Am I losing my mind?

di BlueRon
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lo psichiatra. ***
Capitolo 2: *** Sigarette da Starbucks. ***
Capitolo 3: *** L'importanza di chiamarsi Robert White. ***
Capitolo 4: *** Harry ti presento Jennifer ***
Capitolo 5: *** Molto rumore per nulla. ***
Capitolo 6: *** Paradisi artificiali ***
Capitolo 7: *** Mrs Brightside ***
Capitolo 8: *** Alieni nel mio corpo ***
Capitolo 9: *** Jenny colpisce ancora. ***
Capitolo 10: *** Giovinezza. ***
Capitolo 11: *** Padri e figlie. ***



Capitolo 1
*** Lo psichiatra. ***


"Jennifer, amore, dobbiamo andare."
Mio marito, Allan, mi esorta a muovermi. Scendo le scale e attraverso il soggiorno minimalista di casa mia, quanto lo odio! Quando conobbi Allan avevo diciannove anni, lui era una luce, un faro nel mezzo della tempesta della mia vita, ci sposammo poco tempo dopo, senza il consenso dei miei genitori, i quali non apprezzavano che lui fosse un uomo divorziato. 
Possiamo considerare Allan una ribellione nei loro confronti, dettata dalla mia voglia di andarmene di casa, il college mi era stato negato. Papà, un pastore protestante, intransigente a casa quanto illuminato da Dio in chiesa, era contrario alle perversioni che il college avrebbe potuto portare nella mia vita. Promiscuità, alcol e droga. Cose immorali ai suoi occhi. Mia madre, d'altro canto, era succube alle sue decisioni, una donna passiva che preferiva subire che prendere una posizione. 
Come figlia unica la mia infanzia fu tutt'altro che felice. Niente giocattoli per Natale o per il compleanno perché dovevo pensare sempre ai bambini meno fortunati. Avevo, però, una bambola di pezza, Maria, regalatami da zia Blanca, la sorella di papà, il giorno della mia nascita. Maria sparì quando compii dieci anni, mamma disse che era stata assunta in cielo.

Allan lo conobbi per caso, dopo la funzione religiosa. Era bello, sicuro di sé e indipendente. L'unica pecca era il divorzio che aveva in corso. Appena la sua ex moglie firmò le carte, ci sposammo. Mi trasferii da lui e Allan mi comprò vestiti nuovi, m'insegnò a parlare a modo e m'iscrisse alla sua stessa palestra. Facevo tutto quello che mi chiedeva, così da farlo felice, perché pensavo che quella vita fosse ciò di cui avevo bisogno. Lontana dai miei genitori, dalla chiesa e dalla tristezza. Con Allan rifiorii.

Trovai un lavoro come cassiera in un negozio d'alta moda, non avendo mai frequentato il college non potevo sperare in altro. 
Venni promossa a store manger pochi mesi più tardi, quando il mio supervisore mi propose per il posto vacante.

Ero soddisfatta? Un matrimonio dall'appartenenza felice, una casa, un lavoro autonomo. Eppure una parte di me sapeva che così non avrei potuto continuare.
Iniziai a mangiare sempre meno, fino a quando non svenii sul posto di lavoro e Allan mi obbligò a entrare nel programma di recupero dell'ospedale. 
Ma non ero felice. A casa iniziavo litigi per farmi picchiare e poi dare a lui la colpa, mostrando i miei lividi come cicatrici di battaglia. Avevo i polsi solcati da profonde ferite autoinflitte.

Allan mi trovò uno psichiatra.

---

"Amore?", domandò Allan vedendomi scendere le scale, "Sei divina vestita così", mi baciò la fronte e mi aprì lo sportello dell'auto.

Lo studio dello psichiatra distava 30 minuti da casa, Allan aveva letto delle ottime recensioni sul dottor White. 
Guardai il mio riflesso nella porta a vetri prima di suonare il campanello. Avevo indossato il tailleur blu scuro del lavoro e raccolto i capelli in un serio chignon. Un velo di rossetto sulle labbra e una gentile passata di mascara sulle ciglia. Suonai il campanello.
"Nome, prego?", disse una voce gentile di donna nell'interfono.
"Jennifer Bennet"
Un clang aprì il portone e mi diressi verso lo studio.

Al banco della reception c'era una bellissima ragazza bionda e snella. La sua bellezza mi sminuì. Volevo mettermi a piangere e chiedermi in bagno. 
Perché sono così brutta?, pensai amareggiata mentre un signore sulla cinquantina mi veniva incontro.

"Jennifer?", domandò con voce pacata, "Mi segua nello studio".

Lo studio del dottor White era una stanza spaziosa, con una grande finestra dietro la scrivania e una grande libreria che ricopriva due quarti del muro. Alcuni quadri di Monet spiccavano sulle pareti e un'ottomana era posata vicino una sedia dall'aria antica.
"Si accomodi", disse indicandomi l'ottomana.
Mi sedetti e tastai il tessuto con la punta delle dita, era di pelle.
Il dottor White si accomodò sulla sedia e estrasse un piccolo quaderno dalla tasca interna della giacca amaranto.
"Vuole raccontarmi perché è venuta qui, signorina Bennet?,
"Mio marito mi ha fatto venire dallo strizzacervelli", dissi, con una leggera ironia.

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Capitolo 2
*** Sigarette da Starbucks. ***


Allan non era fuori ad aspettarmi dopo la visita e al lavoro mi ero data malata, così andai da Starbucks per un caffè. Avevo bisogno di staccare dalla mia vita; andarmene dalla città sembrava una buona idea, eppure una parte di me non voleva lasciare Allan senza dirgli niente. Soppressi i miei pensieri circolari accendendo una sigaretta e aspirando nicotina.
Spensi il mozzicone sotto il tacco della scarpa e mi avvicinai al bancone di Starbucks.
Un giovane carino, la targhetta recitava "Harry", mi sorrise. Aveva una bocca sexy e degli stupendi occhi verdi e le fossette ai lati della bocca...un sogno!
Se solo lui fosse stato il mio Allan, potevo già immaginare la mia vita con Harry: lunghe passeggiate mano per mano e sesso bollente tra le mura di casa. Bagni tra bolle di sapone e petali di rose e cene al lume di candela. Indubbiamente una vita da favola, altro che la piatta noia che regnava tra me ed Allan.
Oh Allan, pensai, Cosa mi hai fatto? Allan, Allan, Allan. Mi hai rubato nel fiore degli anni, una giovane di grandi speranze. Avevo solo diciannove anni quando ci sposammo. Sarei potuta andare al college, innamorarmi...vivere!

"Signorina?", venni riportata alla realtà da due occhi verdi, preoccupati e adorabili.
"Sì?"
"Signorina, il suo ordine, cosa vuole?"
Ci pensai un attimo, "Mh, un caffè macchiato, grande."
Harry ridacchiò, "Intende un Venti?"
"Uh, ovviamente", dovrebbero rendere illegale essere così belli!!!
"Nome?"
"Vuoi anche il mio numero di telefono?", ero in vena di flirt. Quello che avevo immaginato sarebbe diventato realtà.

Il pudico rossore si diffuse sulle guance del ragazzo.
"Stacco tra dieci minuti", disse sporgendosi verso di me, "Se vuoi puoi aspettarmi..."
Sorrisi. 
Oh Allan, caro, dolce Allan.
"Dieci minuti sono accettabili. Mi chiamo Jennifer"
Harry scribacchiò il mio nome sul bicchiere e il mio ordine arrivò poco dopo e con lui Harry. Senza il grembiule verde e con una giacca di pelle nera a coprire un'attillata maglietta bianca.

Oh Allan. Ti odio. Ti amo. Ti odio. Ti detesto così tanto! Eppure non posso fare a meno di pensarti. Non voglio traditi eppure non posso più sopportare una vita con te. Lasciarti vorrebbe dire darla vinta a quella stronza di mia madre. Lei lo diceva che eri troppo grande per me, ma il problema non sei tu. Sono io. E tu non fai niente per rendermi felice.

Uscii da Starbucks con Harry, sentendomi molto più giovane dei miei venticinque anni.
"Conosco un posto carino", esordì lui, con voce melodiosa. 
Presi un sorso del mio caffè, qualsiasi posto mi sarebbe andato bene. Lo seguii per i vicoli di Seattle come una bambina segue il padre.

☆☆☆

"Benvenuta al Rocky Horror Caffè", sorrise, "Sono solito venire con i miei amici, è il nostro posto speciale..."
"Forse non dovresti mostrarmelo", dissi.
Harry scosse la testa, "Volevo farlo". Ed entrammo.

Ricordate i vecchi film? Quelli in bianco e nero che danno nei sabati pomeriggi piovosi nel vecchio cinema? Quei film che parlano del proibizionismo e dei bar nascosti? Ecco, il Rocky era così. Sembrava uscito da un'altra epoca. Luci soffuse e divanetti intimi. Tavoli di legno dall'aria vissuta e un lungo bancone trasversale la sala. Una moltitudine di alcolici sulle teche retrostanti e una piccola macchina del caffè. Vi era anche un minuscolo palchetto con un pianoforte a muro e un pianista dalla pelle incartapecorita con un frac e una bombetta poggiata vicino al pianoforte. Suonava una melodia d'altri tempi. Perfetta per il luogo, un po' meno per la caotica Seattle.

Harry ordinò un whisky on the rocks e io presi un semplice gin tonic. Non avrei dovuto bere alcolici visto che prendevo antidepressivi. Le medicine non erano mie, le avevo rubate da casa dei genitori di Allan, erano di sua madre, ma da quando ne facevo uso e un po' più stabile. Questa mattina ne avevo ingurgitati tre.
Con Harry stavo bene. Mi raccontò che aveva 21 anni e lavorava per pagarsi il college, con i suoi amici aveva una band e nessuna fortuna con le ragazze.
Un gin tonic divenne due e al terzo iniziai a sentire meno le gambe.

"Harry", biscicai, allungando la r, "Mi porti da te?"
Harry sorrise raggiante. Pagò i drink mi porse la mano per aiutarmi. Mi alzai barcollante. Harry mi prese sotto braccio e mi aiutò a raggiungere la metro. Dopo poche fermate scendemmo.

Non ricordo la fermata e non ricordo nemmeno quello che successe dopo che raggiungemmo il suo appartamento.

Mi svegliai nel suo letto, nuda, quando il mio telefono iniziò a squillare. Raccolsi i miei vestiti sparsi sul pavimento ignorando la chiamata di Allan. Avevo la testa che martellava e la luce mi dava fastidio. Erano solo le 4 del pomeriggio.

Harry era sotto la doccia. Lasciai un biglietto con il mio numero sul tavolo della cucina, presi i suoi occhiali da sole e mi chiusi la porta alle spalle.

Allan, oh Allan. Vedi cosa mi fai fare? Solitamente sono brava e sto bene, ma a volte una parte di me prende il sopravvento e non mi riconosco. Allan, oh Allan. Vedi come mi hai rovinato?

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Capitolo 3
*** L'importanza di chiamarsi Robert White. ***


Allan, oh Allan. Sempre in cima ai miei pensieri, la punta di diamante della mia vita. Allan, noioso e stupido Allan. Con un figlio che non vedi mai e una ex moglie che preferisce spendere soldi in tribunale che chiederti gli alimenti di persona. Allan, luce della mia vita. Faro nell'oscurità. Stella del mattino. Allan, dolce, ignaro Allan...

"Signorina? Tutto bene?"
Robert White, il mio psichiatra, mi sveglia dal mio sogno ad occhi aperti. L'uomo che Allan ha trovato per guarirmi, ma io non sono malata. Non ho bisogno di guarire.
"Sì", esclamo con una vocetta da bambina, "Va tutto a me-ra-vi-gli-a!", sillabo l'ultima parola, giocando con i braccialetti di gomma colorata che ho al polso.
"Jennifer...", esordisce, "Vuole parlarmi della sua relazione con Allan?"
Scuoto la testa, "No no no, ma ho un segreto bellissimo!"
Il dottor White si sporge verso di me, "Vuole raccontarmelo?"
Mi sollevo dall'ottomana e mi siedo a gambe incrociate, le trecce mi cadono sulle spalle.
"Però non deve dire niente a Allan, shh", mimo il gesto del silenzio portandomi il dito indice sulle labbra semi chiuse.
"Jennifer..."
"Mi chiamo Jenny!"
"Jenny, non posso dire niente di quello che ci raccontiamo ad Allan, con me è al sicuro. Questo", dice indicando lo studio, "Questo è un posto sicuro."

Tolgo dalla bocca la fine della treccia destra che stavo masticando e annisco.
"Qualche giorno fa ho conosciuto un ragazzo bellissimo, lo amo così tanto! Sembra un dio greco, no. Una statua. Un adone. E' figo e mi fa sognare. Quando sono con lui, il mondo intero mi fa volare!"

Il dottor White spalanca gli occhi, poi si ricompone e pulisce gli occhiali con un fazzolettino.
"Posso mangiare una caramella?", domando, indicando la ciotola posta sulla scrivania del dottore.
Lui me ne allunga una.
Non la tocco, "Odio la menta", dico facendo una faccia disgustata, "Voglio fragola o arancia"
Il dottor White mi passa un'altra caramella, questa volta con l'incarto rosa, "Non ho la fragola, questa è al lampone"
La scarto e inizio a succhiarla tenendola tra le punte delle dita, poi la infilo in bocca.
"Dottore?", lo guardo negli occhi succhiando la caramella, "Lei mi vuole bene?"
Robert White si alza senza rispondermi. Prende la mia giacca dall'attaccapanni e mi aiuta a indossarla.
"Jennifer, il nostro tempo oggi è finito. Chiamerò Allan per fissare un nuovo appuntamento."
Mi mordo il labbro inferiore, "Perché mi odi?", urlo, sbattendo la porta dello studio alle mie spalle. Attraverso la sala d'attesa correndo e supero il banco della reception senza degnare la bionda di uno sguardo. Il tempo di chiudere il portone e le lacrime già mi rigano il viso.

Quando ho le visite, il lavoro mi è scusato. Come capo reparto posso permettermelo. Gestisco bene il mio lavoro, quando io sto bene.
Prendo il telefono dalla tasca della giacca e scorro la rubrica: Harry<3
Premo il tasto chiamata e aspetto. Uno squillo, due squilli, tre squilli, vai al diavolo! Attacco e rimetto il telefono nella tasca. 
Giro per Seattle senza meta, con le treccine, le calze al ginocchio e dei pantaloncini rosa e bianchi. La giacca stretta al corpo e soffocando la voglia di gridare.

Allan, oh Allan. Vedi cosa mi hai fatto? Mi hai portato da uno strizzacervelli perché tu sei incapace di gestire la tua stessa moglie. Inetto, stupido. Ti odio. 
Allan, dolce Allan. Dove sei? Mi manchi...

Mi accorgo di giocherellare con il telefono, quindi chiamo Allan.
Uno squillo e mi risponde.
"Allan?"
"Piccola? Stai bene?"
"N-no", la mia voce si rompe e inizio a singhiozzare.
"Vuoi che torni a casa?", mi domanda preoccupato.
Scuoto la testa, ma non può vedermi, "Non sono a casa. Volevo sentire la tua voce. Il dottor White è cattivo e mi odia."
Sento Allan sospirare all'apparecchio, "Il dottor White non ti odia, magari era un po' stanco"
"I grandi non si comportano così!", urlo ad Allan, prima di attaccare.

Spengo il telefono e entro nel parco. Mi siedi su un'altalena e mi dondolo per un pochino, poi accendo una sigaretta e salto giù al volo dal punto più altro. 
Voglio adrenalina, voglio sentirmi viva. Getto a terra la sigaretta, fumata solo per metà, e corro fuori dal parco. Voglio Harry. Voglio il suo sorriso, le sue mani, il suo sesso.
Voglio essere la sua bambina. La sua dea, la sua musa. Voglio che mi dipinga con le note delle sue melodie.

Harry, oh Harry. 
Portatore di luce, amore della mia vita. Ti voglio, ti desidero, ho bisogno di te.

 

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Capitolo 4
*** Harry ti presento Jennifer ***


Entrai da Starbucks e mi guardai intorno alla ricerca di Harry, lo addocchiai poco lontano dal bancone. 
"Harry", dissi andandogli incontro, "Possiamo parlare? Ho bisogno di te..."
"Sto lavorando Jen, possiamo fare più tardi?"
Giocherellai con la fede e annuii, che altro potevo fare? Ordinai un caffè americano e mi sedetti al tavolo.
Mi connessi alla rete wifi di Starbucks e aspettai Harry controllando le mail del lavoro e scorrendo la home di Facebook.
Provai a cercarlo, ma ignara del suo cognome mi limitai a scorrere tra i risultati. Più di mille persone a Seattle si chiamano Harry. Alla fine lo trovai; Harry Curtis, 21 anni.
Inviai la richiesta e continuai a scorrere le notizie.

Presi un sorso di caffè e notai che non era più bollente, così posai il telefono e mi dedicai alla scura bevanda.

Allan: Tutto bene amore?
Allan: Dove sei?
Allan: Il dottor White mi ha chiamato per il tuo prossimo appuntamento.
Allan: J? Stai bene?
Allan: Rispondimi ti prego

Ignorai il telefono e mi misi a fissare Harry. 
Era così bello mentre lavorava, i capelli ricci che ricadevano morbidi ai lati del collo e dentro la polo bianca. Il grembiule verde che accentuava i suoi profondi occhi e il sorriso sempre presente. Non so bene per quanto lo osservai, ma quando mi venne a chiamare, il mio caffè non fumava più.

Camminammo per Seattle mano nella mano, mi ero premurata di togliere la fede, come due giovani fidanzati. 
Presi una sigaretta dalla giacca e Harry mi allungò l'accendino. Allan non lo aveva mai fatto, detestava che fumassi.

"Allora, piccola Jen, di cosa volevi parlarmi? Se è perché non ti ho mai scritto...ecco, ero in imbarazzo. Tu sei così bella e io sono così...io."
"Harry", sospirai guardandolo, "Tu sei bellissimo, sono io ad essere imperfetta..."
Harry mi fece sedere su una panchina e passò un braccio dietro le mie spalle, in silenzio.
"Vedi Harry, tu mi piaci. Mi piaci da morire ma noi siamo sbagliati. Questi amori violenti hanno fini violente... E io non voglio essere solo un'altra tacca sul calendario. Voglio un per sempre che duri una vita e lo voglio con te...", calde lacrime avevano iniziato a solcarmi il volto. Harry guardava lontano, in silenzio e completamente assorto.
"Jennifer", esordì, "Anche tu mi piaci e non voglio che le cose siano troppo affrettate e penso che tu sia bellissima e perfetta... Ti ho sognato spesso in queste notti, volevo sentire il tuo calore. Abbracciare il tuo corpo e addormentarmi con la testa sul tuo ventre. Dio Jennifer, mi piaci da morire." 
Guardai Harry mordendomi il labbro inferiore, indecisa su cosa dire o su cosa fare, ma lui mi precedette. Allungò la mano sul mio collo e si chinò verso di me.
Le nostre labbra si unirono in un caldo bacio pieno di promesse. La sua lingua era morbida nella mia bocca e io contraccambiai io bacio con foga.

Allan, oh Allan. Tu non mi hai mai baciato così. Mi hai sempre trattato come una bambola, con la paura che potessi rompermi da un momento all'altro. Eppure Allan, mio dolce Allan, io sono sempre stata rotta.

Baciai Harry su quella panchina per un infinità. Incurante degli sguardi dei passanti. Per la prima volta dopo tanto tempo ero davvero felice.

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Capitolo 5
*** Molto rumore per nulla. ***


A casa ero sola, illuminata da alcune candele alla vaniglia, avrei voluto portare Harry con me, ma non volevo che conoscesse Allan.
Rimisi la fede al dito mentre salivo le scale per prepararmi un bagno. Cambiai idea dopo aver aperto l'acqua, feci una doccia veloce e mi sdraiai nel letto.

Allan? Allan dove sei? Sono le dieci passate e ancora non sei tornato. Allan? Sei con quella puttana della tua segretaria? Oh, si, sei con lei! Riesco anche a immaginarvi. Stronzo!

Mi alzai di scatto dal letto, liberandomi del torpore del dormiveglia mentre correvo in cucina a prendere un paio di forbici. Tornai in camera e aprii l'armadio. Tutte le camicie di Allan erano ordinate per colore, poi le cravatte, le giacche e infine i pantaloni. Perfino i cassetti dell'intimo seguivano la scala cromatica e l'ordine militare.
Afferrai la cravatta di seta di Bottega Veneta e la gettai sul letto, la seguirono la giacca di Ralph Lauren, il gilet di Valentino e il suo completo di Armani preferito. 
Mi sedetti a gambe incrociate tra quei vestiti e poi afferai la giacca di Lauren, feci scivolare le mie braccia dentro la morbida stoffa e annusai il profumo di Allan.

Allan... Perché non sei ancora a casa? Sono le dieci e mezzo passate. Sai che sola non mi controllo.

Strinsi il manico delle forbici e giocherellai con la cravatta. Poi la divisi in un due con un taglio netto. La camicia venne smanicata e i pantaloni diventarono dei pinocchietti. La giacca di Armani un gilet e il gilet uno straccio molto costoso.
Tenni intera solo la giacca che indossavo e con la quale mi addormentai, sola, tra i brandelli dei vestiti di Allan.

☆☆☆

Nuova visita, nuovo giro in giostra. Oggi non ho scusanti per saltare il lavoro, ho telefonato personalmente allo studio per chiedere di spostarmelo nella pausa pranzo.

Entro nello studio e mi accomodo sull'ottomana, schiena dritta e caviglie incrociate. Aspetto il dottor White.
Dopo mezz'ora entra, scusandosi per il ritardo. Gli stringo la mano e mi sdraio mentre lui si prepara.

"Jennifer, sa che Allan mi ha chiamato pochi giorni fa? Vuole parlarmi di quello che ha fatto?"
Sospiro e porto la mano destra sul viso, stringendo il ponte del naso tra l'indice e il pollice, per poi farli scivolare lungo le guance e sotto il mento.
"Dottore", esordisco, "Non ero io. Ovvero, certo ero Jennifer Bennet, ma non la Jennifer Bennet che sono di solito. E' come se ci fosse una parte di me che ogni tanto prende il controllo e mi fa comportare come una pazza. Eppure, lo giuro dottore, normalmente non sono così!"

Anche con gli occhi chiusi sento il suo sguardo penetrante. Poi sento il rumore di penna su carta e la mano del dottore sulla spalla.
"Jennifer", dice e mi esorta ad alzarmi, scortandomi fino alla sedia dirimpetto la scrivania, dove aveva ricevuto Allan la prima volta, "Penso di poter disegnare un quadro più o meno completo del suo problema", fa una pausa, "Gradirei parlarne anche con suo marito però, possiamo prendere un appuntamento?"
Lo guardo con disappunto, sono una donna matura e in carriera, sposata e responsabile. Non ho forse il diritto di sapere? Non sono forse un essere umano indipendente da mio marito? Ero viva prima di lui e sono viva anche con lui. 
Annuisco, "Certo, chiamerò Allan e poi fisseremo un appuntamento con Cheryl".
Cheryl è la bomba sexy alla reception e uno dei motivi per i quali non voglio che Allan passi allo studio, ma questa volta sorvolerò. Allan ha sposato me, non Cheryl. Allan ama me, non Cheryl. Allan trova che il mio corpo sia sexy, non quello di Cheryl.

Stringo la mano del dottor White e passo il banco della reception, facendo gesto a Cheryl di attendere un momento. Mi fermo sul pianerottolo fuori l'ingresso e prendo il telefono. Scorro gli ultimi numeri chiamati e quello di Allan è subito sotto il nome di Harry.
Uno squillo, due, al terzo risponde.

"Allan? Il dottor White vorrebbe un appuntamento anche con te, quando saresti libero?", domando.
"Lasciami controllare", sento rumore di carta e nuovamente la voce di Allan, "Il 12 sono libero tutto il giorno, fissalo all'orario che più di conviene e poi mandami un messaggio, così mi tengo libero".
"Grazie amore", dico e attacco dopo il suo ti amo.

Io ti amo, Allan?

Rientro e mi avvicino a Cheryl, "Il 12 siamo liberi, si potrebbe fare ancora a quest'ora?"
Cheryl annuisce con il suo caschetto biondo e annota l'ora seguita dal mio cognome sul calendario. 
"Arrivederci", mi urla mentre mi accingo a chiedermi la porta alle spalle.

☆☆☆

Ho ancora mezz'ora prima che la pausa pranzo finisca, quindi prendo la metro e mi avvio verso il negozio. Compro un caffè d'asporto da Prêt e entro dalla porta sul retro. Poggio il bicchiere sulla scrivania e ritorno a concentrarmi sugli ordini da affettuare.
Arriva l'orario di chiusura senza che me ne accorga. Nelle settimane passate avevo accumulato parecchio lavoro, ma sono riuscita a smaltirlo quasi tutto. 
Bussano alla porta, "Avanti", dico. E' Miguel, uno dei miei migliori commessi. 
"Signora", dice accomodandosi su una sedia, "Potrei avere venerdì prossimo libero? E' il compleanno del mio niño", l'ultima frase ha un tono titubante. Quasi avesse paura di un mio no.
"Certo Miguel", dico sorridendo, "Ricordati di portarmi una fetta di torta e i miei auguri al piccolo Pablo".
"Grazie Signora, grazie".
"Non ringraziarmi Miguel, la famiglia è importante e noi, qui, siamo una piccola famiglia. Salutami anche l'adorabile Juanita", concludo mentre esce dal mio ufficio.
Segno la sua assenza sul plan della settimana e chiamo Marco, ho bisogno di un sostituto. Il venerdì è il giorno nel quale, solitamente, abbiamo pou clientela e non posso lasciare una cassa chiusa.

Quando spengo l'ultima luce, sono già le otto di sera. Chiamo il ristorante cinese e torno a casa, Allan non è ancora tornato, ma il lunedì sera raramente rincasa prima delle undici. 
Il fattorino con la cena arriva poco dopo, pago e mi siedo sul divano e poggio il cartone dell'anatra all'arancia sul tavolino. Accendo la TV e pilucco la cena guardando un film con Ryan Gosling.

Quando Allan torna sono ancora sul divano, ma ora la TV trasmette un film documentario sulla guerra in Vietnam. L'anatra è fredda e io indosso ancora i vestiti del lavoro.
"Amore?", domando, "Hai già cenato? Puoi scaldare l'anatra se vuoi"
Allan grunisce quello che somiglia a un si e io mi alzo per portare il cartone in cucina.
Trovo Allan seduto, con la faccia sepolta tra le braccia.
"Brutta giornata?", chiedo massaggiandogli le spalle.
"Ho dovuto licenziare Colfer perché la compagnia sta effettuando tagli nel personale. Pensa che gli mancavano solo due anni alla pensione...", 
sospira.

Mi allontano e apro l'armadietto vicino al frigorifero, prendo una bottiglia di vino rosso e due bicchieri.
Allan prende subito il suo e lo svuota senza molti preamboli. Versai altro vino nel suo calice e lo guardai finire nella sua gola in due sorsi. Il microonde suona due bip, segno che l'anatra è calda. Lo ignoro.
Versai altro vino nei nostri bicchieri. Allan lo scola e se ne versa dell'altro.
"Amore?", mi chiama, "Preparami un whisky con acqua e fallo doppio".
Feci come mi era stato detto e dopo poco lo guardai salire le scale barcollante. Si chiuse la porta della camera alle spalle e mi lasciò sola in cucina. 
Questa era la nostra routine quando la sua giornata andava male.

Finii la bottiglia e mi versai un abbondante bicchiere di whisky, presi anche la bottiglia e poggiai il tutto nella camera degli ospiti. Quando entrai nella nostra stanza, Allan era sdraiato sul letto, vestito, che russava. Gli carezzai i capelli con fare materno e presi il mio pigiama, un cambio di intimo e andai in bagno.
Lasciai scorrere l'acqua fino a quando non divenne calda e m'immersi tra le bolle di sapone. Svuotai il bicchiere di whisky e mi sciacquai, indossai il babydoll di seta e tornai nella camera degli ospiti con i capelli leggermente umidi.
Dormire senza Allan era routine quando lui era ubriaco, così presi il portatile e misi un film a caricare. Afferrai la bottiglia di whisky e mi ubriacai dolcemente guardando Titanic. 
Céline Dion cantava mentre io scivolavo nel sonno.

Harry...

 

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Capitolo 6
*** Paradisi artificiali ***


Il dopo sbornia mi durò due giorni. Non perché avessi bevuto più del solito, no, ma perché non riuscivo a scindere l'ubriacatura dalla tristezza mista alla vergogna che provavo.
Ero stata sciocca, immatura. E Allan mi amava comunque. E io cercavo amore nelle braccia di Harry e affetto nel fondo del bicchiere.

Harry era un paradiso artificiale. Qualcosa, o meglio, qualcuno, che mi aiutava a dimenticare gli affanni della vita, i problemi, e Allan. 
Allan che avevo sposato, Allan che avevo amato. Allan che combatteva contro la mia malattia ogni giorno. Allan che mi aveva educato e dato un luogo sicuro in cui vivere e le sue braccia forti nelle quali rifugiarmi.
Stavo buttando via tutto questo per uno sciocco capriccio, per qualche anno in meno sulle spalle, per provare la gioia dell'evasione e l'adrenalina dell'illegalità.

No. Certamente non ero io a volerlo, no. Come avrei potuto desiderare una cosa così distruttiva solo per il mero piacere dei sensi? Perché non riuscivo a smorzare quella parte di me? Quel Mr Hide che violentava la mia coscienza e che nemmeno il migliore degli psichiatri o l'ultima miscela di farmaci era riuscita a distruggere, o al minimo, seppellire nella parte più recondita del mio essere.

Il mio pensiero tornò a Harry. Harry, luce nel mio buio, barlume di speranza. Fatiscente uomo angelo mandato per la mia redenzione. Oh Harry, Harry. Così giovane, così ingenuo.
Giocattolo del sesso tra le mie mani. Quando facevamo l'amore e stringevi i miei capezzoli tra le dita e una scossa mi smuoveva la schiena e i nostri bacini aderivano. E i nostri sessi si sfioravano e ti sentivo. Oh Harry, come ti sentivo. Celestiale! Nemmeno Dio avrebbe mai potuto immaginare una sensazione così appagante come il tuo cazzo dentro di me. E a ogni orgasmo rinascevo. E ti cingevo le spalle e tu mi carezzavi i capelli ignorando l'egoismo nei miei gesti.
PeròHarry caro, ti amo. Ho amato ogni tuo singolo gesto dal momento nel quale ti ho conosciuto. Amo il tuo profumo e la tua positività verso la vita. Amo le tue sigarette e il sapore della tua lingua.

Allan dovrebbe odiarmi. Sono mostruosa. Disgustosa. La moglie peggiore dell'universo. Troppo sana per amare suo marito e troppo malata per avere un figlio. 
Potrei, ma non voglio. Sarebbe come dar luce alla progenie del Demonio. Verrei processata come strega in sala parto e giustiziata in obitorio.

Oh Allan, dolce Allan.
Perdonami.

 

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Capitolo 7
*** Mrs Brightside ***


"Il mondo continua, il flusso di persone non si blocca. E non importa che io sia in sincro con loro. Come formiche, sempre in costante movimento, alla ricerca di qualcosa che il raziocinio non può colmare. 
La smania di denaro, la felicità effimera, i falsi dei della televisione. C'importa solo del nostro lavoro, della nostra salute e di avere una villetta indipendente con lo steccato bianco. Io ci provo, ci provo davvero a vedere il lato positivo in tutto questo. Penso, spero, un giorno di capirlo. Di capire perché stare al mondo mi fa così male...", vomito questa scarica di parole contro il dottor White, che mi guarda impassibile appuntando qualcosa di tanto in tanto sul suo taccuino mogano dai bordi oro.

Vorrei che mi fermasse, che mi dicesse qualcosa, che mi aiutasse a capire. Allan non vuole capire e Harry, oh Harry è troppo piccolo e ingenuo per questo mondo. 
Vedo il mondo nei suoi occhi, un mondo bello, pulito, sincero. Negli occhi di Allan il mondo che si rispecchia è marcio e putrido come tutte le persone che lo compongono. Non che il mio sia meglio, ma io conto sul fatto che la mia realtà sia falsata dalla malattia. Allan non è malato, lui vive solo in un mondo sporco e lontano dall'idilliaco paradiso che vede Harry.

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Sotto consiglio del dottore ho iniziato a tenere un diario. Una specie, non metto le date e ci scrivo a casaccio. Robert insiste che sulla scrittura terapeutica, a me scrivere fa schifo, preferisco leggere. Poi con il lavoro e tutto il resto quando mai ho tempo per me stessa? Mi coccolo nel cuore della notte e solo quando mio marito dorme nel sonno alcolico. L'unico divertimento che ho è Harry, che non è più tanto tale vista la passione dei nostri rapporti, per quanto fugaci.

Ho detto a Harry del diario, anche senza vederci parliamo molto al telefono e per messaggio. Crede che un blog sia meglio e dice ho la stoffa della fashion blogger. Alle volte sembra proprio che vive sulle nuvole quel ragazzo... Però l'idea non è male. Chiunque sia in possesso di un computer e in grado di scrivere una frase di senso compiuto si ritiene un grande scrittore, quindi perché non provare anche io?

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Se siete soggetti al nervosismo, vi sconsiglio di guidare in centro Seattle di lunedì mattina. Io prendo i mezzi pubblici, ma riesco comunque ad arrivare in ritardo.
José mi aspetta con due caffè in mano.

"Capo", dice lui allungandomi il bicchiere fumante.
"José, mi chiami Jennifer, la prego."
Scambiamo i soliti convenevoli e prepariamo il negozio all'apertura.
Chissà dov'è ora il mio Harry...

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Capitolo 8
*** Alieni nel mio corpo ***


La realtà ciclica della mattina mi colpisce in pieno viso. Sono spaesata, dondolo sull'orlo. Vedo e sento e mi comporto come una persona normale, ma la depersonalizzazione ha preso il sopravvento.
Mi vesto e mangio e faccio la doccia come ogni giorno, ma i miei occhi sono spenti. Non c'è vita nel mio cuore. Sono il cadavere sanguinolento di uno e le orbite vuote che sostituiscono gli altri.

Fisso la mia immagine allo specchio. Jennifer vuota mi guarda. Occhio dentro occhi dentro pensieri dentro cuori marci. La Jennifer dello specchio è come me, ma nel tempo stesso è diversa. E' letale. Malvagia. Crudele. Rotta. Sporca. Immatura.
La Jennifer dello specchio è tutto quello che io non dovrei essere ma sono.

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Capitolo 9
*** Jenny colpisce ancora. ***


Guardo Allan. Allan il mollaccione, Allan l'uomo di casa, Allan il lavoratore. 
Mette la camicia dentro i pantaloni il mio Allan, e la cintura stretta all'ultimo buco. Poi il gilet di Armani con i bottoni dorati e la cravatta blu notte.

Allan il-colletto-bianco scende in cucina per mangiare cereali. Inzuppa la cravatta nel latte, lo scemo. Il caffè cade e macchia la tovaglia.

Urlo di frustrazione. Più il ghigno di una iena, una risata della morte, il raschiare rauco della gola di un fumatore. Lascio che anche il mio caffè cada a terra, la tazza si spacca in tre pezzi, il manico scivola sotto il tavolo. Allan l'Idiota mi guarda spaesato.

Lascio la cucina e Allan alle mie spalle, corro per le scale e mi nascondo in bagno. Getto la faccia sotto l'acqua del rubinetto e godo della sensazione di freddo che mi pervade, propagandosi come una marea di spilli dalle guance fino alle punte dei piedi. Mi allungo fino a bagnare il collo, rivoli gelati mi scendono giù per la schiena.
Rinata, mi asciugo viso e collo, lavo i denti, metto la crema e mi trucco. Sciolgo la coda e lascio i capelli morbidi sulla schiena. Jeans neri e maglione, giacca di pelle e converse. Esco di casa agguantando la borsa e arrivo di corsa fino alla metro.

Allan mi scrive messaggi che ignoro. Spengo il telefono e lo getto nella borsa con forza.

☆☆☆

Il negozio è buio quando arrivo ma tempo passa pigro tra scartoffie e telefonate. Pianifico un paio di eventi, firmo delle bolle di consegna e sbircio le nuove collezioni di moda.
Il minimal non va quasi più, ora si preferiscono i tagli squadrati e le maxi stampe colorate. La mia scrivania è priva di effetti personali. Solo lavoro.
Penso a Harry guardando un catalogo giapponese. 'Sti giappo e le loro idee cartoon. Anche la Corea del Sud si interessa di moda, ma nel mercato internazionale lancia quasi solo cosmetici.
Martha arriva con il caffè.

Scrivo a Harry.

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Capitolo 10
*** Giovinezza. ***


La mia testa era poggiata sul suo petto, sentivo il suo cuore battere, bum bum-bum bum, regolare, familiare, dolce e accattivante. I suoi occhi dentro i miei, mille parole non dette, sguardi da mozzare il fiato. Brividi lungo la schiena mentre mi accarezzava la colonna vertebrale, sfiorava il reggiseno, saliva verso il collo con il pollice, lasciava scorrere le sue dita sul mio collo, sulla mascella, sotto l'orecchio. La giugulare pulsava piano, la mia bocca semi socchiusa faceva uscire piccoli versi di compiacimento. La sua mano sul mio ginocchio, le sue labbra che sfioravano i miei capelli.

Parole non dette e carezze. Io rannicchiata contro di lui, il mio orecchio sul suo cuore, la mia bocca sul suo collo. Mano nella mano. Miriadi di frasi lasciate a metà nell'idillio del nostro momento. Piccola e indifesa sulla panchina, il bacio non dato, l'attesa del momento perfetto, ricami e ghirigori sul mio collo, la sua risata dentro di me, nel mio stomaco, nei miei polmoni. Un colpo al cuore, il suo pollice sul mio polso, per sentire il battito. Sfarfallio di sensi.

Mi guarda, "Potrei diventare violento, potrei farti male."

Socchiudo le labbra, sussurro, "Stringimi forte il collo."

Sussurri, singulti, mormorii piacevoli tra foglie morte e verdi prati.

Seattle città d'amore. 
Seattle città di Kurt. 
Seattle città Galeotto del nostro amore.
Seattle città di sparatorie e sangue.
Seattle città di droga e vampiri.
Seattle città culla del desiderio.
Seattle.
Solo Seattle.
Seattle con lui è l'universo, la vita come unico limite.

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Capitolo 11
*** Padri e figlie. ***


Piange, rannicchiata sul letto. Un fiume di lacrime scorre dalle sue guance sulla punta del naso e sulla coperta. Ha la bocca arrossata, mossa dai singhiozzi, il naso tappato e gli occhi gonfi.

Jenny non è bella.
Jenny non è sana.
Jenny è malata.

Jenny vuole guarire, Jenny ingurgita pillole con vino rosso, Jenny fa le parole crociate piangendo sulle definizioni. Jenny fuma troppo. Jenny mangia poco. Jenny vomita dopo aver mangiato. Jenny si prende a pugni in testa. Jenny si tira i capelli. Jenny piange disperata. Jenny ride come una maniaca. Jenny. Jenny. Jenny. Jennifer.

Il respiro non è regolare, ma Jenny ora dorme. Gli occhi sono incrostati di lacrime, ma Jenny è nel mondo dei sogni. La bocca è rossa e secca, Jenny domani metterà il burrocacao.

Jenny vuole vivere e Jenny vuole morire. Jenny vuole essere libera ma Jenny ha bisogno di avere regole.

Jenny non sta bene.
Jenny non è guarita.
Jenny è malata.

Jenny sa che non può guarire ma ci prova comunque, Jenny non vuole essere buttata via come un giocattolo rotto. Jenny vuole guarire, Jenny non può guarire.

Il problema con il borderline è questo: non ci sono farmaci, non ci sono terapie. 

La morte è davvero l'unica soluzione.

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