“Che pensiero carino” mormorò appena.

Non farti troppe illusioni. L'avrebbe fatto per chiunque altro dell'Ordine.

Però l'ha fatto per me.

Rimase a osservarla, i gomiti appoggiati sul tavolo, mentre lei si affacendava a dare gli ultimi ritocchi alla cucina con rapidi colpi di bacchetta. Gli piaceva ancora guardarla senza che lei se ne accorgesse. Con gli anni, la sua bellezza non era diminuita, ma era più riposata, più raccolta, e persino i suoi capelli, quei capelli color dell'oro che l'avevano fatto innamorare, adesso erano passati a una calda sfumatura di miele. Solo gli occhi non erano cambiati: erano ancora suoi, azzurri e sbarazzini, pieni di tutta la speranza e l'amore del mondo.

“Ecco qua” la voce di lei e l'uovo che fece scivolare nel suo piatto lo strapparono ai suoi pensieri. Prese a mangiare avidamente, rendendosi conto di quanto avesse fame. Fantine non si sedette, ma rimase in piedi dall'altra parte del tavolo, con le mani appoggiate a uno schienale.

“Sembra che tu sia tornato illeso” commentò lei, alla fine, rompendo il silenzio.

“ Sorprende anche me” replicò lui, tra un boccone e l'altro “ ma quando arrivi credendo di trovare dei Mangiamorte e una famiglia massacrata e scopri che invece si trattava di un paio di ragazzini che giocano a evocare il Marchio Nero per farsi belli davanti agli amici...” scrollò le spalle, come a dire che anche in caso di vero pericolo se la sarebbe comunque potuta cavare egregiamente.

Passò qualche altro istante di silenzio, rotto solo dallo sbattere dell'acciaio contro la ceramica, e infine Sirius alzò la sguardo. Fu colpito da quello che vide: gli occhi di Fantine brillavano tra le quattro pareti oscurate, quasi riempendola di luce propria, e le labbra le si erano sollevate in sorriso così pieno di gioia e aspettativa da far sembrare che nulla al mondo potesse andar male. Sirius nel fu colpito, e , in qualche modo, stranamente dispiaciuto: non un dispiacere vero e proprio, ma una puntina di gelido presentimento in fondo allo stomaco, che rese il suo interesse più circospetto che premuroso.

“E' successo qualcosa?” le domandò. Cerco di ricacciare il presentimento, giù, più giù, dove non potesse trovarlo. “E' evidente che muori dalla voglia di dirlo”.

Il sorriso di lei, se possibile, si allargò ancora di più, facendo balenare gli splendidi denti “Sì” disse “ in effetti, sì”. Abbassò lo sguardo, passandosi una mano sul ventre, e a quel gesto, la puntina di presentimento divenne come un chiodo che gli trafiggeva lo stomaco. “Volevo dirlo quando ci fossero stati tutti, ma... oh, basta, devo dirlo a qualcuno, non ce la faccio più a trattenerlo”. Sorrise di nuovo, alzando lo sguardo su di lui. “Sono incinta”.

In seguito, quando avesse tentato di rievocare la sensazione che provò in quel momento, Sirius avrebbe ricordato una sensazione fredda a graffiante, come di un qualcosa di gelido che gli fosse improvvisamente cresciuto nello stomaco, andando poi a occludergli la gola, e rendendogli faticoso il respiro. E in tutto ciò, l'unico suono che riuscì a emettere fu “Ah”.

Sposati da due mesi, ed è già incinta. Sei fottuto, Sirius.

Abbassò gli occhi, come se le decorazioni azzurre sul piatto bianco fossero diventate la cosa più interessante del mondo, e prese a disegnare ghirigori nello strato di tuorlo rimasto nel piatto, concentrandosi sulle evoluzioni della forchetta per escludere il resto.

Dopo qualche istante, alzò di nuovo lo sguardo e incontrò quello azzurro di Fantine, chiaramente delusa che la notizia per lei tanto felice fosse stata accolta con tanta freddezza. Si sforzò di sorridere. Non gli riuscì molto bene. “E' fantastico. Davvero”.

Fantine tornò a illuminarsi. “Lo so.”

“A quando il lieto evento?” I muscoli della faccia cominciavano a dolergli per la fatica di tenerli tesi nel sorriso più falso della sua vita.

“ Metà maggio, più o meno. Me la porterà la primavera.”

Sirius inarcò le sopracciglia. “La?”.

“Sono convinta che sarà una femmina. E anche Jean lo è.”

Ah già, è vero, Jean. Sarà in brodo di giuggiole.

Continuando a tenersi appiccato alla mascella quel sorriso sintentico, Sirius riuscì a spostare la conversazione su altri argomenti, e presero a parlare del più o del meno. E ogni qualvolta che, anche distrattamente, la mano di Fantine scendeva ad accarezzarsi il grembo, i pensieri di Sirius s'ingarbugliavano, immaginando quella piccola vita che cresceva e gliela portava definitivamente via, anche se non era mai stata davvero sua.

 

Quando Fantine fece l'annuncio, iniziò la solita ridda di commenti, congratulazioni e brindisi che sempre seguono queste occasioni.Sirius se ne andò prima che poté, dopo aver stretto la mano al futuro padre ( lui non sa cosa darei per essere al suo posto, o forse lo sa, e non gli importa, perché ormai ha vinto) e aver rinnovato a Fantine le sue congratulazioni, senza guardarla negli occhi. Scivolò, catturando appena uno sguardo di James sulla soglia. James sapeva. James capiva, e questo rendeva tutto un po' più semplice. Almeno un po'.

Perché soffriva così tanto? Valjean e Fantine stavano insieme dal quarto anno.Era ovvio che sarebbe finita così. Si erano anche sposati. Ma solo adesso, solo adesso, si rendeva conto di averla sempre desiderata e che non l'avrebbe mai avuta. E mentre camminava in silenzio, nel morbido suono dei suoi passi contro l'asfalto, echeggiava un solo pensiero.

Sirius Black vuole solo quello che non può avere.

 

Ok, diciamocelo, questo capitolo fa ampiamente schifo, il che mi fa abbastanza rosicare, visto che la coppia era una delle mie preferite tra quelle estratte. E averlo scritto dopo quello di Saitou mi abbatte. Ok, sto esagerando con l'autocommiserazione. Cronologicamente parlando, la prima parte si colloca durante il quinto anno di Sirius a Hogwarts, la seconda qualche mese prima che nasca Harry. Non mi piace per niente com'è è venuto, ma vabbé, non riesco a inventarmi di meglio.Chi indovina da dove è presa la canzone all'inizio, avrà un cioccolatino.

Questo capitolo è ancora passabile di modifiche, perché oggi ero poco ispirata, ma ora non mi va di rifarlo.

Sayonara!

Catcher

 

 

 

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Capitolo 5
*** Va tutto bene ***


Il dono della serenità è nascosto nel cuore di ciascuno di noi.”

Paulo Coelho

 

 


Try not to get worried,
try not to turn on to
Problems that upset you
Don't you know
Everything's alright,

yes, everything's fine?

 

Quando fece il suo ingresso nella guferia, spalancando la porta con tanta violenza da mandarla ad urtare contro la parete, Harry Potter sentiva una sorda rabbia ribollirgli al centro del petto. Sul dorso della mano, le parole che la Umbridge l'aveva costretto ad incidersi sulla pelle bruciavano, rosse del sangue che le componeva, rosse come la rabbia che in quel momento lo animava. Le fissava, Harry, e più le fissava, più l'ingiustizia di quelle parole -Non devo dire bugie, Non devo dire bugie- accresceva l'amarezza del fiotto di bile che gli risaliva la gola.

Era troppo. Tutto stava diventando troppo. La Umbridge, l'opposizione del Ministero, gli sguardi dubbiosi che lo seguivano ovunque, avidi di sapere, e allo stesso tempo sprezzanti, forti della loro convinzione che lui fosse un pazzo; Silente che non lo degnava di uno sguardo, Sirius che non poteva stargli vicino, Ron e Hermione sempre troppo intenti a battibeccare tra loro per prestargli davvero attenzione; e poi Piton, lui e le sue massacranti lezioni di Occlumanzia, lezioni che non impedivano ai pensieri di Voldemort di penetrare nella sua testa, di accendergli la cicatrice di un calore che gli impediva di dormire; tutto era troppo, e tutto minacciava di schiacciarlo. Era come se, giorno dopo giorno, la sua stessa vita si stesse tramutando in una gabbia che gli si chiudeva inesorabimente intorno, e non c'era nulla che lui potesse fare per sfuggirle; di quella gabbia ne sentiva il peso e la consistenza, ed era come venirne soffocato lentamente.

Attorno a lui, i gufi agitarono le ali, contagiati dalla sua irritazione, ma Harry non se ne curò; l'urlo che gli si gonfiava in gola minacciava di soffocarlo.

-Vaffanculo!- sbottò, sferrando un calcio violento al suolo- Vaffanculo Caramell, la Umbridge, Silente, l'Ordine, tutti, e Caramell e la Umbridge di nuovo, già che ci siamo!

Si chiuse con violenza la porta alle spalle, e solo allora si accorse che il suo sfogo non era passato inosservato. Una ragazza lo fissava, in piedi di fronte a lui, le mani che delicatamente andavano ad accarezzare le ali di un gufo.

Harry la fissò, e tutta la sua rabbia sembrò sbollire in un solo colpo, mentre una vampata di umiliazione gli accendeva le guance. Cercò disperatamente qualcosa di intelligente da dire, ma il suo cervello sembrava essersi improvvisamente svuotato.

-Buo... buongiorno- riuscì a balbettare, maledicendosi mentalmente per quella risposta così idiota.

Incredibilmente, lei gli sorrise, ed Harry la fissò, chiedendosi dove diavolo l'avesse già vista, e allo stesso tempo incapace di credere di averla conosciuta e poi dimenticata. Il sorriso che in quel momento gli stava rivolgendo possedeva una dolcezza che sembrava illuminarla dall'interno, accendendo di un morbido bagliore gli occhi più azzurri che Harry avesse mai visto; era alta, snella e delicata, con un viso dai tratti fanciulleschi circondato da folti capelli biondi, che ricadevano in lunghe ciocche dorate fino alla schiena.

In breve, era la ragazza più bella che Harry avesse mai visto.

-È successo qualcosa?- domandò poi lei. Persino la sua voce era dolce e delicata, trillante come quella di un uccellino.

Harry trasalì, improvvisamente strappato alle sue fantasticherie. -Eh, come, scusa? No, non è successo niente, va tutto...- s'interruppe, capendo a cosa lei si riferiva, e di nuovo il rossore salì a inondargli le guance. -Oh. Nulla. Scusami, non volevo spaventarti- borbottò, gli occhi fissi sul pavimento.

Lei gli sorrise, e i suoi occhi ritornarono a posarsi sul gufo, che sbatteva le ali irrequieto. Le mani di lei gli accarezzarono delicatamente il capo, e l'animale smise immediatamente di agitarsi, sistemandosi ordinatamente sul suo trespolo.

Harry la osservò, ammirato, mentre con dita celeri annodava un biglietto alla zampa del gufo e lo sollevava, il viso teso per lo sforzo, e raggiungeva le finestre. Le sue labbra si muovevano, ma da quella distanza il giovane non riusciva a capire se stesse cantando o parlando fra sé.

Il gufo aprì le ali e superò la finestra, inoltrandosi nell'azzuro fresco del mattino, e la ragazza lo seguì con lo sguardo, gli occhi della stessa tonalità del cielo. Quindi si voltò verso di lui, le labbra di nuovo sollevate in quel sorriso.

-È per la Umbridge, vero?- domandò- So che ti sta facendo passare le pene dell'inferno- mentre parlava, accennò col mento alla mano di lui, chiusa a pugno contro il suo fianco.

-Sì- rispose Harry, sentendosi quasi infastidito dal tono di lei- ma non preoccuparti, va tutto bene.

-A me non sembra- ribatté lei, e nella sua voce non c'era la benché minima nota di sarcasmo. Si portò vicina ad un altro gufo, frugando nella veste per poi estrarne una scatoletta da cui attinse del mangime. Harry la seguì con lo sguardo, notando come i gufi si placassero immediatamente in sua presenza.

-Vieni spesso qui?- si trovò a domandarle.

-Sempre- rispose lei, accarezzando l'ala di un gufo- Silente sa che mi piace occuparmi ei gufi, e mi ha dato il permesso di venire qui tutte le volte che voglio. Sono belli, non trovi?- mentre parlava, fissò gli occhi azzurri in quelli arancioni dell'uccello, che le picchiettò delicatamente col becco sul naso.

-Già- rispose lui. -Beh, allora vado. Non vorrei infastidirti.

-Non mi dai fastidio- ribatté tranquillamente lei.

Harry si fermò, stupito, e per un istante sembrò sul punto di andarsene: ma una parte di lui desiderava restare, assorbire la serenità che sembrava alegiasse attorno a lei.

Si sedette, e con assoluta naturalezza, la ragazza incominciò a parlare; parlò di tutto, del tempo, dei gufi, delle lezioni, persino del Quidditch. Harry dapprima ascoltò, poi si ritrovò a rispondere, e infine rise con lei, unendosi alla sua risata fresca e argentina, simile al tintinnio di un campanello. Più parlavano, più la rabbia che fino a poco prima gli rodeva le viscere sembrava scomparire, assorbito da un quasi assurdo senso di serenità e di freschezza, come se, semplicemente con le sue risate, quella ragazza avesse il potere di allontanare tutti i demoni che lo attorniavano. In quella breve ora, Harry scordò la Umbridge, scordò il Ministero, lasciò che tutto quello che fino a poco prima era sembrato schiacciarlo scomparisse; per il breve spazio di un'ora, la vita gli sembrò semplice, gli sembrò bella, ed Harry Potter cessò di essere quello che era sempre stato, per diventare un normale ragazzo di quindici anni.

Quando infine arrivò il momento di recarsi a lezione, il rimpianto gli serrò le viscere in una stretta amara. Si alzò lentamente, esitando, quasi volendo prolungare quell'attimo di congedo.

-Io vado- sussurrò. Rimase immobile, turbato. Sarebbe stato un ottimo momento per ricordarsi il nome di quella ragazza, ma in quel momento tutto ciò che in realtà avrebbe voluto dirle era Grazie.

Lei gli sorrise, e qualcosa in lui sembrò sciogliersi. Gli si fece più vicina mentre gli passava accanto, alzando delicatamente una mano per salutarlo.

La seguì con lo sguardo, e fu solo quando fu sul punto di svoltare l'angolo che trovò il coraggio di dirle qualcosa di un po' diverso da quelle che erano le sue intenzioni, ma altrettanto vero e concreto.

-Potrei venire di nuovo qui, qualche volta?- le gridò.

Lei si voltò a guardarlo, ed Harry si lasciò annegare in quegli occhi così azzurri, nel sorriso infinitamente dolce che le sollevò le labbra.

-Mi piacerebbe- rispose infine.

 

Quando il giorno dopo si recò di nuovo alla Guferia, Harry sapeva già tutto quello di cui aveva bisogno sulla ragazza che in quel momento lo attendeva.

Hermione gli aveva detto che il suo nome era Cosette Valjean e, come loro, era stata smistata nella casa di Grifondoro,( non riusciva a capacitarsi di come avesse potuto averla vicina per anni senza mai notarla); suo padre era un membro dell'Ordine della Fenice, anche se Harry non lo aveva mai conosciuto; infine, eccelleva in tutte le materie, era generalmente benvoluta, (sopratutto dalla popolazione maschile di Hogwarts) e faceva parte di un gruppo di studenti conosciuti unicamente come Lés Amis; per il resto, di lei non si sapeva molto, in quanto era noto che fosse una ragazza abbastanza riservata.

Ma Hermione non avrebbe mai potuto dirgli che quando Cosette rideva, il mondo intero sembrava ridere con lei. Ed Harry non avrebbe mai potuto descrivere, nemmeno se avesse voluto, il senso di pace e di calore che sentiva nascere nel suo petto ogni volta che gli occhi azzurri della ragazza si posavano su di lui.

Ritornò alla Guferia. Cominciò a capitarvi ogni giorno, sempre alla stessa ora, e ogni volta la trovava, pronta ad accoglierlo con un sorriso e carica di aneddoti divertenti. Parlavano di tutto, letteralmente, per ore, e accanto a lei Harry sentiva di non doversi più preoccupare; nelle brevi ore che riempivano con la loro conversazione il mondo intero sembrava rimpicciolire e tutto acquistava una sua dimensione, più tranquilla, più familiare, nei quali i problemi erano quelli della vita normale, e non quelli di una guerra sempre incombente su un mondo dominato dall'angoscia e dalla sfiducia.

Presto, cominciò a confidarsi. Le parlò di Voldemort, della Umbridge, di Piton, di tutto quello che lo angosciava: sfogarsi era un modo come un altro di rendere un po' meno soffocante la gabbia che gli gravava sul petto. Le disse tutto quello che sapeva, senza tralasciare nulla, perché di lei sapeva di potersi fidare, perché non poteva esserci ne' trucco ne' inganno nello sguardo limpido di Cosette Valjean.

Harry non avrebbe mai dimenticato quel giorno. Quel giorno in cui le lacrime si erano affacciate per la prima volta nei suoi occhi e avevano minacciato di scivolargli sul viso. Non ricordava nemmeno cosa fosse stato ad esasperarlo in quel modo. Aveva provato a resistere, davvero, aveva tentato. Ma poi il dolore era stato troppo forte, e il suo pugno si era abbattuto con violenza sul pavimento, mentre un singhiozzo sordo gli lacerava il petto.

Nella nebbia creata dalle sue lacrime non si era accorto che lei si era mossa fino a che non l'aveva sentita sedersi accanto a lui con un fruscio.

Aveva chiusa gli occhi. Non voleva vederla, bruciava di umiliazione all'idea che lei lo avesse visto piangere. Poi, la mano di lei si era insinuata tra i suoi capelli. Un tocco gentile, leggero, che lo aveva riscaldato fin nel cuore.

-Harry- fu appena un sussurro.

Harry serrò la mascella, si costrinse ad inghiottire il nodo che gli aveva serrato la gola.

-Harry, guardami.-

Lui lo fece. La vedeva appena, attraverso il velo di lacrime che gli annebbiava la vista, ma bastò.-

Cosette ricambiò il suo sguardo, nei suoi occhi tutta la dolcezza del mondo. Poi lo abbracciò.

Era rimasto immobile, incapace di reagire, il calore di lei che lentamente lo colmava. Le braccia di lei lo avevano circondato, delicate, gentili, le loro guance che si toccavano.

-Andrà tutto bene- queste erano state le sue parole.

Ed Harry avrebbe voluto crederci, avrebbe voluto crederci davvero, e in quel momento sembrava quasi possibile, mentre le braccia di lei lo stringevano e lo cullavano, e il dolore e l'amore di lei sembravano fargli da scudo, come se solo abbracciandolo avesse potuto proteggerlo dal mondo intero.

Aveva annuito, senza più forze.

Allora, Cosette aveva incominciato a cantare.

Non si era preoccupato di distinguere le parole, aveva semplicemente lasciato che la voce distante e gentile di lei lo colmasse. E lei aveva continuato a cantare, e la sua canzone parlava di castelli sulle nuvole, di luoghi in cui nessuno piangeva e nessuno era perso. E quando ebbe finito di cantare, il cuore di Harry era calmo.

-Che cos'è?- sussurrò.

Cosette si separò da lui e gli sorrise. -Solo una vecchia canzone che cantavo per farmi coraggio quando ero bambina- rispose.

 

Quando l'anno finì, con Sirius morto e la Profezia, Cosette tornò a casa ed Harry tornò dai Dursley. Non si rividero per tutta l'estate e non si sarebbero rivisti più nell' anno a venire. Ma spesso, Harry pensava a lei, e quando il dolore per la morte di Sirius si faceva sempre più insopportabile, si sorprendeva a cantare la sua vecchia canzoncina.

 

 

Think, while you
still have me move
Move, while

you still see me
You'll be lost,

and you'll be sorry
when I'm gone

 

Mi apro alla chiusura.

Il momento era giunto. Non c'era più posto per la paura, adesso. Il cuore di Harry era sereno, mentre avanzava verso la sua morte.

Tutto stava per concludersi, e sarebbe stato lui stesso a porre la parola fine. Ma prima, c'era un'ultima cosa che doveva fare.

La trovò in mezzo ai feriti, mentre si affannava per curare le loro lesioni, il volto sporco di terra e di sangue, i capelli arruffati, ma sempre bella, sempre angelica. Harry la osservò, mentre tra le mani stringeva quelle tremanti di una ragazzina del primo anno e le parlava, sul volto il sorriso angelico che lui ormai conosceva.

-Andrà tutto bene, vedrai- stava dicendo.

Il cuore di Harry sprofondò.

Aspettò che si alzasse, e quando si voltò fece un passo avanti, portandosi alla sua vista. Cosette s'immobilizzò, la mano le salì al volto per reprimere un grido, mentre gli occhi le si facevano enormi nel viso cianotico.

-Harry- fu un sussurro strozzato, il suo.

Harry fece un passo avanti e la guardò, cercando nei suoi occhi il coraggio che un tempo vi aveva trovato. Prese un profondo respiro e si costrinse a pronunciare le parole che sapeva.

-Sto per morire- disse. Semplicemente.

Cosette ondeggiò come se fosse stata colpita. -No- gorgogliò- No, no, no, ti prego, Harry, no!

-Ascolta- sussurrò lui. -Non puoi fermarmi. Non provarci. Sono venuto solo per dirti che...- dovette deglutire un paio di volte, prima di riuscire a continuare- Che senza di te non avrei mai trovato il coraggio di arrivare dove sono. Tu mi hai donato la forza che non sapevo di avere. Hai reso gli ultimi mesi del quinto anno i più belli della mia vita. So che non potrò mai ringraziarti abbastanza per questo, ma volevo provarci.

Cosette piangeva, le lacrime scendevano lievi sul suo viso d'avorio, la bocca si apriva per formulare parole senza trovare la voce. Piangeva, e i suoi occhi sembravano quasi più grandi nelle lacrime in cui annegavano.

Harry alzò una mano e delicatamente le sfiorò una guancia, il pianto di lei che gli bagnava il palmo, e d'un tratto desiderò disperatamente di poterla consolare, di poterle donare un po' di quella serenità che lei gli aveva trasmesso.

Non angosciarti avrebbe voluto dirle, Starai bene, ma una parte di lui sapeva che non era così. Non sarebbe stata bene. Avrebbe pianto, si sarebbe sentita persa e sola, esattamente come si era sentito lui il giorno in cui l'aveva incontrata. E quando il dolore avrebbe minacciato di non fermarsi , quando le lacrime non sarebbero più bastate ad esprimerlo, lui non ci sarebbe stato a consolarla.

-Grazie- fu quindi tutto quello che le disse.

Dalle labbra di lei sfuggì un singhiozzo e Cosette gli gettò le braccia al collo, stringendolo disperatamente come se non volesse lasciarlo andare. Harry ricambiò la stretta, e rimasero così per un po', la mano di lui che delicatamente le accarrezzava i capelli. E tra le sue braccia, Harry sentì la vecchia serenità colmargli di nuovo il cuore. Era davvero pronto, adesso.

-Andrà tutto bene- le disse.

-Lo so- rispose lei, ma Harry sentiva le sue lacrime bagnargli il collo.

Le loro labbra s'incontrarono quasi senza che loro se ne fossero accorti. Fu un bacio lieve, l'unico che si sarebbero mai scambiati, ma bastò.

Harry si separò da lei, si addentrò nella Foresta Proibita. E mentre avanzava verso la sua morte, si costrinse a non guardarsi indietro.

 

-Avada Kedavra!

Il lampo di luce verdastra lo colpì dritto al centro del petto, ma Harry non sentì dolore. Sentì il suo corpo abbandonarsi all'indietro, privo di forze, ma non avvertì l'impatto con il terreno.

Si trovò sul terreno della Foresta, gli occhi che si perdevano tra le fronde degli alberi. Sentiva il freddo impossessarsi del suo corpo. E fu allora, tra gli ultimibattiti del suo cuore ormai spento, che udì la voce di lei.

Chiudi gli occhi, Harry.

Harry obbedì.

Andrà tutto bene.

 

Hola, bella gente!
Sinceramente? A me piace Cosette. E tanto anche. Sin dal momento dell'estrazione questo pairing mi ha ispirato una dolcezza infinita, e spero di essere riuscita a rendere, almeno in parte, le sensazioni che quei due mi trasmettono.
Nel caso qualcuno non l'avesse capito, la canzoncina di Cosette è Castle On A Cloud. Poi, ho quest'idea che durante il sesto anno Harry e Cosette non si siano frequentati, sia per tutte le vicende che si sono succedute, sia per le rispettive vicende sentimentali (Marius e Ginny, per intenderci, non li ho dimenticati. Il bacio alla fine lo considero come una specie di addio).
La canzone da cui sono tratte le strofe in corsivo è Everything's Alright dal musical Jesus Christ Superstar (sono leggermente fissata con quel film), nel caso a qualcuno interessasse, ecco il link:
http://youtu.be/jkje4FiH9Qc
Eh, niente. Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Abbondate con le recensioni!
Un bacio a tutti,
Saitou

 

 

 

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Capitolo 6
*** Invito ***


La timidezza è composta dal desiderio di piacere e dalla paura di non riuscirci.”

Edme-Pierre Chauvot de Beauchêne

“Courfeyrac” disse improvvisamente Combeferre. “Non voglio più farlo”.

La calca di studenti che percorreva a passo spedito i corridoi di Hogwarts, bisbigliando frasi sottovoce, spiando ansiosamente i libri per controllare di aver dato le risposte giuste al G.U.F.O. appena affrontato, dedicò a malapena uno sguardo al terzetto di studenti che proprio in quel momento si era fermato all'ingresso della Biblioteca.

Courfeyrac si fermò di botto, stringendo il braccio dell'amico, e si voltò lentamente a guardarlo, con gli occhi stretti e l'espressione di chi non è sicuro di aver sentito bene. "Tu che cosa?" chiese, scandendo bene le parole e staccando le lettere l'una dall'altra.

Combeferre scosse con forza la testa, gli occhi blu improvvisamente grandi di panico dietro le lenti spesse degli occhiali. "Non lo voglio più fare".

Courfeyrac aprì la bocca e sbatté varie volte le palpebre, in maniera decisamente poco signorile, poi strinse la presa sul braccio dell'amico e lo spinse risolutamente in avanti. "Cammina, 'Ferre! Abbiamo fatto la prova centinaia di volte, non puoi tirarti indietro proprio adesso!".

"Non posso!" Combeferre puntò i piedi e scosse furiosamente la testa, del tutto in preda al panico. "Dirò qualcosa di stupido, Courf. Mi metterò a balbettare, arrossirò e me ne andrò via senza aver detto niente." La sua voce salì di parecchie ottave fino a farsi stridula. "Non posso farlo! Farò la figura dell'idiota!".

"La figura dell'idiota la farai solo se rimani qui piantato come un fesso"sbottò Enjolras, la cui pazienza stava arrivando decisamente al limite. "Deciditi una buona volta, non abbiamo altro tempo da dedicare a questa pagliacciata".

Courfeyrac diede una mezza occhiata di rimprovero a Enjolras, una d'incoraggiamento a Combeferre, e poi, prima che quest'ultimo potesse reagire, lo spinse con veemenza all'interno della Biblioteca, e gli chiuse la porta alle spalle, con un tonfo che alle orecchie bollenti di Combeferre risuonò come la tromba del giudizio universale.

Si fece avanti, assordato dal furioso tum tum che gli faceva il cuore nel petto, gli occhi che frugavano convulsamente quel luogo a lui familiare, senza trovarvi alcuna via d'uscita. La Biblioteca era il suo rifugio, il posto dove poteva dedicarsi a ciò che più amava, i libri, senza alcun timore di un giudizio esterno, senza alcun timore che qualcuno arrivasse a strapparlo a quelle pagine antiche orlate di muffa che rappresentavano la sua passione e la sua ancora di salvezza. Ma in quel momento quel luogo tanto amato gli pareva solo una prigione senza via di scampo.

Avanzò cautamente, passandosi più volte la lingua all'interno della bocca secca, le orecchie piene del fruscio di pagine e borbottì soffocati, e finalmente la vide. Il cuore parve ridurglisi a un ammasso rovente nel petto, per poi esplodergli dentro con violenza silenziosa, diffondendo ondate di calore giù per tutto il suo corpo, fino ad arrivargli il cervello, riempendolo di qualcosa di dolce e pungente al tempo stesso, che gli faceva sembrare il semplice atto del parlare la cosa più difficile del mondo.

Lei non alzò la testa. Rimase chino sul suo libro, scribacchiando appunti sul pezzo di pergamena che teneva accanto, mordicchiando di tanto in tanto l'estremità della piuma. E nel vederla in quella condizione, a Combeferre tornò in mente la prima volta che l'aveva vista, quando si era accorto che non tutto al mondo era scritto nei libri, e non tutto poteva essere fissato in trenta centimentri di pergamena.

Era stato al Ballo del Ceppo. Combeferre non sapeva nemmeno bene perché si trovasse lì. Non poteva fare a meno di sentirsi un idiota, immobile, in un angolo isolato lontano dalla pista da ballo, a osservare con un senso di malinconia misto a malcelato sollievo, le coppie scintillanti che roteavano abbracciate sotto le luci ondeggianti della Sala Grande. Eponine, bella come sempre, e straordinariamente meno trasandata nel suo abito blu, lo aveva lasciato con un sorriso di scusa, e si era andata a sedere accanto a Grantaire, abbandonato vicino al buffet, con l'immancabile bottiglia in mano e gli occhi cupi fissi su Enjolras e Cosette che volteggiavano con grazia al centro della pista. Nel vederla mentre toglieva con determinazione la bottiglia a Taire, e mentre gli poneva un braccio attorno alle spalle sussurandogli all'orecchio, Combeferre non ce l'aveva avuta con lei; non aveva provato gelosia, anche se gli ci erano volute tre settimane per trovare il coraggio necessario a invitarla. Aveva provato solo rassegnazione, e nessuna sorpresa. Dopotutto, lui era solo Combeferre, l'amico di Courfeyrac ed Enjolras, il topo di biblioteca, il noioso Corvonero accanto a quei due splendidi Grifondoro; non aveva ne la verve di Courfeyrac ne la capacità d'infiammare i cuori di Enjolras, era più bravo di loro negli studi, ma questo cambiava poco. Era un Nato Babbano, mentre loro erano Purosangue. Questo non contava granché, in realtà, ma Combeferre si era già rassegnato al fatto che non sarebbe mai fatto niente meglio di loro.

Ma non era a questo che stava pensando, davvero. Stava solo pensando che a quel punto, avrebbe potuto sgattaiolarsene nel suo dormitorio senza sensi di colpa, visto che era anche indietro con Trasfigurazione.

E poi, aveva visto lei.

Volteggiava con grazie tra le braccia di un quantomai insicuro Neville Paciock, e a dire la verità, Combeferre non aveva provato chissà quale emozione in quel momento. Ma senza che lui lo sapesse, lei gli si era depositata nel cuore, come una minuscola scintilla che poi era esplosa in un lampo accecante l'anno dopo, quando l'aveva vista scendere dalla scopa dopo l'ennesima, deludente perfomance del fratello come Portiere.

Era scesa in fulgore fiammeggiante, il sole che si scomponeva in prismi colorati contro il rosso ramato dei suoi capelli,e Combeferre aveva provato qualcosa che non aveva mai sperimentato, qualcosa che lo aveva riempito come una colata d'oro fuso. Il suo cuore, quel suo piccolo cuore impolverato innamorato dei libri, aveva preso a vibrargli dentro con forza impressionante,e da quel momento non aveva più smesso.

Ovviamente, era stato costretto a dirlo a Courfeyrac ed Enjolras. Avrebbe preferito evitarlo, perché era uno dei tanti aspetti in cui si sentiva inferiore nei loro confronti. Courf invitava a uscire praticamente qualunque cosa si muovesse, e Enjolras non s'interessava a questo genere di cose (Combeferre si sbagliava riguardo a questo, ma l'avrebbe scoperto solo molto tempo dopo). Ma alla fine, l'aveva fatto. E ovviamente, Courfeyrac aveva fornito prontamente la soluzione: invitarla a uscire.

Detto così, sembrava facile. E lo sarebbe anche stato, se Combeferre fosse stato Courfeyrac e non Combeferre. Aveva osservato spesso Courf all'opera, e sapeva che non sarebbe mai riuscito a replicarlo. Tutto quello che diceva Courf in bocca sua suonava stupido e forzato. Aveva nicchiato, finché Enjolras non aveva perso la pazienza e non aveva dichiarato che, o si decideva e la invitata a uscire, o la smetteva di torturarli tutti con quella storia, che era durata fin troppo.

E ora si trovava qui. Grazie tante, Courf pensò con ironia.

Prese un respiro profondo. E in quel momento una rabbia intensa s'impadronì di lui.

Sii un uomo, diamine! Invitala ad uscire, e che sia finito. Male che va, dopo potrai sempre buttarti nel lago.

Questo pensiero, stranamente, gli fu di conforto.

Si avvicinò e tossì delicatemente. "Posso?" chiese, accennando alla sedia accanto a lei.

Lei alzò lo sguardo. "Fa pure". Disse con un sorriso.

Lui lo fece. Aprì un libro. Rimase a lungo con lo sguardo fisso sulle lettere che gli si confondevano davanti. Alla fine, osò alzare lo sguardo.

"Senti..." iniziò esitante.

Lei si riscosse di nuovo dalla sua lettura. "Sì?".

Ed eccola che arrivava. La cara, vecchi, familiare, stramaledettissima timidezza. Combeferre la percepì distintamente che gli afferrava la lingua e gli imbrogliava le parole rendendole un gorgoglio confuso. "Io...volevo sapere...chiederti...cioè, solo se vuoi...se non vuoi, è ovvio...ma insomma... pensavo...volevo dire...".

Alla fine, in qualche modo, le parole vennero e le sputò fuori quasi tutto d'un fiato."Vuoi venire a Hogsmeade con me il prossimo fine settimana?".

Ci fu un lungo silenzio, durante il quale Combeferre rimase col fiato sospeso e la netta sensazione di avere un blocco di ghiaccio al posto delle viscere. Infine, lei sorrise.

"Va bene" disse. "Mi piacerebbe". Sembrò pensarci un attimo, per poi aggingere. "Molto".

Combeferre annuì, quasi con troppo vigore.

"Ok. Va bene. Allora... ci vediamo".

Raccolse le sue cose e corse fuori dalla biblioteca. Aveva di nuovo le orecchie in fiamme, ma anche un sorriso enorme stampato in faccia al pensiero di quello che avrebbero detto i suoi amici, e in particolar modo Courfeyrac, quando avessero saputo che aveva invitato Ginny Weasley ad uscire.

Ciao a tutti, belli e brutti!

Allora, a quanto pare, la protezione celeste continua, visto che anche la Combeferre/Ginny m'ispirava parecchio. E niente, questa volta il capitolo mi piace parecchio, forse non è un capolavoro, ma di sicuro è carino. Per l'ambientazione, diciamo che potete collocarlo durante un punto a piacere del quinto libro.

E se a qualcuno interessasse, ecco come, da chiusa quale sono, ho immaginato Eponine e Cosette al Ballo del Ceppo:


 

http://i957.photobucket.com/albums/ae57/ynnapadilla/oscars10_zps015fc482.jpg

http://cdn01.cdn.justjared.com/wp-content/uploads/2013/02/seyfried-oscars/amanda-seyfried-oscars-2013-04.jpg


 

Beh, buonanotte a tutti, spero abbiate apprezzato il capitolo! Recensite, e alla prossima!

Catcher

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 7
*** L'amore è essere cretini insieme ***


"L'amore consiste nell'essere cretini insieme”

Paul Vàlery

 

Baby, someday
When high school is done
Somehow, someway
Our two worlds will be one


Marius non ricordava molte cose. Non ricordava, per esempio, come si fosse svolto il suo primo giorno a Hogwarts, o il suo primo incontro con Courfeyrac, non avrebbe saputo dire dove fosse stato il giorno precedente, e non era raro che brandelli di una conversazione appena svoltasi gli scivolassero via dalla mente. Per una qualche misteriosa ragione che nessuno comprendeva, il cervello di Marius non era in grado di riafferare nulla su cui egli non avesse posto in precedenza un'esclusiva e indiscussa e attenzione. Era come se tutto ciò che non gli interessava in maniera diretta finisse semplicemente per essere spazzata via dal suo subconscio, da dove poi di tanto in tanto riaffiorava, spesso nei momenti più inutili.

Ma il giorno in cui aveva incontrato per la prima volta Ninphadora Tonks... quello Marius se lo ricordava benissimo.

A voler essere onesti, non sarebbe stato in grado di richiamare l'esatto colore e forma che quel giorno la ragazza aveva dato ai suoi capelli, né ricordava di aver prestato un'attenzione particolare alla sfumatura o al taglio degli occhi. Ninphadora Tonks non era il tipo di ragazza che gli uomini si voltano a guardare per strada, e Marius era abbastanza sicuro che se le fosse passato accanto in un giorno qualsiasi, la sua immagine gli sarebbe presto scivolata via dalla mente. Ma quel giorno... quel giorno lei gli aveva sorriso, e quell'immagine non lo avrebbe più abbandonato per il resto dei suoi giorni.

Si era rialzata di scatto, sbuffando, ansimante, ancora barcollante dopo aver appena impattato nel portaombrelli che adesso giaceva ai suoi piedi, il contenuto sparso per vari metri sul pavimento. Aveva levato lo sguardo verso di lui, soffiando per allontanarsi una ciocca di capelli dagli occhi-rosa? Azzurri? Marius non sarebbe stato in grado di dirlo- e si era voltata a contemplare il disastro alle sue spalle per poi riportare l'attenzione su di lui, sul volto un'espressione allo stesso tempo rassegnata e desolata.

-Oh, mi dispiace!- aveva detto rapidamente- Sono proprio una frana, qualsiasi cosa tocchi, la distruggo!

-Capita anche a me- aveva borbottato Marius, distrattamente.

Lei si era accovacciata sul pavimento con l'intento di raccogliere tutti gli ombrelli, e il suo pensiero si era già distolto da lui, ma nel momento in cui il ragazzo disse quelle parole, la sua testa si alzò di scatto, e un sorriso, quel sorriso le balenò sul volto.

Era stato un attimo, un rapido balenìo su quei suoi linemenati mutevoli, ma era bastato perché Marius si fermasse di scatto e restasse immobile a contemplarla, uno strano grumo di calore che aveva iniziato ad agitarglisi all'altezza dello stomaco. Ninphadora Tonks gli sorrideva, accovacciata sul pavimento in un mare di ombrelli, e nei suoi occhi che lo osservavano non c'erano decisione né condiscendenza, ma solo comprensione, come se finalmente avesse trovato la persona giusta con cui condividere un'imbarazzante segreto. Come se finalmente avesse trovato qualcuno- ma questa era solo un'impressione di Marius- che nel mondo si trovasse fuori posto come lei, spaesato, disorientato come lei si sentiva.

Ma era stato appena un istante. Con un ampio sorriso, che tuttavia aveva perso quella strana sfumatura, Tonks si era rialzata, ondeggiando sotto il peso di tre o quattro ombrelli ed era scoppiata a ridere, dirigendosi barcollando verso l'ingresso. -Guarda, ti capisco. Mia madre ormai non mi permette nemmeno più di rifarmi il letto.

-A-aspetta, ti aiuto- aveva balbettato Marius, dirigendosi di corsa verso di lei.

Detto, fatto. Nel momente in cui aveva teso le braccia verso di lei, tutti gli ombrelli erano rovinati a terra con un fracasso infernale, e uno era atterato, ovviamente di punta, sul piede di Tonks, strappandole un grido di dolore.

-Oh, Dio, scusami!- Marius alzò lo sguardo, rosso come un peperone. -Scusami, sono talmente imbranato...

Prima ancora che finisse la frase, i loro occhi s'incontrarono, e Tonks scoppiò a ridere, trovandosi praticamente piegata in due contro lo stipite della porta. Senza sapere come, Marius si trovò a ridere con lei, il grumo di calore nel suo stomaco che si trasformava in una piacevole sensazione.


 

Nei giorni che entrambi trascorsero nella villa di Courfeyrac, Marius ebbe modo di conoscerla meglio di quanto avesse sperato. Sia Marius che Courfeyrac provenivano da nobilissime famiglie Purosangue, ma mentre la famiglia di Marius, capeggiata dal nonno, restava arroccata in suo ideale di aristocratica superiorità, quella di Courfeyrac non aveva di questi problemi, ed era per questo motivo che in quei giorni d'estate la famiglia di Tonks si trovava ospite nella loro villa. La madre di Tonks, a quanto Marius aveva sentito da Courfeyrac, era stata ripudiata dalle proprie sorelle per il suo matrimonio con un Babbano, ma lui non si era mai preso la briga di indagare più a fondo. Con Tonks parlavano di altre cose.

Parlare con lei gli risultò più facile di quanto si fosse aspettato, più facile di quanto gli fosse mai apparso conversare con qualcuno. Tonks era estremamente curiosa, brillante ed attenta, avida di conoscenza sui più svariati argomenti, e quando era con lei, senza sapere come, Marius si trovava a saper rispondere alle sue domande senza insicurezze né imprecisioni. E più parlava con lei, più aveva l'impressione che l'idea che aveva avuto su di lei fosse giusta, che loro fossero più simili di quanto apparisse, entrambi persi in un mondo a volte troppo complicato e troppo grande per loro, un mondo in cui era troppo facile inciampare, cadere, provare, vergogna, trovarsi senza le parole giuste da dire, e a volte, ma solo a volte, Marius si chiedeva se quelle sue metamorfosi continue non fossero un modo come un altro di celare la confusione che agitava il suo cuore.

Ma se anche queste sue supposizioni si fossero rivelate fondate, per tutto quello che riguardava il resto Tonks non avrebbe potuto essere più diversa da lui. Lei era una combattente, tenace, esperta e determinata, una che, a dispetto di tutto il disagio che forse in fondo al cuore poteva provare, aveva individuato la sua via nella vita, era riuscita a ritagliarsi un posto, e non c'era nulla che Marius ammirasse di più. E così, mentre i giorni in sua compagania si susseguivano, si scoprì sempre più avido della sua conversazione, della sua risata, dei mutamenti che sapeva suscitare così improvvisamente sul proprio volto. Lei era il primo pensiero che gli si presentava nella mente al mattino e l'ultimo ad andarsene quando si addormentava. Se chiudeva gli occhi, poteva sentire la sua voce, figurarsi quel suo meraviglioso sorriso esattamente come se l'avesse avuta in quel momento davanti agli occhi.

L'infatuazione che provava per lei cresceva ogni giorno, tuttavia Marius nojn confidò mai a nessuno questi suoi sentimenti. Percepiva che l'unica persona a cui avesse il dovere di dirlo fosse lei, e semplicemente, come tante altre volte nella sua vita, non riusciva a trovare le parole.

Poi, un giorno, altri membri dell'Ordine della Fenice si presentarono a cena a casa di Courfeyrac. Quella sera, Marius vide qualcosa cambiare sul volto di Tonks. Non sorrideva, non rideva più com'era solita fare, ma sul suo viso c'era un'espressione strana, assorta, quasi triste. I suoi occhi restavano ostinatamente fissi su un punto che Marius non riusciva a individuare, e l'unica volta in cui riuscì ad attirare la sua attenzione, il sorriso distratto che gli rivolse aveva un'indiscutibile piega amara.

Per il resto della serata, Marius si tenne lontano da lei, fino a quando, con la coda dell'occhio non la vide alzarsi e lasciare la stanza a passo svelto, passandosi furiosamente le mani sul viso. Preoccupato, si alzò e la seguì fuori dalla villa fin dentro il giardino, incurante del vento freddo della sera.

La trovò seduta sul bordo della fontana, le spalle rivolte verso di lui scosse da piccoli, inconfondibili singhiozzi. C'era qualcosa di così strano e sbagliato in quella vista che Marius se ne restò in disparte per molto tempo, incapace di accostare quell'immagine a quella della ragazza ridente, distratta e determinata che conosceva.

Rimase lì immobile a sentirla singhiozzare, fino a quando la ragazza non diede in un singulto più forte degli altri, e qualcosa dentro di sembrò spezzarsi a quel suono. Esitante, mosse un passo avanti.

-Tonks?- sussurrò- Ti disturbo?

Lei sussultò e si voltò a guardarlo. La luce della luna le colpiva metà del volto, illuminando di scintilli argentati le scie di lacrime. Marius non l'aveva mai trovata tanto bella come adesso.

-Oh, sei tu- disse lei. Qualcosa, nel tono in cui venne detta quella frase gli causò una piccola fitta al cuore, ma Marius si costrinse a ignorarla.Si sedette accanto e cautamente la fissò negli occhi, cercando disperatamente qualcosa d'intelligente da dire.

-C'è qualcosa... posso aiutarti?- tirò fuori infine.

Lei scosse appena la testa, senza guardarlo.

E a quel punto, Mariu scoprì di doverlo dire. Senza una ragione precisa, qualcosa gli disse che questo era il momento giusto.

Allungò una mano, afferrò quella di lei. I suoi occhi si alzarono a guardarlo, sorpresi.

-Tonks- mormorò Marius- Io ti amo.

Lo disse così, semplicemente. In quel momento ci credeva davvero.

Gli occhi di lei si dilatarono, e, di nuovo, come nel giorno del loro primo incontro, Marius ci vide qualcosa che non si sarebbe aspettato: Ninphadora lo guardò come se sapesse, come se capisse quello che stava provando, perché era quello che stava provando lei.

-Marius...- sussurrò.

In quel momento, seppe quale sarebbe stata la risposta.

Lentamente, automaticamente, lasciò scivolare via la mano da quella di lei. Si alzò in piedi. Non sentiva nulla, solo, da qualche parte, il cuore batteva un po' più lento del normale.

-Non dire nulla- rispose. La sua voce suonava strana, lontana dalle sue stesse orecchie. -Non dire nulla. Capisco. Davvero. Me lo aspettavo.

L'ultima frase era una bugia.

I suoi occhi lo fissarono, imploranti, disperati. -Mi dispiace- disse- Io ti voglio bene, Marius, davvero. Ma non in quel modo. Forse... forse un giorno... quando tutto sarà finito, quando noi saremo diversi...

Marius non aspettò che completasse la frase. Semplicemente, si voltò e se ne andò, inoltrandosi verso l'oscurità del giardino, lo sguardo di lei che gli sfiorava la schiena.

Quella notte, pianse anche lui.


 

La rincontrò alcuni anni dopo, di nuovo in una delle sedi dell'Ordine della Fenice. I suoi occhi non avevano perso la scintilla ribelle, ma il suo volto aveva un'espressione più matura, più rilassata, più... consapevole, in qualche modo. Una fede scintillava all'anulare sinistro.

Rimasero a fissarsi per alcuni, lunghi minuti, un sorriso imbarazzato sul volto, entrambi senza sapere che dire. Poi, lentamente, Tonks sorrise, di nuovo quel suo sorriso speciale.

-È da un po' che non ci si vede- disse.

-Già- Marius ricambiò il sorriso. -Congratulazioni, comunque.

Gli occhi di lei scintillarono, poi scivolarono oltre le sue spalle, e Marius sapeva cosa stavano guardando: la giovane, perfetta donna bionda che lo aveva reso migliore.

-È davvero molto bella- commentò.

Il sorriso di Marius si allargò. -Lo so.

-Sei felice, Marius?

Non ci furono dubbi sulla risposta. -Sì, sono felice.

Gli occhi di lei scintillarono di nuovo, poi, leggera e delicata, Tonks si alzò sulle punte dei piedi e gli posò un bacio sulla guancia.

-Abbi cura di te, Marius.

Si voltò e sparì tra la folla, e Marius sorrise, perché ancora una volta lei sapeva.


 

Non ho idea di quando sia stato l'ultima volta che abbiamo aggiornato,e vi chiediamo immensamente scusa. Non abbiamo abbandonato questa storia, ma purtroppo l'ispirazione ci aveva abbandonate entrambe.

Ad ogni modo, sembra che il santo protettore delle ship abbia davvero guidato la nostra mano, perché Marius e Tonks risultano stranamente ben assortiti (in pratica, fanno Scemo più Scemo). Spero che il capitolo vi sia piaciuto ;) Sotto con le recensioni! 
La canzone che ho utilizzato per aprire il capitolo è "Sandy" da Grease ;)

Un bacio,

Saitou

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