Puntini di JustAGuyWithNoVoice (/viewuser.php?uid=917905)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Puntini ***
Capitolo 2: *** . ***
Capitolo 3: *** .. ***
Capitolo 4: *** ... ***
Capitolo 5: *** .... ***
Capitolo 6: *** ..... ***
Capitolo 7: *** ...... ***
Capitolo 1 *** Puntini ***
Cos’è
un puntino?
Un
puntino potrebbe essere un semplice segno di matita
sul foglio, un
lieve tratto di penna
sopra la stanghetta della I, un segno di tempera appena visibile su una
tela.
Un puntino non è importante, se scomparisse pochi se ne
accorgerebbero, e
nessuno ne sentirebbe la mancanza.
Un
puntino è la più piccola entità che la
mente umana
può immaginare. E’ alla base dei nostri pensieri,
delle nostre emozioni, delle
nostre sensazioni. Un puntino non è nulla, è
inutile, superfluo. Ma due
puntini? Tre, quattro, dieci, cento, mille puntini? Puntini che si
stringono,
compatti, a formare una linea; puntini che insieme formano le parole
che scrivi
sulla carta, puntini colorati che sono insignificanti da soli, ma
insieme
formano figure, paesaggi, persone, volti, centinaia di volti di persone
con
sentimenti ed emozioni, persone con delle vite piene e felici, persone
con
problemi, pregi, difetti, persone come te, come me, come tutti noi.
Tutto
da un solo, unico, semplice puntino.
E
se davvero un puntino è così insignificante,
forse
non ci si può fermare davanti al primo, forse il segreto
è continuare,
proseguire al secondo, al terzo, al quarto e così via, fino
a perdersi
nell’infinità dello spazio e del tempo, fino a
scoprire che quel primo ed unico
puntino.
Eri
tu, fin dall’inizio.
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Capitolo 2 *** . ***
L’uomo
in giacca e
cravatta si sistemò il polsino, con la delicatezza di un
chirurgo col bisturi,
come se da quello dipendesse la sua stessa vita. Infilò il
bottone
nell’occhiello, tirò il lembo della camicia
così che solo pochi millimetri
fossero visibili oltre l’orlo della manica
dell’abito scuro; poi, portò la mano
al nodo della cravatta. Lo strinse, lo strinse forte, alzando appena il
mento.
Il suo collo era stretto in una morsa dal rigido colletto bianco. Con
un rapido
movimento della mano gemella, infine, si spolverò appena la
spalla, per
togliere un po’ di polvere, qualche rimpianto, forse una
lacrima; i suoi occhi,
nel mentre, fissavano il vuoto. Chinò appena il capo,
dischiuse le labbra, prese
un respiro.
E
saltò.
Saltò
oltre la finestra
di fronte a sé. Saltò oltre i problemi, le
preoccupazioni. Saltò oltre il
rimorso, il rimpianto di una vita che non visse mai. Il vetro
s’infranse, le
schegge volarono tutt’intorno in una piccola nube che
rifrangeva ogni colore
dell’arcobaleno; una delle schegge gli graffiò il
viso, ed il sangue iniziò a
sgorgare, salendo su per la sua guancia. Il sangue andava su, e
l’uomo in
giacca e cravatta andava giù, veloce, sempre più
veloce, mentre la sua mente si
riempiva lentamente. Pensieri sui suoi amici, pensieri sulla sua
famiglia, sul
suo lavoro. Cosa avrebbe voluto fare, dove avrebbe voluto andare, chi
avrebbe
voluto essere. Allargò le braccia, mentre il vento gli
fischiava nelle
orecchie, lo assordava, lo spingeva con tutta la sua forza, come se
volesse
arrestare la sua caduta. Ma l’uomo in giacca e cravatta non
smise di
precipitare, ed i pensieri non smisero di offuscargli la mente,
finché non vide
un nastro rosso volteggiare appena, accanto a lui. La sua cravatta. Si
era
slegata. Ed il polsino si era sbottonato. Il suolo era così
vicino, che avrebbe
potuto allungare la mano per toccarlo, la sua caduta era giunta al
termine. I
pensieri si fermarono, il vento smise di gridare, il mondo smise di
muoversi. E
l’uomo in giacca e cravatta sorrise, per l’ultima
volta.
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Capitolo 3 *** .. ***
Il
vento mi accarezzava i
capelli, mentre il mio viso volgeva verso il blu dinnanzi a me. Mi si
dispiegava davanti l’immensità
dell’oceano e l’acqua cristallina, leggermente
increspata, brillava di mille sfumature di arancione mentre il sole
volgeva pigramente
verso il tramonto. Poco distante da me un paio di occhi mi scrutava,
allegro e
giocondo: quel paio di occhi apparteneva ad una creatura infinitamente
più
bella di ogni altra cosa avessi mai visto. Aveva la pelle
più scura della mia,
ed un modo così esotico di parlare, di muoversi, che
sembrava uscita dalla più
fine miniatura araba. Compieva passi piccoli e svelti, avvicinandosi a
me senza
muovere un istante i suoi occhi dai miei, incrociando il mio sguardo
come per
una sfida silente, le labbra incurvate in un dolce sorriso. Arrivata di
fianco
a me guardò per un po’ l’oceano,
similmente a come facevo io pochi attimi
prima, e adesso ero io ad esplorare il suo viso con lo sguardo. Due
zigomi alti
e snelli, due labbra vermiglie e carnose, due occhi dal colore
dell’erba
mattutina, impreziosita
da giada e
smeraldi. Mi guardò per un istante, con un sorriso accennato
sulle labbra, ed
io non potei fare altro che ricambiare quello sguardo, ed imitare quel
sorriso
mentre intrecciavo le mie mani con le sue, più minute, e le
avvolgevo i fianchi
con le braccia. I nostri corpi vicinissimi, infreddoliti dal vento che
andava
pian piano alzandosi, iniziarono a riscaldarsi l’un
l’altro, mentre i nostri
fiati umidi e leggeri si mescevano, l’uno con
l’altro, e ci carezzavano le
guance. Due culture diverse, due lingue tra loro lontanissime, due
mondi
diversi, due piccole galassie che collidono, si sovrappongono, e creano
qualcosa di immenso, inspiegabile, meraviglioso. Non erano solo le
nostre dita
gelide ad intrecciarsi, ma le nostre anime, l’una
nell’altra come due piccoli
torrenti che insieme formano un impetuoso fiume. D’un tratto,
spinse le sue
morbide labbra contro le mie, stringendomi forte a sé. Un
lungo, interminabile
bacio. Un solo, unico bacio, impetuoso come un mare in tempesta; e come
la
tempesta al mattino, dissipata dalla calda luce del sole, il vento si
fermò,
lei mi sorrise e scomparve tra le onde come schiuma marina, scomparve
dalla mia
vita come se non ci fosse mai stata.
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Capitolo 4 *** ... ***
“Il
mondo è un palco” Disse Shakespeare,
“uomini e
donne sono solamente attori.”
E
se forse Bill non si fosse sbagliato più di tanto?
Immaginate
l’universo come un enorme, gigantesco
cinema multisala; botteghini, bar, macchine dei pop corn sparse un
po’ ovunque.
Centinaia di migliaia di kilometri corridoi su cui si aprono milioni e
milioni
di porte, che conducono ognuna ad una diversa sala. Ogni sala ha un
design
diverso, con un diverso colore delle poltroncine, o rifiniture diverse,
comparti
audio e video migliori o peggiori a seconda del film che viene
trasmesso, a
ripetizione, sempre uguale. Ci sono, così, sale vuote e sale
stracolme, sale
immense che possono accogliere un’infinità di
spettatori, e sale più piccine,
appartate, riservate magari a film di poco successo o particolarmente
noiosi.
Uno
di questi film particolarmente noiosi viene dato
nella sala numero
quattrocentomiliardiseicentosessantasettemilioniottantaduemilatrecentonove,
nel millecinquecentesimo corridoio, sulla destra di uno stand dello
zucchero
filato. In quella sala ci siamo proprio noi; o meglio, il nostro
universo, che
dall’alba dei tempi continua ad essere trasmesso, con il suo
andamento ciclico.
Un film breve, quasi un cortometraggio, abbastanza lento e non troppo
impegnato:
ma se si guarda in un angolino in alto a sinistra, si dovrebbe poter
vedere un
puntino bianco, la via lattea. E guardando ben bene, con un
po’ di attenzione,
appena sul bordo di quel puntino si potrebbe scorgere
un’ombra rossa, il sole. Noi
siamo lì, tutti quanti, tutti comparse di questo film low
budget indipendente,
ogni nostra singola parola contribuisce a rendere quel film
ciò che è, anche se
in maniera molto subdola; un film senza comparse non è un
vero film, e forse
siamo proprio noi che rendiamo possibile questa modesta opera. Certo,
noi non
possiamo sapere se è stato un successo o un flop al
botteghino; chi può dirci
se in sala c’è qualcuno che ci sta guardando? Chi
mai potrebbe guardare
attraverso lo schermo, attraverso la pellicola, e dire con certezza che
la sala
è piena o vuota?
Nessuno,
ecco chi. Ma Shakespeare disse anche che lo
show deve andare avanti. E lo show andrà avanti fino alla
fine, per poi
ricominciare ancora, e ancora, e ancora, e ancora, e ancora…
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Capitolo 5 *** .... ***
La
sua vita era sempre stata frenetica, saltando qua e
là da un impegno all’altro, cercando di
accontentare tutti, famiglia, amici,
professori, anche rinunciando al tempo da dedicare a sé
stesso. Si muoveva
sempre rapidamente, sempre correndo, sempre con il pensiero volto al
prossimo
impegno.
Anche
quel giorno, mentre correva verso la sua scuola
per partecipare ad uno dei corsi pomeridiani, la sua mente era assente.
Lo
sguardo era spento, le braccia ondeggiavano rapide, avanti e indietro,
mentre
avanzava in silenzio, attraversando una stradina a pochi passi dalla
scuola.
Anche
l’autista del camion che stava percorrendo
quella stessa strada aveva lo sguardo assente: una mano sul volante,
l’altra
all’orecchio tenendo un telefono cellulare.
All’altro capo, una donna piangeva
e strillava, minacciava di andarsene, di portarsi via i bambini.
L’autista
scuoteva il capo, mormorava alla donna di calmarsi, le diceva che
avrebbe
sistemato ogni cosa, tentava di tranquillizzarla, ma non ci
riuscì. Non ci
riuscì perché prima di poter finire il suo
discorso, il cellulare gli cadde di
mano, la voce gli si strozzò in gola, ed in una frazione di
secondo spinse con
tutte le sue forze il piede sul freno. Aveva visto un ragazzetto di
appena
tredici anni proprio di fronte al camion; lo aveva visto quando ormai
era
troppo tardi.
Anche
il ragazzo notò il camion quando ormai non c’era
più niente da fare. Si girò verso di esso,
spalancando gli occhi come un cervo
abbagliato dai fendinebbia, i piedi gli si piantarono
nell’asfalto come se
fosse carta moschicida. Chiuse gli occhi, prese un respiro. Solo pochi
secondi,
e tutta la frenesia della sua vita sarebbe terminata.
Secondi
che non sarebbero mai passati.
Quando
il ragazzo aprì gli occhi, Il camion era lì, ad
un palmo dal suo naso. Lo sguardo gli si conficcò su uno dei
fari accesi, per
qualche secondo, cercando di realizzare cosa fosse appena successo. Era
morto?
Oppure era solo incastrato in uno di quei sogni coscienti, quelli dove
si può
fare ciò che si vuole? Alzò gli occhi, mosse
qualche lento, cauto passo
indietro e scorse l’autista dietro il parabrezza, che
stringeva con forza il
volante. Aveva il volto pallido, ed una goccia di sudore si era fermata
proprio
sulla guancia, pronta a scivolare giù da un momento
all’altro. Ma non si
muoveva. Anzi, guardandosi intorno, il ragazzo scoprì che
nulla si muoveva: le
fronde degli alberi erano rigidamente immobili, le rondini in cielo
fluttuavano
con le ali spiegate, come appese a fili invisibili. Nulla, intorno a
lui,
sembrava emettere un singolo suono. Tutt’intorno, il mondo
sembrava fermo in
una fotografia, ma lui no. Cercò di muovere le dita,
girò il capo a destra, poi
a sinistra, e mosse qualche passo incerto in quella direzione;
continuò a
muoversi come se stesse camminando su vetri rotti, fino a raggiungere
il
marciapiede. Aveva sempre desiderato più tempo, ed il suo
desiderio era stato
avverato: tempo, tanto tempo da poter vivere
un’infinità di vite, insieme ad un
silenzio mortale che gli divorò l’anima.
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Capitolo 6 *** ..... ***
Era
una gelida notte senza stelle. Il ragazzo con il
cappuccio normalmente non sarebbe mai uscito a quell’ora, e
mai si sarebbe
spinto oltre le mura della città, nei boschi limitrofi.
Quella, però, non era
una notte normale. Il ragazzo si trovava avvolto nelle sue calde
coperte di
lana, scaldato dal tepore del camino nella stanza affianco, quando la
sentì:
una dolce melodia che gli entrò in testa e gli
solleticò la mente a tal punto
da spingerlo fuori dal suo morbido letto, fuori dalla sua casa
accogliente,
lontano dalla sua città e da tutto ciò che era
caro per lui.
Il
bosco era scuro, sinistro, ma più di tutto era
silenzioso. Non il flebile ronzio degli insetti, né
l’ululato dei lupi rivolti
alla luna nascosta dalle nubi, o il gentile fruscio delle foglie mosse
dal
vento freddo. Gli stessi passi del ragazzo col cappuccio
sull’erba bagnata e le
foglie secche non producevano alcun suono, come se stesse camminando
sospeso a
qualche centimetro dal suolo. Tutto intorno a lui l’aria si
faceva sempre più
pesante ad ogni passo, e l’oscurità
s’infittiva avvolgendo il suo corpo con
delle spire mortali, stringendo sempre di più ogni secondo
fino a soffocarlo.
D’un
tratto, però, le ombre si diradarono, l’aria si
sollevò da lui come spinta da una forza invisibile, e
attorno al ragazzo si
diffuse una musica soave, la stessa che lo aveva portato fin
lì. Il dolce suono
gli accarezzò il viso, lo prese gentilmente per mano e lo
condusse da un albero
ad un altro, tra i cespugli, ripercorrendo il sentiero che conduceva
alla sua
fonte. Il ragazzo col cappuccio seguì la melodia senza
esitare, a passo svelto,
con gli occhi attenti per scorgere il misterioso musico non appena
questi si
fosse rivelato: ed ecco, spostando una fronda un magnifico spettacolo
gli si
presentò davanti. Un’ampia radura, nella quale un
fiume si riversava per
formare un lago profondissimo, tanto limpido da poter vedere ogni
granello di
sabbia sul fondale; nell’acqua, moltissimi pesci
risplendevano di tutti i
colori dell’arcobaleno, e migliaia di lucciole illuminavano
l’aere come fossero
stelle in miniatura. Al centro del lago, una donna dai capelli
lunghissimi,
color del rame, che le scendevano lungo la schiena fino a sfiorare
l’acqua. La
sua pelle era così liscia e pallida, illuminata dalla luce
delle minuscole
lanterne che le volteggiavano attorno, e tra le mani reggeva una cetra
d’oro,
con cesellature finissime, impeccabili, che rappresentavano scene di
caccia.
“Eccoti
arrivato, finalmente”
Disse.
“Ti stavo aspettando”
Si
avvicinò di qualche passo, le punte dei suoi piedi
volteggiavano sul pelo dell’acqua creando lievi increspature.
“Vieni,
coraggio, non aver paura”
Il
ragazzo col cappuccio deglutì, con il cuore in
gola. Mosse lentamente qualche passo verso l’acqua,
fermandosi infine sulla
riva. Tenne gli occhi fissi sulla donna e con infinita lentezza
poggiò un piede
sull’acqua, poi tremando spostò il peso su di
esso. Mosse un altro passo, e poi
un altro ancora, mentre l’acqua s’induriva ogni
volta che veniva toccata da
lui, come trasformandosi in vetro. Riuscì a raggiungere la
donna, che curvò le
labbra carnose in un sorriso.
“Ecco
il mio bambino”
Sussurrò,
lasciando andare lo strumento per posare le mano sulle guance del
ragazzo. La
cetra cadde, esplodendo in migliaia di minuscoli frammenti lucenti
appena prima
di toccare l’acqua. Al sentire quel leggero tocco sulla
propria pelle, il
ragazzo avvampò in un istante, come sciogliendosi tra le
calde dita della dama
del lago.
“Fatti
vedere meglio”
Mosse
le dita affusolate sul cappuccio per sollevarlo, lasciando scoperti i
lineamenti del viso del ragazzo. Un viso pallido, affilato, con zigomi
alti ed
un sottile naso all’insù. Le guance erano coperte
di lentiggini, e la brezza
lieve gli arruffava giocosa i capelli corvini. Il ragazzo sentiva i
battiti del
cuore farsi sempre più vicini l’uno
all’altro, sempre più impetuosi e violenti,
e la mente si annebbiava di mille pensieri.
“È
passato così tanto tempo, dall’ultima
volta” Disse, ed il sorriso della
dama si allargò.
E si allargò
ancora,
quando conficcò le dita nelle guance del ragazzo. Il sorriso
si fece
innaturalmente largo, la pelle candida iniziò ad indurirsi
ed inspessirsi,
mentre i capelli lucenti diventavano una folta criniera. Gli occhi le
si
iniettarono di sangue, e le dita divennero artigli. In meno di un
attimo, ogni
pensiero svanì dalla mente del ragazzo, e la meraviglia si
trasformò in orrore
quando poté vedere meglio il mostro che adesso lo stava
sollevando dal pelo
dell’acqua, stringendolo con i lunghi artigli affilati. Un
orribile creatura
più simile ad un coccodrillo che ad un uomo, e
allargò l’orrida bocca per mostrare
al giovane un grande sorriso divertito.
“La
mia fame è insaziabile”
Ruggì il
mostro. “Ma la tua anima mi
basterà per un altro poco” Rise,
stritolando il
ragazzo orma paralizzato dal terrore nella sua morsa, per poi
spalancare le
fauci, e fare di lui un sol boccone.
Il
suo cappuccio rimase a galleggiare per qualche
minuto sul pelo dell’acqua prima di affondare in quel liquido
rossastro, senza
lasciare traccia.
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Capitolo 7 *** ...... ***
Chimica.
Quella
scienza che studia
la composizione della materia: gli atomi, come si legano tra di loro,
come
reagiscono gli uni con gli altri. Chimica, la stessa parola che
scherzosamente
si usa per descrivere un rapporto passionale. E così, magari
si può fare anche
un passo avanti, dire che tutte le persone sono atomi, e la chimica
può aiutarci
a capire la gente. Pensateci, esiste un finito numero di atomi,
così come
esiste un finito numero di persone. Ci sono persone pronte a cedere un
elettrone nel caso possa aiutare qualcuno, persone pronte a ricevere
ogni
elettrone disponibile per arrivare ai propri scopi; persone
più o meno
reattive, più o meno complesse, che si dispongono
naturalmente con i più
pesanti in fondo, ed i più leggeri in cima. Persone che si
legano fra loro, in
rapporti più o meno eguali. Miscele di due atomi che formano
una piccola
molecola compatta, tre o quattro atomi che si fondono in una piccola
comunità,
e queste piccole miscele si uniscono a formare macromolecole, enormi e
complesse,
dove ogni molecola si unisce con le altre in una rete di collegamenti
più o
meno stretti, ma comunque fragili, tanto da rompersi a causa del
più piccolo
enzima. Esistono legami ionici, dove un atomo tiene saldamente
l’altro al
guinzaglio, grazie ad uno dei suoi elettroni: ed il poveretto, ormai
monco, è
costretto a seguire eternamente il padrone, fino a quando non
sarà liberato,
magari grazie ad un’inaspettata scarica elettrica, da questa
prigionia.
Esistono miscele esplosive, pericolosissime, ma ancora più
pericolosi sono gli
atomi radioattivi, che sembrano perfettamente normali a prima vista, ma
in
realtà sono altamente instabili, e pronti a scatenare una
reazione devastante
alla prima occasione.
E tra tutto questo caos di
vorticosi miscugli,
legami ed interazioni, ci stanno degli atomi particolari, forse tra i
più
solitari dell’intera tavola periodica. Sono i gas nobili, gli
elementi
completi, che non hanno bisogno di cedere o acquistare elettroni, e non
possono
prendere parte agli scambi frenetici degli altri elementi. Possono
invece stare
in disparte, a guardare, desiderosi di essere tanto reattivi come
l’ossigeno ed
il carbonio; ma l’argo, o il neon, o l’elio non
potranno mai formare legami con
nessun altro atomo, anche se lo desiderassero con tutto il proprio
ardore. E
così, i gas nobili vagano, in solitudine,
nell’atmosfera, maledicendo la
chimica per averli creati così infinitamente soli, ed
immaginando il giorno in
cui non importerà più delle leggi della fisica,
quando l’intero universo si
compatterà in un punto infinitesimamente piccolo, e non
saranno più soli, ma
parte di qualcosa di immensamente bello.
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