Il treno delle 18.26

di artemideluce
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno. ***
Capitolo 2: *** Capitolo due. ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno. ***


La vita è il treno, non la stazione ferroviaria. 

(Paulo Coelho) 

Era una sera di mezza stagione, una sera come tutte le altre quando presi quel treno per Venezia. Avevo passato una giornata a Firenze, a visitare musei, studiare dipinti, stare con il naso all’insù dentro alle cattedrali e a girare attorno alle statue. Le cuffie nelle orecchie, seduta su una panchina gelida, aspettavo quel treno che mi avrebbe riportato alla routine degli studi. Il treno era in ritardo ma poco importava: stavo scorrendo con un sorriso sul volto le foto della giornata, sistemando i miei appunti disordinati su un bloc notes, quando qualcuno mi picchiettò sulla spalla. Era un vecchino, un po’ ricurvo e con la sua valigetta in mano, mi chiese se stavo aspettando il treno precedente ma enormemente in ritardo o il treno successivo. Risposi quasi stizzita, distolta dal mio lavoro da brava studentessa qual ero, che avrei preso il secondo treno, anche se mi avrebbe fatto perdere la coincidenza. Risistemate le cuffiette e fatta ricominciare la mia canzone, Je vais t’Aimer, mi rimisi al lavoro. Dopo mezz’ora abbondante e parecchi treni sfrecciati davanti al mio binario, arrivò il mio treno, in ritardo, come sempre. Presi il mio zainetto troppo piccolo per ciò che conteneva, libri, quaderni, la mia macchina fotografica, un paio di cartine sgualcite e ingiallite dal tempo, qualche penna libera sul fondo. Salii sul treno, tra una moltitudine di persone che correva per non perderlo, tra chi cercava il proprio posto con delle valigie improponibili. Trovato il mio posto, vicino al finestrino e in direzione del viaggio, mi sistemai con sospiro di sollievo: non c’era ancora nessuno accanto a me, e nemmeno di fronte. Era la cosa che odiavo di più, avere qualcuno accanto che potesse vedere cosa facevo, cosa scrivevo, cosa leggevo, cosa guardavo. Passarono i minuti, il treno ancora fermo in stazione ogni tanto soffiava una romantica fumata bianca davanti ad uno splendido tramonto che si intravedeva tra i cartelli e l’orizzonte degli edifici. Che città magica Firenze, nascondeva ad ogni angolo una chiesa tutta da ammirare, nascondeva dietro ad ogni palazzo un nome come Leon Battista Alberti o Brunelleschi. 

Mi sedetti al mio posto, su uno di quei sedili scomodi e puzzolenti tipici dei treni vecchi che girano per l'Italia e non se ne vanno mai in pensione. I tre posti liberi accanto a me erano ancora vuoti, quindi avevo occupato con il mio zaino un sedile in più, nella speranza di rimanere da sola per tutto il viaggio. Proprio nel momento in cui mi stavo togliendo la giacca, ecco un vecchino che, solo soletto e barcollante si avvicina, indica il posto di fianco al mio e mi guarda con un sorriso. Accettato il fato di dovermi sorbire racconti di guerra per le successive due ore, ricambiai il sorriso, almeno avrei imparato qualcosa. Aiutai il nonnino a poggiare la valigia sul portaborse e subito iniziò a raccontarmi della figlia che era appena stato a trovare, dei nipotini a cui aveva portato il consueto regalo di natale e al cognato che non apprezzava troppo, ma che offriva sempre del buon vino. Guardai l'orologio di nascosto, quasi non volessi farmi vedere di essere impaziente della partenza del treno, prima parte prima arriva. Mancava esattamente un minuto alle fatidiche 18.26, quel minuto che cambiò la mia vita.

Sentì il treno accendere i motori, lasciare il solito fischio e una voce metallica interruppe il logorroico vecchino che era arrivato a raccontarmi della moglie morta sette anni prima e dei loro gatti che amavano tanto ed erano come dei figli. Il treno fece uno scatto, gli ingranaggi iniziarono a muoversi, ma inaspettatamente si bloccò di nuovo. Nessun annuncio, nessun problema. Tornai assorta nei miei pensieri con un orecchio che ascoltava il racconto della vigna che cresceva e con l'altro che ascoltava il silenzio della stazione a quell'ora del sabato sera, interrotto solo dagli schiamazzi di qualche vecchio barbone che inveiva contro non si sa chi. Il treno ripartì. Passarono i minuti e ormai il signore era arrivato a raccontare della seconda guerra mondiale, del suo operato da partigiano e da alpino, quando intravidi una figura colma di borse avvicinarsi nel corridoio.
Era un ragazzo, abbastanza alto, forse un po' troppo magro e piegato sotto il peso delle sue valigie. Si fermò proprio al mio posto, probabilmente cercando nelle le tasche il biglietto. Trovata la scritta del posto si sedette proprio di fronte a me, urtandomi dapprima con un ginocchio e poi schivandomi per un soffio la faccia con una sacca da calcio che stava cercando di ammucchiare sul porta borse assieme agli altri bagagli. Finalmente incastrati e assicurati in modo che non potessero cadere, si sedette, fece un lungo sospiro. E un sorriso, rivolto a me. Si tolse la giacca e la sciarpa lasciando spuntare una camicia a quadri semi aperta, da cui si intravedeva una collana con una tartaruga e la linea sottile di un tatuaggio. Subito distolsi lo sguardo dal suo, tornando ad ascoltare il vecchino accanto a me. Ma non riuscivo a smettere di osservarlo, come farebbe un ornitologo con un raro esemplare di uccello esotico. Notai che aveva un accenno di barba, quella rada che hanno i ragazzi giovani e che spacciano per matura e virile peluria. Vidi con la coda dell'occhio che dalla sua borsa estraeva un paio di cuffiette tutte annodate e un libro. Con pazienza e dedizione, le due qualità che a me mancavano del tutto, si mise a snodare i fili delle cuffie, come farebbe un bravo sarto mentre intesse il suo miglior abito. Cercavo di non guardarlo troppo, lo guardavo di sottecchi e appena vedevo che alzava gli occhi subito distoglievo lo sguardo come per paura di essere vista curiosare. Ma ero attirata da lui, una scarica elettrica mi attraversava dal naso alle ginocchia, le mani mi sudavano e sentivo le mie guance infuocarsi ad ogni suo movimento. Avrei voluto parlargli, avrei voluto chiedergli il suo nome, il significato di quel tatuaggio, la trama del libro che teneva sulla gambe, il perché di una tartaruga al collo, il perché del suo viaggio. Ma ero una persona timida, riservata, tenevo per me le considerazioni e i giudizi, mi mostravo cordiale ma mai invadente. Eppure avevo una frenesia addosso che mi faceva tremare tutto il corpo. Ormai non stavo più ascoltando il vecchino accanto a me, sentivo solo ogni tanto qualche parola; le mie orecchie erano tese a percepire ogni movimento di quel misterioso ragazzo, come un elegante felino che silenziosamente tende un agguato ad un topolino. Mi passavano per la mente migliaia di modi per iniziare ad interagire con lui, ma subito mi dicevo che non ero il tipo, o che lui probabilmente non era il tipo da smancerie o cose simili. Ma non ebbi bisogno di nessun escamotage. Senza accorgermene una grassoccia signora si era accomodata accanto a lui. Forse sentivo un po' la gelosia per quel piccolo contatto fisico che invece io non riuscivo ad avere, essendo io di statura piccola. All'improvviso si mosse e un po' goffamente spintonò la signora, che dapprima sbuffò, poi si girò a chiacchierare ad altissima voce con un'altra signora in carne della fila affianco, dando le spalle al ragazzo. Lui tentò di scusarsi, ma la signora non si girò a rispondergli. Sul suo volto comparve un leggero sorriso, quasi una risata soffocata, che scoprì una dentatura  perfetta e bianchissima. Il suo sguardo si spostò dalla signora a me. Sentì il mio viso incendiarsi perché mi ero accorta di aver osservato la scena senza nascondermi, fissando ogni suo movimento ed espressione. Distolsi subito lo sguardo, lo rivolsi verso il finestrino. Un lieve sorriso apparve involontariamente sul mio volto, lo guardai per l'ultima volta e poi chiusi un istante gli occhi, crogiolandomi nel pensiero del suo sorriso.
 


Lasciatemi un commento, negativo o positivo che sia, e vi risponderò in men che non si dica! Sono felice di leggere le vostre critiche e i vostri consigli, accetto e segno tutto nella mia memoria! :)

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Capitolo 2
*** Capitolo due. ***


Capitolo due. 
“Un giorno ti sveglierai e non ci sarà più il tempo di fare le cose che hai sempre sognato. Falle adesso.”
(Paulo Coelho)
Riaprii gli occhi immediatamente, impaziente di scorgere i suoi movimenti. Ora aveva la fronte appoggiata sul palmo, stava ancora sorridendo per il fatto appena accaduto. Lo trovai così carino, come quando si vede un gattino con degli occhioni grandi e tondi. La signora accanto a lui si girò spostando l'enorme quantità di sedere che si portava appresso, ancora urtandolo un poco e spingendolo verso la parete. Continuava a sorridere, dapprima verso il finestrino poi, vedendo dal riflesso del vetro che lo stavo osservando, si girò verso di me, e scoppiò in una risata fragorosa, come se se la stesse tenendo dentro da secoli. Mi prese alla sprovvista, non credevo si sarebbe mai rivolto a me, men che meno in quel modo così inaspettato. In un primo momento fui sorpresa, spalancai gli occhi e le mie guance tornarono del colore dei miei capelli, di un rosso ciliegia molto scuro. Ma poi, vedendo quei lineamenti perfetti incresparsi in un sorriso che mostrava dei denti così perfetti, i suoi capelli che si muovevano leggeri, un orecchino che non avevo notato prima che dondolava al ritmo della risata, che partiva dal petto e si spegneva nei suoi occhi chiusi. Involontariamente scappò un sorriso anche a me, il che era straordinario visto che ero una persona seria e seriosa, che non amava le leggerezze e le cazzate. Fui sorpresa di me stessa, ma al contempo sollevata di aver ritrovato un segno di quell'umanità che avevo perso da anni. Lui tirò un sospiro, come un tentativo di ingoiare la risata. Aprì gli occhi e con una mano, quella con una tartaruga tatuata, si asciugò una lacrima che gli stava per scendere e solcare il viso. 
"Penso mi odi", si rivolse inaspettatamente a me, ancora incapace di smettere di ridere. Affondai la testa tra le spalle, più accaldata che mai. Mi uscì solo un fievole "già", non so neanche se mi avesse sentita. Che testa di rapa pensai tra me e me: Un ragazzo del genere ti parla e tu rispondi solo un moscio già?! Ti sta bene essere una vecchia zitella. Ero sempre stata timida da piccola, con l'avanzare dell'età quella timidezza si era trasformata in un guscio di indifferenza in cui mi chiudevo in situazioni estranee dal mio normale contesto. Questo aveva portato me a diventare una ragazza sola, a 25 anni senza mai aver dato un bacio o parlato con un ragazzo di persona, davanti ad uno Spritz. 
"comunque sono Marco", questa frase mi distolse dai miei pensieri e mi riportò nel mondo reale. Lo vidi sorridente, sporto verso di me e con una mano allungata. Si aspettava che la stringessi e ricambiassi. La strinsi flebilmente, "Lucia". Risposi, distogliendo lo sguardo da quel bronzo di riace che mi trovavo di fronte. 
Una voce sobbalzante e metallica annunciò la fermata a Bologna, e la sosta per circa 20 minuti. Vidi Marco che si infilava la giacca e si alzava. Ecco, dopo tutti questi anni avevo avuto la forza di dire il mio nome, quello vero, ad un ragazzo e lui già se ne andava, come un sogno. Scavalcò la grassa signora e le ginocchia del vecchino al mio fianco, che ormai si era addormentato. Stava per uscire, fece un passo ma si girò verso di me e disse "fa caldo qui dentro... Ti va di farmi compagnia?" Con il suo solito sorriso a 34 denti. La mia mente era annebbiata nel turbinio di pensieri che affollavano la mente, sul come rispondergli, sul come attaccare bottone, sul cosa avevo mangiato a pranzo e che poteva essersi incastrato nei miei denti o farmi l'alito cattivo. Mi alzai di scatto dal sedile e lo seguii fino a fuori il vagone, sulla banchina della stazione. 
Scesi dal treno una folata di vento mi scompigliò i capelli e mi fece ricordare di non aver preso la giacca. Strinsi le braccia sul mio petto, incrociai i piedi e, non sapendo cosa fare o cosa guardare, fissavo le mie scarpe nuove alla ricerca di qualche indesiderata macchiolina. Con la coda dell'occhio vidi che si era acceso una sigaretta, se la stava fumando con una mano nella tasca dei jeans, e lo sguardo che vagava tra le cose della stazione e me. 
“Quindi ti piace l’arte vero…” Lasciò la sua frase a metà e intuii che si era già scordato il mio nome. “Lucia” risposi “come lo sai?” Non credevo di avere la faccia da studiosa d’arte, non ero una che si vestiva in modo eccentrico o alla moda, ero solo me, una ragazza stralunata, perennemente in ritardo e con la testa sempre tra le nuvole.
“Sono un mago”
La sua risposta mi ha spiazzato. Credo di aver spalancato gli occhi e lasciato cadere la mascella: era forse l’ultima risposta che mi sarei aspettata. Stavo per rispondere quando lui fece un giro su se stesso, lanciò via la sigaretta e si rigirò verso di me con quel suo sorriso angelico e gli occhioni di chi ha fatto una marachella ma facendo il ruffiano aveva la capacità di farsi perdonare.
“Ho intravisto un libro dal tuo zaino” Oh beh, questa era una risposta decisamente più coerente e realistica, una probabilità ampia data la mia sbadataggine nel colmare tanto da non poter chiudere il mio vecchio zaino. Risposi semplicemente con un già e un sorriso, di quelli tirati, forzati, ero colma di vergogna fino alle punte dei capelli e tornai ad osservare le mie scarpe. Restammo sulla banchina qualche minuto che mi sembrò un’eternità, finché nello spazio visivo dei miei piedi apparse la sua testa. Feci un balzo indietro, rischiando di inciampare e cadere, ma lui mi afferrò con forza il braccio per tenermi in piedi, forse stringendo un po’ troppo. “Scusa, mi hai preso alla sprovvista, io… Ahio” Tornata salda sui miei piedi non osavo guardarlo negli occhi per l’imbarazzo e mi strinsi il gomito che mi aveva stretto. La voce annunciante la ripartenza del treno tuonò con cattiveria in mezzo a quella fredda notte d’inverno. D’impulso mi girai per tornare sul treno, ma vidi che lui non si era mosso di un passo da dove l’avevo lasciato. Mi girai verso di lui e, non so con che forza gli dissi “il treno riparte. Pensi di restare qui o salire?” Stava osservando il cielo, e senza distogliere lo sguardo rispose:” stavo guardando quante stelle ci sono sta sera in cielo... E pensando al fatto che sei uscita senza giacca”. È vero, ero uscita senza il cappotto, e non avevo sentito freddo nemmeno un secondo, ci pensai solo dopo. I miei pensieri furono interrotti dalla campanella che segnala la partenza del treno. Il treno aveva acceso i motori e aveva iniziato lentamente a muoversi e noi eravamo ancora sulla banchina, a poco più di un metro di distanza, lui con lo sguardo rivolto verso il cielo, e io disperata verso di lui. Con uno scatto fulmineo balzò verso di me, mi prese la mano come nessuno aveva mai fatto fino a quel momento e mi tirò a correre verso l’ultima porta del treno rimasta aperta. Non ero mai stata una tipa sportiva, la corsa mi affannava subito, ma nonostante questo corsi. Corsi senza guardare a dove mettevo i piedi, senza pensare a tenere i piedi diritti per non inciampare. Guardavo solo lui, lui che stringeva la mano a me e mi faceva salire sul treno appena prima che le porte si chiudessero definitivamente.
Il secondo macchinista accanto a noi ci guardò e sbuffò, tornando a chiacchierare con il collega nella cabina accanto alla porta. Io mi appoggiai alla parete, accaldata e con il fiato corto. Lui mi stava ancora stringendo la mano. Dopo più di un minuto di silenzio tolsi la mano dalla sua: la mia era sudata e appiccicaticcia, mentre la sua ancora fresca e liscia. Passarono ancora alcuni secondi, forse minuti. Mi guardò negli occhi con un altro di quei sorrisi che avrebbero ucciso un sasso, e insieme scoppiammo in una sana e grossa risata.
“Finalmente qualcosa fuori dai tuoi schemi, scommetto che non l’avevi mai fatto” Mi disse.
Era vero. Non avevo mai fatto qualcosa oltre i limiti del consentito, o della morale, o di chissà cosa. Mi guardava, poi guardava la notte scorrere davanti a noi dal finestrino del treno. Sapeva leggermi dentro.

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