Myricae di Celtica (/viewuser.php?uid=833314)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 4: *** Quarto capitolo ***
Capitolo 1 *** Capitolo primo ***
Cap 1
Al tuo cane,
perché ti ha amato
e ti amerà
fino al suo ultimo
giorno.
Capitolo
primo
Vado
a casa e casa non ce l’ho.
Vado
a casa e casa non la so.
Ho
provato a stare senza te…
Son
perduto e son tradito.
Ma
ti sto annusando,
e
ti sto cercando … e non so mica dove sei.
Stanco
più stanco al vento.
Che
piove già… Sta gocciolando.
In
questa notte sola che… Cancella i passi e il tempo.
Cancella
me, cancella il mondo.
(Tobia
di Zucchero)
L’aria
ha l’odore della pioggia.
È
sollevando il muso al cielo che se ne accorge. Presto si
bagnerà. Non ha un
riparo, non sa dove nascondersi. E l’acqua gli
porterà via quell’unica traccia
rimasta.
Come
tornerà a casa?
È
sicuro che il suo padrone lo stia chiamando.
Grida
più forte!
Pensa, mentre avanza lungo la strada.
Quando
il portellone dell’auto si è aperto, ricorda di
essere sceso con un salto, di
aver scodinzolato vedendo le campagne.
Non
lo portavano mai in campagna, conosceva appena il profumo
dell’erba, o il tocco
morbido della terra bagnata; e ricordava il colore degli alberi contro
il
cielo, ma arbusti diversi, che non riuscivano a riempire di verde il
parco.
Nulla rispetto all’immensità che lo circonda.
Se
loro fossero ancora con lui, ora potrebbe dedicarsi a tutti gli odori
che ha
intorno, potrebbe mettersi a scavare la terra e strofinarla con il
muso.
Potrebbe inseguire pietre, mordere bastoni, correre contro il vento.
Sono
passate ore da quando l’auto è ripartita.
Lui
si chiede come sia possibile che lo abbiano dimenticato
lì… Ha corso con tutta
la forza che aveva quando li ha visti andare via.
Come
hanno fatto a non vederlo?
La
ruota ha strisciato appena contro la sua gamba, lo sa, ha dovuto
leccare quel
punto a fondo perché smettesse di bruciare.
Si
sente perduto. Ha paura, ha paura di non ritrovarli, ha paura che
possano
accorgersi che lui non è con loro. Si arrabbieranno, ne
è sicuro.
Sa
di aver sbagliato spesso, nell’ultimo periodo.
La
casa era sempre piena di grida, di indici puntati contro di lui. Di
mani
sollevate, pronte a colpirlo.
A
niente serviva mettere la coda tra le gambe, chinare la testa e
chiedere
perdono. Scodinzolava per scusarsi, in modo lieve, quasi per timore di
creare
disturbo.
Dove
sei…
Comincia
a sentirsi stanco.
La
paura, il vento che gli arruffa il pelo, la solitudine, sono tutte cose
che lo
distruggono dentro. Mette una zampa davanti all’altra,
sperando di vedere casa.
Ma
sta iniziando a non sentire più nulla…
L’odore del suo padrone è scomparso. È
durato un istante, l’istante in cui erano entrambi fuori
dall’auto, un momento
prima che il suo amato risalisse senza di lui.
Cosa
dirà Marta quando non lo vedrà rientrare? Loro
non possono stare soli, lui deve
proteggerli.
Prende
a correre, di nuovo, come se il galoppo riuscisse a riportarlo a casa.
Sposta
tutto il peso su una zampa e, mentre salta, resta un istante senza
toccare
terra. È uno sforzo, per lui che non è abituato a
correre.
Rallenta,
passa dal trotto all’ambio finché non si ferma.
Sta
facendo buio. Sta iniziando a piovere.
Pensa
al suo amore, il suo padrone lontano, che non sa ancora di essere solo.
Cosa
dirà… Cosa farà quando, aprendo il
portellone, troverà il bagagliaio vuoto?
Finalmente
capisce: deve aspettare.
Presto,
molto presto, i fari dell’auto lo accecheranno, il suo
padrone tornerà a
prenderlo, e Marta sarà di nuovo felice, con lui.
È
certo di essere stato perdonato dopo il loro gioco, dopo la sgridata
della
Mamma. È più che sicuro che Marta gli si
getterà al collo e lo stringerà forte,
riderà di nuovo con lui, come quando era solo un cucciolo.
Ha
sette mesi adesso, un bisogno impellente di mordere, di muoversi, di
giocare.
Siede
a lato della strada, nella cunetta, e ripensa a ciò che ha
passato in quei suoi
mesi di vita. Ricorda il sapore del latte di sua madre, ricorda i suoi
fratelli, che lo schiacciavano sotto di loro, ricorda l’uomo,
quello alto, che
l’ha malamente separato dalla sua famiglia.
Ricorda
i primi giorni, il buio della scatola, il viso di Marta… La
cosa più dolce.
Ricorda i biscottini a forma d’osso, il naso premuto nella
sua pipì, quando il
suo padrone voleva solo insegnargli…
E
ricorda la pioggia.
Una
pioggia diversa da questa, una pioggia vista attraverso un vetro, quasi
desiderata, quasi temuta.
Eppure
Marta l’ha sempre odiata… Odiava andare a scuola
quando pioveva, odiava separarsi
da lui.
Fino
a quel giorno.
Aveva
cambiato i denti da poco, e ricorda, ricorda quasi con dolcezza la
risata
tenera che faceva Marta ogni volta che ne trovava uno da latte. Ricorda
il suo
bisogno di affondare in qualcosa, in qualunque cosa. Ricorda il sapore
cattivo
della prima ciabatta rubata, della prima pallina fatta a pezzi, della
gamba del
tavolo rosicchiata.
Tutto
è cominciato da lì.
Fino
a quel giorno…
Marta
giocava con lui, si lasciava rincorrere, ma certe volte, certe volte
esagerava.
La prima volta, afferrandogli il pane secco davanti al naso, lui era
rimasto
immobile, limitandosi a guardarla con delusione.
Ma
alla seconda volta era partito l’avvertimento.
Non toccarlo.
È mio.
Era
suo. Marta non avrebbe dovuto toccarlo. E più lui la
avvertiva, più mostrava le
zanne, più lei sembrava divertirsi a fargli i dispetti.
Fino-a-quel-giorno.
Giocavano,
Marta gli tirava la palla nel parco, la Mamma li seguiva a distanza. Ma
quando
lui aveva guadagnato la palla, quando l’aveva stretta tra le
fauci e aveva
cercato di fuggire, Marta gli aveva preso la coda.
Era
stato istinto.
La
palla era finita nell’erba, bagnata di bava, e le sue labbra
nere erano corse
al braccio magro di lei.
Può
ancora udire il grido di Mamma, il colpo contro di lui, il sapore del
sangue
quando Marta ha tirato via il braccio, strappando la pelle.
Quella
sera stessa l’aveva passata rinchiuso in cantina, mentre
loro, e l’auto, erano
via. Al ritorno Marta aveva una fascia bianca intorno al braccio e un
muso
lungo puntato contro di lui.
Era
stato suo padre a farlo uscire e a spingerlo in casa.
Nulla
è più stato lo stesso, da quel giorno.
Se
chiude gli occhi sente ancora l’odore di Marta, quello strano
profumo che
sembra mischiare fiori e fumo. Si chiede quando potrà
tornare ad annusarla.
Rimane
immobile, l’acqua gli inzuppa il pelo, ma lui tiene la testa
bassa. E aspetta.
┌
I cani, quando
amano, amano in modo costante,
inalterabile,
fino all’ultimo respiro.
(E.Von Arnim)
┘
Sfoglia
il libro di poesie, e si sente sopra una nuvola.
Tobia
la guarda, seduto accanto a lei, mentre il docente di Economia Politica
è
intento a spiegare Il Dilemma del Prigioniero. Ma Luna non ascolta, si
lascia
accarezzare dalle parole di Montale.
“Giravano
al largo i
grovigli dell’alighe e tronchi d’alberi alla
deriva.
Nella conca ospitale
della spiaggia non erano che poche case di annosi mattoni, scarlatte, e
scarse
capellature di tamerici pallide più d’ora in ora;
stente creature perdute in un
orrore di visioni.”
«Che
fai?» sussurra Tobia, incrociando le braccia mentre si china
su di lei.
È
alto, e Luna lo vede piegare la schiena per arrivare al suo orecchio.
«“Fine
dell’infanzia”.»
«Dal
titolo non…»
I
ragazzi davanti a loro si voltano, ed è allora che Tobia
sembra accorgersi del
silenzio. Il docente li sta guardando.
Luna
lo vede aprire la bocca in un largo sospiro, prima di riprendere con i
suoi
esempi sulla nozione.
Lei
la conosce già, ha passato il pomeriggio precedente a
leggerla sul libro, e
pensa che sia spiegata molto meglio.
Non
è il migliore dei docenti, per lei, ma a Tobia sembra
piacere.
Lei
preferisce persone più appassionate.
Quando
la lezione finisce, i ragazzi si affollano alla porta, ma loro due
rimangono
seduti. Aspettano, sanno che è inutile gettarsi nella
confusione per niente.
«Alla
fine tua madre ha preso un cane?» domanda Luna, scostando le
ciocche ribelli
dalla guancia. Le accompagna lentamente dietro l’orecchio e,
come al solito,
qualche capello rimane incastrato all’anello.
È
Tobia ad aiutarla a liberare la mano. Le sue sono grandi, callose, con
le
unghie corte.
Luna
ha una fissazione per le mani.
«No…»
Sembra più un mugolio che una risposta, e Tobia abbassa gli
occhi. «Non le
piacciono i cani.»
«Ma
perché!» si infervora lei, mentre si stanno
alzando. «Cioè, io proprio non la
capisco! Tuo padre l’ha lasciata, almeno lo sa che un cane
non si separerebbe
mai da lei? Lo sa che un cane piuttosto ne morirebbe? Cavolo, diglielo!
Digli
che lo vuoi!»
Tobia
si sistema la giacca marrone prima di parlare. Sembra sapere che
è meglio
aspettare che il “treno”, come la chiama lui,
finisca il suo discorso.
«Sei
tu che lo vuoi, Luna» confessa infine.
«Tu
no?»
C’è
delusione nella sua voce, e Tobia sembra accorgersene. Non riesce mai a
sostenere il suo sguardo, arrossisce ogni volta che Luna alza il viso
per
guardarlo negli occhi.
È
molto più bassa di lui, eppure sembra lei la gigante quando
parlano.
«Sì»
mormora Tobia, grattandosi il naso.
«Anch’io…»
Luna
non sembra accorgersi della sua voce incrinata. Rimane ancorata a
ciò che ha
detto un momento prima. Tira indietro i capelli e solleva il mento con
fare di
sfida.
«E
perché hai detto così? Perché hai
detto che sono io che lo voglio? Mica posso
costringerti.»
Tobia
sembra farsi piccolo piccolo, ed è impressionante vedere
quel ragazzone arrossire
nell’aula vuota.
Non
c’è nessuno ad ascoltarli.
«Ma
mi hai convinto tu… Tempo fa.»
Luna
passa lo sguardo intorno a loro: l’aula enorme, ora vuota,
è solo una sfilza di
sedie con ribaltina, muri bianchi e scrostati, una cattedra rossa che
fa
contrasto con il pavimento a puntini neri.
Dai
finestroni alti entra una luce opaca, che schiarisce i suoi capelli
ramati, ma
non riesce ad attraversare il nero che Tobia ha in testa.
«Convinto?
Non ci dovrebbe essere qualcuno che ti convince
ad amare gli animali…»
Tobia
solleva le braccia al cielo: sembra un’invocazione, e Luna
capisce di avergli
fatto perdere la pazienza. Di nuovo.
«Miseria,
Luna!» grida lui, e finalmente sembra trovare la forza di
guardarla negli
occhi. «Non ne ho mai avuti! Non so cosa significhi! Sei tu
che non parli
d’altro! È la tua ossessione! Dovresti
preoccuparti di più di chi hai intorno,
invece che pensare solo e soltanto ai cani!»
Lo
vede prendere la sacca e uscire di filato dall’aula.
Luna
si sente in colpa. Il fuoco che ha albergato dentro di lei sembra ormai
svanito. Tobia è in grado di fare questo, a volte.
Mette
lo zaino in spalla e lo segue, raggiungendolo in cima alle scale. Un
paio di
ragazzi sono in fondo alla rampa, vicinissimi, come se stessero per
baciarsi,
ed è allora che Tobia la guarda.
Ma
è un istante, e subito distoglie gli occhi da lei.
«Mi
dispiace…»
«No
che non ti dispiace!» grida ancora Tobia, scendendo le scale
di fretta. «Sempre
così con te! Non si può dire niente!»
I
due di prima li guardano con astio, come se avessero interrotto
qualcosa. E
Tobia, in genere così riservato, se ne accorge.
Purtroppo per loro.
«E
voi? Andatevene in albergo, va!» grida, davanti a loro.
Luna
si sente in imbarazzo: sono due che seguono Diritto Privato con lei.
Sorride
come a scusarsi, mentre l’indice corre alla tempia. Si sfiora
la fronte con il
dito quando è in difficoltà. Sempre.
È
quando sono fuori che lo raggiunge.
Gli
sfiora il braccio per sentirsi puntare i suoi occhi azzurri addosso.
Sono
ancora carichi di furia.
Luna
non sa perché, ma Tobia si arrabbia solo con lei. Con nessun
altro.
«Mi
dispiace.»
«L’hai
già detto, Luna. Possibile che ti ripeta sempre?»
Tobia sospira, sposta la
sacca da una mano all’altra, e sembra averla già
perdonata. «Ti ho detto che lo
voglio. Voglio-un-cane. Ma non ho il coraggio di andare in
canile… Non saprei
come scegliere, da quello che mi hai raccontato stanno tutti
lì a guardarti. Mi
sentirei in colpa dopo aver scelto, capisci?»
Luna
assume di nuovo il suo cipiglio di guerra.
Porta
le mani ai fianchi e si sente pronta ad affrontare l’ennesima
battaglia. Vuole
convincerlo, non c’è verso.
«E
cosa pensi? Che cada dal cielo? Certo che è brutto, lo so.
Ma darai la casa a
un cane, capisci? Ne salverai uno, e sarà come aver salvato
l’umanità intera.»
Tobia
sorride divertito.
«Che
c’entra l’umanità? Credevo parlassimo di
cani.»
«È
lo stesso» risponde lei, convinta.
┌
Dall'assassinio
degli animali
all'assassinio degli uomini il passo è piccolo.
(Lev Tolstoj)
┘
Marta
torna a casa da scuola.
Si
sente triste e un po’ colpevole. Ma sa che sua madre, presto,
le farà tornare
il sorriso. Hanno detto addio al suo cane, ma era giovane, ha detto
papà, e
avrà un futuro bello anche da solo. Lontano da loro.
Quando
attraversa il giardino, l’occhio corre alla casetta
dell’animale. È vuota, ora.
È triste.
Capisce
di essere davvero una persona sensibile a preoccuparsi del cane.
L’ha pur
sempre morsa, le sue amiche le hanno chiesto perché non
l’ha fatto abbattere.
“Ti
hanno messo i punti?
Dio, che schifo. Ma perché lo avete preso, poi?
Puzzava.”
La
porta si apre davanti a lei, una grande porta rossa con vetri decorati,
e il
sorriso lucente di sua madre la accoglie.
Marta
sistema meglio i capelli lisci, Anna l’ha avvertita che il
biondo sta iniziando
a svanire e, davvero, non riesce a pensare ad altro.
Deve
andare a farsi sistemare il taglio, il colore, tutto!
Ma
poi il ricordo del cucciolo invade
il
suo campo visivo. È preda di una visione, forse. Le sembra
di vederlo, quando
le correva incontro, scodinzolando, gli occhi illuminati alla sola sua
presenza.
Era
sempre felice quando lei tornava da scuola.
«Com’è
andata? Stai meglio? Fammi vedere il braccio» È
l’esordio di sua madre.
«Ma’,
ti prego, non sei un medico. Ho la fascia, la cambio stasera, ok? Mi
cambio che
devo andare da Becca.»
«Che
hanno i tuoi capelli?» chiede sua madre, mentre
l’atrio, pulito e ordinato, è
sgombro dall’odore di cane. «Se me lo dicevi
prendevo appuntamento anche per
me.»
«Vado
con Anna.»
Marta
ricorda la prima volta che ha sentito quell’odore…
È stato quando il loro
cucciolo ha cominciato a crescere, ne è certa. Quando
è arrivato non “sapeva di
niente”.
Ma
poi, un giorno, se n’è accorta.
E
il suo naso ha fatto tutto il resto, l’ha abituata, mentre
ora, ora che lui non
c’è, Marta si accorge del
profumo dei prodotti di casa. Profumo di pulito. Mancanza di
qualcosa…
«Potevo
venire con voi!»
Marta
sbuffa e fa cenno di no con la testa.
Sale
le scale, coprendo la voce di sua madre con il rumore degli stivali.
Deve
vestirsi, cambiarsi, non vuole che Anna le faccia altre battute.
Certe
volte la detesta, ma è la sua migliore amica…
Il
corridoio, vuoto, è strano. Il tappeto è sempre
lì, i peli, per quanto sua
madre possa aver tentato di toglierli, sono al solito posto.
Manca
solo lui.
Marta
pensa che dovrà farci l’abitudine o, al
più, prendere un altro cane.
┌
È notte
quando l’auto si ferma.
La donna scende quasi con timore, lo guarda e capisce.
Si chiede come si possa, si chiede perché.
┘
In
questa notte sola che cancella i passi e il tempo.
Cancella
me… Cancella il mondo.
Guardo
fuori, dove va la strada e i perduti orrori.
“Vieni…
La notte è aperta per te.
Questa
notte di porte, di carezze e di stelle aperte di notte.”
Amore
in mano al vento.
Non
piove, ma… Sta gocciolando.
(Zucchero)
Note
dell’autrice:
Rieccomi
con una nuova storia!
Non
so perché, ma sono già molto affezionata a questi
personaggi e a ciò che
succederà. Per ora mi limito a presentarveli, è
vero, ma dal prossimo avrete
uno scorcio dell’ambientazione, delle relazioni che li legano
e ulteriori
indizi.
Sì,
perché vi ho fornito molti, molti indizi su ciò
che accadrà. Anche sul finale a
dire il vero.
Non
sono solita mettere note, a meno che non sia assolutamente necessario,
ma ci
sono diverse cose che, sono certa, potrete individuare facilmente.
Vi
aspetto per sapere quale sia la vostra prima impressione su questa
storia e,
spero, per il prossimo capitolo!
Celtica
P.S.:
il titolo è ispirato alla raccolta di poesie di Pascoli.
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Capitolo 2 *** Capitolo secondo ***
Cap 2
Capitolo
secondo
Luna
non dirmi che a quest'ora tu già devi scappare
in
fondo è presto l'alba ancora si deve svegliare
bussiamo
insieme ad ogni porta
se
sembra sciocco cosa importa, Luna.
(Luna,
Gianni Togni)
Sta
ancora aspettando.
È
fradicio di gocce di pioggia, tiene la coda tra le gambe e il muso
chino. Non
riesce a guardare la strada, non riesce nemmeno a dormire.
Si
sente estremamente solo.
Dovrebbe
cercare un riparo, con l’arrivo del buio ha visto alcune luci
in lontananza. Ma
non osa andare, non osa lasciare il punto in cui il suo padrone
tornerà a
prenderlo.
Perché
lui è certo che
arriverà.
Finalmente,
dopo quello che è sembrato un tempo infinito, i fari di
un’auto compaiono in
lontananza. Li guarda muoversi e intanto sente il cuore accelerare il
battito.
Si
alza, e prende a correre verso la luce, dimentico dell’acqua.
Non è più stanco,
d’improvviso è tornato a sentire
l’energia dentro di sé, e la speranza, quella
speranza che lo ha spinto ad aspettare, sembra essere stata
ricompensata: non
ha mai dubitato del ritorno del suo padrone.
Batte
le zampe sull’asfalto, spostando tutto il peso da una parte
all’altra,
attraversa le pozzanghere formate nei tratti di strada avvallata, e va
incontro
al suo amore.
Prestò
tornerà a casa.
Con
la lingua a penzoloni continua il suo galoppo, mentre la pioggia si
placa.
È
vicino, le luci diventano sempre più grandi e illuminano la
pioggia che scende
trasversale.
Ma
quando l’auto rallenta, quando il finestrino si abbassa e lui
fa un balzo per
aggrapparsi alla portiera, non è il suo padrone quello che
trova. È una donna.
Una
donna che non conosce.
Torna
con le zampe a terra e tutta la frenesia, che aveva colmato la sua
solitudine,
scompare.
È
di nuovo solo, adesso.
Sente
il suono del freno a mano, quello che ha imparato a riconoscere
aspettando il
ritorno del suo padrone nel giardino di casa. Ma non è lui.
La
delusione spinge di nuovo le orecchie verso il basso e la coda tra le
gambe. Si
volta per tornare nel punto di attesa. Ma la donna lo chiama, scende
dall’auto
e si avvicina.
A
lui non importa.
Non
gli importa di quella donna, non gli importa di essere chiamato da lei,
gli
importa solo del ritorno del suo padrone.
Con
passo mesto si allontana.
«Aspetta!»
grida la donna. «Vieni qui, vieni bello… Dai,
vieni…»
Quelle
parole gli ricordano tanto Marta. La sua
Marta.
Volta
il capo e la aspetta. È bassa e tozza, molto diversa dalla
sua compagna di
giochi. Ha uno strano cappello, uno di quelli che Marta gli infilava in
testa
per poterlo fotografare.
«Non
ti faccio niente…» La donna parla con dolcezza, e
i suoi movimenti sono lenti,
meditati, quasi timorosi. Eppure non ha paura, lui lo sa.
«Bravo… Bravo,
bello…»
Vede
la sua mano allungarsi verso il collo e resta a guardarla. Lascia che
se le sue
dita frughino nel pelo, finché non è lei ad
allontanarle. Le riavvicina per
fargli una carezza.
«Non
c’è… Non sei perso, piccolo.
Però adesso come faccio a farti salire in
macchina? Ci verrai con me?»
La
donna lo guarda come ad aspettarsi una risposta. Ma lui non ha niente
per lei.
Né un guaito, né un lamento, non riesce a sentire
niente di diverso dalla
gratitudine. Gratitudine per quella mano sul suo pelo, per quel tono
dolce, per
le carezze.
«Vieni,
dai… Vieni, piccolo.»
Lei
continua a chiamarlo, a chiedergli di seguirla. Ma non
può… Cosa direbbe il suo
padrone se si allontanasse?
È
triste, e non ha voglia di scodinzolare. O forse, semplicemente, non ne
ha la
forza. Perché tutte le sue speranze sono svanite nel momento
in cui il
finestrino si è abbassato e, lui, non ha scorto
l’uomo che aspettava…
«Com’era
il numero da chiamare? Oh, non lo ricordo più! Dai vieni,
bello. Vieni con me.»
La
donna batte le mani sulle cosce, come a dirgli di seguirla.
Non
sa perché, sa solo che è sbagliato, ma va da lei.
Arriva all’auto, allo sportello
aperto e, senza pensare, senza più chiedersi nulla, sale in
macchina.
«Vedrai,
starai bene. Non posso tenerti, ma troveremo qualcuno. Non finirai in
canile.
Non tu.»
┌
Chi non ha mai
posseduto un cane non sa cosa significa
essere amato.
(Arthur Schopenhauer)
┘
Sfoglia
il libro in riva al mare.
La
spiaggia è sassosa, e sembra quasi unirsi al paese che si
inerpica sulle
colline. L’acqua che ha davanti sembra racchiusa dai due
lunghi perimetri di
costa che ha intorno.
Tobia
si è appena liberato della giacca primaverile. Fa troppo
caldo per poterla
tenere, Luna lo sa, ma resta coperta.
«Non
c’è nessuno» mormora Tobia sedendole
accanto. Stringe gli occhi per il sole, e
Luna segue il suo sguardo: sono soli.
«Motivo
in più per studiare.»
Si
porta una ciocca di capelli dietro l’orecchio e lascia che il
vento volti
pagina per lei. Non è davvero intenzionata a studiare, sa
che non è il luogo
adatto. Non per lei.
«Qui?
Eddai, Luna…»
Lei
sposta lo sguardo dalle scarpe da tennis al volto di Tobia.
È arrabbiata.
È
arrabbiata perché vorrebbe che fosse già
venerdì sera, per poter prendere il
treno e tornare a casa. È arrabbiata perché sa di
dover studiare, ma non ne ha
voglia. Ed è arrabbiata anche con Tobia, anche se non sa
perché.
«Allora
interroghiamoci. Sarà come studiare.»
La
fronte di Tobia si sta bagnando di sudore. Non è nemmeno
giugno, eppure lui soffre
già il caldo. Scuote la testa per dirle di no, che non gli
va.
Rimangono
un momento in silenzio; Luna distende le gambe sui ciottoli, lascia
cadere il libro
sul fianco e resta a fissare il mare. È scomoda e dolorante,
ma questo non fa
altro che farla sentire viva, come se essere sola, in riva al mare,
seduta sui
sassi, potesse solo farla stare bene.
C’è
Tobia con lei, è vero, ma è talmente abituata
alla sua presenza da non
considerarlo un altro.
È
Tobia, il suo amico di scuola, il suo coinquilino fuori sede, che segue
i suoi stessi
corsi.
«Arriva
qualcuno» mormora lui, chinandosi vicino al suo orecchio.
È
sempre così silenzioso da farle chiedere come possa fare
tanto rumore quando si
muove. Ma ha detto la verità: in lontananza una figura si
avvicina di corsa,
tanto da farle pensare a una madre con un bambino.
Ma
non è così.
«C’è
un cane!» grida Luna spostando il peso del corpo in avanti.
Sorride a Tobia.
L’animale
corre sulla battigia insieme al suo padrone. È libero, il
mantello crema luccica
al sole, e le zampe schizzano acqua salata.
Luna
può vedere le gocce splendere di luce. Ma è il
cane che osserva, i muscoli che
danzano nel galoppo, il muso nero rivolto al ragazzo che è
con lui, la lingua
di fuori, che rende espressivo il suo muso.
Ma
poi lei muove le braccia per farsi notare.
«Ehi!»
grida, rivolta all’animale.
E
lui la vede.
Il
ragazzo si ferma a riprendere fiato mentre il mastiff passa al trotto
per
raggiungerla. Scodinzola, e Luna si solleva sulle ginocchia per fargli
segno di
avvicinarsi.
«Ti
prenderà per pazza…» sussurra Tobia,
facendo un cenno verso il padrone.
Ma
a lei non importa.
Adesso
la cosa che più vuole è poter accarezzare il
cane, e rubargli un briciolo d’amore.
Quando
lui è a un passo da lei, Luna allunga la mano per fargliela
annusare. Si
presenta, così da non spaventarlo, anche se sa
già di non essere temuta.
«Argos!»
grida il ragazzo facendo qualche passo per avvicinarsi.
Luna
sente i suoi occhi impazienti addosso.
«Ciao,
Argos…» gli sussurra con dolcezza fra una carezza
e l’altra.
Ha
il viso vicinissimo al suo muso, e riconosce lo sbuffo di Tobia.
«Scusate,
vuole solo giocare. Non vi fa niente» dice il padrone, e
sembra abituato a ripetere
quella nenia.
Luna
gli lancia un’occhiata veloce, sorride, e torna a
preoccuparsi del cane. È un
bel ragazzo, è riuscita a notare il fisico atletico e i
lineamenti decisi.
«Non
è un fastidio» risponde Luna scostando le ciocche
ribelli. «Anzi.»
Al
sole i suoi capelli appaiono rossi, tanto da attirare lo sguardo di
lui. Luna
sposta gli occhi dal ragazzo a Tobia, e nota la sua espressione
contrita.
«Grazie.»
Il
padrone di Argos sorride, ed è un sorriso sincero quello che
Luna si trova ad
ammirare.
«Non
sono in molti a fargli i complimenti.»
Argos
continua a scodinzolare, tenta di leccarla, e sembra felice delle sue
attenzioni.
«Ah
no?» chiede Luna rivolta al cane. Solleva il muso con le mani
e lo guarda. «E
chi è che dice che non sei bello, tu? Eh? Ma chi
è che lo dice…»
Argos
uggiola e cerca di salirle sopra, spinge le zampe contro di lei e
riesce a
rovesciarla a terra.
«Basta!
Basta, Argos!» Il ragazzo lo afferra per il collare,
togliendoglielo di dosso.
«Mi dispiace! Scusa!»
Allunga
una mano per aiutarla a tirarsi su, e Luna la accetta, sorridendo.
«Ci
sono abituata.»
Si
scambiano un’occhiata, un istante che sembra durare a lungo,
e Luna sente una
scossa scenderle lungo la schiena. Lo vede voltare il capo verso la
spiaggia,
come se fosse tentato di andarsene.
Ma
poi ci ripensa.
«Vieni
spesso a studiare qui?»
Luna
segue lo sguardo di lui, puntato verso il libro di diritto privato.
Arrossisce,
perché sa di non aver letto nemmeno un paragrafo. Solleva il
mento.
«Forse…»
«Che
significa forse?»
Luna
scrolla la testa e ride: è un gioco al quale non
è abituata.
«Significa
che forse vengo, forse no…Dipende.»
Il
ragazzo la guarda stranito, ma non smette di sorridere.
«Da
cosa?»
Luna
non gli risponde, gli lancia una lunga occhiata prima di riavvicinarsi
ad
Argos. Lo accarezza.
«Lo
porto qui tutti i giorni» spiega il ragazzo, allentando la
presa sul collare.
«Se ti va di rivederlo…»
Tobia
dà un colpo di tosse quando lei continua a rimanere in
silenzio.
«Allora
a presto, Argos…» mormora Luna, grattandogli le
orecchie.
Lo
lascia andare, e il padrone deve tirarlo per riuscire ad allontanarlo
da lei. La
guarda ancora e ancora, come se si aspettasse qualcosa.
«Il
tuo nome?» chiede il ragazzo.
Luna
si aspettava quella domanda.
«Luna,
e non ricordo mai i nomi dei padroni. Solo dei cani.»
Vuole
essere una richiesta, e infatti lui sorride.
«Allora
è inutile che te lo dica.»
Luna
li guarda allontanarsi, ricambia l’alzata di mano volta a
salutarla, e si sente
bene. È davvero una bella giornata per lei.
Solo
allora sembra ricordarsi di Tobia, e quando si gira lo trova intento a
osservare il mare. Ha l’espressione corrucciata di quando
litiga con Luna, o di
quando lei gli fa qualche torto.
Ma
ora non è successo nulla, non hanno nemmeno
parlato… Luna non riesce a capire.
«Che
hai?» gli chiede, decidendo finalmente di togliersi la giacca.
La
mano corre al girocollo di velluto nero, e ne segue i tratti
finché non trova
il ciondolo. È bello, d’argento, a forma di cane.
Luna lo aveva desiderato
qualche mese prima, a una fiera; ed era stato Tobia a comprarglielo.
«Niente.»
«Non
è vero. Guarda che ti vedo.»
Esce
il vento in quel momento, un vento che increspa le onde del mare,
facendole
apparire minacciose. Sembra riflettere l’animo di Tobia.
Ed
è allora che lui si volta a guardarla. Stringe fra le mani
la sua giacca
leggera, tanto da far diventare bianche le nocche, e arriccia le labbra.
«Hai
una fissazione con questi cani…»
Suona
come un insulto e, se Luna non lo conoscesse bene, se non sapesse che
parla
così solo perché è arrabbiato,
tuonerebbe contro di lui, dando vita a un vero
scontro.
Invece
sospira, spinge indietro i capelli e, di nuovo, una ciocca rimane
incastrata
nell’anello.
È
Tobia, con un gesto rapido, a liberarla.
Luna
sente le mani di lui bollenti, e si chiede come possa avere
così caldo. Forse,
pensa, è la rabbia.
«Lo
sai che ci tengo.»
Sembra
una giustificazione, ma Tobia scrolla le spalle. Non la guarda in
faccia, come
quando è lui a sbagliare, e Luna si chiede perché.
È
strano. Tobia si comporta in modo diverso.
«Tieni
solo a loro…»
Luna
lo guarda accigliata. Il fuoco, quella fiamma che tiene vivi i suoi
ideali,
torna a bruciare dentro di lei.
«Non
è vero!» grida, sollevandosi in piedi.
Sente
le gambe indolenzite per le pietre, ma non lo dà a vedere.
«Non
è vero, Tobia! Non puoi dirmi così!»
Indossa in fretta la giacca, e sembra
pronta ad andare via. A tornare al loro piccolo appartamento in
affitto, quello
che paga sempre Tobia. «Io ci sono per te. Io ci sono sempre
stata. Non so
perché hai scelto di seguire i miei stessi corsi, ma
l’ho apprezzato, perché
vuol dire che sono come una sorella per te» Riprende fiato,
sente gli occhi
bruciare al sole, e cerca quelli di Tobia. «Mi hai detto di
non preoccuparmi
per la casa, che ci avresti pensato tu. E non l’ho mai
dimenticato. Prendiamo
il treno per tornare dalle nostre famiglie insieme, anche se io potrei
partire
il giorno prima, ma ti aspetto. Non sei solo tu a tenerci.
«Anche
tu, per me, sei come un fratello.»
Tobia
sgrana gli occhi, come se avesse appena ricevuto uno schiaffo in pieno
viso.
«È
perché non ho ancora un cane, vero?» suggerisce
lui, alzandosi a sua volta. Ha
un che di minaccioso, ma Luna lo affronta da vicino.
«È solo per i cani che fai
così! Tu te ne approfitti, Luna!»
Le
sue parole sono incomprensibili per Luna.
E
le fanno male.
Improvvisamente
perde la voglia di litigare. Scuote la testa e fa per andarsene.
Afferra il
libro abbandonato, lo zaino, e fa qualche passo sulla spiaggia.
Il
sapore della salsedine è sulle sue labbra, eppure, mentre
pronuncia quelle
parole, Luna sente un gusto amaro in bocca.
«È
perché non l’hai mai avuto. E non hai idea di cosa
significhi» dice.
Poi
si volta e se ne va.
┌
Auschwitz inizia
quando si guarda un mattatoio e si
pensa: "sono soltanto animali."
(Theodor Wiesengrund
Adorno)
┘
È
una bella giornata di sole.
Marta
si chiede se Anna la accompagnerà a fare una passeggiata
sulla strada che dà
sul mare. Sarebbe bello parlare un po’ con lei; quando sono
sole, Anna è più
dolce e sembra anche più disposta a confidarsi.
«Esci?»
È la prima cosa che le chiede sua madre quando la vede
prendere la giacca.
«Mando
un messaggio ad Anna e guardo se viene con me… Altrimenti
vado da sola.»
Sua
madre non sembra contenta. Storce il naso e incrocia le braccia sul
petto.
«Posso
venire io con te, se vuoi…»
«No.»
La
risposta di Marta è immediata. In quel momento pensa che se
il suo cane fosse
ancora con loro, potrebbe portarlo al parco, come faceva sempre. Senza
Anna.
Ma
adesso che lui non c’è, ora che Marta è
costretta a uscire da sola, non le va
di andare al parco, e non le va di rimanere senza nessuno. Per questo
estrae il
cellulare dalla tasca dei jeans e cerca il nome di Anna.
Lungomare?
È
una parola sola.
Ma
Marta è sicura che Anna capirà e
deciderà di accompagnarla. In fondo è la sua
migliore amica.
Ha
anche aggiustato i capelli per lei, e vuole farle vedere il lavoro
benfatto di
Becca.
«Io
vado, ciao!»
Mentre
richiude la porta, lo sguardo corre alla casetta vuota in cortile. Si
chiede
dove sia ora, cosa stia facendo, se si ricorda ancora di lei.
Ma
si risponde di no, perché suo padre le ha spiegato come sono
i cani.
«Sono animali, Marta. Sono solo animali.»
Marta
tira verso il basso la maglia della tuta nuova, quella piena di glitter
che le
ha regalato Anna per il suo compleanno. È di un blu scuro, e
Marta riesce a
pensare solo che prima, quando c’era ancora lui,
non l’ha mai indossata. Non voleva che si riempisse di peli,
non voleva che si
rovinasse.
Ma
ora può.
In
fondo ci sono cose positive dalla separazione da lui. Non ha ancora ben
capito
cosa, ma ci sono.
Aveva
paura di essere morsa, anche se il medico, dopo aver chiesto la stazza
del
cane, le ha spiegato chiaramente che non era un verso morso. Le ha
detto che se
il suo animale le avesse voluto fare male, lo avrebbe fatto. E non
sarebbero
bastati dei punti per rimettere insieme i pezzi.
Ma
suo padre è stato chiaro: niente più cani.
Lei
ne vorrebbe prendere un altro, un cucciolo magari. Uno piccolo,
così da non
correre rischi.
E
anche sua madre è contraria…
Non
posso.
È
la risposta di Anna.
Marta
si chiede perché non possa uscire con lei, cosa ci sia di
più importante. Pensa
che forse suo padre ha ragione, sono soltanto animali, ma il suo cane
non le ha
mai detto di no.
Non
si è mai sentita rifiutata da lui.
Non
come ora si sente rifiutata dalla sua migliore amica…
Prende
le cuffie e le infila nelle orecchie, saranno la sua unica compagnia
quel
giorno. Perché sì, saranno soltanto animali, ma
se il suo cane fosse ancora con
lei, ora non sarebbe sola.
┌
È il
momento di separarsi.
Lei non sa cosa
dire, sa solo che è giusto così.
Perché
questo è solo un nuovo inizio…
┘
Luna che cosa vuoi
che dica non so recitare
ti posso offrire
solo un fiore e poi portarti a
ballare
vedrai saremo un po'
felici
e forse molto
più che amici... Luna!
(Gianni
Togni)
Note
dell’autrice:
Non
vi ho ancora svelato il perché del titolo.
Non
sarà una storia veloce, forse proprio perché
nella mia mente è nata come one
shot, per poi diventare una mini long… Adesso invece
è una long a tutti gli
effetti. Ci sono cose che voglio approfondire, ma rimane una storia, e
devo
poter dare un soffio di vita a tutti i personaggi.
Alla
prossima!
Celtica
|
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Capitolo 3 *** Capitolo terzo ***
Cap 3
Terzo
capitolo
Quando
tornava mio padre sentivo le voci…
Dimenticavo i miei giochi e correvo lì.
Mi nascondevo nell'ombra del grande giardino
E lo sfidavo a cercarmi: io sono qui.
Non so più il sapore che ha
Quella speranza che sentivo nascere in me.
Non so più se mi manca di più
Quella carezza della sera
O quella voglia di avventura…
Voglia di andare via, di là.
(Quella
carezza della sera, New Trolls)
È
strano trovarsi in una casa diversa.
Non
riconosce il suo odore, non c’è niente di lui in
quella stanza. Quando la porta
si è aperta, ha pensato che li avrebbe trovati ad
aspettarlo. Che sarebbero
stati lì per lui.
Invece,
al posto di Marta e Mamma, ha fiutato altre cose.
Il
suo olfatto è stato attratto dal gatto,
quell’animale che ora lo fissa spaventato
dalla cima di un mobile. Ha deviato verso la cucina, dove alcune voci
avevano
già dato segno della loro presenza, giusto un istante prima
che lui potesse
captare il pollo arrosto.
Per
ultimo, ha avvicinato il muso alla felce che lo separa dal lungo
tappeto liso.
C’è una macchia nel centro: riesce a sentire
l’odore di logoro.
Irrigidisce
le orecchie, mentre una vocina acuta arriva dalla cucina.
«Mamma!
È tornata la mamma!»
Lui
sgrana gli occhi quando la vede.
Non
è la sua Marta, non le somiglia neanche.
È
bassa, può giusto guardarla negli occhi, e grida, grida
più di quanto non
abbiano mai fatto in casa sua. Porta le orecchie indietro e china la
testa, i
muscoli si irrigidiscono mentre la segue con lo sguardo. Non perde un
solo
movimento.
«Basta»
sussurra la donna alla bambina. Lui deve voltare il capo per poterle
guardare.
«Lo spaventi così. Torna di là, io
arrivo.»
Gli
basta vederla sparire oltre la soglia illuminata per rilassarsi. Tira
fuori la
lingua per l’ansia, ma la donna non capisce; pensa che lui
sia felice.
«Non
posso tenerti…» ripete, accucciandosi di fronte.
Ha un sorriso triste.
«Davvero, non posso…»
Lui
reclina il muso, come a chiedersi cos’abbia. Il respiro si
ferma di colpo prima
di tornare normale. Ma lei insiste, lei, proprio, non capisce.
«So
che vorresti restare, ma non puoi.»
«Lilli!
Vieni qui!»
Un’altra
voce, più rigida, da uomo, la richiama. E la donna si alza,
obbediente. Gli
sfiora un orecchio prima di lasciarlo solo.
Lui
si guarda intorno, non è casa sua, ma tante cose gliela
ricordano.
Ricorda
quando aspettava in giardino il ritorno del suo padrone, ricorda le
rincorse
con Marta, che finivano sempre con lei aggrappata al suo collo, ricorda
le
scale. Ricorda il momento in cui la sua compagna lo salutava in cima
all’ultimo
gradino, prima di andare a dormire.
«Ti farei entrare…»
gli ripeteva. «Ma papà
non vuole.»
E
arrivava la carezza, quella dolce, ultima carezza prima del sonno.
Quella
carezza che lo spingeva a chiudere gli occhi, quella carezza che lo
faceva sentire
amato, che riusciva a fargli dimenticare ogni gioco, ogni desiderio di
correre
libero in un prato.
Tutto
svaniva quando Marta seguiva il suo profilo con le dita. Ogni cosa
perdeva
importanza perché c’era lei, quel suo premere il
pelo, girare intorno all’orecchio
e raggiungere la guancia.
Persino
l’odore di fumo che circondava Marta svaniva.
Bastava
chiudere gli occhi…
«Tieni»
mormora Lilli, tornando dalla cucina con un piatto di carta. Riconosce
subito
di cosa si tratta: pollo. Si passa la lingua sul naso prima di tirarsi
a sedere
come gli è stato insegnato. «Ti porto anche
l’acqua adesso.»
Non
resta a guardarla mentre se ne va, si china sul cibo, pronto a
mangiarlo. Ma
gli basta un’annusata per tirarsi indietro.
Come
può mangiare?
Loro
non sono con lui. Sono da qualche parte, lontani, a chiedersi dove sia
finito,
perché ora non stia mangiando insieme a loro. No, non
può mangiare.
Volta
il capo al piatto, pensando a quando Marta gli allungava qualche
avanzo; era
bello stare accucciato ai suoi piedi, aspettare, guardarla pregandola
di dargli
qualcosa.
E
qualcosa arrivava sempre.
«Ecco
l’acqua» Lilli fa per tornare in cucina, ma poi si
volta e lo guarda. «Mangio e
comincio subito a fare un giro di telefonate. Vediamo se sei
scappato.»
Ha
un’espressione incerta mentre lo lascia, come se non credesse
nemmeno lei al
fatto che possa averlo fatto…
Ci
ha pensato, questo sì. Ha avuto voglia di allontanarsi da
Marta, durante il
giro al parco. Ma non è mai successo. Ha desiderato la
libertà, ma non ha mai
lottato per averla.
Perché
avrebbe dovuto?
Aveva
qualcuno che lo amava.
Ora,
però, è solo. Lilli è stata buona con
lui, ma Lilli non è Marta, non è Mamma,
non è il suo padrone. Lilli è solo la donna che
dovrà riportarlo da loro, di
questo è certo.
Passa
gli istanti successivi sdraiato sul tappeto consumato, lasciandosi
studiare dal
gatto sopra il mobile. Restano a guardarsi finché quello
strano esserino bianco
e nero non decide di soffiare. Soffia contro di lui, come se fosse di
troppo,
come se stesse occupando un posto che non è il suo.
Poi
salta giù e corre in cucina.
Lui
lo ignora, ma sa, sa che se Marta fosse con lui, se ora tutta la
famiglia fosse
riunita, passerebbe i momenti successivi a inseguirlo. Correrebbe
dietro al
gatto per tutta la casa, ignorando le grida, così come le ha
ignorate il giorno
in cui Marta ha lasciato entrare un randagio.
È
stato divertente, per un po’. Ma poi il suo padrone ha
lanciato il gatto fuori
dalla porta… Ricorda il pianto di Marta, e ricorda il suo
senso di colpa. Senso
di colpa per averlo inseguito, per non aver capito che non era
desiderato in
casa.
Ma
ora è lui l’estraneo.
Gli
occhi verdi del gatto spuntano dietro la colonna della cucina, e lo
fissano
come Marta aveva osservato, disgustata, la mela marcia che lui aveva
preso in giardino.
Lo
aveva sgridato, quel giorno.
«Pronto?»
La
voce di Lilli corre dritta dentro il suo orecchio, anche se non
può vederla.
Ignora il gatto e sbuffa, posando la testa sulle zampe anteriori.
«Sandra,
ciao! Scusa l’ora, ma ho trovato un cane per…
Sì,
sì, proprio lì. No, io stavo
tornando, a dire il vero… Ah, sì…
È…
Com’è? Ecco, è grosso. Non saprei dirti
la
razza. Lo so, lo so che non ti sto aiutando! Aspetta,
è…
ha il muso nero e il
corpo marrone chiaro, è magro ed è come se avesse
una
ruga sulla fronte… Gli
occhi! Ha degli occhi bellissimi. Sono scuri, ma non marroni come
quelli degli
altri cani, sono… No, no, sono… Non saprei, quasi
grigi.»
La
vede un istante, mentre sembra accertarsi che lui sia ancora
lì.
«Sandra,
non so dirti come sono le orecchie!» Scuote la mano davanti a
lui, e solleva
gli occhi al soffitto. «Sì, sono attaccate alte,
sono lisce e larghe. Ah, un
segugio dici. Non ne ho idea, Sandra.»
Lilli
gesticola davanti a lui, tanto da farlo sbuffare ancora.
Dov’è Marta? Perché
non è lì con lui? Perché non viene a
prenderlo…
«Va
bene, sì, chiedi in giro. Ma certo! Ti mando la foto!
Subito, cara. Falla
girare, tu hai i contatti giusti.»
Lilli
lo raggiunge e si china davanti a lui. Gli punta il telefono contro, ed
è una
fitta di nostalgia quella che lui sente. Quel gesto gli ha ricordato
Marta…
«Ecco,
ci sei?» continua Lilli, tamburellando le dita sul telefono.
«Te l’ho appena
mandata. Ce la fai a farmi sapere entro… Ah, ah va bene.
Domani mattina? Non
saprei… Preferirei farlo restare qui, ti dispiace?
Sì, non mi va l’idea di
farlo girare come una trottola. Se trovi i padroni chiamami.»
Lui
si lascia andare sul tappeto, si gira di lato, sdraiandosi con la
pancia
all’aria. Marta lo accarezzava sempre quando si metteva in
quella posizione…
Marta.
Ma
ora Marta non è con lui.
┌
Lasciate entrare il
cane coperto di fango, si può
lavare il cane e si può lavare il fango…
Ma quelli che non
amano né il cane né il fango...
Quelli no, non si
possono lavare.
(Jacques Prevert)
┘
Solleva
il polso per guardare l’ora: già dieci minuti di
ritardo.
I
treni non sono mai puntuali, trova a ripetersi. Ma Luna è
nervosa e vorrebbe
solo tornare a casa sua. È sola, ed è davvero
molto tempo che non aspettava in
stazione senza Tobia. Troppo tempo.
Si
sente ancora arrabbiata con lui, per il modo in cui sta cercando di
ignorarla,
proprio come faceva quando la sapeva fuori con un ragazzo.
Luna
sbuffa e si porta una ciocca ribelle dietro l’orecchio.
Quanto
tempo è passato da quando se n’è
accorta? Eppure Tobia non ha mai detto una
parola, ha sempre comunicato il suo mondo attraverso sguardi e gesti. E
silenzi.
C’è
un po’ di gente intorno a lei, gente impaziente di prendere
il treno, gente che
batte i piedi sul cemento e volta la testa verso la galleria.
Ma
il treno non è stato annunciato, non deve arrivare.
«Vai
via adesso?» le
ha chiesto quella stessa mattina, mentre Luna preparava la borsa. «Non aspetti stasera?»
Era
uguale a chiederle: non mi aspetti?
No,
avrebbe voluto rispondere Luna. Svegliati,
Tobia. È anche ora.
Ma
sa che lui non avrebbe capito, o, forse, che l’avrebbe
ignorata, chiudendosi
nei suoi silenzi, chinando lo sguardo al pavimento in cotto, e
lasciandola
andare via.
Come
ha sempre fatto.
La
verità è che Luna lo provoca apposta, gli mente
apposta, come quando ha detto
di essere come una sorella per lui… Non era vero. Ma lei si
aspettava una
reazione, si aspettava che Tobia si arrabbiasse, che le gridasse contro.
Invece
è rimasto in silenzio con i suoi occhi spalancati.
Luna
sa di averlo ferito, ma cos’altro avrebbe dovuto fare? Tobia
non sembra capire.
Tobia vive in un mondo tutto suo. E, questo, Luna non riesce ad
accettarlo.
Qualcuno
la spinge quando l’altoparlante annuncia l’arrivo
del treno. È il nervosismo
dell’attesa, l’impazienza derivata dal ritardo. Ma
Luna si volta comunque a
guardare chi è dietro di lei, e lo fa male, usando i suoi
occhi ambrati come
una lama.
«Ehi»
mormora stringendo i denti.
Chi
è dietro di lei, una donna magra, ben vestita e
completamente truccata, non
risponde, si limita a lasciarle un po’ di spazio. Un
po’ di respiro. Ma poi
Luna si accorge del
motivo per cui le è finita addosso. E, cosa peggiore, la sente.
«Speriamo
che non salga» dice la donna a voce bassissima, guardando un
cane. «Dovrebbero
proibirlo.»
Luna
resta in silenzio, ma la vampata di calore che sta crescendo in lei
raggiunge
le sue orecchie. Saranno diventate rosse, ne è sicura,
è stato Tobia a farglielo
notare un giorno di tanti anni prima: si imporporano sempre quando
è
arrabbiata.
Infila
le mani nelle tasche dei pantaloni di lino chiaro e aspetta, aspetta
che le
passi. Sa che rispondere sarebbe inutile, servirebbe solo a litigare.
Ma
poi commette un errore…
Quando
il treno arriva, Luna commette l’errore di voltare lo sguardo
intorno a sé e lo
nota: quasi nessuno vorrebbe il cane a bordo.
La
padrona del boxer sembra saperlo già. Resta ferma ad
aspettare che siano saliti
tutti prima di avvicinarsi alla linea gialla. Non cerca le persone, i
loro
visi, ha gli occhi fissi sul treno.
E
Luna prova tanta pena per lei.
Quando
è il suo turno di affrontare il gradino si volta e le
sorride.
«Prego,
andate prima voi.»
Quel
voi sembra rendere felice la donna.
Le passa davanti facendo un cenno con la testa, mentre il cane la
annusa
scodinzolando.
Luna
li raggiunge nel vagone e li segue, sedendo accanto a loro.
È allora che prende
ad accarezzare il cane.
«Come
si chiama?»
«Fenrir»
risponde la donna allentando la presa sul guinzaglio. «Ho
preso un biglietto
anche per lui.»
Luna
annuisce, pensando al giorno in cui ha deciso di convincere Tobia a
prendere un
cane: viaggiavano in treno in quel momento. E Tobia aveva abbassato gli
occhi,
confuso.
«Certo,
altrimenti non avrebbe potuto portarlo.»
«Però
non sembra che per la gente sia cambiato
qualcosa…» confida la donna,
arricciando con delusione le labbra. «Hanno fatto tante
leggi, eppure
continuano a essere… Non saprei come
definirlo…»
Luna
cerca i suoi occhi e pensa, pensa a quando ha affrontato un discorso
simile con
Tobia.
«Razzisti»
termina Luna al posto suo.
Il
treno sta ripartendo e lei accompagna una ciocca dietro
l’orecchio che, come al
solito, rimane incastrata nell’anello. Luna aspetta, sapendo
che
presto qualcuno la libererà, ma poi si rende conto.
Tobia
non è con lei.
«Termine
perfetto. Razzisti. Sono proprio razzisti» riprende la donna
mentre i
finestrini vengono oscurati dal buio della galleria. «Dico
sempre ai miei
studenti che devono capire, accettare le cose, che ci sono tanti modi
per
cambiare opinione. Ma non serve…»
Luna
libera la ciocca, cercando di non dare peso a quella mancanza che sente
dentro.
Non è il momento, si dice. Eppure… eppure il
cuore prende a battere un po’ più
forte.
«Cosa
insegna?» chiede poi, per distrarsi, mentre la donna gratta
Fenrir dietro le
orecchie.
«Italiano
in un liceo.»
Luna
sgrana gli occhi, sorridendo.
«Io
amo leggere. Studio Economia, ma sono appassionata di letteratura e
poesia.
Passo i pomeriggi a studiare per poi poter trascorrere la lezione a
leggere
poesie… Non con tutte le materie, ovvio.»
C’è
il mare alla loro sinistra, sembra quasi che il treno debba finirci
dentro da
un momento all’altro. Ma è solo la
costa… E i sassi che si affacciano sull’acqua
rendono tutto più eccitante.
«Come
ti chiami?»
«Luna.
E lei?»
«Ludovica.
Stai tornando a casa?»
Luna
sorride: casa le è mancata. Le manca ogni istante che passa
lontano, ed è un
amore grande quanto quello che prova per i cani.
«Sì,
ci voleva.»
Ludovica
sta per rispondere, forse sta per dirle cosa va a fare nel ponente. Ma
un
vecchio la interrompe, passando vicino ai loro sedili.
«Li
portano proprio dappertutto…» dice. Lo fa
scuotendo la testa, mentre le persone
intorno si voltano a guardare Fenrir.
Ma
Fenrir è tranquillo, non sembra rendersi conto di non essere
voluto. Ed è
questo a far scattare Luna.
«Mi
scusi,» comincia, voltandosi con un sorriso al vecchio. Tutti
gli occhi sono
puntati su di lei, sente di tremare, eppure riesce ad apparire
tranquilla. «le
dà fastidio il cane?»
Lo
dice con una tale dolcezza che il vecchio si ritrova costretto a
fermarsi,
abbassando il capo sul corridoio.
«Una
volta non si potevano portare…»
«La
legge è cambiata. Adesso si possono portare, si
può vivere con loro ovunque.
Non esistono più condomini che possano proibirlo…
È la legge.»
Il
vecchio borbotta qualcosa su peli e sporcizia, e Luna si porta una mano
alla
fronte.
«Lei
di che anno è, mi scusi?»
«Prego?»
«Adesso
siete tutti igienisti, ma lei dovrebbe sapere come vivevano le persone
una
volta. Non crede che sia esagerato tutto questo? Sono animali, non dico
che
siano persone, anzi trovo che sia sbagliato trattarli come tali, ma non
crede…»
Luna si alza in piedi e il tono di voce diventa alto e duro, mentre si
rivolge
a tutti i presenti. «Non credete tutti che sia
assurdo?»
Fa
una carezza a Fenrir prima di terminare e tornare a sedersi.
«Sapete
una cosa? Vergognatevi. Vergognatevi tutti.»
┌
Se hai un cane, hai
un amico e più diventerai povero,
migliore sarà quell’amico.
(Will Rogers)
┘
Marta
sbadiglia sul divano.
Sta
aspettando da un quarto d’ora che Anna arrivi a casa sua. Fa
sempre così, la
sua amica.
Quando
aveva ancora il suo cucciolo era diverso, però.
Marta
restava in giardino a giocare con lui, a tirargli la palla, a farsi
rincorrere.
Finché non vedeva spuntare Anna in lontananza…
Cambiava
tutto quando arrivava lei.
Doveva
lasciare il cane fuori dalla porta, perché Anna non
sopportava di averlo in
casa. Era tutto diverso allora…
Marta
sistema la coda di cavallo sui cuscini del divano e si sdraia. Dalla
finestra
dietro di lei entra la luce del sole. Ma da quando lui non
c’è più, Marta ha
passato poco tempo all’aria aperta.
Il
citofono suona in quel momento, mentre ricorda i latrati del cane fuori
dalla
porta.
Le
sembra ancora di sentirli.
«Ehi!»
dice Anna abbracciandola. È vestita di nero, con i lunghi
capelli lisci che
sembrano sfumare verso il blu. «Come stai?»
Marta
la lascia entrare e, senza farlo apposta, l’occhio corre alla
scalinata dove
lui la aspettava ogni sera. Non le manca, Marta lo sa, eppure non
riesce a
smettere di pensarci.
Ha
passato troppo tempo con lui, è stato questo il problema.
Ma
a sbagliare è stato il cane, perché era un
animale, proprio come le ha spiegato
suo padre.
«Prendi
qualcosa?»
Anna
le fa cenno di no mentre attraversa il corridoio per entrare nel
salotto. C’è
tanta luce lì, e il trucco che Anna ha in viso diventa
inquietante quando si
volta per sorriderle.
«Avete
cambiato qualcosa?»
Marta
le fa segno di sedersi prima di rispondere. Osserva la maglia larga di
Anna,
quelle pieghe che le nascondono i fianchi e, di nuovo, il muso del cane
torna a
farle visita.
Aveva
anche lei una maglia simile… prima che lui la rompesse.
«Sì,
mia madre ha voluto buttare via un po’ di roba. Sai, soliti
cambiamenti… Diceva
che era ora di cambiare.»
Anna
si morde un’unghia e prende a guardarsi intorno. Marta sa che
sta per arrivare
un’altra domanda, che Anna le chiederà qualcosa
del caminetto bianco, o del
tappeto marrone, o quando si decideranno a cambiare il
lampadario… Non le è mai
piaciuto, e sembra volerglielo fare presente tutte le volte.
«State
meglio, no?»
Marta
la osserva senza capire. Siede al lato opposto del divano, con le
ginocchia sul
cuscino, e aspetta spiegazioni.
«Ora
che vi siete liberati del cane… state meglio?»
Anna
lascia che le ciocche scure le finiscano in faccia e si guarda il
pollice prima
di riprendere a morderlo. Marta, invece, rimane sgomenta. Forse
è perché non la
sente rispondere che Anna cambia argomento. È sempre
così con lei: bisogna
essere sempre pronti.
«Ma
quando vi deciderete a cambiare lampadario? Sembra quello di mia
nonna…»
Era
solo un cane, eppure da lui Marta sapeva cosa aspettarsi.
┌
Sua madre la aspetta
in stazione.
Luna le va incontro, un po’ pentendosi di essere sola.
Dovrebbe essere con Tobia ora.
«Com’è andata? Pronta per gli
esami?» chiede sua
madre. Non le lascia il tempo di rispondere…
«Abbiamo un ospite.»
Ma Luna non ha idea di chi stia parlando.
┘
Note
dell’autrice:
Arrivo
in ritardissimo, mi dispiace… Per farmi perdonare non vi
lascerò da leggere
note! Mi limiterò a chiedervi scusa.
Celtica
|
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Capitolo 4 *** Quarto capitolo ***
Cap 4
Quarto
Capitolo
Come
quando fuori pioveva e tu mi domandavi
se per caso avevo ancora quella foto
in cui tu sorridevi e non guardavi.
Ed il vento passava
sul tuo collo di pelliccia e sulla tua persona
e quando io, senza capire, ho detto sì.
Hai detto "È tutto quel che hai di me".
È tutto quel che ho di te.
(Rimmel,
De Gregori)
È
trascorso un giorno.
Una
ragazza è venuta a vederlo: lo ha toccato, ha osservato le
orecchie, gli ha
scoperto i denti. Poi gli ha sorriso. Lui ha sollevato la coda con
indolenza,
tentando di rispondere al suo saluto, ma alla fine l’ha
lasciata cadere sul
tappeto ed è rimasto fermo.
«Cosa
ne pensi?» chiede Lilli, inginocchiata vicino a lui.
Riconosce
uno strano tono nella voce, quella titubanza con cui Marta parlava alle
sue
amiche quando andavano a trovarla. Come se cercasse
l’approvazione dell’altra…
«Ha
mangiato?»
«Non
ha toccato niente. Ha solo bevuto» risponde Lilli poggiando
le mani a terra.
«Portiamolo
in laboratorio» continua la giovane. «Dobbiamo
vaccinarlo.»
Lilli
non sembra contenta. Rimane ferma, posando le dita sul suo muso, come
se
volesse proteggerlo.
«E
se fosse già stato vaccinato? No, è
rischioso.»
La
ragazza si alza con fare sicuro. Lui riconosce l’odore di
altri cani, un odore
che in un momento diverso lo avrebbe spinto ad alzarsi per annusarla.
«Vacciniamolo
e basta. Si fa così. Non è rischioso,
Lilli.»
Sono
sole con lui, sempre se si esclude la presenza del gatto, costante, che
lo
osserva come se fosse una cosa brutta e pericolosa.
«E
per il resto?» insiste Lilli, facendo forza sulle ginocchia
per tirarsi in
piedi.
«Sembra
sano. Dobbiamo solo riuscire a farlo mangiare.»
Sono
altrove, ora. In una stanza piastrellata di bianco, odori che si
mischiano tra
loro, come se lì dentro fossero passati centinaia di animali.
Lui
non può fare a meno di sollevare il muso e sentire.
Sente
odore di urina di gatto, in parte coperta dall’alcool, un
barboncino che ha
lasciato alcuni peli vicino al banco d’acciaio, e altri,
altri ancora. Se solo
volesse, potrebbe riconoscere ogni animale annusato in quella stanza,
ogni cane
che vi ha messo piede. La paura, quella stessa paura che ora sente
anche lui.
Ricorda
un posto simile, ricorda di aver tremato, di aver sentito dolore.
Ricorda di
essere stato messo in malo modo su un bancone freddo e grigio. Ce
l’ha davanti,
ora.
«Non
lo tieni?» chiede la ragazza a Lilli.
Lui
si volta a guardarle, il battito accelera, il respiro si fa affannato,
cerca di
arretrare, la lingua a penzoloni.
«Sai
che non vuole…»
«Già.
Papà non voleva che lo sposassi.»
«Sandra!»
grida Lilli, facendolo agitare ancora di più.
«È
la verità, Liliana. Lo sai bene. Se non avessi sposato lui
le cose sarebbero
andate diversamente.»
Sente
la porta chiusa dietro di sé, la sfiora con la coscia mentre
le osserva. Ha
paura, vuole andare via. Finalmente trova il coraggio di voltarsi e
prende a
grattare il legno bianco, scalfendolo.
«Fermo!
No, no!» grida ancora Lilli, ma è Sandra quella
che lo raggiunge.
Lo
afferra per il collare, quello di stoffa grigia che gli ha comprato
Lilli
quella mattina, e lo tira verso il bancone.
Sa
già cosa sta per accadere…
Presto
lo isseranno sul freddo acciaio. Presto perforeranno la sua pelle, come
è già
successo in passato.
E
infatti accade.
Sandra
stringe il collare e pone un braccio intorno alla sua pancia. Quasi non
si
accorge di essere lassù, dove non voleva andare. Lilli lo
raggiunge mentre si
sdraia sulle zampe.
«Stai
tranquillo…» sussurra Lilli, stringendo la sua
testa contro il petto. Sente la
mano di lei sul ventre, e capisce di non poter più fuggire.
Tira
fuori la lingua, respira con affanno, trema. Sente il cuore scoppiare,
è troppo
veloce, troppo veloce… E Sandra si avvicina, Sandra e
ciò che stringe tra le
mani.
Tira
la testa indietro con forza, vuole andarsene da lì.
Perché Marta non lo porta
via? Ma Lilli usa entrambe le braccia per bloccarlo contro il suo corpo.
Eccola:
sta arrivando. Sandra è lì. Vede una mano
guantata di bianco percorrere il suo
corpo, la sente mentre tira un lembo di pelle. No, no, no, deve
scappare, deve
fuggire!
Spinge
sulle zampe per alzarsi, sente la forza di Lilli cedere, sa che
può farcela, sa
di poter essere libero. Solo uno sforzo…
«Fatto»
dice Sandra, allontanandosi da lui.
Lilli
allenta la presa, dandogli modo di approfittarne per alzarsi in piedi.
Ma è
scivoloso quel ripiano… È bagnato.
Ed
è stato lui a bagnarlo.
Se
ci fosse il suo padrone, ora partirebbero urla e rabbia.
Ma
Sandra e Lilli non sembrano accorgersene. Parlano tra loro, come se lui
non
fosse lì.
«E
ora?» chiede la donna con una punta di amarezza. Lo guarda,
incrocia i suoi
occhi, ma stavolta non gli sorride.
«Se
sei sicura di non tenerlo…»
«Sono
sicura» dichiara Lilli, distogliendo lo sguardo.
«Dobbiamo
trovare qualcuno. Altrimenti lo sai…»
«Cosa?»
«Canile.»
┌
“Se guardi
negli occhi il tuo cane, come
puoi ancora dubitare che non abbia un’anima?”.
(Victor
Hugo)
┘
Non
può crederci.
Tobia
non riesce a farsene una ragione.
Perché
Luna è andata via senza di lui? Non è uscita da
molto, sa che, volendo, può
ancora raggiungerla. Ma è quasi ora… e lui
è sicuro che il treno sia già lì ad
aspettarla. È sicuro che se le sue intenzioni fossero
davvero quelle di
seguirla, non riuscirebbe a correrle appresso. Si ritroverebbe in una
stazione
vuota, con treni che portano ovunque tranne che
dov’è lei…
Non
ce la fa.
Luna
lo farà impazzire un giorno o l’altro.
Perché deve sempre comportarsi così?
Come una bambina. Come se non lo sopportasse, come se volesse
fuggire…
Tobia
intasca il portafoglio, afferra le chiavi ed esce.
Non
può andare a lezione in quello stato, proprio no. Deve
respirare, calmarsi,
fare due passi pensando a cosa può essere successo.
Scende
le scale che portano fuori dal condominio dopo aver chiuso la porta a
chiave,
lo fa pestando i piedi sui gradini, come se il marmo fosse colpevole
della fuga
di Luna.
Ignora
ogni cosa che lo circonda: il mare, che ospita i vacanzieri, le grida
della
gente sulla spiaggia, il bar, il bar dove Luna non voleva mai entrare.
«Facciamo colazione a casa.»
E
per quanto Tobia si fosse arrabbiato in quell’occasione,
mettendo il broncio e
restando in silenzio, ricorda di aver provato una fitta allo stomaco
alla
parola “casa” detta da lei.
Percorre
il lungomare, lascia che il sale gli sfiori la pelle, e pensa, pensa
agli occhi
di Luna, quel colore vivo e quello sguardo selvatico. Sempre in lotta
con il
mondo.
«Perché no?» sono le
parole che meglio la
identificano, che più gliel’hanno fatta amare.
A
ogni cosa, a ogni obiezione, Luna risponde così.
E
Tobia non fa altro che lasciarsi convincere…
«Ciao!»
Sente
quel saluto quando, d’improvviso, si ritrova vicino alla
stazione dei treni.
Com’è arrivato fin lì? Ricorda solo di
essere uscito, di aver camminato con il
mare a fianco…
Solleva
gli occhi per guardare chi l’ha salutato e riconosce la
ragazzina che per tanti
anni ha vissuto vicino alla casa di sua madre. È circa un
anno che non la vede,
esattamente da quando lei e la sua famiglia si sono trasferiti in
città.
«Marta.
Come stai?»
Non
è sola, ma Tobia non ha idea di chi sia la giovane che
l’accompagna. Sa solo
che non gli piace, non gli piace il modo che ha di guardare, non gli
piace il
modo in cui stringe il braccio di Marta, come se volesse tenerla
inchiodata lì,
come se fosse un cane al guinzaglio.
«Bene»
risponde Marta con un sorriso. Ma Tobia lo vede spegnersi quando
incontra gli
occhi della sua amica. «Come state nel ponente? Ancora tutti
interi?»
«Interissimi.»
«E
casa mia? La trattano bene?»
Tobia
sfrutta quell’incontro per distrarsi.
«Sì.
Le rose di tua madre ci sono ancora.»
Marta
sorride. È alta quasi come lui, ed è allora che
Tobia si rende conto che non è
più una ragazzina. Osserva i capelli lunghi e biondi, lisci
come seta, e
ricorda di non averglieli mai visti sciolti.
Poi
un’idea gli attraversa la mente… I capelli rossi
di Luna, il modo in cui le
incorniciano il viso, in cui le fanno risaltare gli occhi. Il modo in
cui
sembrano dar vita alle sue passioni.
Tobia
sa che se Luna fosse con lui, quella conversazione avrebbe vita breve.
Luna
odia gli sguardi opprimenti, e l’amica di Marta non fa altro
che guardarlo in
quel modo.
Non
sa perché, o forse lo sa e incolpa Luna, ma Tobia sente di
non voler restare a
parlare. Osserva l’orologio.
«Ti
saluto, Marta. Magari capiterà di rivederci.»
«Oh,
ma io ti ho visto tempo fa… Ero al parco con il mio cane e
ti ho visto passare
con una ragazza. Aveva i capelli rossi.»
Luna.
«Mi
sembravate arrabbiati… Così non mi sono
avvicinata.»
Tobia
sorride con imbarazzo, come se non ricordasse perfettamente quel
momento. Ma
invece sa ogni cosa, ogni parola che ha innescato il nervosismo di
Luna, ogni
gesto che ha fatto lui per inseguirla e farsi perdonare.
«Alla
prossima, allora.»
La
lascia sotto i portici e scende le scale della stazione.
Quell’incontro lo ha
lasciato perplesso… Luna, il cane, l’incontro con
Marta. Sa che se non fosse
uscito quella mattina non l’avrebbe vista, sa che se Luna
fosse stata con lui
Marta non lo avrebbe nemmeno salutato…
Sa
troppe cose, e l’unica che gli interessi adesso è
conoscere l’orario del
prossimo treno diretto da lei.
Cerca
la tabella con gli orari e, quando la trova, è deluso.
Mancano
tre ore al prossimo treno. Sembra quasi impossibile…
Decide
di uscire per camminare un po’, per respirare
quell’aria che, ora, non ha la
possibilità di condividere con Luna.
Pensa
a Marta e alle differenze che ha con lei… Sono due opposti.
Marta è sempre
stato un tipo solare, ubbidiente, facile da sottomettere. Mentre Luna,
la sua Luna, è viva come
i suoi capelli
rossi, infuocata di passioni, ribelle come i suoi occhi.
Marta
invece li nasconde sotto il rimmel, e Tobia ha il sospetto che sia
stata la sua
amica a spingerla a usarlo.
Raggiunge
la piazza e si allontana dalla stazione. Passa davanti
all’università, cammina
a passo lento e costante verso la salita che lo porterà a
vedere l’intera
città, e che gli farà abbracciare
l’intero mare.
Passa
davanti allo studio veterinario dove Luna lo aveva portato per
convincerlo a
prendere un cane.
«Parlare con un medico ti farà bene.
Vedrai
che risponderà a tutti i tuoi dubbi.»
E
Tobia l’aveva seguita senza sapere cosa chiedere.
Era
stata lei a fare tutto.
Osserva
la scritta sullo studio, le iniziali S.
Birillo del medico veterinario, impresse in nero su una targa
dorata. Non è
ancora orario di visite, eppure la porta si apre davanti a lui.
Quello
che gli si para davanti è un cane sconvolto…
«Salve»
lo saluta una ragazza con i capelli bruni. E Tobia la riconosce:
è con lei che
ha parlato. «Ha bisogno?»
Tobia
si sposta per farla passare, per farle
passare: dietro alla ragazza c’è una donna, ed
è lei a tenere il guinzaglio del
cane. Sente una gran nostalgia di Luna… Se ci fosse lei, ora
si chinerebbe ad
accarezzare l’animale e, forse, lo aiuterebbe a sentirsi
meglio.
«No,
io…»
«Ma
non ci siamo già visti?» insiste la veterinaria.
«Aspetti… lei ha una cocorita,
giusto?»
Tobia,
come guidato dallo spirito di Luna, allunga una mano tremante verso la
testa
del cane.
Luna non farebbe
così,
si dice. Ed è la verità: Luna si lascia annusare
prima di accarezzare. Sempre.
«No…
Sono venuto a chiederle informazioni sui cani.»
«Ma
certo! La ragazza con i capelli rossi!» la veterinaria
sorride prima di
volgersi verso la donna che è con lei. «La sua
ragazza voleva a tutti costi
fargli prendere un cane.»
Tobia
sente le guance in fiamme.
La sua ragazza.
«No,
noi… noi non stiamo insieme» sussurra in modo
impercettibile.
«Non
è con te?» La veterinaria passa a dargli del tu, e
Tobia non trova il coraggio
di ripetere quel chiarimento. «Magari lei potrebbe
aiutarci.»
Tobia
solleva gli occhi, rendendosi conto che in quel breve tempo in cui si
è
separato da Luna, ogni cosa nell’universo si è
mosso per portarlo da lei.
«Che
genere di aiuto?»
«Qualcuno»
interviene la donna, facendo un passo oltre la soglia.
«Qualcuno che si prenda
cura di lui. L’ho trovato per strada.»
Tobia
segue lo sguardo della donna e osserva il cane. Sembra stanco, debole,
sembra
che stia male. Chi mai lo prenderà? Nessuno, e in canile ci
sarà un cane in
più.
Se
Luna fosse con lui, ora Tobia sentirebbe tremare la terra sotto i
piedi, e la
voce di Luna giungere fino in cielo.
«Non
ho mai avuto un cane» confessa Tobia, studiando gli occhi
grigi dell’animale.
Un’idea lo pervade. Un’idea geniale.
O
molto stupida.
«Io…»
Sente l’indecisione farsi sempre più spazio dentro
di lui, ed è quel momento di
incertezza a spingerlo a fare il passo. Un passo oltre
l’abisso. Presto non
avrà più terra sotto i piedi, e ne
sarà pentito. «Potrei
provare…»
«Davvero?»
mormora la donna, scrutandolo torva. Non sembra fidarsi di lui.
«Lilli,
è fantastico! Lui sarà perfetto!»
«Perfetto?
Non mi sembra molto sicuro…»
Tobia
resta a testa china mentre parlano di lui. Sa di aver sbagliato, ma
forse è
ancora in tempo per tornare indietro.
«Ma
non sarà solo, Lilli! C’è la sua
ragazza, lei ama i cani, li ama.
Lasciatelo dire.»
«No,
sentite…» Tobia scuote la mano per bloccarle.
«Ha ragione lei, io non sono
nemmeno sicuro di quello che sto facendo. Non ne ho mai
avuti… No, è proprio
meglio di no.»
La
veterinaria afferra il guinzaglio del cane e lo passa a Tobia. Sembra
fare
piccoli saltelli, e lui capisce che è dalla gioia.
«Sì,
sì, invece! Perfetto, è perfetto. Sarai un ottimo
padrone, ne sono sicura.
L’incertezza è normale, e anzi, è un
buon segno: significa che temi di non
essere bravo. Per questo lo sarai.»
Tobia
sente la stoffa ruvida del guinzaglio tra le dita e si sente oltre il
bordo del
precipizio. Sta cadendo, e nessuno, nemmeno Luna, riuscirà a
salvarlo.
«No,
vi ho detto di no. Ho cambiato idea.»
Fa
l’atto di riconsegnare il guinzaglio a Lilli, ma la
veterinaria lo ferma. Ha un
sorriso enorme, e denti grandi e bianchi, più lucidi di
quelli di chiunque lui
conosca.
«Prendilo»
mormora con dolcezza, senza il minimo segno di alterazione.
«Non te ne
pentirai, fidati di me.»
«Ma
nemmeno la conosco…»
La
ragazza gli fa cenno di accucciarsi e lo imita. Solleva il mento del
cane con
due dita e gli impone di guardarlo negli occhi.
«Se
vuoi dire di no, devi dirlo a lui. Non a noi.»
E
Tobia guarda.
Entra
negli occhi grigi e tristi, e persi, entra nel suo mondo fatto di
abbandono, di
ricordi, di una casa che non vedrà più, di
qualcuno che non lo cercherà più.
Che non pronuncerà più il suo nome, che non lo
chiamerà nel freddo e nella
pioggia per offrirgli un riparo. Qualcuno che è da
un’altra parte, lontano,
troppo lontano per vederlo. Per vedere come sta soffrendo.
Per
capire come l’ha ridotto.
Tobia
sente gli occhi farsi umidi mentre vede lo spettro del suo viso nelle
iridi del
cane. È un volto scuro, tondeggiante, come se ogni
lineamento di Tobia fosse
visto in modo sbagliato dall’animale.
E
per ultimo, nello sguardo di lui vede ancora una cosa.
La
più importante, la più vera.
Vede
Luna.
«E
va bene. È mio.»
Anche
Lilli sembra felice ora, forse si fida molto della veterinaria. Forse
si era
già affezionata al cane.
Cosa
dirà Luna quando saprà? Lo perdonerà?
Tornerà da lui?
Non
vuole aspettare, vorrebbe averla lì a disposizione, pronta
ad ascoltare ogni
sua parola, a vedere quell’umido che gli ha offuscato gli
occhi.
«Posso
lasciarti il mio numero?» chiede Lilli. «Mi
piacerebbe rivederlo.»
Tobia
pensa a Luna, al modo di farle sapere. Poi decide, poi capisce cosa
deve fare.
«Dite
che avrà paura a viaggiare in treno? Non mi conosce
nemmeno.»
Lo
dice senza pensare di rispondere a Lilli, come se fosse ovvio che si
rivedranno. In fondo lei lo ha trovato, è stata lei a
portarlo da lui, a farli
incontrare.
«In
treno? Dove devi andare?» chiede ancora Lilli.
«Posso portarti io. Oggi non
lavoro.»
Sarebbe
una cosa stupenda, Tobia lo comprende subito. In auto farebbe prima, in
auto
arriverebbe prima. La lascerebbe di stucco, senza parole, senza fiato.
«Davvero
mi accompagnerebbe? Ma è lontano…
Un’ora di autostrada.»
«Come
ti chiami?»
«Tobia.»
Lilli
sorride, mentre la veterinaria li osserva.
«Bene,
Tobia. Guidare non mi dispiace. E, sinceramente, non contavo di trovare
un
padrone così presto. Ero pronta a mettere annunci su
internet… anche a
percorrere mezzo paese in auto pur di trovargli una famiglia.»
«Non
so come ringraziarla…»
È
la veterinaria a fermarli, prima che possano avviarsi verso il
parcheggio.
Solleva l’indice, come se fosse ancora a scuola, e fa la sua
domanda.
«Come
lo chiamerai?»
Tobia
non ha esitazioni. Sceglie quel nome perché lo associa a
Luna, alle sue
passioni letterarie, alle poesie che legge sempre durante le lezioni.
Non sa
come gli sia venuto in mente, ma è perfetto, perfetto per
lui, per loro. Per
Luna.
«Myricae.»
Questa
volta Tobia stringe il guinzaglio con forza, come se fossero le redini
che lo
porteranno fino a Luna. E sa che, per quanto abbia cercato di
convincersi di
aver accettato per lei, per essere all’altezza di lei, il
vero motivo è quello
di essersi lasciato ammaliare da quegli occhi e dal mondo che hanno
visto.
Un
mondo che Tobia non gli farà mai più ritrovare.
┌
La grande gioia di
avere un cane è quella di poter
fare l’idiota davanti a lui:
non soltanto non ti rimprovererà, ma anche lui
farà lo
stesso.
(Samuel Butler)
┘
Non
può credere di aver incontrato Tobia mentre era con Anna.
È
stata una sfortuna, questo lo ha capito subito. Ora deve ascoltare le
lamentele
della sua amica, le sue critiche al modo di vestire di Tobia, le sue
domande
riguardo alla gente che frequentava nel ponente.
«Non
dirmi che sono tutti così grezzi…»
insiste Anna, grattando via un poco di
rossetto con i denti.
«No,
avevo molti amici. Brave persone» cerca di giustificarsi
Marta, mentre prendono
la strada che porta all’università. Vanno
lì spesso, ogni volta che Anna vuole
vedere il ragazzo che le piace.
È
uno grande.
«Lui
era solo il mio vicino» spiega Marta. «Andavo alle
elementari quando ha preso
il primo motorino… È vecchio per essere mio
amico.»
Lo
dice con decisione, sperando che Anna la smetta di farle domande, di
parlare di
lui.
Salgono
i primi gradini dell’ateneo, sperando, quasi pregando, che
Giacomo stia per
uscire. La prima a notarlo è Anna che, dimentica di Tobia,
prende a emettere
gridolini.
Marta
vede solo il pacchetto di sigarette uscire dalla sacca di Giacomo, le
mani che
ne aspettano una, il colpetto che serve a invitarla a uscire.
«Come
va?» chiede Giacomo con la sigaretta in bocca. È
ancora spenta, ma a Marta
viene una gran voglia di fumare.
Lui
sembra intuirlo, e forse è per quello che gliene offre una.
Non può fare altro
che accettare, sperando che i suoi genitori non se ne accorgano.
Finora
le è sempre andata bene, ma sa che prima o poi la
scopriranno.
«Hai
un profumo nuovo?» chiede Giacomo chinandosi sui suoi
capelli, quasi sopra al
collo.
No,
vorrebbe rispondere lei. È lo stesso che aveva quando lui
era ancora con lei,
quando lui scappava vedendola indossarlo. I cani non amano i profumi,
questo lo
aveva capito grazie a lui.
«Figurati»
risponde Anna al posto suo, con una vena di sarcasmo nella voce.
«Usa sempre il
solito…»
Marta
riconosce la gelosia nei suoi gesti e si allontana.
Sa
di non poter parlare, di non potersi quasi muovere quando è
con Anna. Non vuole
essere giudicata, vorrebbe solo diventare pari a lei…
Comportarsi come lei,
parlare come lei, essere guardata come
lei.
Ma
non può.
Non
può essere se stessa, non può essere vera.
Non
le importa: sa che è un passo essenziale per somigliare ad
Anna.
Eppure…
eppure un tempo c’era qualcuno con cui poteva essere se
stessa. Qualcuno che
non c’è più.
Il
suo cane.
┌
Vivere un cane fin
da cucciolo è un’esperienza, Luna
lo sa bene.
Ma salvarlo, proteggerlo e giurargli amore eterno è
meglio.
Anche se fosse il suo ultimo giorno…
┘
E
qualcosa rimane,
fra le pagine chiare e le pagine scure,
e cancello il tuo nome dalla mia facciata
e confondo i miei alibi e le tue ragioni,
i miei alibi e le tue ragioni.
(De
Gregori)
Note
dell'autrice:
Mi
ritrovo qui, a scrivere note, dopo mesi dall'ultima pubblicazione...
Non so se qualcuno torni a leggere questa storia, di tanto in tanto, ma
è giusto che ringrazi le persone che l'hanno fatto, quelle
che l'hanno seguita, recensita, apprezzata... le persone per cui ho
deciso che Myr dovrà presto tornare. Perché la
storia non è e non può essere finita,
perché è molto importante per me, legata a un
evento e a qualcuno a cui tengo moltissimo. Perché
è la mia piccola, e non voglio abbandonarla.
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