Due più due

di vannagio
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Due più due ***
Capitolo 2: *** Sulla porta ***
Capitolo 3: *** Furto con scasso ***
Capitolo 4: *** Clistere d'Amore ***
Capitolo 5: *** Guardaroba ***
Capitolo 6: *** Fare la differenza ***



Capitolo 1
*** Due più due ***


Per la serie…
“Quando vannagio vaneggia!”




Due più due




L’apparenza inganna. Quanto è dannatamente vero da uno a dieci? Un milione.
Sono sufficienti un’improvvisata coda bassa (Linzy, l’addetta alle fotocopie, sarà pure stupenda con le sue acconciature da ultimo grido, ma quelle occhiaie bluastre che si ritrova sotto gli occhi la fanno somigliare a Nosferatu. No, grazie, io la mattina preferisco dormire!), la ricrescita ai capelli (non c’ho sbatta, come ve lo devo dire?), un paio di occhiali da hipster, un out-fit castigato, e in men che non si dica vengo classificata come nerd disadattata, internet-dipendente, patita di anime (si chiamano anime, non cartoni animati!), che blatera a vanvera ogni due per tre, ingenua e credulona. E a me danno sui nervi questi pregiudizi, mi irritano tantissimo.
Ingenua e credulona proprio non lo sono, va bene?
Oliver Queen pensa di essere un gran furbone. Mi consegna il suo portatile, con fori di proiettili grossi così, che a confronto una fetta di Emmental ha meno buchi, chiedendomi di recuperarne i file. A quanto pare è convinto di avere a che fare con una stupida (secondo lui i computer si decriptano così, per scienza infusa), perché mi rifila una storiella su una tazza di latte rovesciata sulla tastiera tanto improbabile da farmi sperare in un “Banziga!” alla Sheldon. Riesco a scoprire, nel giro di un nanosecondo, perché, modestamente, in questo lavoro non mi batte nessuno, che cosa contiene il portatile. A questo punto mi pare ovvio che il portatile non sia del Signor Queen (quello superstite, non quello annegato), ma del Signor Warren Patel. Secondo voi, per rimediare, il Signor Queen prova a raccontarmi una storiella leggermente meglio costruita? Certo che no! Come se i geni-nerd non guardassero i telegiornali in tv (in effetti io li guardo su internet, ma non è questo il punto) e non sapessero che portatile con cianografia della Borsa più attentato alla suddetta Borsa più intervento dell’incappucciato all’evento è uguale a quattro.
Bitch, please.
Ovviamente non finisce qui. Oliver Queen torna qualche settimana dopo, chiedendomi di cercare informazioni su un certo Derek Reston (no, dico, va bene i cinque anni passati su un’isola deserta lontano dalle innovazioni tecnologiche, ma google esisteva anche nel duemilasette, eh?). Un uomo sulla sessantina, che lavorava per una fabbrica delle Queen Industries, silurato senza pietà… amico di Oliver Queen? Sicuro di non aver corretto il latte delle noci di cocco con funghi allucinogeni, sull’isola? Il giorno dopo guardo il notiziario delle cinque (sempre su internet, eh?) e… be’, anche in questo caso la matematica non è un’opinione: rapina in banca sventata dall’incappucciato più nome del tizio googlato per Queen è uguale sempre a quattro.
L’apparenza inganna, niente di più vero.
Oliver Queen appare come il solito ricchissimo rampollo superficiale, viziato e irresponsabile, ma di notte si trasforma in un vigilante incappucciato che sconfigge i cattivi. Proprio come Batman, insomma, solo che il Signor Queen preferisce arco e freccia. Ed io? Mi piace immaginarmi nei panni di Lucius Fox (mai sentito parlare della trilogia su Batman di Christopher Nolan?): mi limito a inarcare il sopracciglio ogni volta che il Signor Queen fa qualche richiesta strana, il più delle volte mi comporto da finta tonta, ma in verità ho sgamato Bruce Wayne alla velocità della luce. Lascio che il Signor Queen continui a credere alla storiella della nerd ingenua e credulona, intanto mi rendo utile alla sua causa con discrezione e professionalità. La cosa non mi dispiace, dico sul serio, anche perché Lucius Fox è uno dei miei personaggi preferiti (e poi Morgan Freeman recita da dio!). Sono sicura che prima o poi anche il Signor Queen si renderà conto che due più due fa quattro.
Ci è arrivato perfino Batman!







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Note autore:
Immane scemenza, scritta in seguito alla visione no-stop delle prime otto puntate di Arrow. Ovviamente, di quale personaggio vado a innamorarmi? Di Felicity Smoak, il genio informatico che in totale compare quattro volte e che, chissà come mai, risulta mille volte più interessante e simpatica della protagonista femminile Laurel (a morte, Laurel!).
Con questa immane scemenza cerco di spiegare come mai una tipa sveglia come Felicity non abbia fatto due più due sull’identità dell’incappucciato. Ecco, non è che non ha capito, lei finge di non capire! XD
Dedico questa flashfic a nes_sie (che spero non si offenda, vista l’inutilità della storia), con la quale ho appena scoperto di condividere la passione per la coppia Felicity/Oliver aka Feliver.
Va be’, fate finta che non abbia scritto niente.
A presto, vannagio

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Capitolo 2
*** Sulla porta ***


Sulla porta




Pessima, pessima idea, Felicity.
Si era appena decisa a bussare, quando la porta si aprì, e per poco non rischiò che il suo naso finisse spappolato contro lo spigolo. Dalla stanza di ospedale uscirono un uomo e una donna: lui indossava un completo scuro, elegantissimo, sicuramente di alta sartoria, lei un abito da sera rosso e sexy da fare schifo, ed entrambi fissavano Felicity come se le fossero spuntate due antenne verdi sulla testa.
Felicity represse l’impulso di tastarsi il capo per accertarsi che fosse tutto in ordine (non sarebbe stata la prima volta che si ritrovava di fronte a degli estranei con addosso qualcosa di imbarazzante, come quella volta che aveva accolto l’idraulico con… no, era meglio non pensarci adesso) e si sforzò di sorridere. Miss Abito-Rosso-E-Sexy stava per chiudersi la porta alle spalle.
«No, non chiuda», la fermò lei. «Devo entrare».
«Oh, certo… è un’amica di Oliver?».
L’espressione da gatta morta di Miss Abito-Rosso-E-Sexy le ricordava qualcuno, anche la faccia di Mr Completo-Guarda-Quanto-Sono-Ricco le era familiare.
«Be’, sì, cioè… no, non proprio. Faccio dei favori per lui, ogni tanto. Sa, lavoro alla Queen Consolidated, quindi il Signor Queen è quasi… anzi, lui è a tutti gli effetti il mio capo, anche se, a dire il vero, è il Signor Steel a dirigere l’azienda, perciò non so se il Signor Queen si possa davvero considerare il mio…». Felicity scosse la testa per resettare il cervello. «Scusi, ho il brutto vizio di parlare a vanvera quando mi sento a disagio».
Miss Abito-Rosso-E-Sexy sfoderò un sorriso forzatissimo e a Felicity tornò in mente quella volta che aveva estratto un chiodo storto dalla parete con la tenaglia di suo padre.
«Si figuri, perché dovrebbe sentirsi a disagio, poi?».
«No, no, non volevo dire quello che ho detto, volevo solo dire che…».
«Forse perché due sconosciuti la stanno trattenendo davanti alla porta di una stanza di ospedale, Laurel», intervenne Mr Completo-Guarda-Quanto-Sono-Ricco.
Laurel? Aspetta un secondo…
Laurel Lance, figlia del detective Quentin Lance che aveva arrestato il Signor Queen accusandolo di essere l’incappucciato, l’avvocato che aveva difeso il Signor Queen dalla suddetta accusa ed ex-fidanzata del Signor Queen stesso? Caspita, adesso sì che era a disagio! (Anche i nerd ne sanno qualcosa di gossip, soprattutto se hanno una vicina di nome Wanda che ci tiene a metterli al corrente di tutte le novità apprese sui rotocalchi). E se Miss Abito-Rosso-E-Sexy era Laurel Lance, allora Mr Completo-Eccetera doveva essere… Oh. Mio. Dio.
Lo aveva detto, lei, che era stata una pessima idea andare a fare visita... cioè, cercare il Signor Steel in ospedale dove era ricoverato il suo figliastro, perché non rispondeva al cellulare e perché doveva assolutamente parlargli di quella cosa davvero tanto tanto importante.
Felicity ricominciò a respirare solo quando la Signorina Laurel e il Signor Merlyn sparirono in fondo al corridoio. Poi si fece coraggio, e finalmente entrò nella stanza di ospedale. Il Signor Queen era sdraiato sotto le coperte, e la guardava con il solito sorriso serafico sulle labbra.
«Vi siete fatti proprio una bella chiacchierata lì fuori».
Perché lui aveva sentito, ovviamente. Tutto, ovviamente. Compresi i suoi bla bla bla incontrollati, ovviamente. Così impari, Miss Non-Chiuda-Devo-Entrare!
Felicity si raddrizzò gli occhiali sul naso, raddrizzò anche la schiena visto che c’era, e si avvicinò al letto.
«Ho saputo che ha avuto un incidente».
«E hai pensato di accertarti che stessi bene? Molto gentile da parte tua».
«In realtà mi ero già accertata al tele-ehm… stavo cercando il Signor Steel. Non risponde alle mie chiamate e ho pensato che potesse trovarsi qui».
L’angolo della bocca del Signor Queen si arricciò all’insù.
«È molto tardi, Felicity. Dovresti prenderti una vacanza, non ti fa bene lavorare così tanto».
«E lei dovrebbe usare un’armatura in kevlar, come quella di Batman».
«Per andare in moto? Non ti sembra un'esagerazione?».
«Lei è ricco quanto Bruce Wayne, e molto più… spericolato. Perciò, no. Ritengo che non sia affatto un'esagerazione, per uno come lei».
Il Signor Queen annuì. «Prenderò in considerazione la tua proposta, allora».
«Farò una ricerca per lei. Per quando sarà stato dimesso, avrà i nomi delle migliori ditte produttrici di armature in kevlar nella sua casella postale elettronica».
«Cosa farei senza di te?».
Felicity roteò gli occhi. «Si beccherebbe una freccia in fronte, probabilmente?».







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Note autore:
Possibile (o molto probabile?) missing moment della puntata numero nove. Poco prima di essere rapito, Walter Steel è al telefono con Felicity, che ha chiamato per informarsi sulle condizioni di Oliver. Lui la ringrazia, le dice che sta per entrare in ascensore e che la richiamerà subito dopo.
Ho pensato che la scusa “Il Signor Steel non mi ha più richiamata e non risponde alle mie telefonate” reggesse quel poco per giustificare una visita di Felicity in ospedale.
Per il resto… che dire? Ormai sono convinta che Felicity sappia. E forse forse che Oliver sappia che lei sa. Questo, oppure è stupido.
La vicina Wanda di Felicity è proprietà di nes_sie e viene citata qui e qui. Vi consiglio di dare un’occhiata a queste due fanfiction, se siete fan della Feliver (= Felicity/Oliver).
Grazie a chiunque passerà da queste parti.
A presto, vannagio

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Capitolo 3
*** Furto con scasso ***


Furto con scasso




Non può piovere per sempre.
E prima o poi anche le giornate di cacca devono finire, no? No.

Quando, al termine di un’estenuante giornata lavorativa, entrò nel suo appartamento con l’impermeabile completamente zuppo (l’ombrello era deceduto tentando di resistere pavidamente a una raffica di vento) e un’irrefrenabile voglia di cioccolata bollente, di quella che va gustata a piccoli sorsi, sul divano, con un gatto grassone acciambellato in grembo (e lei li aveva entrambi, divano e gatto grassone), Felicity si rese conto che la fine di quella giornata di cacca era ancora molto, molto, molto lontana.
Sintomi: ante della porta-finestra che si affaccia sulla scala antincendio spalancate, vetro sparso ovunque, pavimento allagato, appartamento rivoltato come un calzino.
Diagnosi: ladri in casa, furto.

Ma furto di cosa? Dal Computer e dal tablet non si separava mai. Contanti in casa, non ne teneva. Gioielli preziosi, non ne aveva (a parte la spilla a forma di libellula della nonna). Tv e lettore dvd? Erano così scassoni che un ladro non li avrebbe presi neanche in regalo. Insomma, nel suo appartamento non c’era niente che valesse la pena rubare. Sempre che i ladri non fossero nerd incalliti interessati a una collezione quasi smagnetizzata di...
Felicity si precipitò in camera da letto. Anche lì i sintomi persistevano: materasso ribaltato, contenuto dell’armadio e del cassettone sparpagliato sul pavimento. Ma ciò che preoccupava Felicity era il mobiletto in cui conservava i suoi tessssssori in formato VHS e al quale non era toccata una sorte migliore. Felicity rovistò nel mucchio di videocassette, un tempo ordinate per data di uscita, fin quando non trovò quello che stava cercando: la custodia originale della prima edizione della prima (ed ultima, per quanto la riguardava) trilogia di Star Wars. Se la rigirò tra le mani un paio di volte, con il cuore che cercava di sfondarle la cassa toracica, poi finalmente si decise ad aprirla.
Odino, ti ringrazio!
Sfogliò velocemente il libriccino, giusto per essere sicura che si trattasse di quel libriccino (non bisognava certo essere un genio informatico per sostituirlo con un falso), ma nel vedere l’ormai familiare lista di nomi si tranquillizzò. Soltanto dopo aver riposto il libriccino del Signor Steel nel nerd-nascondiglio e aver chiuso a chiave il mobiletto, però, si sentì libera di tirare il proverbiale sospiro di sollievo.


Conteggio delle vittime: vetrata della porta-finestra, spilla a forma di libellula della nonna.
Conteggio dei dispersi: gatto grassone di nome King.

Felicity contemplava il disastro in soggiorno, svuotata di ogni energia. Le ante della porta-finestra sbatacchiavano contro gli infissi a causa delle continue e fortissime raffiche di vento, facendo tremare quel poco del vetro che era rimasto appeso. I cocci sul pavimento bagnato luccicavano come piccoli cristalli. Tanto casino per una spilla: quello che si era introdotto nel suo appartamento doveva essere il ladro più stupido del mondo. Tipicamente Felicity.
Qualcuno bussò alla porta, forse i due agenti venuti per il sopraluogo erano tornati per qualche raccomandazione. Nell’aprire la porta, però, si ritrovò faccia a faccia con due grandi occhi gialli e un paio di baffi da gatto.
«King! Ma che…». Felicity guardò in sù e sbiancò. «Signor Queen!».
Oliver Queen era in piedi sul suo zerbino, con in braccio il suo gatto grassone. E lei stava ancora indossando l’impermeabile zuppo. Di nuovo, tipicamente Felicity.
«L’ho sorpreso a gironzolare solo soletto sul marciapiede». Il Signor Queen accennò col mento a King. «Dalla targhetta sul collarino ho scoperto che era tuo».
Felicity spostò lo sguardo dal Signor Queen a King (l’accostamento dei loro nomi era surreale), e da King alla porta-finestra ancora spalancata.
«Deve essersene approfittato per sgattaiolare fuori».
Felicity prese King in braccio e invitò il Signor Queen (sei sicura che non si tratti di un altro sogno?) a entrare.
«Accidenti, ho interrotto la ristrutturazione del soggiorno, per caso?».
Felicity storse il naso.
«Sì, certo. Ho assunto un ragazzo e l’ho pagato con la spilla a forma di libellula di mia nonna».
Il Signor Queen si era fatto serio, adesso.
«Mi dispiace, Felicity. Volevo solo sdrammatizzare. Hai chiamato la polizia?».
Lei annuì. «Non mi hanno dato molte speranze, però». Si guardò intorno, sconsolata. «Domani mi toccherà chiamare il tuttofare per sistemare la porta-finestra. Ah, no, accidenti. Domani è domenica». La mia solita sfiga.
Il Signor Queen aggrottò la fronte.
«Non dovrebbe occuparsene il padrone di casa?».
«Per carità! L’ultima volta che ho avuto a che fare con il Signor Fitsgerald, mi ha proposto una cosa a tre con Wand-ahehm… ma lei non è certo venuto qui per sorbirsi i racconti delle mie disavventure, dico bene?». A conferma dei suoi sospetti, un angolo della bocca del Signor Queen si arricciò all’insù. Felicity alzò gli occhi al cielo. «Cosa le serve questa volta?».
Lui fece spallucce.
«Nulla, in realtà».
L’occhiata scettica di Felicity lo fece ridere.
«Dico sul serio. Sono venuto soltanto a saldare il mio debito».
«Quale debito?».
Per tutta risposta, il Signor Queen estrasse dalla borsa a tracolla una bottiglia. Una bottiglia di vino rosso, per essere precisi. E non un rosso qualsiasi.
«Un Queen paga sempre i suoi debiti».
Felicity non sapeva cosa dire. Continuava a fissare alternativamente il Signor Queen e la bottiglia di Lafite Rothschild 1982, con gli occhi che quasi sfioravano le lenti degli occhiali, tanto erano schizzati fuori dalle orbite.
«Avanti, te la sei guadagnata e poi, dopo quello che è successo, un bel bicchiere di vino rosso ti farebbe bene».
Felicity obbedì come un automa e prese la bottiglia che lui le stava porgendo.
«Q-questo significa che…». Si schiarì la voce dall’imbarazzo. «Questo significa che ha vinto la… caccia al tesoro, Signor Queen?».
Lui parve rifletterci un momento. «Sì, diciamo di sì», rispose infine.
Felicity abbozzò un sorriso e gli agitò la bottiglia davanti al naso.
«Allora mi faccia compagnia, così brindiamo alla sua vittoria e alla mia sfiga».
«D’accordo, ma prima ti aiuto a sistemare questo disastro».
Non può piovere per sempre.
Fuori aveva smesso di diluviare, infatti. La giornata di cacca stava finalmente volgendo al termine. E non nel peggiore dei modi, in fondo.


La mattina dopo Felicity venne svegliata da qualcuno che bussava alla porta con insistenza.
«Arrivo, un attimo!».
Ciabattando e sbadigliando, passò davanti alla porta-finestra e constatò che il cartone che il Signor Queen aveva usato per tappare il vuoto lasciato dalla vetrata rotta aveva fatto il suo dovere. La bottiglia di Lafite Rothschild 1982 giaceva malinconica e vuota dentro lo scatolo unto e bisunto di una fu pizza ai peperoni. I calici di vino, invece, erano ancora sul tavolinetto, velati di rosso, accanto a una ciotola contenente un gruppetto sparuto di noccioline superstiti. Felicity ne prese una e sgranocchiandola andò ad aprire.
Trovarsi a tu per tu con il Signor Fitsgerald, di domenica mattina, non era un trauma, di più. Felicity si strinse le braccia al petto, maledicendo se stessa per non aver indossato la vestaglia sopra il pigiama.
«Buongiorno, Signor Fitsgerald. Cosa posso fare per lei? Ci sono ancora problemi con la caldaia?».
Il Signor Fitsgerald scosse la testa, tenendo gli occhi bassi. Comportamento bizzarro per uno che ti faceva sentire viscida solo guardandoti.
«È quello il vetro da sostituire?», chiese indicando la porta-finestra alle sue spalle.
«Sì». Felicity aggrottò la fronte. «Ma lei come faceva a saperlo?».
Il Signor Fitsgerald non si degnò di risponderle. La spinse di lato ed entrò di corsa. Felicity rimase imbambolata a fissarlo, mentre lui armato di metro da carpentiere si affannava a prendere le misure della vetrata.
Qui gatta ci cova, pensò.
Qualcosa di morbido le fece il solletico sulla caviglia, Felicity guardò in giù e sorrise: King le si stava strusciando contro una gamba. Lo prese in braccio e lo grattò dietro le orecchie, proprio come piaceva a lui, finché non notò un sospetto scintillio in mezzo alla pelliccia nera. Non poté fare a meno di strabuzzare gli occhi, quando si rese conto che, accanto alla targhetta, dal collarino rosso penzolava una libellula dorata con le ali verde smeraldo.
«E questa? Dove l’hai trovata?».
King si limitò a miagolare.
Felicity fissò lui, la spilla della nonna ritrovata e un Signor Fitsgerald insolitamente educato, sbattendo stupidamente le palpebre per qualche minuto. Poi, tutto a un tratto, le si accese la lampadina.
Ancora una volta, aveva fatto due più due.







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Note autore:
Aspettando la fatidica puntata numero quattordici, si continua con i missing moments.
Alzi la mano chi, alla fine della puntata numero undici, è rimasto male quando Oliver non ha regalato la bottiglia di vino rosso a Felicity. Io ero convinta che gliela avrebbe portata comunque, caccia o non caccia al tesoro. Tanto lui è ricco, no? Credo che si possa permettere una bottiglia di vino pregiato. Bah. Per fortuna esistono le fanfiction.
Citazioni e credits.
La frase “Non può piovere per sempre” viene dal film Il corvo. Spero che Brandon non si stia rivoltando nella tomba.
“Un Queen paga sempre i suoi debiti” è il riadattamento della frase “Un Lannister paga sempre i suoi debiti”. Chi non conosce la provenienza di questa citazione, vuol dire che come minimo vive oltre la Barriera.
La vicina Wanda e il gatto nero King sono proprietà di nes_sie, e li potete ritrovare in questa storia. Il pensiero “sei sicura che non si tratti di un altro sogno?” è sempre un riferimento alla fanfiction di nes_sie.
Il signor Fitsgerald è mio, invece. Si ispira a un personaggio/comparsa del telefilm New Girl.
Ringrazio IoNarrante per l’idea del nerd-nascondiglio; nes_sie per la consulenza/betaggio della storia e per avermi prestato i suoi personaggi.
Anche per oggi è tutto. Buona puntata numero tredici, domani. E shippate Feliver, mi raccomando!
A presto, vannagio

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Capitolo 4
*** Clistere d'Amore ***


Guida alla lettura: questo è un missing moment dell'epidosio 2x14 Time of Death.





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Dedicata a nes_sie, che oggi compie gli anni.
Sperando che torni presto a scrivere in questo fandom.




Clistere d’Amore




Viviana aveva appena rivelato ad Antonio che In realtà Pedro non è tuo padre, è tuo figlio, quando Wanda udì dei passi lenti e strascicati sul pianerottolo, oltre la porta di ingresso. Abbassò il volume del televisore e raddrizzò le orecchie, perché il colpo di scena sulla paternità di Antonio in Clistere d’Amore non era tanto interessante quanto le misteriosissime attività notturne di Felicity, la sua dirimpettaia preferita. E comunque si trattava della terza replica che il canale mandava in onda nel giro di due mesi, sapeva già che tra non meno di cinque puntate si sarebbe scoperto che In realtà Viviana non è tua sorella, è tua madre.
Invece, da quando era diventata l’assistente personale di Oliver Queen, Felicity aveva abbandonato le vecchie abitudini da eremita per diventare la tipica viveur che rincasa ad ore improbabili della notte. Faccio gli straordinari e quello schiavista di Oliver Queen nemmeno me li paga, era la sua scusa. Ma Wanda era disposta a tutto pur di seguire la vicenda più da vicino e mettere a nudo i torbidi retroscena.
Posò il telecomando sul tavolinetto e raggiunse la porta d’ingresso in punta di piedi (perché le pareti erano di carta velina, purtroppo e per fortuna). Attraverso lo spioncino vide la testa ingigantita di un uomo che le dava le spalle (spalle molto larghe, tra l’altro) e che stava rovistando dentro a una borsa davanti alla porta dell’appartamento di Felicity. Una borsa a mano Anna Field rosa, con delle graziose rifiniture a fiore, se la vista non la ingannava. Davvero poco virile, il suo Carlos non sarebbe andato in giro con un accessorio del genere nemmeno da morto.
Wanda inarcò un sopracciglio.
Che si tratti di un ladro? Ma i ladri non dovrebbero indossare un passamontagna o roba del genere?
Wanda prese in considerazione l’idea di chiamare il 911, ma l’uomo alzò gli occhi al cielo e si rivolse con aria frustrata a qualcuno alla sua destra (“Dove sono le chiavi?”, gli stava chiedendo), qualcuno che purtroppo lo spioncino non inquadrava. Un complice, forse? L’identità dell’interlocutore, però, passò immediatamente in secondo piano, quando Wanda riconobbe il profilo attraente e assai mascolino dell’uomo con la borsa.
Oh. Mio. Dio.
La trama si faceva sempre più intricata.
Niente poco di meno che Oliver Queen (Lo Scapolo d’Oro di Starling City, come lo chiamavano i suoi rotocalchi preferiti) cercava di entrare nell’appartamento di Felicity ed evidentemente non aveva le chiavi con sé. Ora, si dava il caso che Wanda possedesse una copia di emergenza delle chiavi in questione. Non era forse un’emergenza, quella? Perché mai un datore di lavoro multimilionario avrebbe dovuto avere cattive intenzioni? E poi lei non poteva rimanere insensibile di fronte a un ricco figone in difficoltà.
Corse davanti allo specchio, diede un’aggiustatina ai bigodini, si passò una linea di matita intorno agli occhi, un filo di rossetto sulle labbra, slacciò un bottone della camicia da notte e… voilà! Il deus ex machina era pronto per entrare in scena.
«Buonasera, serve una…».
Il sorriso a trentadue denti di Wanda appassì prima ancora di fiorire: Felicity era accasciata contro la parete del pianerottolo. Oliver Queen sgranò gli occhi e mise subito le mani avanti.
«Non è come sembra!».
Sentendosi tirata in causa, Felicity sollevò il capo, che ondeggiava a destra e sinistra come la testa ciondoloni di quei pupazzetti da auto a forma di cagnolino, e rivolse a Wanda un sorriso storto.
«Mi ha dato alcune di quelle aspirine».
Wanda lanciò un’occhiata di sbieco a Oliver Queen, poi si inginocchiò davanti a Felicity e le diede un buffetto sulla guancia.
«Aspirine di ottima qualità, a quanto pare. Pasticcino, la mamma non ti ha insegnato che non si accettano le caramelle dagli sconosciuti? O dagli scapoli impenitenti?».
«Aveva l’emicrania…», disse Oliver Queen. «Ha esagerato con gli antidolorifici, non era in grado di tornare a casa da sola. Volevo portarla a letto…».
Wanda inarcò entrambe le sopracciglia.
«Prego?».
«No! No, non portarla a letto. Portarla a letto. Voglio dire… sotto le coperte».
Felicity ridacchiò.
«Anch’io sono così buffa quando straparlo?».
Oliver Queen la fulminò con lo sguardo, poi prese un bel respiro profondo.
«Intendevo, metterla. Metterla a letto. Ma non trovo le sue chiavi. Deve averle dimenticate in ufficio».
Wanda si rimise in piedi e con un sorriso trionfante tirò fuori la copia delle chiavi dalla tasca della vestaglia. La fece penzolare davanti al naso di Oliver Queen, in modo che capisse l’antifona.
«È tutto a posto, penso io a lei».
«Non credo che sia in grado di reggersi in piedi, è sicura di riuscire a sostenerla?».
Ogni volta che Carlos alzava troppo il gomito, a Capodanno, toccava a Wanda trascinarlo fino a casa e farlo cascare a peso morto sul letto. In confronto a lui, Felicity era un fuscello. Se poteva farcela? Sarebbe stata una passeggiatina di piacere. Però non vedeva l’ora di scoprire cosa sarebbe successo nella prossima puntata, così indossò un’espressione pensierosa e guardò Felicity (che a sua volta stava fissando il soffitto come si fissa un cielo stellato) come per valutarne la stazza.
«In effetti, forse è meglio lasciare i lavori pesanti agli uomini veri», concluse infine.
Mentre lei apriva la porta dell’appartamento, Oliver Queen prese in braccio una Felicity dall’espressione beata.
«Mi sembra di volare!».
King era acciambellato sul divano, li degnò solo di una mezza occhiata in tralice, poi sbadigliò e tornò a dormire, quasi a dire “Chiamatemi quando il latte è nella mia ciotola”.
Wanda si fece da parte, per lasciare entrare Oliver Queen e il suo bagaglio ingombrante. Rimase ferma sulla soglia e quando lui si diresse in camera da letto senza alcuna esitazione, non poté fare a meno di sorridere. Lo seguì con discrezione, giusto in tempo per vederlo adagiare Felicity sul letto.
«Ha una certa familiarità con questa casa».
«Sono stato qui un paio di volte», fu la sua pronta risposta. «Per lavoro».
Felicity sorrideva e annuiva.
«Ha detto che sarò sempre la sua ragazza».
«No, non… non esattamente».
Felicity aggrottò la fronte.
«Sì, invece».
Sotto lo sguardo perplesso di Wanda, Oliver Queen si schiarì la voce, a disagio.
«É meglio che vada. Ci pensa lei a Felicity?».
«Certamente».
Wanda si limitò a seguirlo con lo sguardo (tanto sapeva benissimo dove si trovava l’uscita), mentre lui volava fuori dalla stanza neanche avesse il diavolo alle calcagna. Quando sentì la porta chiudersi, scosse la testa. Potevano negare quanto volevano, quei due. Ma lei ormai aveva fatto due più due.
Il capo e la sua segretaria.
Che banalità! Aveva sperato in un colpo di scena più originale.







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Note autore:
Comincio subito col dire che Wanda, il gatto King e la soap Clistere d’Amore non sono di mia invenzione, ma appartengono a nes_sie e potete ritrovarli qui e in altre sue storie.
Spero si capisca, questo è un missing moment dell’episodio 2x14 Time of Death: Felicity si prende un proiettile per salvare Sara, e Dig le somministra dell’ossicodone con effetti esilaranti. Volevo scrivere una Felicity/Ossicodone con contorno di Oliver che la accompagna a casa (come fa a tornare a casa da sola, se è fatta come una pigna?) da un bel po’, ma non ero ancora riuscita a trovare la giusta prospettiva. Poi ieri ho riletto alcune storie di nes_sie e ho avuto l’illuminazione. Visto che il merito è suo e delle sue storie, ho pensato di scrivere questa mini-shot per il suo compleanno. Tanti auguri!
Niente di che, mi sono solo sgranchita le dita.
A presto, vannagio

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Capitolo 5
*** Guardaroba ***


Guardaroba




«Non c’è niente di platonico con l’haute couture».
(Episodio 3x07 “Draw back your bow”)


Il campanello di casa prese a trillare insistentemente proprio quando si era infilata lo spazzolino in bocca. Sfrecciò fuori dal bagno come Flash, urlando “Un affimo, sfo affifando!”, ma tornò subito sui suoi passi. Sputò il dentifricio nel lavandino, si pulì la bocca con l’asciugamano e si diede una frettolosa pettinata ai capelli. Non si sa mai chi puoi trovarti sulla soglia di casa alle nove del mattino, anche se è domenica. E lei aveva imparato la lezione.
Aprì la porta, trafelata.
«Buongiorno, tesoro. Stamattina sono stata svegliata dai miagolii di King che faceva il Don Giovanni con la gatta della Signora Fernandes sul mio davanzale».
Felicity prese in braccio il gatto nero che Wanda le stava porgendo.
«Buongiorno, Wanda. Il caffè è in cucina, serviti pure». Si fece da parte per farla entrare e rivolse un’occhiata stizzita al grosso Don Giovanni peloso. «King, noi due avevamo un patto. Tu non avresti più importunato la micia della vicina ed io non ti avrei fatto castrare. Sono stufa di coprirti con la Signora Fernandes!».
King miagolò dispiaciuto. Eh no, mio caro, questa volta non attacca.
«Non mi importa quanto sia carina, fattela passare, non sono ancora pronta a diventare nonna!».
Nel frattempo Wanda l’aveva presa in parola e adesso sedeva sul divano con un tazza fumante di caffè macchiato (solo tre gocce di latte, non una di più, non una di meno) e un sopracciglio inarcato.
«Dolcezza, non per farmi gli affari tuoi, ma sei sicura di sentirti bene?».
Felicity mollò malamente King sul pavimento. Ignorò l’occhiata tradita del gatto. Non sarebbe riuscita a impietosirla. Non più.
«Sto benissimo. È solo l’ennesimo esponente del genere maschile della mia vita che mi delude».
«Uhm».
Wanda nascose l’espressione perplessa dietro la tazza. Aveva scelto quella a forma di testa di Hulk. Felicity sospirò.
«Tu fai pure come se fossi a casa tua, io torno di là… ho un lavoro rimasto in sospeso».
Ovviamente Wanda non era in grado di farsi gli affari suoi, così la seguì con la testa di Hulk stretta tra le mani. King ne approfittò per saltare sul divano, stiracchiarsi pigramente e acciambellarsi sui cuscini. Le sue scappatelle notturne con la micia dovevano averlo sfiancato. Beato lui! Oddio, era davvero invidiosa della vita sessualmente attiva del suo gatto? Era proprio arrivata alla frutta.
«Oh, cielo. Che diavolo è successo qui dentro?», strillò Wanda, distogliendola dai suoi nefasti pensieri. «Pare che ti sia esploso l’armadio!».
Felicity affossò la testa nelle spalle e fece vagare lo sguardo sconsolato sulla sua camera da letto, interamente sommersa da un mare di vestiti.
«Non riuscivo a dormire. E quando non dormo, fisso il soffitto. E quando fisso il soffitto, penso. E quando penso fissando il soffitto, mi vengono in mente le cose più strane. Tipo che non ricordavo dove fossero finite le mie ballerine coi panda. Allora, dato che non riuscivo a dormire, ho pensato che tanto valeva mettersi a cercarle. Ero quasi sul punto di trovare l’ingresso per Narnia, ancora nessuna traccia delle ballerine, quando mi sono resa conto del perché non sapevo dove si fossero cacciate».
Wanda aveva di nuovo nascosto l’espressione perplessa dietro il ghigno furioso di Hulk.
«Sì…?».
«Ho troppi vestiti! Così ho deciso di mettere ordine nel mio guardaroba, erano due anni che non lo facevo, ce n’era davvero bisogno».
Wanda posò la testa di Hulk sul comodino, tra una pochette di perline e un paio di décolletté, e si guardò intorno.
«Più che due anni, sembra una vita… E quegli scatoloni?».
Felicity sorrise.
«La situazione mi stava sfuggendo un pochino di mano, così…».
«Ah, solo un pochino?».
«…così ho capito che avevo bisogno di un metodo». Indicò gli scatoli ad uno ad uno. «Qui metto le cose che voglio tenere. Qui le cose nerd di cui non posso fare a meno. Qui le cose che ho messo solo una volta, ma che non si sa mai, potrei riutilizzare. Qui le cose di cui voglio disfarmi. Semplice ed efficace, non trovi?».
Wanda esaminò l’interno degli scatoloni con sguardo critico. I primi tre erano pieni fino a scoppiare. «Semplice ed efficace per non buttare via niente, a quanto pare». L’ultimo conteneva solo un vestito. Lei lo tirò fuori e sgranò gli occhi. «Non posso credere che tu voglia disfarti di questo vestito. È quello per cui ti ho prestato gli orecchini dorati, me lo ricordo bene! Ti stava da dio. Di solito ti preferisco in blu, ma per questo faccio un’eccezione».
Felicity glielo strappò dalle grinfie e lo ricacciò frettolosamente nello scatolo.
«Ormai è irrecuperabile, l’esplosione lo ha rovinato».
Wanda sospirò, come una mamma esasperata, e si rimboccò le maniche.
«Forza, ti do una mano io, diamoci da fare».
L’aiuto di Wanda consisteva nel guardare Felicity che sistemava i vestiti negli scatoli e nel tirarli fuori sistematicamente un istante dopo, per esaminarli minuziosamente uno alla volta e chiedere per quale occasione fossero stati comprati. Alla fine dell’ispezione li ammassava sul letto, in modo che Felicity potesse ricominciare daccapo il lavoro in un loop infinito. Di quel passo non le sarebbero bastate nemmeno dieci Rigenerazioni di un Signore Del Tempo per finire.
«E questo?».
Stava contemplando quello nero. Quello esageratamente scollato sulla schiena, quello esageratamente corto sulle gambe. Quello esageratamente sbagliato per un’informale uscita a quattro con Barry.
«Central City. Un’uscita con degli amici», disse Felicity, lanciando una t-shirt con l’occhio di Sauron e la scritta “Sauron is watching you” nello scatolone delle cose nerd.
«Una festa in tiro, spero».
«Un gioco a quiz in un bar».
«Stai scherzando?! Dimmi che almeno era di sera».
«Pomeriggio».
Wanda roteò gli occhi e lanciò l’abito nel mucchio.
«Si vede che non c’ero io a consigliarti».
Felicity si sentì in dovere di difendersi.
«Però non è che mi stia male, eh? Anzi, sembra fatto a posta per me. Lo ha detto anche la commessa».
«Non lo metto in dubbio, tesoro. Hai solo scelto il momento peggiore per indossarlo. Anche se due cose stanno bene insieme, non è detto che debbano stare insieme per forza. Non sempre, almeno».
Ma Wanda non stava mai ferma, né con la lingua né con i pensieri. I suoi occhi erano già saettati su qualcos’altro: una custodia per abiti, che pendeva dall’anta dell’armadio. Quando ne fece scorrere giù la cerniera, la sua bocca si schiuse in un oooh di stupore.
«Che meraviglia! Scommetto che ti sta d’incanto, il blu è il tuo colore. Quanti reni hai dovuto vendere per permetterti un abito del genere?».
Felicity rise.
«Non l’ho comprato, me l’ha prestato il mio capo. Per una cena. Di lavoro», si precipitò ad aggiungere, notando lo sguardo eloquente di Wanda. «Prima di restituirglielo, mi sembrava educato portarlo in lavanderia».
«Con un haute couture non avrei problemi a liberarmi dell’intero guardaroba. È bello, elegante, affascinante… perfetto! Come potrei sopportare di indossare qualcos’altro, dopo aver provato questa meraviglia? È come baciare una volta Chris Hemsworth e poi essere costretta a baciare solo Danny DeVito per il resto della tua vita. Insopportabile!».
«Te l’ho detto, non è mio. Me ne sono fatta una ragione, è stato bello finché è durato. Cioè pochissimo, è durato pochissimo, ma meglio di niente. Si vede che non era destino».
Wanda abbracciò il tessuto blu come se fosse un amante.
«Vorrei anche io un capo che mi presti un abito di alta moda!».
Felicity si adombrò all’improvviso. Non sapeva perché. O, meglio, a mente lucida lo avrebbe saputo, ma in quel preciso istante, con il carico di frustrazione e notte insonni che si trascinava dietro da qualche giorno, non lo sapeva.
«Io no, invece».
«Come?».
Felicity la raggiunse senza guardarla negli occhi e chiuse la cerniera della custodia con stizza.
«Vorrei un capo normale. Uno come il Signor Steele, magari. Con lui era tutto più semplice. Una camicia, una gonna ed ero pronta. E quando lavoravo al Tech Village, invece? Indossavo quell’orribile divisa e via! Perché credi abbia cominciato a comprare tutti questi abiti?».
Wanda si strinse nelle spalle.
«Perché sono belli e ti stanno bene e ti rendono carina?».
«Sbagliato! Perché un bel giorno Queen entra nel mio ufficio, un paio di occhi da cucciolo, un sorrisetto sbilenco e… puff! All’improvviso una camicia e una gonna non sono più sufficienti, la coda bassa mi fa sembrare una suora e il trucco leggero non mi valorizza il viso. Con Palmer, poi… ancora peggio!». Felicity si fece cadere a peso morto sul mucchio di abiti e sbuffò. «Vorrei un capo a cui non freghi nulla di me, se non per assegnarmi del lavoro da svolgere. Vorrei un capo vecchio, sposato e inaccessibile. Che non mi faccia venire voglia di indossare un abito ogni giorno diverso. O di trovare l’abbinamento perfetto per quelle Jimmy Choo che ho visto in vetrina. O di mettere una tonalità di rossetto piuttosto che un’altra. Vorrei un capo che… che non mi baci. E se proprio sentisse il bisogno di farlo, allora vorrei che non mi lasciasse con un palmo di naso dopo avermi baciata». Si voltò a guardare Wanda. «Perché tutti gli uomini della mia vita prima mi baciano e poi scappano? Letteralmente e metaforicamente, intendo».
Lei aveva ripreso a sorseggiare il suo caffè. E ancora una volta aveva nascosto l’espressione perplessa dietro il cipiglio minaccioso di Hulk. Felicity cominciava a pensare che Wanda lo facesse per delicatezza. Una sorta di “Tesoro, credo che tu sia un po’ tocca, ma non ho il cuore di dirtelo in faccia, perciò mi limito ad annuire e sorridere”.
«Ooookay, la mia domanda è… Di solito è mettere ordine nel guardaroba che ti sconvolge oppure metti ordine nel guardaroba perché sei sconvolta per qualcosa?».
Felicity si riscosse dalla trance chiacchierona in cui era cascata e con orrore si rese conto di aver detto tutte quelle cose ad alta voce. Tipicamente Felicity. Arrossì vistosamente e tornò a tuffarsi nell’armadio senza aggiungere altro. Incredibilmente, per una volta, Wanda non fece commenti e lei gliene fu immensamente grata.
Qualche ora più tardi, lo scatolo delle cose da buttare via era moderatamente pieno e l’armadio moderatamente in ordine (alla fine le ballerine coi panda erano state trovate, incuneate in fondo a un cassetto, tra un cappello a forma di Tardis e le pantofole a forma di piede di Hobbit). Un piccolo successo, visti i continui tentativi di boicottaggio da parte di Wanda. Su un solo abito non avevano ancora raggiunto un accordo. Quello rosso. Quello dell’appuntamento disastroso con Oliver.
«Certi abiti sono speciali. Non si possono semplicemente buttare via», disse Wanda.
«A volte non si ha altra scelta che disfarsene, anche se non si vorrebbe. Non ha senso occupare spazio nell’armadio, se so già che non indosserò mai più quel vestito».
«Decidi tu se indossarlo o meno, Felicity».
«Quello che voglio io conta poco, se il vestito è irrecuperabile».
Wanda lisciò la stoffa annerita del vestito sul copriletto.
«Non è messo così male, basterebbe farlo sistemare e tornerebbe come nuovo. La zia della mia amica Sam possiede una lavanderia con un ottimo servizio sartoria che, stando a quello che dice lei, è miracolosa. E fa anche consegna a domicilio».
Felicity scosse la testa.
«È una causa persa».
«Come la fai tragica! Che cosa ti costa fare un tentativo?». Wanda prese un post-it dal cassetto del comodino e ci scarabocchiò sopra qualcosa. «Qui c’è l’indirizzo e il numero telefonico della lavanderia, decidere cosa farne adesso spetta a te».
E le attaccò il post-it direttamente sulla fronte.




«Mentre eri via, per quasi un mese, mi sono concessa di fantasticare, di sognare che forse, e dico solo forse, Merlyn si sbagliasse. Che tu fossi vivo e che saresti tornato, e che quando l’avessi fatto, saresti stato diverso, che l’essere quasi morto ti avrebbe dato una nuova prospettiva di vita, che avresti fatto le cose in maniera diversa».
(Episodio 3x12 “Uprising”)


Il campanello di casa la svegliò di soprassalto.
Felicity si guardò intorno, disorientata. King dormiva acciambellato sul suo grembo, la radiosveglia segnava le sei e ventiquattro del mattino, e lei si era addormentata vestita. Di nuovo. Effetti collaterali del passare le notti a dare la caccia ai cattivi: tornava a casa talmente distrutta, che crollava addormentata sopra le coperte ancora prima di sfilarsi le scarpe. Con un sospiro stanco, Felicity si mise in piedi. King, che stava ancora ronfando profondamente, rotolò sul materasso come un sacco di patate senza scomporsi.
Intanto il campanello insisteva.
Arrivo, arrivo.
A quell’ora poteva trattarsi solo dell’ennesima complicazione con Brick.
Si fermò un attimo davanti allo specchio, il suo riflesso era un misto tra lo stropicciato e l’accartocciato. Occhiali storti sul naso, coda moscia, cappotto spiegazzato, occhi pesti per il pianto e il sonno arretrato, il collo un blocco di cemento. Raddrizzò gli occhiali e si sfilò il cappotto, il massimo che era disposta a fare per rendersi presentabile. Prima di aprire la porta, lisciò un’ultima volta la camicetta.
«Ciao, Felicity».
Le ginocchia divennero improvvisamente di gomma. La vista si appannò. La stanza cominciò a girarle intorno. Felicity traballò a destra e sinistra come un birillo, ma prima di finire definitivamente con la faccia contro il pavimento, riuscì ad aggrapparsi allo stipite della porta. Poi guardò nuovamente in su.
Non era un’allucinazione, era veramente lui. Ammaccato ed esausto, ma lui.
«Oliver!».
Gli buttò le braccia al collo e lui la abbracciò di rimando all’altezza della vita. Sentire quel corpo così solido e familiare contro il suo le fece ritrovare stabilità sulle gambe. Oppure erano le braccia di Oliver a sorreggerla? Più probabile la seconda ipotesi, in effetti.
Felicity tornò a fissarlo in volto, quasi per sincerarsi di non essersi sbagliata.
Oliver stava sorridendo. La sua era un’espressione serena, come quella di un uomo che finalmente ha capito cosa vuole e che è disposto a tutto pur di ottenerlo. Forse fu per questo motivo che Felicity non si scompose affatto, quando lui chinò il viso verso di lei e la baciò. Così, sulla soglia di casa, come se fossero stati lontani soltanto per un giorno.
Si separarono per riprendere fiato. Gli occhi di Oliver scintillavano.
«Avevi ragione», disse lui.
«Lo so, io ho sempre ragione. Ma puoi essere più specifico?».
Lui le diede un pizzicotto sul fianco, lei gli fece la linguaccia.
«Sono quasi morto su quel monte, Felicity», rispose Oliver, diventando improvvisamente serio. «Ho capito che la vita è troppo preziosa per viverla a metà. Ho deciso che voglio più di una semplice maschera. Ho…».
Felicity non seppe mai cosa aveva. Le spiegazioni potevano aspettare, adesso voleva solo stringerlo e baciarlo.
«Ti amo, Oliver».
«Meeeeeooo».
Felicity scattò a sedere come un bambolotto a molla. Gli occhi sbarrati, le pupille ridotte a due puntaspilli e il fiatone. King le sedeva di fronte sul materasso, agitava la coda con fare scocciato.
Oddio, ancora?
Si stropicciò gli occhi con le dita, poi scalciò via le coperte e andò in cucina a bere un bicchiere d’acqua, il cuore che prendeva a randellate la cassa toracica dall’interno. King le zampettava dietro con la coda dritta. Naturale, erano le otto del mattino ed esigeva che gli venisse servita la colazione.
Dopo il primo sorso di acqua, il battito cardiaco scalò di marcia e rallentò. Felicity si appoggiò al bordo del lavello, concedendosi un respiro profondo, e si passò il dorso della mano sugli occhi, cercando di bloccare le lacrime sul nascere. Il suo subconscio non ne voleva sapere di smettere di fantasticare. Nonostante quello che Merlyn aveva scoperto, continuava a sperare. E a ricamare. Parecchio.
King nel frattempo si stava strusciando contro le sue gambe. Lei tirò su col naso e lo fulminò con un’occhiataccia.
«Sei il gatto più ruffiano che abbia mai visto!».
Fece per aprire il frigorifero ma si bloccò con la mano sulla maniglia, accorgendosi del post-it di Wanda, quello col numero della lavanderia miracolosa. Lo aveva appeso al frigo perché portarlo sulla fronte non era pratico.
Si era completamente dimenticata del vestito rosso. Del resto, aveva avuto cose più importanti per la testa, nelle ultime settimane. Lo scatolone degli indumenti di cui disfarsi aspettava sotto al letto da diverse settimane di andare incontro al suo destino.
Prese il post-it e se lo rigirò tra le mani, leggendo e rileggendo l’indirizzo della lavanderia.
Forse poteva concedere una seconda possibilità al vestito rosso. Ci aveva speso dei soldi veri e lo aveva indossato una volta sola, in fondo. E se davvero fosse tornato nuovo come Wanda aveva promesso, riservargli un angolino nell’armadio non le sarebbe costato nulla. C’era tanto spazio adesso che l’aveva messo in ordine, un posticino lo avrebbe trovato di sicuro. E forse prima o poi l’occasione giusta per rindossarlo si sarebbe ripresentata… se fosse tornato nuovo.
Se fosse tornato.




«Non voglio essere una donna che ami».
(Episodio 3x12 “Uprising”)


Il campanello di casa suonò contemporaneamente al diiiin del microonde, che annunciava che la porzione di lasagne si era scaldata.
Tempismo perfetto.
Felicity spalancò la porta e si ritrovò davanti un ragazzo alto, allampanato e brufoloso, che portava un berrettino con il marchio della lavanderia “Lo Smacchiatore”. Lo stesso marchio campeggiava al centro della scatola che reggeva sottobraccio.
«La Signorina Smoak?».
«Sì».
«Una firma qui».
Felicity scarabocchiò il suo nome sulla ricevuta, prese la scatola che lui le stava porgendo e infine gli allungò la mancia. Dopo avergli augurato buona giornata, si chiuse la porta alle spalle e andò a sedersi sul divano, con la scatola in grembo. Rimase a fissarla in silenzio per un po’, il suo campo visivo tremolava leggermente e le orecchie le fischiavano per l’emozione.
Alla fine il vestito rosso era tornato davvero.
Esattamente come Oliver.
Contò fino a tre e finalmente trovò il coraggio di aprire la scatola. L’abito era stato stirato e piegato con cura, il rosso era tornato intenso e acceso come un tempo: in mezzo alla carta velina bianca, spiccava come una macchia di sangue nella neve. Okay, pessimo paragone. A mia discolpa, però, c’è troppo sangue nella mia vita ultimamente.
Prese l’abito per le spalline, lo distese sul divano per esaminarlo più da vicino e ne accarezzò affettuosamente il tessuto, sentendosi euforica nel ritrovarlo morbido e soffice come quando l’aveva toccato per la prima volta, nel piccolo negozietto in cui l’aveva scovato. Era come ricongiungersi con una persona amata.
Entusiasta come una ragazzina, si era alzata dal divano con l’idea di provarlo, quando lo vide. Un alone. Sul retro del corpetto. Che le mozzò il fiato. E poi notò anche il biglietto nella scatola.

Contrariamente alle aspettative non siamo riusciti a riportare l’abito al suo splendore iniziale. La politica della nostra attività non prevedere un rimborso in denaro, ma l’attribuzione di un coupon che le darà diritto a due lavaggi gratis, servizio sartoria inclusa. Può venire a ritirarlo in lavanderia già da domani mattina.
Ci scusiamo per l’inconveniente.

Alla fine il vestito rosso era tornato davvero.
Esattamente come Oliver.
Ed esattamente come con Oliver, il suo ritorno non cambiava un accidente, perché il vestito era ancora irrecuperabile come prima di essere portato in lavanderia, lei era stata un’ingenua a sperare che le cose potessero cambiare e due lavaggi gratis non avrebbero migliorato di certo il suo umore. Non si poteva rimpiazzare un abito così bello con un coupon, o curare il cancro con l’aspirina, o battere un assassino con l’aiuto di un altro assassino.
È ora di darci un taglio.
Più risoluta che mai, Felicity andò in camera, tirò da sotto il letto lo scatolone degli indumenti di cui disfarsi e vi gettò dentro l’abito rosso. Poi si infilò un paio di scarpe da tennis, il capotto, sollevò la scatola dal pavimento e si diresse verso l’ingresso a passo di marcia.
«King, fa’ il bravo, torno subito».
Il gatto, che puntava le lasagne attraverso il vetro del microonde come una potenziale preda, non la degnò di uno sguardo.
Felicity camminò per un centinaio di metri lungo il marciapiede, fin quando non si imbatté nel cassone dell’immondizia. Nell’aprirne il coperchio, venne investita in pieno viso da una zaffata di marcio e putrido che le fece storcere il naso.
È giunto il momento di lasciarlo andare sul serio, basta con i tira e molla.
Nel preciso istante in cui il cartone lasciava le sue dita e lo scatolone spariva dentro al cassone con un tonfo sordo, Felicity si sentì meglio, sollevata. Le tornò in mente il periodo successivo all’arresto di Cooper, quando aveva messo da parte i vestiti neri e le borchie in favore degli occhiali e delle gonne al ginocchio. Si ricordò anche di quella volta che aveva rinnovato il suo guardaroba, in seguito alla “promozione” a segretaria personale di Oliver Queen. Ora come allora si sentiva come dopo un drastico taglio di capelli. Quando vedi le forbici per un attimo vai nel panico, ma una volta che la prima ciocca è stata recisa, non puoi fare altro che metterti comoda e aspettare di vedere il risultato finale.
Ormai è andata, non si torna più indietro.
Felicity si avviò verso casa con la sensazione di essere più leggera. Comprensibile, dato che si era lasciata alle spalle qualcosa di grosso, una zavorra. E se da un lato questo la faceva sentire libera di andare avanti, di fare ed essere tutto ciò che voleva, dall’altro le faceva provare smarrimento. Perché la zavorra in fondo è un’ancora e l’ancora rassicura, sull’ancora puoi fare affidamento, all’ancora ti ci aggrappi nei momenti difficili.
Ma per definizione ti tiene anche ancorata al fondo.
Stava per svoltare l’angolo, quando si accorse della vetrina di una piccola boutique dal nome francese. Felicity si avvicinò per guardare gli abiti esposti e non riuscì a trattenere un mezzo sorriso. C’era un aspetto positivo nel riordinare il guardaroba e nel disfarsi della roba vecchia…
Si creava tanto spazio per nuovi acquisti.




«Che ti è successo?».
«Questa sono io, ora».

(Episodio 3x05 “The secret origin of Felicity Smoak”)


Il campanello di casa trillò una volta e Felicity non gli diede il tempo di farlo una seconda.
«Ray, ciao, entra. Dammi solo un secondo, okay? Non riesco a trovare la carpetta con gli appunti».
Mentre Ray si chiudeva la porta alle spalle, tornò a mettere a soqquadro l’appartamento. King sorvegliava il tutto con sguardo algido e distaccato da una postazione sopraelevata.
«Non ti preoccupare, Felicity, abbiamo ancora dieci minuti prima che la delegazione russa metta in scena un reboot della guerra fredda. CMQ trovo sconcertante che una donna tanto efficiente sul lavoro possa essere scandalosamente disordinata in casa propria».
Lei sbuffò.
«Così non mi aiuti».
«Ah, era previsto che ti aiutassi?». Ray inclinò la testa di lato. «Carino il vestito, è nuovo?».
Felicity prese fiato dalla frenetica ricerca e si lisciò la gonna, sorridendo imbarazzata.
«Sì, l’ho comprato qualche giorno fa. Davvero ti piace?».
Ray annuì.
«Il blu è proprio il tuo colore».







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Note autore:
Come sempre, comincio col precisare che Wanda e il gatto King non mi appartengono, sono creazioni di nes_sie e potete ritrovarli qui e in altre sue storie.
Seconda cosa che tengo a precisare è che rimango una Olicity convinta, ma credo che il periodo con Ray farà bene sia a Felicity che a Oliver. ;)
Questa shot nasce dopo aver visto l’episodio 3x07 e dalla constatazione che Felicity ha una vera fissazione per i vestiti e accessori annessi. Ha un guardaroba vastissimo! E beata lei, aggiungerei. In ogni caso, avevo scritto la prima parte ma senza riuscire a trovare una conclusione accettabile. L’idea base era di salvare il vestito rosso in qualche modo e quindi indirettamente salvare Oliver agli occhi di Felicity. XD Intanto il tempo passava, gli episodi pure… e mi sono resa conto di due cose: Oliver di settimana in settimana diventa sempre meno salvabile agli occhi di Felicity (non ne combina una giusta, diciamocelo); quando capita qualcosa di importante nella sua vita, Felicity cambia modo di vestire. Dopo Cooper, dopo la “promozione” a segretaria… perché non dopo aver chiuso sentimentalmente con Oliver? Ovviamente è un rinnovo meno drastico dei precedenti, ma fare ordine nel guardaroba è sempre un lavoraccio. Almeno per me è così. Così ho abbandonato l’idea iniziale in favore di… questo.
Non linciatemi!
Ho inserito questa shot in questa raccolta perché… boh? Il “due più due” c’è, ma è più impalpabile che negli altri capitoli.
A presto, vannagio

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Capitolo 6
*** Fare la differenza ***


Guida alla lettura: questo è un missing moment dell'epidosio 1x21 "The Undertaking"; si svolge dopo la scena in ospedale in cui Oliver prima ha uno scambio di battute con Malcolm e dopo confessa indirettamente a Laurel di amarla ancora.





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Fare la differenza




Ti aiuterò a salvare Walter, ma nient’altro.
Poi voglio solo tornare alla mia noiosa vita da tecnica informatica.
Questa è la mia offerta.

(Felicity Smoak, episodio 1x14 “The Odyssey”)


Il cielo era una trapunta di stelle, quella notte. Felicity si sfregò le braccia, rabbrividendo. E pensare che fino a qualche mese prima, a un’ora del genere, l’unica trapunta sotto la quale aveva l’abitudine di rannicchiarsi era una di calda e morbida piuma d’oca. Sul divano, durante l’ennesimo binge-watching di Doctor Who.
Trapunta che in quel preciso istante, coi piedi ridotti a due blocchi di ghiaccio, stava rimpiangendo ardentemente. Fece un paio di volte su e giù davanti alla panchina della fermata del pullman per riattivare la circolazione delle gambe. Cavolo, ora che ci penso, non ricordo più cosa è successo nell’ultima puntata di The Walking Dead che ho visto. Per ingannare l’attesa, stava provando a calcolare di quanti episodi fosse rimasta indietro, quando sollevò lo sguardo e lo vide.
«Oliver?», farfugliò. Mani affondate nelle tasche dei jeans, occhi bassi e passo del condannato a morte. Nessun dubbio, era proprio lui. «Oliver?», lo chiamò nuovamente, questa volta a voce più alta.
E infatti lui la sentì.
«Felicity?».
Si mossero simultaneamente e si incontrarono a metà strada.
«Che ci fai qua?», si chiesero a vicenda nello stesso momento.
Risero brevemente.
«A quest’ora ti credevo già tornata alla tua», Oliver mimò le virgolette, «noiosa vita da tecnica informatica».
«Ho l’auto in officina, sto aspettando il pullman. Che ovviamente è in ritardo», spiegò Felicity. «Tu, invece? Come mai non sei in ospedale con Walter e il resto della tua famiglia?».
«Il medico ci ha cacciati via. Walter ha bisogno di riposare». Il viso di Oliver si fece cupo all’improvviso. «E ho avuto una breve conversazione con Malcolm prima e con Laurel subito dopo».
«Non di quelle allegre, scommetto».
«Nope. Avevo bisogno di schiarirmi le idee». Scosse la testa, come per scacciare i cattivi pensieri, e fissò lo sguardo su di lei. «Sei stata carina a passare in ospedale, sono sicuro che Walter abbia apprezzato il gesto».
Felicity si strinse nelle spalle.
«Oh, sì, be’, insomma...».
Oliver inclinò il capo.
«Cosa?».
Si concentrò sulla punta delle ballerine per non essere costretta a guardarlo negli occhi.
«Niente, non voglio annoiarti, può aspettare fino a domani».
«La mia famiglia è di nuovo unita soprattutto per merito tuo». Le poggiò una mano sulla spalla. «Puoi annoiarmi quanto vuoi».
Felicity abbozzò un sorriso.
«É che... sai, non so cosa mi aspettassi esattamente. Mi sono precipitata in ospedale con quel grosso mazzo di fiori... come se ne avessi il diritto. Neanche fosse mio zio o chissachi. E quando tua madre, giustamente, mi ha domandato chi fossi...».
«Lascia stare mia madre», la interruppe Oliver. «Lei non lo sa. Nessuno può saperlo. Ma tu ce lo avevi eccome il diritto di essere lì. Hai dato il massimo per Walter. Se non fosse stato per te...».
«Sì, lo so». Felicity raddrizzò la schiena. «So cosa ho fatto. É proprio questo il punto. Pensavo di voler aiutare Walter perché era stato gentile, perché era diventato come di famiglia per me. Invece quel “Chi sei tu?” di tua madre ha messo tutto nella giusta prospettiva, capisci? Stanotte, e tutte le altri notti negli ultimi mesi, ho fatto la differenza. Insieme a te e a Diggle ho contribuito a salvare delle persone. E non perché fossero miei parenti o amici. In cuor mio sapevo che era la cosa giusta da fare».
Il viso di Oliver non era più tanto cupo, adesso. Sembrava quasi che si stesse sforzando di trattenere un sorrisino compiaciuto. Come se avesse fatto due più due da un pezzo, ormai.
«Felicity, che cosa stai cercando di dirmi esattamente?».
«Che mi piacerebbe...». Chiuse gli occhi e prese un respiro profondo. «No. Che voglio continuare a fare la differenza». Riaprì gli occhi e si morse il labbro inferiore. «Sempre che a te e a Dig stia bene, ovvio».
«Non è che mi stia bene...». Lo sguardo serissimo, quasi minaccioso, di Oliver la fece deglutire a vuoto. «In effetti, ci contavo».
Il sollievo e il sorriso sbocciato all’improvviso sulle labbra di Oliver le infiammarono le guance. Nel frattempo, alle sue spalle, gli sportelli del pullman si erano appena spalancati. Felicity fece cenno all’autista di aspettarla.
«Bene, allora è deciso. Ci vediamo domani. Stesso posto, stessa...».
«Che fai stasera?», le chiese Oliver a brucia pelo.
Lei aggrottò la fronte.
«Non so... A casa mi aspettano una trapunta calda e un bel po’ di episodi di The Walking Dead da recuperare, perciò... nulla di particolare, suppongo. Perché?».
Questa volta fu lui a stringersi nelle spalle e a distogliere lo sguardo.
«Perché sto andando a scusarmi con Diggle. Nella remota possibilità che accetti le mie scuse, vorrei approfittarne per festeggiare il salvataggio di Walter con i miei due partner. Ora, capisco che la mia offerta non potrà mai competere con una trapunta calda e un episodio di... qualsiasi cosa sia, ma...».
«Ci sto».
Ecco di nuovo il sorrisetto compiaciuto.
«Sei sicura?».
«Scherzi?». Il pullman era ripartito da un pezzo, non senza l’accompagnamento di una colorita imprecazione da parte dell’autista. Felicity prese Oliver sottobraccio e insieme si incamminarono a piedi. «Non posso perdermi la scena di Diggle che ti prende a calci nel sedere».
Il cielo era una trapunta di stelle, quella notte. Felicity si sfregò le braccia, rabbrividendo. Da quel momento in poi le sue serate al calduccio sotto la trapunta di piuma d’oca erano ufficialmente finite, si rese conto. Sarebbe rimasta indietro di un sacco di episodi di un sacco di serie tv...
Intanto Oliver si era accorto che stava tremando e le aveva ceduto la sua giacca.
...ma l’idea non le dispiaceva affatto.







__________________







Note autore:
L’ultimo episodio andato in onda (4x17) mi ha fatto ripensare a quando Felicity si è unita al team Arrow. In quell’occasione aveva fatto un’offerta ben precisa ad Oliver: lo avrebbe aiutato nella lotta contro il crimine fino a quando non avrebbero salvato Walter, dopo di che sarebbe tornata alla sua noiosa vita da tecnica informatica.
Sappiamo tutti come è andata alla fine, no?
Ho sempre pensato che mancasse una scena, dopo il salvataggio di Walter. Una in cui Felicity dice a Oliver che ha cambiato idea. Che vuole continuare a fare al differenza. Perché in fondo, e lo ha ribadito anche nell’episodio 4x17, è stata sempre questa la sua principale motivazione. Per fortuna le fanfiction servono anche a colmare le lacune. Perciò... detto fatto!
Spero che l’idea sia stata di vostro gradimento.
A presto, vannagio

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